le dimensioni dell`abitare - IRIS Università degli Studi di Firenze

Università degli Studi di Firenze
Dottorato di Ricerca in Architettura
Dipartimento di Architettura
Disegno - Storia - Progetto
Dottorato di Ricerca in Progettazione
Architettonica e Urbana - Ciclo XXV
Coordinatore Prof. Arch. Antonio D’Auria
Stefano Gambacciani
LE DIMENSIONI
DELL’ABITARE
la lezione fiorentina
(1948 - 1968)
Tutor
Prof. Arch. Ulisse Tramonti
Settore Scientifico Disciplinare ICAR 14
Anni 2010/2012
ai miei genitori, a Corinna
«dove sono andati i tempi di una volta, per Giunone,
quando ci voleva, per fare il mestiere, anche un po’
di vocazione»
da La città vecchia di F. De André
«dove sono andati i tempi di una volta, per Giunone,
quando ci voleva, per fare il mestiere, anche un po’
di vocazione»
Fabrizio De André, La città vecchia, Karim, Roma, 1965, min. 0:38
«procediamo sempre nel considerare l’architettura
come opera d’arte, e l’architetto come Artista: costruzioni e costruttori sono altra cosa, rispettabile, ma altra
[...] vo vocando l’Artista. Parola presuntuosa, antipatica
se professionale, come se egli facesse davvero sempre
dell’Arte, riuscisse sempre a fare dell’Arte! Artista è chi
ha predisposizione a far dell’arte: ha vocazione: e qualche volta gli riesce»
da Amate l’architettura di Gio Ponti
«procediamo sempre nel considerare l’architettura
come opera d’arte, e l’architetto come Artista:
costruzioni e costruttori sono altra cosa, rispettabile,
ma altra [...] vo vocando l’Artista. Parola presuntuosa,
antipatica se professionale, come se egli facesse
davvero sempre dell’Arte, riuscisse sempre a fare
dell’Arte! Artista è chi ha predisposizione a far dell’arte:
ha vocazione: e qualche volta gli riesce»
Gio Ponti, Amate l’architettura, Vitali e Ghianda, Genova, 1957, p. 109
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Stefano Gambacciani
LE DIMENSIONI
DELL’ABITARE
la lezione fiorentina
(1948 - 1968)
30
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57
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69
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80
Introduzione
Quadro cronologico degli eventi
Inquadramento storico-culturale
Ricostruire Firenze
Considerazioni a margine sulle problematiche
della ricostruzione
Le problematiche di governo del territorio e la tutt’oggi
scottante posizione chiave del diritto di proprietà del suolo
Note
Apparato iconografico
Definizione e sviluppo della ricerca
Le operazioni di “tassello”
Premessa propedeutica all’analisi dei caratteri della specificità fiorentina
I caratteri della specificità fiorentina, letti attraverso la
loro interpretazione come elementi costituenti del linguaggio compositivo dei diversi casi studio
La Torre come elemento simbolico, qualificante, e unità
semantica del linguaggio architettonico fiorentino
Due torri medioevali, un grattacielo come un cristallo ed uno solo immaginato. Ovvero, osservazioni sull’equivoco italiano dell’aut aut: tradizione o innovazione
Analogie e differenze della vicenda fiorentina con quella del professionismo colto milanese
Note
Apparato iconografico
115
Bibliografia essenziale
126
Casi studio
265
Epilogo
267
Ringraziamenti
Introduzione
L’architettura residenziale, nelle sue diverse e molteplici declinazioni, sebbene non solo rappresenti lo spazio
esistenziale primo, quello che più intimamente investe
la dimensione umana, ma allo stesso tempo costituisca
gran parte della trama e del disegno urbano di ogni città, viene sempre più spesso “snobbata” dall’architetto
“impegnato” che, il più delle volte, si concentra su temi
monumentali, di grande impatto, edifici pubblici e di
rappresentanza, iconici segni urbani, spesso soltanto
gigantesche esercitazioni stilistiche.
Del resto, come evidenzia Aldo Rossi nel suo L’architettura della città, la residenza è un elemento primario
della città, e «assumere la residenza in sé non significa
adottare un criterio funzionale di ripartizione dell’uso
delle aree cittadine ma semplicemente trattare in modo
particolare un fatto urbano che è di per sé preminente nella composizione della città. [...] La città è sempre
stata largamente caratterizzata dalla residenza. Si può
dire che non esistono o non sono esistite città in cui
non fosse presente l’aspetto residenziale [...]»1.
Un tema, quello dell’abitare che trova a Firenze, proprio
nel ventennio che va dal 1948 al 1968, una stagione
estremamente prolifica, con molti episodi significativi,
“genuina” e fortemente innovativa, tanto da portare
con sé, anche se legate al territorio e alla “cultura” fiorentina, un tesoro di esperienze dal valore universale,
a-temporale e tutt’oggi ancora ricche di contenuti informativi. I primi anni della ricostruzione, e poi quelli subito successivi, di espansione e consolidamento del tessuto cittadino, vedono una grande operosità, un gran
desiderio di rinascita, nonché un enorme dispiegamento di forze che purtroppo, lasciate all’improvvisazione
artigianale e artistica degli esecutori, e alle linee guida
istituzionali e di piano appena accennate, hanno generato un paesaggio non sempre felice, all’interno del
cuore stesso di quella Firenze di cui le mine tedesche
avevano fatto letteralmente tabula rasa. E così, esauritesi le stagioni dei concorsi per la ricostruzioni delle
sponde di Ponte Vecchio e di tutti gli altri ponti fatti
saltare in aria, che si concludono il più delle volte con
un nulla di fatto, con una mortificante insoddisfazione
della giuria incapace di trovare un progetto vincitore, o
con dei vincitori che devono adattare e piegare i propri
progetti, sulla base di referendum popolari, promossi
dalla stampa locale o di osservazioni o ammonimenti di altri concorrenti sconfitti, ci si trova a costruire e
a ri-costruire pezzo per pezzo, senza un piano guida
generale, affidandosi, caso per caso, alla sensibilità di
progettista e committente. Se vogliamo trovare una
tradizione architettonica, che ci lega fino ad oggi, nel
modo di affrontare i temi più importanti e spinosi nel
centro di Firenze, direi che questa, dei concorsi mai rispettati, dello scaricabarile istituzionale, dell’astensionismo operativo in attesa della firma di un professionista, più o meno blasonato, che operi su invito politico,
è forse quella più chiara e manifesta. Fortunatamente,
in un quadro di unione non proprio roseo, come quello
appena descritto, capace di far rimpiangere ad alcuni le
estinte “commissioni di ornato”, non mancano interventi di eccezionale qualità in grado di distinguersi e di elevarsi sopra gli altri. Interventi che dimostrano questa essere una stagione in cui si può essere “palazzinari” senza
sottintendere il metodico esercizio dell’abuso edilizio, o
la totale sottomissione al volere di bieche imprese edili.
Una stagione in cui il concetto del “costruire” è sinonimo di professionalità. Un professionismo colto, costantemente vigile nei confronti delle capacità espressive
della materia, attento alla definizione del dettaglio e,
al “buon costruire”, capace di generare architettura ad
alto livello, in grado di qualificare il tessuto urbano cre11
ando quella “qualità diffusa” che caratterizza l’ambiente come sistema di luoghi significativi.
Lezione quindi, non solo di pochi “maestri”, ma anche
di molti architetti e ingegneri che hanno esercitato la
professione con estrema dedizione, impegno ed etica.
La ricerca non intende limitarsi ad un’analisi di tipo
“contestuale”, o all’individuazione di una presunta
“scuola fiorentina”, ma andando oltre un’impostazione
“localistica”, vuole porsi come fine l’estrapolazione dei
valori compositivi, progettuali ed etici nei confronti della costruzione di una “giusta” dimensione dell’abitare.
Così come Ernesto Nathan Rogers suggerisce in Esperienza dell’architettura, edito a Torino nel 1958 da Einaudi, l’analisi di queste opere si concentra sul recupero
della tradizione e della storia, non come atto di mero
formalismo e stilismo, bensì come riappropriamento di
valori e qualità spaziali e simboliche andate perdute.
Sarebbe quindi riduttivo voler dimostrare, ancora una
volta, che anche questa produzione architettonica rappresenti un momento, un capitolo di un libro non ancora chiuso e definibile sotto il marchio di “scuola”, di una
scuola molte volte detta ma anche contraddetta, in cui
è proprio un’omologazione linguistica ad essere assente. L’analisi, per questo motivo, cercherà di rimanere
più ampia, considerando aspetti legati ad una ricerca
che investe l’intero dibattito culturale italiano – in particolare sarà affrontato un paragone con le coeve esperienze milanesi – accentuando caratteristiche di “contestualizzazione”, non legate ad aspetti di stile, bensì ad
un rapporto proficuo fra allievi e maestri del panorama
architettonico fiorentino da un lato, e fra progettista
ed impresa, legati da un comune sapere costruttivo,
dall’altro. La ricerca si pone come obiettivo di evidenziare ed estrapolare dalle opere analizzate, quei valori
a-storici, essenziali, che permeano queste architettu12
re e che si sono progressivamente perduti nel tempo,
quegli aspetti psico-percettivi e simbolici immanenti
all’esperienza e alla costruzione dell’ambiente umano,
tralasciati dal funzionalismo più “miope” e che avevano
invece sempre caratterizzato l’architettura del passato:
l’uomo come soggetto-oggetto di riferimento, fulcro
della progettazione, la sezione come strumento compositivo, la misura, il ritmo, la visione anti-prospettica,
l’uso dei materiali, l’attenzione a quelle componenti
simboliche che esprimono la condizione esistenziale
dell’uomo, il suo “abitare tra terra e cielo”. Per esempio,
il trattamento della zona basamentale e della copertura, i punti di contatto con la terra e con il cielo, che
si presentano come elementi significativi della costruzione. La superficie verticale della parete, proprio per
la sua capacità di definire tangibilmente un luogo, distinguendo tra un “dentro” e un “fuori”, un “pubblico” e
un “privato”, il muro che, elemento primario dell’architettura, appare pregno di valori esistenziali e simbolici,
paragonabili solo a quelli della copertura. La progettazione, dall’esterno all’interno e dall’interno all’esterno,
capace di creare tensioni necessarie che cooperano
alla creazione di una architettura che oltre ad essere un
progetto di forme è anche un progetto di relazioni. Relazioni con l’ambiente, sia questo caratterizzato da un
contesto costruito che da uno naturale, relazioni con il
tessuto urbano negli interventi di completamento o di
ricostruzione, con la natura delle colline circostanti, con
il paesaggio dei territori limitrofi destinati ad un espansione urbana nuova.
note
1 A. Rossi, L’architettura della città, Marsilio, Padova, 1966, p. 82
QUADRO CRONOLOGICO
DEGLI EVENTI
EVENTI
CULTURALI
Gio Ponti
1948
direttore di
“Domus”
Luigi Moretti
1950 (-1953)
fonda
“Spazio”
Le ragazze di
San Frediano
L. Caccia Dominioni
1947|49
piazza Sant’Ambrogio, 16
1951
Palazzo Strozzi, Firenze
Mostra: Arte astratta e
concettuale in Italia
1949
Vasco Pratolini
ARCHITETTURA
MILANO
Mostra:
Frank Lloyd Wright
1951
Galleria d’arte moderna, Roma
BBPR
1951|58
Torre Velasca
Asnago | Vender
1950|53
via Lanzone, 4
1954 - X Triennale di Milano
Palazzo della Triennale, Milano
Ernesto Nathan Rogers
1953 (-1964)
direttore di
“Casabella - Continuità”
Vito e Gustavo Latis
Luigi Ghò
Vito e Gustavo Latis
Gio Ponti
1953|55
via Turati, 7
1956|57
via Legnano, 4
1953|56
piazza della Repubblica, 11
1948|50
corso Italia
1957
in “Casabella - Continuità”
editoriale n. 215 Continuità o crisi?
1955
fonda
“L’architettura, cronache e storia”
Gio Ponti
1956|60
Grattacielo Pirelli
1953
via Mura di Santa Rosa, 3
Italo Gamberini
1956
via Marsilio Ficino, 14
Giovanni Michelucci
Tincolini, Del Bino *
Italo Gamberini
Franco Bonaiuti *
1956|60
via Guicciardini, 24
1957
via Alamanni, J. da Diacceto
STRUMENTI
URBANISTICI
FIRENZE
PRG 1951
1953
1954
1955
1956
(approvato come studio | ripresentato nel 1953)
1951 Giorgio La Pira | sindaco (1° mandato)
Piani di ricostruzione delle adiacenza del Ponte Vecchio
zone |A v. Por S. Maria |B v. de’ Bardi |C l.no Acciaiuoli |D v. Guicciardini |E v. Lambertesca |F b.go San Jacopo
PRG 1924
(piano di “colmata” | ufficialmente in vigore fino al 1962)
Ugo Saccardi *
1960
viale Gramsci, 63
1957
1958
1961
1960
PRG 1958
1956 L. Salazar | commissario prefettizio
1968|70
via Guerrazzi, 10
1964|67
via Piagentina, 29
Nino Jodice *
1959
Pier Luigi Spadolini
1963
piazza Conti, 7
Leonardo Savioli, Danilo Santi
Francesco Spinelli *
1958|59
via Lamarmora, 31-31a
1956|59
viale Mazzini, 33-35
1952
1967
via XX settembre, 58
1958|62
via Guerrazzi, 1m-1n
Nino Jodice *
1951
G. Klaus Koenig
1960
viale Mazzini, 15-17
Francesco Spinelli *
1955
viale Gramsci, 67
1950
1969|71
piazza San Marco
1959|63
via Massena, 18
Melchiorre Bega
1949
Vico Magistretti
1959|60
via Quadronno, 24
1961|68
via Ancona, dei Chiostri, Pontaccio
1954|57
via Guicciardini, dello Sprone, 1
1948
Mangiarotti, Morassutti
L. Caccia Dominioni
1956|57
via Dezza, 49
Giovanni Michelucci
ANNI
1963
Palazzo Strozzi, Firenze
BBPR
Riccardo Gizdulich
1948
via Por S. Maria, borgo SS. Apostoli
1965
Palazzo Strozzi, Firenze
Mostra:
Le Corbusier
Bruno Zevi
1951|57
via Fatebenefratelli, 3
Italo Gamberini
Mostra:
Alvar Aalto
Ernesto Nathan Rogers
Giulio Minoletti
Luigi Moretti
ARCHITETTURA
FIRENZE
Alloggio uniambientale
Gio Ponti
Carlo Cresti *
1959|61
via Guerrazzi, 1c-1d
1962
1966
via Lanza, 20
1963
PRG 1962
1964
1965
1966
1967
(Piano “Detti”)
1961 G. La Pira | sindaco (2° mandato)
1965 Lelio Lagorio | sindaco
1968
Inquadramento
storico-culturale
16
Ricostruire Firenze
4 agosto 1944, Firenze si risveglia disfatta, spezzata in
due, sventrata dalle mine naziste di un esercito tedesco
in ritirata che, per impedire la risalita dell’esercito di liberazione, fanno saltare in aria i ponti della città che
collegano le due rive, nonché l’intero tessuto urbano
che circonda il Ponte Vecchio, così che sia impossibile
l’utilizzo delle vie di accesso a quell’unico ponte, salvato dalla distruzione da una pseudoromantica decisione
del comando tedesco. Si risparmia un monumento, per
sacrificare parti di un ricco e sedimentato brano di città, la cui ricostruzione, dopo un tanto acceso quanto infruttuoso dibattito segnato da laceranti contrasti nella
critica militante di tutta Italia, si trasformerà in una penosa e fallimentare operazione di maquillage edilizio,
all’insegna del massimo sfruttamento della straordinaria rendita di posizione dei lotti. Superficiali ricerche di
temi vernacolari, sia nelle definizioni volumetriche che di
prospetto degli edifici, sia negli allineamenti, nelle forzate movimentazioni stradali che nelle ingiustificate variazioni del lungo fiume, non sono che la copertura culturale per operazioni speculative di “artigianato urbanistico – terminologia che Grazia Gobbi Sica usa con grande
pregnanza semantica e che non saprei meglio descrivere
– che tradisce una casuale combinazione di supervisione
burocratica e di manierismo compositivo” 1.
Giovanni Michelucci ricorda così le sue emozioni di
fronte alle rovine della Firenze fatta saltare in aria:
«Provai un dolore immenso di fronte alle distruzioni
[...] sul Lungarno erano cascate tutte le facciate “artistiche”, dietro alle quali era apparsa una miseria paurosa
[...]. Pensai allora che l’arte non può essere un inganno,
una bugia, non può servire ad illudere situazioni reali!
Quindi bisogna partire dal contenuto e non dal contenente [...]. In seguito a questo ragionamento, cominciai
a pensare all’architettura in modo meno accademico
e nei progetti che feci tentai di aderire alla situazione
reale, economica, sentimentale della città [...]. Poteva
essere un fatto urbanistico importante della ricostruzione, e fu un’occasione perduta»2.
Quasi un anno prima, nel 1943, Alberto Savinio, camminando tra le macerie di una Milano bombardata,
vedeva, in questa seppure tragica condizione, una possibilità di rinascita, nella necessaria ricostruzione, una
catartica opportunità per creare una città rivolta verso
un futuro nuovo: «Giro tra le rovine di Milano. Perché
questa esaltazione in me? Dovrei essere triste, e invece sono formicolante di gioia... Perché? Sento che da
questa morte nascerà nuova vita. Sento che da queste
rovine sorgerà una città più forte, più ricca, più bella»3.
Si respira in Italia, dopo lungo tempo, la voglia di ripartire, di sfruttare le tragiche distruzioni per ricostruire
un futuro nuovo, per dare una nuova vita alle città, cancellarsi di dosso il ricordo del fascismo e l’incubo della
guerra. Ridisegnare ciò che è stato distrutto per donare, alla nuova società nascente dalle rovine ancora fumanti, una città rivolta verso il futuro.
Ma non sarà così. Almeno per Firenze.
Si apre da subito infatti un aspro dibattito tra le due
diverse scuole di pensiero che vedono, da un lato, rappresentati da Ranuccio Bianchi Bandinelli, architetti e
progettisti che intendono la ricostruzione come occasione per la creazione di una città nuova, basata sui criteri etici di onestà e di chiarezza, laddove ogni falsificazione, anche quella architettonica, è considerata “moralmente ripugnante”; dall’altro, capeggiati da Bernard
Berenson, critici e storici dell’arte che invece propendono per una ricostruzione costituita da interventi fondati
sulla maniera del “dov’era, com’era”. Dimostrando così,
nonostante le molte dichiarazioni contro il falso antico,
la paradossale differenza tra indicazioni teoriche e pra19
tica degli interventi, al momento dell’attuazione.
Sul n. 1 de “Il Ponte”, dell’aprile 1945 Berenson, storico dell’arte americano, fiorentino d’adozione, scrive, in
“Come ricostruire la Firenze demolita”: «Se invece noi
amiamo Firenze come un organismo storico che si è
tramandato attraverso i secoli, come una configurazione di forme e di profili che è rimasta singolarmente intatta nonostante le trasformazioni a cui sono soggette
le dimore degli uomini, allora essi vanno ricostruiti al
modo che fu detto del Campanile di San Marco, “dove
erano e come erano”». Rinnovando e ristabilendo i valori puramente estetici, vedutistici e pittoreschi di una
Firenze, o meglio di una Florence, che «può lasciare indifferente l’abitante utilitario, ma non il cittadino a cui
è noto il passato della città», né, soprattutto, «il forestiero che, appunto perché non ha con il luogo alcun
rapporto di vita pratica quotidiana, può contemplarlo
come una emanazione di pura bellezza». Posizione che,
Gianluca Belli sottolinea bene nel suo “Il dibattito sulla
ricostruzione della Firenze demolita dalla guerra, 19441947”, ricalca in parte il modo di vedere la città come
un museo a cielo aperto che gli anglosassoni, turisti o
residenti in Italia, conservano da decenni, «evitando di
mettersi in relazione con i loro abitanti, spesso guardati tutt’al più come una curiosità etnografica»4. In tutta
risposta sul n. 2 de “Il Ponte”, del maggio del ’45 l’archeologo senese Ranuccio Bianchi Bandinelli replica,
in “Come non ricostruire la Firenze demolita”: «Firenze
non ha, è vero, il diritto di mutare il proprio volto; ma
ha il dovere di non rifarselo di cartapesta. [...] noi italiani ci rifiutiamo di non essere altro che i custodi di un
museo, i guardiani di una mummia, e che rivendichiamo il diritto di vivere entro città vive, entro città che
seguono l’evolversi della nostra vita, le vicende della
nostra storia, elevate o misere che esse siano, purché
20
sincere, purché spoglie di ogni residuo di retorica [...]
perché vogliamo essere, finalmente un popolo tra gli
altri popoli, che dalla presente miseria, dalla presente
infelicità e umiliazione, riprende liberamente la strada
della propria sorte europea» e non essere costretti,
come già ironicamente predetto, a «travestirci tutti con
costumi da teatro e attendere la mancia dal turista alle
fermate del torpedone»5.
Tra le voci più autorevoli che difendono questa posizione di critica nei confronti della ricostruzione filologica degli edifici demoliti troviamo Giovanni Michelucci:
«ogni preoccupazione di ordine stilistico e storico ambientale darà sempre risultati pratici ed estetici negativi; (perché la vita) caratterizza le singole zone urbane
suggerendo nuove forme che [...] rinnovano di tempo
in tempo gli agglomerati urbani nella struttura interna
ed esterna»6. La vita, diventerà in molte delle argomentazioni a favore del “nuovo”, elemento ricorrente ed insistente. Bruno Zevi nel celeberrimo Verso un’architettura organica, edito e distribuito proprio in quegli anni,
sottolinea il ruolo sociale dell’architettura e termina il
suo testo affermando che l’architettura italiana, finito
il tempo delle imitazioni e degli stili, compreso quello
moderno, dovrà avere “per oggetto, per ispirazione e
per fine, l’uomo e la vita”. Il rapporto con le esigenze,
con le proporzioni e le dimensioni umane, lo svolgersi
della vita, lo stretto rapporto tra vita sociale, pubblica e
l’immagine della città stessa saranno temi che scalderanno le innumerevoli discussioni che animeranno la
Firenze di quegli anni. Simbolico manifesto del dibattito
in corso, sono i due disegni di Carlo Maggiora, pubblicati sullo Zibaldone del 1947, che esemplificano argutamente, tra il popolare e l’ingenuo, il dilemma: “rifare
l’antico?” oppure “tentare il nuovo?”, mostrando da un
lato una Firenze pittoresca, dominata dalle ombre degli
stretti vicoli e degli edifici che si caricano l’uno sull’altro
con abbondanza di bugnati, decori e finestre serliane;
dall’altro un panorama post costruttivista/futurista,
fatto di torri e grattacieli collegati da ponti/passerelle
disposte a varie altezze, passeggiate turistico, commerciali a doppio e triplo livello in aggetto sul fiume.
Intervento lucido, degno di nota, esemplare nella sua
presa di coscienza del problema globale della riprogettazione del centro distrutto di Firenze è quello di Carlo
Ludovico Ragghianti, giustamente messo in evidenza
da Gianluca Belli, con la pubblicazione di un disegno
autografo, che ne esplicita ulteriormente i contenuti,
mettendo a confronto una tessitura edilizia medioevale tipo con soluzioni “in falso antico”, “in moderno” e
con quella ipotizzata nello scritto, con il “nuovo come
antico” 7. Da critico e storico, ma anche teorico dell’arte, Ragghianti, riallacciandosi al ruolo sociale dell’architettura ipotizzata da Zevi, propone una ricostruzione,
applicando una visione più ampia del problema, come
risultato degli interessi e delle aspirazioni, contemporanee, sociali, economiche e civili, escludendo dal ragionamento forme, stili e linguaggi architettonici.
E così, tra le proposte di «ricostruire una fisionomia dai
vari secoli consacrata [...] di rifare le case con lo stesso
scopo e con la stessa umiltà che avevano quelle saltate in aria»8, oppure di rifarsi al «bellissimo insieme
di caseggiati che fanno da sfondo alla Guarigione dello
Storpio di Masolino (facente parte della decorazione
della Cappella Brancacci nella chiesa di Santa Maria
del Carmine a Firenze) [...] edifici senza un carattere
particolare» per «operare umilmente non per mettere
avanti la propria personalità, ma per legare insieme il
vecchio con il nuovo»9, Ragghianti ammonisce: «La tortuosità delle strade, la loro strettezza, lo sviluppo interno dei fabbricati (con cortili, logge, giardini etc.) la
molteplicità e la tangenza delle visuali, rispondevano
a criteri rigorosamente intenzionali, non erano il frutto di un casuale agglomerato “pittoresco”: interpretavano spesso profondamente le esigenze di un tipo di
vita sociale, la funzione di un quartiere o di una città»
e suggerisce «una ricostruzione organica, o storica, che
partendo dai dati basici della zona, sia dal punto di vista della struttura e funzione, che da quello dell’effetto
generale architettonico [...] lasciasse libera la fantasia
degli architetti»10.
Il 31 dicembre 1945 viene bandito il concorso per la ricostruzione delle zone distrutte intorno a Ponte Vecchio, con scadenza al 30 giugno 1946, prorogata poi al
30 settembre. Si affida così, all’istituzione del concorso, la risoluzione di una problematica complessa, non
chiarita né affrontata nei suoi termini generali, ulteriormente aggravata dall’assenza colpevole di un piano
regolatore generale che, ben lungi dal delinearsi, non
ricerca obiettivi univoci né le relazioni tra ciò che doveva essere ricostruito, e il resto della città, sia quella
presente, che quella in via di sviluppo. L’esito del concorso è ambiguamente risolto con una vittoria multipla
assegnata ai cinque gruppi di progettazione, premiati
nelle prime due categorie di merito in cui erano stati
suddivisi i progetti partecipanti. «A giudizio dell’intera
Commissione (composta da trenta membri fra cui, oltre ai rappresentanti del Comune, i due Soprintendenti,
Poggi alle Gallerie e Vené ai monumenti, delegati degli
ordini professionali e dell’Università, critici d’arte, etc.) il
concorso ha dato un notevole contributo di idee per la
soluzione del problema di ricostruzione della zona del
Ponte Vecchio. Si può fin d’ora sperare che, utilizzando il meglio delle idee contenute nei progetti vincenti
e con il concorso degli stessi autori, il Comune potrà
stendere un progetto esecutivo che risponda alle esi21
genze e alle caratteristiche dell’ambiente sia dal punto
di vista artistico che sociale»11.
Un nulla di fatto che porta alla stesura di un frammentario piano di ricostruzione che, mancando di una
chiave interpretativa nei confronti della città storica,
di un orientamento unico e ben definito, non solo di
programma strutturale e funzionale ma anche economico e finanziario sarà facile preda delle manipolazioni
economiche speculative dei proprietari dei singoli lotti.
Non si ricorre infatti all’esproprio delle aree di intervento ma si affida, ai singoli proprietari, la responsabilità di
ricostruire all’interno dei loro vecchi confini, in conformità delle volumetrie e delle altezze indicate dal piano,
nell’intento di «sollecitare la partecipazione di proprietari ed artigiani [...] in tal modo coinvolti in prima persona»12. Come nota con rammarico Mariella Zoppi, nel
suo testo su “La ricostruzione”, con quest’occasione:
«fu così persa a Firenze, come in quasi tutte le città italiane, la possibilità di fare dei piani di ricostruzione uno
strumento urbanistico efficace, come stava avvenendo
in molte parti d’Europa»13.
L’immagine di apertura – Il fumo e la polvere delle esplosioni all’alba
del 4 agosto 1944 – è tratta da: O. Fantozzi Micali, Alla ricerca della
Primavera, Alinea, Firenze, 2002, p. 17.
22
23
Considerazioni a margine sulle problematiche della ricostruzione
A Firenze, nello scegliere la soluzione di compromesso, che azzera qualsiasi precedente argomentazione,
a favore, o contro la ricostruzione filologica, si pecca
di ipocrisia, da un lato, e di vigliaccheria e falsa umiltà,
dall’altro, con il risultato che ben conosciamo. Ipocrisia perché ci si rifiuta di ricostruire pedissequamente
e scrupolosamente l’immagine distrutta (eppure non
mancano certo le documentazioni a riguardo), come
succede in molte città europee che optano per il rifacimento “dov’era, com’era” – Varsavia ne è l’emblema
– per non tradire l’idea del “falso storico” e fingere di volere un destino per il centro della città diverso da quello
del parco divertimenti a tema, con facciate di cartapesta e figuranti in costume. Le scelte culturali, politiche
ed economiche, fatte già a partire da quegli anni, ci dimostreranno invece il contrario: il centro di Firenze non
solo è un grande museo a cielo aperto, dove neanche la
polvere o la sporcizia deve essere tolta per non rovinare la patina originale dell’antico, ma è lo sfondo d’eccellenza per eventi dedicati all’intrattenimento leggero per
turisti che, esausti dalle giornate trascorse passando da
un museo all’altro (ma sarà poi così?), devono trovare
anche il meritato svago. E quindi, esibizioni di golf in
piazza e sull’Arno, concerti gratuiti all’aperto, degustazioni di vino nelle corti dei palazzi storici, notti bianche,
fashion nights, e chi più ne ha, più ne metta. “Ed è un
male? – qualcuno obietterà – E’ un modo come un altro
per tenere in vita una città altrimenti morta alla chiusura dei musei e dei negozi più blasonati”. Niente di male
infatti, basterebbe avere semplicemente la correttezza
di chiamare le cose con il proprio nome e non arroccarsi dietro moralistici ed ipocriti paraventi “culturali”.
Se invece non si ricostruisce seguendo lo spirito contemporaneo del tempo, cercando con un integrale
rinnovamento, come accade ad esempio a Rotterdam,
dove si coglie l’occasione per rigenerare degli spazi a
misura di quell’uomo nuovo che rinasceva dalle polveri delle macerie, a misura della sua cultura, delle sue
ideologie, delle sue nuove aspettative ed esigenze, non
è per modestia, per reverenziale rispetto del passato,
bensì per la mancanza di coraggio di infierire, con un
progetto unico, deciso, inequivocabile, una frattura
nuova, modernissima, all’interno del tessuto storico
ormai completamente cancellato. Da un lato, forse perché ancora scottavano le caustiche e impietose critiche
ricevute da artisti, critici e scrittori di tutto il mondo, per
lo sventramento del Mercato Vecchio e dell’antico Ghetto, dall’altro, come sottolinea Giovanni Klaus Koenig, forse perché i progetti, sia quelli redatti da Michelucci all’indomani delle distruzioni belliche, sia quelli premiati dal
concorso del 1947, «valevano poco, e non convinsero
come avrebbero convinto se avessero avuto più coraggio. Se i progetti fossero stati veramente rivoluzionari,
sarebbe forse nato uno scandalo, una polemica come
per la stazione; ma il guaio è che il germe (del tutto italiano) del compromesso si era infiltrato un po’ dappertutto,
e di regresso in regresso, i progetti si fecero sempre più
timidi, quasi che con questa falsa modestia si potessero
mascherare gli aumenti di volume rispetto all’antico, e
gli altri trucchi speculativi imposti dalla committenza»1.
La mancanza di un linguaggio, di un codice nuovo, chiaramente definito e articolato, che costituisca l’eredità
“buona” del razionalismo, capace di interpretare il movimento ormai esauritosi e di instaurare una tradizione
del moderno anziché la totale negazione e cancellazione
dello stesso, spinge gli architetti ad una astensione intellettuale quasi totale sul presente, per rifugiarsi nelle
consolidate verità della storia e del passato.
Come farà notare nel 1968 Manfredo Tafuri, nel suo
Teorie e storia dell’architettura: «Quando la cultura ar25
chitettonica italiana ha ripreso in mano il problema dei
centri storici, non si è allacciata direttamente al grande
filone del movimento Moderno, ma con la scusa di introdurre nuove valenze, ha voltato le spalle alla Carta
di Atene, e ha ripreso in mano il Giovannoni: processo
tanto più grave in quanto non compiuto con la chiara
coscienza di ciò che si andava postulando. [...] Non si
è capito, in altre parole, che rinunciare a riconfigurare la città significa rinunciare a capirla criticamente. La
conservazione è stata quindi ridotta ad un problema di
scenografia urbana sovrapposta ad una ristrutturazione funzionale, arbitraria nelle premesse e nei propositi,
perché non sostanziata da un’organica considerazione
storica del problema. Lo storicismo dell’architettura
italiana è quindi solo apparente. Rispetto alle formulazioni delle avanguardie non è avvenuto un effettivo
recupero della storia, ma piuttosto un tentativo di sradicamento della tradizione del nuovo, privo di coraggio
e indeciso»2.
L’immagine di apertura – Indicazione delle torri e degli edifici monumentali nella zona colpita dalle distruzioni – è tratta da: O. Fantozzi
Micali, Alla ricerca della Primavera, Alinea, Firenze, 2002, p. 29.
26
27
Le problematiche di governo del territorio e la tutt’oggi scottante
posizione chiave del diritto di proprietà del suolo
Abbiamo visto come la ricostruzione delle rive intorno
al Ponte Vecchio si concretizzi in una silente operazione speculativa ad opera dei proprietari dei singoli lotti
che, sotto il controllo blando ed inefficace delle autorità
preposte, si limitano a rispettare, e neanche in modo
ineccepibile, esclusivamente vincoli di altezza e di volume, sottoponendo, una volta passata la revisione degli
organi comunali, al vaglio del Consiglio Superiore delle
Arti, essendo questo l’unico requisito obbligatorio per
l’approvazione, esclusivamente le facciate e non l’intero progetto. Come farà notare Edoardo Detti, in una
sua analisi su quanto operato a Firenze fino al 1952, la
mal condotta ricostruzione del centro «ha dimostrato
ancora una volta che un problema urbanistico, anche
se di natura complessa e particolare come questo, si
può solo impiantare su criteri urbanistici e cioè organici e strutturali tecnicamente qualificati, e che infine
il risultato di un piano, oltreché nella sua qualità, sta
nella capacità di realizzarlo con ordine e di interpretarlo coerentemente alla sua unità concettuale»1. A tale
proposito vale la pena ricordare alcuni passi dell’opera,
scritta ed edita proprio in quegli anni, di Hans Bernoulli: “La città e il suolo urbano” (Titolo originale: Die Stadt
und ihr Boden, prima edizione: Verlag für Architektur
AG. Erlenbach-Zürich, 1946). Sebbene infatti, nella sua
trattazione generale sia su più punti criticabile, come
Aldo Rossi nel suo “L’architettura della città” ci fa notare, non mancano alcune importanti osservazioni sul
rapporto tra suolo e architettura, pubblico e privato,
che possono forse nascondere alcuni limiti interni, ma
che sicuramente avrebbero potuto assumere un’estrema rilevanza in occasioni come la ricostruzione di parti
nevralgiche della città distrutte dai recenti eventi bellici,
o come l’organizzazione dell’espansione della città negli anni subito successivi.
«Una città è destinata a durare: deve crescere, svilupparsi. Potrà cambiare volto, potrà cambiare carattere,
più serio o più ameno, più sobrio o più gaio, ma l’essenziale è che la città esiste, resta viva, non decade
ignobilmente come la singola casa, come le singole costruzioni di cui si compone. [...] Una città è di più, infinitamente di più, che un semplice insieme di qualche
migliaio di case. [...] la città non dev’essere un insieme
di singole costruzioni, ma diventare un organismo dal
carattere specifico. [...] Una città non si esaurisce con
la sua fondazione, ma è destinata a crescere e a svilupparsi.[...] L’urbanistica non costruisce, [...] solo dispone,
dà le direttive, determina il perimetro e stabilisce le
linee fondamentali di ciò che altri faranno sorgere in
seguito. [...] L’elemento principale, la massa delle costruzioni, resta però apparentemente affidata al caso,
ma solo apparentemente, perché a questo punto entrano in gioco tradizione e abilità artigiana, sempre che
la tradizione abbia ancora un valore e si coltivi l’abilità
professionale. E, beninteso, sempre che a costruire si
chiamino degli esperti. [...] Ma gli esiti di questa prassi
parlano sufficientemente chiaro: una linea che definisce come vadano allineati i singoli edifici non basta a
creare una città, così come le leggi che si basano e devono basarsi su un caso ordinario non soddisferanno
mai tutta la varietà dei casi e tanto meno i casi particolari. [...] Una difficoltà specifica rende impossibile tutto
questo (ovvero il poter regolare in modo estensivo e
qualificante la progettazione architettonica degli edifici,
nel loro complesso). Una difficoltà che non ci permette
di superare gli allineamenti e le normative edilizie: “la
terra”, il suolo su cui sorgerà la città, “è suddivisa tra
singoli proprietari”. La città non ha alcun diritto, alcuna
possibilità di disporre del terreno. [...] La nuova città, i
nuovi quartieri necessitano di terreni, devono disporre
29
liberamente del terreno su cui sorgeranno. Devono essere liberi e senza impedimenti così da poter nascere e
svilupparsi secondo le leggi insite nella propria natura.
