Università degli Studi di Firenze Dottorato di Ricerca in Architettura Dipartimento di Architettura Disegno - Storia - Progetto Dottorato di Ricerca in Progettazione Architettonica e Urbana - Ciclo XXV Coordinatore Prof. Arch. Antonio D’Auria Stefano Gambacciani LE DIMENSIONI DELL’ABITARE la lezione fiorentina (1948 - 1968) Tutor Prof. Arch. Ulisse Tramonti Settore Scientifico Disciplinare ICAR 14 Anni 2010/2012 ai miei genitori, a Corinna «dove sono andati i tempi di una volta, per Giunone, quando ci voleva, per fare il mestiere, anche un po’ di vocazione» da La città vecchia di F. De André «dove sono andati i tempi di una volta, per Giunone, quando ci voleva, per fare il mestiere, anche un po’ di vocazione» Fabrizio De André, La città vecchia, Karim, Roma, 1965, min. 0:38 «procediamo sempre nel considerare l’architettura come opera d’arte, e l’architetto come Artista: costruzioni e costruttori sono altra cosa, rispettabile, ma altra [...] vo vocando l’Artista. Parola presuntuosa, antipatica se professionale, come se egli facesse davvero sempre dell’Arte, riuscisse sempre a fare dell’Arte! Artista è chi ha predisposizione a far dell’arte: ha vocazione: e qualche volta gli riesce» da Amate l’architettura di Gio Ponti «procediamo sempre nel considerare l’architettura come opera d’arte, e l’architetto come Artista: costruzioni e costruttori sono altra cosa, rispettabile, ma altra [...] vo vocando l’Artista. Parola presuntuosa, antipatica se professionale, come se egli facesse davvero sempre dell’Arte, riuscisse sempre a fare dell’Arte! Artista è chi ha predisposizione a far dell’arte: ha vocazione: e qualche volta gli riesce» Gio Ponti, Amate l’architettura, Vitali e Ghianda, Genova, 1957, p. 109 9 12 17 23 27 Stefano Gambacciani LE DIMENSIONI DELL’ABITARE la lezione fiorentina (1948 - 1968) 30 32 43 45 51 57 61 69 78 80 Introduzione Quadro cronologico degli eventi Inquadramento storico-culturale Ricostruire Firenze Considerazioni a margine sulle problematiche della ricostruzione Le problematiche di governo del territorio e la tutt’oggi scottante posizione chiave del diritto di proprietà del suolo Note Apparato iconografico Definizione e sviluppo della ricerca Le operazioni di “tassello” Premessa propedeutica all’analisi dei caratteri della specificità fiorentina I caratteri della specificità fiorentina, letti attraverso la loro interpretazione come elementi costituenti del linguaggio compositivo dei diversi casi studio La Torre come elemento simbolico, qualificante, e unità semantica del linguaggio architettonico fiorentino Due torri medioevali, un grattacielo come un cristallo ed uno solo immaginato. Ovvero, osservazioni sull’equivoco italiano dell’aut aut: tradizione o innovazione Analogie e differenze della vicenda fiorentina con quella del professionismo colto milanese Note Apparato iconografico 115 Bibliografia essenziale 126 Casi studio 265 Epilogo 267 Ringraziamenti Introduzione L’architettura residenziale, nelle sue diverse e molteplici declinazioni, sebbene non solo rappresenti lo spazio esistenziale primo, quello che più intimamente investe la dimensione umana, ma allo stesso tempo costituisca gran parte della trama e del disegno urbano di ogni città, viene sempre più spesso “snobbata” dall’architetto “impegnato” che, il più delle volte, si concentra su temi monumentali, di grande impatto, edifici pubblici e di rappresentanza, iconici segni urbani, spesso soltanto gigantesche esercitazioni stilistiche. Del resto, come evidenzia Aldo Rossi nel suo L’architettura della città, la residenza è un elemento primario della città, e «assumere la residenza in sé non significa adottare un criterio funzionale di ripartizione dell’uso delle aree cittadine ma semplicemente trattare in modo particolare un fatto urbano che è di per sé preminente nella composizione della città. [...] La città è sempre stata largamente caratterizzata dalla residenza. Si può dire che non esistono o non sono esistite città in cui non fosse presente l’aspetto residenziale [...]»1. Un tema, quello dell’abitare che trova a Firenze, proprio nel ventennio che va dal 1948 al 1968, una stagione estremamente prolifica, con molti episodi significativi, “genuina” e fortemente innovativa, tanto da portare con sé, anche se legate al territorio e alla “cultura” fiorentina, un tesoro di esperienze dal valore universale, a-temporale e tutt’oggi ancora ricche di contenuti informativi. I primi anni della ricostruzione, e poi quelli subito successivi, di espansione e consolidamento del tessuto cittadino, vedono una grande operosità, un gran desiderio di rinascita, nonché un enorme dispiegamento di forze che purtroppo, lasciate all’improvvisazione artigianale e artistica degli esecutori, e alle linee guida istituzionali e di piano appena accennate, hanno generato un paesaggio non sempre felice, all’interno del cuore stesso di quella Firenze di cui le mine tedesche avevano fatto letteralmente tabula rasa. E così, esauritesi le stagioni dei concorsi per la ricostruzioni delle sponde di Ponte Vecchio e di tutti gli altri ponti fatti saltare in aria, che si concludono il più delle volte con un nulla di fatto, con una mortificante insoddisfazione della giuria incapace di trovare un progetto vincitore, o con dei vincitori che devono adattare e piegare i propri progetti, sulla base di referendum popolari, promossi dalla stampa locale o di osservazioni o ammonimenti di altri concorrenti sconfitti, ci si trova a costruire e a ri-costruire pezzo per pezzo, senza un piano guida generale, affidandosi, caso per caso, alla sensibilità di progettista e committente. Se vogliamo trovare una tradizione architettonica, che ci lega fino ad oggi, nel modo di affrontare i temi più importanti e spinosi nel centro di Firenze, direi che questa, dei concorsi mai rispettati, dello scaricabarile istituzionale, dell’astensionismo operativo in attesa della firma di un professionista, più o meno blasonato, che operi su invito politico, è forse quella più chiara e manifesta. Fortunatamente, in un quadro di unione non proprio roseo, come quello appena descritto, capace di far rimpiangere ad alcuni le estinte “commissioni di ornato”, non mancano interventi di eccezionale qualità in grado di distinguersi e di elevarsi sopra gli altri. Interventi che dimostrano questa essere una stagione in cui si può essere “palazzinari” senza sottintendere il metodico esercizio dell’abuso edilizio, o la totale sottomissione al volere di bieche imprese edili. Una stagione in cui il concetto del “costruire” è sinonimo di professionalità. Un professionismo colto, costantemente vigile nei confronti delle capacità espressive della materia, attento alla definizione del dettaglio e, al “buon costruire”, capace di generare architettura ad alto livello, in grado di qualificare il tessuto urbano cre11 ando quella “qualità diffusa” che caratterizza l’ambiente come sistema di luoghi significativi. Lezione quindi, non solo di pochi “maestri”, ma anche di molti architetti e ingegneri che hanno esercitato la professione con estrema dedizione, impegno ed etica. La ricerca non intende limitarsi ad un’analisi di tipo “contestuale”, o all’individuazione di una presunta “scuola fiorentina”, ma andando oltre un’impostazione “localistica”, vuole porsi come fine l’estrapolazione dei valori compositivi, progettuali ed etici nei confronti della costruzione di una “giusta” dimensione dell’abitare. Così come Ernesto Nathan Rogers suggerisce in Esperienza dell’architettura, edito a Torino nel 1958 da Einaudi, l’analisi di queste opere si concentra sul recupero della tradizione e della storia, non come atto di mero formalismo e stilismo, bensì come riappropriamento di valori e qualità spaziali e simboliche andate perdute. Sarebbe quindi riduttivo voler dimostrare, ancora una volta, che anche questa produzione architettonica rappresenti un momento, un capitolo di un libro non ancora chiuso e definibile sotto il marchio di “scuola”, di una scuola molte volte detta ma anche contraddetta, in cui è proprio un’omologazione linguistica ad essere assente. L’analisi, per questo motivo, cercherà di rimanere più ampia, considerando aspetti legati ad una ricerca che investe l’intero dibattito culturale italiano – in particolare sarà affrontato un paragone con le coeve esperienze milanesi – accentuando caratteristiche di “contestualizzazione”, non legate ad aspetti di stile, bensì ad un rapporto proficuo fra allievi e maestri del panorama architettonico fiorentino da un lato, e fra progettista ed impresa, legati da un comune sapere costruttivo, dall’altro. La ricerca si pone come obiettivo di evidenziare ed estrapolare dalle opere analizzate, quei valori a-storici, essenziali, che permeano queste architettu12 re e che si sono progressivamente perduti nel tempo, quegli aspetti psico-percettivi e simbolici immanenti all’esperienza e alla costruzione dell’ambiente umano, tralasciati dal funzionalismo più “miope” e che avevano invece sempre caratterizzato l’architettura del passato: l’uomo come soggetto-oggetto di riferimento, fulcro della progettazione, la sezione come strumento compositivo, la misura, il ritmo, la visione anti-prospettica, l’uso dei materiali, l’attenzione a quelle componenti simboliche che esprimono la condizione esistenziale dell’uomo, il suo “abitare tra terra e cielo”. Per esempio, il trattamento della zona basamentale e della copertura, i punti di contatto con la terra e con il cielo, che si presentano come elementi significativi della costruzione. La superficie verticale della parete, proprio per la sua capacità di definire tangibilmente un luogo, distinguendo tra un “dentro” e un “fuori”, un “pubblico” e un “privato”, il muro che, elemento primario dell’architettura, appare pregno di valori esistenziali e simbolici, paragonabili solo a quelli della copertura. La progettazione, dall’esterno all’interno e dall’interno all’esterno, capace di creare tensioni necessarie che cooperano alla creazione di una architettura che oltre ad essere un progetto di forme è anche un progetto di relazioni. Relazioni con l’ambiente, sia questo caratterizzato da un contesto costruito che da uno naturale, relazioni con il tessuto urbano negli interventi di completamento o di ricostruzione, con la natura delle colline circostanti, con il paesaggio dei territori limitrofi destinati ad un espansione urbana nuova. note 1 A. Rossi, L’architettura della città, Marsilio, Padova, 1966, p. 82 QUADRO CRONOLOGICO DEGLI EVENTI EVENTI CULTURALI Gio Ponti 1948 direttore di “Domus” Luigi Moretti 1950 (-1953) fonda “Spazio” Le ragazze di San Frediano L. Caccia Dominioni 1947|49 piazza Sant’Ambrogio, 16 1951 Palazzo Strozzi, Firenze Mostra: Arte astratta e concettuale in Italia 1949 Vasco Pratolini ARCHITETTURA MILANO Mostra: Frank Lloyd Wright 1951 Galleria d’arte moderna, Roma BBPR 1951|58 Torre Velasca Asnago | Vender 1950|53 via Lanzone, 4 1954 - X Triennale di Milano Palazzo della Triennale, Milano Ernesto Nathan Rogers 1953 (-1964) direttore di “Casabella - Continuità” Vito e Gustavo Latis Luigi Ghò Vito e Gustavo Latis Gio Ponti 1953|55 via Turati, 7 1956|57 via Legnano, 4 1953|56 piazza della Repubblica, 11 1948|50 corso Italia 1957 in “Casabella - Continuità” editoriale n. 215 Continuità o crisi? 1955 fonda “L’architettura, cronache e storia” Gio Ponti 1956|60 Grattacielo Pirelli 1953 via Mura di Santa Rosa, 3 Italo Gamberini 1956 via Marsilio Ficino, 14 Giovanni Michelucci Tincolini, Del Bino * Italo Gamberini Franco Bonaiuti * 1956|60 via Guicciardini, 24 1957 via Alamanni, J. da Diacceto STRUMENTI URBANISTICI FIRENZE PRG 1951 1953 1954 1955 1956 (approvato come studio | ripresentato nel 1953) 1951 Giorgio La Pira | sindaco (1° mandato) Piani di ricostruzione delle adiacenza del Ponte Vecchio zone |A v. Por S. Maria |B v. de’ Bardi |C l.no Acciaiuoli |D v. Guicciardini |E v. Lambertesca |F b.go San Jacopo PRG 1924 (piano di “colmata” | ufficialmente in vigore fino al 1962) Ugo Saccardi * 1960 viale Gramsci, 63 1957 1958 1961 1960 PRG 1958 1956 L. Salazar | commissario prefettizio 1968|70 via Guerrazzi, 10 1964|67 via Piagentina, 29 Nino Jodice * 1959 Pier Luigi Spadolini 1963 piazza Conti, 7 Leonardo Savioli, Danilo Santi Francesco Spinelli * 1958|59 via Lamarmora, 31-31a 1956|59 viale Mazzini, 33-35 1952 1967 via XX settembre, 58 1958|62 via Guerrazzi, 1m-1n Nino Jodice * 1951 G. Klaus Koenig 1960 viale Mazzini, 15-17 Francesco Spinelli * 1955 viale Gramsci, 67 1950 1969|71 piazza San Marco 1959|63 via Massena, 18 Melchiorre Bega 1949 Vico Magistretti 1959|60 via Quadronno, 24 1961|68 via Ancona, dei Chiostri, Pontaccio 1954|57 via Guicciardini, dello Sprone, 1 1948 Mangiarotti, Morassutti L. Caccia Dominioni 1956|57 via Dezza, 49 Giovanni Michelucci ANNI 1963 Palazzo Strozzi, Firenze BBPR Riccardo Gizdulich 1948 via Por S. Maria, borgo SS. Apostoli 1965 Palazzo Strozzi, Firenze Mostra: Le Corbusier Bruno Zevi 1951|57 via Fatebenefratelli, 3 Italo Gamberini Mostra: Alvar Aalto Ernesto Nathan Rogers Giulio Minoletti Luigi Moretti ARCHITETTURA FIRENZE Alloggio uniambientale Gio Ponti Carlo Cresti * 1959|61 via Guerrazzi, 1c-1d 1962 1966 via Lanza, 20 1963 PRG 1962 1964 1965 1966 1967 (Piano “Detti”) 1961 G. La Pira | sindaco (2° mandato) 1965 Lelio Lagorio | sindaco 1968 Inquadramento storico-culturale 16 Ricostruire Firenze 4 agosto 1944, Firenze si risveglia disfatta, spezzata in due, sventrata dalle mine naziste di un esercito tedesco in ritirata che, per impedire la risalita dell’esercito di liberazione, fanno saltare in aria i ponti della città che collegano le due rive, nonché l’intero tessuto urbano che circonda il Ponte Vecchio, così che sia impossibile l’utilizzo delle vie di accesso a quell’unico ponte, salvato dalla distruzione da una pseudoromantica decisione del comando tedesco. Si risparmia un monumento, per sacrificare parti di un ricco e sedimentato brano di città, la cui ricostruzione, dopo un tanto acceso quanto infruttuoso dibattito segnato da laceranti contrasti nella critica militante di tutta Italia, si trasformerà in una penosa e fallimentare operazione di maquillage edilizio, all’insegna del massimo sfruttamento della straordinaria rendita di posizione dei lotti. Superficiali ricerche di temi vernacolari, sia nelle definizioni volumetriche che di prospetto degli edifici, sia negli allineamenti, nelle forzate movimentazioni stradali che nelle ingiustificate variazioni del lungo fiume, non sono che la copertura culturale per operazioni speculative di “artigianato urbanistico – terminologia che Grazia Gobbi Sica usa con grande pregnanza semantica e che non saprei meglio descrivere – che tradisce una casuale combinazione di supervisione burocratica e di manierismo compositivo” 1. Giovanni Michelucci ricorda così le sue emozioni di fronte alle rovine della Firenze fatta saltare in aria: «Provai un dolore immenso di fronte alle distruzioni [...] sul Lungarno erano cascate tutte le facciate “artistiche”, dietro alle quali era apparsa una miseria paurosa [...]. Pensai allora che l’arte non può essere un inganno, una bugia, non può servire ad illudere situazioni reali! Quindi bisogna partire dal contenuto e non dal contenente [...]. In seguito a questo ragionamento, cominciai a pensare all’architettura in modo meno accademico e nei progetti che feci tentai di aderire alla situazione reale, economica, sentimentale della città [...]. Poteva essere un fatto urbanistico importante della ricostruzione, e fu un’occasione perduta»2. Quasi un anno prima, nel 1943, Alberto Savinio, camminando tra le macerie di una Milano bombardata, vedeva, in questa seppure tragica condizione, una possibilità di rinascita, nella necessaria ricostruzione, una catartica opportunità per creare una città rivolta verso un futuro nuovo: «Giro tra le rovine di Milano. Perché questa esaltazione in me? Dovrei essere triste, e invece sono formicolante di gioia... Perché? Sento che da questa morte nascerà nuova vita. Sento che da queste rovine sorgerà una città più forte, più ricca, più bella»3. Si respira in Italia, dopo lungo tempo, la voglia di ripartire, di sfruttare le tragiche distruzioni per ricostruire un futuro nuovo, per dare una nuova vita alle città, cancellarsi di dosso il ricordo del fascismo e l’incubo della guerra. Ridisegnare ciò che è stato distrutto per donare, alla nuova società nascente dalle rovine ancora fumanti, una città rivolta verso il futuro. Ma non sarà così. Almeno per Firenze. Si apre da subito infatti un aspro dibattito tra le due diverse scuole di pensiero che vedono, da un lato, rappresentati da Ranuccio Bianchi Bandinelli, architetti e progettisti che intendono la ricostruzione come occasione per la creazione di una città nuova, basata sui criteri etici di onestà e di chiarezza, laddove ogni falsificazione, anche quella architettonica, è considerata “moralmente ripugnante”; dall’altro, capeggiati da Bernard Berenson, critici e storici dell’arte che invece propendono per una ricostruzione costituita da interventi fondati sulla maniera del “dov’era, com’era”. Dimostrando così, nonostante le molte dichiarazioni contro il falso antico, la paradossale differenza tra indicazioni teoriche e pra19 tica degli interventi, al momento dell’attuazione. Sul n. 1 de “Il Ponte”, dell’aprile 1945 Berenson, storico dell’arte americano, fiorentino d’adozione, scrive, in “Come ricostruire la Firenze demolita”: «Se invece noi amiamo Firenze come un organismo storico che si è tramandato attraverso i secoli, come una configurazione di forme e di profili che è rimasta singolarmente intatta nonostante le trasformazioni a cui sono soggette le dimore degli uomini, allora essi vanno ricostruiti al modo che fu detto del Campanile di San Marco, “dove erano e come erano”». Rinnovando e ristabilendo i valori puramente estetici, vedutistici e pittoreschi di una Firenze, o meglio di una Florence, che «può lasciare indifferente l’abitante utilitario, ma non il cittadino a cui è noto il passato della città», né, soprattutto, «il forestiero che, appunto perché non ha con il luogo alcun rapporto di vita pratica quotidiana, può contemplarlo come una emanazione di pura bellezza». Posizione che, Gianluca Belli sottolinea bene nel suo “Il dibattito sulla ricostruzione della Firenze demolita dalla guerra, 19441947”, ricalca in parte il modo di vedere la città come un museo a cielo aperto che gli anglosassoni, turisti o residenti in Italia, conservano da decenni, «evitando di mettersi in relazione con i loro abitanti, spesso guardati tutt’al più come una curiosità etnografica»4. In tutta risposta sul n. 2 de “Il Ponte”, del maggio del ’45 l’archeologo senese Ranuccio Bianchi Bandinelli replica, in “Come non ricostruire la Firenze demolita”: «Firenze non ha, è vero, il diritto di mutare il proprio volto; ma ha il dovere di non rifarselo di cartapesta. [...] noi italiani ci rifiutiamo di non essere altro che i custodi di un museo, i guardiani di una mummia, e che rivendichiamo il diritto di vivere entro città vive, entro città che seguono l’evolversi della nostra vita, le vicende della nostra storia, elevate o misere che esse siano, purché 20 sincere, purché spoglie di ogni residuo di retorica [...] perché vogliamo essere, finalmente un popolo tra gli altri popoli, che dalla presente miseria, dalla presente infelicità e umiliazione, riprende liberamente la strada della propria sorte europea» e non essere costretti, come già ironicamente predetto, a «travestirci tutti con costumi da teatro e attendere la mancia dal turista alle fermate del torpedone»5. Tra le voci più autorevoli che difendono questa posizione di critica nei confronti della ricostruzione filologica degli edifici demoliti troviamo Giovanni Michelucci: «ogni preoccupazione di ordine stilistico e storico ambientale darà sempre risultati pratici ed estetici negativi; (perché la vita) caratterizza le singole zone urbane suggerendo nuove forme che [...] rinnovano di tempo in tempo gli agglomerati urbani nella struttura interna ed esterna»6. La vita, diventerà in molte delle argomentazioni a favore del “nuovo”, elemento ricorrente ed insistente. Bruno Zevi nel celeberrimo Verso un’architettura organica, edito e distribuito proprio in quegli anni, sottolinea il ruolo sociale dell’architettura e termina il suo testo affermando che l’architettura italiana, finito il tempo delle imitazioni e degli stili, compreso quello moderno, dovrà avere “per oggetto, per ispirazione e per fine, l’uomo e la vita”. Il rapporto con le esigenze, con le proporzioni e le dimensioni umane, lo svolgersi della vita, lo stretto rapporto tra vita sociale, pubblica e l’immagine della città stessa saranno temi che scalderanno le innumerevoli discussioni che animeranno la Firenze di quegli anni. Simbolico manifesto del dibattito in corso, sono i due disegni di Carlo Maggiora, pubblicati sullo Zibaldone del 1947, che esemplificano argutamente, tra il popolare e l’ingenuo, il dilemma: “rifare l’antico?” oppure “tentare il nuovo?”, mostrando da un lato una Firenze pittoresca, dominata dalle ombre degli stretti vicoli e degli edifici che si caricano l’uno sull’altro con abbondanza di bugnati, decori e finestre serliane; dall’altro un panorama post costruttivista/futurista, fatto di torri e grattacieli collegati da ponti/passerelle disposte a varie altezze, passeggiate turistico, commerciali a doppio e triplo livello in aggetto sul fiume. Intervento lucido, degno di nota, esemplare nella sua presa di coscienza del problema globale della riprogettazione del centro distrutto di Firenze è quello di Carlo Ludovico Ragghianti, giustamente messo in evidenza da Gianluca Belli, con la pubblicazione di un disegno autografo, che ne esplicita ulteriormente i contenuti, mettendo a confronto una tessitura edilizia medioevale tipo con soluzioni “in falso antico”, “in moderno” e con quella ipotizzata nello scritto, con il “nuovo come antico” 7. Da critico e storico, ma anche teorico dell’arte, Ragghianti, riallacciandosi al ruolo sociale dell’architettura ipotizzata da Zevi, propone una ricostruzione, applicando una visione più ampia del problema, come risultato degli interessi e delle aspirazioni, contemporanee, sociali, economiche e civili, escludendo dal ragionamento forme, stili e linguaggi architettonici. E così, tra le proposte di «ricostruire una fisionomia dai vari secoli consacrata [...] di rifare le case con lo stesso scopo e con la stessa umiltà che avevano quelle saltate in aria»8, oppure di rifarsi al «bellissimo insieme di caseggiati che fanno da sfondo alla Guarigione dello Storpio di Masolino (facente parte della decorazione della Cappella Brancacci nella chiesa di Santa Maria del Carmine a Firenze) [...] edifici senza un carattere particolare» per «operare umilmente non per mettere avanti la propria personalità, ma per legare insieme il vecchio con il nuovo»9, Ragghianti ammonisce: «La tortuosità delle strade, la loro strettezza, lo sviluppo interno dei fabbricati (con cortili, logge, giardini etc.) la molteplicità e la tangenza delle visuali, rispondevano a criteri rigorosamente intenzionali, non erano il frutto di un casuale agglomerato “pittoresco”: interpretavano spesso profondamente le esigenze di un tipo di vita sociale, la funzione di un quartiere o di una città» e suggerisce «una ricostruzione organica, o storica, che partendo dai dati basici della zona, sia dal punto di vista della struttura e funzione, che da quello dell’effetto generale architettonico [...] lasciasse libera la fantasia degli architetti»10. Il 31 dicembre 1945 viene bandito il concorso per la ricostruzione delle zone distrutte intorno a Ponte Vecchio, con scadenza al 30 giugno 1946, prorogata poi al 30 settembre. Si affida così, all’istituzione del concorso, la risoluzione di una problematica complessa, non chiarita né affrontata nei suoi termini generali, ulteriormente aggravata dall’assenza colpevole di un piano regolatore generale che, ben lungi dal delinearsi, non ricerca obiettivi univoci né le relazioni tra ciò che doveva essere ricostruito, e il resto della città, sia quella presente, che quella in via di sviluppo. L’esito del concorso è ambiguamente risolto con una vittoria multipla assegnata ai cinque gruppi di progettazione, premiati nelle prime due categorie di merito in cui erano stati suddivisi i progetti partecipanti. «A giudizio dell’intera Commissione (composta da trenta membri fra cui, oltre ai rappresentanti del Comune, i due Soprintendenti, Poggi alle Gallerie e Vené ai monumenti, delegati degli ordini professionali e dell’Università, critici d’arte, etc.) il concorso ha dato un notevole contributo di idee per la soluzione del problema di ricostruzione della zona del Ponte Vecchio. Si può fin d’ora sperare che, utilizzando il meglio delle idee contenute nei progetti vincenti e con il concorso degli stessi autori, il Comune potrà stendere un progetto esecutivo che risponda alle esi21 genze e alle caratteristiche dell’ambiente sia dal punto di vista artistico che sociale»11. Un nulla di fatto che porta alla stesura di un frammentario piano di ricostruzione che, mancando di una chiave interpretativa nei confronti della città storica, di un orientamento unico e ben definito, non solo di programma strutturale e funzionale ma anche economico e finanziario sarà facile preda delle manipolazioni economiche speculative dei proprietari dei singoli lotti. Non si ricorre infatti all’esproprio delle aree di intervento ma si affida, ai singoli proprietari, la responsabilità di ricostruire all’interno dei loro vecchi confini, in conformità delle volumetrie e delle altezze indicate dal piano, nell’intento di «sollecitare la partecipazione di proprietari ed artigiani [...] in tal modo coinvolti in prima persona»12. Come nota con rammarico Mariella Zoppi, nel suo testo su “La ricostruzione”, con quest’occasione: «fu così persa a Firenze, come in quasi tutte le città italiane, la possibilità di fare dei piani di ricostruzione uno strumento urbanistico efficace, come stava avvenendo in molte parti d’Europa»13. L’immagine di apertura – Il fumo e la polvere delle esplosioni all’alba del 4 agosto 1944 – è tratta da: O. Fantozzi Micali, Alla ricerca della Primavera, Alinea, Firenze, 2002, p. 17. 