[...] Suddivisioni: ma è solo un problema di suddivisioni? E’ molto di più: una nuova suddivisione non fa che
creare nuovi privilegi, nuovi diritti che già domani ostacoleranno un’opera futura. Il continuo divenire, trasformarsi, rinnovarsi della città non tollera e non può tollerare che il suolo sia lottizzato tra i singoli proprietari
in modo irrevocabile, che di fronte alla necessità pubbliche più impellenti (come la ricostruzione post-bellica
di una parte centrale, nevralgica della città), dei privati
irresponsabili contrattino, vendano, suddividano, edifichino malamente nelle aree di maggior rilievo, sotto
gli occhi delle autorità»2. Parole che sembrano scritte
per descrivere esattamente quanto a Firenze stava accadendo: si rinuncia a seguire un qualsiasi indirizzo, a
dare un disegno globale, un indirizzo organico che leghi
le singole parti in un unico pensiero organizzatore, per
affidare la ricostruzione alle coscienze dei singoli proprietari terrieri, dando loro semplici indicazioni “quantitative” da rispettare. La città è un bene comune, questo il sempre più attuale principio chiave delle teorie
di Bernoulli, il cui governo, attraverso la pianificazione
urbanistica, è responsabilità piena del potere pubblico
e non dei singoli privati. Se si escludono quindi le accuse di socialismo romantico che Rossi muove contro
le parole di Bernoulli, adducendo, da un lato, erronei
presupposti storici alle sue teorie (ovvero che il problema delle grandi città è ben precedente al periodo della rivoluzione industriale e non coevo come sostenuto
dall’urbanista svizzero), dall’altro, che il frazionamento
del terreno non è un evento negativo “ma ne promuove concretamente lo sviluppo” 3 (asserzione ugualmente opinabile), rimangono comunque delle lezioni valide
30
ancora oggi e le cui eredità si ritrovano applicate nelle
strumentazioni e regolamentazioni urbanistiche di paesi come la Svezia, la Danimarca, l’Olanda o la Svizzera.
A testimonianza di ciò, durante un confronto tra gli urbanisti olandesi che ad Amsterdam accolsero le idee
di Bernoulli e gli amministratori della città di Roma, tenutosi nel 1964 al ridotto dell’Eliseo di Roma, Antonio
Cederna rimarcherà “la distanza abissale che separa
un paese civile e moderno (in questo caso l’Olanda) da
un paese arcaico e sottosviluppato come il nostro”, ribadendo quanto descritto per la Svezia in un articolo
apparso su “Il Mondo” nel 1963, in cui si sottolineano, a
tinte forti, le differenze urbanistiche, sociali, politiche e
culturali di città come Oslo e Stoccarda con quelle italiane. Cederna parte con una serie di paralleli ambientali
e paesaggistici per giungere poi ad un’aspra critica dei
tecnici comunali addetti all’urbanistica della città che,
nel caso, di Stoccolma «avviene secondo il merito e non
alla rovescia come da noi; mentre nei posti di responsabilità noi mettiamo i peggiori e i falliti, nei paesi civili
vengono scelti i migliori» e continuare citando nell’articolo un’intervista fatta al capo dell’Ufficio urbanistico di
Stoccolma, G. Sidenbladh: «“Non creda che la politica
di acquisizione dei suoli sia una politica esclusivamente socialista [...], la politica di acquisizione del suolo
fu iniziata nel 1904, quando la città era amministrata
dai conservatori.”» per poi concludere: «Ecco il grande problema. Perché, per quale ragione i conservatori
del resto d’Europa, inglesi o scandinavi, sanno spesso
essere gente moderna, mentre i nostri, conservatori di ogni razza e ispirazione, e i liberali innanzi tutto,
sono ignobili reazionari, la cui ragione di vita è difendere l’appropriazione indebita del plusvalore delle aree
da parte degli speculatori [...] fieri assertori della città
inabitabile, inumana, paralizzata, omicida, nel rifiuto
di ogni norma elementare del moderno vivere associato e dei principi politio-giuridici che vi presiedono?
Problema al quale oltre allo storico, dovrebbe prestare
attenzione lo psichiatra e l’anienalista»4.“L’urbanistica è
l’indice di civiltà di un popolo” amava ripetere Cederna.
Come giudicate un popolo che ha introdotto, nelle amministrazioni pubbliche e nel libero mercato, l’idea che
il governo del territorio si debba esercitare sotto forma
di una costante ed esasperante contrattazione con la
proprietà immobiliare?
L’immagine di apertura – Planimetria con indicazione dei fabbricati
monumentali presenti nella zona minata e distrutta – è tratta da:
O. Fantozzi Micali, Alla ricerca della Primavera, Alinea, Firenze, 2002, p. 75.
31
Note
Ricostruire Firenze
1 G. Gobbi Sica, Itinerari di Firenze Moderna, Alinea, Firenze, 1987, p. 38
2 F. Borsi, Giovanni Michelucci, LEF, Firenze, 1966, p. 89
3 A. Savinio, Ascolto il tuo cuore, città, Adelphi, Milano, 1992, p. 396
4 AAVV, OPUS INCERTUM, 6-7 “Costruzioni e ricostruzioni dell’identità
italiana”, Anno IV-V, Polistampa, Firenze, 2009-2010, p. 92
5 R. Bianchi Bandinelli, Ricostruire Firenze?, “La Nazione del Popolo”, I,
1944, 4, 31 agosto, p.2
6 G. Michelucci, Le sponde dell’Arno non debbono diventare un museo,
“La Nazione del Popolo” 1946, 20 ottobre
7 AAVV, OPUS INCERTUM, 6-7 “Costruzioni e ricostruzioni dell’identità
italiana”, Anno IV-V, Polistampa, Firenze, 2009-2010, p. 95
8 R. Papini, Intervento su Il nostro referendum sulla ricostruzione di
Firenze, “La Nazione del Popolo”, 1946, 15 settembre, p. 15
9 U. Procacci, Difesa della città medioevale, “La Nazione del Popolo”,
1946, 6 ottobre, p. 3
10 C. L. Ragghianti, Urbanistica medioevale e urbanistica d’oggi,
“La Nazione del Popolo”, III, 1946, 222, 22 settembre, p. 3
11 Commento di G. Musco, assessore ai lavori pubblici del Comune, in
margine all’articolo I progetti premiati, Il Nuovo Corriere, 1947, 23 marzo
12 G. Musco, La ricostruzione della zona del Ponte Vecchio, Rassegna
del Comune 1944-51, Firenze, maggio 1951 (numero unico), p. 24
13 AAVV, Firenze: la questione urbanistica, Sansoni, Firenze, 1982, p. 15
Considerazioni a margine sulle problematiche della ricostruzione
1 G. Klaus Koenig, Architettura in Toscana, 1931-1968,
ERI Edizioni Rai, Torino, 1968, p. 56
2 M. Tafuri, Teorie e storia dell’architettura, Laterza, Bari, 1968, p. 73
Le problematiche di governo del territorio e
la tutt’oggi scottante posizione chiave del diritto di proprietà del suolo
1 AAVV, Urbanistica
(numero monografico sul Piano Regolatore di Firenze), n.12, 1953
2 H. Bernoulli, La città e il suolo urbano,
Corte del Fontego, Venezia, 2006, pp. 5-11
3 A. Rossi, L’architettura della città, Marsilio, Padova, 1966, p. 215
4 A. Cederna, 1963: Oslo e Stoccolma, dove l’urbanistica è il frutto della
coscienza civile e della maturità politica, Il Mondo, 1963
32
APPARATO ICONOGRAFICO
2 Genieri tedeschi collocano mine antiuomo sul selciato di Ponte Vecchio
1 Presidio tedesco all’imbocco del Ponte Vecchio
34
3 Il fumo e la polvere delle esplosioni all’alba del 4 agosto 1944
5 La zona di via de’ Bardi e di borgo San Jacopo (aprile 1945)
4 Le distruzioni di borgo San Jacopo (1945)
6 La zona di via de’ Bardi e di borgo San Jacopo (aprile 1945)
35
8 Le distruzioni nel lungarno Acciaioli e in via Por Santa Maria
7 Le distruzioni intorno alle torri dei Ramaglianti
36
9 Veduta aerea dell’aereonautica alleata del 7 agosto 1944
10 Planimetria con indicazione degli edifici distrutti (Comune di Firenze, 1946)
37
11 Rifare all’antica? (Carlo Maggiora, dallo “Zibaldone”, 1947)
12 Oppure tentare il nuovo? (Carlo Maggiora, dallo “Zibaldone”, 1947)
38
13 Carlo Lodovico Ragghianti, tessitura edilizia medioevale (in alto) messa a
confronto con soluzioni “in falso antico”, “in moderno” e con il “nuovo come
l’antico” (Archivio della Fondazione Ragghianti, Lucca, Estratti Firenze, 1a)
14 Piano di ricostruzione delle zone distrutte intorno al Ponte Vecchio;
planimetria del progetto presentato alla Mostra di Ottica del 1947 (disegno
conforme all’originale, pubblicato su “Il Nuovo Corriere” del 25/10/47)
39
Referenze iconografiche
La fotografia (15, p. 38) e i relativi diritti, sono di proprietà
dell’autore.
I disegni e le fotografie d’epoca (1-3, 8-10, pp. 32, 34-35) sono tratti
da: Osanna Fantozzi Micali, Alla ricerca della Primavera, Alinea,
Firenze, 2002, pp. 16-17, 19, 30, 76, 88.
Le fotografie d’epoca (4, 7, pp. 33-34) sono tratti da: AAVV, Giovanni
Michelucci. Le fotografie, Tielleci, Parma, 2011, pp. 18-19.
I disegni e le fotografie d’epoca (5, 6, 13, pp. 33, 36) sono tratti da:
AAVV, OPUS INCERTUM, 6-7, “Costruzioni e ricostruzioni dell’identità
italiana”, Anno IV-V, 2009-2010, Polistampa, Firenze, 2002, pp. 86, 95.
I disegni e le fotografie d’epoca (11, 12, 14, pp. 36-37) sono tratti da:
AA VV, Firenze 1945-1947, i progetti della ricostruzione, Alinea, Firenze,
1995, pp. 101, 103, 202.
15 Veduta di Ponte Vecchio e lungarno degli Acciaiuoli (2011)
41
Definizione E SVILUPPO
della ricerca
42
Le operazioni di “tassello”
Giovanni Klaus Koenig
1967
v. XX Settembre 58
Italo Gamberini
1956
v. Ficino 14
Francesco Spinelli *
1958|59
v. Lamarmora 31, 31a
Ugo Saccardi *
1963
p.zza Conti 7
Italo Gamberini
1957
v. Alamanni,
v. Jacopo da Diacceto
Francesco Spinelli *
1958|62
v. Guerrazzi 1m, 1n
Melchiorre Bega
1955
v.le Gramsci 67
Franco Bonaiuti *
1960
v.le Gramsci 63
Nino Jodice *
1959|61
v. Guerrazzi
1c, 1d
Paolo Tincolini
Delfo Del Bino
Pier Luigi
Spadolini
1968|70
v. Guerrazzi 8
Nino
Jodice *
1956|59
v.le Mazzini
33, 35
1960
v.le Mazzini 15, 17
Riccardo Gizdulich
1953
v. Lungo le Mura di S. Rosa 3
Italo Gamberini
1948
v. Por Santa Maria,
borgo Santi Apostoli
Giovanni Michelucci
1956|60
v. Guicciardini 24
Giovanni Michelucci
1954|58
v. Guicciardini,
v. dello Sprone 1
Carlo Cresti *
1966
v. Lanza 20
Leonardo Savioli
Danilo Santi
1964|67
v. Piagentina 29
Cuore della presente ricerca, sono le operazioni di “tassello”, così definite dall’architetto Franco Bonaiuti1, ovvero
quegli innesti chirurgici, quegli interventi puntuali di ricostruzione, all’interno del tessuto storico, o comunque ormai
consolidato, della città. Se infatti le sperimentazioni architettoniche più complete e pianificate, di cui ben si conoscono intenti programmatici, esiti formali e successive critiche, riguardano i quartieri periferici di espansione di Firenze,
e sono legate soprattutto ai vari enti preposti allo sviluppo delle residenze collettive convenzionate, sono altrettanto
interessanti, ma sicuramente meno noti, i casi di edilizia privata, di elevato valore architettonico, che punteggiano
il tessuto del centro storico e l’immediato intorno dei viali di circonvallazione. Lezioni che ci fanno riflettere sul mestiere di architetto, quando non è semplice pratica professionale, ma è invece un bagaglio di conoscenze che hanno
riferimenti con la cultura del tempo, per cui anche un lavoro di edilizia diventa un’opera di architettura.
Tra i più interessanti e rappresentativi della vicenda fiorentina, sono stati selezionati 18 casi studio, qui elencati
in ordine alfabetico per autore, tra cui – evidenziati con un asterisco – alcuni episodi ancora privi, ad oggi, di una
dettagliata documentazione a riguardo:
Bega Melchiorre Edificio residenziale
Edificio per abitazioni e negozi
Bonaiuti Franco
Edificio per abitazioni Cresti Carlo
Edificio per abitazioni, e negozi
Gamberini Italo
Edificio per abitazioni Gamberini Italo
Edificio per abitazioni e uffici Gamberini Italo
Gizdulich Riccardo Edificio per abitazioni e negozi
Edificio residenziale
Jodice Nino
Edificio residenziale
Jodice Nino
Edificio per abitazioni e uffici Koenig Giovanni Klaus
Michelucci Giovanni Edificio per abitazioni e negozi
Edificio per abitazioni e negozi
Michelucci Giovanni
Edificio per abitazioni Saccardi Ugo
Edificio per abitazioni Savioli Leonardo
Edificio per abitazioni Spadolini Pier Luigi
Edificio per abitazioni Spinelli Francesco
Edificio per abitazioni e negozi
Spinelli Francesco
Edificio per abitazioni Tincolini e Del Bino
v.le Gramsci, 67 v.le Gramsci, 63 v. Lanza, 20
v. Por S. Maria, borgo SS. Apostoli
v. Marsilio Ficino, 14
v. Alamanni, v. Jacopo da Diacceto
v. Lungo le Mura di Santa Rosa, 3
v.le Mazzini, 33, 35
v. Guerrazzi, 1c, 1d
v. XX Settembre, 58
v. Guicciardini, v. dello Sprone, 1
v. Guicciardini, 26
p.zza Conti, 7
v. Piagentina, 29 v. Guerrazzi, 8 v. Guerrazzi, 1m, 1n
v. Lamarmora, 31, 31a v.le Mazzini, 15, 17
1955
1960-61*
1966
*
1948-51
1956
1957
1953
1956-59*
1956-59*
1967
1954-57
1956-60
1963
*
1964-67
1968-70
1958-62*
1958-59*
1960
*
note
1 Ulisse Tramonti, Franco Bonaiuti, Architetto, Alinea, Firenze, 2008, p. 28
45
Premessa propedeutica all’analisi dei caratteri della specificità fiorentina
Interpretare i caratteri di una specificità locale, di una
città, o di un territorio, non è cosa semplice. Spesso
ineffabile e impalpabile, il genius loci, l’identità e la vocazione di un luogo, è indescrivibile e non si limita alla
semplice sommatoria figurativa degli elementi architettonici, spaziali ed ambientali, ma si riconosce anche,
e soprattutto, nelle ideologie, nelle aspettative, nelle
realtà socio-culturali degli uomini che lo abitano nel
contingente momento storico. Inscindibile dal tempo,
il genius loci diventa qualcosa quindi di mutevole e in
continua trasformazione, da ridefinire di epoca in epoca. Capire questo, implica che interpretare, contribuire alla storia di un luogo, vuol dire impossessarsi, non
solo del linguaggio espressivo e simbolico, ma anche
della cultura in senso lato che lo pervade e che lo ha
formato. Un’operazione quest’ultima che un singolo
progettista non può assolvere, se non in parte, senza
l’ausilio scientifico e critico di storici, statisti e sociologi.
E una commissione del genere, seppure composta da
qualificati esperti di rigorosa e profonda preparazione
scientifica, non riuscirebbe lo stesso a compiere la difficile operazione di lettura alla quale sono stati preposti, se non intervenisse in loro sostegno un artista, un
filosofo o un intellettuale dotato di estrema sensibilità,
capace di cogliere quel carattere di unicità, quello che
Raffaello Brizzi, fondatore, preside e insegnante della Scuola Superiore di Architettura di Firenze (Facoltà
dal 1935), definiva quel «“saporino nostro”: qualcosa
di goloso, che, secondo lui, faceva venire l’acquolina
in bocca. Si trattava del lento cantare dei “pieni”, delle
superfici quasi interamente murate, dei muri di contenimento dei giardini che si legano senza soluzione di
continuità con l’architettura delle case: tutte cose molto
più importanti, per i toscani, dei canoni proporzionali o dell’uso delle colonne»1. Con la stessa sensibilità,
decenni dopo, Kevin Lynch cerca di riassumere in un
unico quadro omnicomprensivo Firenze e la sua identità. Una città che «ha ovviamente una tradizione economica politica e culturale di eccezionale intensità, ed i
segni visibili di questo passato contribuiscono in larga
misura al vigoroso carattere fiorentino. [...] Dal ben definito centro della città, che al tempo stesso è centro
per le tradizioni e i traffici, si erge enorme e inconfondibile, la cupola del Duomo, fiancheggiata dal campanile di Giotto, un punto di orientamento visibile in ogni
parte della città e al di fuori di essa per miglia e miglia.
Questa cupola è il simbolo di Firenze. Il centro storico è
caratterizzato con tratti di un vigore quasi opprimente:
strade come fessure, pavimentate in pietra; alti edifici
in pietra e intonaco di colore giallo-grigio, con persiane inferriate e portoni come caverne, sormontati dalle
caratteristiche cornici sporgenti dei tetti fiorentini. Vi
sono in quest’area molti nodi, la cui forma distintiva è
sempre rafforzata da un uso particolare o da una specifica categoria di utenti. L’area del centro è zeppa di
elementi di riferimento, ciascuno dotato di un nome e
di una propria storia. Il fiume Arno taglia il tutto e lo
inserisce in un più vasto ambito paesistico. Per queste
forme precise e differenziate, la gente ha sviluppato
un forte attaccamento, fatto di storia passata come di
esperienze personale. Ogni scena è immediatamente
riconoscibile, e porta alla memoria un fiume di associazioni. Ogni parte si incastra perfettamente nell’altra.
L’ambiente visivo diviene una componente integrale
nelle vite dei suoi abitanti»2.
Una descrizione attenta e profonda, che continua allargando lo sguardo fino alle colline e alle campagne
circostanti, ma che non entra nel merito di quello che
è il tessuto urbano, della morfologia urbana, delle sue
origini e delle sue manifestazioni. Uno strumento nuo47
vo, quello della tipologia edilizia, per la lettura critica
della città e lo studio sui rapporti tra tipologia e morfologia urbana, inteso come storia dell’edilizia e della città
stessa, ci viene offerto, alla fine degli anni cinquanta, da
Saverio Muratori, nei suoi Studi per una operante storia
urbana di Venezia.
Ma, se questo metodo ha il pregio di unire in un unico
procedimento di indagine e di conoscenza l’architettura alla città, trova il suo limite applicativo, come ci farà
notare Carlo Aymonino nel 1970, nel momento in cui
si «teorizza la necessità che gli interventi di progettazione nell’attuale realtà urbana siano necessariamente
conseguenti e derivabili da tale genere di studi, come
continuità logica del sapere e dell’operare»3, e continua riportando un’osservazione di Leon Battista Alberti
che ci riporta, dal passato, al legame tra società, cultura e fatto architettonico: «se abbiamo intenzione di
classificare in modo adeguato [...] i vari generi di edifici
e le varie parti all’interno di ciascun genere, il metodo
di una siffatta indagine impone in ogni caso di chiarire esaurientemente quali differenze vi siano tra gli uomini: giacché gli edifici sono fatti per loro e variano in
rapporto alle funzioni che svolgono nei loro riguardi»4,
e il variare sopra descritto trova la sua completa definizione solo nel rapporto tra l’edificio singolo e la città
nel suo insieme.
Sebbene infatti la residenza, che rappresenta da sempre la quantità per eccellenza dell’impianto urbano, costituisca, con la propria permanenza e costanza tipologica, la gran parte della morfologia e della struttura
urbana, lo studio dei suoi tipi appare insufficiente alla
lettura globale della città. Tesi rafforzata dalle parole di
Carl Marx che definisce la città come «una specie di organismo autonomo» rispetto alla realtà sociale a essa
corrispondente in quanto «la pura e semplice esisten48
za della città come tale è distinta dalla pura e semplice
molteplicità di abitazioni indipendenti. In questo il tutto
non è la somma delle sue parti» 5.
Lo stesso Aldo Rossi, partendo dalla critica della visione
della città riportata negli scritti di Camillo Sitte, sottolinea come, il tutto, sia più importante delle singole parti
e come, l’esperienza concreta, vissuta, del fatto urbano
nella sua totalità, persino quella del semplice passeggiare su e giù per una strada, sia indispensabile per la
comprensione completa della città, tanto quanto la lettura del sistema stradale e della topografia urbana.
Superando poi i concetti di “tipo” e di “funzionalismo
ingenuo”, Rossi, nel suo L’architettura della città, ci presenta, con la sua teoria della permanenza, una nuova
possibile chiave di lettura, per entità individuali “persistenti”, della città storica. «Le persistenze sono rilevabili
(secondo le teorie del Poète) attraverso i monumenti, i
segni fisici del passato, ma anche attraverso la persistenza dei tracciati e del piano. Quest’ultimo punto è la
scoperta più importante del Poète; le città permangono sui loro assi di sviluppo, mantengono la posizione
dei loro tracciati, crescono secondo la direzione e con
il significato di fatti più antichi, spesso remoti, di quelli attuali. A volte questi fatti permangono essi stessi,
sono dotati di una vitalità continua, a volte si spengono;
resta allora la permanenza della forma, dei segni, dei
segni fisici, del locus. La permanenza più significante è
data quindi dalle strade e dal piano; il piano permane
sotto elevazioni diverse, si differenzia nelle attribuzioni,
spesso si deforma, ma in sostanza non si sposta.
[...] le permanenze possono divenire, rispetto allo stato della città, dei fatti isolanti e abberranti; esse non
possono caratterizzare un sistema se non sotto la forma di un passato che sperimentiamo ancora. [...] Sono
infatti propenso a credere che i fatti urbani persistenti
si identifichino con i monumenti; e che i monumenti siano persistenti nella città ed effettivamente persistano
anche fisicamente. Questa persistenza e permanenza
è data dal loro valore costituivo; dalla storia e dall’arte,
dall’essere e dalla memoria» 6.
Si introduce oltre al valore fondante e permanente del
piano, quello dei monumenti, intesi non come entità
immodificabili ed estranee alla realtà contemporanea,
bensì come fatti urbani persistenti, architetture del passato che è ancora possibile sperimentare oggi, fruibili
oltre l’esplicazione delle funzioni originarie generatrici.
Valore primario dei monumenti è quindi la forma, e non
la funzione a cui essi sono preposti, che può variare nel
tempo. E la forma dei monumenti è, a sua volta, strettamente responsabile della forma generale della città, sia
nella sua definizione concreta, che in quella immaginaria, costituendone le invarianti che la caratterizzano in
modo identitario.
«L’Architettura esprime se stessa in termini spaziali,
altro da sé in termini simbolici»7. La combinazione di
forma e simbolo genera monumenti che, sotto forma
di oggetti architettonici isolati, sono capaci di sconvolgere il significato globale della città preesistente. Così
Manfredo Tafuri, pur partendo da premesse storicocritiche, giunge a valutare l’opera di Brunelleschi nelle Firenze del suo tempo. «Una delle più alte lezioni
dell’Umanesimo brunelleschiano è la sua nuova considerazione della città preesistente come struttura labile
e disponibile, pronta a mutare il suo significato globale
una volta alterato l’equilibrio della narrazione continua
romanico-gotica con l’introduzione di compatti oggetti
architettonici. Storia urbana e nuovo intervento sono
ancora quindi complementari, ma in senso dialettico. Si
può dire di più: dato che la cupola di S. Maria del Fiore,
le due basiliche di S. Lorenzo e S. Spirito, o la rotonda
degli Angeli sono pensate come architetture a scala cittadina, si spiega come mai né il Brunelleschi né l’Alberti sentano il bisogno di codificare utopie urbanistiche.
L’organicità rigorosa dello spazio prospettico, infatti, è
affermata nel primo Umanesimo come nuova e polemica verità, in sé compiuta. Le architetture che si coordinano intorno ai suoi razionali postulati si confrontano e competono con i tessuti urbani preesistenti; né c’è
bisogno di estendere all’intera città il coordinamento
unitario dello spazio, poiché quelle stesse architetture
pretendono di dimostrare visibilmente la loro capacità
di riverberare, sui polistratificati tessuti medioevali, le
loro qualità razionali»8.
Una premessa questa, al capitolo successivo, che mi auguro serva da monito per quanti, trovandosi di fronte
ad una serie di riferimenti, materici, formali, volumetrici, delle “lettere” di un alfabeto architettonico, non pensino semplicisticamente che un’architettura “fiorentina” (se questo termine può ancora avere un significato
oggi), una “parola” completa o, peggio ancora, un brano
di città, una “frase” urbanistica, si possa realizzare con
una citazione fedele, un “copia e incolla” metodico ma
disordinato, delle singole “lettere”, a comporre “parole” e “frasi” sconnesse. Come sottolinea Giovanni Klaus
Koenig, nel suo Architettura in Toscana, 1931-1968: «In
sostanza, è la storia di una città che, transustanziandosi
in architettura, assume una struttura formale, leggendo la quale si legge anche la storia dei rapporti sociali
comunitari. [...] Ora, fino a che noi leggiamo le “parole”
architettoniche e non le “frasi” urbanistiche, troveremo
sempre elementi stilistici comuni: finestre bifore o trifore nel gotico, timpani spezzati alla fine del Cinquecento.
Ma se dalla grammatica comune passiamo alla sintassi,
cioè studiamo il modo con cui gli elementi dell’architet49
tura vengono ad essere aggregati, ossia composti far
loro a formare dapprima le opere e poi la città nel suo
insieme, è allora che appaiono i caratteri distintivi; cioè
quelle strutture formali che sono inconfondibili di ogni
storia civile particolare». Infatti, sebbene lo studio dei
caratteri di una specificità urbana, siano indispensabili
per una progettazione sensibile e responsabile, e ne costituiscano il bagaglio culturale di base, la mera e pedissequa imitazione degli stessi, senza una rilettura critica
in chiave contemporanea, non può che portare a nefasti risultati. Ne è un esempio l’esperienza fallimentare
del nuovo quartiere di Novoli, sorto nell’area ex Fiat,
nella prima periferia di Firenze. Ideato come tentativo
di “estensione” del centro della città e regolato – dimenticando completamente il Piano Particolareggiato, precedentemente redatto da Leonardo Ricci, e i circa dieci
anni di lavoro che ne stavano a monte (ai quali avevano
partecipato personalità quali Bruno Zevi, Cappai e Mainardis, Gabetti e Isola, R. Rogers, L. Ricci, A. L. Rossi, L.
Pellegrin, R. Erskine, G. Birkerts) – da una serie di “lineamenti” codificati nel piano guida redatto da Léon Krier,
rappresenta in realtà, come viene a ragione definito da
molti, senza mezzi termini, la “sagra di tutte le occasioni perdute”. Non è stato sufficiente infatti il semplice
rispetto dell’elenco di regole “identitarie”, quali erano
state enumerate (il tracciato irregolare delle strade, che
si snodano non in modo rettilineo ma comunque con
una sezione costante, il dimensionamento medio-piccolo degli isolati, che peraltro non corrisponde con il dimensionamento storico della città che invece prevede
isolati piuttosto grandi composti da un’aggregazione di
molteplici elementi particellari, edifici che, neppure nel
caso di Palazzo Medici Riccardi o Palazzo Strozzi, diventano isolati a sé stanti, il basamento in pietra, il tetto alla
fiorentina con forte sporgenza, l’altana a coronamento
50
etc.) per ottenere un risultato che fosse in continuità
con la città storica. Se si escludono gli edifici dedicati
alle aule e alla biblioteca dell’università realizzati da Natalini, per un verso, e quello della casa dello studente
dei C+S per un altro, la realtà è ben diversa. Le regole
imposte “della tradizione” sono state completamente
stravolte, nel pieno rispetto delle stesse, e hanno generato un paesaggio, a dir poco avvilente. Tozzi volumi intonacati, dal giallo al rosso, in una combinazione
pacchiana e chiassosa, si ripetono uguali uno all’altro,
cercando di toccare il terreno il meno possibile, limitando, da un lato, i costosi rivestimenti in pietra previsti “di
legge” e garantendo, dall’altro, la maggior visibilità possibile ai locali commerciali posti al piano terra. Pesanti
cubi di cemento e mattoni su pilotis, come elefanti sui
trampoli, lo studio delle cui proporzioni è stato direttamente proporzionale al tempo necessario per dividere
i volumi di cubatura disponibile per la superficie edificabile, punteggiati da ridicole e sgraziate bifore (con
tanto di cornice di ordinanza), e coronati da “singolari”
pagode, come cappellini di carta indossati per la festa
di Capodanno, che niente hanno a che vedere con i tetti
alla fiorentina o con le altane storiche, ma che altro non
fanno che generare un paesaggio ancora più alienante e lontano, quasi ci trovassimo, paradossalmente, in
una periferia di una Cina immaginata tra i fumi dello
smog o nel disorientante parco limitrofo.
L’architetto che lavora con la città si deve muovere
come un artista (da definizione del Vocabolario della
lingua italiana di Nicola Zingarelli: “persona che ha e
manifesta sensibilità per i vari aspetti della realtà, in
misura considerata superiore alla media”) illuminato,
non dalla luce divina della provvidenza celeste che gli
porta in dono il progetto, l’unico e possibile, ma dall’intuizione sensibile nata dalla cultura, dalla profonda
conoscenza della storia, dalla capacità di instaurare un
dialogo serrato con le preesistenze, dall’interiorizzazione della città, trascesa in nuove immagini, accese dalle
reminiscenze della memoria e impregnate dalla comprensione profonda dell’essenza collettiva della città.
Conoscenze teoriche da intrecciare ad una “naturale”
vocazione al disegno manuale. Una vocazione al disegno storica, che va riconosciuta alla realtà fiorentina,
ma più in generale a tutta quella italiana, che ha permesso si ideassero e si costruissero, nel tempo, edifici
dalle caratteristiche uniche, regolate da armonici equilibri fra le parti ed il tutto, da gesti plastici misurati e
controllati, in una definizione volumetrica in perfetta
dialettica con lo spazio urbano.
L’immagine di apertura – Veduta di Ponte Vecchio da Ponte Santa
Trinita, 2012 – e i relativi diritti, sono di proprietà dell’autore.
51
I caratteri della specificità fiorentina, letti attraverso la loro interpretazione
come elementi costituenti del linguaggio compositivo dei diversi casi studio
Lontana, più concettualmente che fisicamente, dai due
forti poli culturali costituiti, da un lato, dalla Milano dell’M.S.A. (Movimento Studi per l’Architettura) con Giancarlo De Carlo, della Domus di Gio Ponti e della Casabella e continuità di Ernesto Nathan Rogers e, dall’altro,
dalla Roma dell’A.P.A.O. (Associazione Per l’Architettura
Organica) con Mario Ridolfi e Bruno Zevi e la sua L’architettura, cronache e storia, Firenze si discosta in silenzio, prendendone le distanze, dalle coeve posizioni intellettuali nazionali, per tingersi di toni decisamente
locali. L’ambiente si costituisce come una componente
dominante dell’immagine architettonica. «Esso non è
solo il luogo fortunato dove certe idee si coagulano e si
innesca un sistema di interazioni reciproche che spingono la creatività degli artisti verso un fine comune, ma
è anche qualcosa di meno ideale. L’ambiente architettonico è un insieme di forme preesistenti, le quali si traducono nella percezione di chi le fruisce come una serie di immagini relazionate fra loro. Il loro insieme costituisce, analogamente a quanto avviene nella lingua
parlata, un “campo linguistico”, ossia un codice comune
ad un gruppo di interpreti, che sono i membri della comunità. L’ambiente è quindi anch’esso un linguaggio,
cioè una somma di segni significanti, che in questo caso
sono segni iconici, cioè immagini che esprimono direttamente il loro significato»1. E sicuramente il segno iconico per eccellenza della città Firenze è quella silenziosa murarietà severa che fisiogniomicamente ci racconta il carattere introverso e arcigno della vita e dei cittadini che la animano. L’equilibrio sbilanciato fra l’involucro murario e le bucature, logge o finestre che siano, la
prevalenza massiccia dei pieni sui vuoti, la forza espressiva del muro assume «un valore discriminante della
via italiana al razionalismo rispetto all’orientamento
programmatico dell’International Style, che opta per la
leggerezza e la trasparenza dell’involucro consentite
dalla struttura a telaio in calcestruzzo armato o metallo. Valore dell’architettura mediterranea, e peculiare
della tradizione architettonica toscana»2. L’esempio più
eclatante, interpretazione in chiave moderna di questo
tradizionale “lento cantare dei pieni”, è la stazione di
Santa Maria Novella con la sua imponente parete in
pietra forte, solcata da altrettanto massicci ricorsi orizzontali, che ne dilatano ulteriormente la dimensione.
Ma non mancano esempi anche nell’architettura minore delle residenze, di ricostruzione, o di ampliamento,
del secondo dopo guerra. Michelucci, nell’edificio INA
casa per abitazioni e negozi di Via Guicciardini ci dà una
magistrale figurazione – soprattutto sul lato prospiciente via dello Sprone – di quel carattere di solidità e
compattezza tipicamente fiorentino. Anche Riccardo
Gizdulich in via Lungo le Mura di S. Rosa e Francesco
Spinelli in via Guerrazzi, ripropongono, sebbene non
con la stessa sensibilità e attenzione michelucciana alla
grana e alla finitura della pietra forte di rivestimento, il
motivo della massa muraria, slanciata in verticale, priva, o quasi, di aperture che articola o termina il racconto architettonico, con chiaro riferimento alle case torri
medioevali. Per Nino Jodice invece, nei suoi interventi
in via de’ Bardi, in borgo San Jacopo e in viale Mazzini, il
tema della massa è demandato a setti intonacati, completamente lisci e privi di aperture, che si stagliano in
verticale sui basamenti in pietra, quasi a voler riequilibrare, con la loro estrema compattezza e stereometricità, le aperture praticate nelle parti restanti del volume. Seppure in modo originale, legato ad un’attenzione
rivolta verso gli aspetti della prefabbricazione e della
modularità, anche l’edificio di Pierluigi Spadolini in via
Guerrazzi rivela una predilezione per la massa muraria,
per la dominanza dei pieni sui vuoti, giocata, non con le
53
accentuazioni locali dei bugnati in pietra forte e delle
estese superfici in intonaco liscio, bensì attraverso
l’utilizzo di listelli verticali di emalux – una graniglia di
pietra forte impastata con resine trasparenti – di un colore che, assieme a quelli degli infissi in legno, delle finiture in ferro, colore testa di moro, e della copertura in
tegole di cotto bruciato, sintetizza la cromaticità del
paesaggio cittadino circostante, riprendendo, per dirlo
come era solito fare Italo Gamberini, “il colore di Firenze vista dal Piazzale Michelangelo in un giorno di sole,
socchiudendo gli occhi”. Attenzione quest’ultima posta
dallo stesso Gamberini nella realizzazione della Sede
Regionale R.A.I. di Firenze, in cui, abbandonando i materiali propri della storia, sperimenta materiali industriali nuovi, come le lastre di pietra ricomposta “Silipol”
per il rivestimento esterno, senza però venire meno
alla profonda sintonia, mentale e concettuale, con la
tradizione fiorentina. «Il pensiero che queste masse tra
loro connesse e movimentate fossero ancora un pezzo
di città che non stesse a conclusione, ma quasi a sutura
con la nuova Firenze, mi ha fatto pensare al controcampo e ai colori che si fissano nella retina, quando da distante, si osserva la città e si vede il nucleo antico che
emerge dovunque lo si guardi. La pietra forte degli edifici antichi, il cotto dei tetti, il giallo ocra di certe masse
architettoniche anch’esse preminenti nel quadro, il grigio delle colline viste negli sfondi mi ha suggerito una
sintesi coloristica che ho espresso nei materiali usati
per le superfici esterne del complesso. I tamponamenti
portano colori riassuntivi di Firenze»3. Le aperture praticate sulle superfici murarie non si riducono, nella
maggior parte delle illuminate esperienze progettuali
fiorentine del secondo dopoguerra, ad un segno grafico planare, a sottolineare la trama di un disegno ordinatore bidimensionale di matrice razionalista, ma sono
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spesso occasioni per esplorare le profondità murarie,
per accentuare i caratteri plastici dei volumi scavati da
incisioni che accentuano i toni chiaroscurali e le differenze tra i pieni ed i vuoti. Abbandonate le cornici ed i
decori, per soffermarsi sui semplici elementi costituitivi
e strutturali – sebbene la maggior parte delle aperture
si uniformino, dimensionalmente, ai nuovi standard
igienico sanitari e a più vantaggiosi rapporti di aeroilluminazione con le superfici degli ambienti interni – dove
possibile si continua a prediligere, a favore della murarietà massiccia ed ininterrotta, l’utilizzo di aperture piccole e discrete, disposte in modo da ricreare, nella visione globale, l’immagine dell’aggregazione spontanea
delle compatte case a schiera gotiche le cui finestre
seguivano, edificio per edificio, indipendentemente da
quelli limitrofi, un proprio ordine, formando un insieme caotico ed imprevedibile. Molti gli esempi da riportare, ricordiamo Nino Jodice in viale Mazzini che ordina
le diverse tipologie di finestre e porte-finestre utilizzate, aggregandole volta per volta in modo diverso, dividendo così formalmente, in fasce verticali, il prospetto
dell’edificio, Carlo Cresti in via Lanza che scavando o
estrudendo i balconi e i davanzali produce un gioco volumetrico e di ombre potente e severo, Michelucci nei
suoi interventi in via Guicciardini che dona, ai suoi due
edifici, sui fronti principali aspetti duri e fortemente
connotati, in cui i vuoti sono scavi profondi e affogati
nell’ombra, mentre su quelli laterali e posteriori invece
prospetti più miti, in cui il gioco delle minute finestre si
rincorre e si alterna con quello delle porte-finestre prive di balcone. Il binomio porta e vano commerciale affiancati, tipico della “bottega” della casa a schiera medioevale, si rilegge nel piano terra, adibito a negozi, dei
due edifici, così come le vetrine, sospese da terra, aggettanti verso l’esterno, riecheggiano agli antichi ban-
coni di vendita che sporgevano sulla strada. Gizdulich
in via Lungo le Mura di S. Rosa invece accenna a questi
elementi del passato con eleganza e raffinatezza, disegnando le grandi aperture del piano terra con una leggera rastremazione di poche decine di centimetri, verso il basso, a circa un metro da terra: un garbato e misurato omaggio alla storia. Esemplare della caratteristica murarietà fiorentina, dell’avarizia delle bucature,
spesso caotiche e puntiformi, della potenza plastica dei
volumi che, di volta in volta, aggettano o vengono scavati, giocando con le ombre ed il variare delle stesse
durante la giornata, è l’edificio in via Piagentina di Leonardo Savioli. Vera e propria casa torre, sia per le dimensioni ed il trattamento monomaterico delle superfici esterne, nonché per l’applicazione del metodo compositivo basato sulle aggiunte e sulle modifiche progressive, tese più alla convivenza formale di elementi
molteplici e diversi, che non al raggiungimento di un
disegno unitario finale, l’edificio di via Piagentina rappresenta, seppur profondamente intrisa dei risultati
delle contemporanee e personalissime ricerche del suo
autore, sia nel campo grafico, che in quello progettuale,
il risultato dell’interpretazione di un “memoria storica”
capace di tramutarsi in gesto architettonico originale,
assolutamente legato ai valori e alle aspirazioni del
tempo in cui vede la luce, eppure allo stesso modo, in
dialogo stretto con il passato della città. Come lo stesso
Savioli riporta nella relazione descrittiva, infatti, «l’edificio deve sorgere in un’area non molto lontana dal centro storico, e più precisamente in prossimità dell’anello
di circonvallazione del Poggi. E’ una zona che conserva
i caratteri della edilizia compatta, severa, rigorosa, nella
quale si avverte ancora la presenza, in un certo senso,
del nucleo storico monumentale. Per questa ragione e
per altre che verranno esposte, l’edificio si conforma in
modo articolato, tuttavia con forme che possono in
parte trarre il loro motivo plastico dal ricordo delle vecchi torri, delle altane, delle sporgenze nelle case fiorentine tradizionali»4. Ed è proprio la tradizionale sporgenza fiorentina, l’aggetto dei piani superiori, lo “sporto”,
una delle figure architettoniche che più ricorre come
matrice identitaria e caratteristica della città. Sia che sia
trattato in modo stereometrico, un semplice volume in
aggetto, come per Spinelli in via Guerrazzi e in via Lamarmora, per Jodice o Tincolini e Del Bino in viale Mazzini, o per Bega in viale Gramsci, che sia sottolineato
dalla scansione ritmica dalle travi in aggetto che lo sostengono, come per Gamberini in via Por Santa Maria e
in via Ficino, oppure che sia frammentato, articolato,
elaborato e declinato in diverse configurazione come
per Bonaiuti in viale Gramsci, Cresti in via Lanza o Savioli in via Piagentina, lo sporto rimane un protagonista
assoluto ed elemento di forte specificità locale. E se il
basamento, punto di contatto a terra, simbolo di forze
e possenza è, salvo casi specifici, in pietra forte, più o
meno bugnata, e si alza, per accentuare volumi verticali slanciati come case torri, fin oltre il piano terra, il rapporto con il cielo si confronta inevitabilmente con il tetto a gronda fiorentina. La copertura fortemente aggettante della tradizione, lo “sporto di gronda” si spoglia
dei canonici elementi costituenti quali il corrente e la
sottomensola inferiore, entrambi in legno, per rivestire
il suo ruolo simbolico di protezione, di chiusura, di definizione del volume edificato sotteso, ma anche di abbraccio proteso verso l’esterno, di estensione verso la
strada, così tipico e ricorrente nel centro storico tanto
da trasformare i vicoli in vere e proprie trincee scavate.