22 23 Considerazioni a margine sulle problematiche della ricostruzione A Firenze, nello scegliere la soluzione di compromesso, che azzera qualsiasi precedente argomentazione, a favore, o contro la ricostruzione filologica, si pecca di ipocrisia, da un lato, e di vigliaccheria e falsa umiltà, dall’altro, con il risultato che ben conosciamo. Ipocrisia perché ci si rifiuta di ricostruire pedissequamente e scrupolosamente l’immagine distrutta (eppure non mancano certo le documentazioni a riguardo), come succede in molte città europee che optano per il rifacimento “dov’era, com’era” – Varsavia ne è l’emblema – per non tradire l’idea del “falso storico” e fingere di volere un destino per il centro della città diverso da quello del parco divertimenti a tema, con facciate di cartapesta e figuranti in costume. Le scelte culturali, politiche ed economiche, fatte già a partire da quegli anni, ci dimostreranno invece il contrario: il centro di Firenze non solo è un grande museo a cielo aperto, dove neanche la polvere o la sporcizia deve essere tolta per non rovinare la patina originale dell’antico, ma è lo sfondo d’eccellenza per eventi dedicati all’intrattenimento leggero per turisti che, esausti dalle giornate trascorse passando da un museo all’altro (ma sarà poi così?), devono trovare anche il meritato svago. E quindi, esibizioni di golf in piazza e sull’Arno, concerti gratuiti all’aperto, degustazioni di vino nelle corti dei palazzi storici, notti bianche, fashion nights, e chi più ne ha, più ne metta. “Ed è un male? – qualcuno obietterà – E’ un modo come un altro per tenere in vita una città altrimenti morta alla chiusura dei musei e dei negozi più blasonati”. Niente di male infatti, basterebbe avere semplicemente la correttezza di chiamare le cose con il proprio nome e non arroccarsi dietro moralistici ed ipocriti paraventi “culturali”. Se invece non si ricostruisce seguendo lo spirito contemporaneo del tempo, cercando con un integrale rinnovamento, come accade ad esempio a Rotterdam, dove si coglie l’occasione per rigenerare degli spazi a misura di quell’uomo nuovo che rinasceva dalle polveri delle macerie, a misura della sua cultura, delle sue ideologie, delle sue nuove aspettative ed esigenze, non è per modestia, per reverenziale rispetto del passato, bensì per la mancanza di coraggio di infierire, con un progetto unico, deciso, inequivocabile, una frattura nuova, modernissima, all’interno del tessuto storico ormai completamente cancellato. Da un lato, forse perché ancora scottavano le caustiche e impietose critiche ricevute da artisti, critici e scrittori di tutto il mondo, per lo sventramento del Mercato Vecchio e dell’antico Ghetto, dall’altro, come sottolinea Giovanni Klaus Koenig, forse perché i progetti, sia quelli redatti da Michelucci all’indomani delle distruzioni belliche, sia quelli premiati dal concorso del 1947, «valevano poco, e non convinsero come avrebbero convinto se avessero avuto più coraggio. Se i progetti fossero stati veramente rivoluzionari, sarebbe forse nato uno scandalo, una polemica come per la stazione; ma il guaio è che il germe (del tutto italiano) del compromesso si era infiltrato un po’ dappertutto, e di regresso in regresso, i progetti si fecero sempre più timidi, quasi che con questa falsa modestia si potessero mascherare gli aumenti di volume rispetto all’antico, e gli altri trucchi speculativi imposti dalla committenza»1. La mancanza di un linguaggio, di un codice nuovo, chiaramente definito e articolato, che costituisca l’eredità “buona” del razionalismo, capace di interpretare il movimento ormai esauritosi e di instaurare una tradizione del moderno anziché la totale negazione e cancellazione dello stesso, spinge gli architetti ad una astensione intellettuale quasi totale sul presente, per rifugiarsi nelle consolidate verità della storia e del passato. Come farà notare nel 1968 Manfredo Tafuri, nel suo Teorie e storia dell’architettura: «Quando la cultura ar25 chitettonica italiana ha ripreso in mano il problema dei centri storici, non si è allacciata direttamente al grande filone del movimento Moderno, ma con la scusa di introdurre nuove valenze, ha voltato le spalle alla Carta di Atene, e ha ripreso in mano il Giovannoni: processo tanto più grave in quanto non compiuto con la chiara coscienza di ciò che si andava postulando. [...] Non si è capito, in altre parole, che rinunciare a riconfigurare la città significa rinunciare a capirla criticamente. La conservazione è stata quindi ridotta ad un problema di scenografia urbana sovrapposta ad una ristrutturazione funzionale, arbitraria nelle premesse e nei propositi, perché non sostanziata da un’organica considerazione storica del problema. Lo storicismo dell’architettura italiana è quindi solo apparente. Rispetto alle formulazioni delle avanguardie non è avvenuto un effettivo recupero della storia, ma piuttosto un tentativo di sradicamento della tradizione del nuovo, privo di coraggio e indeciso»2. L’immagine di apertura – Indicazione delle torri e degli edifici monumentali nella zona colpita dalle distruzioni – è tratta da: O. Fantozzi Micali, Alla ricerca della Primavera, Alinea, Firenze, 2002, p. 29. 26 27 Le problematiche di governo del territorio e la tutt’oggi scottante posizione chiave del diritto di proprietà del suolo Abbiamo visto come la ricostruzione delle rive intorno al Ponte Vecchio si concretizzi in una silente operazione speculativa ad opera dei proprietari dei singoli lotti che, sotto il controllo blando ed inefficace delle autorità preposte, si limitano a rispettare, e neanche in modo ineccepibile, esclusivamente vincoli di altezza e di volume, sottoponendo, una volta passata la revisione degli organi comunali, al vaglio del Consiglio Superiore delle Arti, essendo questo l’unico requisito obbligatorio per l’approvazione, esclusivamente le facciate e non l’intero progetto. Come farà notare Edoardo Detti, in una sua analisi su quanto operato a Firenze fino al 1952, la mal condotta ricostruzione del centro «ha dimostrato ancora una volta che un problema urbanistico, anche se di natura complessa e particolare come questo, si può solo impiantare su criteri urbanistici e cioè organici e strutturali tecnicamente qualificati, e che infine il risultato di un piano, oltreché nella sua qualità, sta nella capacità di realizzarlo con ordine e di interpretarlo coerentemente alla sua unità concettuale»1. A tale proposito vale la pena ricordare alcuni passi dell’opera, scritta ed edita proprio in quegli anni, di Hans Bernoulli: “La città e il suolo urbano” (Titolo originale: Die Stadt und ihr Boden, prima edizione: Verlag für Architektur AG. Erlenbach-Zürich, 1946). Sebbene infatti, nella sua trattazione generale sia su più punti criticabile, come Aldo Rossi nel suo “L’architettura della città” ci fa notare, non mancano alcune importanti osservazioni sul rapporto tra suolo e architettura, pubblico e privato, che possono forse nascondere alcuni limiti interni, ma che sicuramente avrebbero potuto assumere un’estrema rilevanza in occasioni come la ricostruzione di parti nevralgiche della città distrutte dai recenti eventi bellici, o come l’organizzazione dell’espansione della città negli anni subito successivi. «Una città è destinata a durare: deve crescere, svilupparsi. Potrà cambiare volto, potrà cambiare carattere, più serio o più ameno, più sobrio o più gaio, ma l’essenziale è che la città esiste, resta viva, non decade ignobilmente come la singola casa, come le singole costruzioni di cui si compone. [...] Una città è di più, infinitamente di più, che un semplice insieme di qualche migliaio di case. [...] la città non dev’essere un insieme di singole costruzioni, ma diventare un organismo dal carattere specifico. [...] Una città non si esaurisce con la sua fondazione, ma è destinata a crescere e a svilupparsi.[...] L’urbanistica non costruisce, [...] solo dispone, dà le direttive, determina il perimetro e stabilisce le linee fondamentali di ciò che altri faranno sorgere in seguito. [...] L’elemento principale, la massa delle costruzioni, resta però apparentemente affidata al caso, ma solo apparentemente, perché a questo punto entrano in gioco tradizione e abilità artigiana, sempre che la tradizione abbia ancora un valore e si coltivi l’abilità professionale. E, beninteso, sempre che a costruire si chiamino degli esperti. [...] Ma gli esiti di questa prassi parlano sufficientemente chiaro: una linea che definisce come vadano allineati i singoli edifici non basta a creare una città, così come le leggi che si basano e devono basarsi su un caso ordinario non soddisferanno mai tutta la varietà dei casi e tanto meno i casi particolari. [...] Una difficoltà specifica rende impossibile tutto questo (ovvero il poter regolare in modo estensivo e qualificante la progettazione architettonica degli edifici, nel loro complesso). Una difficoltà che non ci permette di superare gli allineamenti e le normative edilizie: “la terra”, il suolo su cui sorgerà la città, “è suddivisa tra singoli proprietari”. La città non ha alcun diritto, alcuna possibilità di disporre del terreno. [...] La nuova città, i nuovi quartieri necessitano di terreni, devono disporre 29 liberamente del terreno su cui sorgeranno. Devono essere liberi e senza impedimenti così da poter nascere e svilupparsi secondo le leggi insite nella propria natura. [...] Suddivisioni: ma è solo un problema di suddivisioni? E’ molto di più: una nuova suddivisione non fa che creare nuovi privilegi, nuovi diritti che già domani ostacoleranno un’opera futura. Il continuo divenire, trasformarsi, rinnovarsi della città non tollera e non può tollerare che il suolo sia lottizzato tra i singoli proprietari in modo irrevocabile, che di fronte alla necessità pubbliche più impellenti (come la ricostruzione post-bellica di una parte centrale, nevralgica della città), dei privati irresponsabili contrattino, vendano, suddividano, edifichino malamente nelle aree di maggior rilievo, sotto gli occhi delle autorità»2. Parole che sembrano scritte per descrivere esattamente quanto a Firenze stava accadendo: si rinuncia a seguire un qualsiasi indirizzo, a dare un disegno globale, un indirizzo organico che leghi le singole parti in un unico pensiero organizzatore, per affidare la ricostruzione alle coscienze dei singoli proprietari terrieri, dando loro semplici indicazioni “quantitative” da rispettare. La città è un bene comune, questo il sempre più attuale principio chiave delle teorie di Bernoulli, il cui governo, attraverso la pianificazione urbanistica, è responsabilità piena del potere pubblico e non dei singoli privati. Se si escludono quindi le accuse di socialismo romantico che Rossi muove contro le parole di Bernoulli, adducendo, da un lato, erronei presupposti storici alle sue teorie (ovvero che il problema delle grandi città è ben precedente al periodo della rivoluzione industriale e non coevo come sostenuto dall’urbanista svizzero), dall’altro, che il frazionamento del terreno non è un evento negativo “ma ne promuove concretamente lo sviluppo” 3 (asserzione ugualmente opinabile), rimangono comunque delle lezioni valide 30 ancora oggi e le cui eredità si ritrovano applicate nelle strumentazioni e regolamentazioni urbanistiche di paesi come la Svezia, la Danimarca, l’Olanda o la Svizzera. A testimonianza di ciò, durante un confronto tra gli urbanisti olandesi che ad Amsterdam accolsero le idee di Bernoulli e gli amministratori della città di Roma, tenutosi nel 1964 al ridotto dell’Eliseo di Roma, Antonio Cederna rimarcherà “la distanza abissale che separa un paese civile e moderno (in questo caso l’Olanda) da un paese arcaico e sottosviluppato come il nostro”, ribadendo quanto descritto per la Svezia in un articolo apparso su “Il Mondo” nel 1963, in cui si sottolineano, a tinte forti, le differenze urbanistiche, sociali, politiche e culturali di città come Oslo e Stoccarda con quelle italiane. Cederna parte con una serie di paralleli ambientali e paesaggistici per giungere poi ad un’aspra critica dei tecnici comunali addetti all’urbanistica della città che, nel caso, di Stoccolma «avviene secondo il merito e non alla rovescia come da noi; mentre nei posti di responsabilità noi mettiamo i peggiori e i falliti, nei paesi civili vengono scelti i migliori» e continuare citando nell’articolo un’intervista fatta al capo dell’Ufficio urbanistico di Stoccolma, G. Sidenbladh: «“Non creda che la politica di acquisizione dei suoli sia una politica esclusivamente socialista [...], la politica di acquisizione del suolo fu iniziata nel 1904, quando la città era amministrata dai conservatori.”» per poi concludere: «Ecco il grande problema. Perché, per quale ragione i conservatori del resto d’Europa, inglesi o scandinavi, sanno spesso essere gente moderna, mentre i nostri, conservatori di ogni razza e ispirazione, e i liberali innanzi tutto, sono ignobili reazionari, la cui ragione di vita è difendere l’appropriazione indebita del plusvalore delle aree da parte degli speculatori [...] fieri assertori della città inabitabile, inumana, paralizzata, omicida, nel rifiuto di ogni norma elementare del moderno vivere associato e dei principi politio-giuridici che vi presiedono? Problema al quale oltre allo storico, dovrebbe prestare attenzione lo psichiatra e l’anienalista»4.“L’urbanistica è l’indice di civiltà di un popolo” amava ripetere Cederna. Come giudicate un popolo che ha introdotto, nelle amministrazioni pubbliche e nel libero mercato, l’idea che il governo del territorio si debba esercitare sotto forma di una costante ed esasperante contrattazione con la proprietà immobiliare? L’immagine di apertura – Planimetria con indicazione dei fabbricati monumentali presenti nella zona minata e distrutta – è tratta da: O. Fantozzi Micali, Alla ricerca della Primavera, Alinea, Firenze, 2002, p. 75. 31 Note Ricostruire Firenze 1 G. Gobbi Sica, Itinerari di Firenze Moderna, Alinea, Firenze, 1987, p. 38 2 F. Borsi, Giovanni Michelucci, LEF, Firenze, 1966, p. 89 3 A. Savinio, Ascolto il tuo cuore, città, Adelphi, Milano, 1992, p. 396 4 AAVV, OPUS INCERTUM, 6-7 “Costruzioni e ricostruzioni dell’identità italiana”, Anno IV-V, Polistampa, Firenze, 2009-2010, p. 92 5 R. Bianchi Bandinelli, Ricostruire Firenze?, “La Nazione del Popolo”, I, 1944, 4, 31 agosto, p.2 6 G. Michelucci, Le sponde dell’Arno non debbono diventare un museo, “La Nazione del Popolo” 1946, 20 ottobre 7 AAVV, OPUS INCERTUM, 6-7 “Costruzioni e ricostruzioni dell’identità italiana”, Anno IV-V, Polistampa, Firenze, 2009-2010, p. 95 8 R. Papini, Intervento su Il nostro referendum sulla ricostruzione di Firenze, “La Nazione del Popolo”, 1946, 15 settembre, p. 15 9 U. Procacci, Difesa della città medioevale, “La Nazione del Popolo”, 1946, 6 ottobre, p. 3 10 C. L. Ragghianti, Urbanistica medioevale e urbanistica d’oggi, “La Nazione del Popolo”, III, 1946, 222, 22 settembre, p. 3 11 Commento di G. Musco, assessore ai lavori pubblici del Comune, in margine all’articolo I progetti premiati, Il Nuovo Corriere, 1947, 23 marzo 12 G. Musco, La ricostruzione della zona del Ponte Vecchio, Rassegna del Comune 1944-51, Firenze, maggio 1951 (numero unico), p. 24 13 AAVV, Firenze: la questione urbanistica, Sansoni, Firenze, 1982, p. 15 Considerazioni a margine sulle problematiche della ricostruzione 1 G. Klaus Koenig, Architettura in Toscana, 1931-1968, ERI Edizioni Rai, Torino, 1968, p. 56 2 M. Tafuri, Teorie e storia dell’architettura, Laterza, Bari, 1968, p. 73 Le problematiche di governo del territorio e la tutt’oggi scottante posizione chiave del diritto di proprietà del suolo 1 AAVV, Urbanistica (numero monografico sul Piano Regolatore di Firenze), n.12, 1953 2 H. Bernoulli, La città e il suolo urbano, Corte del Fontego, Venezia, 2006, pp. 5-11 3 A. Rossi, L’architettura della città, Marsilio, Padova, 1966, p. 215 4 A. Cederna, 1963: Oslo e Stoccolma, dove l’urbanistica è il frutto della coscienza civile e della maturità politica, Il Mondo, 1963 32 APPARATO ICONOGRAFICO 2 Genieri tedeschi collocano mine antiuomo sul selciato di Ponte Vecchio 1 Presidio tedesco all’imbocco del Ponte Vecchio 34 3 Il fumo e la polvere delle esplosioni all’alba del 4 agosto 1944 5 La zona di via de’ Bardi e di borgo San Jacopo (aprile 1945) 4 Le distruzioni di borgo San Jacopo (1945) 6 La zona di via de’ Bardi e di borgo San Jacopo (aprile 1945) 35 8 Le distruzioni nel lungarno Acciaioli e in via Por Santa Maria 7 Le distruzioni intorno alle torri dei Ramaglianti 36 9 Veduta aerea dell’aereonautica alleata del 7 agosto 1944 10 Planimetria con indicazione degli edifici distrutti (Comune di Firenze, 1946) 37 11 Rifare all’antica? (Carlo Maggiora, dallo “Zibaldone”, 1947) 12 Oppure tentare il nuovo? (Carlo Maggiora, dallo “Zibaldone”, 1947) 38 13 Carlo Lodovico Ragghianti, tessitura edilizia medioevale (in alto) messa a confronto con soluzioni “in falso antico”, “in moderno” e con il “nuovo come l’antico” (Archivio della Fondazione Ragghianti, Lucca, Estratti Firenze, 1a) 14 Piano di ricostruzione delle zone distrutte intorno al Ponte Vecchio; planimetria del progetto presentato alla Mostra di Ottica del 1947 (disegno conforme all’originale, pubblicato su “Il Nuovo Corriere” del 25/10/47) 39 Referenze iconografiche La fotografia (15, p. 38) e i relativi diritti, sono di proprietà dell’autore. I disegni e le fotografie d’epoca (1-3, 8-10, pp. 32, 34-35) sono tratti da: Osanna Fantozzi Micali, Alla ricerca della Primavera, Alinea, Firenze, 2002, pp. 16-17, 19, 30, 76, 88. Le fotografie d’epoca (4, 7, pp. 33-34) sono tratti da: AAVV, Giovanni Michelucci. Le fotografie, Tielleci, Parma, 2011, pp. 18-19. I disegni e le fotografie d’epoca (5, 6, 13, pp. 33, 36) sono tratti da: AAVV, OPUS INCERTUM, 6-7, “Costruzioni e ricostruzioni dell’identità italiana”, Anno IV-V, 2009-2010, Polistampa, Firenze, 2002, pp. 86, 95. I disegni e le fotografie d’epoca (11, 12, 14, pp. 36-37) sono tratti da: AA VV, Firenze 1945-1947, i progetti della ricostruzione, Alinea, Firenze, 1995, pp. 101, 103, 202. 15 Veduta di Ponte Vecchio e lungarno degli Acciaiuoli (2011) 41 Definizione E SVILUPPO della ricerca 42 Le operazioni di “tassello” Giovanni Klaus Koenig 1967 v. XX Settembre 58 Italo Gamberini 1956 v. Ficino 14 Francesco Spinelli * 1958|59 v. Lamarmora 31, 31a Ugo Saccardi * 1963 p.zza Conti 7 Italo Gamberini 1957 v. Alamanni, v. Jacopo da Diacceto Francesco Spinelli * 1958|62 v. Guerrazzi 1m, 1n Melchiorre Bega 1955 v.le Gramsci 67 Franco Bonaiuti * 1960 v.le Gramsci 63 Nino Jodice * 1959|61 v. Guerrazzi 1c, 1d Paolo Tincolini Delfo Del Bino Pier Luigi Spadolini 1968|70 v. Guerrazzi 8 Nino Jodice * 1956|59 v.le Mazzini 33, 35 1960 v.le Mazzini 15, 17 Riccardo Gizdulich 1953 v. Lungo le Mura di S. Rosa 3 Italo Gamberini 1948 v. Por Santa Maria, borgo Santi Apostoli Giovanni Michelucci 1956|60 v. Guicciardini 24 Giovanni Michelucci 1954|58 v. Guicciardini, v. dello Sprone 1 Carlo Cresti * 1966 v. Lanza 20 Leonardo Savioli Danilo Santi 1964|67 v. Piagentina 29 Cuore della presente ricerca, sono le operazioni di “tassello”, così definite dall’architetto Franco Bonaiuti1, ovvero quegli innesti chirurgici, quegli interventi puntuali di ricostruzione, all’interno del tessuto storico, o comunque ormai consolidato, della città. Se infatti le sperimentazioni architettoniche più complete e pianificate, di cui ben si conoscono intenti programmatici, esiti formali e successive critiche, riguardano i quartieri periferici di espansione di Firenze, e sono legate soprattutto ai vari enti preposti allo sviluppo delle residenze collettive convenzionate, sono altrettanto interessanti, ma sicuramente meno noti, i casi di edilizia privata, di elevato valore architettonico, che punteggiano il tessuto del centro storico e l’immediato intorno dei viali di circonvallazione. Lezioni che ci fanno riflettere sul mestiere di architetto, quando non è semplice pratica professionale, ma è invece un bagaglio di conoscenze che hanno riferimenti con la cultura del tempo, per cui anche un lavoro di edilizia diventa un’opera di architettura. Tra i più interessanti e rappresentativi della vicenda fiorentina, sono stati selezionati 18 casi studio, qui elencati in ordine alfabetico per autore, tra cui – evidenziati con un asterisco – alcuni episodi ancora privi, ad oggi, di una dettagliata documentazione a riguardo: Bega Melchiorre Edificio residenziale Edificio per abitazioni e negozi Bonaiuti Franco Edificio per abitazioni Cresti Carlo Edificio per abitazioni, e negozi Gamberini Italo Edificio per abitazioni Gamberini Italo Edificio per abitazioni e uffici Gamberini Italo Gizdulich Riccardo Edificio per abitazioni e negozi Edificio residenziale Jodice Nino Edificio residenziale Jodice Nino Edificio per abitazioni e uffici Koenig Giovanni Klaus Michelucci Giovanni Edificio per abitazioni e negozi Edificio per abitazioni e negozi Michelucci Giovanni Edificio per abitazioni Saccardi Ugo Edificio per abitazioni Savioli Leonardo Edificio per abitazioni Spadolini Pier Luigi Edificio per abitazioni Spinelli Francesco Edificio per abitazioni e negozi Spinelli Francesco Edificio per abitazioni Tincolini e Del Bino v.le Gramsci, 67 v.le Gramsci, 63 v. Lanza, 20 v. Por S. Maria, borgo SS. Apostoli v. Marsilio Ficino, 14 v. Alamanni, v. Jacopo da Diacceto v. Lungo le Mura di Santa Rosa, 3 v.le Mazzini, 33, 35 v. Guerrazzi, 1c, 1d v. XX Settembre, 58 v. Guicciardini, v. dello Sprone, 1 v. Guicciardini, 26 p.zza Conti, 7 v. Piagentina, 29 v. Guerrazzi, 8 v. Guerrazzi, 1m, 1n v. Lamarmora, 31, 31a v.le Mazzini, 15, 17 1955 1960-61* 1966 * 1948-51 1956 1957 1953 1956-59* 1956-59* 1967 1954-57 1956-60 1963 * 1964-67 1968-70 1958-62* 1958-59* 1960 * note 1 Ulisse Tramonti, Franco Bonaiuti, Architetto, Alinea, Firenze, 2008, p. 28 45 Premessa propedeutica all’analisi dei caratteri della specificità fiorentina Interpretare i caratteri di una specificità locale, di una città, o di un territorio, non è cosa semplice. Spesso ineffabile e impalpabile, il genius loci, l’identità e la vocazione di un luogo, è indescrivibile e non si limita alla semplice sommatoria figurativa degli elementi architettonici, spaziali ed ambientali, ma si riconosce anche, e soprattutto, nelle ideologie, nelle aspettative, nelle realtà socio-culturali degli uomini che lo abitano nel contingente momento storico. Inscindibile dal tempo, il genius loci diventa qualcosa quindi di mutevole e in continua trasformazione, da ridefinire di epoca in epoca. Capire questo, implica che interpretare, contribuire alla storia di un luogo, vuol dire impossessarsi, non solo del linguaggio espressivo e simbolico, ma anche della cultura in senso lato che lo pervade e che lo ha formato. Un’operazione quest’ultima che un singolo progettista non può assolvere, se non in parte, senza l’ausilio scientifico e critico di storici, statisti e sociologi. E una commissione del genere, seppure composta da qualificati esperti di rigorosa e profonda preparazione scientifica, non riuscirebbe lo stesso a compiere la difficile operazione di lettura alla quale sono stati preposti, se non intervenisse in loro sostegno un artista, un filosofo o un intellettuale dotato di estrema sensibilità, capace di cogliere quel carattere di unicità, quello che Raffaello Brizzi, fondatore, preside e insegnante della Scuola Superiore di Architettura di Firenze (Facoltà dal 1935), definiva quel «“saporino nostro”: qualcosa di goloso, che, secondo lui, faceva venire l’acquolina in bocca. Si trattava del lento cantare dei “pieni”, delle superfici quasi interamente murate, dei muri di contenimento dei giardini che si legano senza soluzione di continuità con l’architettura delle case: tutte cose molto più importanti, per i toscani, dei canoni proporzionali o dell’uso delle colonne»1. Con la stessa sensibilità, decenni dopo, Kevin Lynch cerca di riassumere in un unico quadro omnicomprensivo Firenze e la sua identità. Una città che «ha ovviamente una tradizione economica politica e culturale di eccezionale intensità, ed i segni visibili di questo passato contribuiscono in larga misura al vigoroso carattere fiorentino. [...] Dal ben definito centro della città, che al tempo stesso è centro per le tradizioni e i traffici, si erge enorme e inconfondibile, la cupola del Duomo, fiancheggiata dal campanile di Giotto, un punto di orientamento visibile in ogni parte della città e al di fuori di essa per miglia e miglia. Questa cupola è il simbolo di Firenze. Il centro storico è caratterizzato con tratti di un vigore quasi opprimente: strade come fessure, pavimentate in pietra; alti edifici in pietra e intonaco di colore giallo-grigio, con persiane inferriate e portoni come caverne, sormontati dalle caratteristiche cornici sporgenti dei tetti fiorentini. Vi sono in quest’area molti nodi, la cui forma distintiva è sempre rafforzata da un uso particolare o da una specifica categoria di utenti. L’area del centro è zeppa di elementi di riferimento, ciascuno dotato di un nome e di una propria storia. Il fiume Arno taglia il tutto e lo inserisce in un più vasto ambito paesistico. Per queste forme precise e differenziate, la gente ha sviluppato un forte attaccamento, fatto di storia passata come di esperienze personale. Ogni scena è immediatamente riconoscibile, e porta alla memoria un fiume di associazioni. Ogni parte si incastra perfettamente nell’altra. L’ambiente visivo diviene una componente integrale nelle vite dei suoi abitanti»2. Una descrizione attenta e profonda, che continua allargando lo sguardo fino alle colline e alle campagne circostanti, ma che non entra nel merito di quello che è il tessuto urbano, della morfologia urbana, delle sue origini e delle sue manifestazioni. Uno strumento nuo47 vo, quello della tipologia edilizia, per la lettura critica della città e lo studio sui rapporti tra tipologia e morfologia urbana, inteso come storia dell’edilizia e della città stessa, ci viene offerto, alla fine degli anni cinquanta, da Saverio Muratori, nei suoi Studi per una operante storia urbana di Venezia. Ma, se questo metodo ha il pregio di unire in un unico procedimento di indagine e di conoscenza l’architettura alla città, trova il suo limite applicativo, come ci farà notare Carlo Aymonino nel 1970, nel momento in cui si «teorizza la necessità che gli interventi di progettazione nell’attuale realtà urbana siano necessariamente conseguenti e derivabili da tale genere di studi, come continuità logica del sapere e dell’operare»3, e continua riportando un’osservazione di Leon Battista Alberti che ci riporta, dal passato, al legame tra società, cultura e fatto architettonico: «se abbiamo intenzione di classificare in modo adeguato [...] i vari generi di edifici e le varie parti all’interno di ciascun genere, il metodo di una siffatta indagine impone in ogni caso di chiarire esaurientemente quali differenze vi siano tra gli uomini: giacché gli edifici sono fatti per loro e variano in rapporto alle funzioni che svolgono nei loro riguardi»4, e il variare sopra descritto trova la sua completa definizione solo nel rapporto tra l’edificio singolo e la città nel suo insieme. Sebbene infatti la residenza, che rappresenta da sempre la quantità per eccellenza dell’impianto urbano, costituisca, con la propria permanenza e costanza tipologica, la gran parte della morfologia e della struttura urbana, lo studio dei suoi tipi appare insufficiente alla lettura globale della città. Tesi rafforzata dalle parole di Carl Marx che definisce la città come «una specie di organismo autonomo» rispetto alla realtà sociale a essa corrispondente in quanto «la pura e semplice esisten48 za della città come tale è distinta dalla pura e semplice molteplicità di abitazioni indipendenti. In questo il tutto non è la somma delle sue parti» 5. Lo stesso Aldo Rossi, partendo dalla critica della visione della città riportata negli scritti di Camillo Sitte, sottolinea come, il tutto, sia più importante delle singole parti e come, l’esperienza concreta, vissuta, del fatto urbano nella sua totalità, persino quella del semplice passeggiare su e giù per una strada, sia indispensabile per la comprensione completa della città, tanto quanto la lettura del sistema stradale e della topografia urbana. Superando poi i concetti di “tipo” e di “funzionalismo ingenuo”, Rossi, nel suo L’architettura della città, ci presenta, con la sua teoria della permanenza, una nuova possibile chiave di lettura, per entità individuali “persistenti”, della città storica. «Le persistenze sono rilevabili (secondo le teorie del Poète) attraverso i monumenti, i segni fisici del passato, ma anche attraverso la persistenza dei tracciati e del piano. Quest’ultimo punto è la scoperta più importante del Poète; le città permangono sui loro assi di sviluppo, mantengono la posizione dei loro tracciati, crescono secondo la direzione e con il significato di fatti più antichi, spesso remoti, di quelli attuali. A volte questi fatti permangono essi stessi, sono dotati di una vitalità continua, a volte si spengono; resta allora la permanenza della forma, dei segni, dei segni fisici, del locus. La permanenza più significante è data quindi dalle strade e dal piano; il piano permane sotto elevazioni diverse, si differenzia nelle attribuzioni, spesso si deforma, ma in sostanza non si sposta. [...] le permanenze possono divenire, rispetto allo stato della città, dei fatti isolanti e abberranti; esse non possono caratterizzare un sistema se non sotto la forma di un passato che sperimentiamo ancora. [...] Sono infatti propenso a credere che i fatti urbani persistenti si identifichino con i monumenti; e che i monumenti siano persistenti nella città ed effettivamente persistano anche fisicamente. Questa persistenza e permanenza è data dal loro valore costituivo; dalla storia e dall’arte, dall’essere e dalla memoria» 6. Si introduce oltre al valore fondante e permanente del piano, quello dei monumenti, intesi non come entità immodificabili ed estranee alla realtà contemporanea, bensì come fatti urbani persistenti, architetture del passato che è ancora possibile sperimentare oggi, fruibili oltre l’esplicazione delle funzioni originarie generatrici. Valore primario dei monumenti è quindi la forma, e non la funzione a cui essi sono preposti, che può variare nel tempo. E la forma dei monumenti è, a sua volta, strettamente responsabile della forma generale della città, sia nella sua definizione concreta, che in quella immaginaria, costituendone le invarianti che la caratterizzano in modo identitario. «L’Architettura esprime se stessa in termini spaziali, altro da sé in termini simbolici»7. La combinazione di forma e simbolo genera monumenti che, sotto forma di oggetti architettonici isolati, sono capaci di sconvolgere il significato globale della città preesistente. Così Manfredo Tafuri, pur partendo da premesse storicocritiche, giunge a valutare l’opera di Brunelleschi nelle Firenze del suo tempo. «Una delle più alte lezioni dell’Umanesimo brunelleschiano è la sua nuova considerazione della città preesistente come struttura labile e disponibile, pronta a mutare il suo significato globale una volta alterato l’equilibrio della narrazione continua romanico-gotica con l’introduzione di compatti oggetti architettonici. Storia urbana e nuovo intervento sono ancora quindi complementari, ma in senso dialettico. Si può dire di più: dato che la cupola di S. Maria del Fiore, le due basiliche di S. Lorenzo e S. Spirito, o la rotonda degli Angeli sono pensate come architetture a scala cittadina, si spiega come mai né il Brunelleschi né l’Alberti sentano il bisogno di codificare utopie urbanistiche. L’organicità rigorosa dello spazio prospettico, infatti, è affermata nel primo Umanesimo come nuova e polemica verità, in sé compiuta. Le architetture che si coordinano intorno ai suoi razionali postulati si confrontano e competono con i tessuti urbani preesistenti; né c’è bisogno di estendere all’intera città il coordinamento unitario dello spazio, poiché quelle stesse architetture pretendono di dimostrare visibilmente la loro capacità di riverberare, sui polistratificati tessuti medioevali, le loro qualità razionali»8. Una premessa questa, al capitolo successivo, che mi auguro serva da monito per quanti, trovandosi di fronte ad una serie di riferimenti, materici, formali, volumetrici, delle “lettere” di un alfabeto architettonico, non pensino semplicisticamente che un’architettura “fiorentina” (se questo termine può ancora avere un significato oggi), una “parola” completa o, peggio ancora, un brano di città, una “frase” urbanistica, si possa realizzare con una citazione fedele, un “copia e incolla” metodico ma disordinato, delle singole “lettere”, a comporre “parole” e “frasi” sconnesse. Come sottolinea Giovanni Klaus Koenig, nel suo Architettura in Toscana, 1931-1968: «In sostanza, è la storia di una città che, transustanziandosi in architettura, assume una struttura formale, leggendo la quale si legge anche la storia dei rapporti sociali comunitari. [...] Ora, fino a che noi leggiamo le “parole” architettoniche e non le “frasi” urbanistiche, troveremo sempre elementi stilistici comuni: finestre bifore o trifore nel gotico, timpani spezzati alla fine del Cinquecento. Ma se dalla grammatica comune passiamo alla sintassi, cioè studiamo il modo con cui gli elementi dell’architet49 tura vengono ad essere aggregati, ossia composti far loro a formare dapprima le opere e poi la città nel suo insieme, è allora che appaiono i caratteri distintivi; cioè quelle strutture formali che sono inconfondibili di ogni storia civile particolare». Infatti, sebbene lo studio dei caratteri di una specificità urbana, siano indispensabili per una progettazione sensibile e responsabile, e ne costituiscano il bagaglio culturale di base, la mera e pedissequa imitazione degli stessi, senza una rilettura critica in chiave contemporanea, non può che portare a nefasti risultati. Ne è un esempio l’esperienza fallimentare del nuovo quartiere di Novoli, sorto nell’area ex Fiat, nella prima periferia di Firenze. Ideato come tentativo di “estensione” del centro della città e regolato – dimenticando completamente il Piano Particolareggiato, precedentemente redatto da Leonardo Ricci, e i circa dieci anni di lavoro che ne stavano a monte (ai quali avevano partecipato personalità quali Bruno Zevi, Cappai e Mainardis, Gabetti e Isola, R. Rogers, L. Ricci, A. L. Rossi, L. Pellegrin, R. Erskine, G. Birkerts) – da una serie di “lineamenti” codificati nel piano guida redatto da Léon Krier, rappresenta in realtà, come viene a ragione definito da molti, senza mezzi termini, la “sagra di tutte le occasioni perdute”. Non è stato sufficiente infatti il semplice rispetto dell’elenco di regole “identitarie”, quali erano state enumerate (il tracciato irregolare delle strade, che si snodano non in modo rettilineo ma comunque con una sezione costante, il dimensionamento medio-piccolo degli isolati, che peraltro non corrisponde con il dimensionamento storico della città che invece prevede isolati piuttosto grandi composti da un’aggregazione di molteplici elementi particellari, edifici che, neppure nel caso di Palazzo Medici Riccardi o Palazzo Strozzi, diventano isolati a sé stanti, il basamento in pietra, il tetto alla fiorentina con forte sporgenza, l’altana a coronamento 50 etc.) per ottenere un risultato che fosse in continuità con la città storica. Se si escludono gli edifici dedicati alle aule e alla biblioteca dell’università realizzati da Natalini, per un verso, e quello della casa dello studente dei C+S per un altro, la realtà è ben diversa. Le regole imposte “della tradizione” sono state completamente stravolte, nel pieno rispetto delle stesse, e hanno generato un paesaggio, a dir poco avvilente. Tozzi volumi intonacati, dal giallo al rosso, in una combinazione pacchiana e chiassosa, si ripetono uguali uno all’altro, cercando di toccare il terreno il meno possibile, limitando, da un lato, i costosi rivestimenti in pietra previsti “di legge” e garantendo, dall’altro, la maggior visibilità possibile ai locali commerciali posti al piano terra. Pesanti cubi di cemento e mattoni su pilotis, come elefanti sui trampoli, lo studio delle cui proporzioni è stato direttamente proporzionale al tempo necessario per dividere i volumi di cubatura disponibile per la superficie edificabile, punteggiati da ridicole e sgraziate bifore (con tanto di cornice di ordinanza), e coronati da “singolari” pagode, come cappellini di carta indossati per la festa di Capodanno, che niente hanno a che vedere con i tetti alla fiorentina o con le altane storiche, ma che altro non fanno che generare un paesaggio ancora più alienante e lontano, quasi ci trovassimo, paradossalmente, in una periferia di una Cina immaginata tra i fumi dello smog o nel disorientante parco limitrofo. L’architetto che lavora con la città si deve muovere come un artista (da definizione del Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli: “persona che ha e manifesta sensibilità per i vari aspetti della realtà, in misura considerata superiore alla media”) illuminato, non dalla luce divina della provvidenza celeste che gli porta in dono il progetto, l’unico e possibile, ma dall’intuizione sensibile nata dalla cultura, dalla profonda conoscenza della storia, dalla capacità di instaurare un dialogo serrato con le preesistenze, dall’interiorizzazione della città, trascesa in nuove immagini, accese dalle reminiscenze della memoria e impregnate dalla comprensione profonda dell’essenza collettiva della città. Conoscenze teoriche da intrecciare ad una “naturale” vocazione al disegno manuale. Una vocazione al disegno storica, che va riconosciuta alla realtà fiorentina, ma più in generale a tutta quella italiana, che ha permesso si ideassero e si costruissero, nel tempo, edifici dalle caratteristiche uniche, regolate da armonici equilibri fra le parti ed il tutto, da gesti plastici misurati e controllati, in una definizione volumetrica in perfetta dialettica con lo spazio urbano. L’immagine di apertura – Veduta di Ponte Vecchio da Ponte Santa Trinita, 2012 – e i relativi diritti, sono di proprietà dell’autore. 51 I caratteri della specificità fiorentina, letti attraverso la loro interpretazione come elementi costituenti del linguaggio compositivo dei diversi casi studio Lontana, più concettualmente che fisicamente, dai due forti poli culturali costituiti, da un lato, dalla Milano dell’M.S.A. (Movimento Studi per l’Architettura) con Giancarlo De Carlo, della Domus di Gio Ponti e della Casabella e continuità di Ernesto Nathan Rogers e, dall’altro, dalla Roma dell’A.P.A.O. (Associazione Per l’Architettura Organica) con Mario Ridolfi e Bruno Zevi e la sua L’architettura, cronache e storia, Firenze si discosta in silenzio, prendendone le distanze, dalle coeve posizioni intellettuali nazionali, per tingersi di toni decisamente locali. L’ambiente si costituisce come una componente dominante dell’immagine architettonica. «Esso non è solo il luogo fortunato dove certe idee si coagulano e si innesca un sistema di interazioni reciproche che spingono la creatività degli artisti verso un fine comune, ma è anche qualcosa di meno ideale. L’ambiente architettonico è un insieme di forme preesistenti, le quali si traducono nella percezione di chi le fruisce come una serie di immagini relazionate fra loro. Il loro insieme costituisce, analogamente a quanto avviene nella lingua parlata, un “campo linguistico”, ossia un codice comune ad un gruppo di interpreti, che sono i membri della comunità. L’ambiente è quindi anch’esso un linguaggio, cioè una somma di segni significanti, che in questo caso sono segni iconici, cioè immagini che esprimono direttamente il loro significato»1. E sicuramente il segno iconico per eccellenza della città Firenze è quella silenziosa murarietà severa che fisiogniomicamente ci racconta il carattere introverso e arcigno della vita e dei cittadini che la animano. L’equilibrio sbilanciato fra l’involucro murario e le bucature, logge o finestre che siano, la prevalenza massiccia dei pieni sui vuoti, la forza espressiva del muro assume «un valore discriminante della via italiana al razionalismo rispetto all’orientamento programmatico dell’International Style, che opta per la leggerezza e la trasparenza dell’involucro consentite dalla struttura a telaio in calcestruzzo armato o metallo. Valore dell’architettura mediterranea, e peculiare della tradizione architettonica toscana»2. L’esempio più eclatante, interpretazione in chiave moderna di questo tradizionale “lento cantare dei pieni”, è la stazione di Santa Maria Novella con la sua imponente parete in pietra forte, solcata da altrettanto massicci ricorsi orizzontali, che ne dilatano ulteriormente la dimensione. Ma non mancano esempi anche nell’architettura minore delle residenze, di ricostruzione, o di ampliamento, del secondo dopo guerra. Michelucci, nell’edificio INA casa per abitazioni e negozi di Via Guicciardini ci dà una magistrale figurazione – soprattutto sul lato prospiciente via dello Sprone – di quel carattere di solidità e compattezza tipicamente fiorentino. Anche Riccardo Gizdulich in via Lungo le Mura di S. Rosa e Francesco Spinelli in via Guerrazzi, ripropongono, sebbene non con la stessa sensibilità e attenzione michelucciana alla grana e alla finitura della pietra forte di rivestimento, il motivo della massa muraria, slanciata in verticale, priva, o quasi, di aperture che articola o termina il racconto architettonico, con chiaro riferimento alle case torri medioevali. Per Nino Jodice invece, nei suoi interventi in via de’ Bardi, in borgo San Jacopo e in viale Mazzini, il tema della massa è demandato a setti intonacati, completamente lisci e privi di aperture, che si stagliano in verticale sui basamenti in pietra, quasi a voler riequilibrare, con la loro estrema compattezza e stereometricità, le aperture praticate nelle parti restanti del volume. Seppure in modo originale, legato ad un’attenzione rivolta verso gli aspetti della prefabbricazione e della modularità, anche l’edificio di Pierluigi Spadolini in via Guerrazzi rivela una predilezione per la massa muraria, per la dominanza dei pieni sui vuoti, giocata, non con le 53 accentuazioni locali dei bugnati in pietra forte e delle estese superfici in intonaco liscio, bensì attraverso l’utilizzo di listelli verticali di emalux – una graniglia di pietra forte impastata con resine trasparenti – di un colore che, assieme a quelli degli infissi in legno, delle finiture in ferro, colore testa di moro, e della copertura in tegole di cotto bruciato, sintetizza la cromaticità del paesaggio cittadino circostante, riprendendo, per dirlo come era solito fare Italo Gamberini, “il colore di Firenze vista dal Piazzale Michelangelo in un giorno di sole, socchiudendo gli occhi”. Attenzione quest’ultima posta dallo stesso Gamberini nella realizzazione della Sede Regionale R.A.I. di Firenze, in cui, abbandonando i materiali propri della storia, sperimenta materiali industriali nuovi, come le lastre di pietra ricomposta “Silipol” per il rivestimento esterno, senza però venire meno alla profonda sintonia, mentale e concettuale, con la tradizione fiorentina. «Il pensiero che queste masse tra loro connesse e movimentate fossero ancora un pezzo di città che non stesse a conclusione, ma quasi a sutura con la nuova Firenze, mi ha fatto pensare al controcampo e ai colori che si fissano nella retina, quando da distante, si osserva la città e si vede il nucleo antico che emerge dovunque lo si guardi. La pietra forte degli edifici antichi, il cotto dei tetti, il giallo ocra di certe masse architettoniche anch’esse preminenti nel quadro, il grigio delle colline viste negli sfondi mi ha suggerito una sintesi coloristica che ho espresso nei materiali usati per le superfici esterne del complesso. I tamponamenti portano colori riassuntivi di Firenze»3. Le aperture praticate sulle superfici murarie non si riducono, nella maggior parte delle illuminate esperienze progettuali fiorentine del secondo dopoguerra, ad un segno grafico planare, a sottolineare la trama di un disegno ordinatore bidimensionale di matrice razionalista, ma sono 54 spesso occasioni per esplorare le profondità murarie, per accentuare i caratteri plastici dei volumi scavati da incisioni che accentuano i toni chiaroscurali e le differenze tra i pieni ed i vuoti. Abbandonate le cornici ed i decori, per soffermarsi sui semplici elementi costituitivi e strutturali – sebbene la maggior parte delle aperture si uniformino, dimensionalmente, ai nuovi standard igienico sanitari e a più vantaggiosi rapporti di aeroilluminazione con le superfici degli ambienti interni – dove possibile si continua a prediligere, a favore della murarietà massiccia ed ininterrotta, l’utilizzo di aperture piccole e discrete, disposte in modo da ricreare, nella visione globale, l’immagine dell’aggregazione spontanea delle compatte case a schiera gotiche le cui finestre seguivano, edificio per edificio, indipendentemente da quelli limitrofi, un proprio ordine, formando un insieme caotico ed imprevedibile. Molti gli esempi da riportare, ricordiamo Nino Jodice in viale Mazzini che ordina le diverse tipologie di finestre e porte-finestre utilizzate, aggregandole volta per volta in modo diverso, dividendo così formalmente, in fasce verticali, il prospetto dell’edificio, Carlo Cresti in via Lanza che scavando o estrudendo i balconi e i davanzali produce un gioco volumetrico e di ombre potente e severo, Michelucci nei suoi interventi in via Guicciardini che dona, ai suoi due edifici, sui fronti principali aspetti duri e fortemente connotati, in cui i vuoti sono scavi profondi e affogati nell’ombra, mentre su quelli laterali e posteriori invece prospetti più miti, in cui il gioco delle minute finestre si rincorre e si alterna con quello delle porte-finestre prive di balcone. Il binomio porta e vano commerciale affiancati, tipico della “bottega” della casa a schiera medioevale, si rilegge nel piano terra, adibito a negozi, dei due edifici, così come le vetrine, sospese da terra, aggettanti verso l’esterno, riecheggiano agli antichi ban- coni di vendita che sporgevano sulla strada. Gizdulich in via Lungo le Mura di S. Rosa invece accenna a questi elementi del passato con eleganza e raffinatezza, disegnando le grandi aperture del piano terra con una leggera rastremazione di poche decine di centimetri, verso il basso, a circa un metro da terra: un garbato e misurato omaggio alla storia. Esemplare della caratteristica murarietà fiorentina, dell’avarizia delle bucature, spesso caotiche e puntiformi, della potenza plastica dei volumi che, di volta in volta, aggettano o vengono scavati, giocando con le ombre ed il variare delle stesse durante la giornata, è l’edificio in via Piagentina di Leonardo Savioli. Vera e propria casa torre, sia per le dimensioni ed il trattamento monomaterico delle superfici esterne, nonché per l’applicazione del metodo compositivo basato sulle aggiunte e sulle modifiche progressive, tese più alla convivenza formale di elementi molteplici e diversi, che non al raggiungimento di un disegno unitario finale, l’edificio di via Piagentina rappresenta, seppur profondamente intrisa dei risultati delle contemporanee e personalissime ricerche del suo autore, sia nel campo grafico, che in quello progettuale, il risultato dell’interpretazione di un “memoria storica” capace di tramutarsi in gesto architettonico originale, assolutamente legato ai valori e alle aspirazioni del tempo in cui vede la luce, eppure allo stesso modo, in dialogo stretto con il passato della città. Come lo stesso Savioli riporta nella relazione descrittiva, infatti, «l’edificio deve sorgere in un’area non molto lontana dal centro storico, e più precisamente in prossimità dell’anello di circonvallazione del Poggi. E’ una zona che conserva i caratteri della edilizia compatta, severa, rigorosa, nella quale si avverte ancora la presenza, in un certo senso, del nucleo storico monumentale. Per questa ragione e per altre che verranno esposte, l’edificio si conforma in modo articolato, tuttavia con forme che possono in parte trarre il loro motivo plastico dal ricordo delle vecchi torri, delle altane, delle sporgenze nelle case fiorentine tradizionali»4. Ed è proprio la tradizionale sporgenza fiorentina, l’aggetto dei piani superiori, lo “sporto”, una delle figure architettoniche che più ricorre come matrice identitaria e caratteristica della città. Sia che sia trattato in modo stereometrico, un semplice volume in aggetto, come per Spinelli in via Guerrazzi e in via Lamarmora, per Jodice o Tincolini e Del Bino in viale Mazzini, o per Bega in viale Gramsci, che sia sottolineato dalla scansione ritmica dalle travi in aggetto che lo sostengono, come per Gamberini in via Por Santa Maria e in via Ficino, oppure che sia frammentato, articolato, elaborato e declinato in diverse configurazione come per Bonaiuti in viale Gramsci, Cresti in via Lanza o Savioli in via Piagentina, lo sporto rimane un protagonista assoluto ed elemento di forte specificità locale. E se il basamento, punto di contatto a terra, simbolo di forze e possenza è, salvo casi specifici, in pietra forte, più o meno bugnata, e si alza, per accentuare volumi verticali slanciati come case torri, fin oltre il piano terra, il rapporto con il cielo si confronta inevitabilmente con il tetto a gronda fiorentina. La copertura fortemente aggettante della tradizione, lo “sporto di gronda” si spoglia dei canonici elementi costituenti quali il corrente e la sottomensola inferiore, entrambi in legno, per rivestire il suo ruolo simbolico di protezione, di chiusura, di definizione del volume edificato sotteso, ma anche di abbraccio proteso verso l’esterno, di estensione verso la strada, così tipico e ricorrente nel centro storico tanto da trasformare i vicoli in vere e proprie trincee scavate. Il tetto diviene così l’elemento aggregante che lega, in modo lineare, tutte le articolazioni volumetriche sottese, rendendole parte di un unicum omogeneo, senza 55 interruzioni di continuità. L’imponente tetto ogivale dell’edificio di via Piagentina del Savioli si stende, in questo modo, a coprire generosamente corpi principali e corpi secondari, come un grande cappello unificante e protettivo. I tetti severi di Michelucci in via Guicciardini rimarcano, con le loro lunghe e dense ombre, il culmine superiore degli edifici stessi, quelli di Spinelli in via Guerrazzi invece si librano, svuotandosi al di sopra di un grande terrazzo, rigenerando quella spazialità propria delle altane dei palazzi medioevali. In generale, se le nuove unità residenziali non ricalcano planimetricamente i modelli tipologici della città antica, affidandone le distanze reciproche, i dimensionamenti generali e le distribuzioni interne ai nuovi criteri dettati dal funzionalismo, dalla modernità e dalle esigenze e necessità della classe borghese emergente, per la quale venivano pensate queste abitazioni, la frammentazione del tessuto medioevale si rilegge invece nella composizione e nell’articolazione dei prospetti. Si tende infatti, soprattutto in presenza di lottizzazioni piuttosto estese, sorte a saturazione del tessuto diffuso e frammentato costituito finora da villette isolate tardo ottocentesche, a realizzare, come nel caso di Jodice in viale Mazzini o di Spinelli in via Guerrazzi, un fronte articolato, generato dall’aggregazione orizzontale di volumi con larghezze ridotte, caratterizzati da una diversa finitura esterna, in pietra o intonaco, o da un colore diverso, oppure dalla presenza di uno sporto o di una declinazione alternativa delle aperture o del loro ritmo, tenuti insieme da un basamento comune in pietra che li lega e li accomuna, così come fa la riva murata dell’Arno di borgo San Jacopo o di via de’ Bardi con i molteplici volumi che le si attestano, a sbalzo, e a diverse altezze, con regole compositive differenti ed indipendenti l’uno dall’altro. Riportare la dimensione dei prospetti 56 ad una assimilabile, almeno in proporzione, con quella degli stretti fronti delle case a schiera medioevali, ricostituendo l’unitarietà con il basamento o con il tetto e il suo forte aggetto, è un atteggiamento progettuale che cerca di mediare le nuove dimensioni della città, completamente dilatate, con quelle del tessuto storico e può far riflettere sulla cattiva sorte critica e sul mancato successo popolare (sebbene si possa stare tranquilli che a Firenze qualunque nuova opera, con la pur minima velleità di moderna contemporaneità, avrà più detrattori che sostenitori) di macro opere con spiccate caratteristiche volumetriche orizzontali, che ne accentuano l’uniformità e l’omogeneità lungo tutto il fronte, come l’edificio della Direzione provinciale delle Poste di via Pietrapiana o quello della Sede della SIP di via Masaccio, entrambi di Giovanni Michelucci. La murarietà severa e silenziosa, l’uso della pietra a vista, la composizione per volumi e non per superfici, la prevalenza dei pieni sui vuoti, l’aggregazione per parti, gli sporti, le altane, i forti aggetti delle coperture a padiglione, o comunque a gronda costante, sono i temi ambientali ricorrenti che scomposti, analizzati attentamente nei propri elementi e riassemblati, in una interpretazione nuova della città storica, riescono a figurare lo spirito della città stessa senza rinunciare alla possibilità di una espressione architettonica personale e contemporanea. L’immagine di apertura – Scorcio del fronte di Palazzo Medici Riccardi su via Gori, 2012 – e i relativi diritti, sono di proprietà dell’autore. 