Il tetto diviene così l’elemento aggregante che lega, in
modo lineare, tutte le articolazioni volumetriche sottese, rendendole parte di un unicum omogeneo, senza
55
interruzioni di continuità. L’imponente tetto ogivale
dell’edificio di via Piagentina del Savioli si stende, in
questo modo, a coprire generosamente corpi principali e corpi secondari, come un grande cappello unificante e protettivo. I tetti severi di Michelucci in via Guicciardini rimarcano, con le loro lunghe e dense ombre, il
culmine superiore degli edifici stessi, quelli di Spinelli in
via Guerrazzi invece si librano, svuotandosi al di sopra
di un grande terrazzo, rigenerando quella spazialità
propria delle altane dei palazzi medioevali. In generale,
se le nuove unità residenziali non ricalcano planimetricamente i modelli tipologici della città antica, affidandone le distanze reciproche, i dimensionamenti generali e le distribuzioni interne ai nuovi criteri dettati dal
funzionalismo, dalla modernità e dalle esigenze e necessità della classe borghese emergente, per la quale
venivano pensate queste abitazioni, la frammentazione del tessuto medioevale si rilegge invece nella composizione e nell’articolazione dei prospetti. Si tende infatti, soprattutto in presenza di lottizzazioni piuttosto
estese, sorte a saturazione del tessuto diffuso e frammentato costituito finora da villette isolate tardo ottocentesche, a realizzare, come nel caso di Jodice in viale
Mazzini o di Spinelli in via Guerrazzi, un fronte articolato, generato dall’aggregazione orizzontale di volumi
con larghezze ridotte, caratterizzati da una diversa finitura esterna, in pietra o intonaco, o da un colore diverso, oppure dalla presenza di uno sporto o di una declinazione alternativa delle aperture o del loro ritmo, tenuti insieme da un basamento comune in pietra che li
lega e li accomuna, così come fa la riva murata dell’Arno di borgo San Jacopo o di via de’ Bardi con i molteplici volumi che le si attestano, a sbalzo, e a diverse altezze, con regole compositive differenti ed indipendenti
l’uno dall’altro. Riportare la dimensione dei prospetti
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ad una assimilabile, almeno in proporzione, con quella
degli stretti fronti delle case a schiera medioevali, ricostituendo l’unitarietà con il basamento o con il tetto e il
suo forte aggetto, è un atteggiamento progettuale che
cerca di mediare le nuove dimensioni della città, completamente dilatate, con quelle del tessuto storico e
può far riflettere sulla cattiva sorte critica e sul mancato
successo popolare (sebbene si possa stare tranquilli
che a Firenze qualunque nuova opera, con la pur minima velleità di moderna contemporaneità, avrà più detrattori che sostenitori) di macro opere con spiccate
caratteristiche volumetriche orizzontali, che ne accentuano l’uniformità e l’omogeneità lungo tutto il fronte,
come l’edificio della Direzione provinciale delle Poste di
via Pietrapiana o quello della Sede della SIP di via Masaccio, entrambi di Giovanni Michelucci. La murarietà
severa e silenziosa, l’uso della pietra a vista, la composizione per volumi e non per superfici, la prevalenza dei
pieni sui vuoti, l’aggregazione per parti, gli sporti, le altane, i forti aggetti delle coperture a padiglione, o comunque a gronda costante, sono i temi ambientali ricorrenti che scomposti, analizzati attentamente nei propri
elementi e riassemblati, in una interpretazione nuova
della città storica, riescono a figurare lo spirito della città stessa senza rinunciare alla possibilità di una espressione architettonica personale e contemporanea.
L’immagine di apertura – Scorcio del fronte di Palazzo Medici
Riccardi su via Gori, 2012 – e i relativi diritti, sono di proprietà
dell’autore.
57
La Torre come elemento simbolico, qualificante, e unità semantica del
linguaggio architettonico fiorentino
«Il ponte più antico di Firenze, sovraccarico di piccole
botteghe di orefici e argentieri [...] che costituiva uno
dei complessi paesistici più noti nel mondo, sopravviveva in gran parte, solo, in mezzo ad un ampio vuoto a
compensare la distruzione di 367 botteghe, di 71 laboratori artigiani e di 123 edifici (con 386 abitazioni) fra le
quali una decina di torri medioevali e una ventina di palazzi di notevoli architettura e di grande valore storico»1.
Molte torri medioevali, sopravvissute all’azzeramento
urbanistico delle mine tedesche, non sono comunque
risparmiate dal loro destino di distruzione. Il comando
alleato infatti, preoccupato primariamente di ripristinare in modo rapido ed efficiente la viabilità di transito,
opera con celerità alla rimozione delle macerie ma, anche con troppa prontezza, all’abbattimento degli edifici
pericolanti. «Una prontezza che però non poteva conciliarsi col nostro intendimento [della Soprintendenza
ai Monumenti] di procedere alla cernita dei materiali e
soprattutto col tempo che sarebbe occorso per le opere di primo intervento nelle strutture superstiti; in particolare quanto rimaneva delle antiche torri di qua e di
là dell’Arno che, seppure fortemente squarciate, lasciavano intravedere possibilità di recupero e fondamentale interesse anche quale presupposto per le soluzioni
del futuro piano di ricostruzione della zona»2. Vengono
così abbattuti, senza ripensamenti, né incertezze, i resti
della torre dei Ridolfi a metà di borgo S. Jacopo e della
torre di Parte Guelfa all’incrocio fra via Guicciardini e via
de’ Bardi. Come testimonia Edoardo Detti: «Non si riuscì a salvare una bella torre sull’angolo di via de’ Bardi,
la torre di Parte Guelfa, che sosteneva il corridoio Vasariano; fortemente lesionata, ma stabilissima, venne
gettata a terra dagli Alleati “manu militari” per ragioni di
sicurezza e per facilitare il ripristino dell’acquedotto. La
sopravvivenza di questa torre, importantissima come
elemento di “introduzione” al Ponte Vecchio, avrebbe
facilitato la soluzione di quel punto delicato ed avrebbe consentito un facile sdoppiamento dell’imbocco di
via de’ Bardi»3. Allo stesso tempo, fortunatamente, «si
interviene tempestivamente per recuperare – anche a
costo di ricostruirla sia pure con i materiali caduti – la
torre degli Amidei (sul lato Ovest di Por S. Maria); questa, insieme alle vicine torri dei Consorti, dei Lamberti e
dei Baldovinetti, “meno colpite e prontamente riparate
contribuiva appunto – secondo il Morozzi – a rendere
meno traumatica la risaldatura del ricostruito quartiere medioevale all’imbocco del Ponte Vecchio”»4. Le torri
superstiti, che svettano isolate tra le macerie, segnano indubbiamente un paesaggio che rimane impresso
nelle menti di artisti e architetti del tempo. Ranuccio
Bianchi Bandinelli su “La Nazione del Popolo” del 31
agosto 1944, in un articolo che, anticipando quello del
maggio del ’45, tratta delle problematiche relative alla
ricostruzione, ne esalta il carattere formale e simbolico.
Torri che, “poste in valore” dalle distruzioni, “potrebbero venire a formare elemento caratteristico di un paesaggio nuovo ai nostri occhi, ma originale e antico”. La
casa-torre, nella sua versione originaria del XI secolo,
a pianta quadrata e sviluppo “monocellulare” in altezza – Adimari, Baldovinetti, Barbadori, Buondelmonti,
“Castagna”, Gherardini, Visdomini – nella sua variante a pianta rettangolare – Barbadori, Donati in Piazza
San Pier Maggiore, Foresi, Marsili, Strozzi – nella sua
successiva evoluzione “bicellulare” a modulo doppio
– Amidei, Belfredelli, Donati in via del Corso, Mannelli, Ramaglianti – e soprattutto nel suo sviluppo ultimo,
inglobata nel “palagio” o nella “casa-fondaco” e ad esso
incorporata, senza soluzione di continuità – Bagnesi,
Barducci, Cerchi, Galigai, Manfredini – diventa, dopo la
tragica epifania bellica, un carattere qualificante e un
59
elemento compositivo che ritorna, riproposto in numerose varianti e alterazioni, morfologiche e semantiche,
sia negli elaborati di concorso, sia nei progetti che caratterizzano le successive operazioni di ricostruzione, o di
ampliamento, del tessuto storico fiorentino, ricreando,
in alcuni casi, lo stesso procedimento con cui i palazzi
trecenteschi inglobavano le torri più antiche – Acciaioli,
Alberti, Pazzi. Già nei primi studi e nelle proposte per
la ricostruzione di Michelucci l’elemento “torre” ricorre,
quasi ossessivamente, in ogni suo schizzo. Il lungarno
di borgo San Jacopo è immaginato punteggiato di alte
case-torri, caratterizzate dall’aggregazione sfalsata dei
volumi dei singoli piani, ma soprattutto da una trama
aerea di passaggi che le connette e da una galleria pedonale sull’Arno che le unisce in un’unica promenade
architecturale; il passaggio aereo del corridoio vasariano su via de’ Bardi viene risolto introducendo un edificio-torre che interrompe il duplice fornice e diventa
l’elemento di testa di una doppia viabilità, separata da
un’area di verde che termina con la scalinata che, scendendo dal giardino di Boboli, arrivava, parallelamente
alla sponda, fino all’Arno; le torri medioevali di via Por
Santa Maria svettano, liberate dal tessuto circostante, il
fronte stradale è ricostituito attraverso un percorso pedonale commerciale sopraelevato, che genera l’arretramento superiore dei fronti dei nuovi edifici, e che sfocia
su di una grande piazza – sempre sopraelevata rispetto
al filo stradale che viene considerato prevalentemente
carrabile – delimitata da alti edifici, tra cui quello d’angolo che ingloba, in parte, la torre sopravvissuta alle distruzioni belliche. «Io pensavo – dichiara Michelucci – di
legare Boboli (il giardino mediceo di palazzo Pitti), che
è uno sfondo meraviglioso ed un giardino pubblico al
Lungarno [...] feci allora alcuni schizzi preparatori: [...]
alcuni prevedevano una lunga galleria lungo l’Arno, con
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le scale che scendevano al fiume. Alcuni “grattacieli”,
grandi torri separate l’una dall’altra, lasciavano vedere
le colline sul dietro. Queste case torri erano collegate al
secondo e al terzo piano con tutta una serie di gallerie,
dando vita a dei percorsi di “grande interesse commerciale e turistico” dai quali si scopriva tutto l’Arno. [...] Creiamo – io mi dicevo – questo fatto fantastico: portiamo
la gente ai vari piani: e affermiamo il concetto della casa
filtrata dalla vita e dalla continuità città-edilizia singola»5.
Influenzati da queste riflessioni, diversi autori riproporranno le visioni michelucciane, seppure edulcorate dai
caratteri di coinvolgimento vitali dei passaggi aerei ed
estremamente semplificati nelle definizioni volumetrice, anche negli elaborati per il concorso per la ricostruzione delle zone distrutte intorno a Ponte Vecchio.
I gruppi della “Città sul fiume” – Detti, Gizdulich, Pagnini, Santi – e de “I Ciompi” – Bartoli, Gamberini, Focacci
– presentano, come soluzione, per la ricostruzione dei
lungarni di via de’ Bardi e di borgo San Jacopo, un profilo “merlato”, generato da una serie di case-torri che si
alzano, ad intervalli regolari, da un corpo più basso che,
come un basamento compatto, le unisce tutte. Ribaditi gli aspetti “igienici” di questa soluzione che prevede
un soleggiamento più salubre della possibile risposta
a tessuto compatto, si trascurano invece approfondimenti linguistici e contenutistici della composizione,
tanto da generare, non dei veri e propri progetti, quanto degli astratti schemi urbanistici, in cui la ripetitività
seriale degli elementi e l’estrema semplificazione stereometrica degli stessi, invalidano le interessanti premesse concettuali. In modo analogo, attraverso una
serie di travisamenti, sia della storia, che delle proposte progettuali più recenti, si procederà alla ricostruzione di via Por Santa Maria attraverso l’assemblaggio di
parti scomposte legate da un arretramento dei fronti
alti rispetto al filo stradale – forse fascinazione derivata dall’immaginata passeggiata pedonale sopraelevata,
forse tentativo di rendere più luminosa la sede stradale
– che, senza una precisa volontà di intenti, ma con il forte desiderio di un ambientalismo contestuale, genera
– al contrario delle aspettative – una tipologia di edifici,
e una loro aggregazione, completamente estranea al
tessuto esistente del centro storico fiorentino. «Forse
nessuna altra strada, come questa, dove le preoccupazioni architettoniche, di intonazione, di “conciliazione”
fra “antico e moderno” sono state apparentemente
così vive, rivela tanta sconfortante mediocrità, un cattivo gusto da mostra mercato dell’artigianato trasferitasi nel centro di Firenze; in nessuna più che in questa
si rivela un’assoluta innocenza urbanistica, l’assenza
di qualsiasi intenzione. Così la strada non esiste per la
città: ci si passa in fretta e sorridendo come attraverso
una scena di cartone o di legno, fuggendo sul Ponte
Vecchio o verso il centro»6.
La torre, intesa come protagonista ed elemento qualificante della narrazione architettonica, avrà maggiore
successo – dovuto in parte anche alla maggiore sedimentazione delle idee e dei nuovi stimoli progettuali,
nonché alla riflessiva “calma” che sostituirà la, seppur
positiva, frenesia della ricostruzione – nelle opere successive all’immediato dopoguerra. La casa-torre diverrà così, per gli edifici di via Piagentina di Savioli e di via
Lanza di Cresti, l’immagine di riferimento per la conduzione della composizione architettonica che sarà tesa,
in ogni aggettivazione e dettaglio, a ricreare la sensazione di verticalità, ad accentuarne i caratteri di severità e di chiusura, a ricordare, con gli articolati aggetti, gli
sporti, gli imprevisti volumi a sbalzo, le provvisorie sovrastrutture in legno che, accessorie alla torre in pietra,
caratterizzavano il paesaggio medioevale della città.
Gamberini, in corrispondenza dell’angolo in cui confluiscono via Alamanni e via Jacopo da Diacceto, realizza,
a testa di un impianto a T che occupa l’intero lotto trapezoidale tra le due strade, una vera e propria torre
medioevale: imponente, massiccia, con il caratteristico
profilo delle antiche torri di difesa a caditoie. Per Gizdulich, in via Lungo le Mura di S. Rosa, la torre in pietra diventa invece parte fondante della sintassi compositiva
del progetto: elemento figurativo che assolve la funzione di testa e di chiusura dello sviluppo orizzontale del
corpo centrale dell’edificio, nonché quella di dialogo
con le mura che fronteggiano l’intervento. Allo stesso
modo, Jodice in via Mazzini e Spinelli in via Guerrazzi
e in via Lamarmora, utilizzano l’elemento verticale in
pietra, inglobato all’interno del corpo edilizio e ridotto
alla quasi bidimensionalità, come cerniera tra parti planimetricamente sfalsate, o come raccordo tra corpi con
altezza o definizione formale diversa, dello stesso edificio. Ma c’è anche chi, come Koenig in via XX Settembre, non perde occasione per utilizzare, ironicamente, il
valore iconico della torre: componente puramente accessoria, sporgente dalla parete del complesso edilizio
di cui rappresenta una porzione infinitesimale, è coronata da un tetto sospeso in acciaio, più simile a quello
delle pagode, che non a quello delle altane fiorentine,
e dalla caratteristica banderuola segnavento, con tanto
di leone rampante. Un atteggiamento, quello del Koenig, di understatement, teso al ridicolo e alla sdrammatizzazione, così raro a Firenze e così spesso confuso con
quello post-moderno.
L’immagine di apertura – La torre della Castagna in piazza San
Martino, 2012 – e i relativi diritti, sono di proprietà dell’autore.
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Due torri medioevali, un grattacielo come un cristallo ed uno solo immaginato.
Ovvero, osservazioni sull’equivoco italiano dell’aut aut: tradizione o innovazione
Nel 1945, in pieno dibattito sulle tematiche della ricostruzione del centro di Firenze, Cesare Augusto Poggi,
formatosi nella Scuola di Architettura di Raffaello Brizzi
e firmatario del manifesto dei “Gruppi futuristi d’iniziative”, nonché del suo “Architettura Futurista Poggi” del
30 gennaio 1933, immagina in via Por Santa Maria un
lucente grattacielo in acciaio, a pianta aerodinamica,
che svetta, segnato dalle fenditure orizzontali delle finestrature a nastro, a pochi passi da Palazzo Vecchio.
Un oggetto di design, reso perfetto e finito dalla produzione meccanica, precorritore dei miti dell’utopia tecnologica degli anni Sessanta.
«Un’architettura integralmente prodotta con metodi
industriali, secondo una concezione che tende a dilatare i confini dell’industrial design sì da includervi la progettazione architettonica»1. L’architettura diviene una
vera e propria machine à habiter, segnata dal progresso tecnologico delle tecnologie costruttive legate alla
produzione seriale. «Meno male vi è un campo in cui
le costruzioni non si chiamano razionali e pur tuttavia
funzionano e progrediscono meravigliosamente: beate
le macchine che non conoscono tradizioni; o, per meglio dire, ne hanno una sola e nobilissima: progredire!»
(Poggi, 1935).
Il 4 aprile 1960, a circa dieci anni dall’inizio della progettazione, viene inaugurato a Milano, il grattacielo Pirelli.
Sorto su un lotto occupato originariamente dagli stabilimenti dell’azienda, distrutti dai bombardamenti aerei
del 1943, il grattacielo, sebbene possa apparire, soprattutto per via della forma lenticolare della pianta, più
larga al centro e rastremata alle estremità, similare a
quello aerodinamico del Poggi, prende vita in realtà da
una posizione culturale di fondo radicalmente diversa.
«L’Architettura [...] essendo un’Arte, non è progressiva
e tende a creare solo delle unità perpetue, delle espres-
sioni a sé stanti, irripetibili; crea l’opera d’arte, che non
è superabile perché la sua espressione si esaurisce in
sé stessa, ed è perpetua. Fa subito ridere il pensare ad
un “progresso della Architettura”; come fa ridere il pensare ad un progresso della musica, della pittura, della poesia: il Partenone è il Partenone, e il Battistero di
Pisa è il Battistero di Pisa, e la Rotonda è la Rotonda.
V’è una “storia” della pittura, della musica, della poesia,
non v’è un progresso della pittura, della musica, della
poesia. [...] L’opera di Architettura, se è opera d’arte,
è originale (inteso ciò non nel senso di bizzarro, ma di
originario); non riceve nessun particolare che venga dal
di fuori, bell’e fatto (prefabbricato); l’esistente, cioè, il
preesistente, non le serve, le è estraneo; tutto quanto
la concerne deve riformularsi nella sua esclusiva unità
e coerenza»2. Con queste parole Gio Ponti ci introduce
un grattacielo che non è un semplice “oggetto di design
alla scala urbana”, non una macchina, legata al suo,
limitato nel tempo, ciclo vitale, replicabile ed espandibile all’infinito, bensì un’architettura finita, eterna,
immodificabile, perfetta come un “cristallo”. Simbolo
della potenza economica, delle conoscenze tecnicoscientifiche, della tensione verso il futuro che l’azienda
intendeva comunicare, il grattacielo Pirelli di Ponti si
pone, con la sua pianta sfaccettata, con la sua struttura
in cemento armato apertamente denunciata dall’opacità dei costoloni rastremati e dei bastioni laterali lacerati dalla profonda fessura verticale che ne smaterializza lo spigolo, con la sua “aureola” sospesa, a coronamento del piano attico, a chiusura definitiva della
forma, a conclusione del discorso architettonico, come
tentativo di declinare, in modo personale ed originale,
una tipologia, per eccellenza moderna, come quella del
grattacielo, senza però accettarne sistematicamente
i canoni formali ormai globalizzati dalle recenti espe63
rienze internazionali. Allo stesso modo, prendendo le
distanze dalle consolidate caratterizzazioni moderniste, vede la luce, nel 1958, nell’ambito di una più ampia
riconfigurazione urbanistica dell’area centrale di Milano, la Torre Velasca, che nasconde già nel nome, nella sua precisa valenza semantica, non tanto legata ai
fattori dimensionali, bensì a quelli qualitativi e formali,
la volontà di accentuarne i caratteri di continuità con
la storia. Rapporto con la storia, che lo stesso Ernesto
Nathan Rogers, portavoce dei BBPR, autori della Torre,
chiarisce sottolineando che «il presente è, a sua volta,
una creazione originale; ciò invece che disintegrare la
storia la unifica in un sentimento di continuità dove il
passato si proietta negli accadimenti attuali e questi si
ricollegano radicandosi negli antefatti. Essere moderni
significa semplicemente sentire la storia contemporanea nell’ordine di tutta la storia [...]. Costruire un edificio in un ambiente già caratterizzato dalle opere di altri
artisti impone l’obbligo di rispettare queste presenze
nel senso di portare la propria energia come un nuovo
alimento al perpetuarsi della loro vitalità». E continua
puntualizzando sul concetto di “tradizione”: «Due forze
essenziali compongono la tradizione: una è verticale,
permanente radicarsi dei fenomeni ai luoghi, la loro ragione oggettiva di consistenza; la seconda è il circolare,
dinamico connettersi di un fenomeno all’altro, tramite
il mutevole scambio intellettuale far gli uomini; la tradizione è il miele pregnante che le api elaborano cogliendo il succo dai diversi fiori, quando lo trasportano nella
remota officina. Ogni artista e, anzi, ogni opera d’arte,
sono all’incrocio di queste due forze che collaborano
al processo storico e sono la vera essenza: pertanto è
improduttivo chi persegue solo uno degli aspetti della
tradizione»3. La storia è la chiave di lettura della città,
possedere questa chiave permette all’architetto di com64
prendere la tradizione, di interpretarla, di realizzare
un’opera moderna, contemporanea, capace di esprimersi con espressioni formali e simboliche nuove, eppure in grado di instaurare un dialogo dicotomico, non
necessariamente di rottura e negazione, con il contesto.
Nella sua monografia critica su Rogers e i BBPR, Maria
Gabriella Errico precisa ulteriormente, la tanto celebre
quanto spesso travisata, teoria delle “preesistenze ambientali”. «Le teorie di Rogers costituirono la continuità
e l’innovazione dell’opera dei pionieri del movimento
Moderno, nella difesa della autonomia estetica del luogo, della cultura, della tradizione attraverso un uso critico della referenza storica. Rogers teorizzò il fare architettura collocando l’opera non sul luogo, ma nel luogo e
dunque nella storia. [...] (nasce in lui negli anni 50 con la
chiusura dei CIAM ) la consapevolezza del superamento del Movimento Moderno attraverso il recupero della
tradizione in continuità con la storia»4.
La Torre Velasca diventa così, allo stesso tempo, il manifesto costruito delle teorie rogersiane, nonché il grattacielo più discusso d’Europa. Sono rilevanti, all’interno
del dibattito critico internazionale suscitato da quest’opera, due interventi, uno di Giuseppe Samonà, maestro
del Novecento italiano e uno di Gerhard Kallmann, un
talento emergente dell’architettura americana che rafforzano entrambi, seppure in termini differenti, l’idea
originaria di Rogers, ovvero che: “il valore internazionale di questa architettura è di riassumere culturalmente l’atmosfera della città di Milano; l’ineffabile, eppure
percepibile caratteristica”. Per Samonà: «La Torre cerca di fondersi per continuità materiale all’ambiente, si
sforza di presentare il suo volume con la stessa solidità
muraria delle case che costituiscono il tessuto prevalente della città, per cui essa veramente ci appare come
l’esplosione di un magma compatto che improvvisa-
mente in un punto abbia elevato con un getto verticale
la materia di cui è composto. La singolarità è dunque
soltanto nel fatto esplosivo, in cui una materia tutta
coerente per ragioni interne si dilata senza alterare la
compatta densità di se stessa. Tuttavia il senso di casa
gigante doveva in qualche modo essere limitato nella
torre, perché il suo volume non apparisse dissonante,
nelle caratteristiche della forma, come quello dell’insieme di case che le stanno attorno e a cui esso vuole appartenere. Le nervature che gli architetti hanno posto
in risalto, più che accentuare per un bisogno di ostentazione costruttiva l’intelaiatura portante della sua fabbrica, servono a correggere il senso troppo ostentato
di casa gigante a cui la torre tendenzialmente aderisce.
In questo modo le nervate costole che percorrono verticalmente la superficie delle quattro facciate, giustificano il residuo goticismo che in un certo senso le ha
ispirate, e riportano, con la loro gigantesca mole, alla
proporzione dell’intero corpo quella misura più modesta di vera e propria “casa”, che presenta la fabbrica, e
che gli architetti hanno voluto conferirle per un’umana
e quasi umile adesione alla potenza espressiva che appunto il senso di “casa” possiede, ripetuto un milione di
volte nella città»5. Kallmann invece ne sottolinea sinteticamente le peculiarità: «La gigantesca forma a fungo
della torre richiama le medioevali torri di difesa a caditoie. Ma la torre non ha una silhouette deliberatamente
“storicistica”. Quanto più accuratamente la si analizza,
tanto più evidente diviene la sua complessa dialettica:
fra funzione e forma, costruzione e ornamento, nuova
tecnologia e forme antiche»6.
Negli stessi anni, esattamente nel 1957, Italo Gamberini, a Firenze, realizza un edificio per abitazioni e uffici,
sull’angolo tra via L. Alamanni e via J. da Diacceto, con
un impianto planimetrico a T che culmina, in corrispon-
denza dell’intersezione a V delle due strade, con una
torre, imparagonabile con quella Velasca per altezza,
ma molto simile per concezione ideologica e ricerca
formale. Singolare è il processo personale dell’architetto lungo il quale si pone quest’opera. Se i BBPR, infatti,
giungono alla Torre Velasca come sintesi delle ormai
maturate teorie di Rogers sulla storia e sulle preesistenze ambientali, Gamberini realizza quest’opera in
una fase di passaggio di uno sviluppo invece che lo porta, dalle prime sperimentazioni più legate alle specificità locali, ad una serie di architetture innovative che, pur
non tradendo lo spirito del luogo, si riallacciano maggiormente alle idee razionaliste di progresso. Come lo
stesso Koenig ci fa notare, infatti: «Dopo il concorso per
il ponte alla Vittoria, Italo Gamberini, oggi professore
ordinario di Elementi di architettura e rilievo dei monumenti, ebbe varie occasioni di realizzare alcuni edifici fiorentini, che furono assai criticati, come quelli che
fanno da spalla, oltr’Arno, al ponte Vecchio, ed altri nella
zona di Por Santa Maria. Effettivamente non erano opere felici; ma bisogna dire che Gamberini, rifiutandosi di
seguire la via neoclassica del secondo Michelucci (come
Ricci e Savioli facevano in quel momento) cercava faticosamente da solo la propria strada. Alcune esperienze di quel periodo, dal 1948 al 1954 [...] apparvero così
distanti dal gusto del moderno, razionale e neoclassico assieme, da suscitare l’ironia di molti colleghi. [...]
Dopo varie altre esperienze volte ad approfondire, ma
senza risultati felici, questa difficile opera di recupero
dell’architettura toscana minore, Gamberini compiva
nel 1955 un ennesimo passo controcorrente. Mentre a
Milano si passava dal Palazzo Olivetti di Bernasconi alla
Torre Velasca dei B.B.P.R., cioè si stava abbandonando
la linea di condotta strettamente razionale alla ricerca
di ciò che Gamberini cercava già da tempo, Gamberi65
ni si incrociava con loro percorrendo la strada inversa,
tornando a quella matrice razionalista che aveva generato, a suo tempo, la stazione di Firenze»7. Ora, se la
torre non si può certamente chiamare grattacielo, per
giunta decapitata dalla Soprintendenza ai Monumenti
di un paio di piani rispetto al progetto originario, rimane
comunque chiaro l’intento di Gamberini di accentuarne
le connotazioni formali e di renderla l’elemento fulcro
della progettazione, contrapponendola alle due ali più
basse, destinate alla residenza, che le fanno da fondale.
«Il complesso è realizzato secondo un’articolazione stereometrica estremamente brillante, giocata sul raccordo dei tre volumi principali, la cui calibrazione altimetrica – dominata dallo svettante corpo a torre incernierato sullo snodo stradale – è sapientemente modulata
proprio dalla configurazione ritmica dei prospetti: in
essi la disposizione delle aperture, la loro delineazione formale e i rapporti sempre inediti che stabiliscono
con le murature, giunge ad un grado di maestria e raffinatezza sintattica che conduce a definire – senza esitazioni – tale architettura un capolavoro»8. La torre, elemento predominante e distintivo dell’intero intervento
è, come quella Velasca, caratterizzata da una definita
nitidezza stereometrica e dalla massiccia massa muraria che la costituisce. Le aperture a fasce orizzontali,
sfalsate per piani, ma rimarcate da una scansione che,
prolungandosi oltre i limiti dell’infisso, ne accentuano la
verticalità, sono planari e non interrompono la lettura
volumetrica del corpo centrale della torre. Corpo centrale, reso ulteriormente massiccio dagli smussi a 45°
degli spigoli, che si configura, parimenti alle torri medioevali, aggettante rispetto alla base, anche se in questo caso grazie ad uno strategico “strozzamento” del
piano sottostante che ne rende la suggestione plastica,
e si corona con un balcone-loggiato perimetrale, eredi66
tà delle antiche altane, che ne smaterializza il volume.
Alla luce dell’analisi delle opere sopracitate, viste le varie analogie e le molteplici differenze, a quanti siano
in cerca di una metodologia operativa, o di uno strumento di analisi, per gli interventi all’interno della città,
all’interno della storia “costruita”, si insinua subito un
dubbio profondo, e appare inevitabile e ineludibile una
scelta di campo, uno schieramento, una presa di posizione unilaterale.
Favorita anche dalla critica architettonica, la visione dicotomica dei modelli proposti, soprattutto nel binomio
Grattacielo Pirelli - Torre Velasca, si risolve in un aut aut
senza possibilità di conciliazione. “Continuità o crisi?”
Così Rogers intitola, nel 1957, il suo editoriale sul numero 215 di Casabella-Continuità, dove già la scelta di
posporre il termine Continuità, al titolo della rivista, appare come un ammiccamento, neppure troppo velato,
alla risposta corretta da dare a quella che sembra, più
che altro, una domanda retorica. Come già successo,
per il dibattito seguito alle dirette problematiche della ricostruzione dei centri soggetti alle distruzioni belliche, nascono fin da subito due fazioni contrapposte,
rissose, incompatibili, infantilmente barricate dietro
“credenze” irremovibili e inconciliabili.
In un recente saggio Franco Purini sottolinea questa, se
vogliamo, “tradizione” dell’architettura italiana, già evidenziata anche da Pierluigi Nicolin e Fulvio Irace:
«Nell’architettura italiana non c’è normalità, ma tutto è
esasperato, complicato, difficile. Come ha recentemente ricordato Pierluigi Nicolin, ogni cosa è vista alla luce
cruda ed eccessiva del conflitto, un conflitto tra persone, programmi e strategie. Si tende a considerare chi
le pensa diversamente come un nemico e non come
una persona che ha opinioni non coincidenti con le
proprie. Si ragiona e si agisce per schieramenti che si
fronteggiano duramente, in una condizione che vede il
confronto culturale caricarsi di valori morali, con la conseguenza che chi milita in una certa area considera chi
appartiene a un’altra il portatore di qualche oscuro interesse e non, molto più semplicemente, di concezioni
alternative. Anche i programmi sono proiettati su uno
schema antagonistico. [...] Milano contro Roma; gli urbanisti contro gli architetti; i tecnologi contro entrambi; gli architetti radicali contro tutti. La storia contro il
presente. Il partito della Torre Velasca contro quello
del Grattacielo Pirelli; le Palazzine contro il Corviale;
“Domus” contro “Casabella”; “L’architettura. Cronache
e storia” nemica di “Controspazio”; “L’Arca” agli antipodi di “Opcit”, “Lotus”, “Parametro”, “Abitare”, “Anfione e
Zeto” e, in breve di ogni altra rivista che intenda affrontare problemi teorici e non solo produrre informazione. Gli organicisti contro i razionalisti [...]»9. La singolarità dell’architettura italiana in realtà sta proprio nella,
spesso ignorata, conciliazione dei due estremi, ovvero nell’accettare che entrambi le risposte, allo stesso
modo, anche se con declinazioni diverse, siano esatte.
Esatte perché nate entrambe da una modernità reinventata, basate sostanzialmente sugli stessi principi di
critica e di rifiuto della tabula rasa che le avanguardie
facevano del passato, sul serrato dialogo con le preesistenze, che non esclude un rapporto dialettico, ragionato in modo non schematico, semplicistico, ma teso
a cogliere e valorizzare le contraddizioni, i momenti di
contrasto e di opposizione, arricchendosi dal confronto con ciò da cui il nuovo si differenzia. Appare quindi,
ancora oggi valida l’indicazione di Walter Gropius che,
dando un valore primario al metodo operativo, e non
al linguaggio espressivo, prevede esisti formali anche
molto diversi tra loro, ma egualmente corretti: “la pri-
orità della ricerca metodologica è libera di dare esiti
linguistici differenziati, rispetto alla staticità di uno specifico linguaggio architettonico”.
Continuità, quindi, non come recupero del passato e
istituzione di un linguaggio “storico” unificato, come
invece è stato molte volte travisato l’insegnamento di
Rogers, bensì come perpetrazione della tradizione e
sviluppo del nuovo, in continuità con il processo storico. La storia è costituita da uno svolgimento continuo
ed ininterrotto di processi che alterano continuamente
la realtà e di cui anche l’uomo del presente, fa parte,
ed è esso stesso causa ed effetto delle mutazioni continue che costituiscono quell’identità spazio-temporale,
costante e immutabile, nel suo costante essere diversa
da sé, in una ininterrotta autoridefinizione. In occasione del CIAM VI del 1947, focalizzato sulle ricostruzioni
post-belliche, lo stesso Rogers, sottolineando l’interesse per la configurazione dello spazio urbano, non solo
riguardo ai bisogni materiali, ma anche, e soprattutto,
alle “attese emotive” dell’uomo contemporaneo, aveva
affermato che “la storia deve servire a capire il presente attraverso gli esempi del passato. [...] La storia deve
servire a capire i presente e ad essergli fedele esprimendolo con forme proprie. Nello stesso modo gli uomini del passato interpretavano la loro epoca con l’aiuto delle forme proprie ad esso” (dalla III commissione
Riforma dell’insegnamento dell’architettura e dell’urbanistica presieduta da Ernesto Nathan Rogers).