57 La Torre come elemento simbolico, qualificante, e unità semantica del linguaggio architettonico fiorentino «Il ponte più antico di Firenze, sovraccarico di piccole botteghe di orefici e argentieri [...] che costituiva uno dei complessi paesistici più noti nel mondo, sopravviveva in gran parte, solo, in mezzo ad un ampio vuoto a compensare la distruzione di 367 botteghe, di 71 laboratori artigiani e di 123 edifici (con 386 abitazioni) fra le quali una decina di torri medioevali e una ventina di palazzi di notevoli architettura e di grande valore storico»1. Molte torri medioevali, sopravvissute all’azzeramento urbanistico delle mine tedesche, non sono comunque risparmiate dal loro destino di distruzione. Il comando alleato infatti, preoccupato primariamente di ripristinare in modo rapido ed efficiente la viabilità di transito, opera con celerità alla rimozione delle macerie ma, anche con troppa prontezza, all’abbattimento degli edifici pericolanti. «Una prontezza che però non poteva conciliarsi col nostro intendimento [della Soprintendenza ai Monumenti] di procedere alla cernita dei materiali e soprattutto col tempo che sarebbe occorso per le opere di primo intervento nelle strutture superstiti; in particolare quanto rimaneva delle antiche torri di qua e di là dell’Arno che, seppure fortemente squarciate, lasciavano intravedere possibilità di recupero e fondamentale interesse anche quale presupposto per le soluzioni del futuro piano di ricostruzione della zona»2. Vengono così abbattuti, senza ripensamenti, né incertezze, i resti della torre dei Ridolfi a metà di borgo S. Jacopo e della torre di Parte Guelfa all’incrocio fra via Guicciardini e via de’ Bardi. Come testimonia Edoardo Detti: «Non si riuscì a salvare una bella torre sull’angolo di via de’ Bardi, la torre di Parte Guelfa, che sosteneva il corridoio Vasariano; fortemente lesionata, ma stabilissima, venne gettata a terra dagli Alleati “manu militari” per ragioni di sicurezza e per facilitare il ripristino dell’acquedotto. La sopravvivenza di questa torre, importantissima come elemento di “introduzione” al Ponte Vecchio, avrebbe facilitato la soluzione di quel punto delicato ed avrebbe consentito un facile sdoppiamento dell’imbocco di via de’ Bardi»3. Allo stesso tempo, fortunatamente, «si interviene tempestivamente per recuperare – anche a costo di ricostruirla sia pure con i materiali caduti – la torre degli Amidei (sul lato Ovest di Por S. Maria); questa, insieme alle vicine torri dei Consorti, dei Lamberti e dei Baldovinetti, “meno colpite e prontamente riparate contribuiva appunto – secondo il Morozzi – a rendere meno traumatica la risaldatura del ricostruito quartiere medioevale all’imbocco del Ponte Vecchio”»4. Le torri superstiti, che svettano isolate tra le macerie, segnano indubbiamente un paesaggio che rimane impresso nelle menti di artisti e architetti del tempo. Ranuccio Bianchi Bandinelli su “La Nazione del Popolo” del 31 agosto 1944, in un articolo che, anticipando quello del maggio del ’45, tratta delle problematiche relative alla ricostruzione, ne esalta il carattere formale e simbolico. Torri che, “poste in valore” dalle distruzioni, “potrebbero venire a formare elemento caratteristico di un paesaggio nuovo ai nostri occhi, ma originale e antico”. La casa-torre, nella sua versione originaria del XI secolo, a pianta quadrata e sviluppo “monocellulare” in altezza – Adimari, Baldovinetti, Barbadori, Buondelmonti, “Castagna”, Gherardini, Visdomini – nella sua variante a pianta rettangolare – Barbadori, Donati in Piazza San Pier Maggiore, Foresi, Marsili, Strozzi – nella sua successiva evoluzione “bicellulare” a modulo doppio – Amidei, Belfredelli, Donati in via del Corso, Mannelli, Ramaglianti – e soprattutto nel suo sviluppo ultimo, inglobata nel “palagio” o nella “casa-fondaco” e ad esso incorporata, senza soluzione di continuità – Bagnesi, Barducci, Cerchi, Galigai, Manfredini – diventa, dopo la tragica epifania bellica, un carattere qualificante e un 59 elemento compositivo che ritorna, riproposto in numerose varianti e alterazioni, morfologiche e semantiche, sia negli elaborati di concorso, sia nei progetti che caratterizzano le successive operazioni di ricostruzione, o di ampliamento, del tessuto storico fiorentino, ricreando, in alcuni casi, lo stesso procedimento con cui i palazzi trecenteschi inglobavano le torri più antiche – Acciaioli, Alberti, Pazzi. Già nei primi studi e nelle proposte per la ricostruzione di Michelucci l’elemento “torre” ricorre, quasi ossessivamente, in ogni suo schizzo. Il lungarno di borgo San Jacopo è immaginato punteggiato di alte case-torri, caratterizzate dall’aggregazione sfalsata dei volumi dei singoli piani, ma soprattutto da una trama aerea di passaggi che le connette e da una galleria pedonale sull’Arno che le unisce in un’unica promenade architecturale; il passaggio aereo del corridoio vasariano su via de’ Bardi viene risolto introducendo un edificio-torre che interrompe il duplice fornice e diventa l’elemento di testa di una doppia viabilità, separata da un’area di verde che termina con la scalinata che, scendendo dal giardino di Boboli, arrivava, parallelamente alla sponda, fino all’Arno; le torri medioevali di via Por Santa Maria svettano, liberate dal tessuto circostante, il fronte stradale è ricostituito attraverso un percorso pedonale commerciale sopraelevato, che genera l’arretramento superiore dei fronti dei nuovi edifici, e che sfocia su di una grande piazza – sempre sopraelevata rispetto al filo stradale che viene considerato prevalentemente carrabile – delimitata da alti edifici, tra cui quello d’angolo che ingloba, in parte, la torre sopravvissuta alle distruzioni belliche. «Io pensavo – dichiara Michelucci – di legare Boboli (il giardino mediceo di palazzo Pitti), che è uno sfondo meraviglioso ed un giardino pubblico al Lungarno [...] feci allora alcuni schizzi preparatori: [...] alcuni prevedevano una lunga galleria lungo l’Arno, con 60 le scale che scendevano al fiume. Alcuni “grattacieli”, grandi torri separate l’una dall’altra, lasciavano vedere le colline sul dietro. Queste case torri erano collegate al secondo e al terzo piano con tutta una serie di gallerie, dando vita a dei percorsi di “grande interesse commerciale e turistico” dai quali si scopriva tutto l’Arno. [...] Creiamo – io mi dicevo – questo fatto fantastico: portiamo la gente ai vari piani: e affermiamo il concetto della casa filtrata dalla vita e dalla continuità città-edilizia singola»5. Influenzati da queste riflessioni, diversi autori riproporranno le visioni michelucciane, seppure edulcorate dai caratteri di coinvolgimento vitali dei passaggi aerei ed estremamente semplificati nelle definizioni volumetrice, anche negli elaborati per il concorso per la ricostruzione delle zone distrutte intorno a Ponte Vecchio. I gruppi della “Città sul fiume” – Detti, Gizdulich, Pagnini, Santi – e de “I Ciompi” – Bartoli, Gamberini, Focacci – presentano, come soluzione, per la ricostruzione dei lungarni di via de’ Bardi e di borgo San Jacopo, un profilo “merlato”, generato da una serie di case-torri che si alzano, ad intervalli regolari, da un corpo più basso che, come un basamento compatto, le unisce tutte. Ribaditi gli aspetti “igienici” di questa soluzione che prevede un soleggiamento più salubre della possibile risposta a tessuto compatto, si trascurano invece approfondimenti linguistici e contenutistici della composizione, tanto da generare, non dei veri e propri progetti, quanto degli astratti schemi urbanistici, in cui la ripetitività seriale degli elementi e l’estrema semplificazione stereometrica degli stessi, invalidano le interessanti premesse concettuali. In modo analogo, attraverso una serie di travisamenti, sia della storia, che delle proposte progettuali più recenti, si procederà alla ricostruzione di via Por Santa Maria attraverso l’assemblaggio di parti scomposte legate da un arretramento dei fronti alti rispetto al filo stradale – forse fascinazione derivata dall’immaginata passeggiata pedonale sopraelevata, forse tentativo di rendere più luminosa la sede stradale – che, senza una precisa volontà di intenti, ma con il forte desiderio di un ambientalismo contestuale, genera – al contrario delle aspettative – una tipologia di edifici, e una loro aggregazione, completamente estranea al tessuto esistente del centro storico fiorentino. «Forse nessuna altra strada, come questa, dove le preoccupazioni architettoniche, di intonazione, di “conciliazione” fra “antico e moderno” sono state apparentemente così vive, rivela tanta sconfortante mediocrità, un cattivo gusto da mostra mercato dell’artigianato trasferitasi nel centro di Firenze; in nessuna più che in questa si rivela un’assoluta innocenza urbanistica, l’assenza di qualsiasi intenzione. Così la strada non esiste per la città: ci si passa in fretta e sorridendo come attraverso una scena di cartone o di legno, fuggendo sul Ponte Vecchio o verso il centro»6. La torre, intesa come protagonista ed elemento qualificante della narrazione architettonica, avrà maggiore successo – dovuto in parte anche alla maggiore sedimentazione delle idee e dei nuovi stimoli progettuali, nonché alla riflessiva “calma” che sostituirà la, seppur positiva, frenesia della ricostruzione – nelle opere successive all’immediato dopoguerra. La casa-torre diverrà così, per gli edifici di via Piagentina di Savioli e di via Lanza di Cresti, l’immagine di riferimento per la conduzione della composizione architettonica che sarà tesa, in ogni aggettivazione e dettaglio, a ricreare la sensazione di verticalità, ad accentuarne i caratteri di severità e di chiusura, a ricordare, con gli articolati aggetti, gli sporti, gli imprevisti volumi a sbalzo, le provvisorie sovrastrutture in legno che, accessorie alla torre in pietra, caratterizzavano il paesaggio medioevale della città. Gamberini, in corrispondenza dell’angolo in cui confluiscono via Alamanni e via Jacopo da Diacceto, realizza, a testa di un impianto a T che occupa l’intero lotto trapezoidale tra le due strade, una vera e propria torre medioevale: imponente, massiccia, con il caratteristico profilo delle antiche torri di difesa a caditoie. Per Gizdulich, in via Lungo le Mura di S. Rosa, la torre in pietra diventa invece parte fondante della sintassi compositiva del progetto: elemento figurativo che assolve la funzione di testa e di chiusura dello sviluppo orizzontale del corpo centrale dell’edificio, nonché quella di dialogo con le mura che fronteggiano l’intervento. Allo stesso modo, Jodice in via Mazzini e Spinelli in via Guerrazzi e in via Lamarmora, utilizzano l’elemento verticale in pietra, inglobato all’interno del corpo edilizio e ridotto alla quasi bidimensionalità, come cerniera tra parti planimetricamente sfalsate, o come raccordo tra corpi con altezza o definizione formale diversa, dello stesso edificio. Ma c’è anche chi, come Koenig in via XX Settembre, non perde occasione per utilizzare, ironicamente, il valore iconico della torre: componente puramente accessoria, sporgente dalla parete del complesso edilizio di cui rappresenta una porzione infinitesimale, è coronata da un tetto sospeso in acciaio, più simile a quello delle pagode, che non a quello delle altane fiorentine, e dalla caratteristica banderuola segnavento, con tanto di leone rampante. Un atteggiamento, quello del Koenig, di understatement, teso al ridicolo e alla sdrammatizzazione, così raro a Firenze e così spesso confuso con quello post-moderno. L’immagine di apertura – La torre della Castagna in piazza San Martino, 2012 – e i relativi diritti, sono di proprietà dell’autore. 61 Due torri medioevali, un grattacielo come un cristallo ed uno solo immaginato. Ovvero, osservazioni sull’equivoco italiano dell’aut aut: tradizione o innovazione Nel 1945, in pieno dibattito sulle tematiche della ricostruzione del centro di Firenze, Cesare Augusto Poggi, formatosi nella Scuola di Architettura di Raffaello Brizzi e firmatario del manifesto dei “Gruppi futuristi d’iniziative”, nonché del suo “Architettura Futurista Poggi” del 30 gennaio 1933, immagina in via Por Santa Maria un lucente grattacielo in acciaio, a pianta aerodinamica, che svetta, segnato dalle fenditure orizzontali delle finestrature a nastro, a pochi passi da Palazzo Vecchio. Un oggetto di design, reso perfetto e finito dalla produzione meccanica, precorritore dei miti dell’utopia tecnologica degli anni Sessanta. «Un’architettura integralmente prodotta con metodi industriali, secondo una concezione che tende a dilatare i confini dell’industrial design sì da includervi la progettazione architettonica»1. L’architettura diviene una vera e propria machine à habiter, segnata dal progresso tecnologico delle tecnologie costruttive legate alla produzione seriale. «Meno male vi è un campo in cui le costruzioni non si chiamano razionali e pur tuttavia funzionano e progrediscono meravigliosamente: beate le macchine che non conoscono tradizioni; o, per meglio dire, ne hanno una sola e nobilissima: progredire!» (Poggi, 1935). Il 4 aprile 1960, a circa dieci anni dall’inizio della progettazione, viene inaugurato a Milano, il grattacielo Pirelli. Sorto su un lotto occupato originariamente dagli stabilimenti dell’azienda, distrutti dai bombardamenti aerei del 1943, il grattacielo, sebbene possa apparire, soprattutto per via della forma lenticolare della pianta, più larga al centro e rastremata alle estremità, similare a quello aerodinamico del Poggi, prende vita in realtà da una posizione culturale di fondo radicalmente diversa. «L’Architettura [...] essendo un’Arte, non è progressiva e tende a creare solo delle unità perpetue, delle espres- sioni a sé stanti, irripetibili; crea l’opera d’arte, che non è superabile perché la sua espressione si esaurisce in sé stessa, ed è perpetua. Fa subito ridere il pensare ad un “progresso della Architettura”; come fa ridere il pensare ad un progresso della musica, della pittura, della poesia: il Partenone è il Partenone, e il Battistero di Pisa è il Battistero di Pisa, e la Rotonda è la Rotonda. V’è una “storia” della pittura, della musica, della poesia, non v’è un progresso della pittura, della musica, della poesia. [...] L’opera di Architettura, se è opera d’arte, è originale (inteso ciò non nel senso di bizzarro, ma di originario); non riceve nessun particolare che venga dal di fuori, bell’e fatto (prefabbricato); l’esistente, cioè, il preesistente, non le serve, le è estraneo; tutto quanto la concerne deve riformularsi nella sua esclusiva unità e coerenza»2. Con queste parole Gio Ponti ci introduce un grattacielo che non è un semplice “oggetto di design alla scala urbana”, non una macchina, legata al suo, limitato nel tempo, ciclo vitale, replicabile ed espandibile all’infinito, bensì un’architettura finita, eterna, immodificabile, perfetta come un “cristallo”. Simbolo della potenza economica, delle conoscenze tecnicoscientifiche, della tensione verso il futuro che l’azienda intendeva comunicare, il grattacielo Pirelli di Ponti si pone, con la sua pianta sfaccettata, con la sua struttura in cemento armato apertamente denunciata dall’opacità dei costoloni rastremati e dei bastioni laterali lacerati dalla profonda fessura verticale che ne smaterializza lo spigolo, con la sua “aureola” sospesa, a coronamento del piano attico, a chiusura definitiva della forma, a conclusione del discorso architettonico, come tentativo di declinare, in modo personale ed originale, una tipologia, per eccellenza moderna, come quella del grattacielo, senza però accettarne sistematicamente i canoni formali ormai globalizzati dalle recenti espe63 rienze internazionali. Allo stesso modo, prendendo le distanze dalle consolidate caratterizzazioni moderniste, vede la luce, nel 1958, nell’ambito di una più ampia riconfigurazione urbanistica dell’area centrale di Milano, la Torre Velasca, che nasconde già nel nome, nella sua precisa valenza semantica, non tanto legata ai fattori dimensionali, bensì a quelli qualitativi e formali, la volontà di accentuarne i caratteri di continuità con la storia. Rapporto con la storia, che lo stesso Ernesto Nathan Rogers, portavoce dei BBPR, autori della Torre, chiarisce sottolineando che «il presente è, a sua volta, una creazione originale; ciò invece che disintegrare la storia la unifica in un sentimento di continuità dove il passato si proietta negli accadimenti attuali e questi si ricollegano radicandosi negli antefatti. Essere moderni significa semplicemente sentire la storia contemporanea nell’ordine di tutta la storia [...]. Costruire un edificio in un ambiente già caratterizzato dalle opere di altri artisti impone l’obbligo di rispettare queste presenze nel senso di portare la propria energia come un nuovo alimento al perpetuarsi della loro vitalità». E continua puntualizzando sul concetto di “tradizione”: «Due forze essenziali compongono la tradizione: una è verticale, permanente radicarsi dei fenomeni ai luoghi, la loro ragione oggettiva di consistenza; la seconda è il circolare, dinamico connettersi di un fenomeno all’altro, tramite il mutevole scambio intellettuale far gli uomini; la tradizione è il miele pregnante che le api elaborano cogliendo il succo dai diversi fiori, quando lo trasportano nella remota officina. Ogni artista e, anzi, ogni opera d’arte, sono all’incrocio di queste due forze che collaborano al processo storico e sono la vera essenza: pertanto è improduttivo chi persegue solo uno degli aspetti della tradizione»3. La storia è la chiave di lettura della città, possedere questa chiave permette all’architetto di com64 prendere la tradizione, di interpretarla, di realizzare un’opera moderna, contemporanea, capace di esprimersi con espressioni formali e simboliche nuove, eppure in grado di instaurare un dialogo dicotomico, non necessariamente di rottura e negazione, con il contesto. Nella sua monografia critica su Rogers e i BBPR, Maria Gabriella Errico precisa ulteriormente, la tanto celebre quanto spesso travisata, teoria delle “preesistenze ambientali”. «Le teorie di Rogers costituirono la continuità e l’innovazione dell’opera dei pionieri del movimento Moderno, nella difesa della autonomia estetica del luogo, della cultura, della tradizione attraverso un uso critico della referenza storica. Rogers teorizzò il fare architettura collocando l’opera non sul luogo, ma nel luogo e dunque nella storia. [...] (nasce in lui negli anni 50 con la chiusura dei CIAM ) la consapevolezza del superamento del Movimento Moderno attraverso il recupero della tradizione in continuità con la storia»4. La Torre Velasca diventa così, allo stesso tempo, il manifesto costruito delle teorie rogersiane, nonché il grattacielo più discusso d’Europa. Sono rilevanti, all’interno del dibattito critico internazionale suscitato da quest’opera, due interventi, uno di Giuseppe Samonà, maestro del Novecento italiano e uno di Gerhard Kallmann, un talento emergente dell’architettura americana che rafforzano entrambi, seppure in termini differenti, l’idea originaria di Rogers, ovvero che: “il valore internazionale di questa architettura è di riassumere culturalmente l’atmosfera della città di Milano; l’ineffabile, eppure percepibile caratteristica”. Per Samonà: «La Torre cerca di fondersi per continuità materiale all’ambiente, si sforza di presentare il suo volume con la stessa solidità muraria delle case che costituiscono il tessuto prevalente della città, per cui essa veramente ci appare come l’esplosione di un magma compatto che improvvisa- mente in un punto abbia elevato con un getto verticale la materia di cui è composto. La singolarità è dunque soltanto nel fatto esplosivo, in cui una materia tutta coerente per ragioni interne si dilata senza alterare la compatta densità di se stessa. Tuttavia il senso di casa gigante doveva in qualche modo essere limitato nella torre, perché il suo volume non apparisse dissonante, nelle caratteristiche della forma, come quello dell’insieme di case che le stanno attorno e a cui esso vuole appartenere. Le nervature che gli architetti hanno posto in risalto, più che accentuare per un bisogno di ostentazione costruttiva l’intelaiatura portante della sua fabbrica, servono a correggere il senso troppo ostentato di casa gigante a cui la torre tendenzialmente aderisce. In questo modo le nervate costole che percorrono verticalmente la superficie delle quattro facciate, giustificano il residuo goticismo che in un certo senso le ha ispirate, e riportano, con la loro gigantesca mole, alla proporzione dell’intero corpo quella misura più modesta di vera e propria “casa”, che presenta la fabbrica, e che gli architetti hanno voluto conferirle per un’umana e quasi umile adesione alla potenza espressiva che appunto il senso di “casa” possiede, ripetuto un milione di volte nella città»5. Kallmann invece ne sottolinea sinteticamente le peculiarità: «La gigantesca forma a fungo della torre richiama le medioevali torri di difesa a caditoie. Ma la torre non ha una silhouette deliberatamente “storicistica”. Quanto più accuratamente la si analizza, tanto più evidente diviene la sua complessa dialettica: fra funzione e forma, costruzione e ornamento, nuova tecnologia e forme antiche»6. Negli stessi anni, esattamente nel 1957, Italo Gamberini, a Firenze, realizza un edificio per abitazioni e uffici, sull’angolo tra via L. Alamanni e via J. da Diacceto, con un impianto planimetrico a T che culmina, in corrispon- denza dell’intersezione a V delle due strade, con una torre, imparagonabile con quella Velasca per altezza, ma molto simile per concezione ideologica e ricerca formale. Singolare è il processo personale dell’architetto lungo il quale si pone quest’opera. Se i BBPR, infatti, giungono alla Torre Velasca come sintesi delle ormai maturate teorie di Rogers sulla storia e sulle preesistenze ambientali, Gamberini realizza quest’opera in una fase di passaggio di uno sviluppo invece che lo porta, dalle prime sperimentazioni più legate alle specificità locali, ad una serie di architetture innovative che, pur non tradendo lo spirito del luogo, si riallacciano maggiormente alle idee razionaliste di progresso. Come lo stesso Koenig ci fa notare, infatti: «Dopo il concorso per il ponte alla Vittoria, Italo Gamberini, oggi professore ordinario di Elementi di architettura e rilievo dei monumenti, ebbe varie occasioni di realizzare alcuni edifici fiorentini, che furono assai criticati, come quelli che fanno da spalla, oltr’Arno, al ponte Vecchio, ed altri nella zona di Por Santa Maria. Effettivamente non erano opere felici; ma bisogna dire che Gamberini, rifiutandosi di seguire la via neoclassica del secondo Michelucci (come Ricci e Savioli facevano in quel momento) cercava faticosamente da solo la propria strada. Alcune esperienze di quel periodo, dal 1948 al 1954 [...] apparvero così distanti dal gusto del moderno, razionale e neoclassico assieme, da suscitare l’ironia di molti colleghi. [...] Dopo varie altre esperienze volte ad approfondire, ma senza risultati felici, questa difficile opera di recupero dell’architettura toscana minore, Gamberini compiva nel 1955 un ennesimo passo controcorrente. Mentre a Milano si passava dal Palazzo Olivetti di Bernasconi alla Torre Velasca dei B.B.P.R., cioè si stava abbandonando la linea di condotta strettamente razionale alla ricerca di ciò che Gamberini cercava già da tempo, Gamberi65 ni si incrociava con loro percorrendo la strada inversa, tornando a quella matrice razionalista che aveva generato, a suo tempo, la stazione di Firenze»7. Ora, se la torre non si può certamente chiamare grattacielo, per giunta decapitata dalla Soprintendenza ai Monumenti di un paio di piani rispetto al progetto originario, rimane comunque chiaro l’intento di Gamberini di accentuarne le connotazioni formali e di renderla l’elemento fulcro della progettazione, contrapponendola alle due ali più basse, destinate alla residenza, che le fanno da fondale. «Il complesso è realizzato secondo un’articolazione stereometrica estremamente brillante, giocata sul raccordo dei tre volumi principali, la cui calibrazione altimetrica – dominata dallo svettante corpo a torre incernierato sullo snodo stradale – è sapientemente modulata proprio dalla configurazione ritmica dei prospetti: in essi la disposizione delle aperture, la loro delineazione formale e i rapporti sempre inediti che stabiliscono con le murature, giunge ad un grado di maestria e raffinatezza sintattica che conduce a definire – senza esitazioni – tale architettura un capolavoro»8. La torre, elemento predominante e distintivo dell’intero intervento è, come quella Velasca, caratterizzata da una definita nitidezza stereometrica e dalla massiccia massa muraria che la costituisce. Le aperture a fasce orizzontali, sfalsate per piani, ma rimarcate da una scansione che, prolungandosi oltre i limiti dell’infisso, ne accentuano la verticalità, sono planari e non interrompono la lettura volumetrica del corpo centrale della torre. Corpo centrale, reso ulteriormente massiccio dagli smussi a 45° degli spigoli, che si configura, parimenti alle torri medioevali, aggettante rispetto alla base, anche se in questo caso grazie ad uno strategico “strozzamento” del piano sottostante che ne rende la suggestione plastica, e si corona con un balcone-loggiato perimetrale, eredi66 tà delle antiche altane, che ne smaterializza il volume. Alla luce dell’analisi delle opere sopracitate, viste le varie analogie e le molteplici differenze, a quanti siano in cerca di una metodologia operativa, o di uno strumento di analisi, per gli interventi all’interno della città, all’interno della storia “costruita”, si insinua subito un dubbio profondo, e appare inevitabile e ineludibile una scelta di campo, uno schieramento, una presa di posizione unilaterale. Favorita anche dalla critica architettonica, la visione dicotomica dei modelli proposti, soprattutto nel binomio Grattacielo Pirelli - Torre Velasca, si risolve in un aut aut senza possibilità di conciliazione. “Continuità o crisi?” Così Rogers intitola, nel 1957, il suo editoriale sul numero 215 di Casabella-Continuità, dove già la scelta di posporre il termine Continuità, al titolo della rivista, appare come un ammiccamento, neppure troppo velato, alla risposta corretta da dare a quella che sembra, più che altro, una domanda retorica. Come già successo, per il dibattito seguito alle dirette problematiche della ricostruzione dei centri soggetti alle distruzioni belliche, nascono fin da subito due fazioni contrapposte, rissose, incompatibili, infantilmente barricate dietro “credenze” irremovibili e inconciliabili. In un recente saggio Franco Purini sottolinea questa, se vogliamo, “tradizione” dell’architettura italiana, già evidenziata anche da Pierluigi Nicolin e Fulvio Irace: «Nell’architettura italiana non c’è normalità, ma tutto è esasperato, complicato, difficile. Come ha recentemente ricordato Pierluigi Nicolin, ogni cosa è vista alla luce cruda ed eccessiva del conflitto, un conflitto tra persone, programmi e strategie. Si tende a considerare chi le pensa diversamente come un nemico e non come una persona che ha opinioni non coincidenti con le proprie. Si ragiona e si agisce per schieramenti che si fronteggiano duramente, in una condizione che vede il confronto culturale caricarsi di valori morali, con la conseguenza che chi milita in una certa area considera chi appartiene a un’altra il portatore di qualche oscuro interesse e non, molto più semplicemente, di concezioni alternative. Anche i programmi sono proiettati su uno schema antagonistico. [...] Milano contro Roma; gli urbanisti contro gli architetti; i tecnologi contro entrambi; gli architetti radicali contro tutti. La storia contro il presente. Il partito della Torre Velasca contro quello del Grattacielo Pirelli; le Palazzine contro il Corviale; “Domus” contro “Casabella”; “L’architettura. Cronache e storia” nemica di “Controspazio”; “L’Arca” agli antipodi di “Opcit”, “Lotus”, “Parametro”, “Abitare”, “Anfione e Zeto” e, in breve di ogni altra rivista che intenda affrontare problemi teorici e non solo produrre informazione. Gli organicisti contro i razionalisti [...]»9. La singolarità dell’architettura italiana in realtà sta proprio nella, spesso ignorata, conciliazione dei due estremi, ovvero nell’accettare che entrambi le risposte, allo stesso modo, anche se con declinazioni diverse, siano esatte. Esatte perché nate entrambe da una modernità reinventata, basate sostanzialmente sugli stessi principi di critica e di rifiuto della tabula rasa che le avanguardie facevano del passato, sul serrato dialogo con le preesistenze, che non esclude un rapporto dialettico, ragionato in modo non schematico, semplicistico, ma teso a cogliere e valorizzare le contraddizioni, i momenti di contrasto e di opposizione, arricchendosi dal confronto con ciò da cui il nuovo si differenzia. Appare quindi, ancora oggi valida l’indicazione di Walter Gropius che, dando un valore primario al metodo operativo, e non al linguaggio espressivo, prevede esisti formali anche molto diversi tra loro, ma egualmente corretti: “la pri- orità della ricerca metodologica è libera di dare esiti linguistici differenziati, rispetto alla staticità di uno specifico linguaggio architettonico”. Continuità, quindi, non come recupero del passato e istituzione di un linguaggio “storico” unificato, come invece è stato molte volte travisato l’insegnamento di Rogers, bensì come perpetrazione della tradizione e sviluppo del nuovo, in continuità con il processo storico. La storia è costituita da uno svolgimento continuo ed ininterrotto di processi che alterano continuamente la realtà e di cui anche l’uomo del presente, fa parte, ed è esso stesso causa ed effetto delle mutazioni continue che costituiscono quell’identità spazio-temporale, costante e immutabile, nel suo costante essere diversa da sé, in una ininterrotta autoridefinizione. In occasione del CIAM VI del 1947, focalizzato sulle ricostruzioni post-belliche, lo stesso Rogers, sottolineando l’interesse per la configurazione dello spazio urbano, non solo riguardo ai bisogni materiali, ma anche, e soprattutto, alle “attese emotive” dell’uomo contemporaneo, aveva affermato che “la storia deve servire a capire il presente attraverso gli esempi del passato. [...] La storia deve servire a capire i presente e ad essergli fedele esprimendolo con forme proprie. Nello stesso modo gli uomini del passato interpretavano la loro epoca con l’aiuto delle forme proprie ad esso” (dalla III commissione Riforma dell’insegnamento dell’architettura e dell’urbanistica presieduta da Ernesto Nathan Rogers). Sempre a tale proposito vale la pena ricordare quanto espresso nei punti stilati nel Congresso dei CIAM del 1933 e riproposti nella seconda edizione della Carta di Atene, pubblicata a cura di Le Corbusier nel 1957, riguardo al cruciale rapporto tra la città ereditata ed il nuovo, e alla delicata questione della tutela del patrimonio storico. 