Sempre a tale proposito vale la pena ricordare quanto
espresso nei punti stilati nel Congresso dei CIAM del
1933 e riproposti nella seconda edizione della Carta di
Atene, pubblicata a cura di Le Corbusier nel 1957, riguardo al cruciale rapporto tra la città ereditata ed il
nuovo, e alla delicata questione della tutela del patrimonio storico.
67
(punto 65) “La vita di una città è un avvenimento continuo che si svolge nei secoli con opere materiali, tracciati o costruzioni, che le conferiscono una propria
personalità e da cui emana un po’ alla volta la sua anima. Si tratta di preziose testimonianze del passato che
saranno rispettate innanzitutto per il valore storico e
sentimentale, e poi perché in alcune si manifesta un
valore plastico che esprime nel modo più intenso il genio dell’uomo. Esse fanno parte del patrimonio umano
e coloro che ne sono i proprietari. o hanno il compito
di difenderle, hanno la responsabilità e l’obbligo di far
tutto il possibile per trasmettere intatta ai secoli futuri
questa nobile eredità.” E si proseguiva sottolineando
come il Movimento Moderno proibisse di “impiegare
con pretesti estetici stili del passato nelle nuove costruzioni innalzate nelle zone storiche. [...] I capolavori del
passato ci mostrano come ogni generazione abbia avuto la sua maniera di pensare, le sue concezioni, la sua
estetica, richiamandosi, come stimolo alla propria fantasia, all’insieme di risorse tecniche della propria epoca. Copiare servilmente il passato è votarsi alla menzogna, significa elevare il “falso” a principio, poiché non
si potrebbe ripristinare le antiche condizioni di lavoro,
e applicando la tecnica moderna a un ideale superato,
non si potrà giungere ad altro che ad una finzione spoglia di ogni vitalità.”
La destinazione d’uso risponde alle esigenze del modello di vita contemporaneo, più e meglio di quanto possa
influire l’aspetto formale conferitogli dall’architetto: in
questo consiste la continuità dell’architettura contemporanea con i maestri del Movimento Moderno. Il superamento di tale concezione, comunque non in rottura con quanto detto, sta nell’affermare che il valore
simbolico dell’opera architettonica travalica il mero
linguaggio espressivo della stessa, perché espressione
68
delle aspirazioni e delle condizioni materiali e morali di
un’epoca, di una società, di una città.
Pertanto la Torre Velasca e il grattacielo Pirelli non
costituiscono due poli opposti, due realtà antitetiche,
bensì incarnano alla perfezione entrambi il clima di una
città operosa, orgogliosamente capitale economica del
paese, entusiasta e desiderosa di identificarsi in nuovi
e più aggiornati immaginari, inebriata dal sogno metropolitano, dallo sviluppo e dall’ostentazione tecnologica,
ma anche sedotta dalla magia dell’arte contemporanea
e del design. Quale migliore simbolo quindi, del grattacielo, per identificare in modo esemplare la tensione
verso il cielo, il prometeico sforzo per annullare i vincoli
imposti dalla forza di gravità, la grandiosità costruttiva
propria dell’homo faber del XX secolo?
Entrambi generati dalla stessa critica al Movimento
Moderno, legati dall’attenzione, quasi maniacale, per
il disegno, armonico, frutto di una tradizione secolare, che si fa naturalmente forma. Entrambi concepiti
interiorizzando la città esistente e trascendendola in
nuove immagini, dove l’ispirazione metafisica si traduce in concretezza urbana, densa di risonanze mitiche,
accesa dalle misteriose valenze della memoria, nonché
da quelle della prefigurazione future, e attraversata
soprattutto da una comprensione profonda dell’essenza collettiva della città. Per questi stessi motivi le torri
fiorentine non potranno alzarsi più di quella gamberiniana (o poco più), e il grattacielo del Poggi non verrà
mai costruito. La città rigetta il grattacielo, non semplicisticamente perché sarebbe “un pugno in un occhio”,
bensì perché non ci si identifica. Sia che sia legato più
propriamente al contesto che lo circonda, sia che sia di
lucido e brillante acciaio, Firenze non sarà mai in grado
di accogliere un grattacielo nel suo centro. Perché le
volontà collettive, sociali, economiche, sono totalmen-
te diverse da quelle milanesi: non esiste il desiderio di
creare un’immagine contemporanea della città. Firenze
si riconosce città d’arte e di cultura (classica e non moderna), finita e conclusa, serrata nella sua introspettica
chiusura, che mal sopporta singolari acuti o voli pindarici che accentuino caratteri legati al progresso o che
guardino ad un futuro immaginifico troppo distante dal
proprio presente/passato.
Due identità, quella di Milano e quella di Firenze, diverse,
che si esprimono attraverso simboli, e che si costituiscono quindi attraverso architetture costruite, diverse. Ma
non è il linguaggio a definire queste differenze: linguaggi diversi possono rappresentare ugualmente, seppure
espressivamente in modo diverso, la stessa identità.
Concludo questo lungo paragrafo con la sintetica definizione di identità che Franco Purini ci offre nel suo La
misura italiana dell’architettura: «L’identità non è eterna e non è sempre la stessa. Anzi, è sempre la stessa
in quanto si modifica continuamente, definendosi non
in quanto conforme di sé ma come relazione dialettica con l’altro e con l’altrove. In altre parole, l’identità è
un progetto. Ciò significa che l’architettura italiana deve
misurarsi con tutte le altre culture, anche le più lontane, ma contestualmente al sottoporre ciò che introduce nel proprio tessuto a un rituale di appartenenza che
faccia sì che ciò che è esterno diventi, alla fine di un laborioso e inevitabile processo di elaborazione, necessario e interno. Tale processo passa per tre momenti:
il riconoscimento delle invarianti, la loro accettazione,
la creazione di un plusvalore differenziale rispetto a ciò
che è precedente. Si tratta di un lavoro difficile, non lineare ma tortuoso, tra l’altro non sempre premessa di
un risultato apprezzabile, un lavoro per parecchi motivi
dotato di zone oscure, ma nonostante tutto assoluta-
mente inevitabile. Senza di esso le opere prodotte non
riuscirebbero ad essere attribuite ad un luogo, né ad
una situazione. in poche parole non avrebbero consistenza. Interiormente sradicate si aggiungerebbero al
novero delle architetture magari ben costruite – e non
sono poche – ma che in fondo non valeva la pena di
costruire »10.
L’immagine di apertura – BBPR, Torre Velasca, Milano, 1951-58,
veduta del 2012 – e i relativi diritti, sono di proprietà dell’autore.
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Analogie e differenze della vicenda fiorentina con quella del
professionismo colto milanese
Firenze e Milano escono entrambe drammaticamente
mutilate dalla seconda guerra mondiale: minata nel suo
cuore pulsante la prima, bombardata a tappeto la seconda. Come abbiamo visto precedentemente, entrambe
si trovano di fronte alle problematiche legate alla ricostruzione e soprattutto alla ricucitura di quei tessuti,
adesso disgregati, del centro storico distrutto a brani.
Ma Milano, rispetto a Firenze, affronta il problema in
modo sostanzialmente diverso: la tragedia dei disastri
della guerra viene vista come una nuova, seppure dolorosa, risorsa, un’occasione di “catarsi”, un momento
di rigenerazione, caratterizzata dall’ormai tradizionale
apertura della città verso il nuovo. «La parte più viva
della cultura milanese non aspettò in silenzio che si rimettessero in moto gli ingranaggi della macchina sociale e politica per rivendicare la centralità del proprio
ruolo. Richiamò dunque un’ideale continuità con l’esperienza “interrotta” del razionalismo quale era stato
propugnato da Giuseppe Pagano, proponendosi come
punta operativa della futura classe dirigente: di conseguenza, imboccò la strada dell’impegno diretto, partecipando in prima persona all’attività politica e amministrativa, organizzandosi con propri strumenti associativi – il Movimento di studi per l’architettura (Msa) nel
1945 –; elaborando proposte – il piano AR del 1944 –;
stimolando il rinascere dell’iniziativa promozionale nel
vitale campo della comunicazione e della formazione
del dibattito architettonico»1.
Come per Firenze – sebbene anche a Milano gran parte
dell’impegno economico, politico, urbanistico e disciplinare della classe progettuale, si concentri sulla nuova
edificazione di quartieri satelliti di espansione – è interessante focalizzarsi sui singoli episodi, comunque caratterizzati del tema dell’abitazione, che rappresentano invece la rigenerazione puntuale di parti di tessuto
storico andate distrutte, o comunque edifici realizzati
in aree di saturazione, a stretto contatto con la trama
consolidata della città. Si nota subito, mettendo in parallelo le due situazioni coeve, come sia presente, a Milano, una produzione vastissima di edifici, prodotti da
una professionalità colta e attenta, la qualità dei quali è
diffusamente alta. Si assiste cioè ad una predominanza
del livello di costruzione medio-alto, rispetto al possibile “assolo”, che invece caratterizza l’eccellenza della
produzione fiorentina, “incastonata”, al contrario, in
un panorama costruttivo generale che tende invece ad
appiattirsi verso standard qualitativi mediamente inferiori a quelli milanesi. I nuovi interventi a Milano, salvo poche eccezioni, rappresentano posizioni culturali,
programmatiche e formali piuttosto allineate, tendenti
ad uniformarsi, sebbene con personali caratteri di moderato eclettismo, nel nome del corretto costruire, nel
superamento dialettico del “razionalismo”, piuttosto
che privilegiare la via plastica del gesto poetico unico e
irripetibile. Senza clamore, tacitamente, ma allo stesso
tempo pervicacemente, la via della qualità è ricercata in
«variazioni basate sull’esaltazione della materia, sulla
cordialità e l’indeterminazione delle forme, su un’empiria assunta come metafora di una condizione artigianale che costringe a produrre opere uniche dissimulate
sotto una patina di modestia»2.
A testimonianza di questa grande produzione, ad elevato tasso qualitativo, dal 1954 al 1959 vengono pubblicate, dall’editoria più alta e specializzata, numerose
raccolte di architetture realizzate nella nuova città, tra
le quali: Edifici Moderni in Milano (1954) di Piero Bottoni,
Milano Oggi (1957) di Gio Ponti, Nuove architetture a Milano (1959) di Roberto Aloi. Il tema condominiale ne è
protagonista indiscusso; campo di sperimentazioni e
confronti, la residenza borghese rappresenta infatti
71
una «sfida progettuale in linea con una modernità che
deriva naturalmente, oltre che dalle più recenti espressioni compositive, architettoniche e artistiche, anche, e
soprattutto, dalle nuove potenzialità strutturali e dalle
disponibilità di materiali sempre diversi su cui fare ulteriori ricerche. [...] L’attenzione alla struttura, alla flessibilità, all’industrializzazione e alla prefabbricazione, accompagnata dalle suggestioni derivanti dai movimenti
artistici di quegli anni, dall’astrattismo all’informale, si
esprimono in una serie di esperienze assolutamente
innovative»3. Se la specificità per eccellenza, caratteristica dell’architettura fiorentina, è la murarietà – la
massiccia massa muraria in cui è manifesta la prevalenza dei pieni sui vuoti – entro la quale scompaiono le
strutture portanti, siano anch’esse costituite dal semplice telaio in cemento armato, per gli episodi milanesi,
invece l’orditura portante costituita dal reticolo di pilastri e travi, siano essi in cemento, o in acciaio, diventano uno spartito su cui comporre le geometrie dei fronti,
una griglia da seguire, violare, accentuare, oppure negare, a seconda dell’effetto che si vuole ottenere o della
funzione – tra le diverse ospitate all’interno dell’involucro edilizio – che si deve sottolineare. Diretta conseguenza di questa tendenza compositiva, è un atteggiamento completamente diverso da quello fiorentino, rispetto alle aperture, non intese come “bucature” –
sfondamenti della densità muraria – bensì come superfici complanari con la facciata stessa. «Una volta il
rapporto di spazio tra muro e finestra si definiva “vuoto
e pieno”: pieno perché il muro era un solido, vuoto perché le finestre erano un buco... Oggi il muro non è più
un vero muro, un solido, un pieno: è una superficie, è
un rivestimento sopra uno scheletro di cemento armato, o di ferro, (un vuoto): la finestra oggi si è portata
avanti sul filo esterno, non è più fonda, e si è fatta gran72
de, prevalente... Con la finestra a filo (che riflette il cielo,
e il correre delle nubi e il giro del sole) il buco, il vuoto,
è scomparso, esiste un piano solo e solo il pieno, l’architettura è solo pieno, volume integrale: e l’architettura è
un cristallo, qua opaco e là trasparente. Il volume non è
più forato. Al rapporto vuoto e pieno è sostituito il rapporto opaco e trasparente. (E, contro il cielo, opaco e riflettente: i vetri a filo riflettono il cielo. Incielano l’Architettura)... Quando la nostra architettura si riduce, forzatamente, alle facciate, non architettiamo, impaginiamo le finestre nella facciata: facciamo dei Mondrian
con i cristalli»4. Così Gio Ponti esplicita la tensione progettuale – eredità di quella cultura razionalista che ancora si respira nel capoluogo lombardo, grazie alle lezioni immortali di Pagano di Terragni, di Lingeri, di Figini e Pollini – verso un’architettura basata sul primato
compositivo delle superfici e non dei volumi. Ne è
esemplare l’edificio per appartamenti e uffici in via Turati di Vito e Gustavo Latis. La scansione ritmica dei pilastri in cemento armato, rivestiti e impreziositi su due
lati da lastre di marmo, segna il piano terra in corrispondenza del grande svuotamento centrale, che rende permeabile il corpo di fabbrica e raggiungibile il giardino interno, si raddoppia verso la strada con una serie
di pilastri in acciaio che sostengono la lunga pensilina
che sottolinea tutto lo sviluppo dell’edificio e, al di sotto
della quale, sono ospitati le attività commerciali, si mostra, svuotata, nella sua completezza, nel primo piano
degli uffici, al di sopra dell’innesto della pensilina con il
volume principale, per poi scomparire sotto il cangiante rivestimento in tesserine di grès ceramico verde acqua – oggi sostituite da una finitura a intonaco della
stessa tonalità – delle facciate che corrispondono alle
abitazioni. Le finestre sono planari con la superficie
esterna della parete, i vuoti, in ombra come la sola par-
te sottesa alla profonda pensilina, coincidono esclusivamente con i tagli delle logge di servizio in cui si rilegge, portate alla luce, la struttura dei solai. Soltanto sul
retro assistiamo ad una eccezione alla rigorosa impostazione, dallo spiccato gusto metropolitano, del fronte
su via Turati. Infatti sul lato prospiciente il giardino interno, e sul quale si affacciano tutti gli ambienti di soggiorno delle abitazioni – mentre tutti gli ambienti di servizio sono dislocati sul lato della trafficata strada – si
aprono delle logge asimmetriche, dalle quali sbalzano
dei balconi nuovamente paralleli al fronte, che sfaccettano, inaspettatamente, il prospetto interno, rompendo la stereometria del volume e aprendolo verso il verde del giardino. Se nella Casa del Cedro di Giulio Minoletti il reticolo strutturale si legge chiaramente nel sistema ritmico delle ampie aperture centrali – affiancate
lateralmente da finestrature di dimensioni ridotte –
della facciata asimmetrica, completamente rivestita in
marmo di Candoglia, del blocco residenziale, nel condominio in via Legnano di Luigi Ghò, i pilastri portati in
facciata al piano terra, dopo aver slanciato il volume,
per l’altezza del basamento su due livelli – destinato a
negozi e uffici – annegano nella superficie, completamente rivestita di piastrelle verdi, della facciata. Sulla
facciata, leggermente incisi nel rivestimento murario, si
aprono due ordini di finestrature, differenziati per dimensioni delle aperture e scansione ritmica, che ricostituiscono la tripartizione “classica” – basamento, corpo, coronamento – assieme al piano attico arretrato,
completamente vetrato. Anche nel complesso polifunzionale di via San Marco di Vico Magistretti, orientato
verso il recupero e la reinterpretazione dei caratteri
della tradizione, non si perde occasione, attraverso l’apertura di profonde logge e lo svuotamento, in corrispondenza degli ultimi due piani, degli angoli, di de-
nunciare il telaio strutturale in cemento armato, sottolineando l’incrocio di travi e pilastri che spiccano, rivestiti in lastre di pietra, sul fondo color rosso dell’intonaco che riveste l’intero edificio. Si assiste così ad un singolare e provocatorio accostamento di elementi formali che oscillano, una volta verso la tradizione, e una
volta verso modernità – la copertura aggettante a falde
e gronda costante, l’orditura strutturale portata parzialmente a vista, l’intonaco rosso a richiamare, assieme alle accentuazioni in pietra, le cromie dell’antistante
chiesa di San Marco, le stette bifore, il piano terra libero
punteggiato dai pilastri, le bucature profonde delle
aperture e delle logge, il giardino pensile come elemento di connessione sopraelevato, raggiungibile con una
scala mobile esterna – che testimoniano un atteggiamento disinibito e scevro di sovrastrutture ideologiche,
comune ad una generazione di professionisti la cui
adesione «al linguaggio moderno era avvenuta senza
drammi, come scelta soprattutto tecnica e professionale, al di fuori di quella identificazione fra “etica” ed
“estetica”, ingenua ma sofferta, che aveva segnato la
generazione precedente»5. E’ interessante notare come
anche l’edificio di viale Mazzini di Tincolini e Del Bino, il
condominio più “meneghino” di Firenze, per una certa
attinenza a quanto finora evidenziato nelle coeve costruzioni milanesi, non rinunci di caricarsi di quelle caratterizzazioni locali quali il basamento in pietra con un
bugnato appena accennato, la copertura – seppure piana – aggettante verso la strada, la frammentazione delle ampie vetrate – definite dalla semplice maglia strutturale portata in avanti rispetto al filo del basamento –
in finestrature minute, fortemente segnate dal disegno
degli infissi in legno, ma soprattutto all’articolazione
plastica che frammenta, con uno sporto asimmetrico,
l’unitarietà planare della superficie, andando a ricreare
73
quel gioco di assemblaggi precedentemente descritto.
Nelle architetture milanesi la stereometrie dei volumi
vengono invece, nella maggior parte dei casi, mantenute intatte, linde, evitando frammentazioni, slittamenti
di piani e aggregazioni di volumi successivi, e si tende
ad accentuare piuttosto la canonica tripartizione verticale, avanzando i corpi centrali, svuotandone quelli intermedi di passaggio, sospendendo le coperture a sbalzo, ma sempre giocando sull’intera larghezza della facciata, coinvolgendo l’intera superficie, senza scarti verticali a ridurne l’estensione. Volumi caratterizzati da
geometrie rigorose e cromie scure, eredità della severità dei monumenti cittadini, tradizionalmente contraddistinti dall’uso del Ceppo di Grè, e del mattone. Caso
esemplare: casa Caccia Dominioni in piazza Sant’Amborgio. L’architetto, ricostruendo il palazzo di famiglia,
duramente colpito dai bombardamenti dell’agosto
1943, disegna un prospetto principale, che fronteggia
direttamente la basilica di Sant’Ambrogio, delimitato
da due logge – sorrette da esili colonne – che corrono
per l’intera lunghezza del fronte sospendendo, letteralmente, il corpo centrale dell’edificio e permettendone
una scansione delle aperture con un ritmo completamente diverso da quello del resto dell’edificio. Il prospetto laterale, su via S. Vittore, nella sua semplicità e
unitarietà di rivestimento, altro non è che un semplice
elemento di chiusura allo sviluppo longitudinale dell’edificio che avrebbe potuto allungarsi, con dinamiche
inalterate, all’infinito. Con discrezione e misura, con
continui richiami cromatici alla vicina basilica romanica,
con riferimenti linguistici alla tradizione lombarda e milanese, Caccia Dominioni compie una delicata operazione di “tassello” tesa al superamento del modello razionalista anticipando, di alcuni anni, i temi cari alla teoria delle preesistenze ambientali di Rogers. Allo stesso
74
modo, Michelucci, nell’edificio per abitazioni e negozi
INA in via Guicciardini a Firenze, articola la composizione del fronte principale nei tre registri canonici del “palazzo”, in contrapposizione al risvolto frontale su via
dello Sprone, interamente rivestito da lastre di pietra.
Ma l’impostazione tripartita – basamento, corpo, coronamento – è strumento di composizione anche per
opere decisamente di impostazione più sperimentale e
legate alla prefabbricazione, alla modularità, all’assemblaggio per parti, come il condominio in piazza della
Repubblica dei fratelli Latis. La ricerca sulla struttura,
sulla flessibilità e sulla industrializzazione, nonché le
suggestioni dei prolifici movimenti artistici del momento – dall’astrattismo all’informale – si materializzano in
quella che si può definire, a ragione, una icona della ricostruzione a Milano. Organizzato su una struttura in
cemento armato, lasciata in parte a vista nel basamento costituito dagli uffici, sospesi dai pilastri del piano
terra e da quelli che sostengono il corpo superiore, e
avvolti in un rivestimento in grès bruno fiammato che li
avvolge, l’edificio si caratterizza dall’aggetto del reticolo
metallico dei piani destinati alle abitazioni, entro cui si
imposta la libera disposizione dei bow-window, e si conclude con un terrazzo continuo e una soletta sospesa di
coronamento. I bow-window costituiscono, allo stesso
momento, un elemento di personalizzazione degli alloggi ma anche un espediente per dinamizzare il disegno della facciata e rappresentano, assieme alle molteplici scelte cromatiche del prospetto – e alle loro valenze espressive – un’aggiornata riflessione sull’astrattismo figurativo e una evidente volontà di superamento
del bianco razionalista. Se esperienze similari non si riscontrano a Firenze, se non in rarissimi casi, come
quello di via Guerrazzi di Pierluigi Spadolini che, su di
una struttura tradizionale in cemento armato, lavora
applicando in facciata pannelli composti da listelli ondulati di graniglia di pietra forte, impastata con resine
trasparenti, che definiscono, con la loro presenza, o
meno, i pieni e i vuoti, secondo una scansione ritmica
pressoché casuale, accentuata dai leggeri sfalsamenti
dei piani, è facile invece a Milano trovare molti altri
esempi, primo tra i quali il condominio in via Quadronno di Mangiarotti e Morassutti. Impostato su di un impianto tipologico a torre, e planimetricamente piuttosto movimentato e sagomato, si fonda su un principio
molto semplice, ma perfettamente flessibile, di soluzioni modulari per le tamponature esterne. La struttura
dei pilastri infatti, arretrata rispetto al filo esterno, permette, assieme al posizionamento del vano scale al
centro dell’edificio, una libera disposizione delle divisioni interne, nonché dell’involucro esterno che può
essere caratterizzato, in modo completamente indipendente da piano a piano, da appartamento ad appartamento, avvicendando, a completo piacere, pannelli ciechi in legno, serramenti o loggiati metallici. La
modularità esatta, basata su dimensioni piuttosto ridotte, degli elementi, i continui riferimenti cromatici e
materici, e l’essenza rampicante presente lungo il perimetro di ogni piano fa sì che, nonostante la potenziale
completa imprevedibilità dei prospetti, l’edificio sia caratterizzato da una chiara e raffinata composizione.
Alla base di tutte queste sperimentazioni sull’ambiente
flessibile e sulla personalizzazione dello spazio, le ricerche di Ponti sul delicato, e a lui molto caro, tema dell’abitare. «Gio Ponti è il protagonista di un rinnovamento
moderato ma progressivo, che passa attraverso la definizione della “casa all’italiana” espressa per la prima
volta nella serie di “case tipiche” in via De Togni e che
culmina nella “facciata espressiva” della casa manifesto
in via Dezza»6. Il condominio di via Dezza riassume in-
fatti, soprattutto nella propria residenza privata dell’ultimo piano, tutti i principi sviluppati negli anni da Ponti
e presentati, in versione dimostrativa, nell’alloggio
“uniambientale” alla X Triennale di Milano del 1954. La
facciata di ogni singolo appartamento può essere scelta accostando liberamente soluzioni scelte da un “abaco”, messo a disposizione dell’architetto, in una maglia
strutturale che diventa l’unico elemento fisso e ordinatore. Il risultato finale è una sovrapposizione di cellule
diverse, separate da un balcone continuo – il cui parapetto poteva essere comunque personalizzato liberamente, alternando le opzioni da “catalogo” – caratterizzate da cromie, ritmi, disposizioni e tipologia delle
aperture, completamente indipendenti l’uno dall’altro,
in dipendenza delle scelte degli inquilini, e in omaggio
alla vitalità caratteristica, secondo Ponti, della “casa
all’italiana”. Il piano attico – casa Ponti – è costituito da
un unico ambiente continuo, affacciato sul fronte, che
è possibile dividere a piacimento, da pareti a soffietto a
scomparsa. Pavimentato con piastrelle ceramiche che
formano un disegno a strisce diagonali, il grande volume “uniambientale” accoglie il campionario di tutte le
invenzioni d’arredo dell’architetto – la “finestra arredata”, i mobili “auto-illuminati”, le “pareti organizzate” – in
grado di sfruttare le pareti e le vetrate come enormi
arredi fissi, capaci, autonomamente, di accendersi di
luce propria, liberando tutto lo spazio per alloggiare i
pochi restanti arredi mobili essenziali. Attenzione, tutta
milanese, questa, rivolta verso la cura del dettaglio di
interni, che sancisce non solo il felice sposalizio tra disegno industriale e architettura, ma anche tra arte e
architettura, che entra, non solo – come precedentemente accennato – come eco figurativo o matrice programmatica, ma proprio come componente stessa del
disegno, soprattutto, degli interni. Ed è proprio negli
75
atri condominiali di ingresso, ambiente interno pubblico, biglietto da visita per eccellenza e simbolo della
qualità dell’intero stabile, che si assiste, oltre che ad
una approfondita cura delle scelte materiche e formali
degli elementi costituenti – la pavimentazione e le pareti dell’ingresso, la scala e il suo corrimano, il casellario
delle cassette della posta, lo spazio del portiere, l’accesso all’ascensore – a realizzazioni di vere e proprie opere
d’arte, pittoriche o scultoree, simbolo dello stretto legame, voluto e ricercato, venutosi a creare tra architetto e
artista, come nei casi di Minoletti con Antonia Tommasini, Caccia Dominioni con Francesco Somaini, o dei Latis con Roberto Sambonet e Lucio Fontana. Ricchezze e
attenzioni meticolose che invece non si ritrovano negli
atri fiorentini, trattati generalmente in modo piuttosto
semplice e sobrio – seppure sempre sapientemente
condotti dal punto di vista formale e spaziale – con concessioni che arrivano, al massimo, ad una casta boiserie in legno a tutt’altezza, al proseguimento del rivestimento esterno in pietra, su una delle pareti interne
dell’ingresso, al trattamento plastico del soffitto, con
sistema integrato di illuminazione, in gesso o legno.
Modularità, flessibilità interna degli spazi, libertà aggregativa dei fronti, non rientrano, in linea di massima, tra
le linee di ricerca dell’area fiorentina. Pochi gli esempi
che mettono in atto questi nuovi principi, tra questi gli
appartamenti in viale Mazzini di Jodice che prevedono,
almeno sulla carta, l’unitarietà degli spazi interni, in
prossimità delle numerose aperture del fronte, con setti appena accennati e pareti a soffietto – o tende – a
frazionare, eventualmente l’unico ambiente in più stanze. Molto più frequentemente si assiste ad una cura
estrema degli interni, generosamente definiti da elementi plastici formalmente e simbolicamente significativi, quali il camino, posto al centro dello spazio princi76
pale, elemento fisso e inamovibile ma in grado di gerarchizzare gli spazi che gli ruotano intorno e suggerire
utilizzi diversi per le diverse zone, come nel caso dell’edificio di via Guerrazzi di Spinelli o quello di via Piagentina di Savioli, dove l’elemento camino diviene pretesto
per creare un’articolazione complessa e articolata, sia
dello spazio, che dei volumi stessi che lo compongono,
oppure come nella soluzione proposta da Bega per viale Gramsci dove, mentre le camere sono serrate dietro
una massiccia e protettiva cortina lapidea, la zona giorno è liberamente articolata, illuminata da una serie
ininterrotta di ampie vetrate, intorno al camino, con la
possibilità di operare, con pareti scorrevoli, eventuali
provvisori frazionamenti. Metodologie progettuali che
non demandano ad una completa flessibilità spaziale data dal libero disporsi delle pareti interne e dall’eventuale fruibilità dell’intero volume vuoto – la possibilità
di personalizzare liberamente, assecondando bisogni e
necessità diverse, l’ambiente, bensì creando un nucleo
centrale fisso che, con la sua posizione – molto spesso
asimmetrica per generare spazi residui differenziati – la
sua articolazione e le sue interazioni con gli altri elementi architettonici, le sue caratteristiche materiche e
formali, genera, intorno a sé, spazi fortemente segnati
e caratterizzati, che stimolano risposte originali e nuove alle esigenze dell’abitare. Atteggiamenti che trovano
la loro espressione manifesta nel modulo prefabbricato
presentato da Savioli per la mostra, “La casa abitata”, allestita a Palazzo Strozzi nel 1965, e che risentono, più
che delle sperimentazioni pontiane, delle teorie e delle
opere di Frank Lloyd Wright esposte – sempre presso
Palazzo Strozzi – nella mostra del 1951 a lui dedicata, e
che tanto influenzeranno molti progettisti, a volte in
modo sottile, nel particolare, suggerendo, per esempio,
la soluzioni delle cartelle arretrate delle finestre alte, che
incidono superiormente tutto il fronte interno degli appartamenti in San Frediano di Gizdulich, a volte in modo
più eclatante, nell’impostazione di base, ispirando una
serie di piani sfalsati indipendenti e aggettanti che si allargano, sporgendo, in ogni direzione, diventando il
tema conduttore del progetto di piazza Conti di Ugo Saccardi, omaggio urbano alla famosa casa Kaufmann.
Due casi a parte, nel quadro generale della vicenda
abitativa milanese, sono costituiti dalle opere mature
di Mario Asnago e Claudio Vender per un verso, e da
quelle di Luigi Moretti, per un altro. Nel condominio XXI
Aprile, in via Lanzone, Asnago e Vender danno prova di
un linguaggio che, superate le matrici razionaliste sulle
quali si erano formati, sfocia in una sorta di – usando
le parole di Fulvio Irace – “iperrazionalismo aniconico”.
L’edificio sorge in una delle zone più antiche del centro
storico di Milano e va a occupare l’area della distrutta Casa dei Panigarola (conosciuta per gli affreschi del
Bramante, oggi conservati alla Pinacoteca di Brera), in
diretta adiacenza al cinquecentesco palazzo Visconti
(poi Abbiate). La delicata operazione di ricucitura del
tessuto urbano viene affrontata con estrema disinvoltura, senza venire a compromessi, né trasgredendo la
poetica espressiva propria degli autori: la libertà geometrica nei prospetti, la sintassi dello “scarto” applicata
su volumi stereometrici anodini, le sofisticate alterazioni dimensionali delle finestre e dei loro ritmi, il rigoroso
controllo del disegno espressivo. La quinta prospettica
viene ricostituita con la semplice interposizione di un
volume nitido, di pochi piani, destinato ad uffici, che si
accosta, eguagliandone l’altezza, al palazzo Visconti – risparmiato dai bombardamenti – mentre il corpo principale delle abitazioni si eleva, in altezza, perpendicolarmente alla strada, secondo un impianto planimetrico a
T. «La contiguità, ed eventuale continuità, di un tessuto
storico è sentita come una pura condizione materiale,
fenomenica, più che come un dovere di imitazione linguistica. [...] Asnago e Vender non sembrano toccati da
alcun desiderio di rapporto mimetico con le preesistenze di diretta assonanza figurativa. [...] Così l’impaginazione a bandiera di finestre di calibro diverso sancisce
al contempo la diversità dell’ipotesi neoclassica e la costante sottile presenza di una regola, poi contraddetta
“a senso” dove necessario. Nella città, l’effetto finale di
queste calcolate alterazioni non viene percepito tanto
come scardinamento di un ordine formale, quanto sinteticamente come una forte impressione di “naturalezza”. Gli edifici di Asnago e Vender riescono sempre ad
evitare il carattere meccanico e ripetitivo della composizione razionalista, effetto collaterale del puro impilamento di cellule tipo. Pur nella loro spiccata alterità
formale, essi appaiono spesso insolitamente continui
agli edifici della città preottocentesca, quasi la loro sintassi libera generasse quella sorta di patina delle cose
“trovate” piuttosto che “fatte”»7.
Negli stessi anni, un piano particolareggiato per la ricostruzione della zona adiacente a Corso Italia, in pieno centro storico, propone un nuovo modello urbano,
impostato su alti blocchi edilizi e composto da aree
funzionali diversificate. E’ nella progettazione di questo
complesso polifunzionale che Moretti regala a Milano uno degli episodi plastici più potenti e significativi
dell’architettura italiana di quegli anni. «Circondato dal
gelo di un significativo silenzio, Luigi Moretti toccherà i
vertici di un sofisticato, sapiente espressionismo astratto, pronto a sconfinare, in occasione di più impegnativi programmi edilizi [si parla proprio del complesso di
Corso Italia], in una surreale contestazione dell’ibrido
understatement lombardo»8. L’intero complesso è trattato con estrema unitarietà, sebbene ogni singola unità
77
sia ben definita attraverso una netta caratterizzazione
di forma, altezza, orientamento e differenti soluzioni
di facciata. Ma è intorno al blocco destinato agli uffici
che, in realtà, si svolge l’intero sistema: la chiglia massiccia e aguzza di un transatlantico, precipitato chissà
da dove, e la cui caduta si è arrestata sul blocco edilizio
orizzontale sottostante, deformandolo, rimasta pericolosamente sospesa e incombente sulla strada. “Ah, stu
naufragio dint’a Melano senza na varca e pure senza
o’mare” canta Paolo Conte, trasformando in poesia le
difficoltà di un’amara integrazione difficile da perseguirsi e da realizzarsi. E come un enorme vascello incagliato lontano dal mare, o come un naufrago senza
una nave, che mal sopporta il lido in cui ha dovuto far
approdo, il progetto di Moretti dimostra una volontà di
affermazione del gesto impertinente e disinibito, che
ha fatto tendere la critica a rilevare in questo, ma più
in generale in quasi tutti i suoi interventi, il carattere
di «apparizione», di fatto staccato dal tessuto urbano,
di oggetto anti urbanistico, impegnato a dimostrare il
compiacimento nel respingere la consuetudine del discorso della città, nel negare ogni possibile relazione
con gli altri linguaggi. Il carattere iconico dell’edificio,
la sua qualità simbolica, l’espressività della sua forma
– impostata su di un impianto planimetrico rigoroso –
prevalgono rispetto agli aspetti tecnologici e funzionali,
nonché a quelli ambientali e di integrazione, rispetto
al tessuto storico all’interno del quale viene concepito.
In sintesi, se in generale, a Milano, la progettazione –
fatta eccezione quella che demanda ad una aggregazione casuale degli spazi e dei suoi involucri, comunque sempre all’interno di una stretta maglia ordinatrice
che tiene unita l’intera composizione – si basa su di una
ricerca formale aprioristica, che si impone sulla composizione progressiva per parti, tesa costantemente al
78
raggiungimento di una forma predefinita, tramite il rigido controllo geometrico, le sue regole, ma anche le sue
leggere, calcolate e, sapientemente dosate, eccezioni,
a Firenze prevale il metodo di scomposizione e di riassemblaggio della parti costituenti il manufatto architettonico, il generare i volumi, le forme, dal sommarsi
degli spazi, dal loro susseguirsi in pianta, o dal loro sovrapporsi in sezione. Processo che prende vita dalle ricerche di natura semiologica di Gamberini che paragona l’architettura ad un articolato linguaggio composto
da segni – elementi architettonici con caratteristiche
formali, espressive, aggregative e simboliche proprie –
e regolato da codici “grammaticali” e “sintattici”. Questo
modello semiotico-strutturale consente di generare,
senza un’immagine prestabilita da raggiungere, un’architettura compiuta, in cui l’equilibrio compositivo non
è dettato dalla geometria, bensì dal controllo formale,
inteso come padronanza grammaticale degli elementi
e capacità sintattica di relazione tra gli stessi. Si assiste
così alla genesi di una architettura non fatta di volumi
– ovvero chiusa in essi – ma generata dall’aggregazione
di volumi, di forme, o meglio, di spazi. Viene compiuto,
in questo senso, uno scarto mentale per cui in primo
piano si pone la vita dell’uomo – con le sue dinamiche,
le sue problematiche, ma anche le sue esigenze – che
non può essere “inscatolata” in forme pre-assegnate,
bensì deve essere la vita stessa a modellare gli spazi, a
configurarli rispetto alle proprie necessità, a sagomarle
a propria immagine e somiglianza. Lezione, questa, che
Michelucci ci lascia come eredità profonda, ancora oggi
attuale e, senza dubbio, ancora valida, se si pensa al
ritorno di un formalismo espressivo privo di umanità,
esaltato dall’utilizzo della modellazione al computer e
dei render, equivalenti moderni di quelle prospettive
che Michelucci professore proprio non amava avere
tra le mani, nell’analizzare il progetto di uno studente.