67 (punto 65) “La vita di una città è un avvenimento continuo che si svolge nei secoli con opere materiali, tracciati o costruzioni, che le conferiscono una propria personalità e da cui emana un po’ alla volta la sua anima. Si tratta di preziose testimonianze del passato che saranno rispettate innanzitutto per il valore storico e sentimentale, e poi perché in alcune si manifesta un valore plastico che esprime nel modo più intenso il genio dell’uomo. Esse fanno parte del patrimonio umano e coloro che ne sono i proprietari. o hanno il compito di difenderle, hanno la responsabilità e l’obbligo di far tutto il possibile per trasmettere intatta ai secoli futuri questa nobile eredità.” E si proseguiva sottolineando come il Movimento Moderno proibisse di “impiegare con pretesti estetici stili del passato nelle nuove costruzioni innalzate nelle zone storiche. [...] I capolavori del passato ci mostrano come ogni generazione abbia avuto la sua maniera di pensare, le sue concezioni, la sua estetica, richiamandosi, come stimolo alla propria fantasia, all’insieme di risorse tecniche della propria epoca. Copiare servilmente il passato è votarsi alla menzogna, significa elevare il “falso” a principio, poiché non si potrebbe ripristinare le antiche condizioni di lavoro, e applicando la tecnica moderna a un ideale superato, non si potrà giungere ad altro che ad una finzione spoglia di ogni vitalità.” La destinazione d’uso risponde alle esigenze del modello di vita contemporaneo, più e meglio di quanto possa influire l’aspetto formale conferitogli dall’architetto: in questo consiste la continuità dell’architettura contemporanea con i maestri del Movimento Moderno. Il superamento di tale concezione, comunque non in rottura con quanto detto, sta nell’affermare che il valore simbolico dell’opera architettonica travalica il mero linguaggio espressivo della stessa, perché espressione 68 delle aspirazioni e delle condizioni materiali e morali di un’epoca, di una società, di una città. Pertanto la Torre Velasca e il grattacielo Pirelli non costituiscono due poli opposti, due realtà antitetiche, bensì incarnano alla perfezione entrambi il clima di una città operosa, orgogliosamente capitale economica del paese, entusiasta e desiderosa di identificarsi in nuovi e più aggiornati immaginari, inebriata dal sogno metropolitano, dallo sviluppo e dall’ostentazione tecnologica, ma anche sedotta dalla magia dell’arte contemporanea e del design. Quale migliore simbolo quindi, del grattacielo, per identificare in modo esemplare la tensione verso il cielo, il prometeico sforzo per annullare i vincoli imposti dalla forza di gravità, la grandiosità costruttiva propria dell’homo faber del XX secolo? Entrambi generati dalla stessa critica al Movimento Moderno, legati dall’attenzione, quasi maniacale, per il disegno, armonico, frutto di una tradizione secolare, che si fa naturalmente forma. Entrambi concepiti interiorizzando la città esistente e trascendendola in nuove immagini, dove l’ispirazione metafisica si traduce in concretezza urbana, densa di risonanze mitiche, accesa dalle misteriose valenze della memoria, nonché da quelle della prefigurazione future, e attraversata soprattutto da una comprensione profonda dell’essenza collettiva della città. Per questi stessi motivi le torri fiorentine non potranno alzarsi più di quella gamberiniana (o poco più), e il grattacielo del Poggi non verrà mai costruito. La città rigetta il grattacielo, non semplicisticamente perché sarebbe “un pugno in un occhio”, bensì perché non ci si identifica. Sia che sia legato più propriamente al contesto che lo circonda, sia che sia di lucido e brillante acciaio, Firenze non sarà mai in grado di accogliere un grattacielo nel suo centro. Perché le volontà collettive, sociali, economiche, sono totalmen- te diverse da quelle milanesi: non esiste il desiderio di creare un’immagine contemporanea della città. Firenze si riconosce città d’arte e di cultura (classica e non moderna), finita e conclusa, serrata nella sua introspettica chiusura, che mal sopporta singolari acuti o voli pindarici che accentuino caratteri legati al progresso o che guardino ad un futuro immaginifico troppo distante dal proprio presente/passato. Due identità, quella di Milano e quella di Firenze, diverse, che si esprimono attraverso simboli, e che si costituiscono quindi attraverso architetture costruite, diverse. Ma non è il linguaggio a definire queste differenze: linguaggi diversi possono rappresentare ugualmente, seppure espressivamente in modo diverso, la stessa identità. Concludo questo lungo paragrafo con la sintetica definizione di identità che Franco Purini ci offre nel suo La misura italiana dell’architettura: «L’identità non è eterna e non è sempre la stessa. Anzi, è sempre la stessa in quanto si modifica continuamente, definendosi non in quanto conforme di sé ma come relazione dialettica con l’altro e con l’altrove. In altre parole, l’identità è un progetto. Ciò significa che l’architettura italiana deve misurarsi con tutte le altre culture, anche le più lontane, ma contestualmente al sottoporre ciò che introduce nel proprio tessuto a un rituale di appartenenza che faccia sì che ciò che è esterno diventi, alla fine di un laborioso e inevitabile processo di elaborazione, necessario e interno. Tale processo passa per tre momenti: il riconoscimento delle invarianti, la loro accettazione, la creazione di un plusvalore differenziale rispetto a ciò che è precedente. Si tratta di un lavoro difficile, non lineare ma tortuoso, tra l’altro non sempre premessa di un risultato apprezzabile, un lavoro per parecchi motivi dotato di zone oscure, ma nonostante tutto assoluta- mente inevitabile. Senza di esso le opere prodotte non riuscirebbero ad essere attribuite ad un luogo, né ad una situazione. in poche parole non avrebbero consistenza. Interiormente sradicate si aggiungerebbero al novero delle architetture magari ben costruite – e non sono poche – ma che in fondo non valeva la pena di costruire »10. L’immagine di apertura – BBPR, Torre Velasca, Milano, 1951-58, veduta del 2012 – e i relativi diritti, sono di proprietà dell’autore. 69 Analogie e differenze della vicenda fiorentina con quella del professionismo colto milanese Firenze e Milano escono entrambe drammaticamente mutilate dalla seconda guerra mondiale: minata nel suo cuore pulsante la prima, bombardata a tappeto la seconda. Come abbiamo visto precedentemente, entrambe si trovano di fronte alle problematiche legate alla ricostruzione e soprattutto alla ricucitura di quei tessuti, adesso disgregati, del centro storico distrutto a brani. Ma Milano, rispetto a Firenze, affronta il problema in modo sostanzialmente diverso: la tragedia dei disastri della guerra viene vista come una nuova, seppure dolorosa, risorsa, un’occasione di “catarsi”, un momento di rigenerazione, caratterizzata dall’ormai tradizionale apertura della città verso il nuovo. «La parte più viva della cultura milanese non aspettò in silenzio che si rimettessero in moto gli ingranaggi della macchina sociale e politica per rivendicare la centralità del proprio ruolo. Richiamò dunque un’ideale continuità con l’esperienza “interrotta” del razionalismo quale era stato propugnato da Giuseppe Pagano, proponendosi come punta operativa della futura classe dirigente: di conseguenza, imboccò la strada dell’impegno diretto, partecipando in prima persona all’attività politica e amministrativa, organizzandosi con propri strumenti associativi – il Movimento di studi per l’architettura (Msa) nel 1945 –; elaborando proposte – il piano AR del 1944 –; stimolando il rinascere dell’iniziativa promozionale nel vitale campo della comunicazione e della formazione del dibattito architettonico»1. Come per Firenze – sebbene anche a Milano gran parte dell’impegno economico, politico, urbanistico e disciplinare della classe progettuale, si concentri sulla nuova edificazione di quartieri satelliti di espansione – è interessante focalizzarsi sui singoli episodi, comunque caratterizzati del tema dell’abitazione, che rappresentano invece la rigenerazione puntuale di parti di tessuto storico andate distrutte, o comunque edifici realizzati in aree di saturazione, a stretto contatto con la trama consolidata della città. Si nota subito, mettendo in parallelo le due situazioni coeve, come sia presente, a Milano, una produzione vastissima di edifici, prodotti da una professionalità colta e attenta, la qualità dei quali è diffusamente alta. Si assiste cioè ad una predominanza del livello di costruzione medio-alto, rispetto al possibile “assolo”, che invece caratterizza l’eccellenza della produzione fiorentina, “incastonata”, al contrario, in un panorama costruttivo generale che tende invece ad appiattirsi verso standard qualitativi mediamente inferiori a quelli milanesi. I nuovi interventi a Milano, salvo poche eccezioni, rappresentano posizioni culturali, programmatiche e formali piuttosto allineate, tendenti ad uniformarsi, sebbene con personali caratteri di moderato eclettismo, nel nome del corretto costruire, nel superamento dialettico del “razionalismo”, piuttosto che privilegiare la via plastica del gesto poetico unico e irripetibile. Senza clamore, tacitamente, ma allo stesso tempo pervicacemente, la via della qualità è ricercata in «variazioni basate sull’esaltazione della materia, sulla cordialità e l’indeterminazione delle forme, su un’empiria assunta come metafora di una condizione artigianale che costringe a produrre opere uniche dissimulate sotto una patina di modestia»2. A testimonianza di questa grande produzione, ad elevato tasso qualitativo, dal 1954 al 1959 vengono pubblicate, dall’editoria più alta e specializzata, numerose raccolte di architetture realizzate nella nuova città, tra le quali: Edifici Moderni in Milano (1954) di Piero Bottoni, Milano Oggi (1957) di Gio Ponti, Nuove architetture a Milano (1959) di Roberto Aloi. Il tema condominiale ne è protagonista indiscusso; campo di sperimentazioni e confronti, la residenza borghese rappresenta infatti 71 una «sfida progettuale in linea con una modernità che deriva naturalmente, oltre che dalle più recenti espressioni compositive, architettoniche e artistiche, anche, e soprattutto, dalle nuove potenzialità strutturali e dalle disponibilità di materiali sempre diversi su cui fare ulteriori ricerche. [...] L’attenzione alla struttura, alla flessibilità, all’industrializzazione e alla prefabbricazione, accompagnata dalle suggestioni derivanti dai movimenti artistici di quegli anni, dall’astrattismo all’informale, si esprimono in una serie di esperienze assolutamente innovative»3. Se la specificità per eccellenza, caratteristica dell’architettura fiorentina, è la murarietà – la massiccia massa muraria in cui è manifesta la prevalenza dei pieni sui vuoti – entro la quale scompaiono le strutture portanti, siano anch’esse costituite dal semplice telaio in cemento armato, per gli episodi milanesi, invece l’orditura portante costituita dal reticolo di pilastri e travi, siano essi in cemento, o in acciaio, diventano uno spartito su cui comporre le geometrie dei fronti, una griglia da seguire, violare, accentuare, oppure negare, a seconda dell’effetto che si vuole ottenere o della funzione – tra le diverse ospitate all’interno dell’involucro edilizio – che si deve sottolineare. Diretta conseguenza di questa tendenza compositiva, è un atteggiamento completamente diverso da quello fiorentino, rispetto alle aperture, non intese come “bucature” – sfondamenti della densità muraria – bensì come superfici complanari con la facciata stessa. «Una volta il rapporto di spazio tra muro e finestra si definiva “vuoto e pieno”: pieno perché il muro era un solido, vuoto perché le finestre erano un buco... Oggi il muro non è più un vero muro, un solido, un pieno: è una superficie, è un rivestimento sopra uno scheletro di cemento armato, o di ferro, (un vuoto): la finestra oggi si è portata avanti sul filo esterno, non è più fonda, e si è fatta gran72 de, prevalente... Con la finestra a filo (che riflette il cielo, e il correre delle nubi e il giro del sole) il buco, il vuoto, è scomparso, esiste un piano solo e solo il pieno, l’architettura è solo pieno, volume integrale: e l’architettura è un cristallo, qua opaco e là trasparente. Il volume non è più forato. Al rapporto vuoto e pieno è sostituito il rapporto opaco e trasparente. (E, contro il cielo, opaco e riflettente: i vetri a filo riflettono il cielo. Incielano l’Architettura)... Quando la nostra architettura si riduce, forzatamente, alle facciate, non architettiamo, impaginiamo le finestre nella facciata: facciamo dei Mondrian con i cristalli»4. Così Gio Ponti esplicita la tensione progettuale – eredità di quella cultura razionalista che ancora si respira nel capoluogo lombardo, grazie alle lezioni immortali di Pagano di Terragni, di Lingeri, di Figini e Pollini – verso un’architettura basata sul primato compositivo delle superfici e non dei volumi. Ne è esemplare l’edificio per appartamenti e uffici in via Turati di Vito e Gustavo Latis. La scansione ritmica dei pilastri in cemento armato, rivestiti e impreziositi su due lati da lastre di marmo, segna il piano terra in corrispondenza del grande svuotamento centrale, che rende permeabile il corpo di fabbrica e raggiungibile il giardino interno, si raddoppia verso la strada con una serie di pilastri in acciaio che sostengono la lunga pensilina che sottolinea tutto lo sviluppo dell’edificio e, al di sotto della quale, sono ospitati le attività commerciali, si mostra, svuotata, nella sua completezza, nel primo piano degli uffici, al di sopra dell’innesto della pensilina con il volume principale, per poi scomparire sotto il cangiante rivestimento in tesserine di grès ceramico verde acqua – oggi sostituite da una finitura a intonaco della stessa tonalità – delle facciate che corrispondono alle abitazioni. Le finestre sono planari con la superficie esterna della parete, i vuoti, in ombra come la sola par- te sottesa alla profonda pensilina, coincidono esclusivamente con i tagli delle logge di servizio in cui si rilegge, portate alla luce, la struttura dei solai. Soltanto sul retro assistiamo ad una eccezione alla rigorosa impostazione, dallo spiccato gusto metropolitano, del fronte su via Turati. Infatti sul lato prospiciente il giardino interno, e sul quale si affacciano tutti gli ambienti di soggiorno delle abitazioni – mentre tutti gli ambienti di servizio sono dislocati sul lato della trafficata strada – si aprono delle logge asimmetriche, dalle quali sbalzano dei balconi nuovamente paralleli al fronte, che sfaccettano, inaspettatamente, il prospetto interno, rompendo la stereometria del volume e aprendolo verso il verde del giardino. Se nella Casa del Cedro di Giulio Minoletti il reticolo strutturale si legge chiaramente nel sistema ritmico delle ampie aperture centrali – affiancate lateralmente da finestrature di dimensioni ridotte – della facciata asimmetrica, completamente rivestita in marmo di Candoglia, del blocco residenziale, nel condominio in via Legnano di Luigi Ghò, i pilastri portati in facciata al piano terra, dopo aver slanciato il volume, per l’altezza del basamento su due livelli – destinato a negozi e uffici – annegano nella superficie, completamente rivestita di piastrelle verdi, della facciata. Sulla facciata, leggermente incisi nel rivestimento murario, si aprono due ordini di finestrature, differenziati per dimensioni delle aperture e scansione ritmica, che ricostituiscono la tripartizione “classica” – basamento, corpo, coronamento – assieme al piano attico arretrato, completamente vetrato. Anche nel complesso polifunzionale di via San Marco di Vico Magistretti, orientato verso il recupero e la reinterpretazione dei caratteri della tradizione, non si perde occasione, attraverso l’apertura di profonde logge e lo svuotamento, in corrispondenza degli ultimi due piani, degli angoli, di de- nunciare il telaio strutturale in cemento armato, sottolineando l’incrocio di travi e pilastri che spiccano, rivestiti in lastre di pietra, sul fondo color rosso dell’intonaco che riveste l’intero edificio. Si assiste così ad un singolare e provocatorio accostamento di elementi formali che oscillano, una volta verso la tradizione, e una volta verso modernità – la copertura aggettante a falde e gronda costante, l’orditura strutturale portata parzialmente a vista, l’intonaco rosso a richiamare, assieme alle accentuazioni in pietra, le cromie dell’antistante chiesa di San Marco, le stette bifore, il piano terra libero punteggiato dai pilastri, le bucature profonde delle aperture e delle logge, il giardino pensile come elemento di connessione sopraelevato, raggiungibile con una scala mobile esterna – che testimoniano un atteggiamento disinibito e scevro di sovrastrutture ideologiche, comune ad una generazione di professionisti la cui adesione «al linguaggio moderno era avvenuta senza drammi, come scelta soprattutto tecnica e professionale, al di fuori di quella identificazione fra “etica” ed “estetica”, ingenua ma sofferta, che aveva segnato la generazione precedente»5. E’ interessante notare come anche l’edificio di viale Mazzini di Tincolini e Del Bino, il condominio più “meneghino” di Firenze, per una certa attinenza a quanto finora evidenziato nelle coeve costruzioni milanesi, non rinunci di caricarsi di quelle caratterizzazioni locali quali il basamento in pietra con un bugnato appena accennato, la copertura – seppure piana – aggettante verso la strada, la frammentazione delle ampie vetrate – definite dalla semplice maglia strutturale portata in avanti rispetto al filo del basamento – in finestrature minute, fortemente segnate dal disegno degli infissi in legno, ma soprattutto all’articolazione plastica che frammenta, con uno sporto asimmetrico, l’unitarietà planare della superficie, andando a ricreare 73 quel gioco di assemblaggi precedentemente descritto. Nelle architetture milanesi la stereometrie dei volumi vengono invece, nella maggior parte dei casi, mantenute intatte, linde, evitando frammentazioni, slittamenti di piani e aggregazioni di volumi successivi, e si tende ad accentuare piuttosto la canonica tripartizione verticale, avanzando i corpi centrali, svuotandone quelli intermedi di passaggio, sospendendo le coperture a sbalzo, ma sempre giocando sull’intera larghezza della facciata, coinvolgendo l’intera superficie, senza scarti verticali a ridurne l’estensione. Volumi caratterizzati da geometrie rigorose e cromie scure, eredità della severità dei monumenti cittadini, tradizionalmente contraddistinti dall’uso del Ceppo di Grè, e del mattone. Caso esemplare: casa Caccia Dominioni in piazza Sant’Amborgio. L’architetto, ricostruendo il palazzo di famiglia, duramente colpito dai bombardamenti dell’agosto 1943, disegna un prospetto principale, che fronteggia direttamente la basilica di Sant’Ambrogio, delimitato da due logge – sorrette da esili colonne – che corrono per l’intera lunghezza del fronte sospendendo, letteralmente, il corpo centrale dell’edificio e permettendone una scansione delle aperture con un ritmo completamente diverso da quello del resto dell’edificio. Il prospetto laterale, su via S. Vittore, nella sua semplicità e unitarietà di rivestimento, altro non è che un semplice elemento di chiusura allo sviluppo longitudinale dell’edificio che avrebbe potuto allungarsi, con dinamiche inalterate, all’infinito. Con discrezione e misura, con continui richiami cromatici alla vicina basilica romanica, con riferimenti linguistici alla tradizione lombarda e milanese, Caccia Dominioni compie una delicata operazione di “tassello” tesa al superamento del modello razionalista anticipando, di alcuni anni, i temi cari alla teoria delle preesistenze ambientali di Rogers. Allo stesso 74 modo, Michelucci, nell’edificio per abitazioni e negozi INA in via Guicciardini a Firenze, articola la composizione del fronte principale nei tre registri canonici del “palazzo”, in contrapposizione al risvolto frontale su via dello Sprone, interamente rivestito da lastre di pietra. Ma l’impostazione tripartita – basamento, corpo, coronamento – è strumento di composizione anche per opere decisamente di impostazione più sperimentale e legate alla prefabbricazione, alla modularità, all’assemblaggio per parti, come il condominio in piazza della Repubblica dei fratelli Latis. La ricerca sulla struttura, sulla flessibilità e sulla industrializzazione, nonché le suggestioni dei prolifici movimenti artistici del momento – dall’astrattismo all’informale – si materializzano in quella che si può definire, a ragione, una icona della ricostruzione a Milano. Organizzato su una struttura in cemento armato, lasciata in parte a vista nel basamento costituito dagli uffici, sospesi dai pilastri del piano terra e da quelli che sostengono il corpo superiore, e avvolti in un rivestimento in grès bruno fiammato che li avvolge, l’edificio si caratterizza dall’aggetto del reticolo metallico dei piani destinati alle abitazioni, entro cui si imposta la libera disposizione dei bow-window, e si conclude con un terrazzo continuo e una soletta sospesa di coronamento. I bow-window costituiscono, allo stesso momento, un elemento di personalizzazione degli alloggi ma anche un espediente per dinamizzare il disegno della facciata e rappresentano, assieme alle molteplici scelte cromatiche del prospetto – e alle loro valenze espressive – un’aggiornata riflessione sull’astrattismo figurativo e una evidente volontà di superamento del bianco razionalista. Se esperienze similari non si riscontrano a Firenze, se non in rarissimi casi, come quello di via Guerrazzi di Pierluigi Spadolini che, su di una struttura tradizionale in cemento armato, lavora applicando in facciata pannelli composti da listelli ondulati di graniglia di pietra forte, impastata con resine trasparenti, che definiscono, con la loro presenza, o meno, i pieni e i vuoti, secondo una scansione ritmica pressoché casuale, accentuata dai leggeri sfalsamenti dei piani, è facile invece a Milano trovare molti altri esempi, primo tra i quali il condominio in via Quadronno di Mangiarotti e Morassutti. Impostato su di un impianto tipologico a torre, e planimetricamente piuttosto movimentato e sagomato, si fonda su un principio molto semplice, ma perfettamente flessibile, di soluzioni modulari per le tamponature esterne. La struttura dei pilastri infatti, arretrata rispetto al filo esterno, permette, assieme al posizionamento del vano scale al centro dell’edificio, una libera disposizione delle divisioni interne, nonché dell’involucro esterno che può essere caratterizzato, in modo completamente indipendente da piano a piano, da appartamento ad appartamento, avvicendando, a completo piacere, pannelli ciechi in legno, serramenti o loggiati metallici. La modularità esatta, basata su dimensioni piuttosto ridotte, degli elementi, i continui riferimenti cromatici e materici, e l’essenza rampicante presente lungo il perimetro di ogni piano fa sì che, nonostante la potenziale completa imprevedibilità dei prospetti, l’edificio sia caratterizzato da una chiara e raffinata composizione. Alla base di tutte queste sperimentazioni sull’ambiente flessibile e sulla personalizzazione dello spazio, le ricerche di Ponti sul delicato, e a lui molto caro, tema dell’abitare. «Gio Ponti è il protagonista di un rinnovamento moderato ma progressivo, che passa attraverso la definizione della “casa all’italiana” espressa per la prima volta nella serie di “case tipiche” in via De Togni e che culmina nella “facciata espressiva” della casa manifesto in via Dezza»6. Il condominio di via Dezza riassume in- fatti, soprattutto nella propria residenza privata dell’ultimo piano, tutti i principi sviluppati negli anni da Ponti e presentati, in versione dimostrativa, nell’alloggio “uniambientale” alla X Triennale di Milano del 1954. La facciata di ogni singolo appartamento può essere scelta accostando liberamente soluzioni scelte da un “abaco”, messo a disposizione dell’architetto, in una maglia strutturale che diventa l’unico elemento fisso e ordinatore. Il risultato finale è una sovrapposizione di cellule diverse, separate da un balcone continuo – il cui parapetto poteva essere comunque personalizzato liberamente, alternando le opzioni da “catalogo” – caratterizzate da cromie, ritmi, disposizioni e tipologia delle aperture, completamente indipendenti l’uno dall’altro, in dipendenza delle scelte degli inquilini, e in omaggio alla vitalità caratteristica, secondo Ponti, della “casa all’italiana”. Il piano attico – casa Ponti – è costituito da un unico ambiente continuo, affacciato sul fronte, che è possibile dividere a piacimento, da pareti a soffietto a scomparsa. Pavimentato con piastrelle ceramiche che formano un disegno a strisce diagonali, il grande volume “uniambientale” accoglie il campionario di tutte le invenzioni d’arredo dell’architetto – la “finestra arredata”, i mobili “auto-illuminati”, le “pareti organizzate” – in grado di sfruttare le pareti e le vetrate come enormi arredi fissi, capaci, autonomamente, di accendersi di luce propria, liberando tutto lo spazio per alloggiare i pochi restanti arredi mobili essenziali. Attenzione, tutta milanese, questa, rivolta verso la cura del dettaglio di interni, che sancisce non solo il felice sposalizio tra disegno industriale e architettura, ma anche tra arte e architettura, che entra, non solo – come precedentemente accennato – come eco figurativo o matrice programmatica, ma proprio come componente stessa del disegno, soprattutto, degli interni. Ed è proprio negli 75 atri condominiali di ingresso, ambiente interno pubblico, biglietto da visita per eccellenza e simbolo della qualità dell’intero stabile, che si assiste, oltre che ad una approfondita cura delle scelte materiche e formali degli elementi costituenti – la pavimentazione e le pareti dell’ingresso, la scala e il suo corrimano, il casellario delle cassette della posta, lo spazio del portiere, l’accesso all’ascensore – a realizzazioni di vere e proprie opere d’arte, pittoriche o scultoree, simbolo dello stretto legame, voluto e ricercato, venutosi a creare tra architetto e artista, come nei casi di Minoletti con Antonia Tommasini, Caccia Dominioni con Francesco Somaini, o dei Latis con Roberto Sambonet e Lucio Fontana. Ricchezze e attenzioni meticolose che invece non si ritrovano negli atri fiorentini, trattati generalmente in modo piuttosto semplice e sobrio – seppure sempre sapientemente condotti dal punto di vista formale e spaziale – con concessioni che arrivano, al massimo, ad una casta boiserie in legno a tutt’altezza, al proseguimento del rivestimento esterno in pietra, su una delle pareti interne dell’ingresso, al trattamento plastico del soffitto, con sistema integrato di illuminazione, in gesso o legno. Modularità, flessibilità interna degli spazi, libertà aggregativa dei fronti, non rientrano, in linea di massima, tra le linee di ricerca dell’area fiorentina. Pochi gli esempi che mettono in atto questi nuovi principi, tra questi gli appartamenti in viale Mazzini di Jodice che prevedono, almeno sulla carta, l’unitarietà degli spazi interni, in prossimità delle numerose aperture del fronte, con setti appena accennati e pareti a soffietto – o tende – a frazionare, eventualmente l’unico ambiente in più stanze. Molto più frequentemente si assiste ad una cura estrema degli interni, generosamente definiti da elementi plastici formalmente e simbolicamente significativi, quali il camino, posto al centro dello spazio princi76 pale, elemento fisso e inamovibile ma in grado di gerarchizzare gli spazi che gli ruotano intorno e suggerire utilizzi diversi per le diverse zone, come nel caso dell’edificio di via Guerrazzi di Spinelli o quello di via Piagentina di Savioli, dove l’elemento camino diviene pretesto per creare un’articolazione complessa e articolata, sia dello spazio, che dei volumi stessi che lo compongono, oppure come nella soluzione proposta da Bega per viale Gramsci dove, mentre le camere sono serrate dietro una massiccia e protettiva cortina lapidea, la zona giorno è liberamente articolata, illuminata da una serie ininterrotta di ampie vetrate, intorno al camino, con la possibilità di operare, con pareti scorrevoli, eventuali provvisori frazionamenti. Metodologie progettuali che non demandano ad una completa flessibilità spaziale data dal libero disporsi delle pareti interne e dall’eventuale fruibilità dell’intero volume vuoto – la possibilità di personalizzare liberamente, assecondando bisogni e necessità diverse, l’ambiente, bensì creando un nucleo centrale fisso che, con la sua posizione – molto spesso asimmetrica per generare spazi residui differenziati – la sua articolazione e le sue interazioni con gli altri elementi architettonici, le sue caratteristiche materiche e formali, genera, intorno a sé, spazi fortemente segnati e caratterizzati, che stimolano risposte originali e nuove alle esigenze dell’abitare. Atteggiamenti che trovano la loro espressione manifesta nel modulo prefabbricato presentato da Savioli per la mostra, “La casa abitata”, allestita a Palazzo Strozzi nel 1965, e che risentono, più che delle sperimentazioni pontiane, delle teorie e delle opere di Frank Lloyd Wright esposte – sempre presso Palazzo Strozzi – nella mostra del 1951 a lui dedicata, e che tanto influenzeranno molti progettisti, a volte in modo sottile, nel particolare, suggerendo, per esempio, la soluzioni delle cartelle arretrate delle finestre alte, che incidono superiormente tutto il fronte interno degli appartamenti in San Frediano di Gizdulich, a volte in modo più eclatante, nell’impostazione di base, ispirando una serie di piani sfalsati indipendenti e aggettanti che si allargano, sporgendo, in ogni direzione, diventando il tema conduttore del progetto di piazza Conti di Ugo Saccardi, omaggio urbano alla famosa casa Kaufmann. Due casi a parte, nel quadro generale della vicenda abitativa milanese, sono costituiti dalle opere mature di Mario Asnago e Claudio Vender per un verso, e da quelle di Luigi Moretti, per un altro. Nel condominio XXI Aprile, in via Lanzone, Asnago e Vender danno prova di un linguaggio che, superate le matrici razionaliste sulle quali si erano formati, sfocia in una sorta di – usando le parole di Fulvio Irace – “iperrazionalismo aniconico”. L’edificio sorge in una delle zone più antiche del centro storico di Milano e va a occupare l’area della distrutta Casa dei Panigarola (conosciuta per gli affreschi del Bramante, oggi conservati alla Pinacoteca di Brera), in diretta adiacenza al cinquecentesco palazzo Visconti (poi Abbiate). La delicata operazione di ricucitura del tessuto urbano viene affrontata con estrema disinvoltura, senza venire a compromessi, né trasgredendo la poetica espressiva propria degli autori: la libertà geometrica nei prospetti, la sintassi dello “scarto” applicata su volumi stereometrici anodini, le sofisticate alterazioni dimensionali delle finestre e dei loro ritmi, il rigoroso controllo del disegno espressivo. La quinta prospettica viene ricostituita con la semplice interposizione di un volume nitido, di pochi piani, destinato ad uffici, che si accosta, eguagliandone l’altezza, al palazzo Visconti – risparmiato dai bombardamenti – mentre il corpo principale delle abitazioni si eleva, in altezza, perpendicolarmente alla strada, secondo un impianto planimetrico a T. «La contiguità, ed eventuale continuità, di un tessuto storico è sentita come una pura condizione materiale, fenomenica, più che come un dovere di imitazione linguistica. [...] Asnago e Vender non sembrano toccati da alcun desiderio di rapporto mimetico con le preesistenze di diretta assonanza figurativa. [...] Così l’impaginazione a bandiera di finestre di calibro diverso sancisce al contempo la diversità dell’ipotesi neoclassica e la costante sottile presenza di una regola, poi contraddetta “a senso” dove necessario. Nella città, l’effetto finale di queste calcolate alterazioni non viene percepito tanto come scardinamento di un ordine formale, quanto sinteticamente come una forte impressione di “naturalezza”. Gli edifici di Asnago e Vender riescono sempre ad evitare il carattere meccanico e ripetitivo della composizione razionalista, effetto collaterale del puro impilamento di cellule tipo. Pur nella loro spiccata alterità formale, essi appaiono spesso insolitamente continui agli edifici della città preottocentesca, quasi la loro sintassi libera generasse quella sorta di patina delle cose “trovate” piuttosto che “fatte”»7. Negli stessi anni, un piano particolareggiato per la ricostruzione della zona adiacente a Corso Italia, in pieno centro storico, propone un nuovo modello urbano, impostato su alti blocchi edilizi e composto da aree funzionali diversificate. E’ nella progettazione di questo complesso polifunzionale che Moretti regala a Milano uno degli episodi plastici più potenti e significativi dell’architettura italiana di quegli anni. «Circondato dal gelo di un significativo silenzio, Luigi Moretti toccherà i vertici di un sofisticato, sapiente espressionismo astratto, pronto a sconfinare, in occasione di più impegnativi programmi edilizi [si parla proprio del complesso di Corso Italia], in una surreale contestazione dell’ibrido understatement lombardo»8. L’intero complesso è trattato con estrema unitarietà, sebbene ogni singola unità 77 sia ben definita attraverso una netta caratterizzazione di forma, altezza, orientamento e differenti soluzioni di facciata. Ma è intorno al blocco destinato agli uffici che, in realtà, si svolge l’intero sistema: la chiglia massiccia e aguzza di un transatlantico, precipitato chissà da dove, e la cui caduta si è arrestata sul blocco edilizio orizzontale sottostante, deformandolo, rimasta pericolosamente sospesa e incombente sulla strada. “Ah, stu naufragio dint’a Melano senza na varca e pure senza o’mare” canta Paolo Conte, trasformando in poesia le difficoltà di un’amara integrazione difficile da perseguirsi e da realizzarsi. E come un enorme vascello incagliato lontano dal mare, o come un naufrago senza una nave, che mal sopporta il lido in cui ha dovuto far approdo, il progetto di Moretti dimostra una volontà di affermazione del gesto impertinente e disinibito, che ha fatto tendere la critica a rilevare in questo, ma più in generale in quasi tutti i suoi interventi, il carattere di «apparizione», di fatto staccato dal tessuto urbano, di oggetto anti urbanistico, impegnato a dimostrare il compiacimento nel respingere la consuetudine del discorso della città, nel negare ogni possibile relazione con gli altri linguaggi. Il carattere iconico dell’edificio, la sua qualità simbolica, l’espressività della sua forma – impostata su di un impianto planimetrico rigoroso – prevalgono rispetto agli aspetti tecnologici e funzionali, nonché a quelli ambientali e di integrazione, rispetto al tessuto storico all’interno del quale viene concepito. In sintesi, se in generale, a Milano, la progettazione – fatta eccezione quella che demanda ad una aggregazione casuale degli spazi e dei suoi involucri, comunque sempre all’interno di una stretta maglia ordinatrice che tiene unita l’intera composizione – si basa su di una ricerca formale aprioristica, che si impone sulla composizione progressiva per parti, tesa costantemente al 78 raggiungimento di una forma predefinita, tramite il rigido controllo geometrico, le sue regole, ma anche le sue leggere, calcolate e, sapientemente dosate, eccezioni, a Firenze prevale il metodo di scomposizione e di riassemblaggio della parti costituenti il manufatto architettonico, il generare i volumi, le forme, dal sommarsi degli spazi, dal loro susseguirsi in pianta, o dal loro sovrapporsi in sezione. Processo che prende vita dalle ricerche di natura semiologica di Gamberini che paragona l’architettura ad un articolato linguaggio composto da segni – elementi architettonici con caratteristiche formali, espressive, aggregative e simboliche proprie – e regolato da codici “grammaticali” e “sintattici”. Questo modello semiotico-strutturale consente di generare, senza un’immagine prestabilita da raggiungere, un’architettura compiuta, in cui l’equilibrio compositivo non è dettato dalla geometria, bensì dal controllo formale, inteso come padronanza grammaticale degli elementi e capacità sintattica di relazione tra gli stessi. Si assiste così alla genesi di una architettura non fatta di volumi – ovvero chiusa in essi – ma generata dall’aggregazione di volumi, di forme, o meglio, di spazi. Viene compiuto, in questo senso, uno scarto mentale per cui in primo piano si pone la vita dell’uomo – con le sue dinamiche, le sue problematiche, ma anche le sue esigenze – che non può essere “inscatolata” in forme pre-assegnate, bensì deve essere la vita stessa a modellare gli spazi, a configurarli rispetto alle proprie necessità, a sagomarle a propria immagine e somiglianza. Lezione, questa, che Michelucci ci lascia come eredità profonda, ancora oggi attuale e, senza dubbio, ancora valida, se si pensa al ritorno di un formalismo espressivo privo di umanità, esaltato dall’utilizzo della modellazione al computer e dei render, equivalenti moderni di quelle prospettive che Michelucci professore proprio non amava avere tra le mani, nell’analizzare il progetto di uno studente. Lezione che ricordiamo attraverso le parole affettuose di Koenig concludendo, in modo comunque caustico, da buoni fiorentini quali siamo: «Durante i suoi anni di insegnamento non l’ho visto guardare che piante e sezioni. Il resto non lo interessava, e se un allievo gli portava una prospettiva, come suol dirsi, “arruffianata”, Michelucci perdeva la calma, le sue labbra diventavano una riga sottile e immobile, e non aveva pace fin che non vedeva sparire la prospettiva dal tavolo. [...] Egli “leggeva” le piante e le sezioni come matrici di un organismo, come generatrici di spazi, come cavità suscitatrici di sensazioni, di comportamenti; sempre iniziando la lettura, quindi, dall’interno, cioè dalla funzione che diveniva spazio e, solo in ultima ipotesi, forma. [...] Con questo non si nega affatto che vi possano essere varie strade per arrivare all’architettura, perché quando un architetto è bravo, abile e paziente può permettersi di progettare come Adolfo Coppedé, il quale cominciava a disegnare dal parafulmine, e scendeva senza ripensamenti fino alla linea di terra. La pianta veniva dopo, come fatto secondario; Sua Eccellenza Brasini, poi, disegnata una facciata, diceva: “Ora chiamo un cretino di ingegnere a far la pianta...”»9. L’immagine di apertura – Mangiarotti e Morassutti, condominio in via Quadronno, 24, Milano, 1959-60, veduta del 2012 – e i relativi diritti, sono di proprietà dell’autore. 79 Note Premessa propedeutica all’analisi dei caratteri della specificità fiorentina 1 G. Klaus Koenig, Architettura in Toscana, 1931-1968, ERI Edizioni Rai, Torino, 1968, pp. 14-15 2 K. Lynch, L’immagine della città, Marsilio, Padova, 1964, p. 104 3 AAVV, La città di Padova, Officina, Roma, 1970, p. 19 4 L.B. Alberti, L’architettura (De Re Aedificatoria), Il Polifilo, Milano, 1966, Libro IV, Capitolo I 5 C. Marx, Forme economiche precapitalistiche, Roma, 1967, pp. 80-81 6 A. Rossi, L’architettura della città, Marsilio, Padova, 1966, pp. 56-58 7 P. Iannone, Composizione architettonica, S. Marco, Lucca, 1993, p. 104 8 M. Tafuri, Teorie e storia dell’architettura, Laterza, Bari, 1968, pp. 25-26 I caratteri della specificità fiorentina, letti attraverso la loro interpretazione come elementi costituenti del linguaggio compositivo dei diversi casi studio 1 G. Klaus Koenig, Architettura in Toscana, 1931-1968, ERI Edizioni Rai, Torino, 1968, p. 1 2 G. Fanelli, B. Mazza, La casa colonica in Toscana, le fotografie di Pier Niccolò Berardi alla Triennale del 1936, Octavo, Firenze, 1999, p. 16 3 S. Greco, L’officina radiotelevisiva di Firenze, in “L’architettura, cronache e storia”, 1969, n.168, pp. 357-366 4 AAVV, Leonardo Savioli: il segno generatore di forma-spazio, Edimond, Firenze, 1995, pp. 120-121 La Torre come elemento simbolico, qualificante, e unità semantica del linguaggio architettonico fiorentino 1 E. Detti, Firenze scomparsa, Vallecchi, Firenze, 1970, p. 109 2 G. Morozzi, Interventi di restauro, Bonechi, Firenze, 1979, p. 11 3 E. Detti, Concorso per il piano di ricostruzione, in Urbanistica, n. 12, 1953, p. 66, nota 1 4 AA VV, I Piani di ricostruzione post-bellici nella provincia di Firenze, Franco Angeli, Milano, 2000, p. 51 5 F. Borsi, Giovanni Michelucci, LEF, Firenze, 1966, p. 89 6 AAVV, Urbanistica (numero monografico sul Piano Regolatore di Firenze), n.12, 1953 80 Due torri medioevali, un grattacielo come un cristallo ed uno solo immaginato. Ovvero, osservazioni sull’equivoco italiano dell’aut aut: tradizione o innovazione 1 E. Godoli, Il futurismo, Laterza, Bari, 1983, p. 165 2 G. Ponti, Amate l’architettura, Vitali e Ghianda, Genova, 1957, p. 60 3 E.N. Rogers, Esperienza dell’architettura, Einaudi, Torino,1958, pp. 252, 272 4 M.G. Errico, Tra razionalismo e continuità, Aracne, Roma, 2012, p. 10 5 G. Samonà, Il grattacielo più discusso d’Europa: La Torre Velasca, in “L’Architettura cronache e storia”, 1950, n.40, pp. 659-674 6 G.M. Kallmann, Modern tower in old Milan, in “Architectural Forum”, 1958, n.2, pp. 109-111 7 G. Klaus Koenig, Architettura in Toscana, 1931-1968, ERI Edizioni Rai, Torino, 1968, pp. 124-25 8 Daniela Petrone, Italo Gamberini, Alinea, Firenze, 2010, p. 231 9 F. Purini, La misura italiana dell’architettura, Laterza, Roma-Bari, 2008, pp. 19-20 10 Ivi, p. 149 Analogie e differenze della vicenda fiorentina con quella del professionismo colto milanese 1 AAVV, Storia dell’architettura italiana, a cura di Francesco Dal Co, Electa, Milano, 1997, Vol II, Il secondo Novecento, p. 58 2 M. Tafuri, Storia dell’architettura italiana 1944-1985, Piccola Biblioteca Einaudi, 1985, p. 38 3 M.V. Capitanucci, Itinerari di architettura milanese - Il professionismo colto nel dopoguerra, Ordine e Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Milano, p. 7 4 G. Ponti, Amate l’architettura, Vitali e Ghianda, Genova, 1957, pp. 139-140 5 M. Grandi, A. Pracchi, Milano. Guida all’architettura moderna, Zanichelli, Bologna, 1980, p. 282 6 P. Brambilla, Itinerari di architettura milanese - Il condominio milanese, Ordine e Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Milano, p. 2 7 Cino Zucchi, Asnago e Vender, Skira, Milano, 1999, pp. 27, 33 8 AAVV, Storia dell’architettura italiana, a cura di Francesco Dal Co, Electa, Milano, 1997, Vol II, Il secondo Novecento, p. 68 9 G. Klaus Koenig, Architettura in Toscana, 1931-1968, ERI Edizioni Rai, Torino, 1968, p. 76 APPARATO ICONOGRAFICO Premessa propedeutica all’analisi dei caratteri della specificità fiorentina 1 Lawrence Halprin, Italo Castore (coordinatori) Bruno Zevi, Luca Zevi, Sara Rossi (piano particolareggiato) Leonardo Ricci (piano particolareggiato municipale) Roberto Gabetti e Aimaro Isola, Richard Rogers, Walter Di Salvo, Iginio Cappai e Pietro Mainardis, Luigi Pellegrin, Gunnar Birkerts, Aldo Loris Rossi, Ralph Erskine, Piero Paoli, Leonardo Ricci (progettisti) Laurence Halprin (paesaggista) piano particolareggiato dell’area di Novoli (1987-88) 2 L. Ricci e P. Dallerba, piano particolareggiato dell’area di Novoli (1989) 82 4 R. Gabetti e A. Isola, piano e progetto per il parco nell’area di Novoli (2000) 3 Léon Krier, lineamenti per il piano guida di Novoli (1993) 5 Veduta zenitale del plastico dell’area di Novoli (2002) 6 Veduta, dalla terrazza del Palazzo di Giustizia, dei prospetti sul parco (2009) 83 I caratteri della specificità fiorentina, letti attraverso la loro interpretazione come elementi costituenti del linguaggio compositivo dei diversi casi studio 7 Scorcio dei fronti delle strade interne del complesso di Novoli 8 Scorcio dei fronti delle strade interne del complesso di Novoli 9 Scorcio dei fronti delle strade interne del complesso di Novoli 10 Scorcio dei fronti delle strade interne del complesso di Novoli 84 11 Veduta di Palazzo Pandolfini da via Salvestrina 85 13 Veduta dei fronti su piazza Tasso 12 Scorcio dei fronti su via di Camaldoli 86 14 Scorcio dei fronti su via della Chiesa 16 G. Stradano, Palazzo Vecchio, sala della Gualdrada: P.zza S. Spirito 15 Masaccio, Cappella Brancacci, particolare dell’affresco (1426) 17 G. Stradano, Palazzo Vecchio, sala della Gualdrada: P.zza S. Croce 87 19 Cerchia di Bernardino Poccetti , disegno con veduta di strada fiorentina 18 Disegno di una bottega in via Por S. Maria (1709) 88 20 Sporti sull’Arno delle case di via de’ Bardi prima delle distruzioni belliche 21 Scorcio dei fronti con sporto su piazza Santa Croce 22 Scorcio dei fronti con sporto su via dei Vagellai 23 Scorcio dei fronti con sporto su via della Canonica 89 25 L’altana di Palazzo Davanzati 24 Scorcio dei tetti di borgo Albizi 90 26 Scorcio dell’altana sull’angolo tra via della Ninna e via dei Leoni 27 Arch. G. Patrini, prospetto sull’Arno di borgo San Jacopo. Il progetto presentato nell’aprile del 1957 su incarico della S. Leonardo srl edilizia immobiliare in rappesentanza dei proprietari dei sei lotti centrali, non ottiene approvazione 28 Borgo San Jacopo, i fronti sull’Arno (2011) 91 La Torre come elemento simbolico, qualificante, e unità semantica del linguaggio architettonico fiorentino 30 G. Michelucci, Direzione provinciale delle Poste, 1959-67 (veduta, 2012) 29 Veduta della torre Donati in piazza San Pier Maggiore 92 31 G. Michelucci, Sede della SIP, 1960-65 (veduta da via Masaccio, 2012) 32 Veduta aerea della zona distrutta all’imbocco nord di Ponte Vecchio 33 Le torri degli Amidei e dei Baldovinetti tra le macerie di via Por Santa Maria 34 La torre dei Barbadori in borgo San Jacopo dopo le distruzioni 93 35 G. Michelucci, schizzi prospettici per la ricostruzione di via Por Santa Maria 36 G. Michelucci, schizzi prospettici per la ricostruzione di via Por Santa Maria 39 G. Michelucci, proposta per l’accesso alla via de’ Bardi da Ponte Vecchio 40 G. Michelucci, schizzo per la ricostruzione di via de’ Bardi 37 G. Michelucci, proposta per l’angolo tra lungarno Acciaiuoli e via Por. S. Maria 38 G. Michelucci, fronte sull’Arno di via de’ Bardi e collegamento al fiume 41 G. Michelucci, proposta per l’accesso alla via de’ Bardi da Ponte Vecchio 42 G. Michelucci, collegamento di borgo San Jacopo con l’Arno 94 95 43 G. Michelucci, studi per la ricostruzione di borgo San Jacopo 44 G. Michelucci, studi per la ricostruzione di borgo San Jacopo 45 G. Michelucci, studi per la ricostruzione di borgo San Jacopo 46 G. Michelucci, studi per la ricostruzione di borgo San Jacopo 96 47 “Città sul fiume”, relazione 2 di progetto, per il concorso della ricostruzione 97 48 “Città sul fiume”, relazione 3 di progetto, per il concorso della ricostruzione 50 “I Ciompi”, prospettiva della strada pensile di via Por S. Maria (lato ovest) 98 49 “I Ciompi”, prospettiva della strada pensile di via Por S. Maria (lato est) 51 “I Ciompi”, veduta da Ponte Vecchio di borgo San Jacopo 99 Due torri medioevali, un grattacielo come un cristallo ed uno solo immaginato. Ovvero, osservazioni sull’equivoco italiano dell’aut aut: tradizione o innovazione note 1 G. Ponti, Amate l’architettura, Vitali e Ghianda, Genova, 1957 53 G. Ponti, grattacielo Pirelli, 1956-1960 (veduta, 2012) «Non c’è – il tempo ce lo fa capire – una verità, né la verità: di ogni cosa ci sono due verità, specie in quest’epoca straordinaria nella quale tutto si trasforma e tutto (ecco già le due verità di una realtà) resta eterno nell’eterno fluire del tempo, fattore immutabile, ed eterno proprio perché si muta, perché si trasforma continuamente; transuente [...] esistono sempre, idealmente (almeno) due verità, la realtà è il drammatico conflitto della loro coesistenza perenne [...] noi dobbiamo rappresentarci questa ambivalenza; salvo figurarci poi il nostro ideale, abbandonarci alla nostra preferenza, alla nostra parzialità: ma sempre nella consapevolezza del contrario; questa la regola del buon gioco [...] e’ onesto però che la contraddizione non sia un’arma veritas, per rappresentare meglio a noi stessi le cose, nei due (o più) aspetti della realtà: loro coesistenza. [...] del resto ognuno ha una sua interpretazione diversa di quel che legge o conosce: questa interpretazione è la sua verità: infinità verità, dunque: questa è la mia, o le mie »1. 