Lezione che ricordiamo attraverso le parole affettuose
di Koenig concludendo, in modo comunque caustico,
da buoni fiorentini quali siamo: «Durante i suoi anni
di insegnamento non l’ho visto guardare che piante e
sezioni. Il resto non lo interessava, e se un allievo gli
portava una prospettiva, come suol dirsi, “arruffianata”,
Michelucci perdeva la calma, le sue labbra diventavano
una riga sottile e immobile, e non aveva pace fin che
non vedeva sparire la prospettiva dal tavolo. [...] Egli
“leggeva” le piante e le sezioni come matrici di un organismo, come generatrici di spazi, come cavità suscitatrici di sensazioni, di comportamenti; sempre iniziando
la lettura, quindi, dall’interno, cioè dalla funzione che
diveniva spazio e, solo in ultima ipotesi, forma. [...] Con
questo non si nega affatto che vi possano essere varie
strade per arrivare all’architettura, perché quando un
architetto è bravo, abile e paziente può permettersi di
progettare come Adolfo Coppedé, il quale cominciava
a disegnare dal parafulmine, e scendeva senza ripensamenti fino alla linea di terra. La pianta veniva dopo,
come fatto secondario; Sua Eccellenza Brasini, poi, disegnata una facciata, diceva: “Ora chiamo un cretino di
ingegnere a far la pianta...”»9.
L’immagine di apertura – Mangiarotti e Morassutti, condominio in
via Quadronno, 24, Milano, 1959-60, veduta del 2012 – e i relativi
diritti, sono di proprietà dell’autore.
79
Note
Premessa propedeutica all’analisi dei
caratteri della specificità fiorentina
1 G. Klaus Koenig, Architettura in Toscana, 1931-1968,
ERI Edizioni Rai, Torino, 1968, pp. 14-15
2 K. Lynch, L’immagine della città, Marsilio, Padova, 1964, p. 104
3 AAVV, La città di Padova, Officina, Roma, 1970, p. 19
4 L.B. Alberti, L’architettura (De Re Aedificatoria),
Il Polifilo, Milano, 1966, Libro IV, Capitolo I
5 C. Marx, Forme economiche precapitalistiche, Roma, 1967, pp. 80-81
6 A. Rossi, L’architettura della città, Marsilio, Padova, 1966, pp. 56-58
7 P. Iannone, Composizione architettonica, S. Marco, Lucca, 1993, p. 104
8 M. Tafuri, Teorie e storia dell’architettura, Laterza, Bari, 1968, pp. 25-26
I caratteri della specificità fiorentina, letti
attraverso la loro interpretazione come
elementi costituenti del linguaggio compositivo dei diversi casi studio
1 G. Klaus Koenig, Architettura in Toscana, 1931-1968,
ERI Edizioni Rai, Torino, 1968, p. 1
2 G. Fanelli, B. Mazza, La casa colonica in Toscana, le fotografie di Pier
Niccolò Berardi alla Triennale del 1936, Octavo, Firenze, 1999, p. 16
3 S. Greco, L’officina radiotelevisiva di Firenze, in “L’architettura, cronache e storia”, 1969, n.168, pp. 357-366
4 AAVV, Leonardo Savioli: il segno generatore di forma-spazio, Edimond,
Firenze, 1995, pp. 120-121
La Torre come elemento simbolico,
qualificante, e unità semantica del linguaggio architettonico fiorentino
1 E. Detti, Firenze scomparsa, Vallecchi, Firenze, 1970, p. 109
2 G. Morozzi, Interventi di restauro, Bonechi, Firenze, 1979, p. 11
3 E. Detti, Concorso per il piano di ricostruzione, in Urbanistica, n. 12,
1953, p. 66, nota 1
4 AA VV, I Piani di ricostruzione post-bellici nella provincia di Firenze,
Franco Angeli, Milano, 2000, p. 51
5 F. Borsi, Giovanni Michelucci, LEF, Firenze, 1966, p. 89
6 AAVV, Urbanistica (numero monografico sul Piano Regolatore di
Firenze), n.12, 1953
80
Due torri medioevali, un grattacielo come un cristallo ed uno solo immaginato.
Ovvero, osservazioni sull’equivoco italiano dell’aut aut: tradizione o innovazione
1 E. Godoli, Il futurismo, Laterza, Bari, 1983, p. 165
2 G. Ponti, Amate l’architettura, Vitali e Ghianda, Genova, 1957, p. 60
3 E.N. Rogers, Esperienza dell’architettura, Einaudi, Torino,1958, pp. 252, 272
4 M.G. Errico, Tra razionalismo e continuità, Aracne, Roma, 2012, p. 10
5 G. Samonà, Il grattacielo più discusso d’Europa: La Torre Velasca, in
“L’Architettura cronache e storia”, 1950, n.40, pp. 659-674
6 G.M. Kallmann, Modern tower in old Milan, in “Architectural Forum”,
1958, n.2, pp. 109-111
7 G. Klaus Koenig, Architettura in Toscana, 1931-1968,
ERI Edizioni Rai, Torino, 1968, pp. 124-25
8 Daniela Petrone, Italo Gamberini, Alinea, Firenze, 2010, p. 231
9 F. Purini, La misura italiana dell’architettura, Laterza,
Roma-Bari, 2008, pp. 19-20
10 Ivi, p. 149
Analogie e differenze della vicenda fiorentina con quella del professionismo colto milanese
1 AAVV, Storia dell’architettura italiana, a cura di Francesco Dal Co,
Electa, Milano, 1997, Vol II, Il secondo Novecento, p. 58
2 M. Tafuri, Storia dell’architettura italiana 1944-1985,
Piccola Biblioteca Einaudi, 1985, p. 38
3 M.V. Capitanucci, Itinerari di architettura milanese - Il professionismo
colto nel dopoguerra, Ordine e Fondazione dell’Ordine degli Architetti
di Milano, p. 7
4 G. Ponti, Amate l’architettura, Vitali e Ghianda, Genova, 1957, pp. 139-140
5 M. Grandi, A. Pracchi, Milano. Guida all’architettura moderna, Zanichelli, Bologna, 1980, p. 282
6 P. Brambilla, Itinerari di architettura milanese - Il condominio milanese, Ordine e Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Milano, p. 2
7 Cino Zucchi, Asnago e Vender, Skira, Milano, 1999, pp. 27, 33
8 AAVV, Storia dell’architettura italiana, a cura di Francesco Dal Co,
Electa, Milano, 1997, Vol II, Il secondo Novecento, p. 68
9 G. Klaus Koenig, Architettura in Toscana, 1931-1968,
ERI Edizioni Rai, Torino, 1968, p. 76
APPARATO ICONOGRAFICO
Premessa propedeutica all’analisi dei caratteri della specificità fiorentina
1 Lawrence Halprin, Italo Castore (coordinatori) Bruno Zevi, Luca Zevi, Sara
Rossi (piano particolareggiato) Leonardo Ricci (piano particolareggiato
municipale) Roberto Gabetti e Aimaro Isola, Richard Rogers, Walter Di Salvo,
Iginio Cappai e Pietro Mainardis, Luigi Pellegrin, Gunnar Birkerts, Aldo Loris
Rossi, Ralph Erskine, Piero Paoli, Leonardo Ricci (progettisti) Laurence Halprin
(paesaggista) piano particolareggiato dell’area di Novoli (1987-88)
2 L. Ricci e P. Dallerba, piano particolareggiato dell’area di Novoli (1989)
82
4 R. Gabetti e A. Isola, piano e progetto per il parco nell’area di Novoli (2000)
3 Léon Krier, lineamenti per il piano guida di Novoli (1993)
5 Veduta zenitale del plastico dell’area di Novoli (2002)
6 Veduta, dalla terrazza del Palazzo di Giustizia, dei prospetti sul parco (2009)
83
I caratteri della specificità fiorentina, letti attraverso la loro interpretazione come elementi costituenti del linguaggio compositivo dei diversi casi studio
7 Scorcio dei fronti delle strade interne del complesso di Novoli
8 Scorcio dei fronti delle strade interne del complesso di Novoli
9 Scorcio dei fronti delle strade interne del complesso di Novoli
10 Scorcio dei fronti delle strade interne del complesso di Novoli
84
11 Veduta di Palazzo Pandolfini da via Salvestrina
85
13 Veduta dei fronti su piazza Tasso
12 Scorcio dei fronti su via di Camaldoli
86
14 Scorcio dei fronti su via della Chiesa
16 G. Stradano, Palazzo Vecchio, sala della Gualdrada: P.zza S. Spirito
15 Masaccio, Cappella Brancacci, particolare dell’affresco (1426)
17 G. Stradano, Palazzo Vecchio, sala della Gualdrada: P.zza S. Croce
87
19 Cerchia di Bernardino Poccetti , disegno con veduta di strada fiorentina
18 Disegno di una bottega in via Por S. Maria (1709)
88
20 Sporti sull’Arno delle case di via de’ Bardi prima delle distruzioni belliche
21 Scorcio dei fronti con sporto su piazza Santa Croce
22 Scorcio dei fronti con sporto su via dei Vagellai
23 Scorcio dei fronti con sporto su via della Canonica
89
25 L’altana di Palazzo Davanzati
24 Scorcio dei tetti di borgo Albizi
90
26 Scorcio dell’altana sull’angolo tra via della Ninna e via dei Leoni
27 Arch. G. Patrini, prospetto sull’Arno di borgo San Jacopo. Il progetto presentato nell’aprile del 1957 su incarico della
S. Leonardo srl edilizia immobiliare in rappesentanza dei proprietari dei sei lotti centrali, non ottiene approvazione
28 Borgo San Jacopo, i fronti sull’Arno (2011)
91
La Torre come elemento simbolico, qualificante, e unità semantica del linguaggio architettonico fiorentino
30 G. Michelucci, Direzione provinciale delle Poste, 1959-67 (veduta, 2012)
29 Veduta della torre Donati in piazza San Pier Maggiore
92
31 G. Michelucci, Sede della SIP, 1960-65 (veduta da via Masaccio, 2012)
32 Veduta aerea della zona distrutta all’imbocco nord di Ponte Vecchio
33 Le torri degli Amidei e dei Baldovinetti tra le macerie di via Por Santa Maria
34 La torre dei Barbadori in borgo San Jacopo dopo le distruzioni
93
35 G. Michelucci, schizzi prospettici per la ricostruzione di via Por Santa Maria
36 G. Michelucci, schizzi prospettici per la ricostruzione di via Por Santa Maria
39 G. Michelucci, proposta per l’accesso alla via de’ Bardi da Ponte Vecchio
40 G. Michelucci, schizzo per la ricostruzione di via de’ Bardi
37 G. Michelucci, proposta per l’angolo tra lungarno Acciaiuoli e via Por. S. Maria
38 G. Michelucci, fronte sull’Arno di via de’ Bardi e collegamento al fiume
41 G. Michelucci, proposta per l’accesso alla via de’ Bardi da Ponte Vecchio
42 G. Michelucci, collegamento di borgo San Jacopo con l’Arno
94
95
43 G. Michelucci, studi per la ricostruzione di borgo San Jacopo
44 G. Michelucci, studi per la ricostruzione di borgo San Jacopo
45 G. Michelucci, studi per la ricostruzione di borgo San Jacopo
46 G. Michelucci, studi per la ricostruzione di borgo San Jacopo
96
47 “Città sul fiume”, relazione 2 di progetto, per il concorso della ricostruzione
97
48 “Città sul fiume”, relazione 3 di progetto, per il concorso della ricostruzione
50 “I Ciompi”, prospettiva della strada pensile di via Por S. Maria (lato ovest)
98
49 “I Ciompi”, prospettiva della strada pensile di via Por S. Maria (lato est)
51 “I Ciompi”, veduta da Ponte Vecchio di borgo San Jacopo
99
Due torri medioevali, un grattacielo come un cristallo ed uno solo immaginato. Ovvero, osservazioni sull’equivoco italiano dell’aut aut: tradizione o innovazione
note
1 G. Ponti, Amate l’architettura, Vitali e Ghianda, Genova, 1957
53 G. Ponti, grattacielo Pirelli, 1956-1960 (veduta, 2012)
«Non c’è – il tempo ce lo fa capire – una verità, né la
verità: di ogni cosa ci sono due verità, specie in quest’epoca straordinaria nella quale tutto si trasforma e tutto
(ecco già le due verità di una realtà) resta eterno nell’eterno fluire del tempo, fattore immutabile, ed eterno
proprio perché si muta, perché si trasforma continuamente; transuente [...] esistono sempre, idealmente
(almeno) due verità, la realtà è il drammatico conflitto
della loro coesistenza perenne [...] noi dobbiamo rappresentarci questa ambivalenza; salvo figurarci poi il
nostro ideale, abbandonarci alla nostra preferenza, alla
nostra parzialità: ma sempre nella consapevolezza del
contrario; questa la regola del buon gioco [...] e’ onesto
però che la contraddizione non sia un’arma veritas, per
rappresentare meglio a noi stessi le cose, nei due (o
più) aspetti della realtà: loro coesistenza. [...] del resto
ognuno ha una sua interpretazione diversa di quel che
legge o conosce: questa interpretazione è la sua verità:
infinità verità, dunque: questa è la mia, o le mie »1.
52 C.A. Poggi, grattacielo in acciaio per la ricostruzione di Por S. Maria
100
54 G. Ponti, grattacielo Pirelli, Milano, 1956-1960 (veduta, 2012)
Gio Ponti
55 G. Ponti, grattacielo Pirelli, Milano, 1956-1960 (veduta, 2012)
56 G. Ponti, grattacielo Pirelli, Milano, 1956-1960 (slogan grafico dell’edificio)
101
58 Scorcio del Castello Sforzesco, Milano (2012)
57 BBPR, Torre Velasca, Milano, 1951-58 (veduta, 2012)
102
59 Scorcio di Palazzo Vecchio, Milano (2012)
60 I. Gamberini, torre per uffici in via Alamanni, Firenze, 1957 (veduta, 2012)
61 BBPR, Torre Velasca, Milano 1951-58 (veduta, 2012)
103
Analogie e differenze della vicenda fiorentina con quella del professionismo colto milanese
62 BBPR, Torre Velasca, Milano, 1951-58 (veduta, 2012)
104
63 De Finetti, rilievo del centro di Milano, a seguito dei bombardamenti aerei subiti soprattutto nell’agosto 1943
105
67 G. Minoletti, Casa del Cedro, Milano 1951-57 (veduta, 2012)
64 V. e G. Latis, via Turati, 7, Milano, 1953-55 (veduta, 2012)
65 V. e G. Latis, via Turati, 7, Milano, 1953-55 (veduta, 2012)
106
66 G. Minoletti, Casa del Cedro, Milano, 1951-57 (veduta, 2012)
68 L. Ghò, via Legnano, 4, 6, 8, Milano, 1956-57 (veduta, 2012)
69 L. Ghò, via Legnano, 4, 6, 8, Milano, 1956-57 (veduta, 2012)
107
70 V. Magistretti, piazza San Marco, Milano, 1969-71 (veduta, 2012)
71 V. Magistretti, piazza San Marco, Milano, 1969-71 (veduta, 2012)
108
73 L. Caccia Dominioni, piazza Sant’Ambrogio, Milano, 1947-49 (veduta, 2012)
72 L. Caccia Dominioni, piazza Sant’Ambrogio, Milano, 1947-49 (veduta, 2012)
74 V. e G. Latis, piazza della Repubblica, 11, Milano, 1953-56 (veduta, 2012)
75 V. e G. Latis, piazza della Repubblica, 11, Milano, 1953-56 (veduta, 2012)
109
77 Mangiarotti e Morassutti, v. Quadronno, 24, Milano, 1959-60 (veduta, 2012)
76 Mangiarotti e Morassutti, v. Quadronno, 24, Milano, 1959-60 (veduta, 2012)
110
78 G. Ponti, via Dezza, 49, Milano, 1956-57 (veduta, 2012)
80 G. Ponti, alloggio uniambientale alla X Triennale di Milano (1954)
79 G. Ponti, via Dezza, 49, Milano, 1956-57 (veduta, 2012)
81 G. Ponti, alloggio uniambientale alla X Triennale di Milano (1954)
111
82 L. Moretti, Corso Italia, Milano, 1948-50
83 Asnago e Vender, Casa XXI Aprile, v. Lanzone, 4, Milano, 1950-53 (veduta, 2012)
112
85 L. Savioli, modulo prefabbricato per “La casa abitata” (Palazzo Strozzi, 1965)
84 Asnago e Vender, Casa XXI Aprile, v. Lanzone, 4, Milano, 1950-53 (veduta, 2012)
86 L. Savioli, modulo prefabbricato per “La casa abitata” (Palazzo Strozzi, 1965)
87 L. Savioli, modulo prefabbricato per “La casa abitata” (Palazzo Strozzi, 1965)
113
Referenze iconografiche
Le fotografie (6-14, 21-26, 28-31, 57-62, 64-79, 83, 84, pp. 81-84, 8790, 100-102, 104-110) e i relativi diritti, sono di proprietà dell’autore.
I disegni e le fotografie (1-5, pp. 80-81) sono tratti da:
Novoli, la nuova architettura italiana a Firenze, allegato a “Casabella”,
n. 703, 2002, pp. 10-11, 13.
Le immagini (15-17, p. 85) sono tratte da: Gian Luigi Maffei, La casa
fiorentina nella storia della città dalle origini all’ottocento, Marsilio,
Venezia, 1990, pp. 41, 44-45.
I disegni e la fotografia d’epoca (18-20, p. 86) sono tratti da: A.
Schiaparelli, La casa fiorentina e i suoi arredi nei secoli XIV e XV, Le
Lettere, Firenze, 1983, Appendice pp. 33-35.
I disegni e le fotografie d’epoca (27, 32, 33, 35-41, 43, 45-51, pp.
89, 91-97) sono tratti da: Osanna Fantozzi Micali, Alla ricerca della
Primavera, Alinea, Firenze, 2002, pp. 30, 76, 91-92, 120, 131, 140,
157-158, 160.
I disegni e le fotografie d’epoca (34, 44, pp. 91, 94) sono tratti da:
AAVV, OPUS INCERTUM, 6-7, “Costruzioni e ricostruzioni dell’identità
italiana”, Anno IV-V, 2009-2010, Polistampa, Firenze, 2002, pp. 89, 93.
Il disegno (52, p. 98) è tratto da: AA VV, Firenze 1945-1947, i progetti
della ricostruzione, Alinea, Firenze, 1995, p. 15.
Le fotografie (53-55, pp. 98-99) e i relativi diritti, sono di proprietà
della dott.ssa Corinna Del Bianco.
Il disegno (56, p. 99) è tratto da: P. Cevini, Grattacielo Pirelli, NIS,
Roma, 1996, p. 95.
Le fotografie d’epoca (80, 81, p. 98) sono tratti da:
Alloggio uniambientale alla Triennale, in “Domus”,
n. 301, 1954, pp. 31-35.
Le immagini (63, 82 pp. 103, 110) sono tratte da: G. Gramigna, S.
Mazza, Milano. Un secolo di architettura milanese dal Cordusio alla
Bicocca, Hoepli, Milano, 2001, pp. 202, 254.
Le immagini (85, 86, p. 111) sono tratte da: AA VV, La casa abitata:
Biennale degli interni di oggi. Firenze, Palazzo Strozzi 6 marzo-25 aprile
1965, Canevari, Milano, 1965, pp. 54-55.
88 L. Savioli, modulo prefabbricato per “La casa abitata” (Palazzo Strozzi, 1965)
Le fotografie d’epoca (87, 88, p. 111-112) sono tratte da: AAVV,
Leonardo Savioli: il segno generatore di forma-spazio, Edimond,
Firenze, 1995, pp. 132-133.
115
Bibliografia essenziale
generale
Gio PontiAmate l’architettura
Vitali e Ghianda, Genova, 1957
Ernesto Nathan Rogers
Esperienza dell’architettura
Einaudi, Torino,1958
Leonardo BenevoloStoria dell’Architettura Moderna, 4 - Il dopoguerra
Laterza, Roma-Bari, 1960
Kevin Lynch L’immagine della città
Marsilio, Padova, 1964
Aldo RossiL’architettura della città
Marsilio, Padova, 1966
Leon Battista Alberti L’architettura (De Re Aedificatoria)
Il Polifilo, Milano, 1966
Manfredo Tafuri Teorie e storia dell’architettura
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AA VVLa città di Padova
Officina, Roma, 1970
Carlo Cresti Appunti storici e critici sull’architettura italiana, 1900 ad oggi
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Bruno ZeviStoria dell’Architettura Moderna, volume II
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Claudia Conforti1944-1994
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Manfredo TafuriStoria dell’Architettura Italiana, 1944-1985
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117
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Francesco Dal Co
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Paolo Iannone Composizione architettonica
S. Marco, Lucca, 1993
Loris Macci Nuove stagioni della città: progetti e architetture
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Emilia MuselliLo spazio della casa in Italia (1940-1960)
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Marsilio, Venezia, 1995
A cura di Francesco Dal Co Storia dell’architettura italiana.
Vol II, Il secondo Novecento
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Vol I - Lettura dell’edilizia di base
Marsilio Editori, Venezia, 1999
Hans Bernoulli La città e il suolo urbano
Corte del Fontego, Venezia, 2006
Antonio Piva, Elena Cao
La casa: evoluzione dal 1950 a oggi
Gangemi, Roma, 2007
Franco Purini La misura italiana dell’architettura
Laterza, Roma-Bari, 2008
Eugenia Lopez Reus Ernesto Nathan Rogers, continuità e contemporaneità
Christian Marinotti, Milano, 2009
Antonino Saggio Architettura e modernità
Carocci, Roma, 2011
Maria Gabriella Errico, Tra razionalismo e continuità,
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Aracne, Roma, 2012
Antonio D’AuriaArchitettura e arti applicate negli anni Cinquanta
Marsilio, Venezia, 2012
118
in riferimento al contesto fiorentino
Gianfranco MuscoLa ricostruzione della zona del Ponte Vecchio
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Catalogo della mostra
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Firenze, Palazzo Strozzi 06/03 - 25/04 1965
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Giovanni Klaus Koenig
Architettura in Toscana, 1931-1968
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Edoardo Detti Firenze scomparsa
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Pier Luigi Bosi, Carlo Natali Metodologia del risanamento urbanistico nel centro storico di Firenze
(collana di studi sui problemi urbanistici del territorio fiorentino)
Provincia di FI, 1975
AA VVFirenze: la questione urbanistica; scritti e contributi (1945-1975)
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Mariella ZoppiFirenze e l’urbanistica: la ricerca del piano
Edizioni delle Autonomie, Roma, 1982
Attilio SchiaparelliLa casa fiorentina e i suoi arredi nei secoli XIV e XV
Le Lettere, Firenze, 1983
Grazia Gobbi SicaItinerari di Firenze Moderna
Alinea, Firenze, 1987
Gian Luigi Maffei La casa fiorentina nella storia della città dalle origini all’ottocento
Marsilio, Venezia, 1990
Gabriella Orefice Da Ponte Vecchio a Santa Croce; piani di risanamento a Firenze
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AA VVFirenze 1945-1947, i progetti della ricostruzione
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119
Enrico BouglexColloqui con la città; temi urbanistici per Firenze
Polistampa, Firenze, 1999
AA VV I Piani di ricostruzione post-bellici nella provincia di Firenze
Franco Angeli, Milano, 2000
Ezio GodoliArchitetture del Novecento: la Toscana
Polistampa, Firenze, 2001
Fabrizio Rossi Prodi
Carattere dell’architettura toscana:
il pensiero compositivo nella scuola di Firenze
Officina, Roma, 2003
AA VVFirenze, architettura città paesaggio
Mancosu, Roma, 2006
Atti del Convegno di Studi
La facoltà di architettura di Firenze
Firenze, 29-30 04 2004
fra tradizione e cambiamento
Firenze University Press, Firenze, 2007
A cura di Elisabetta Insabato Guida agli Archivi di Architetti e Ingegneri
e Cecilia Ghellidel Novecento in Toscana
Edifir, Firenze, 2007
Fabio CapanniDi alcune figure e caratteri dell’edilizia residenziale in Toscana
Noèdizioni, Forlì, 2008
Fabio FabbrizziOpere e progetti di Scuola Fiorentina, 1968-2008
Alinea, Firenze, 2008
AA VVOPUS INCERTUM, 6-7
“Costruzioni e ricostruzioni dell’identità italiana”
Anno IV-V, 2009-2010
Polistampa, Firenze
AA VVL’architettura in Toscana dal 1945 a oggi
Alinea, Firenze, 2011
Aldo FaviniMedioevo nascosto a Firenze
Editori dell’Acero, Firenze, 2012
120
in riferimento al contesto milanese
Piero Bottoni Edifici moderni in Milano
Editoriale Domus, Milano, 1954
Maurizio Grandi, Milano.
Attilio PracchiGuida all’architettura moderna
Zanichelli, Bologna, 1980
Antonio PivaBBPR a Milano
Electa, Milano, 1982
Fulvio IraceGio Ponti. La casa all’italiana
Electa, Milano, 1988
Lisa Licitra PontiGio Ponti: l’opera
Leonardo, Milano, 1990
Serena Maffioletti
BBPR
Zanichelli, Bologna, 1994
A cura di Cino Zucchi Asnago e Vender
Skira, Milano, 1999
Giuliana Gramigna, Milano.
Sergio MazzaUn secolo di architettura milanese dal Cordusio alla Bicocca
Hoepli, Milano, 2001
AA VV
Luigi Caccia Dominioni. Case e cose da abitare
Marsilio, Venezia, 2002
Maria Vittoria Capitanucci
Vito e Gustavo Latis. Frammenti di una città
Skira, Milano, 2008
Fulvio IraceGio Ponti
Motta Architettura, Milano, 2009
Maria Vittoria Capitanucci
Itinerari di architettura milanese.
Il professionismo colto nel dopoguerra
Ordine e Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Milano
Paolo Brambilla Itinerari di architettura milanese
Il condominio milanese
Ordine e Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Milano
121
in riferimento ai casi studio
(per ogni singolo edificio verrà poi indicata, contestualmente all’analisi, la specifica bibliografia)
Melchiorre Bega
Stefano Zironi Melchiorre Bega
Editoriale Domus, Milano, 1983
_ Casa a Firenze
in “Domus”, n. 304, 1955, pp. 6,7
Franco Bonaiuti
Ulisse TramontiFranco Bonaiuti, Architetto
Alinea, Firenze, 2008
Italo Gamberini
Italo GamberiniPer una analisi degli elementi dell’architettura
Firenze, 1953
Gillo Dorfles
Valori semantici degli elementi di architettura e dei caratteri distributivi
in “Domus”, 1959, n.360, pp. 33-34
Italo GamberiniAnalisi degli elementi costitutivi dell’architettura
Firenze, 1961
Saul GrecoL’officina radiotelevisiva di Firenze
in “L’architettura, cronache e storia”,
1969, n.168, pp. 357-366
Ulisse TramontiGamberini e Firenze
in “Domus”, 1993, n.754
AA VVItalo Gamberini, l’architettura dal razionalismo all’internazionalismo
Edifir, Firenze, 1995
Andrea BulleriItalo Gamberini: gli elementi costitutivi e la dimensione urbana del progetto
ETS, Pisa, 2006
Daniela Petrone Italo Gamberini, “artigiano dell’architettura”
Alinea, Firenze, 2010
Rosamaria MartellacciItalo Gamberini architetto (1907-1990)
Edifir, Firenze, 2011
122
Giovanni Klaus Koenig
Franco BorsiKoenig, due testimonianze
Libreria LEF, Firenze, 1991
Claudio MessinaMe ne vado e sbatto l’uscio
Giovanni Klaus Koenig. Architetture
Alinea, Firenze, 1994
Cesare BirignaniGiovanni Klaus Koenig, dodici note di architettura
Testo e Immagini, Roma, 2001
Giovanni Michelucci
A cura di Franco Borsi Giovanni Michelucci
LEF, Firenze, 1966
Leonardo LugliGiovanni Michelucci, il pensiero e le opere
Istituto di Architettura ed Urbanistica, Bologna, 1966
Maurice Cerasi Michelucci
De Luca, Roma, 1968
A cura di G. Torretta
Giovanni Michelucci e la ricostruzione delle zone attorno al Ponte Vecchio
(catalogo della mostra)
Edizioni Quaderni di Studio, Torino, 1967
Franco Borsi Elementi di città o del realismo utopico, in “La città di Michelucci”,
cat. della mostra a cura di E. Godoli,
Basilica di S. Alessandro, 30. 4. - 30. 5. 1976, Fiesole, 1976
Maria Cristina Buscioni Michelucci, il linguaggio dell’architettura
Officina, Roma, 1979
AA VVGiovanni Michelucci. Catalogo delle opere Electa, Milano, 1986
Marco Dezzi BardeschiGiovanni Michelucci.
Un viaggio lungo un secolo. Disegni di architettura
Alinea, Firenze, 1988
Anselmo EspositoGiovanni Michelucci, Itinerari Domus
in “Domus”, n. 692, 1988
A cura della Fondazione
Giovanni Michelucci.
MichelucciDisegni 1935-1964
Diabasis, Reggio Emilia, 2002
123
Claudia Conforti, Roberto
Giovanni Michelucci
Dulio, Marzia Marandola 1891- 1990
Electa, Milano, 2006
Fracesca LuseroniGiovanni Michelucci e la città verticale
ETS, Pisa, 2010
AA VVGiovanni Michelucci. Le fotografie
Tielleci, Parma, 2011
Pierluigi Spadolini
Pier Angelo CeticaPierluigi Spadolini, architettura e sistema
Dedalo, Bari, 1985
Francesco GurrieriPierluigi Spadolini, umanesimo e tecnologia
Electa, Milano, 1988
Maurizio VittaPierluigi Spadolini e associati, architetture 1953-1993
L’Arca, Milano, 1993
Leonardo Savioli
Marco Dezzi Bardeschi Il senso della storia nell’architettura italiana degli ultimi anni
in “Comunità”, n. 130, 1965
A cura di Giovanni Fanelli
Leonardo Savioli
UNIEDIT, Firenze, 1966
Lara Vinca MasiniTriennale itinerante di architettura
in “La Biennale”, n. 59, 1965, p. 63
Renato PedioEdificio per abitazioni a Firenze, in
“L’architettura, cronache e storia”, n. 138, 1967, pp. 810-812
Pier Carlo SantiniArchitetture recenti di Leonardo Savioli
in “Ottagono”, n. 14, 1969, p. 90
Antonio SpositoUna struttura ‘nuova’ a Firenze
in “L’industria italiana del cemento”, n. 10, 1969, pp. 725-740
_
Unità di architettura, in “Interni”, n. 33, 1969, pp. 2-15
_Edificio a Firenze
n “Architecture (L’) d’Aujourd’hui” n. 161, 1972, pp. 66-68
AA VVLeonardo Savioli
UNIEDIT, Firenze, 1974
Giulio Carlo ArganLeonardo Savioli grafico e architetto
Centro Di, Firenze, 1982
Fabrizio BrunettiLeonardo Savioli architetto
Dedalo, Bari, 1982
AA VVLeonardo Savioli: il segno generatore di forma-spazio
Edimond, Firenze, 1995
AA VVLa casa abitata: Biennale degli interni di oggi.
Firenze, Palazzo Strozzi 6 marzo-25 aprile 1965
Canevari, Milano, 1965
124
125
Casi studio
126
Melchiorre Bega
edificio residenziale (1955)
viale Gramsci, 67
Unico progetto fiorentino dell’architetto bolognese –
ma milanese di adozione – l’edificio residenziale di viale
Gramsci, si fonda su di un impianto planimetrico ad L
ponendosi, in modo singolare, in rapporto con i viali
di circonvallazione, sui quali ha l’ingresso. Infatti, rispettando gli allineamenti perpendicolari dell’isolato di
base – tagliato in modo obliquo dai viali che ne trasformano la forma, da rettangolare a trapezoidale – viene
a trovarsi, con una delle teste strette, inclinato rispetto
all’asse stradale. Si genera così un arretramento dell’intero corpo di fabbrica, leggermente ruotato rispetto a
viale Gramsci, che permette di salvare due vecchi alberi
già presenti sul terreno e, negando l’allineamento al filo
stradale della facciata principale, di creare un giardino
che filtri l’edificio e che rievochi il tessuto rarefatto – che
caratterizzava storicamente i viali – delle ville e dei villini, e dei relativi giardini, che diradavano le maglie della
densità edilizia a vantaggio degli spazi aperti e verdi.
L’edificio, notevole sia per le caratteristiche distributive,
che per quelle espressive, rappresenta, quasi didascalicamente, la fusione – o forse, meglio, la regionalizzazione – dei caratteri dell’international style con quelli locali.
Infatti su di un basamento in pietra, lavorata a punta
grossa, si stacca a sbalzo – per l’intera lunghezza di uno
dei due bracci, compreso un breve risvolto sul braccio
perpendicolare – uno “sporto” stereometrico, quasi
completamente cieco, e rifinito ad intonaco, sulla parte terminale del volume, prospiciente il viale, completamente vetrato invece, sul lato lungo che affaccia sul
giardino triangolare. Sull’altro braccio invece, arretrato
e filtrato dalle alberature del giardino, il rivestimento in
pietra si alza a ricoprire l’intera facciata, trasformando
completamente il carattere del volume e donandogli,
grazie anche all’apertura di finestre di ridotte dimensioni, un aspetto decisamente materico, simile a quello
delle case-torri medioevali, in netta contrapposizione
con quello invece, decisamente moderno, caratterizzato dalle grandi vetrate continue. La netta divisione in
due corpi, dall’aspetto esterno completamente diverso, si rispecchia perfettamente nell’articolazione della
distribuzione interna. Se le camere infatti, e più in generale tutta la zona notte e i suoi servizi, sono serrate
dietro la massiccia e protettiva cortina lapidea – a difesa dell’intimità e della riservatezza degli spazi meno
pubblici della casa – la zona giorno invece è risolta in
un unico spazio continuo, illuminato dalla serie ininterrotta delle vetrate, articolato intorno al camino e con la
possibilità di operare, con pareti scorrevoli, eventuali
provvisori frazionamenti.
L’edificio conta sei piani ed è coronato da un attico arretrato, collegato mediante una scala interna all’appartamento del piano sottostante. I singoli appartamenti,
uno per piano – anche il piano attico può essere reso
indipendente – sono distribuiti attraverso un vano scala, dotato di ascensore e montacarichi, posto, in posizione baricentrica – al centro dell’innesto dei due bracci
perpendicolari – e prevedono un doppio ingresso, uno
secondario, che si apre su un corridoio di servizio collegato alla cucina, e uno principale che apre direttamente sulla zona giorno.
La continuità delle grandi vetrate, composte da speciali serramenti Sculponia, apribili a bilico – accessoriati
con tende a veneziana, a lamelle in alluminio orientabili, incorporate tra i due cristalli – permette una grande
flessibilità spaziale e garantisce la possibilità di spostare indifferentemente le zone del pranzo, del soggiorno, del salotto – come indicato dallo stesso Bega sulle
piante di progetto in cui, con delle frecce, mostra come,
dai servizi e dalla distribuzione principale, sia possibile
accedere comodamente e indistintamente alle diverse
129
parti della zona giorno – all’interno del grande spazio
appositamente predisposto. Una flessibilità spaziale vicina a quella della casa immaginata da Gio Ponti per la
X Triennale di Milano – e poi realizzata nell’attico di via
Dezza – garantita dalla possibilità di personalizzare liberamente l’ambiente, assecondando bisogni e necessità diverse, grazie al libero disporsi delle pareti interne
e dall’eventuale fruibilità dell’intero volume vuoto.
Bibliografia
_
G. Klaus Koenig Stefano Zironi 1 Particolare della soluzione d’angolo e dell’ingresso
130
Casa a Firenze
in “Domus”, n. 304, 1955, pp. 6-7
Architettura in Toscana, 1931-1968
ERI Edizioni Rai, Torino, 1968, p. 202
Melchiorre Bega
Editoriale Domus, Milano, 1983, pp. 64-65
2 Planimetria generale dell’intervento
3 Pianta piano tipo
4 Pianta piano attico
131
Referenze iconografiche
Le fotografie (1, 5, 6, p. 128, p. 130) e i relativi diritti, sono di
proprietà dell’autore.
Il disegno (2, p. 128) è conservato presso l’Archivio Storico del
Comune di Firenze, CF 16934 - 1007/1960.
I disegni e le fotografie d’epoca (p. 126 e 3, 4, 7, pp. 129, 131)
sono tratti da: Casa a Firenze, in “Domus”, n. 304, 1955, pp. 6-7.
5 Veduta generale dell’edificio
132
6 Scorcio del fronte su viale Gramsci
7 Particolare della superficie vetrata
133
Franco Bonaiuti
edificio residenziale (1960)
viale Gramsci, 63
L’edificio realizzato da Franco Bonaiuti, composto da
sei piani fuori terra – il piano terra destinato alle attività
commerciali, gli altri cinque alle abitazioni – nasce sui
viali di circonvallazione come sostituzione di una palazzina a due piani, piuttosto tozza e in stile neoclassico,
che si disponeva, sul lotto trapezoidale generato dall’incrocio con via Pellico, parallelamente al viale, generando, in corrispondenza dell’angolo tra le due strade, un
giardino triangolare di risulta. Bonaiuti decide di allinearsi al limitrofo edificio per abitazioni realizzato pochi
anni prima da Melchiorre Bega – 1955 – disponendosi
così parallelamente a via Pellico e ponendosi, di tralice,
rispetto al viale alberato, creando così un filtro verde
tra la sede stradale, pesantemente trafficata, e il nuovo
corpo di fabbrica. Sebbene il primo progetto depositato – a nome dell’ing. Dario Fabiani – rappresenti di massima, il volume, la disposizione planimetrica e la maglia
strutturale definitiva, non rivela ancora quella che sarà
la caratteristica principale dell’edificio concluso. Dalla
prospettiva di presentazione infatti si leggono due volumi compatti – uno su via Pellico e uno su viale Gramsci
– disposti ad L, che si saldano, su di uno spigolo svuotato, attraverso dei balconi allineati che, erodendo la
materia del corpo dal quale sono generati, si innestano
sulla parete, completamente cieca, del corpo perpendicolare. Un’estrema linearità e un’articolazione piuttosto piatta dei fronti, caratterizza questa prima proposta
che subirà, come vedremo, una vera e propria scossa
dinamica. Sulla struttura in cemento armato lasciata a
vista e sulle tamponature in laterizio – leggermente in
aggetto – proprio in corrispondenza dello spigolo di intersezione dei due corpi di fabbrica, si inizia ad operare
una serie successiva di svuotamenti e di estrusioni in
aggetto, ottenuti dall’arretramento di alcune porzioni
dei setti perimetrali e dall’inserimento di alcuni balco-
ni a sbalzo. Il risultato è uno spigolo completamente
smaterializzato e animato da una un gioco di pieni e di
vuoti, di rientranze e di sporgenze che si alternano, piano per piano, e che alterano anche l’impaginato delle
restanti parti dei rispettivi fronti, generando una ritmica contrazione dei volumi e uno slittamento orizzontale delle partiture compositive. Si vengono a creare così
due configurazioni spaziali, generate principalmente
dalla rotazione dei balconi d’angolo, che si ripetono alternativamente – fin dal primo piano su viale Gramsci,
dal secondo piano, impostato su di uno sbalzo in aggetto, su via Pellico – e ricorrono fino al grande terrazzo
dell’attico, arretrato rispetto a tutti i fronti, che coronano l’edificio. La figurazione dello sporto fiorentino in
aggetto, scomposto, frammentato e riassemblato è, in
realtà, forse più legata alla volontà di esibire una plasticità esasperata, in aperta polemica con le declinazioni
stereometriche dell’international style – atteggiamento
molto vicino a quello delle coeve opere di Michelucci, il
grattacielo Roma a Livorno (1956-66) e l’edificio INA per
abitazioni su viale Amendola, che condividono, oltre le
dinamiche di sottrazione, slittamento ed estrusione,
anche il telaio cementizio a vista e il rivestimento in laterizio delle tamponature – che non a quella di un vero
e proprio tentativo di dialogo con il tessuto consolidato
della città. Anche la rinuncia alla massa muraria compatta, alla strutturazione in verticale dei fronti, al basamento – completamente svuotato – denunciano una
tensione verso il superamento dell’uso stereotipato di
certi caratteri identitari, per puntare a nuove espressioni linguistiche, in grado comunque di instaurare un
rapporto dialettico con la città storica. Unica concessione alla tradizione: frammenti di muro – perimetrale al
giardino triangolare sul viale – e di basamento – nelle
poche porzioni, necessariamente, non vetrate – rivestiti
135
in pietra locale appena sbozzata.
Internamente, ogni piano ospita due appartamenti che
occupano, ognuno interamente, i due bracci della composizione ad L: su viale Gramsci affaccia un appartamento di circa 200 mq, mentre su via Pellico uno di 150.
In posizione baricentrica, nell’angolo interno dell’intersezione dei due bracci, sono disposti la scala e l’ascensore che permettono, ad entrambi gli appartamenti,
di avere un ingresso principale e uno secondario che
apre direttamente nei locali della cucina. Dotati di doppi servizi igienici, ampi balconi, locali di servizio e numerosi vani – sempre illuminati da generose aperture
– gli appartamenti, destinati alla medio-alta borghesia
emergente, dimostrano un’attenzione particolare rivolta verso gli aspetti distributivi, l’arredabilità degli spazi,
la cura degli interni.
1 Veduta del villino preesistente
2 Veduta del villino preesistente
136
3 Planimetria generale dell’intervento
4 Pianta piano primo
5 Pianta piano secondo e quarto
6 Pianta piano terzo
7 Sezione trasversale AB
137
8 Prospettiva della prima proposta di progetto
9 Veduta generale dell’edificio
138
10 Particolare della soluzione d’angolo
11 Veduta del fronte su viale Gramsci
139
Referenze iconografiche
Le fotografie (p. 132 e 9-12, pp. 136-139) e i relativi diritti, sono di
proprietà dell’autore.
I disegni e le fotografie d’epoca (1-3, 8, pp. 134, 136) sono conservati
presso l’Archivio Storico del Comune di Firenze, CF 16934 - 1007/1960.
La riproduzione dei disegni (4-7, p. 135) è stata gentilmente
concessa dall’arch. Maddalena Bonaiuti che ne detiene la proprietà.
12 Veduta del fronte su viale Gramsci
141
Carlo Cresti
edificio per abitazioni (1966)
via Lanza, 16
A non molta distanza, né spaziale, né temporale, dall’edificio di via Piagentina di Savioli e Santi, sorge, con
molte caratteristiche in comune, l’edificio per abitazioni
progettato da Carlo Cresti. Anche quest’ultimo infatti,
impostato su di un lotto d’angolo tra due strade – via
Lanza e via Moriani – si impone prospetticamente con
il suo spigolo messo in risalto dalle accentuazioni verticali che, scomponendo il volume intero in più fasce,
lo rendono simile ad una serie di case torri accostate,
ognuna scandita e organizzata con regole formali e
compositive diverse e distinte, seppur legate da un disegno unitario, dalle definizioni materiche, dalle scelte
di dettaglio e dal linguaggio espressivo comune per l’intero intervento.
Così, fasce verticali dalla murarietà massiccia ed ininterrotta – completamente intonacate e di colore chiaro
– si alternano a serie di finestre incolonnate tra paraste
in cemento faccia a vista, a balconi e davanzali, scavati nella massa dell’edificio o protesi verso l’esterno, a
produrre un gioco volumetrico e di ombre potente e
severo, rimarcato – in corrispondenza dell’angolo – da
una grande, scultorea, copertura aggettante.
L’edificio è composto da cinque piani ed è coronato da
una grande copertura piana praticabile. Ogni piano, ad
eccezione del piano terra – originariamente destinato
ad uffici e magazzini – ospita due appartamenti: uno
più grande che si sviluppa sul lato di via Moriani, e uno
più piccolo invece che, stretto tra il blocco distributivo
delle scale condominiali e la proprietà attigua, si sviluppa in profondità, prendendo luce esclusivamente da
un’apertura su via Lanza e da una sulla corte interna.
L’articolazione interna degli appartamenti è piuttosto
lineare e ben condotta, soprattutto per l’appartamento
maggiore – quello minore soffre, in molte zone, di una
scarsa luminosità, dovuta alla soluzione dello sviluppo
in profondità dello stesso – e si ripete uguale per ogni
piano, tranne per l’alternarsi, da un piano all’altro, della posizione dei balconi aggettanti – che estendono lo
spazio del soggiorno d’angolo – prossimi allo spigolo
del fabbricato. Questo espediente, assieme ai piccoli
scarti compositivi dei ricorsi in cemento armato, agli
equilibrati disassamenti delle aperture più minute, e
alle sottili variazioni dei piani di facciata, contribuisce
a generare dei prospetti dinamici, in grado di mitigare,
con le loro vibrazioni, il volume altrimenti compatto e
massiccio, soprattutto sul lato lungo, privo di elementi
che, svettando oltre il limite superiore, ne snelliscano la
figura. Sicuramente la forze espressiva dell’intero intervento è demandata all’estrema cura, in fase progettuale ed esecutiva, delle soluzioni costruttive, dei minuti e
ricercati dettagli, delle articolazione dei giunti che, da
un lato ricordano, evocando incastri propri della tecnica lignea, le prime esperienze espressive del cemento armato applicato all’architettura, dall’altro, le vere e
proprie costruzioni accessorie in legno che punteggiavano, arricchendola, l’edilizia medioevale della città.
Bibliografia
G. Gobbi Sica
AA VV
Itinerari di Firenze Moderna
Alinea, Firenze, 1987, p. 168
L’architettura in Toscana dal 1945 a oggi
Alinea, Firenze, 2011, p. 69
143
2 Planimetria generale e pianta piano terra
1 Veduta generale dell’edificio
144
3 Pianta piano secondo
4 Pianta piano primo
5 Scorcio del fronte su via Lanza
6 Pianta piano terzo
7 Scorcio del fronte su via Moriani
145
8 Prospetti dei fronti principali
9 Scorcio del fronte su via Moriani
146
11 Sezioni longitudinali AB e CD
10 Particolare della soluzione d’angolo
12 Scorcio del fronte su via Lanza
13 Particolare del fronte su via Lanza
147
Referenze iconografiche
Le fotografie (p. 141 e 1, 5, 7, 9, 10, 12, 13, pp. 142-145) e i relativi
diritti, sono di proprietà dell’autore.
I disegni (2-4, 6, 8, 11, 14, pp. 142-146) sono conservati presso
l’Archivio Storico del Comune di Firenze, CF 17741 - 709/1966.
14 Prospetto del fronte su via Lanza
149
Italo Gamberini
edificio per abitazioni e negozi (1948-51)
via Por Santa Maria, borgo Santi Apostoli, vicolo dell’Oro
Inserito all’interno della zona A del piano di ricostruzione comunale – la prima ad essere ricostruita – l’edificio
di Italo Gamberini sorge, sulle macerie della distruzione delle mine tedesche, nel tratto di via Por Santa Maria compreso tra le superstiti torri degli Amidei e, oltre
borgo Santi Apostoli, dei Baldovinetti.
Fortemente vincolato dai profili regolatori, e dalla imposizioni di piano, Gamberini realizza un edificio lontano dalle idee e dalle aspirazioni espresse, invece, nelle
tavole di concorso per la ricostruzione delle zone intorno ponte Vecchio. Della differenziazione dei percorsi –
carrabile al livello stradale, pedonale su un percorso sopraelevato – e della fascinazione della passeggiata commerciale a doppio livello, ottenuta grazie ad una strada
in quota, fiancheggiata da negozi, bar e ristoranti – che
Gamberini riuscirà a concretizzare, solo una decina di
anni dopo, con la realizzazione dell’edificio a piastra e
torre di Montecatini Terme – non rimane che l’arretramento dei fronti – esclusivamente per la parte superiore dei fabbricati, mentre i basamenti rimangono invece
allineati all’originario filo stradale – imposto per garantire, grazie ad una sezione più ampia dell’asse viario, un
maggiore respiro, una migliore illuminazione naturale
della strada e l’esaltazione, attraverso l’isolamento, delle torri medioevali divenute dei capisaldi intoccabili.
Gamberini realizza, nell’ottica di una ricucitura del tessuto urbano, senza drastiche cesure con la storia, un
edificio che, seppure caratterizzato da materiali tradizionali – bugnato in pietra forte per il basamento e
intonaco liscio per la parte superiore con finestre semplicemente profilate da listre di pietra – non rinuncia
ad alcuni illuminati scarti che rendono, questa, l’unica
opera architettonica di rilievo, all’interno dell’intera ricostruzione di questa area. Il fabbricato risulta compositivamente diviso in due parti asimmetriche: la parte
più stretta è quella, su via Por Santa Maria, a contatto
con l’edificio adiacente, mentre quella più ampia è in
corrispondenza dell’angolo con borgo Santi Apostoli. La stessa logica comanda le profonde aperture che
si aprono nel basamento e proteggono le vetrine arretrate dei negozi del piano terra. Questa soluzione,
smaterializzando la compatta parte inferiore in pietra,
trasforma il basamento in un vero e proprio loggiato
costituito da setti, perpendicolari alla strada e coronato
da un volume – vetrato frontalmente e segnato dai barbacani in cemento che rafforzano visivamente l’esiguo
sbalzo del terrazzo sovrastante – che recupera l’allineamento stradale. Se, infatti, tutta la parte inferiore dell’edificio si allinea, lungo via Por Santa Maria, alla torre
degli Amidei, nella parte superiore, gli ultimi due piani
del blocco sull’angolo con borgo Santi Apostoli, avanzano a sbalzo, evocando la struttura tipica dello sporto
fiorentino medioevale – sottolineato, in questo caso,
dalla scansione ritmica dalle travi in aggetto che lo sostengono – e recuperando l’allineamento con la vicina
torre dei Baldovinetti. L’arretramento del fronte, nella
sua parte superiore, viene risolto, in corrispondenza
dell’angolo tra le due strade, isolando la parte di basamento avanzata, attraverso un’incisione profonda e
decisa che fa diventare il loggiato commerciale, un volume a sé stante, quasi indipendente rispetto al resto
dell’edificio. Il fabbricato si sviluppa poi, su borgo Santi
Apostoli e, posteriormente, su vicolo dell’Oro, seguendo la semplice ripartizione basamento in pietra e parte
alta intonacata – segnata da un elegante e semplice
marcapiano in pietra – e terminando con una soluzione
a sporto – a tutt’altezza stavolta – sorretta da una serie
di barbacani sagomati in cemento armato.
151
In assenza dei disegni di progetto, si riportano le relazioni descrittive originali, redatte da Italo Gamberini:
All’ufficio del genio civile di Firenze
All’ufficio del genio civile di Firenze
Descrizione dello stabile distrutto per cause belliche
di proprietà del sig. Roberto Ciocca, posto in via SS.
Apostoli, angolo por S. Maria, e vicolo dell’Oro.
Descrizione del nuovo stabile di proprietà del sig. Roberto Ciocca, posto in borgo SS. Apostoli, Por S. Maria, vicolo dell’Oro - da ricostruirei secondo il progetto
dell’arch. Italo Gamberini.
Tale fabbricato era destinato per il piano terreno a negozi
di prima categoria. Infatti vi erano alloggiati i negozi della
Ditta Ciocca per vendita di valigeria, pelletteria fine, pellicce e ombrelli ecc. I piani superiori e cioè primo, secondo,
terzo e quarto piano erano destinati a civile abitazione.
Gli appartamenti erano di tipo di lusso distribuiti secondo quanto si può vedere dalle piante catastali allegate e
finiti con parquet nelle stanze da letto e salotti - marmo
nei passaggi - stucchi ai soffitti e pareti - affissi in noce
a pannellature bagni rivestiti con piastrelle colorate. Termosifone in ogni appartamento - luce incassata - L’edificio
era stato sistemato completamente da dodici anni prima
del sinistro ed era di conseguenza in uno stato di manutenzione perfetta. La scala elicoidale era stata modificata
ed ampliata durante tali lavori e fu determinante di una
notevole miglioria in molte strutture portanti dell’edificio
in parola. Anche le aperture dei negozi furono notevolmente alzate ed allargate e tali lavoro portarono ad una
distribuzione più omogenea nell’interno dei negozi stessi e
interessarono le strutture portanti dell’edificio. Per tale effetto anche la facciata e le fasciature delle aperture furono
rifatte completamente in finta pietra serena martellinata.
Lo stabile che viene ricostruito sull’area preesistente, è una
costruzione che per distribuzione ed espressione esterna
ha dovuto inquadrarsi nel piano di ricostruzione approntato dal Comune ed approvato dalle competenti autorità.
La destinazione rimane come quella precedente e cioè:
al piano terreno negozi, ai piani primo secondo terzo e
quarto piano arretrato destinato ad abitazioni. La distribuzione è stata studiata in maniera da consentire una
migliore illuminazione ed aereazione dal punto di vista
igienico. Purtroppo il volume totale essendo minore, per
vincolo di piano di ricostruzione, ha condotto ad uno sfruttamento minore di area per i vari piani e di conseguenza
tale diminuzione agli effetti dell’affittabilitá è stata dovuta
integrare con finiture notevolmente superiori a quelle del
fabbricato prima esistente. In conseguenza di ciò i pavimenti delle camere e dei salotti sono previsti in parquet
murato, gli intonaci a stucco alla romana, i pavimenti delle gallerie sono in marmo pregiato, gli affissi esterni in essenza dura e le porta interne in legno noce a pannelli compensati, l’impianto elettrico incassato con prese di corrente in ogni stanza, i soffitti decorati da stucchi, ed impianto
completo di termosifone, i bagni sono organizzati con distribuzione razionale degli apparecchi e con rivestimenti
152
colorati, la scala in marmi pregiati per renderla luminosa
ed adatta all’edificio. La struttura generale dell’edificio è
realizzata in C.A. allo scopo di ottenere spessori murali più
consoni allo spazio a disposizione. Le finiture esterne sono
in pietra a faccia a vista fino al primo piano e intonaco e
pietra di fasciatura alle aperture per i piani superiori. La
cubatura che ne risulta, come già detto per effetto del piano di ricostruzione è la seguente (segue tabella e schema
delle proprietá) [...] Delle strutture murarie rimaste in piedi
ma pericolanti, non ne viene utilizzata alcuna ed anche
delle fondazioni viene tenuto conto soltanto per qualche
muro di riempimento essendo prevista come già detto la
struttura in C.A. la quale necessita di fondazioni proprie.1
note
1 I documenti di progetto sono conservati presso:
Archivio di Stato di Firenze, Fondo Italo Gamberini, Serie I, 60,
Pratiche diverse, 1948-1950, fasc. 76
Bibliografia
G. Klaus Koenig Architettura in Toscana, 1931-1968
ERI Edizioni Rai, Torino, 1968, pp. 124-137
AA VV
Italo Gamberini,
l’architettura dal razionalismo all’internazionalismo
Edifir, Firenze, 1995, pp. 15, 21
O. Fantozzi Micali
Alla ricerca della Primavera
Alinea, Firenze, 2002, pp. 98-99
A. Bulleri
Italo Gamberini: gli elementi costitutivi e la
dimensione urbana del progetto
ETS, Pisa, 2006, pp. 86-90
A cura di E. Insabato Guida agli Archivi di Architetti e Ingegneri
e C. Ghelli
del Novecento in Toscana
Edifir, Firenze, 2007, pp. 185-189
F. Fabbrizzi
Opere e progetti di Scuola Fiorentina, 1968-2008
Alinea, Firenze, 2008, pp. 94-107
R. Martellacci
Italo Gamberini architetto (1907-1990)
Edifir, Firenze, 2011, pp. 174, 210, 211, 332
1 La ricostruzione presso le torri degli Amidei e dei Baldovinetti
153
2 Il plastico del lato occidentale di via Por Santa Maria
4 Giovanna Balzanetti, fronte occidentale di via Por S. Maria, stato attuale (2001)
154
3 Prospettiva di progetto dell’ingresso ai negozi
5 Scorcio del fronte su via Por S. Maria, sullo sfondo la torre dei Baldovinetti
6 Scorcio del fronte su via Por S. Maria, sullo sfondo la torre degli Amidei
155
Referenze iconografiche
Le fotografie (5-7, pp. 153-154) e i relativi diritti, sono di proprietà
dell’autore.
I disegni e le fotografie storiche (1, 2, 4, pp. 151-152) sono tratti da:
Osanna Fantozzi Micali, Alla ricerca della Primavera, Alinea, Firenze,
2002, pp. 98-99.
I disegni (p. 148 e 3, p. 152) sono conservati presso:
Archivio di Stato di Firenze, Fondo Italo Gamberini, Serie IV, 1,
Materiale fotografico, fasc. 76.
7 Particolare del fronte su via Por Santa Maria
157
Italo Gamberini
edificio per abitazioni (1957)
viale Marsilio Ficino, 14
Arretrato rispetto al filo stradale, il gamberiniano intervento di “tassello” di via Marsilio Ficino, rappresenta
uno degli esempi più riusciti di sostituzione e integrazione del “nuovo”, all’interno del tessuto storico consolidato della città.
L’edificio sorge su di un lotto rettangolare, in sostituzione di un precedente villino – ospitante, all’epoca, il Consolato del Perù – caratterizzato da un atipico impianto
asimmetrico, e che costituiva con i fabbricati limitrofi – lungo il fronte stradale – una cortina continua ed
ininterrotta. La scelta progettuale dell’arretramento del
piano terra – di circa tre metri – rispetto al filo stradale
– ricucito grazie al portale d’ingresso, alle ringhiere e
alle fioriere continue del giardino – genera una sorta di
rarefazione, di pausa nella continuità dei prospetti allineati, che rimarca, con la gentilezza e la modestia, che
è propria di un artista sensibile e illuminato, il carattere
di moderna contemporaneità dell’intervento, estranea
invece al ristretto intorno di riferimento.
Tripartito classicamente, l’edificio è composto da un
basamento, interamente rivestito in lastre di travertino, dal quale si generano per un processo di estrusione della superficie lapidea le porte-finestre del piano
terra, da un corpo centrale, composto da quattro piani
interamente balconati, ed è coronato dall’ampio parapetto-cornicione del terrazzo del piano attico arretrato.
Planimetricamente, il fabbricato si risolve in una soluzione ad U, con i due bracci paralleli, occupanti in lunghezza l’intera profondità del lotto, che si aprono, salvo
le camere poste agli estremi, esclusivamente sulla corte
interna di risulta. Sono previsti due appartamenti per
ognuno dei sei piani di cui è composto l’edificio: non
fanno eccezione il piano terra e l’attico che seguono
la stessa logica, di tutti gli altri i piani, di appartamenti
identici, simmetrici rispetto all’asse naturale che divi-
de, esattamente a metà, la configurazione chiaramente leggibile in pianta. Lungo il fronte di via Ficino sono
disposti, parallelamente, tutti gli ambienti della zona
giorno, mentre lungo i bracci sul retro, tutte le camere
e i servizi della zona notte. Sul lato corto interno della U, contrapposti alla zona giorno, si trovano le scale
condominiali, gli ascensori, e tutti i locali di servizio, tra
i quali la cucina, che può godere di un ampio terrazzo.
La distribuzione dei vari ambienti è affidata canonicamente a corridoi centrali, o di spina, privi di aperture,
all’infuori di una grande finestra che, aprendosi su di un
cavedio, interrompe, a circa due terzi del suo sviluppo,
la cieca murarietà del lungo corridoio della zona notte.
Se internamente, quindi, il fabbricato viene risolto in
maniera piuttosto semplice, senza particolari invenzioni spaziali, una cura particolare viene posta invece
nell’articolazione del prospetto principale e nella composizione delle sue parti. Sul basamento del piano
terra, infatti, aggetta, a sbalzo – per più di un metro e
mezzo – una seconda quinta, aerea e indipendente rispetto a quella muraria di contenimento, sottolineata
dalla scansione ritmica dei travetti, a vista, che sostengono l’intradosso del balcone inferiore. La quinta avanzata, a filtro di luce e aria, è caratterizzata da una rigida
maglia geometrica, la cui scansione orizzontale è data
da coppie ravvicinate di pilastrini, anch’essi rivestiti interamente in travertino – secondo una ritmica seriale
a|b|a|b|a|b|a|b|a|b|a – mentre quella verticale,
dal ricorrere dei solai dei balconi rimarcati dallo spessore della pavimentazione leggermente in aggetto. Si
viene a creare così una griglia composta, ogni piano,
da sei moduli quadrati – essendo l’altezza dell’interpiano pari alla distanza maggiore che intercorre tra i
montanti – intervallati dalle cinque coppie di pilastrini, il cui interasse costituisce la larghezza stessa dei
159
pannelli scorrevoli frangisole che movimentano, con
la loro imprevedibilità, l’intera facciata, scardinando la
percezione simmetrica e statica dell’intero edificio. Di
colore chiaro, come le ringhiere dei balconi, le lunghe,
stereometriche, fioriere sospese, i frangisole mobili, le
strutture verticali e i piccoli parapetti in travertino che
tamponano – in modo dichiaratamente e marcatamente autonomo – lo spazio residuo tra le coppie di pilastrini, i frangisole contribuiscono, rimarcando il contrasto
con la scura parete di fondo – di colore verde oliva – ad
esaltare la profondità dello sbalzo, ad espandere volumetricamente il vuoto che si crea tra le due facciate.
Ordine e disordine, rigore e casualità coesistono in
questa facciata, metafora scultorea della vita che freme, si muove e si agita, all’interno delle statiche e opache mura dell’involucro abitativo.
1 Particolare del fronte su via Ficino
160
2 Le preesistenze adiacenti l’intervento
3 Il villino ospitante il Consolato del Perù
Bibliografia
G. Klaus Koenig Architettura in Toscana, 1931-1968
ERI Edizioni Rai, Torino, 1968, pp. 124-137
AA VV
Italo Gamberini,
l’architettura dal razionalismo all’internazionalismo
Edifir, Firenze, 1995, pp. 68-69
A. Bulleri
Italo Gamberini: gli elementi costitutivi e la
dimensione urbana del progetto
ETS, Pisa, 2006, pp. 213-223
A cura di E. Insabato Guida agli Archivi di Architetti e Ingegneri
e C. Ghelli
del Novecento in Toscana
Edifir, Firenze, 2007, pp. 185-189
F. Fabbrizzi
Opere e progetti di Scuola Fiorentina, 1968-2008
Alinea, Firenze, 2008, pp. 94-107
D. Petrone
Italo Gamberini, “artigiano dell’architettura”
Alinea, Firenze, 2010, pp. 227-229
R. Martellacci
Italo Gamberini architetto (1907-1990)
Edifir, Firenze, 2011, pp. 73-94
4 Scorcio del fronte su via Ficino
161
6 Pianta piano terra, pianta piano tipo, pianta piano attico
5 Prospettiva di progetto del fronte su via Ficino
162
7 Prospetto su via Ficino
8 Sezione trasversale
163
Referenze iconografiche
Le fotografie (p. 156 e 1, 4, 9, pp. 158-159, 162) e i relativi diritti,
sono di proprietà dell’autore.
I disegni (5-8, pp. 160-161) sono tratti da:
Andrea Bulleri, Italo Gamberini: gli elementi costitutivi e la dimensione
urbana del progetto, ETS, Pisa, 2006, pp. 216-220.
Le fotografie storiche (2, 3, p. 158) sono tratte da:
Daniela Petrone, Italo Gamberini, “artigiano dell’architettura”, Alinea,
Firenze, 2010, p. 227.
9 Particolare del fronte su via Ficino
164
165
Italo Gamberini
edificio per abitazioni, uffici e negozi (1957)
via Luigi Alamanni, via Jacopo da Diacceto
Progettato per le Assicurazioni Generali Venezia, il complesso per abitazioni, uffici e negozi, sorge, in seguito
alla demolizione di un preesistente fabbricato, sull’angolo tra via Luigi Alamanni e via Jacopo da Diacceto, con
un impianto planimetrico a T, che occupa l’intero lotto
trapezoidale, e culmina, in corrispondenza dell’intersezione a V delle due strade, con una vera e propria
torre medioevale: imponente, massiccia, con il caratteristico profilo delle antiche torri di difesa a caditoie.
Nonostante sia stata decapitata, dalla Soprintendenza
ai Monumenti, di un paio di piani rispetto al progetto
originario, rimane comunque chiaro l’intento di Gamberini di accentuarne le connotazioni formali e di renderla l’elemento fulcro della progettazione, contrapponendola alle due ali più basse, destinate alla residenza,
che le fanno da fondale.
L’intero complesso è infatti costituito da tre volumi che,
seppure distinti e caratterizzati da diverse soluzioni formali e compositive, trovano, nella cerniera centrale del
blocco distributivo delle scale e dell’ascensore, nel basamento che li unisce su via Alamanni, nell’omogeneità
dei materiali utilizzati per i rivestimenti, le coperture e
per le finiture di dettaglio, una forte e inscindibile unitarietà, garantita, in primis, dal rigoroso controllo del
disegno, sia alla piccola, che alla grande scala.
Il volume a pianta pseudo-pentagonale, prospiciente
via da Diacceto, è alto sei piani, e ospita, ad ogni piano,
un singolo appartamento, mentre al piano terra un unico grande – come indicato nelle piante di progetto – “locale per affari”. L’angolo acuto di testa viene svuotato
dalla massa muraria, per essere poi rimarcato dalla serie dei balconi, che ne riprendono la geometria, con parapetti in cemento faccia a vista – unici nell’intervento
– ricercati, sia nel disegno generale, che in quello delle
casseformi. Ogni piano è segnato – in corrispondenza
dei solai, lasciati comunque a vista, e non rivestiti in laterizio – dall’arretramento, in profondità, della massa
muraria che genera una scansione ritmica verticale
data dall’alternarsi di luce e ombra. Se il rivestimento
continuo in laterizio, e la caratterizzazione del tetto,
fortemente aggettante – rivestito superiormente in
rame e, inferiormente, in legno – sono caratteri comuni
per l’intero complesso, l’inquadratura delle finestre e
delle porte-finestre tra soglie, solai, e setti in aggetto, e
il sistema dei frangisole fissi, composti da lastre monolitiche di granito, che schermano la serie di balconi in
aggetto, costituiscono invece specificità riservate esclusivamente alle due ali residenziali. Come nell’edificio di
via Ficino, anche in questo caso, i pannelli frangisole,
con la loro dinamicità, reale – sfalsati, a coppie, piano
per piano a creare un’oscillazione ritmica – e mimata
– grazie all’esiguo spessore, e alle soluzioni formali di
fissaggio e di rifinitura, che li rendono, almeno visivamente, simili a pannelli appesi a binari scorrevoli, pronti ad essere spostati a piacere – diventano simbolo del
pulsare esistenziale dell’interno domestico che vanno a
caratterizzare. Il volume, a pianta rettangolare, prospiciente via Alamanni, che costituisce il secondo blocco
di residenze del complesso, è alto sette piani e ospita
una coppia di appartamenti per ogni piano. Quest’ala
dell’intervento è definita, per gli ultimi cinque piani,
dagli stessi elementi sintattici descritti per il blocco residenziale su via da Diacceto, ad eccezione del primo
piano che, destinato ad uffici, è rimarcato da una finestratura a nastro continua, e del basamento che, arretrato rispetto al filo stradale – in modo da far risultare
in aggetto l’intero corpo sovrastante dell’edificio – connette il volume delle abitazioni a quello della torre per
uffici d’angolo, altrimenti completamente indipendente. Il basamento, adibito ad attività commerciali, è com167
pletamente vetrato e scandito dal ritmo dai pilastri in
cemento armato a vista e dalle rispettive travi ricalate
che abbracciano il volume sovrastante in aggetto.
La torre degli edifici, alta invece otto piani, elemento
predominante e distintivo dell’intero intervento, posto
in corrispondenza dell’intersezione delle due strade, è
caratterizzata da una definita nitidezza stereometrica
e dalla massiccia massa muraria che la costituisce. Le
aperture a fasce orizzontali, sfalsate per piani, ma rimarcate da una scansione che, prolungandosi oltre i
limiti dell’infisso, ne accentuano la verticalità, sono planari e non interrompono la lettura volumetrica del corpo centrale della torre. Corpo centrale, reso ulteriormente massiccio dagli smussi a 45° degli spigoli, che
si configura, parimenti alle torri medioevali, aggettante
rispetto alla base, anche se, in questo caso, grazie ad
uno strategico “strozzamento” del piano sottostante
che ne rende la suggestione plastica, e si corona con
un balcone-loggiato perimetrale, eredità delle antiche
altane, che ne smaterializza il volume.
1 Scorcio del fronte su via Jacopo da Diacceto
168
2 Planimetria generale dell’intervento e sezione territoriale
Bibliografia
G. Klaus Koenig Architettura in Toscana, 1931-1968
ERI Edizioni Rai, Torino, 1968, pp. 124-137
AA VV
Italo Gamberini,
l’architettura dal razionalismo all’internazionalismo
Edifir, Firenze, 1995, pp. 70-71
A. Bulleri
Italo Gamberini: gli elementi costitutivi e la
dimensione urbana del progetto
ETS, Pisa, 2006, pp. 213-223
A cura di E. Insabato Guida agli Archivi di Architetti e Ingegneri
e C. Ghelli
del Novecento in Toscana
Edifir, Firenze, 2007, pp. 185-189
F. Fabbrizzi
Opere e progetti di Scuola Fiorentina, 1968-2008
Alinea, Firenze, 2008, pp. 94-107
D. Petrone
Italo Gamberini, “artigiano dell’architettura”
Alinea, Firenze, 2010, pp. 230-237
R. Martellacci
Italo Gamberini architetto (1907-1990)
Edifir, Firenze, 2011
3 Veduta dell’angolo tra via J. da Diacceto e L. Alamanni
4 Sezione trasversale (progetto non approvato)
169
5 Prospetto di testa (progetto non approvato)
6 Prospetto di testa (progetto realizzato)
7 Particolare del vano scala principale
8 Scorcio del fronte su via Alamanni
170
9 Prospetto su via Alamanni (progetto non approvato)
10 Prospetto su via Alamanni (progetto realizzato)
11 Pianta piano terra
12 Pianta piano tipo
171
Referenze iconografiche
Le fotografie (p.164 e 1, 3, 7, 8, 13, pp. 166-168, 170) e i relativi
diritti, sono di proprietà dell’autore.
I disegni (2, 5, 6, 9-12, pp. 166, 168-169) sono tratti da:
Daniela Petrone, Italo Gamberini, “artigiano dell’architettura”,
Alinea, Firenze, 2010, pp. 230-233.
Il disegno (4, p. 167) è tratto da:
Elisabetta Insabato e Cecilia Ghelli, Guida agli Archivi di Architetti e
Ingegneri del Novecento in Toscana, Edifir, Firenze, 2007, p. 187
13 Scorcio dei tre volumi dal giardino di ingresso
172
173
Riccardo Gizdulich
edificio per abitazioni e negozi (1953)
via Lungo le Mura di Santa Rosa, 3
Inizialmente concepito come laboratorio artigianale,
ed eretto in muratura ordinaria – con un paramento
esterno in bozze di pietra forte – per l’altezza di un solo
piano – più il seminterrato – il fabbricato viene, a cantiere ormai ultimato, sopraelevato, per il volere della
committenza – il Fondo di Previdenza per il Personale
della Cassa di Risparmio di Firenze – di tre piani, più
l’attico, e destinato ad appartamenti di abitazione per i
dipendenti dell’istituto bancario.
L’edificio viene innalzato grazie ad un sistema costituito da una serie di telai in cemento armato, lasciati a vista sul retro dell’edificio – complanarmente alle
tamponature finite ad intonaco – e riportati in avanti,
a sbalzo, sul fronte che, invece, affaccia sulla strada e
sulle mura prospicienti. Si crea così un quadro, diviso
dalla scacchiera dei solai e dei montanti in cemento, in
aggetto rispetto al basamento in pietra, e stretto, alle
due estremità, da due elementi verticali, in continuità
materica e di superficie con il basamento stesso. Due
vere e proprie torri che costituiscono una delle parti
fondanti della sintassi compositiva del progetto: la torre in pietra, memoria delle antiche case torri, diventa
elemento figurativo che assolve la funzione di testa e di
chiusura dello sviluppo orizzontale del corpo centrale
dell’edificio, nonché quella di dialogo con le mura che
fronteggiano l’intervento.
Il binomio porta e vano commerciale affiancati, tipico
della “bottega” della casa a schiera medioevale si rilegge, invece, nella soluzione delle aperture del piano
terra, destinato ad attività commerciali e di terziario.
Gizdulich, infatti, accenna a questi elementi del passato con eleganza e raffinatezza, disegnando delle grandi
aperture con una leggera rastremazione verso il basso
– che poi si rilega attraverso le sagomature dell’infisso
al disegno unitario dei grandi sporti – di poche decine
di centimetri, a circa un metro da terra: un garbato e
misurato omaggio alla storia.
Se il robusto basamento, sebbene ritmato dalle ampie
aperture che lo trasformano quasi in un porticato, scandito dai massicci pilastri in pietra, e le severe torri laterali
sono figurativamente legati al passato e in diretto dialogo con le mura e la vicina Porta di San Frediano, il corpo
centrale aggettante, con la sua matrice geometrica razionalista, si combina invece con elementi di moderna
contemporaneità, quali le logge in profondità che si alternano ai pieni – al secondo e al terzo piano – creando
un gioco di volumi e di luci e ombre, e la soluzioni della cartella arretrata vetrata che incide orizzontalmente
ogni modulo della griglia strutturale, eredità delle teorie
e delle opere di Frank Lloyd Wright esposte, presso Palazzo Strozzi, nella mostra del 1951 a lui dedicata, e all’allestimento della quale lo stesso Gizdulich prende parte.
La grande finestra allungata, ospitata nella cartella, e
sovrastante la porta-finestra grazie alla quale si accede
ai terrazzini frontali, segna i prospetti interni di tutti gli
ambienti principali – tutti i locali di servizio e i corridoi
di distribuzione si affacciano invece sulla corte interna
– e diventa, con la sua mensola inferiore, un elemento ordinatore e di definizione dello spazio interno. La
mensola infatti, assumendo diverse configurazioni, diventa architrave delle porte e delle vetrate che dividono
i diversi locali, elemento di chiusura e di misura per le
zone controsoffittate, elemento strutturale portante di
librerie ricavate scavando le pareti divisorie, occasione
di appoggio di elementi decorativi, linea di separazione per possibili diversi trattamenti materici e cromatici
delle pareti e del soffitto.
Ogni piano ospita tre appartamenti – ad eccezione
dell’attico, diviso invece in due appartamenti, quasi perfettamente speculari – con metrature e soluzioni plani175
metricamente diverse – sebbene corrispondenti a una
comune qualità compositiva che caratterizza l’intero intervento – distribuiti da un generoso vano scala centrale.
L’intero fabbricato è testimonianza di un professionismo colto, attento nei confronti delle capacità espressive della materia, scrupoloso nella definizione del dettaglio, capace di concentrarsi sugli elementi costitutivi
della tradizione e in grado di generarne una sintesi
moderna, espressione linguistica e simbolica della coeva contemporaneità, con chiarezza programmatica e
compositiva, senza cadere nel facile inganno del revival
o del contestualismo mimetico. Come riassume acutamente, infatti, Grazia Gobbi Sica: «e’ evidente nella
soluzione complessiva la volontà di affrontare una delle
tipiche tematiche degli anni ’50 e cioè la composizione
dei principi dell’architettura moderna con la presenza
storico-ambientale del luogo. In questo senso l’edificio
di Gizdulich dà una risposta duttile e sicura, che costituirà purtroppo il prototipo, nella città, di una serie di volgari imitazioni degli anni immediatamente successivi»1.