52 C.A. Poggi, grattacielo in acciaio per la ricostruzione di Por S. Maria 100 54 G. Ponti, grattacielo Pirelli, Milano, 1956-1960 (veduta, 2012) Gio Ponti 55 G. Ponti, grattacielo Pirelli, Milano, 1956-1960 (veduta, 2012) 56 G. Ponti, grattacielo Pirelli, Milano, 1956-1960 (slogan grafico dell’edificio) 101 58 Scorcio del Castello Sforzesco, Milano (2012) 57 BBPR, Torre Velasca, Milano, 1951-58 (veduta, 2012) 102 59 Scorcio di Palazzo Vecchio, Milano (2012) 60 I. Gamberini, torre per uffici in via Alamanni, Firenze, 1957 (veduta, 2012) 61 BBPR, Torre Velasca, Milano 1951-58 (veduta, 2012) 103 Analogie e differenze della vicenda fiorentina con quella del professionismo colto milanese 62 BBPR, Torre Velasca, Milano, 1951-58 (veduta, 2012) 104 63 De Finetti, rilievo del centro di Milano, a seguito dei bombardamenti aerei subiti soprattutto nell’agosto 1943 105 67 G. Minoletti, Casa del Cedro, Milano 1951-57 (veduta, 2012) 64 V. e G. Latis, via Turati, 7, Milano, 1953-55 (veduta, 2012) 65 V. e G. Latis, via Turati, 7, Milano, 1953-55 (veduta, 2012) 106 66 G. Minoletti, Casa del Cedro, Milano, 1951-57 (veduta, 2012) 68 L. Ghò, via Legnano, 4, 6, 8, Milano, 1956-57 (veduta, 2012) 69 L. Ghò, via Legnano, 4, 6, 8, Milano, 1956-57 (veduta, 2012) 107 70 V. Magistretti, piazza San Marco, Milano, 1969-71 (veduta, 2012) 71 V. Magistretti, piazza San Marco, Milano, 1969-71 (veduta, 2012) 108 73 L. Caccia Dominioni, piazza Sant’Ambrogio, Milano, 1947-49 (veduta, 2012) 72 L. Caccia Dominioni, piazza Sant’Ambrogio, Milano, 1947-49 (veduta, 2012) 74 V. e G. Latis, piazza della Repubblica, 11, Milano, 1953-56 (veduta, 2012) 75 V. e G. Latis, piazza della Repubblica, 11, Milano, 1953-56 (veduta, 2012) 109 77 Mangiarotti e Morassutti, v. Quadronno, 24, Milano, 1959-60 (veduta, 2012) 76 Mangiarotti e Morassutti, v. Quadronno, 24, Milano, 1959-60 (veduta, 2012) 110 78 G. Ponti, via Dezza, 49, Milano, 1956-57 (veduta, 2012) 80 G. Ponti, alloggio uniambientale alla X Triennale di Milano (1954) 79 G. Ponti, via Dezza, 49, Milano, 1956-57 (veduta, 2012) 81 G. Ponti, alloggio uniambientale alla X Triennale di Milano (1954) 111 82 L. Moretti, Corso Italia, Milano, 1948-50 83 Asnago e Vender, Casa XXI Aprile, v. Lanzone, 4, Milano, 1950-53 (veduta, 2012) 112 85 L. Savioli, modulo prefabbricato per “La casa abitata” (Palazzo Strozzi, 1965) 84 Asnago e Vender, Casa XXI Aprile, v. Lanzone, 4, Milano, 1950-53 (veduta, 2012) 86 L. Savioli, modulo prefabbricato per “La casa abitata” (Palazzo Strozzi, 1965) 87 L. Savioli, modulo prefabbricato per “La casa abitata” (Palazzo Strozzi, 1965) 113 Referenze iconografiche Le fotografie (6-14, 21-26, 28-31, 57-62, 64-79, 83, 84, pp. 81-84, 8790, 100-102, 104-110) e i relativi diritti, sono di proprietà dell’autore. I disegni e le fotografie (1-5, pp. 80-81) sono tratti da: Novoli, la nuova architettura italiana a Firenze, allegato a “Casabella”, n. 703, 2002, pp. 10-11, 13. Le immagini (15-17, p. 85) sono tratte da: Gian Luigi Maffei, La casa fiorentina nella storia della città dalle origini all’ottocento, Marsilio, Venezia, 1990, pp. 41, 44-45. I disegni e la fotografia d’epoca (18-20, p. 86) sono tratti da: A. Schiaparelli, La casa fiorentina e i suoi arredi nei secoli XIV e XV, Le Lettere, Firenze, 1983, Appendice pp. 33-35. I disegni e le fotografie d’epoca (27, 32, 33, 35-41, 43, 45-51, pp. 89, 91-97) sono tratti da: Osanna Fantozzi Micali, Alla ricerca della Primavera, Alinea, Firenze, 2002, pp. 30, 76, 91-92, 120, 131, 140, 157-158, 160. I disegni e le fotografie d’epoca (34, 44, pp. 91, 94) sono tratti da: AAVV, OPUS INCERTUM, 6-7, “Costruzioni e ricostruzioni dell’identità italiana”, Anno IV-V, 2009-2010, Polistampa, Firenze, 2002, pp. 89, 93. Il disegno (52, p. 98) è tratto da: AA VV, Firenze 1945-1947, i progetti della ricostruzione, Alinea, Firenze, 1995, p. 15. Le fotografie (53-55, pp. 98-99) e i relativi diritti, sono di proprietà della dott.ssa Corinna Del Bianco. Il disegno (56, p. 99) è tratto da: P. Cevini, Grattacielo Pirelli, NIS, Roma, 1996, p. 95. Le fotografie d’epoca (80, 81, p. 98) sono tratti da: Alloggio uniambientale alla Triennale, in “Domus”, n. 301, 1954, pp. 31-35. Le immagini (63, 82 pp. 103, 110) sono tratte da: G. Gramigna, S. Mazza, Milano. Un secolo di architettura milanese dal Cordusio alla Bicocca, Hoepli, Milano, 2001, pp. 202, 254. Le immagini (85, 86, p. 111) sono tratte da: AA VV, La casa abitata: Biennale degli interni di oggi. Firenze, Palazzo Strozzi 6 marzo-25 aprile 1965, Canevari, Milano, 1965, pp. 54-55. 88 L. Savioli, modulo prefabbricato per “La casa abitata” (Palazzo Strozzi, 1965) Le fotografie d’epoca (87, 88, p. 111-112) sono tratte da: AAVV, Leonardo Savioli: il segno generatore di forma-spazio, Edimond, Firenze, 1995, pp. 132-133. 115 Bibliografia essenziale generale Gio PontiAmate l’architettura Vitali e Ghianda, Genova, 1957 Ernesto Nathan Rogers Esperienza dell’architettura Einaudi, Torino,1958 Leonardo BenevoloStoria dell’Architettura Moderna, 4 - Il dopoguerra Laterza, Roma-Bari, 1960 Kevin Lynch L’immagine della città Marsilio, Padova, 1964 Aldo RossiL’architettura della città Marsilio, Padova, 1966 Leon Battista Alberti L’architettura (De Re Aedificatoria) Il Polifilo, Milano, 1966 Manfredo Tafuri Teorie e storia dell’architettura Laterza, Bari, 1968 AA VVLa città di Padova Officina, Roma, 1970 Carlo Cresti Appunti storici e critici sull’architettura italiana, 1900 ad oggi Firenze, 1971 Bruno ZeviStoria dell’Architettura Moderna, volume II Einaudi, Torino, 1973 Cesare De SetaArchitettura del Novecento Laterza, Roma-Bari, 1982 Cesare De SetaArchitetti italiani del Novecento Garzanti, Torino, 1981 Ezio Godoli Il futurismo Laterza, Roma-Bari, 1983 Amedeo Belluzzi,Architettura Italiana. Claudia Conforti1944-1994 Laterza, Roma-Bari, 1985 Manfredo TafuriStoria dell’Architettura Italiana, 1944-1985 Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 1985 Fabrizio Brunetti Architettura in Italia negli anni della Ricostruzione Alinea, Firenze 1986 116 117 Giorgio Ciucci,Architettura Italiana del Novecento Francesco Dal Co Electa, Milano, 1992 Paolo Iannone Composizione architettonica S. Marco, Lucca, 1993 Loris Macci Nuove stagioni della città: progetti e architetture Electa, Milano, 1993 Emilia MuselliLo spazio della casa in Italia (1940-1960) Ed. Angelo Guerini e associati Srl, Milano, 1995 Giovanni Klaus Koenig Architettura del Novecento. Teoria, storia, pratica, critica Marsilio, Venezia, 1995 A cura di Francesco Dal Co Storia dell’architettura italiana. Vol II, Il secondo Novecento Electa, Milano, 1997 AA VV Composizione architettonica e tipologia ediliza Vol I - Lettura dell’edilizia di base Marsilio Editori, Venezia, 1999 Hans Bernoulli La città e il suolo urbano Corte del Fontego, Venezia, 2006 Antonio Piva, Elena Cao La casa: evoluzione dal 1950 a oggi Gangemi, Roma, 2007 Franco Purini La misura italiana dell’architettura Laterza, Roma-Bari, 2008 Eugenia Lopez Reus Ernesto Nathan Rogers, continuità e contemporaneità Christian Marinotti, Milano, 2009 Antonino Saggio Architettura e modernità Carocci, Roma, 2011 Maria Gabriella Errico, Tra razionalismo e continuità, Ernesto Nathan Rogers e i BBPR Aracne, Roma, 2012 Antonio D’AuriaArchitettura e arti applicate negli anni Cinquanta Marsilio, Venezia, 2012 118 in riferimento al contesto fiorentino Gianfranco MuscoLa ricostruzione della zona del Ponte Vecchio Rassegna del Comune 1944-51, Firenze, maggio 195 (numero unico) Catalogo della mostra La casa abitata: biennale degli interni di oggi Firenze, Palazzo Strozzi 06/03 - 25/04 1965 Canevari, Milano, 1965 Giovanni Klaus Koenig Architettura in Toscana, 1931-1968 ERI Edizioni Rai Radio Televisione Italiana, Torino, 1968 Edoardo Detti Firenze scomparsa Vallecchi, Firenze, 1970 Pier Luigi Bosi, Carlo Natali Metodologia del risanamento urbanistico nel centro storico di Firenze (collana di studi sui problemi urbanistici del territorio fiorentino) Provincia di FI, 1975 AA VVFirenze: la questione urbanistica; scritti e contributi (1945-1975) Sansoni, Firenze, 1982 Mariella ZoppiFirenze e l’urbanistica: la ricerca del piano Edizioni delle Autonomie, Roma, 1982 Attilio SchiaparelliLa casa fiorentina e i suoi arredi nei secoli XIV e XV Le Lettere, Firenze, 1983 Grazia Gobbi SicaItinerari di Firenze Moderna Alinea, Firenze, 1987 Gian Luigi Maffei La casa fiorentina nella storia della città dalle origini all’ottocento Marsilio, Venezia, 1990 Gabriella Orefice Da Ponte Vecchio a Santa Croce; piani di risanamento a Firenze Alinea, Firenze, 1992 AA VVFirenze 1945-1947, i progetti della ricostruzione Alinea, Firenze, 1995 Carlo CrestiFirenze, capitale mancata, architettura e città dal piano Poggi a oggi Electa, Milano, 1995 Giovanni Fanelli, La casa colonica inToscana, Barbara Mazza le fotografie di Pier Niccolò Berardi alla Triennale del 1936 Octavo, Firenze,1999 119 Enrico BouglexColloqui con la città; temi urbanistici per Firenze Polistampa, Firenze, 1999 AA VV I Piani di ricostruzione post-bellici nella provincia di Firenze Franco Angeli, Milano, 2000 Ezio GodoliArchitetture del Novecento: la Toscana Polistampa, Firenze, 2001 Fabrizio Rossi Prodi Carattere dell’architettura toscana: il pensiero compositivo nella scuola di Firenze Officina, Roma, 2003 AA VVFirenze, architettura città paesaggio Mancosu, Roma, 2006 Atti del Convegno di Studi La facoltà di architettura di Firenze Firenze, 29-30 04 2004 fra tradizione e cambiamento Firenze University Press, Firenze, 2007 A cura di Elisabetta Insabato Guida agli Archivi di Architetti e Ingegneri e Cecilia Ghellidel Novecento in Toscana Edifir, Firenze, 2007 Fabio CapanniDi alcune figure e caratteri dell’edilizia residenziale in Toscana Noèdizioni, Forlì, 2008 Fabio FabbrizziOpere e progetti di Scuola Fiorentina, 1968-2008 Alinea, Firenze, 2008 AA VVOPUS INCERTUM, 6-7 “Costruzioni e ricostruzioni dell’identità italiana” Anno IV-V, 2009-2010 Polistampa, Firenze AA VVL’architettura in Toscana dal 1945 a oggi Alinea, Firenze, 2011 Aldo FaviniMedioevo nascosto a Firenze Editori dell’Acero, Firenze, 2012 120 in riferimento al contesto milanese Piero Bottoni Edifici moderni in Milano Editoriale Domus, Milano, 1954 Maurizio Grandi, Milano. Attilio PracchiGuida all’architettura moderna Zanichelli, Bologna, 1980 Antonio PivaBBPR a Milano Electa, Milano, 1982 Fulvio IraceGio Ponti. La casa all’italiana Electa, Milano, 1988 Lisa Licitra PontiGio Ponti: l’opera Leonardo, Milano, 1990 Serena Maffioletti BBPR Zanichelli, Bologna, 1994 A cura di Cino Zucchi Asnago e Vender Skira, Milano, 1999 Giuliana Gramigna, Milano. Sergio MazzaUn secolo di architettura milanese dal Cordusio alla Bicocca Hoepli, Milano, 2001 AA VV Luigi Caccia Dominioni. Case e cose da abitare Marsilio, Venezia, 2002 Maria Vittoria Capitanucci Vito e Gustavo Latis. Frammenti di una città Skira, Milano, 2008 Fulvio IraceGio Ponti Motta Architettura, Milano, 2009 Maria Vittoria Capitanucci Itinerari di architettura milanese. Il professionismo colto nel dopoguerra Ordine e Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Milano Paolo Brambilla Itinerari di architettura milanese Il condominio milanese Ordine e Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Milano 121 in riferimento ai casi studio (per ogni singolo edificio verrà poi indicata, contestualmente all’analisi, la specifica bibliografia) Melchiorre Bega Stefano Zironi Melchiorre Bega Editoriale Domus, Milano, 1983 _ Casa a Firenze in “Domus”, n. 304, 1955, pp. 6,7 Franco Bonaiuti Ulisse TramontiFranco Bonaiuti, Architetto Alinea, Firenze, 2008 Italo Gamberini Italo GamberiniPer una analisi degli elementi dell’architettura Firenze, 1953 Gillo Dorfles Valori semantici degli elementi di architettura e dei caratteri distributivi in “Domus”, 1959, n.360, pp. 33-34 Italo GamberiniAnalisi degli elementi costitutivi dell’architettura Firenze, 1961 Saul GrecoL’officina radiotelevisiva di Firenze in “L’architettura, cronache e storia”, 1969, n.168, pp. 357-366 Ulisse TramontiGamberini e Firenze in “Domus”, 1993, n.754 AA VVItalo Gamberini, l’architettura dal razionalismo all’internazionalismo Edifir, Firenze, 1995 Andrea BulleriItalo Gamberini: gli elementi costitutivi e la dimensione urbana del progetto ETS, Pisa, 2006 Daniela Petrone Italo Gamberini, “artigiano dell’architettura” Alinea, Firenze, 2010 Rosamaria MartellacciItalo Gamberini architetto (1907-1990) Edifir, Firenze, 2011 122 Giovanni Klaus Koenig Franco BorsiKoenig, due testimonianze Libreria LEF, Firenze, 1991 Claudio MessinaMe ne vado e sbatto l’uscio Giovanni Klaus Koenig. Architetture Alinea, Firenze, 1994 Cesare BirignaniGiovanni Klaus Koenig, dodici note di architettura Testo e Immagini, Roma, 2001 Giovanni Michelucci A cura di Franco Borsi Giovanni Michelucci LEF, Firenze, 1966 Leonardo LugliGiovanni Michelucci, il pensiero e le opere Istituto di Architettura ed Urbanistica, Bologna, 1966 Maurice Cerasi Michelucci De Luca, Roma, 1968 A cura di G. Torretta Giovanni Michelucci e la ricostruzione delle zone attorno al Ponte Vecchio (catalogo della mostra) Edizioni Quaderni di Studio, Torino, 1967 Franco Borsi Elementi di città o del realismo utopico, in “La città di Michelucci”, cat. della mostra a cura di E. Godoli, Basilica di S. Alessandro, 30. 4. - 30. 5. 1976, Fiesole, 1976 Maria Cristina Buscioni Michelucci, il linguaggio dell’architettura Officina, Roma, 1979 AA VVGiovanni Michelucci. Catalogo delle opere Electa, Milano, 1986 Marco Dezzi BardeschiGiovanni Michelucci. Un viaggio lungo un secolo. Disegni di architettura Alinea, Firenze, 1988 Anselmo EspositoGiovanni Michelucci, Itinerari Domus in “Domus”, n. 692, 1988 A cura della Fondazione Giovanni Michelucci. MichelucciDisegni 1935-1964 Diabasis, Reggio Emilia, 2002 123 Claudia Conforti, Roberto Giovanni Michelucci Dulio, Marzia Marandola 1891- 1990 Electa, Milano, 2006 Fracesca LuseroniGiovanni Michelucci e la città verticale ETS, Pisa, 2010 AA VVGiovanni Michelucci. Le fotografie Tielleci, Parma, 2011 Pierluigi Spadolini Pier Angelo CeticaPierluigi Spadolini, architettura e sistema Dedalo, Bari, 1985 Francesco GurrieriPierluigi Spadolini, umanesimo e tecnologia Electa, Milano, 1988 Maurizio VittaPierluigi Spadolini e associati, architetture 1953-1993 L’Arca, Milano, 1993 Leonardo Savioli Marco Dezzi Bardeschi Il senso della storia nell’architettura italiana degli ultimi anni in “Comunità”, n. 130, 1965 A cura di Giovanni Fanelli Leonardo Savioli UNIEDIT, Firenze, 1966 Lara Vinca MasiniTriennale itinerante di architettura in “La Biennale”, n. 59, 1965, p. 63 Renato PedioEdificio per abitazioni a Firenze, in “L’architettura, cronache e storia”, n. 138, 1967, pp. 810-812 Pier Carlo SantiniArchitetture recenti di Leonardo Savioli in “Ottagono”, n. 14, 1969, p. 90 Antonio SpositoUna struttura ‘nuova’ a Firenze in “L’industria italiana del cemento”, n. 10, 1969, pp. 725-740 _ Unità di architettura, in “Interni”, n. 33, 1969, pp. 2-15 _Edificio a Firenze n “Architecture (L’) d’Aujourd’hui” n. 161, 1972, pp. 66-68 AA VVLeonardo Savioli UNIEDIT, Firenze, 1974 Giulio Carlo ArganLeonardo Savioli grafico e architetto Centro Di, Firenze, 1982 Fabrizio BrunettiLeonardo Savioli architetto Dedalo, Bari, 1982 AA VVLeonardo Savioli: il segno generatore di forma-spazio Edimond, Firenze, 1995 AA VVLa casa abitata: Biennale degli interni di oggi. Firenze, Palazzo Strozzi 6 marzo-25 aprile 1965 Canevari, Milano, 1965 124 125 Casi studio 126 Melchiorre Bega edificio residenziale (1955) viale Gramsci, 67 Unico progetto fiorentino dell’architetto bolognese – ma milanese di adozione – l’edificio residenziale di viale Gramsci, si fonda su di un impianto planimetrico ad L ponendosi, in modo singolare, in rapporto con i viali di circonvallazione, sui quali ha l’ingresso. Infatti, rispettando gli allineamenti perpendicolari dell’isolato di base – tagliato in modo obliquo dai viali che ne trasformano la forma, da rettangolare a trapezoidale – viene a trovarsi, con una delle teste strette, inclinato rispetto all’asse stradale. Si genera così un arretramento dell’intero corpo di fabbrica, leggermente ruotato rispetto a viale Gramsci, che permette di salvare due vecchi alberi già presenti sul terreno e, negando l’allineamento al filo stradale della facciata principale, di creare un giardino che filtri l’edificio e che rievochi il tessuto rarefatto – che caratterizzava storicamente i viali – delle ville e dei villini, e dei relativi giardini, che diradavano le maglie della densità edilizia a vantaggio degli spazi aperti e verdi. L’edificio, notevole sia per le caratteristiche distributive, che per quelle espressive, rappresenta, quasi didascalicamente, la fusione – o forse, meglio, la regionalizzazione – dei caratteri dell’international style con quelli locali. Infatti su di un basamento in pietra, lavorata a punta grossa, si stacca a sbalzo – per l’intera lunghezza di uno dei due bracci, compreso un breve risvolto sul braccio perpendicolare – uno “sporto” stereometrico, quasi completamente cieco, e rifinito ad intonaco, sulla parte terminale del volume, prospiciente il viale, completamente vetrato invece, sul lato lungo che affaccia sul giardino triangolare. Sull’altro braccio invece, arretrato e filtrato dalle alberature del giardino, il rivestimento in pietra si alza a ricoprire l’intera facciata, trasformando completamente il carattere del volume e donandogli, grazie anche all’apertura di finestre di ridotte dimensioni, un aspetto decisamente materico, simile a quello delle case-torri medioevali, in netta contrapposizione con quello invece, decisamente moderno, caratterizzato dalle grandi vetrate continue. La netta divisione in due corpi, dall’aspetto esterno completamente diverso, si rispecchia perfettamente nell’articolazione della distribuzione interna. Se le camere infatti, e più in generale tutta la zona notte e i suoi servizi, sono serrate dietro la massiccia e protettiva cortina lapidea – a difesa dell’intimità e della riservatezza degli spazi meno pubblici della casa – la zona giorno invece è risolta in un unico spazio continuo, illuminato dalla serie ininterrotta delle vetrate, articolato intorno al camino e con la possibilità di operare, con pareti scorrevoli, eventuali provvisori frazionamenti. L’edificio conta sei piani ed è coronato da un attico arretrato, collegato mediante una scala interna all’appartamento del piano sottostante. I singoli appartamenti, uno per piano – anche il piano attico può essere reso indipendente – sono distribuiti attraverso un vano scala, dotato di ascensore e montacarichi, posto, in posizione baricentrica – al centro dell’innesto dei due bracci perpendicolari – e prevedono un doppio ingresso, uno secondario, che si apre su un corridoio di servizio collegato alla cucina, e uno principale che apre direttamente sulla zona giorno. La continuità delle grandi vetrate, composte da speciali serramenti Sculponia, apribili a bilico – accessoriati con tende a veneziana, a lamelle in alluminio orientabili, incorporate tra i due cristalli – permette una grande flessibilità spaziale e garantisce la possibilità di spostare indifferentemente le zone del pranzo, del soggiorno, del salotto – come indicato dallo stesso Bega sulle piante di progetto in cui, con delle frecce, mostra come, dai servizi e dalla distribuzione principale, sia possibile accedere comodamente e indistintamente alle diverse 129 parti della zona giorno – all’interno del grande spazio appositamente predisposto. Una flessibilità spaziale vicina a quella della casa immaginata da Gio Ponti per la X Triennale di Milano – e poi realizzata nell’attico di via Dezza – garantita dalla possibilità di personalizzare liberamente l’ambiente, assecondando bisogni e necessità diverse, grazie al libero disporsi delle pareti interne e dall’eventuale fruibilità dell’intero volume vuoto. Bibliografia _ G. Klaus Koenig Stefano Zironi 1 Particolare della soluzione d’angolo e dell’ingresso 130 Casa a Firenze in “Domus”, n. 304, 1955, pp. 6-7 Architettura in Toscana, 1931-1968 ERI Edizioni Rai, Torino, 1968, p. 202 Melchiorre Bega Editoriale Domus, Milano, 1983, pp. 64-65 2 Planimetria generale dell’intervento 3 Pianta piano tipo 4 Pianta piano attico 131 Referenze iconografiche Le fotografie (1, 5, 6, p. 128, p. 130) e i relativi diritti, sono di proprietà dell’autore. Il disegno (2, p. 128) è conservato presso l’Archivio Storico del Comune di Firenze, CF 16934 - 1007/1960. I disegni e le fotografie d’epoca (p. 126 e 3, 4, 7, pp. 129, 131) sono tratti da: Casa a Firenze, in “Domus”, n. 304, 1955, pp. 6-7. 5 Veduta generale dell’edificio 132 6 Scorcio del fronte su viale Gramsci 7 Particolare della superficie vetrata 133 Franco Bonaiuti edificio residenziale (1960) viale Gramsci, 63 L’edificio realizzato da Franco Bonaiuti, composto da sei piani fuori terra – il piano terra destinato alle attività commerciali, gli altri cinque alle abitazioni – nasce sui viali di circonvallazione come sostituzione di una palazzina a due piani, piuttosto tozza e in stile neoclassico, che si disponeva, sul lotto trapezoidale generato dall’incrocio con via Pellico, parallelamente al viale, generando, in corrispondenza dell’angolo tra le due strade, un giardino triangolare di risulta. Bonaiuti decide di allinearsi al limitrofo edificio per abitazioni realizzato pochi anni prima da Melchiorre Bega – 1955 – disponendosi così parallelamente a via Pellico e ponendosi, di tralice, rispetto al viale alberato, creando così un filtro verde tra la sede stradale, pesantemente trafficata, e il nuovo corpo di fabbrica. Sebbene il primo progetto depositato – a nome dell’ing. Dario Fabiani – rappresenti di massima, il volume, la disposizione planimetrica e la maglia strutturale definitiva, non rivela ancora quella che sarà la caratteristica principale dell’edificio concluso. Dalla prospettiva di presentazione infatti si leggono due volumi compatti – uno su via Pellico e uno su viale Gramsci – disposti ad L, che si saldano, su di uno spigolo svuotato, attraverso dei balconi allineati che, erodendo la materia del corpo dal quale sono generati, si innestano sulla parete, completamente cieca, del corpo perpendicolare. Un’estrema linearità e un’articolazione piuttosto piatta dei fronti, caratterizza questa prima proposta che subirà, come vedremo, una vera e propria scossa dinamica. Sulla struttura in cemento armato lasciata a vista e sulle tamponature in laterizio – leggermente in aggetto – proprio in corrispondenza dello spigolo di intersezione dei due corpi di fabbrica, si inizia ad operare una serie successiva di svuotamenti e di estrusioni in aggetto, ottenuti dall’arretramento di alcune porzioni dei setti perimetrali e dall’inserimento di alcuni balco- ni a sbalzo. Il risultato è uno spigolo completamente smaterializzato e animato da una un gioco di pieni e di vuoti, di rientranze e di sporgenze che si alternano, piano per piano, e che alterano anche l’impaginato delle restanti parti dei rispettivi fronti, generando una ritmica contrazione dei volumi e uno slittamento orizzontale delle partiture compositive. Si vengono a creare così due configurazioni spaziali, generate principalmente dalla rotazione dei balconi d’angolo, che si ripetono alternativamente – fin dal primo piano su viale Gramsci, dal secondo piano, impostato su di uno sbalzo in aggetto, su via Pellico – e ricorrono fino al grande terrazzo dell’attico, arretrato rispetto a tutti i fronti, che coronano l’edificio. La figurazione dello sporto fiorentino in aggetto, scomposto, frammentato e riassemblato è, in realtà, forse più legata alla volontà di esibire una plasticità esasperata, in aperta polemica con le declinazioni stereometriche dell’international style – atteggiamento molto vicino a quello delle coeve opere di Michelucci, il grattacielo Roma a Livorno (1956-66) e l’edificio INA per abitazioni su viale Amendola, che condividono, oltre le dinamiche di sottrazione, slittamento ed estrusione, anche il telaio cementizio a vista e il rivestimento in laterizio delle tamponature – che non a quella di un vero e proprio tentativo di dialogo con il tessuto consolidato della città. Anche la rinuncia alla massa muraria compatta, alla strutturazione in verticale dei fronti, al basamento – completamente svuotato – denunciano una tensione verso il superamento dell’uso stereotipato di certi caratteri identitari, per puntare a nuove espressioni linguistiche, in grado comunque di instaurare un rapporto dialettico con la città storica. Unica concessione alla tradizione: frammenti di muro – perimetrale al giardino triangolare sul viale – e di basamento – nelle poche porzioni, necessariamente, non vetrate – rivestiti 135 in pietra locale appena sbozzata. Internamente, ogni piano ospita due appartamenti che occupano, ognuno interamente, i due bracci della composizione ad L: su viale Gramsci affaccia un appartamento di circa 200 mq, mentre su via Pellico uno di 150. In posizione baricentrica, nell’angolo interno dell’intersezione dei due bracci, sono disposti la scala e l’ascensore che permettono, ad entrambi gli appartamenti, di avere un ingresso principale e uno secondario che apre direttamente nei locali della cucina. Dotati di doppi servizi igienici, ampi balconi, locali di servizio e numerosi vani – sempre illuminati da generose aperture – gli appartamenti, destinati alla medio-alta borghesia emergente, dimostrano un’attenzione particolare rivolta verso gli aspetti distributivi, l’arredabilità degli spazi, la cura degli interni. 1 Veduta del villino preesistente 2 Veduta del villino preesistente 136 3 Planimetria generale dell’intervento 4 Pianta piano primo 5 Pianta piano secondo e quarto 6 Pianta piano terzo 7 Sezione trasversale AB 137 8 Prospettiva della prima proposta di progetto 9 Veduta generale dell’edificio 138 10 Particolare della soluzione d’angolo 11 Veduta del fronte su viale Gramsci 139 Referenze iconografiche Le fotografie (p. 132 e 9-12, pp. 136-139) e i relativi diritti, sono di proprietà dell’autore. I disegni e le fotografie d’epoca (1-3, 8, pp. 134, 136) sono conservati presso l’Archivio Storico del Comune di Firenze, CF 16934 - 1007/1960. La riproduzione dei disegni (4-7, p. 135) è stata gentilmente concessa dall’arch. Maddalena Bonaiuti che ne detiene la proprietà. 12 Veduta del fronte su viale Gramsci 141 Carlo Cresti edificio per abitazioni (1966) via Lanza, 16 A non molta distanza, né spaziale, né temporale, dall’edificio di via Piagentina di Savioli e Santi, sorge, con molte caratteristiche in comune, l’edificio per abitazioni progettato da Carlo Cresti. Anche quest’ultimo infatti, impostato su di un lotto d’angolo tra due strade – via Lanza e via Moriani – si impone prospetticamente con il suo spigolo messo in risalto dalle accentuazioni verticali che, scomponendo il volume intero in più fasce, lo rendono simile ad una serie di case torri accostate, ognuna scandita e organizzata con regole formali e compositive diverse e distinte, seppur legate da un disegno unitario, dalle definizioni materiche, dalle scelte di dettaglio e dal linguaggio espressivo comune per l’intero intervento. Così, fasce verticali dalla murarietà massiccia ed ininterrotta – completamente intonacate e di colore chiaro – si alternano a serie di finestre incolonnate tra paraste in cemento faccia a vista, a balconi e davanzali, scavati nella massa dell’edificio o protesi verso l’esterno, a produrre un gioco volumetrico e di ombre potente e severo, rimarcato – in corrispondenza dell’angolo – da una grande, scultorea, copertura aggettante. L’edificio è composto da cinque piani ed è coronato da una grande copertura piana praticabile. Ogni piano, ad eccezione del piano terra – originariamente destinato ad uffici e magazzini – ospita due appartamenti: uno più grande che si sviluppa sul lato di via Moriani, e uno più piccolo invece che, stretto tra il blocco distributivo delle scale condominiali e la proprietà attigua, si sviluppa in profondità, prendendo luce esclusivamente da un’apertura su via Lanza e da una sulla corte interna. L’articolazione interna degli appartamenti è piuttosto lineare e ben condotta, soprattutto per l’appartamento maggiore – quello minore soffre, in molte zone, di una scarsa luminosità, dovuta alla soluzione dello sviluppo in profondità dello stesso – e si ripete uguale per ogni piano, tranne per l’alternarsi, da un piano all’altro, della posizione dei balconi aggettanti – che estendono lo spazio del soggiorno d’angolo – prossimi allo spigolo del fabbricato. Questo espediente, assieme ai piccoli scarti compositivi dei ricorsi in cemento armato, agli equilibrati disassamenti delle aperture più minute, e alle sottili variazioni dei piani di facciata, contribuisce a generare dei prospetti dinamici, in grado di mitigare, con le loro vibrazioni, il volume altrimenti compatto e massiccio, soprattutto sul lato lungo, privo di elementi che, svettando oltre il limite superiore, ne snelliscano la figura. Sicuramente la forze espressiva dell’intero intervento è demandata all’estrema cura, in fase progettuale ed esecutiva, delle soluzioni costruttive, dei minuti e ricercati dettagli, delle articolazione dei giunti che, da un lato ricordano, evocando incastri propri della tecnica lignea, le prime esperienze espressive del cemento armato applicato all’architettura, dall’altro, le vere e proprie costruzioni accessorie in legno che punteggiavano, arricchendola, l’edilizia medioevale della città. Bibliografia G. Gobbi Sica AA VV Itinerari di Firenze Moderna Alinea, Firenze, 1987, p. 168 L’architettura in Toscana dal 1945 a oggi Alinea, Firenze, 2011, p. 69 143 2 Planimetria generale e pianta piano terra 1 Veduta generale dell’edificio 144 3 Pianta piano secondo 4 Pianta piano primo 5 Scorcio del fronte su via Lanza 6 Pianta piano terzo 7 Scorcio del fronte su via Moriani 145 8 Prospetti dei fronti principali 9 Scorcio del fronte su via Moriani 146 11 Sezioni longitudinali AB e CD 10 Particolare della soluzione d’angolo 12 Scorcio del fronte su via Lanza 13 Particolare del fronte su via Lanza 147 Referenze iconografiche Le fotografie (p. 141 e 1, 5, 7, 9, 10, 12, 13, pp. 142-145) e i relativi diritti, sono di proprietà dell’autore. I disegni (2-4, 6, 8, 11, 14, pp. 142-146) sono conservati presso l’Archivio Storico del Comune di Firenze, CF 17741 - 709/1966. 