LEGENDA
1 ingresso
2 soggiorno
3 cucina
4 camera
5 bagno
6 terrazza
5
4
4
2
6
1
1
3
3
5
2
6
4
4
6
6
2 Pianta piano attico
LEGENDA
note
1 Grazia Gobbi Sica, Itinerari di Firenze Moderna, Alinea, Firenze,
1987, p. 96
1 ingresso
2 soggiorno
3 cucina
4 camera
5 bagno
6 terrazza
Bibliografia
4
1 Scorcio del fronte su via Lungo le Mura di Santa Rosa
176
_
G. Klaus Koenig G. Gobbi Sica
Casa in S. Frediano a Firenze
in “Metron”, n. 52, 1954, pp. 16-20
Architettura in Toscana, 1931-1968
ERI Edizioni Rai, Torino, 1968, pp. 83-84
Itinerari di Firenze Moderna
Alinea, Firenze, 1987, p. 96
5
1
3
1
4
4
2
2
3
3
5
5
1
4
4
2
2
4
4
3 Pianta piano tipo
4 Sezione trasversale
177
5 Il cantiere della sopraelevazione
6 Le prime fasi del cantiere
7 Veduta del fronte su piazza di Verzaia
8 Scorcio del fronte sulla corte interna
178
9 Interno di un appartamento
10 Interno di un appartamento
11 Interno di un appartamento
179
Referenze iconografiche
Le fotografie (p. 172 e 1, 12, pp. 174, 179) e i relativi diritti, sono di
proprietà della dott.ssa Corinna Del Bianco.
I disegni e le foto d’epoca (2, 4, 8, 11, pp. 175-177) sono tratti da:
Casa in S. Frediano a Firenze, in “Metron”, n. 52, 1954, pp. 16-20.
La riproduzione delle foto d’epoca (5-7, 9, 10 p. 176-177) è stata gentilmente concessa dall’arch. Franco Gizdulich che ne detiene la proprietà.
12 Particolare del fronte su via Lungo le Mura di Santa Rosa
181
Nino Jodice
edificio residenziale (1956-59)
viale Mazzini, 33-35, via Guerrazzi, 1a-1b
Parte di una lottizzazione più ampia – che prevede un
vasto giardino e un secondo edificio disposto perpendicolarmente alla strada, a sfondo del primo, e a chiusura
del lotto – l’intervento occupa, per intero, l’angolo tra
viale Mazzini e via Guerrazzi e sorge sulle spoglie della
villa Ventilari di Giovanni Michelazzi (1905) – un villino
liberty, con qualche leggibile concessione neorinascimentale, opera, non matura come i futuri capolavori
quali il Villino Broggi-Caraceni (1910-11) o la Casa-galleria Vichima (1911), ma, tuttavia, di notevole pregio –
demolita per permettere, come da previsione di piano,
la saturazione del tessuto diffuso e frammentato dei
villini isolati, e la creazione di nuovi quartieri residenziali a maggiore densità, volumetrica e di popolazione.
L’edificio è organizzato planimetricamente su di un impianto a ferro di cavallo e ha due ingressi indipendenti,
collocati nei due bracci paralleli, che si affacciano rispettivamente su viale Mazzini e sul giardino che si viene a creare su via Guerrazzi. Se i fronti interni, derivati
dalla configurazione ad U, sono piuttosto regolari – ad
eccezione di una rastremazione intermedia per garantire la distanza minima consentita per gli affacci contrapposti – e trattati in modo piuttosto semplice e scarno,
quelli esterni sono, al contrario, dominati da una forte
articolazione in alzato – su tutti i lati – e in pianta – sul
prospetto principale su viale Mazzini, leggermente arretrato rispetto al filo stradale. I prospetti sono infatti
immaginati come un fronte articolato, generato dall’accostamento orizzontale di volumi con larghezze ridotte,
caratterizzati da diverse finiture esterne, in pietra o intonaco, da colori diversi, oppure dalla presenza di uno
sporto o di una declinazione alternativa delle aperture
o del loro ritmo, in una frammentazione caratteristica dell’aggregazione spontanea delle compatte case a
schiera gotiche che seguivano, indipendentemente da
quelle limitrofi, un proprio ordine formale, cromatico
e materico, formando un insieme caotico ed imprevedibile. Elemento unificante dell’intero intervento è il basamento comune in pietra che lega e accomuna tutte le
diverse sfaccettature degli articolati prospetti, così come
fa la riva murata dell’Arno di borgo San Jacopo o di via de’
Bardi con i molteplici volumi che le si attestano, a sbalzo,
e a diverse altezze, con regole compositive autonome e
differenti (non è un caso che lo stesso Jodice sia autore
di diversi interventi proprio su queste due rive murate:
i disegni dei fronti lungo l’Arno, soprattutto nei profili di
quello di borgo San Jacopo, sono quasi sovrapponibili,
fatte le dovute proporzioni, a quelli di questo edificio).
Ogni fascia verticale del fronte è caratterizzato da una
combinazione, ogni volta mutevole, di finestre e portefinestre di diversa larghezza, dalla colorazione dell’intonaco, ora bianco, ora verde pastello, dai parapetti dei
balconi, alternatamente molto lineari e semplici oppure caratterizzati da un disegno astratto (addirittura, per
le aperture dello sporto più importante di viale Mazzini,
erano previsti dei sopraluce continui sulle due portefinestre di ogni balcone – non realizzati poi in fase ese-
1 Planimetria generale dell’intervento
183
2 Planimetria precedente l’intervento e individuazione di villa Ventilari
3 Veduta di villa Ventilari (Giovanni Michelazzi - 1905)
184
cutiva – che sarebbero andati a costituire un’ulteriore
tipologia di apertura diversa da tutte le altre).
Si genera, in questo modo, una singolare combinazione tra la differenziazione, scandita da partiture verticali
di ampiezze variabili – all’interno delle quali comunque
viene rispettato un ordine e un impaginato ben preciso
delle bucature – dei prospetti e la loro unitarietà sottolineata dal profilo merlato del basamento e dalla linea
orizzontale del tetto a gronda sporgente – o della pensilina che lo sostituisce simbolicamente in via Guerrazzi.
Nonostante la grande presenza di aperture – molte delle
quali porte-finestre – il tema della massa, della murarietà, rimane comunque dominante, e in gran parte svolto
dall’alto basamento in pietra, che a volte sale fino al secondo piano e, in un caso, anche fino al terzo, e ad alcuni
setti intonacati, completamente lisci e privi di aperture,
che si stagliano in verticale, quasi a voler riequilibrare, con
la loro estrema compattezza e stereometricità, le aperture praticate nelle parti restanti del corpo di fabbrica.
Alto sei piani fuori terra, più il piano seminterrato – a eccezione del braccio che affaccia sul giardino di via Guerrazzi
che è alto quattro piani come l’edificio che lo fronteggia
e con il quale costituisce i due fondali opposti del giardino – l’edificio ospita cinque appartamenti per ogni piano,
distribuiti da due diversi vani scala, e di cui è impossibile, dall’esterno, leggerne l’articolazione. Gli appartamenti, che propongono una vasta gamma di metrature, che
vanno dai 65 mq. dei più piccoli, ai 155 degli appartamenti
più grandi con affaccio su viale Mazzini, sebbene canonicamente distribuiti da un corridoio centrale privo di
aperture, prevedono, almeno sulla carta, la possibilità di
ottenere un’inedita unitarietà degli spazi interni, in prossimità delle numerose aperture sui fronte, con setti appena
accennati e pareti a soffietto – o vetrate apribili – a frazionare, in caso di necessità, l’unico ambiente in più stanze.
4 Pianta piano terra
5 Pianta piano tipo
6 Veduta del fronte su viale Mazzini
7 Scorcio del fronte su via Guerrazzi
185
8 Prospetto laterale e frontale su viale Mazzini
9 Prospetto su via Guerrazzi
186
11 Sezione longitudinale AB
10 Prospetto sul giardino
12 Particolare del fronte su via Guerrazzi
13 Dettaglio su viale Mazzini
187
Referenze iconografiche
Le fotografie (p. 180 e 6, 7, 12, 13, pp. 183, 185) e i relativi diritti,
sono di proprietà dell’autore.
I disegni e le fotografie d’epoca (1, 2, 4, 5, 8-11, pp. 181-187) sono
conservati presso l’Archivio Storico del Comune di Firenze,
CF 16463 - 1235/1956 e CF 16740 - 860/1958.
14 Prospettiva di progetto del fronte su via Guerrazzi
189
Nino Jodice
edificio residenziale (1956-59)
via Guerrazzi, 1c-1d
Complementare ad una lottizzazione più ampia – che
prevede un vasto giardino e un edificio principale che
occupa, per intero, l’angolo tra viale Mazzini e via Guerrazzi – l’intervento si sviluppa in profondità, perpendicolarmente a via Guerrazzi, come una quinta di sfondo
al giardino interno, a chiusura del lotto di edificazione.
L’edificio è organizzato planimetricamente su di un
impianto rettangolare, estremamente lineare, e ha un
unico ingresso – dal giardino – collocato al centro del
corpo. Alto quattro piani fuori terra, più il piano seminterrato e l’attico arretrato, l’edificio ospita due appartamenti per ogni piano, ai quali è possibile accedere da
un ingresso principale o da uno secondario che porta
direttamente in cucina, praticamente identici per metratura e distribuzione – se si esclude una leggera differenza in corrispondenza della torre d’angolo sul fronte
di via Guerrazzi – con una suddivisione canonica degli
spazi e delle zone giorno e notte. Come per l’edificio
principale – precedentemente analizzato – i prospetti,
nonostante siano generati da una pianta molto semplice e regolare, sono trattati come un fronte articolato, grazie alla frammentazione sistematica del volume
generale, in volumi con larghezze ridotte, caratterizzati
da diverse finiture esterne, in pietra o intonaco, oppure
dalla presenza di sporti aggettanti a diverse altezze o di
una declinazione alternativa delle aperture o del loro
ritmo. Il basamento comune in pietra, che lega e accomuna tutte le diverse sfaccettature degli articolati prospetti, è l’elemento unificante dell’intero intervento e
partecipa a sottolineare la massiccia murarietà caratteristica dell’edificio, che trova la sua massima espressione nella soluzione d’angolo tra il giardino e via Guerrazzi. Arrivando da viale Mazzini, infatti, lo spigolo murato
dell’edificio si impone, con austerità, come una torre
completamente cieca, in aggetto rispetto al basamento
in pietra. Uno sporto stereometrico, liscio, intonacato
su tutta la superficie, pronto ad aprirsi con generose
balconature sul lato corto, testa dell’edificio, prospiciente via Guerrazzi. Separato da un taglio verticale,
sottolineato dal rivestimento in pietra del basamento
che lo ricopre per intero, comincia poi a svilupparsi il
fronte principale che si affaccia sul giardino. Una seconda torre intonacata, questa volta incisa da aperture che
ne segnano la superficie, aggetta dal basamento e si
pone con la stessa altezza in relazione con quella d’angolo (nel disegno di progetto, in realtà, la torre d’angolo
doveva avere, oltre ad altre piccole differenze, un piano
in meno, contribuendo a rendere il prospetto ancora
più articolato, e meno compatto rispetto a quello effettivamente realizzato). Il prospetto prosegue poi con
superfici intonacate, sempre a sbalzo – ma con imposte a diverse altezze – rispetto al basamento in pietra,
che alternano balconi, finestre e porte-finestre, in una
sequenza ritmica ricca di contrazioni e sospensioni.
Dettagli e finiture creano un gioco di rimandi e ammiccamenti con l’edificio principale con cui costituisce un
1 Planimetria generale dell’intervento
191
2 Assonometria volumetrica per la verifica delle cubature
3 Prospetto sul giardino
192
tutt’uno compositivo: se il colore dell’intonaco e la natura della pietra di rivestimento basamentale sono gli
stessi, l’orditura delle pietre è leggermente diversa, così
come le ringhiere, sia quelle dei balconi, che quelle di
recinzione del giardino – uniformate da un muro in pietra comune che si alza e si abbassa in corrispondenza
dei cancelli di ingresso – presentano lo stesso disegno
ma sono, in un caso, di colore bianco, nell’altro, marrone scuro. La grande varietà, dimensionale e tipologica,
delle aperture si ripete costante, negli stessi elementi,
per entrambi i blocchi, così come i principi generali di
composizione, facendo in modo che l’intero intervento,
seppure costituito da due edifici distinti e dalle caratteristiche morfologiche e volumetriche diverse, possa
essere letto nella sua unitarietà di progetto.
4 Prospetto su via Guerrazzi
5 Pianta piano terra, pianta piano tipo, pianta piano attico
193
Referenze iconografiche
Le fotografie (p. 188 e 6, p. 192) e i relativi diritti, sono di proprietà
dell’autore.
I disegni e le fotografie d’epoca (1-5, pp. 189-191) sono conservati
presso l’Archivio Storico del Comune di Firenze,
CF 16463 - 1235/1956 e CF 16740 - 860/1958.
6 Particolare del fronte su via Guerrazzi
195
Giovanni Klaus Koenig
edificio per abitazioni e uffici (1967)
via XX Settembre, 58
«Dopo aver esaminato a lungo i disegni e le foto e aver
riguardato con attenzione qualche costruzione ho pensato che forse questa era un’altra invenzione di Giovanni Klaus Koenig (come il premio Muggia o la serie di
posate apocrife...). Koenig aveva messo insieme le carte
per inventare il prototipo dell’architettura della “scuola
fiorentina”. C’è un continuo altalenare tra localismo e
internazionalismo, tra organicità e caratteri distributivi,
tra strutturalismo e decorazione. Di volta in volta, scopre
l’architettura organica, il neorealismo, l’espressionismo,
il neoliberty. E sempre con un certo distacco, con la volontà di non mettersi mai sotto tutela di nessun maestro,
con la voglia di rinventare tutto risciacquando i panni in
Arno. Il tutto sempre con una grande umanità, con simpatia per coloro che avrebbero usato le case e le cose»1.
Ormai distanti quasi un ventennio, dalle prime ricostruzioni post-belliche, l’edificio di via XX Settembre
viene concepito sulle basi della ricerca di una nuova
espressività, giocata sulla complessità del progetto
architettonico e sul raffinato studio delle parti e del
loro reciproco assemblaggio, secondo principi sottesi a diverse esperienze coeve, quali – per citare alcuni
esempio “vicini” – l’edificio di Franco Bonaiuti in viale
Gramsci (precedentemente analizzato) che porterà poi
allo sviluppo dell’interessante complesso di via Leone
X del 1970 (che si lega a sua volta all’esasperata complessità dell’ Habitat di Moshe Safdie realizzato a Montreal in occasione dell’Expo del 1967), o il grattacielo di
Livorno di Giovanni Michelucci. Il fabbricato di Koenig,
sebbene non perseguiti l’abolizione programmatica
del piano di facciata, riesce, modellando accuratamente i volumi principali con aggetti, scatti e rientranze, e
enfatizzando – dimensionalmente e formalmente – le
gerarchie tra le parti, a ottenere un equilibrio formale
estremamente dinamico e mai scontato. La narrazione
architettonica è chiara e suadente in ogni sua declinazione, e – parafrasando le stesse parole dell’autore –
enfatizzando periodi, costruendo iperboli, distorcendo
significati, giunge, partendo da una prosa “corretta”, a
espressioni che rasentano la poesia.
Impostato planimetricamente su di un impianto asimmetrico a T, con la parte residenziale che affaccia su via
XX Settembre e quella destinata agli uffici che si distende invece su via Vanini, l’edificio è intriso, in ogni suo
dettaglio, di echi e di memorie. La storia, quella medioevale, al pari di quella più recente, viene interiorizzata
in Koenig, rielaborata e ripresentata in una veste nuova
e inattesa, ora in modo serioso ed elegante, ora sfrontato e ironico. Così il ricordo della torre medioevale diventa, nel blocco scale terminale dell’ala su via Vanini,
un volume compatto, massiccio, inciso da un profondo
taglio verticale, punteggiato da fioriere in aggetto come
calderoni pronti a rovesciare olio bollente su, eventuali, “sgraditi” ospiti, oppure, sul fronte parallelo al Mugnone, si trasfigura in una torretta esile, sospesa e in
aggetto rispetto al filo della facciata, completamente
svuotata dalla serie continua di bow-window sovrapposti, dai quali è formata, e coronata da un aereo gazebo
con tanto di leone e bandierina.
La memoria della loggia, e dello sporto fiorentino, si
fondono in un loggiato passante continuo – ad eccezione del blocco arretrato dell’ingresso, in corrispondenza
dell’intersezione dei due bracci – realizzato grazie ad un
apprezzabile virtuosismo strutturale, di chiara matrice
modernista. Una serie di cavalletti trilitici in cemento
armato – costituiti da una coppia di pilastri, sdoppiati
e sagomati, e da una trave, dal profilo variabile, sporgente a mensola da ambo i lati – sorreggono l’intero
volume del fabbricato generando una notevole tensione tra il peso del corpo sostenuto e il vuoto, d’ombra,
197
sottostante. L’intero corpo destinato alle residenze è
rivestito in mattoni sestini rustici, scandito da fasce di
cemento armato – in corrispondenza dei solai – e di travertino – all’altezza dei relativi parapetti – che segnano
l’altezza dei balconi, ed è coronato dal parapetto-cornicione del terrazzo del piano attico arretrato, costituito
da elementi in cemento armato prefabbricati che generano una merlatura appena accennata. La facciata sul
Mugnone, se per il primo piano è segnata da una serie
di finestre inquadrate da una coppia di fioriere, per tutti gli altri piani è fortemente connotata dal gioco di luci
e ombre creato dai balconi in aggetto, dalle profonde
nicchie e dagli arretramenti progressivi delle tamponature in corrispondenza delle aperture – rivestimento
in laterizio, trave a vista in cemento armato, cassone
in legno dell’avvolgibile esterno, muratura intonacata,
infisso in legno – che si alternano ritmicamente per l’intero sviluppo del complesso. Il corpo degli uffici invece,
di dimensioni ridotte rispetto a quello delle residenze,
è trattato in modo modesto e volutamente sottotono, tramite un sistema di prospetti tipo courtain-wall
– pensati originariamente in legno ma realizzati, per
questioni economiche e di manutenzione, in alluminio
anodizzato – e concluso con un’alta copertura rivestita
in rame, all’interno della quale è possibile ricavare ulteriori spazi di lavoro. L’ala residenziale è alta sei piani,
più il piano attico, e ospita due ampi e lussuosi appartamenti per ogni piano, mentre quella degli uffici è alta
quattro piani, più il sottotetto ed è interamente riservata ai soli ambienti di lavoro.
Bibliografia
Claudio Messina
Me ne vado e sbatto l’uscio
Giovanni Klaus Koenig. Architetture
Alinea, Firenze, 1994, p. 95
A cura di E. Insabato Guida agli Archivi di Architetti e Ingegneri
e C. Ghelli
del Novecento in Toscana
Edifir, Firenze, 2007, pp. 219-222
2 Pianta piano terra e pianta piano primo del villino preesistente
4 Pianta piano tipo
3 Planimetria generale
5 Pianta piano terra
note
1 C. Messina, Me ne vado e sbatto l’uscio, Giovanni Klaus Koenig.
Architetture, Alinea, Firenze, 1994, introduzione di A. Natalini, p. 9
1 Scorcio del fronte su via XX Settembre
198
199
6 Prospetto su via XX Settembre
7 Sezione trasversale
8 Prospetto su via Vanini
9 Prospetto sul passaggio laterale
200
10 Particolare del fronte su via XX Settembre
11 Scorcio del fronte su via XX Settembre
12 Scorcio del fronte su via Vanini
201
Referenze iconografiche
Le fotografie (p. 194 e 1, 10-13, pp. 196, 199-200) e i relativi diritti,
sono di proprietà dell’autore.
I disegni e le fotografie d’epoca (2-9, pp. 197-198) sono conservati
presso l’Archivio Storico del Comune di Firenze,
CF 17310 - 1668/ 1962 e CF 17634 - 506/1965.
13 Particolare del fronte su via XX Settembre
203
Giovanni Michelucci
edificio INA casa per abitazioni e negozi (1954-57)
via Guicciardini, via dello Sprone, 1
Realizzato per l’Istituto Nazionale delle Assicurazioni
(INA), l’edificio posto in angolo tra via Guicciardini e
via dello Sprone – nelle immediate vicinanze di Piazza
Pitti – rappresenta, nella casistica degli interventi per
la ricostruzione delle zone intorno a Ponte Vecchio, l’esempio più riuscito di confronto e dialogo con la città
storica. Probabilmente grazie anche al lungo tempo di
maturazione – la fabbrica vede la sua ultimazione quasi
dieci anni dopo l’inizio delle operazioni di ricostruzione
– Michelucci riesce ad elaborare un progetto che, senza
cedere alla tentazione del mimetismo, opera il recupero della tradizione e della storia, non come atto di mero
formalismo e stilismo, bensì come riappropriamento di
valori e qualità spaziali e simboliche andate perdute.
I temi ambientali ricorrenti, le specificità locali, vengono scomposte, analizzate attentamente nei propri
elementi e riassemblate, in una interpretazione nuova
della città storica, riuscendo a figurare lo spirito della
città stessa, senza rinunciare ad una espressione architettonica personale e contemporanea. Magistrale
figurazione – soprattutto sul lato prospiciente via dello Sprone – di quel carattere di solidità e compattezza
muraria tipicamente fiorentino, l’edificio diventa, esso
stesso, segno iconico del carattere murario della città,
di quell’equilibrio sbilanciato fra l’involucro murario e le
bucature, della prevalenza massiccia dei pieni sui vuoti.
L’edificio è organizzato secondo un impianto planimetrico ad L costituito da due corpi di fabbrica indipendenti – serviti da altrettanti vani-scala – collegati da un
androne voltato che immette in una corte interna. Il
primo, quello su via Guicciardini, è composto da otto
appartamenti duplex, distribuiti da un ballatoio coperto – posto al livello inferiore di ogni serie di appartamenti – che si sviluppano per l’intera profondità del
corpo di fabbrica. Il fronte principale, impaginato in
204
quattro fasce verticali dai poderosi montanti verticali,
rastremati verso l’alto, e interrotti dalle linee verticali
dei balconi e dei marcapiano in cemento, ha un aspetto
duro e fortemente connotato – i vuoti sono scavi profondi e affogati nell’ombra – mentre quello laterale più
mite, interamente rivestito in pietra forte per l’intera
altezza, è caratterizzato dal gioco delle minute finestre
si rincorre e si alterna con quello delle porte-finestre
prive di balcone. Si compone così, in corrispondenza
dell’angolo tra le due strade, la visione di una imponente – contemporanea – casa-torre, accentuata dalla
tensione materica e formale dello spigolo che si carica
di forti e intense valenze evocative. Il secondo corpo
invece, interamente sviluppato su via dello Sprone, è
composto da due appartamenti per piano e, seppure
trattato formalmente quasi in sottotono, rispetto al primo appena descritto, presenta una facciata articolata
comunque nei tre registri canonici del “palazzo”: basamento in pietra forte, corpo residenziale completamente intonacato con bucature – porte e porte-finestre
– alternate e sfalsate, e coronamento finale, caratterizzato dall’arretramento dell’ultimo piano – con il conseguente formarsi di un lungo terrazzo coperto dal tetto
aggettante – a ricordare le antiche altane.
Tetti severi, con un accentuato sporto di gronda, rimarcano, con le loro lunghe e dense ombre, il culmine
superiore dell’edificio stesso, contribuendo a quell’equilibrio generale che rende quest’opera – nonostante
Michelucci dichiari che non sia tra quelle che più ama –
un capolavoro delicato e discreto. «E infatti basterebbe
un nonnulla – un diverso trattamento della pietra-forte,
lavorata a macchina e non a scalpello, per esempio –
per far spostare l’immagine o verso il compromesso
dell’ambientazione mimetico-scenografica, o verso la
sordità dell’opera del modernista insensibile. Basta
205
dimenticare il rapporto (che non si legge nei disegni
frontali) fra il fianco murato, con le piccole aperture disposte liberamente come nelle antiche torri, e il fronte,
elaborato come uno spazio interno, in netto rapporto
con la strada (di cui costituisce una parete), per togliere
all’immagine globale, che è quella che percepiamo di
scorcio, quell’equilibrio fra simmetria ed asimmetria,
fra ordine e libertà, che abbiamo visto essere tipico
dell’ambiente toscano. E ancora: sarebbe sufficiente
che i pilastri del fronte, decrescenti in larghezza e leggermente disassati, fossero stati disegnati con meno
sensibilità – tutti dritti, per esempio – per trasformare la
firma di Michelucci in quella di Ballio Morpurgo. E’ comprensibile perciò che chi è ancora legato alle grosse battaglie razionaliste per l’architettura moderna non possa
né apprezzare queste sfumature, né ammettere che fra
un capolavoro e una bruttura possano passare solo cinque centimetri, una grana di materiale, e poco d’altro»1.
Bibliografia
note
1 G. Klaus Koenig, Architettura in Toscana, 1931-1968, ERI Edizioni Rai,
Torino, 1968, p. 79
1 L’angolo tra via Guicciardini e via dello Sprone
206
2 Planimetria generale
3 Pianta piano terra, pianta piano secondo, pianta piano terzo
N. De Mayer
Due edifici di Giovanni Michelucci a Firenze, in “Casabella-continuità”, n. 229/1959
M. Dezzi Bardeschi Giovanni Michelucci, casa d’abitazione a Firenze, in “La casa”, n. 6, 1959
M. Dezzi Bardeschi L’architecture italienne, in “Architecture (L’) d’Aujourd’hui”, 113-114/1964
F. Clemente, L. Luigi Giovanni Michelucci, il pensiero e le opere
Bologna, 1966
F. Borsi
Giovanni Michelucci
Libreria editrice fiorentina, Firenze, 1966
L. Lugli
Giovanni Michelucci, il pensiero e le opere
Istituto di Architettura ed Urbanistica, Bologna, 1966, pp. 114-117
G. Klaus Koenig Architettura in Toscana, 1931-1968
ERI Edizioni Rai, Torino, 1968, pp. 73-101
M. Cerasi Michelucci
De Luca, Roma, 1968
C. Cresti Appunti storici e critici sull’architettura italiana dal 1900 ad oggi, G&G, Firenze, 1971
F. Borsi Elementi di città o del realismo utopico, in
“La città di Michelucci”, cat. della mostra a cura di E. Godoli, Basilica di S. Alessandro,
30. 4. - 30. 5. 1976, Fiesole, 1976
M. C. Buscioni Michelucci, il linguaggio dell’architettura Officina, Roma, 1979
A. Belluzzi, C. ConfortiGiovanni Michelucci. Catalogo delle opere Electa, Milano, 1986
G. Gobbi Sica
Itinerari di Firenze Moderna
Alinea, Firenze, 1987, p. 103
A. Esposito
Giovanni Michelucci, Itinerari Domus
in “Domus”, n. 692, 1988
L. Macci Nuove stagioni della città: progetti e architetture, Electa, Milano, 1993
E. Godoli
Architetture del Novecento: la Toscana
Polistampa, Firenze, 2001
AA VV Giovanni Michelucci, 1891-1990
Electa, Milano, 2006, p. 232
AA VV
L’architettura in Toscana dal 1945 a oggi
Alinea, Firenze, 2011, p. 55
207
4 Prospetto su via Guicciardini
6 Prospetto su via dello Sprone
208
5 Sezione trasversale EF
7 Particolare del fronte su via dello Sprone
8 Particolare del fronte su via Guicciardini
9 Scorcio del fronte sulla corte interna
209
Referenze iconografiche
Le fotografie (p. 202 e 1, 7-10, pp. 204, 207-208) e i relativi diritti,
sono di proprietà dell’autore.
I disegni (2-6, pp. 204-206) sono tratti da:
N. De Mayer, Due edifici di Giovanni Michelucci a Firenze,
in “Casabella-continuità”, n. 229/1959, pp. 12-29.
10 Particolare del fronte su via Guicciardini
211
Giovanni Michelucci
edificio per abitazioni e negozi (1956-60)
via Guicciardini, 26
Minata nell’agosto del 1944, alla vigilia dell’inaugurazione, la casa-galleria di Eugenio Ventura – collezionista
d’arte e mecenate – viene ricostruita, sempre su progetto di Giovanni Michelucci – che aveva firmato anche
la prima, sfortunata, soluzione di cui non sono rimaste
testimonianze né grafiche, né fotografiche – su quei locali che avevano, storicamente, ospitato le scuderie del
prospiciente palazzo Guicciardini.
L’edificio ha un aspetto duro e fortemente connotato: i
vuoti sono scavi profondi e affogati nell’ombra e il tetto,
con la gronda in forte aggetto, corona il fabbricato in
modo severo e deciso.
Il fronte su via Guicciardini può essere chiaramente letto nella sua partitura verticale, composta da tre fasce:
quella inferiore, destinata originariamente alla galleria
– oggi a negozi – dominata dai due grandi e profondi
vuoti – dell’ingresso alle abitazioni e delle vetrine – divisi da un imponente pilastro in pietra, e le due fasce
superiori, segnate dallo spessore delle travi in cemento armato che diventano marcapiano, e caratterizzate
dallo sfalsamento dello stesso disegno delle aperture
che scarta, da un piano all’altro, generando, all’interno
dello spartito preciso dei ricorsi verticali, un dinamico
elegante squilibrio.
Dal generoso scavo della galleria fuoriescono due vetrine scatolari, sospese da terra, aggettanti verso l’esterno, che riecheggiano agli antichi banconi di vendita che sporgevano sulla strada – protetti dagli sporti
sovrastanti – tipici della “bottega” della casa a schiera
medioevale. Un massiccio portone in legno cela invece
l’ingresso all’atrio e alla scala condominiale. L’imponente pilastro che separa, asimmetricamente, i due vuoti
del piano terra, presenta un trattamento plastico del
rivestimento in pietra forte dato dallo sfalsamento programmatico del piano di posa di alcune lastre – presen-
te già nei disegni di progetto – che generano, al variare
della luce, scultorei effetti di luce e ombra.
I due piani superiori, che ospitano rispettivamente un
solo appartamento per piano, si distinguono invece,
dalla fascia basamentale del piano terra, per l’uso del
cemento a vista, dell’intonaco ritmato da listelli di botticino e per le ampie finestrature continue che incidono
orizzontalmente quasi l’intero prospetto.
Finestrature, con infissi e montanti in legno che riprendono la partitura di quelli in botticino, sottolineate da
ininterrotti ricorsi orizzontali che diventano, da soglia,
balaustra per le porte-finestre – con balcone leggermente in aggetto – o generano un sopraluce continuo,
tagliando, per l’intera lunghezza, la serie di finestre e
porte-finestre.
«Le due case di via Guicciardini – come ci racconta Giovanni Klaus Koenig – son fra i pochi esempi positivi della ricostruzione del centro di Firenze, e, come abbiamo
già notato, furono anche fra le ultime ad essere ricostruite, nel 1956-57; dopo che Michelucci aveva atteso
per vari anni alla loro progettazione, in una lunga serie
di varianti e di prove. [...] Quando mi è capitato di di accompagnare in via Guicciardini un architetto o un critico straniero (senza far nomi, dirò però che si trattava di
persone famose), a cui facevo vedere con orgoglio uno
dei rarissimi esempi in cui l’antico e il nuovo andavan
d’accordo, mi son visto guardare con stupore, e talvolta con disappunto, come se non fosse valso la pena di
arrivare fin lì per vedere una cosa così insignificante.
Il che fa indubbiamente riflettere. Delle due l’una: o le
case di Michelucci sono un fenomeno puramente locale, che noi dilatiamo con gli occhi amorevoli del discepolo; oppure, il suo è un discorso così sottile da non
poter essere capito da chi non capisce perfettamente
l’ambiente architettonico toscano. Forse la verità, come
213
spesso avviene, sta nel mezzo: è un’esperienza limitata,
e che quindi non può avere risonanza al di fuori di coloro che sono a conoscenza del particolare codice architettonico che denota le cose fiorentine. Però, il valore
di questa esperienza è tale da superare questi limiti e
da imporsi nel mondo dell’arte; esattamente come le
poesie del Belli, che chi non conosce il romanesco non
potrà mai gustare veramente, ma che rientrano a pieno diritto nella storia della poesia italiana»1.
note
1 G. Klaus Koenig, Architettura in Toscana, 1931-1968, ERI Edizioni Rai,
Torino, 1968, p. 78
Bibliografia
N. De Mayer
Due edifici di Giovanni Michelucci a Firenze, in “Casabella-continuità”, n. 229/1959
L. Lugli
Giovanni Michelucci, il pensiero e le opere
Istituto di Architettura ed Urbanistica, Bologna, 1966, p. 130
G. Klaus Koenig Architettura in Toscana, 1931-1968
ERI Edizioni Rai, Torino, 1968, pp. 73-101
A. Belluzzi, C. ConfortiGiovanni Michelucci. Catalogo delle opere Electa, Milano, 1986, p. 113
G. Gobbi Sica
Itinerari di Firenze Moderna
Alinea, Firenze, 1987, p. 109
A. Esposito
Giovanni Michelucci, Itinerari Domus
in “Domus”, n. 692, 1988
L. Macci Nuove stagioni della città: progetti e architetture, Electa, Milano, 1993
AA VV Giovanni Michelucci, 1891-1990
Electa, Milano, 2006, pp. 184-185
2 Prospetto su via Guicciardini
1 Pianta piano seminterrato, pianta piano terra, pianta piano primo
214
3 Sezione trasversale
4 Scorcio del fronte su via Guicciardini
215
Referenze iconografiche
Le fotografie (p. 210 e 4, 5, pp. 213-214) e i relativi diritti, sono di
proprietà dell’autore.
I disegni (1,3, pp. 212-213) sono tratti da: G. Gobbi Sica, Itinerari di
Firenze Moderna, Alinea, Firenze, 1987, p. 109
Il disegno (2, p. 213) è tratto da: A. Belluzzi, C. Conforti,
Giovanni Michelucci. Catalogo delle opere, Electa, Milano, 1986, p. 113.
5 Particolare del fronte su via Guicciardini
217
Ugo Saccardi
edificio per abitazioni (1962-63)
piazza Conti, 7
«Fra gli architetti della generazione laureata nel dopoguerra [...] dobbiamo citare Ugo Saccardi, anch’egli professore alla facoltà fiorentina di Architettura, autore di
un edificio in piazza Conti, che è un esempio unico, a
Firenze, di quel tipo edilizio che a Roma si chiama “palazzina”, così scaduto da far entrare nel gergo degli architetti il termine dispregiativo palazzinaro per indicare
il progettista succube del volere delle imprese edilizie.
Ma se questo dispregio è sacrosanto a Roma [...] ben diversamente avviene a Firenze, dove certe strade e piazze dell’ampliamento del primo Novecento non possono
che guadagnare dagli interventi come quello operato
dal Saccardi. Il quale ha saputo nobilitare questo genere tipologico con un robusto ed al tempo stesso raffinato giuoco di terrazze sfalsate, dal linguaggio organico (è
forse l’edificio fiorentino dove l’influsso di Wright è più
evidente); e con alcune finezze in cui si riconosce l’insegnamento di Michelucci, come quella delle tamponature in pietraforte, che contribuiscono all’accordo con
l’ambiente di una così notevole emergenza formale»1.
La palazzina di piazza Conti sorge su di un lotto d’angolo, precedentemente occupato da un villino a due piani
con un ampio terrazzo sulla piazza, di forma trapezoidale, con due lati che affacciano sulla corte interna, e
due prospicienti rispettivamente, via Marsilio Ficino, e
la piazza stessa. L’influenza delle teorie e delle opere
di Frank Lloyd Wright – la mostra, a lui dedicata, nel
1951 a Palazzo Strozzi ha notevoli ripercussioni nella
riflessione architettonica del tempo – ispira la serie di
piani sfalsati indipendenti e aggettanti che si allargano,
sporgendo, in ogni direzione che, diventando il tema
conduttore del progetto, rappresentano un vero e proprio omaggio urbano alla famosa casa Kaufmann. Ogni
piano dell’edificio è infatti marcatamente segnato dalla
presenza di lunghi balconi aggettanti, completamente
218
intonacati che – sfalsati di piano in piano – generano un
ritmico alternarsi di pieni e di vuoti, andando a sbalzo,
ora da un lato, ora dall’altro, in un controllato gioco di
squilibri ed equilibri dinamici.
A tenere unito, l’intero discorso architettonico, lame
verticali rivestite in pietraforte e, vere e proprie, cascate di vetro – rimarcate dai montanti degli infissi in legno
continui – percorrono per tutta l’altezza il fabbricato,
generando dei punti fissi di equilibrio, capaci di dare
slancio verticale ed accentuare allo stesso tempo, per
contrasto, le spinte orizzontali delle fasce intonacate
dei balconi. Così, se la cascata naturale non esiste, si
prende in prestito quella metaforica, fatta di luce, della
stazione ferroviaria di Santa Maria Novella. Ma l’insegnamento dei maestri non si ferma ai soli aspetti generali, a quelli compositivi di massima, ma arriva fino alla
definizione dei dettagli. Recependo la sentita critica di
Michelucci ai rivestimenti in pietraforte che andavano,
in nome di una ricercata integrazione di carattere ambientalistico, a ledere la sincerità strutturale dell’edificio che veniva completamente negata, affogata dietro
il paramento lapideo di rivestimento, Saccardi decide di
denunciare il carattere non strutturale delle tamponature in pietra, lasciando a vista i pilastri in cemento armato e distanziando il rivestimento lapideo dalla struttura – trasformandolo, a tutti gli effetti, in un pannello
applicato sulla muratura – attraverso delle profonde e
ampie fughe. Anche il setto perpendicolare alla facciata, in corrispondenza dell’ingresso – e il cui rivestimento prosegue anche all’interno dell’atrio – pur essendo
completamente rivestito in pietra, non sfugge a questa
chiarezza di lettura. Infatti, ogni volta che il setto incontra uno dei balconi sovrastanti, o la pensilina che sottolinea l’ingresso, il proprio rivestimento si interrompe e,
grazie ad una fuga pronunciata, ne svela la vera natura.
219
1 Planimetria generale
La palazzina è alta quattro piani, più il piano attico e
un seminterrato riservato alla rimessa delle auto, alle
cantine e all’appartamento del portiere. Per ogni piano
sono previsti due ampi appartamenti, brillantemente
distribuiti, ricchi di servizi e locali accessori. Evidentemente pensati per una medio-alta borghesia, gli appartamenti – ognuno di circa 180 mq. – prevedono, oltre
a quello principale, un ingresso secondario che apre
direttamente nei locali della cucina. Ogni stanza è generosamente illuminata da grandi aperture e, in linea
di massima, è dotata di un accesso ad uno dei numerosi balconi. I vasti soggiorni si articolano alla luce delle grandi vetrate continue, da terra a soffitto, che segnano, verticalmente – come abbiamo già visto – i due
fronti principali dell’edificio.
Le qualità, non solo della composizione formale esterna, ma anche delle soluzioni degli ambienti interni, il
loro stretto legame, l’attenzione e la cura dei dettagli,
nell’ottica di una chiarezza sintattica di composizione,
rendono, ancora oggi, questa palazzina un raro esempio di attento e colto professionismo.
4 Pianta piano terra
note
1 G. Klaus Koenig, Architettura in Toscana, 1931-1968, ERI Edizioni Rai,
Torino, 1968, p. 173
Bibliografia
2 Particolare del prospetto su piazza Conti
220
G. Klaus Koenig G. Gobbi Sica
AA VV
Architettura in Toscana, 1931-1968
ERI Edizioni Rai, Torino, 1968, pp. 173-174
Itinerari di Firenze Moderna
Alinea, Firenze, 1987, p. 125
L’architettura in Toscana dal 1945 a oggi
Alinea, Firenze, 2011, p. 63
3 Particolare del fronte su piazza Conti
5 Pianta piano tipo
221
6 Prospetto su via Ficino
7 Prospetto su piazza Conti
8 Modello originale
9 Modello originale
222
10 Sezione trasversale AB
11 L’angolo tra piazza Conti e via Ficino
12 Scorcio del fronte su via Ficino
223
Referenze iconografiche
Le fotografie (p. 216 e 3, 11-13, pp. 219, 221-222) e i relativi diritti,
sono di proprietà dell’autore.
La riproduzione dei disegni (1, 4-7, 10, pp. 218-221) è stata
gentilmente concessa dal prof. arch. Roberto Corazzi che ne detiene
la proprietà.
I disegni e le fotografie d’epoca (2, 8, 9, pp. 218, 220) sono
conservati presso l’Archivio Storico del Comune di Firenze,
CF 17009 - 285/1961.
13 Particolare del fronte su piazza Conti
225
Leonardo Savioli
edificio per abitazioni (1964-67)
via Piagentina, 29
Posto all’incrocio tra una delle arterie più trafficate della
città – via Piagentina – e una strada invece molto silenziosa e senza sfondo – via San Giovanni Bosco – l’edificio
viene concepito da Savioli – in collaborazione con Danilo
Santi – sia per lo sviluppo verticale, che per il trattamento
monomaterico delle superfici esterne – in cemento faccia a vista – come una vera e propria casa-torre. Una torre moderna, frutto delle ricerche sperimentali grafiche e
progettuali del suo autore, esemplare, allo stesso tempo, della caratteristica murarietà fiorentina, della storica parsimonia delle bucature, qui caotiche e puntiformi,
come i fronti stradali della città gotica, nati dall’accostamento successivo e disordinato delle case a schiera.
L’intera fabbrica, che si imposta su di un impianto a terra a V – legato alle direzioni convergenti delle strade
che delineano la forma del lotto – si frammenta e si
articola in molteplici volumi verticali di altezze e dimensioni diverse. Spicca su tutti quello del blocco distributivo delle scale condominiali e dell’ascensore che segna
con potenza l’angolo dell’edificio – in corrispondenza
dell’incrocio delle due strade – dandogli l’aspetto di una
fortificazione medioevale, compatta e impenetrabile. I
volumi massicci, attraverso operazioni reiterate di aggiunte, manipolazioni, e di modifiche progressive, si
caricano di potenti episodi plastici tesi, non solo a ricreare la sensazione di verticalità, ma anche ad accentuarne i caratteri di severità e chiusura. Una progettazione
architettonica condotta grazie a una “memoria storica”
interiorizzata e metabolizzata, in grado di generare un
dialogo stretto con il passato della città – assecondando
valori e aspirazioni del tempo – ma senza rinunciare al
gesto architettonico originale e autografo. Il trattamento dei volumi che, di volta in volta, aggettano o vengono
scavati, giocando con le ombre e il variare delle stesse
durante la giornata, l’attenzione minuta e ossessiva per
ogni aggettivazione e dettaglio, l’equilibrata e ricercata
composizione di tutte le parti – apparentemente in ordine sparso e caotico – contribuiscono a creare un’immagine fortemente legata alla città storica. Gli articolati
aggetti, gli sporti, gli imprevisti volumi a sbalzo, rimandano direttamente alle provvisorie sovrastrutture in
legno che, accessorie alla torre in pietra, caratterizzavano il paesaggio medioevale della città.
A chiudere la narrazione architettonica, sul braccio di
via Piagentina, un imponente tetto ogivale si stende,
col suo pronunciato aggetto, a coprire generosamente
corpi principali e corpi secondari, come un grande cappello unificante e protettivo.
Alto sei piani, nel blocco su via Piagentina e quattro,
in quello su via San Giovanni Bosco, l’edificio ospita, a
configurazioni variabili, uno o due appartamenti per
piano. Quando l’appartamento si stende sull’intero piano – occupando quindi entrambi i blocchi – si configura
con una zona notte, distribuita in modo tradizionale da
un corridoio centrale – nel braccio su via Piagentina –
e con una zona giorno invece – nel braccio su via San
Giovanni Bosco – costituita da un unico volume unitario, frazionabile attraverso pareti scorrevoli, che prevede uno scultoreo camino, posto al centro dello spazio
principale. Elemento fisso e inamovibile, ma in grado di
gerarchizzare gli spazi che gli ruotano intorno e suggerire utilizzi diversi per le diverse zone, il camino diviene
pretesto per creare un’articolazione complessa e articolata, sia dello spazio che dei volumi stessi che lo compongono. La cura estrema degli interni, generosamente definiti da elementi plastici, strutturali e funzionali,
sempre formalmente e simbolicamente significativi,
così come quella delle scelte espressive che caratterizzano l’intero intervento, è confermata dalle parole
dello stesso Savioli: «L’edificio ha funzione residenzia227
1 Pianta piano tipo
2 Prospetto su via Piagentina
228
le, con appartamenti da vendersi o da affittarsi. Nonostante il tema necessariamente generico, dato l’utente
generico, il progetto tende ugualmente a caratterizzarsi. Alcuni quartieri occupano per intero l’area costruita,
altri, più economici, ne occupano la metà. In tutti i casi
è stata preoccupazione di conferire un carattere differenziato da appartamento ad appartamento. La pianta
interna tende a risolvere una certa continuità spaziale
anche mediante l’uso di pareti scorrevoli. [...] Il fabbricato è realizzato in cemento armato. Le pareti di 15 cm.
(5 cm. di cemento, 5 cm. di frigolit [polistirolo espanso],
5 cm. di cemento) rimangono in materiale a faccia a
vista tanto nell’interno che all’esterno. La coibenza termica di una parete così formata è uguale a quella di
una parete di mattoni pieni di 50 cm. Nell’interno, solo
in alcune zone (a fianco dei letti, del tavolo da pranzo o
in altri punti) vengono disposti pannelli a stucco. I condotti della luce e del riscaldamento passano in scatolari
che hanno la funzione di battiscopa. Le curve delle pareti di cemento sono di due raggi soltanto in modo che
con due casseforme si realizza l’opera di carpenteria.
[...] Gli infissi sono in cemento per la parte fissa, e legno
naturale per la parte mobile. Quelli di cemento sono
prefabbricati e modulari in modo che con gli stessi elementi si possano ottenere combinazioni numerose.
[...] La parziale prefabbricazione, il sistema costruttivo
rapido ed elementare, l’uso del materiale, il mezzo termologico messo in evidenza piuttosto che nascosto od
arricchito da rifiniture, dovrebbe esso stesso, costituire
motivo di espressione»1.
note
1 AAVV, Leonardo Savioli: il segno generatore di forma-spazio, Edimond,
Firenze, 1995, pp. 120-121
Bibliografia
M. Dezzi Bardeschi Il senso della storia nell’architettura italiana
degli ultimi anni, in “Comunità”,
n. 130, 1965, p. 55
A cura di G. Fanelli
Leonardo Savioli
UNIEDIT, Firenze, 1966, pp. 207-221
L. V. Masini
Triennale itinerante di architettura
in “La Biennale”, n. 59, 1965, p. 63
R. Pedio
Edificio per abitazioni a Firenze, in
“L’architettura, cronache e storia”,
n. 138, 1967, pp. 810-812
G. Klaus Koenig Architettura in Toscana, 1931-1968
ERI Edizioni Rai, Torino, 1968, pp. 153-161
P.C. Santini
Architetture recenti di Leonardo Savioli
in “Ottagono”, n. 14, 1969, p. 90
A. Sposito
Una struttura ‘nuova’ a Firenze
in “L’industria italiana del cemento”,
n. 10, 1969, pp. 725-740
_
Unità di architettura, in “Interni”,
n. 33, 1969, pp. 2-15
_ Edificio a Firenze
in “Architecture (L’) d’Aujourd’hui”
n. 161, 1972, pp. 66-68
AA VV
Leonardo Savioli
UNIEDIT, Firenze, 1974, pp. 34-35
F. Brunetti
Leonardo Savioli architetto
Dedalo, Bari, 1982, pp. 45-49
M. Tafuri
Storia dell’Architettura Italiana, 1944-1985
Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 1985, p. 102
G. Gobbi Sica
Itinerari di Firenze Moderna
Alinea, Firenze, 1987, p. 149
AAVV
Leonardo Savioli:
il segno generatore di forma-spazio,
Edimond, Firenze, 1995, pp. 120-128
C. Cresti
Firenze, capitale mancata,
architettura e città dal piano Poggi a oggi,
Electa, Milano, 1995, pp. 352-358
AA VV
L’architettura in Toscana dal 1945 a oggi
Alinea, Firenze, 2011, p. 71
3 Particolare del fronte su via Piagentina
229
7 Prospetto su via San Giovanni Bosco
4 Particolare del fronte su via Piagentina
5 Interno di un appartamento (soggiorno-ingresso)
230
6 Particolare del vano scala e ascensore
8 Prospetto sulla corte interna
9 Disegno di studio di un fianco dell’edificio
231
Referenze iconografiche
Le fotografie (p. 224 e 3, 4, 6, 10, pp. 227-228, 230) e i relativi diritti,
sono di proprietà dell’autore.
Il disegno (1, p. 226) è tratto da: Edificio a Firenze,
in “Architecture (L’) d’Aujourd’hui” n. 161, 1972, pp. 66-68.
I disegni (2, 7, 8, pp. 226, 229) sono tratti da:
R. Pedio, Edificio per abitazioni a Firenze, in “L’architettura, cronache
e storia”, n. 138, 1967, pp. 810-812.
I disegni e le fotografie (5, 9, pp. 228-229) sono tratti da:
AAVV, Leonardo Savioli: il segno generatore di forma-spazio,
Edimond, Firenze, 1995, pp. 120-128.
10 Particolare del fronte su via Piagentina
233
Pierluigi Spadolini
edificio per abitazioni (1968-70)
via Guerrazzi, 10
Seppure in modo originale, legato ad un’attenzione
rivolta verso gli aspetti della prefabbricazione e della
modularità, anche l’edificio di Pierluigi Spadolini in via
Guerrazzi rivela una predilezione, tutta fiorentina, per
la massa muraria, per la dominanza dei pieni sui vuoti,
giocata, non con le accentuazioni locali dei bugnati in
pietra forte e delle estese superfici in intonaco liscio,
bensì attraverso l’utilizzo di listelli verticali di emalux –
una graniglia di pietra forte impastata con resine trasparenti – di un colore che, assieme a quelli degli infissi
in legno, delle finiture in ferro, colore testa di moro, e
della copertura in tegole di cotto bruciato, sintetizza la
cromaticità del paesaggio cittadino circostante, riprendendo, per dirlo come era solito fare Italo Gamberini, “il
colore di Firenze vista dal Piazzale Michelangelo in un
giorno di sole, socchiudendo gli occhi”.
L’intero disegno della facciata è dato dalla riproduzione seriale dell’elemento in emalux, applicato su di una
struttura portante completamente occultata, segnato
da scanalature verticali – a sezione parzialmente circolare, come per le antiche colonne greche – che generano una superficie incerta, ondulata, segnata dall’alternarsi ininterrotto di luci e ombre. La presenza, o meno,
dei pannelli definiscono i pieni e i vuoti, secondo una
scansione ritmica pressoché casuale: un espediente
utilizzato, assieme alla sagomatura del rivestimento,
per dinamizzare il disegno delle facciate, ulteriormente
accentuato dai leggeri sfalsamenti dei piani, che sbalzano, ora in un verso, ora nell’altro.
Le aperture che ne risultano vanno quindi da piano a
piano e, sia nelle logge in profondità, che nei tagli in
pelle dei pannelli-parete, sono costituite da porte-finestre, con gli infissi e i cassonetti degli avvolgibili in legno
– mentre gli avvolgibili sono di colore bianco, in contrasto con il colore del rivestimento dei fronti – e protette
da balaustre in ferro, colore testa di moro, regolate da
un disegno costituito dalla composizione multipla di
più circonferenze di diverso diametro e dalla presenza
di pochi, essenziali, elementi orizzontali.
Dalla relazione di progetto, firmata dallo stesso Spadolini, si legge che il progetto della nuova costruzione nasce «in sostituzione dell’attuale villino [...] in una zona di
saturazione S/2 compresa fra i viali e la ferrovia FirenzeRoma» e che «dato che esistono alberature di alto fusto
sul fronte e dato l’allineamento dei fabbricati esistenti,
si ritiene di mantenere la stessa ubicazione dell’edificio
preesistente anche su precisa richiesta della Soprintendenza ai Monumenti [...] Si è cercato di dare al nuovo
edificio non il ruolo di un’edilizia di riempimento ma di
mantenergli un ruolo significativo quale poteva essere
quella del villino preesistente. E’ stato particolarmente
curato lo studio sui quattro fronti ed un volume leggermente articolato con uno studio approfondito dei
materiali e dei colori medesimi»1.
Ancora oggi, il fabbricato è schermato da una grande
vegetazione e dalle alberature storiche che lo filtrano e
lo allontanano dal fronte stradale, mantenendo, come
da intento programmatico, il carattere dei villini del primo Novecento, preesistenti nell’area.
L’intento di voler preservare le alberature esistenti porta ad insolite soluzioni, come quella dell’ingresso – al
piano terreno e costituito da un solo piano – in corrispondenza del blocco scale di distribuzione, estroflesso verso il giardino – come la testa di una tartaruga – e
con una singolare configurazione tesa a salvaguardare
i due alberi che, sorgendo sui due lati, “strizzano” metaforicamente, al centro, il volume del corpo aggiunto.
La finitura esterna del vano scala – che fuoriesce, in
parte, rispetto al volume dell’edificio – realizzata con
un grigliato di elementi in laterizio, rappresenta l’unica
235
eccezione alle regola del pannello-parete in emalux.
L’edificio, alto sei piani, ospita due appartamenti, al primo e al piano terra, mentre, ai piani superiori, l’intera
superficie è coperta da un solo, vasto, appartamento.
note
1 Relazione di progetto, Busta n° 1021/68, conservata presso
l’Archivio Storico del Comune di Firenze, CF 17979 1968-1021
Bibliografia
1 Pianta piano tipo
G. Klaus Koenig G. Gobbi Sica
Francesco Gurrieri
2 Pianta piano terra
3 Planimetria generale
236
Architettura in Toscana, 1931-1968
ERI Edizioni Rai, Torino, 1968, pp. 167-172
Itinerari di Firenze Moderna
Alinea, Firenze, 1987, p. 126
Pierluigi Spadolini, Umanesimo e tecnologia
Electa, Milano, 1988, p. 140-141
4 Particolare del fronte su via Guerrazzi
5 Scorcio del fronte sul giardino di ingresso
6 Scorcio del fronte su via Guerrazzi
237
7 Prospetto sul giardino di ingresso
9 Prospetto su via Guerrazzi
238
8 Sezione trasversale
10 Dettaglio della soluzione di facciata
239
Referenze iconografiche
Le fotografie (p. 232 e 4-6, 11, pp. 235, 238) e i relativi diritti, sono di
proprietà dell’autore.
I disegni (1-3, 7-10 pp. 234, 236-237) sono conservati presso
l’Archivio Storico del Comune di Firenze,
CF 17979 - 1021/1968 e CF 21011 - 1592/1969.
11 Particolare della soluzione d’angolo
241
Francesco Spinelli
edificio per abitazioni (1958-62)
via Guerrazzi, 1m-1n
L’intervento occupa un’area piuttosto estesa, che si
attesta sull’angolo tra via Guerrazzi e via Varchi, e fa
parte di una più ampia manovra urbanistica di sviluppo
e densificazione del tessuto cittadino, fino ad allora costituito da villette isolate e di ridotte dimensioni.
Inizialmente presentato con una soluzione planimetrica a U, posta parallelamente ai lati del lotto, subisce,
nel tempo, una serie di modificazioni, dovute in parte anche ad alcune prescrizioni della sovrintendenza,
che, in questo non raro, ma comunque fortunato, caso,
contribuiscono a migliorare notevolmente il risultato finale. La nuova articolazione planimetrica prevede una
configurazione a T con un corpo, bene evidenziato, lo
sviluppo del quale si legge su via Guerrazzi – mentre la
testa spicca su via Varchi – e uno invece decisamente
arretrato su via Varchi – tanto da creare un giardino
lungo il filo stradale – dotato di una piccola “coda” che
chiude la corte interna sul retro.
La linearità e la serialità dei fronti della prima proposta,
geometricamente definiti dal reticolo ortogonale della
struttura in cemento armato, vengono disarticolati nel
progetto definitivo, per assumere un valore espressivo
nuovo, simbolico della varietà e della frammentazione
del tessuto medioevale della città.
L’articolazione dei prospetti, generata dall’aggregazione successiva di volumi con larghezze e profondità differenti, caratterizzati da una diversa finitura esterna, in
pietra o intonaco, oppure dalla presenza di uno sporto
o di una declinazione alternativa delle aperture o del
loro ritmo, è tenuta insieme dal possente basamento
in pietraforte, che lega l’intero intervento e lo rende coeso, proseguendo – sotto forma di muro di recinzione
– anche in presenza del giardino su via Varchi.
Su via Guerrazzi, invece, il basamento si alza, con le
proporzioni di una vera e propria casa torre – raggiun-
gendo l’altezza dell’attico arretrato – diventando una
cerniera tra le due parti planimetricamente sfalsate – e
definizioni formali diverse – che costituiscono il volume
principale. Infatti se il rapporto con gli edifici adiacenti
è giocato con un arretramento del corpo di raccordo
– segnato da grandi finestre a nastro e una terrazza coperta al quinto e ultimo piano – rispetto al basamento,
la soluzione d’angolo è affidato ad un grande volume a
sbalzo, su ambo i lati, che riecheggia per massa, peso
e la presenza di una grande terrazza coperta all’ultimo
piano, gli sporti dei palazzi storici e le loro altane.
Il massiccio volume d’angolo, quasi un transatlantico
adagiato sul basamento in pietra – esaltato dalla doppia trave ricalata, lasciata a vista, che fuoriesce dal basamento, a sostenere lo sbalzo – accusa la matrice geometrico-razionalista – retaggio della prima proposta – del
telaio strutturale riportato in facciata che, riquadrando
finestre e porte-finestre in un gioco formale alquanto
scontato, lo rende – soprattutto sul fronte di testa di via
Varchi – non all’altezza del resto della composizione e di
certe altre, invece azzeccate, soluzioni progettuali.
Internamente, ogni appartamento – tre per ognuno
dei cinque piani, più quello dell’attico, serviti dal nucleo
centrale delle scale e degli ascensori – è ben curato e
prevede, nonostante una distribuzione tradizionale,
soluzioni, soprattutto per le zone giorno, influenzate
dalle coeve ricerche contemporanee. Si notano infatti,
sia in pianta, che in sezioni, particolari attenzioni agli
elementi dello spazio interno e alla sua articolazione,
alla flessibilità degli spazi, separabili all’occorrenza grazie all’uso delle tende, all’elemento camino che diviene
pretesto per gerarchizzare gli spazi e creare un’articolazione complessa e articolata del soggiorno, in cui
spiccano – in sezione – le celebri poltrone progettate da
Carlo Mollino per casa Minola nel 1944.
243
4 Scorcio del fronte su via Varchi
1 Planimetria generale dell’intervento
2 Sezione trasversale
244
3 Dettaglio del prospetto su via Guerrazzi
5 Particolare del fronte su via Varchi
6 Particolare del fronte su via Guerrazzi
245
7 Prospetto su via Guerrazzi (progetto non approvato)
8 Prospetto su via Guerrazzi (progetto realizzato)
9 Pianta piano terra (progetto non approvato)
10 Pianta piano terra (progetto realizzato)
246
11 Prospetto su via Varchi (progetto non approvato)
12 Prospetto su via Varchi (progetto realizzato)
13 Pianta piano tipo (progetto non approvato)
14 Pianta piano tipo (progetto realizzato)
247
Referenze iconografiche
Le fotografie (p. 240 e 4-6, 15, pp. 243, 246) e i relativi diritti, sono di
proprietà dell’autore.
I disegni (1-3, 7-14 pp. 242, 244-245) sono conservati presso
l’Archivio Storico del Comune di Firenze, CF 16583 - 1760/1956.
15 L’angolo tra via Guerrazzi e via Varchi
249
Francesco Spinelli
edificio per abitazioni e negozi (1958-59)
via Lamarmora, 31-31a
Sorto in sostituzione di un preesistente edificio e di un
piccolo annesso indipendente, l’edificio progettato da
Francesco Spinelli va a occupare l’angolo tra via Alfonso
Lamarmora e via Gustavo Modena, con un articolato
impianto planimetrico ad S che permette all’ingegnere di riallinearsi, ponendosi come prosecuzione dei
prospetti adiacenti, con i due fronti stradali e di mantenere il giardino – già esistente – in corrispondenza
dell’incrocio tra le due strade. Conservare il vuoto, la
“sosta” verde, in corrispondenza dell’angolo del lotto
costituisce, assieme alle altezze dei fabbricati limitrofi,
uno dei vincoli principali che determina la brillante, e
allo stesso tempo, singolare composizione volumetrica
dell’edificio. L’angolo tra le due strade è sottolineato da
un muro perimetrale – a chiusura del giardino privato
delle residenze – che altro non è che la prosecuzione,
oltre il costruito, del basamento in pietra forte. Una
pensilina in cemento armato, sorretta dagli esili montanti delle inferriate e dei cancelli di ingresso, sovrasta, sospesa, il muro perimetrale – proteggendolo – e
prosegue lungo le facciate, diventando una copertura
per l’ingresso dei garage – su via Modena – e per quello
dei negozi – su via Lamarmora – e generando una linea
continua che unisce, abbracciandolo in ogni sua parte,
l’intero intervento.
Rispetto alla prima proposta di progetto, si assiste ad
una progressiva frammentazione del volume principale – concepito compatto e unitario – che assume connotazioni formali e materiche anche molto diverse, al
variare della distribuzione interna e dell’orientamento
nel lotto. Un elemento verticale in pietra forte, che sale
dal basamento fino a ricoprire l’intera facciata – echeggiando la snellezza e, allo stesso tempo, la massa e la
compattezza delle case torri medioevali – viene interposto, come una cerniera di mediazione, tra il volume
principale d’angolo, a sbalzo rispetto al basamento, e
l’edificio preesistente limitrofo. Se il blocco rivestito in
pietra – che racchiude la zona notte di uno dei due appartamenti in cui è diviso ogni piano – viene inciso lungo l’asse centrale – sottolineato dai parapetti, formati
da lastre piane in marmo “fior di pesco”, dal sapore de
stijl – dalle aperture delle camere, il volume d’angolo
– che accoglie invece la zona giorno – è interamente
vetrato. Scandita orizzontalmente dal susseguirsi dei
solai in cemento e dai ricorsi in legno che, all’altezza di
un metro, segnano il passaggio tra il vetro opalino inferiore e quello trasparente superiore – diventando, in
corrispondenza dei balconi, la parte terminale di un parapetto in legno costituito da elementi orizzontali – la
grande parete vetrata angolare è ritmata dai montanti
delle finestre a tutt’altezza che ospitano le guide degli
avvolgibili esterni e caratterizza, con grande chiarezza
linguistica, l’angolo su via Lamarmora. Meno rigoroso,
ma comunque sapientemente giocato, l’angolo su via
Modena che si abbassa per instaurare un rapporto dialettico con gli edifici adiacenti. Questo secondo blocco,
dall’interno del quale sembra fuoriuscire il volume vetrato, si articola, alternando piano per piano e sui diversi fronti, balconi e partiture piene intonacate, logge
e telai strutturali che emergono dalle tamponature, generando una tensione compositiva di pieni e di vuoti
ordinatamente caotica, che, per contrasto, si differenzia nettamente con il blocco su via Lamarmora.
L’edificio, alto sette piani – più il piano attico arretrato
– ospita al piano terra – a doppia altezza – i negozi e i
garage, e una coppia di appartamenti – distribuiti da un
blocco scale condominiale, collocato nell’intersezione
dei due bracci – ad ogni piano.
Ogni appartamento è dotato di un doppio ingresso,
uno principale attraverso il quale si accede a un grande
251
atrio, e uno secondario, che porta invece, attraverso un
piccolo disimpegno, alle cucine. Dall’atrio d’ingresso,
sul quale si affacciano direttamente i locali del soggiorno e della sala da pranzo, si sviluppano poi indipendentemente, serviti da corridoi interni ben differenziati, la
zona notte e quella dei locali di servizio.
Se la zona giorno dell’ala, la cui testa si affaccia su via
Modena, è articolato in locali separati e distinti, dotati
di balconi, quella dell’ala con fronte su via Lamarmora,
si sviluppa invece in un unico grande spazio libero, illuminato dal generoso sistema di vetrate d’angolo, che
doveva accogliere, secondo il progetto depositato, un
camino, la cui canna fumaria, rivestita in pietra forte,
avrebbe segnato verticalmente l’arrestarsi della parete
finestrata e l’apertura dei balconi laterali che mediano
la chiusura dello “sporto” sull’elemento torre, in pietra,
che riprende invece il filo del basamento.
Il sapiente uso dei materiali, in relazione agli elementi
compositivi e alla loro sintassi, l’articolazione dei volumi – ora in aggetto sul basamento, ora in continuità –
l’approfondito e ricercato studio dei dettagli e delle soluzioni tecnologiche, la varietà delle soluzioni formali e
il loro reciproco dialogo, all’interno di un disegno unitario, rendono questo progetto un interessante esempio
di architettura residenziale in grado di dialogare con il
tessuto cittadino circostante, senza rinunciare ad essere espressione viva di moderna contemporaneità.
1 Planimetria generale dell’intervento
252
2 Pianta dell’edificio preesistente e pianta dei tetti dell’edificio realizzato
4 Prospettiva dall’incrocio su via Lamarmora (progetto non approvato)
3 I resti del fabbricato demolito su via Lamarmora
5 Prospetto su via Lamarmora (con lievi modifiche rispetto al costruito)
253
6 Prospetto su via Modena (con lievi modifiche rispetto al costruito)
7 Sezione trasversale (con lievi modifiche rispetto al costruito)
8 Pianta piano terra
9 Pianta piano tipo
254
10 Dettaglio del prospetto su via Lamarmora
11 Scorcio del fronte su via Lamarmora
12 Particolare degli ingressi su via Lamarmora
255
Referenze iconografiche
Le fotografie (p. 248 e 11-13, pp. 253-254) e i relativi diritti, sono di
proprietà dell’autore.
I disegni e le fotografie d’epoca (1-10, pp. 250-253) sono conservati
presso l’Archivio Storico del Comune di Firenze,
CF 16707 - 189/1958, CF 16876 - 1576/1959.
13 Particolare del fronte su via Modena
257
Paolo Tincolini e Delfo Del Bino
edificio per abitazioni (1960)
viale Mazzini, 15-17
L’edificio di viale Mazzini, progettato dagli architetti Paolo Tincolini e Delfo Del Bino nasce, in sostituzione di
una villino preesistente a due piani, su di un profondo
lotto di forma trapezoidale.
Impostato planimetricamente con una configurazione
a T, il fabbricato è costituito da un blocco maggiore, alto
sei piani, che, parallelamente al viale, occupa l’intero
fronte del lotto – ad esclusione del varco laterale, lasciato per l’accesso carrabile alle autorimesse con ingresso
nella corte posteriore – e da uno di dimensioni ridotte,
e alto un piano in meno, perpendicolare al primo.
Per ogni piano sono previsti due appartamenti: il più
grande si sviluppa dal fronte su viale Mazzini, per occupare interamente il braccio posteriore proteso nella
corte interna, mentre l’altro, concentrato interamente
nel volume maggiore, affaccia sul viale godendo di quasi due terzi delle porte-finestre del fronte principale.
Il prospetto dell’edificio viene concepito, inizialmente,
secondo la logica tripartita del palazzo storico: basamento in pietra – alto due piani nelle prime proposte
– corpo centrale – caratterizzato da fasce orizzontali
vetrate continue, segnate solo dallo spessore dei solai – e coronamento realizzato attraverso il leggero
arretramento del piano attico. Sebbene sia presente,
già nella prima proposta di progetto, una riquadratura
asimmetrica, lievemente in aggetto, della fascia vetrata, solo nella seconda, questa comincia ad assumere
le proporzioni dello sporto effettivamente realizzato.
Il fronte, nella sua versione definitiva, è diviso in tre
fasce verticali e presenta un basamento in pietra per
la sola altezza del piano terra. Tutta la parte vetrata è
fortemente scandita dal disegno delle porte-finestre
in legno che, con la loro modularità, danno la misura
dell’edificio stesso. Le due fasce di sinistra, della stessa larghezza – composte da 3 moduli ciascuna – sono
in aggetto, rispetto al basamento, per i primi quattro
piani e terminano con un balconcino continuo, e ulteriormente a sbalzo, che le unisce entrambe. La fascia
di destra invece, leggermente più ampia delle altre due
– costituita da 4 moduli, ulteriormente suddivisi da una
parasta centrale – prosegue, fino alla copertura aggettante, per ricongiungersi planarmente al piano attico
del resto dell’edificio, costituendo così una sorta di L
che abbraccia lo sporto a sbalzo asimmetrico.
E’ interessante notare come tutte le soluzioni adottate,
e che hanno progressivamente mutato il prospetto fino
a farlo diventare quello che tutti noi oggi possiamo osservare, costituiscano un processo di localizzazione e di
ibridazione di un modello geometrico razionalista che
invece caratterizzava la prima proposta.
Infatti, sulla base del disegno del telaio strutturale intonacato, color bianco, si sovrappongono una serie di
elementi tesi a riconnotare l’intero intervento: il basamento in pietra dal bugnato appena accennato, la copertura - seppure piana - aggettante verso la strada,
la frammentazione delle ampie vetrate - definite dalla
semplice maglia strutturale portata in avanti rispetto al
filo del basamento - in finestrature minute, fortemente
segnate dal disegno degli infissi in legno, ma soprattutto all’articolazione plastica che frammenta, con uno
sporto asimmetrico, l’unitarietà planare della superficie, andando a ricreare quel gioco di assemblaggi caratteristico dell’aggregazione spontanea tipico del tessuto
gotico della città.
259
2 Planimetria generale
1 Scorcio del fronte su viale Mazzini
260
3 Veduta del villino preesistente
4 Prospetto su viale Mazzini (prima proposta)
5 Prospetto su viale Mazzini (seconda proposta)
6 Pianta piano terra (con lievi modifiche rispetto al costruito)
7 Pianta piano tipo (con lievi modifiche rispetto al costruito)
261
9 Prospetto sul passaggio laterale (seconda proposta)
8 Dettaglio del prospetto su viale Mazzini (prima proposta)
262
10 Sezione trasversale (con lievi modifiche rispetto al costruito)
11 Scorcio del fronte su viale Mazzini
12 Particolare del’ingresso
13 Particolare del fronte su viale Mazzini
263
Referenze iconografiche
Le fotografie (p. 256 e 1, 11-14, pp. 258, 261-262) e i relativi diritti,
sono di proprietà dell’autore.
I disegni e le fotografie d’epoca (2-10, pp. 258-260) sono conservati
presso l’Archivio Storico del Comune di Firenze,
CF 16930 - 946/1960.
14 Particolare del fronte su viale Mazzini
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Epilogo
«Non c’è – il tempo ce lo fa capire – una verità, né la verità:
di ogni cosa ci sono due verità, specie in quest’epoca
straordinaria nella quale tutto si trasforma e tutto (ecco
già le due verità di una realtà) resta eterno nell’eterno
fluire del tempo, fattore immutabile, ed eterno proprio
perché si muta, perché si trasforma continuamente;
transuente [...] esistono sempre, idealmente (almeno)
due verità, la realtà è il drammatico conflitto della loro
coesistenza perenne [...] noi dobbiamo rappresentarci
questa ambivalenza; salvo figurarci poi il nostro
ideale, abbandonarci alla nostra preferenza, alla
nostra parzialità: ma sempre nella consapevolezza del
contrario; questa la regola del buon gioco [...] e’ onesto
però che la contraddizione non sia un’arma veritas, per
rappresentare meglio a noi stessi le cose, nei due (o
più) aspetti della realtà: loro coesistenza. [...] del resto
ognuno ha una sua interpretazione diversa di quel che
legge o conosce: questa interpretazione è la sua verità:
infinite verità, dunque: questa è la mia, o le mie»1.
Gio Ponti
note
1 G. Ponti, Amate l’architettura, Vitali e Ghianda, Genova, 1957
premessa, pp. XII-XIII
266
267
Ringraziamenti
Voglio anzitutto ringraziare il prof. Ulisse Tramonti, non tanto per il prezioso aiuto e le puntuali indicazioni – perché, parafrasando Umberto Eco, è di cattivo gusto ringraziare il tutor per il proprio lavoro –
ma soprattutto per l’immensa pazienza, la fiducia datami per anni, a scatola chiusa, e le piacevoli chiacchierate davanti alla macchinetta del caffè. Un grazie all’arch. Paolo di Nardo che mi ha aiutato, nel primo, traumatico e turbolento periodo di dottorato, a darmi lo spunto essenziale per iniziare la ricerca;
quella con il titolo giusto. Un enorme ringraziamento va alla prof.ssa Maria Vittoria Capitanucci che mi
ha brillantemente illuminato sulle vicende del professionismo colto milanese del secondo dopo-guerra, grazie a numerosi, e immensamente utili, scambi di e-mail – riportanti, per altro, orari improbabili
– e podistiche, allegre, ed estremamente piacevoli, conversazioni nel centro di Milano. Impossibile non
ringraziare, per tutto il materiale originale che mi hanno messo generosamente a disposizione, l’arch.
Maddalena Bonaiuti, che mi ha accolto, seguito e aiutato con caloroso affetto e impagabile attenzione,
l’arch. Franco Gizdulich per avermi permesso di ficcanasare liberamente in giro per il proprio studio,
il prof. Roberto Corazzi che, non senza emozione, mi ha mostrato, perfettamente conservati, i disegni
di piazza Conti di Ugo Saccardi. Un particolare ringraziamento va al personale dell’Archivio Storico del
Comune di Firenze che, con estrema disponibilità e scrupolosa attenzione, mi hanno sempre aiutato in
questi anni di ricerca, nonostante le, a volte, nebulose e incomplete indicazioni in mio possesso. Fondamentale faro di riferimento, che ha seguito me, così come tutti gli altri dottorandi, garantendomi sanità
mentale e sicura tranquillità, per quanto riguardava tutti gli adempimenti, gli aspetti burocratici, e non,
del dottorato, è stata Grazia Poli che si merita un abbraccio grande. Un sentito grazie a Riccardo Renzi,
al quale ho fatto veramente una testa quadra – per non dire di peggio – con tutte le miei questioni,
teoriche e non, per avermi sempre risposto con gentilezza e pazienza, per avermi consigliato, aiutato
e sostenuto durante tutta la mia ricerca e per aver gioito con me per la conclusione della stessa. Un
grazie agli altri dottorandi, Federica, Gabriele, Riccardo, Dalia e Flavio che con me hanno condiviso gioie
e dolori di questi anni e con i quali mi sono divertito molto, a lavorare, ma anche, e forse soprattutto, ad
uscire insieme la sera, quando la facoltà era ormai chiusa. Grazie ai miei amici storici – le solite fave – ai
coinquilini del quarto piano – Ornella e Alessio – agli amici lontani – Aurel e Marula per tutti – alla mitica
squadra di frisbee – di cui faccio fieramente parte – e a tutti quelli che hanno sopportato con affetto
le mie carambolesche disavventure e che mi hanno sempre sostenuto e incoraggiato. Grazie a Laura
che, leggendo la prima stesura della tesi, mi ha rassicurato con uno stupito: “...ma dai, non è nemmeno
troppo noiosa, pensavo peggio!” e a Lucia che mi ha iniziato – provvidenzialmente – all’uso dei trattini.
Un gigantesco ringraziamento va a Corinna, perché senza di lei, senza i suoi consigli, i continui stimoli,
il supporto costante, senza le sue caustiche – ma estremamente proficue – provocazioni, il suo affettuoso sostegno, il suo impareggiabile aiuto, e senza il suo naturale e contagioso entusiasmo, questa
tesi non sarebbe così, come adesso la state vedendo. Un pensiero va infine al prof. Paolo Iannone al
quale devo, architettonicamente parlando, gran parte del poco che so. Grazie mamma, e grazie babbo.
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