14 Prospetto del fronte su via Lanza 149 Italo Gamberini edificio per abitazioni e negozi (1948-51) via Por Santa Maria, borgo Santi Apostoli, vicolo dell’Oro Inserito all’interno della zona A del piano di ricostruzione comunale – la prima ad essere ricostruita – l’edificio di Italo Gamberini sorge, sulle macerie della distruzione delle mine tedesche, nel tratto di via Por Santa Maria compreso tra le superstiti torri degli Amidei e, oltre borgo Santi Apostoli, dei Baldovinetti. Fortemente vincolato dai profili regolatori, e dalla imposizioni di piano, Gamberini realizza un edificio lontano dalle idee e dalle aspirazioni espresse, invece, nelle tavole di concorso per la ricostruzione delle zone intorno ponte Vecchio. Della differenziazione dei percorsi – carrabile al livello stradale, pedonale su un percorso sopraelevato – e della fascinazione della passeggiata commerciale a doppio livello, ottenuta grazie ad una strada in quota, fiancheggiata da negozi, bar e ristoranti – che Gamberini riuscirà a concretizzare, solo una decina di anni dopo, con la realizzazione dell’edificio a piastra e torre di Montecatini Terme – non rimane che l’arretramento dei fronti – esclusivamente per la parte superiore dei fabbricati, mentre i basamenti rimangono invece allineati all’originario filo stradale – imposto per garantire, grazie ad una sezione più ampia dell’asse viario, un maggiore respiro, una migliore illuminazione naturale della strada e l’esaltazione, attraverso l’isolamento, delle torri medioevali divenute dei capisaldi intoccabili. Gamberini realizza, nell’ottica di una ricucitura del tessuto urbano, senza drastiche cesure con la storia, un edificio che, seppure caratterizzato da materiali tradizionali – bugnato in pietra forte per il basamento e intonaco liscio per la parte superiore con finestre semplicemente profilate da listre di pietra – non rinuncia ad alcuni illuminati scarti che rendono, questa, l’unica opera architettonica di rilievo, all’interno dell’intera ricostruzione di questa area. Il fabbricato risulta compositivamente diviso in due parti asimmetriche: la parte più stretta è quella, su via Por Santa Maria, a contatto con l’edificio adiacente, mentre quella più ampia è in corrispondenza dell’angolo con borgo Santi Apostoli. La stessa logica comanda le profonde aperture che si aprono nel basamento e proteggono le vetrine arretrate dei negozi del piano terra. Questa soluzione, smaterializzando la compatta parte inferiore in pietra, trasforma il basamento in un vero e proprio loggiato costituito da setti, perpendicolari alla strada e coronato da un volume – vetrato frontalmente e segnato dai barbacani in cemento che rafforzano visivamente l’esiguo sbalzo del terrazzo sovrastante – che recupera l’allineamento stradale. Se, infatti, tutta la parte inferiore dell’edificio si allinea, lungo via Por Santa Maria, alla torre degli Amidei, nella parte superiore, gli ultimi due piani del blocco sull’angolo con borgo Santi Apostoli, avanzano a sbalzo, evocando la struttura tipica dello sporto fiorentino medioevale – sottolineato, in questo caso, dalla scansione ritmica dalle travi in aggetto che lo sostengono – e recuperando l’allineamento con la vicina torre dei Baldovinetti. L’arretramento del fronte, nella sua parte superiore, viene risolto, in corrispondenza dell’angolo tra le due strade, isolando la parte di basamento avanzata, attraverso un’incisione profonda e decisa che fa diventare il loggiato commerciale, un volume a sé stante, quasi indipendente rispetto al resto dell’edificio. Il fabbricato si sviluppa poi, su borgo Santi Apostoli e, posteriormente, su vicolo dell’Oro, seguendo la semplice ripartizione basamento in pietra e parte alta intonacata – segnata da un elegante e semplice marcapiano in pietra – e terminando con una soluzione a sporto – a tutt’altezza stavolta – sorretta da una serie di barbacani sagomati in cemento armato. 151 In assenza dei disegni di progetto, si riportano le relazioni descrittive originali, redatte da Italo Gamberini: All’ufficio del genio civile di Firenze All’ufficio del genio civile di Firenze Descrizione dello stabile distrutto per cause belliche di proprietà del sig. Roberto Ciocca, posto in via SS. Apostoli, angolo por S. Maria, e vicolo dell’Oro. Descrizione del nuovo stabile di proprietà del sig. Roberto Ciocca, posto in borgo SS. Apostoli, Por S. Maria, vicolo dell’Oro - da ricostruirei secondo il progetto dell’arch. Italo Gamberini. Tale fabbricato era destinato per il piano terreno a negozi di prima categoria. Infatti vi erano alloggiati i negozi della Ditta Ciocca per vendita di valigeria, pelletteria fine, pellicce e ombrelli ecc. I piani superiori e cioè primo, secondo, terzo e quarto piano erano destinati a civile abitazione. Gli appartamenti erano di tipo di lusso distribuiti secondo quanto si può vedere dalle piante catastali allegate e finiti con parquet nelle stanze da letto e salotti - marmo nei passaggi - stucchi ai soffitti e pareti - affissi in noce a pannellature bagni rivestiti con piastrelle colorate. Termosifone in ogni appartamento - luce incassata - L’edificio era stato sistemato completamente da dodici anni prima del sinistro ed era di conseguenza in uno stato di manutenzione perfetta. La scala elicoidale era stata modificata ed ampliata durante tali lavori e fu determinante di una notevole miglioria in molte strutture portanti dell’edificio in parola. Anche le aperture dei negozi furono notevolmente alzate ed allargate e tali lavoro portarono ad una distribuzione più omogenea nell’interno dei negozi stessi e interessarono le strutture portanti dell’edificio. Per tale effetto anche la facciata e le fasciature delle aperture furono rifatte completamente in finta pietra serena martellinata. Lo stabile che viene ricostruito sull’area preesistente, è una costruzione che per distribuzione ed espressione esterna ha dovuto inquadrarsi nel piano di ricostruzione approntato dal Comune ed approvato dalle competenti autorità. La destinazione rimane come quella precedente e cioè: al piano terreno negozi, ai piani primo secondo terzo e quarto piano arretrato destinato ad abitazioni. La distribuzione è stata studiata in maniera da consentire una migliore illuminazione ed aereazione dal punto di vista igienico. Purtroppo il volume totale essendo minore, per vincolo di piano di ricostruzione, ha condotto ad uno sfruttamento minore di area per i vari piani e di conseguenza tale diminuzione agli effetti dell’affittabilitá è stata dovuta integrare con finiture notevolmente superiori a quelle del fabbricato prima esistente. In conseguenza di ciò i pavimenti delle camere e dei salotti sono previsti in parquet murato, gli intonaci a stucco alla romana, i pavimenti delle gallerie sono in marmo pregiato, gli affissi esterni in essenza dura e le porta interne in legno noce a pannelli compensati, l’impianto elettrico incassato con prese di corrente in ogni stanza, i soffitti decorati da stucchi, ed impianto completo di termosifone, i bagni sono organizzati con distribuzione razionale degli apparecchi e con rivestimenti 152 colorati, la scala in marmi pregiati per renderla luminosa ed adatta all’edificio. La struttura generale dell’edificio è realizzata in C.A. allo scopo di ottenere spessori murali più consoni allo spazio a disposizione. Le finiture esterne sono in pietra a faccia a vista fino al primo piano e intonaco e pietra di fasciatura alle aperture per i piani superiori. La cubatura che ne risulta, come già detto per effetto del piano di ricostruzione è la seguente (segue tabella e schema delle proprietá) [...] Delle strutture murarie rimaste in piedi ma pericolanti, non ne viene utilizzata alcuna ed anche delle fondazioni viene tenuto conto soltanto per qualche muro di riempimento essendo prevista come già detto la struttura in C.A. la quale necessita di fondazioni proprie.1 note 1 I documenti di progetto sono conservati presso: Archivio di Stato di Firenze, Fondo Italo Gamberini, Serie I, 60, Pratiche diverse, 1948-1950, fasc. 76 Bibliografia G. Klaus Koenig Architettura in Toscana, 1931-1968 ERI Edizioni Rai, Torino, 1968, pp. 124-137 AA VV Italo Gamberini, l’architettura dal razionalismo all’internazionalismo Edifir, Firenze, 1995, pp. 15, 21 O. Fantozzi Micali Alla ricerca della Primavera Alinea, Firenze, 2002, pp. 98-99 A. Bulleri Italo Gamberini: gli elementi costitutivi e la dimensione urbana del progetto ETS, Pisa, 2006, pp. 86-90 A cura di E. Insabato Guida agli Archivi di Architetti e Ingegneri e C. Ghelli del Novecento in Toscana Edifir, Firenze, 2007, pp. 185-189 F. Fabbrizzi Opere e progetti di Scuola Fiorentina, 1968-2008 Alinea, Firenze, 2008, pp. 94-107 R. Martellacci Italo Gamberini architetto (1907-1990) Edifir, Firenze, 2011, pp. 174, 210, 211, 332 1 La ricostruzione presso le torri degli Amidei e dei Baldovinetti 153 2 Il plastico del lato occidentale di via Por Santa Maria 4 Giovanna Balzanetti, fronte occidentale di via Por S. Maria, stato attuale (2001) 154 3 Prospettiva di progetto dell’ingresso ai negozi 5 Scorcio del fronte su via Por S. Maria, sullo sfondo la torre dei Baldovinetti 6 Scorcio del fronte su via Por S. Maria, sullo sfondo la torre degli Amidei 155 Referenze iconografiche Le fotografie (5-7, pp. 153-154) e i relativi diritti, sono di proprietà dell’autore. I disegni e le fotografie storiche (1, 2, 4, pp. 151-152) sono tratti da: Osanna Fantozzi Micali, Alla ricerca della Primavera, Alinea, Firenze, 2002, pp. 98-99. I disegni (p. 148 e 3, p. 152) sono conservati presso: Archivio di Stato di Firenze, Fondo Italo Gamberini, Serie IV, 1, Materiale fotografico, fasc. 76. 7 Particolare del fronte su via Por Santa Maria 157 Italo Gamberini edificio per abitazioni (1957) viale Marsilio Ficino, 14 Arretrato rispetto al filo stradale, il gamberiniano intervento di “tassello” di via Marsilio Ficino, rappresenta uno degli esempi più riusciti di sostituzione e integrazione del “nuovo”, all’interno del tessuto storico consolidato della città. L’edificio sorge su di un lotto rettangolare, in sostituzione di un precedente villino – ospitante, all’epoca, il Consolato del Perù – caratterizzato da un atipico impianto asimmetrico, e che costituiva con i fabbricati limitrofi – lungo il fronte stradale – una cortina continua ed ininterrotta. La scelta progettuale dell’arretramento del piano terra – di circa tre metri – rispetto al filo stradale – ricucito grazie al portale d’ingresso, alle ringhiere e alle fioriere continue del giardino – genera una sorta di rarefazione, di pausa nella continuità dei prospetti allineati, che rimarca, con la gentilezza e la modestia, che è propria di un artista sensibile e illuminato, il carattere di moderna contemporaneità dell’intervento, estranea invece al ristretto intorno di riferimento. Tripartito classicamente, l’edificio è composto da un basamento, interamente rivestito in lastre di travertino, dal quale si generano per un processo di estrusione della superficie lapidea le porte-finestre del piano terra, da un corpo centrale, composto da quattro piani interamente balconati, ed è coronato dall’ampio parapetto-cornicione del terrazzo del piano attico arretrato. Planimetricamente, il fabbricato si risolve in una soluzione ad U, con i due bracci paralleli, occupanti in lunghezza l’intera profondità del lotto, che si aprono, salvo le camere poste agli estremi, esclusivamente sulla corte interna di risulta. Sono previsti due appartamenti per ognuno dei sei piani di cui è composto l’edificio: non fanno eccezione il piano terra e l’attico che seguono la stessa logica, di tutti gli altri i piani, di appartamenti identici, simmetrici rispetto all’asse naturale che divi- de, esattamente a metà, la configurazione chiaramente leggibile in pianta. Lungo il fronte di via Ficino sono disposti, parallelamente, tutti gli ambienti della zona giorno, mentre lungo i bracci sul retro, tutte le camere e i servizi della zona notte. Sul lato corto interno della U, contrapposti alla zona giorno, si trovano le scale condominiali, gli ascensori, e tutti i locali di servizio, tra i quali la cucina, che può godere di un ampio terrazzo. La distribuzione dei vari ambienti è affidata canonicamente a corridoi centrali, o di spina, privi di aperture, all’infuori di una grande finestra che, aprendosi su di un cavedio, interrompe, a circa due terzi del suo sviluppo, la cieca murarietà del lungo corridoio della zona notte. Se internamente, quindi, il fabbricato viene risolto in maniera piuttosto semplice, senza particolari invenzioni spaziali, una cura particolare viene posta invece nell’articolazione del prospetto principale e nella composizione delle sue parti. Sul basamento del piano terra, infatti, aggetta, a sbalzo – per più di un metro e mezzo – una seconda quinta, aerea e indipendente rispetto a quella muraria di contenimento, sottolineata dalla scansione ritmica dei travetti, a vista, che sostengono l’intradosso del balcone inferiore. La quinta avanzata, a filtro di luce e aria, è caratterizzata da una rigida maglia geometrica, la cui scansione orizzontale è data da coppie ravvicinate di pilastrini, anch’essi rivestiti interamente in travertino – secondo una ritmica seriale a|b|a|b|a|b|a|b|a|b|a – mentre quella verticale, dal ricorrere dei solai dei balconi rimarcati dallo spessore della pavimentazione leggermente in aggetto. Si viene a creare così una griglia composta, ogni piano, da sei moduli quadrati – essendo l’altezza dell’interpiano pari alla distanza maggiore che intercorre tra i montanti – intervallati dalle cinque coppie di pilastrini, il cui interasse costituisce la larghezza stessa dei 159 pannelli scorrevoli frangisole che movimentano, con la loro imprevedibilità, l’intera facciata, scardinando la percezione simmetrica e statica dell’intero edificio. Di colore chiaro, come le ringhiere dei balconi, le lunghe, stereometriche, fioriere sospese, i frangisole mobili, le strutture verticali e i piccoli parapetti in travertino che tamponano – in modo dichiaratamente e marcatamente autonomo – lo spazio residuo tra le coppie di pilastrini, i frangisole contribuiscono, rimarcando il contrasto con la scura parete di fondo – di colore verde oliva – ad esaltare la profondità dello sbalzo, ad espandere volumetricamente il vuoto che si crea tra le due facciate. Ordine e disordine, rigore e casualità coesistono in questa facciata, metafora scultorea della vita che freme, si muove e si agita, all’interno delle statiche e opache mura dell’involucro abitativo. 1 Particolare del fronte su via Ficino 160 2 Le preesistenze adiacenti l’intervento 3 Il villino ospitante il Consolato del Perù Bibliografia G. Klaus Koenig Architettura in Toscana, 1931-1968 ERI Edizioni Rai, Torino, 1968, pp. 124-137 AA VV Italo Gamberini, l’architettura dal razionalismo all’internazionalismo Edifir, Firenze, 1995, pp. 68-69 A. Bulleri Italo Gamberini: gli elementi costitutivi e la dimensione urbana del progetto ETS, Pisa, 2006, pp. 213-223 A cura di E. Insabato Guida agli Archivi di Architetti e Ingegneri e C. Ghelli del Novecento in Toscana Edifir, Firenze, 2007, pp. 185-189 F. Fabbrizzi Opere e progetti di Scuola Fiorentina, 1968-2008 Alinea, Firenze, 2008, pp. 94-107 D. Petrone Italo Gamberini, “artigiano dell’architettura” Alinea, Firenze, 2010, pp. 227-229 R. Martellacci Italo Gamberini architetto (1907-1990) Edifir, Firenze, 2011, pp. 73-94 4 Scorcio del fronte su via Ficino 161 6 Pianta piano terra, pianta piano tipo, pianta piano attico 5 Prospettiva di progetto del fronte su via Ficino 162 7 Prospetto su via Ficino 8 Sezione trasversale 163 Referenze iconografiche Le fotografie (p. 156 e 1, 4, 9, pp. 158-159, 162) e i relativi diritti, sono di proprietà dell’autore. I disegni (5-8, pp. 160-161) sono tratti da: Andrea Bulleri, Italo Gamberini: gli elementi costitutivi e la dimensione urbana del progetto, ETS, Pisa, 2006, pp. 216-220. Le fotografie storiche (2, 3, p. 158) sono tratte da: Daniela Petrone, Italo Gamberini, “artigiano dell’architettura”, Alinea, Firenze, 2010, p. 227. 9 Particolare del fronte su via Ficino 164 165 Italo Gamberini edificio per abitazioni, uffici e negozi (1957) via Luigi Alamanni, via Jacopo da Diacceto Progettato per le Assicurazioni Generali Venezia, il complesso per abitazioni, uffici e negozi, sorge, in seguito alla demolizione di un preesistente fabbricato, sull’angolo tra via Luigi Alamanni e via Jacopo da Diacceto, con un impianto planimetrico a T, che occupa l’intero lotto trapezoidale, e culmina, in corrispondenza dell’intersezione a V delle due strade, con una vera e propria torre medioevale: imponente, massiccia, con il caratteristico profilo delle antiche torri di difesa a caditoie. Nonostante sia stata decapitata, dalla Soprintendenza ai Monumenti, di un paio di piani rispetto al progetto originario, rimane comunque chiaro l’intento di Gamberini di accentuarne le connotazioni formali e di renderla l’elemento fulcro della progettazione, contrapponendola alle due ali più basse, destinate alla residenza, che le fanno da fondale. L’intero complesso è infatti costituito da tre volumi che, seppure distinti e caratterizzati da diverse soluzioni formali e compositive, trovano, nella cerniera centrale del blocco distributivo delle scale e dell’ascensore, nel basamento che li unisce su via Alamanni, nell’omogeneità dei materiali utilizzati per i rivestimenti, le coperture e per le finiture di dettaglio, una forte e inscindibile unitarietà, garantita, in primis, dal rigoroso controllo del disegno, sia alla piccola, che alla grande scala. Il volume a pianta pseudo-pentagonale, prospiciente via da Diacceto, è alto sei piani, e ospita, ad ogni piano, un singolo appartamento, mentre al piano terra un unico grande – come indicato nelle piante di progetto – “locale per affari”. L’angolo acuto di testa viene svuotato dalla massa muraria, per essere poi rimarcato dalla serie dei balconi, che ne riprendono la geometria, con parapetti in cemento faccia a vista – unici nell’intervento – ricercati, sia nel disegno generale, che in quello delle casseformi. Ogni piano è segnato – in corrispondenza dei solai, lasciati comunque a vista, e non rivestiti in laterizio – dall’arretramento, in profondità, della massa muraria che genera una scansione ritmica verticale data dall’alternarsi di luce e ombra. Se il rivestimento continuo in laterizio, e la caratterizzazione del tetto, fortemente aggettante – rivestito superiormente in rame e, inferiormente, in legno – sono caratteri comuni per l’intero complesso, l’inquadratura delle finestre e delle porte-finestre tra soglie, solai, e setti in aggetto, e il sistema dei frangisole fissi, composti da lastre monolitiche di granito, che schermano la serie di balconi in aggetto, costituiscono invece specificità riservate esclusivamente alle due ali residenziali. Come nell’edificio di via Ficino, anche in questo caso, i pannelli frangisole, con la loro dinamicità, reale – sfalsati, a coppie, piano per piano a creare un’oscillazione ritmica – e mimata – grazie all’esiguo spessore, e alle soluzioni formali di fissaggio e di rifinitura, che li rendono, almeno visivamente, simili a pannelli appesi a binari scorrevoli, pronti ad essere spostati a piacere – diventano simbolo del pulsare esistenziale dell’interno domestico che vanno a caratterizzare. Il volume, a pianta rettangolare, prospiciente via Alamanni, che costituisce il secondo blocco di residenze del complesso, è alto sette piani e ospita una coppia di appartamenti per ogni piano. Quest’ala dell’intervento è definita, per gli ultimi cinque piani, dagli stessi elementi sintattici descritti per il blocco residenziale su via da Diacceto, ad eccezione del primo piano che, destinato ad uffici, è rimarcato da una finestratura a nastro continua, e del basamento che, arretrato rispetto al filo stradale – in modo da far risultare in aggetto l’intero corpo sovrastante dell’edificio – connette il volume delle abitazioni a quello della torre per uffici d’angolo, altrimenti completamente indipendente. Il basamento, adibito ad attività commerciali, è com167 pletamente vetrato e scandito dal ritmo dai pilastri in cemento armato a vista e dalle rispettive travi ricalate che abbracciano il volume sovrastante in aggetto. La torre degli edifici, alta invece otto piani, elemento predominante e distintivo dell’intero intervento, posto in corrispondenza dell’intersezione delle due strade, è caratterizzata da una definita nitidezza stereometrica e dalla massiccia massa muraria che la costituisce. Le aperture a fasce orizzontali, sfalsate per piani, ma rimarcate da una scansione che, prolungandosi oltre i limiti dell’infisso, ne accentuano la verticalità, sono planari e non interrompono la lettura volumetrica del corpo centrale della torre. Corpo centrale, reso ulteriormente massiccio dagli smussi a 45° degli spigoli, che si configura, parimenti alle torri medioevali, aggettante rispetto alla base, anche se, in questo caso, grazie ad uno strategico “strozzamento” del piano sottostante che ne rende la suggestione plastica, e si corona con un balcone-loggiato perimetrale, eredità delle antiche altane, che ne smaterializza il volume. 1 Scorcio del fronte su via Jacopo da Diacceto 168 2 Planimetria generale dell’intervento e sezione territoriale Bibliografia G. Klaus Koenig Architettura in Toscana, 1931-1968 ERI Edizioni Rai, Torino, 1968, pp. 124-137 AA VV Italo Gamberini, l’architettura dal razionalismo all’internazionalismo Edifir, Firenze, 1995, pp. 70-71 A. Bulleri Italo Gamberini: gli elementi costitutivi e la dimensione urbana del progetto ETS, Pisa, 2006, pp. 213-223 A cura di E. Insabato Guida agli Archivi di Architetti e Ingegneri e C. Ghelli del Novecento in Toscana Edifir, Firenze, 2007, pp. 185-189 F. Fabbrizzi Opere e progetti di Scuola Fiorentina, 1968-2008 Alinea, Firenze, 2008, pp. 94-107 D. Petrone Italo Gamberini, “artigiano dell’architettura” Alinea, Firenze, 2010, pp. 230-237 R. Martellacci Italo Gamberini architetto (1907-1990) Edifir, Firenze, 2011 3 Veduta dell’angolo tra via J. da Diacceto e L. Alamanni 4 Sezione trasversale (progetto non approvato) 169 5 Prospetto di testa (progetto non approvato) 6 Prospetto di testa (progetto realizzato) 7 Particolare del vano scala principale 8 Scorcio del fronte su via Alamanni 170 9 Prospetto su via Alamanni (progetto non approvato) 10 Prospetto su via Alamanni (progetto realizzato) 11 Pianta piano terra 12 Pianta piano tipo 171 Referenze iconografiche Le fotografie (p.164 e 1, 3, 7, 8, 13, pp. 166-168, 170) e i relativi diritti, sono di proprietà dell’autore. I disegni (2, 5, 6, 9-12, pp. 166, 168-169) sono tratti da: Daniela Petrone, Italo Gamberini, “artigiano dell’architettura”, Alinea, Firenze, 2010, pp. 230-233. Il disegno (4, p. 167) è tratto da: Elisabetta Insabato e Cecilia Ghelli, Guida agli Archivi di Architetti e Ingegneri del Novecento in Toscana, Edifir, Firenze, 2007, p. 187 13 Scorcio dei tre volumi dal giardino di ingresso 172 173 Riccardo Gizdulich edificio per abitazioni e negozi (1953) via Lungo le Mura di Santa Rosa, 3 Inizialmente concepito come laboratorio artigianale, ed eretto in muratura ordinaria – con un paramento esterno in bozze di pietra forte – per l’altezza di un solo piano – più il seminterrato – il fabbricato viene, a cantiere ormai ultimato, sopraelevato, per il volere della committenza – il Fondo di Previdenza per il Personale della Cassa di Risparmio di Firenze – di tre piani, più l’attico, e destinato ad appartamenti di abitazione per i dipendenti dell’istituto bancario. L’edificio viene innalzato grazie ad un sistema costituito da una serie di telai in cemento armato, lasciati a vista sul retro dell’edificio – complanarmente alle tamponature finite ad intonaco – e riportati in avanti, a sbalzo, sul fronte che, invece, affaccia sulla strada e sulle mura prospicienti. Si crea così un quadro, diviso dalla scacchiera dei solai e dei montanti in cemento, in aggetto rispetto al basamento in pietra, e stretto, alle due estremità, da due elementi verticali, in continuità materica e di superficie con il basamento stesso. Due vere e proprie torri che costituiscono una delle parti fondanti della sintassi compositiva del progetto: la torre in pietra, memoria delle antiche case torri, diventa elemento figurativo che assolve la funzione di testa e di chiusura dello sviluppo orizzontale del corpo centrale dell’edificio, nonché quella di dialogo con le mura che fronteggiano l’intervento. Il binomio porta e vano commerciale affiancati, tipico della “bottega” della casa a schiera medioevale si rilegge, invece, nella soluzione delle aperture del piano terra, destinato ad attività commerciali e di terziario. Gizdulich, infatti, accenna a questi elementi del passato con eleganza e raffinatezza, disegnando delle grandi aperture con una leggera rastremazione verso il basso – che poi si rilega attraverso le sagomature dell’infisso al disegno unitario dei grandi sporti – di poche decine di centimetri, a circa un metro da terra: un garbato e misurato omaggio alla storia. Se il robusto basamento, sebbene ritmato dalle ampie aperture che lo trasformano quasi in un porticato, scandito dai massicci pilastri in pietra, e le severe torri laterali sono figurativamente legati al passato e in diretto dialogo con le mura e la vicina Porta di San Frediano, il corpo centrale aggettante, con la sua matrice geometrica razionalista, si combina invece con elementi di moderna contemporaneità, quali le logge in profondità che si alternano ai pieni – al secondo e al terzo piano – creando un gioco di volumi e di luci e ombre, e la soluzioni della cartella arretrata vetrata che incide orizzontalmente ogni modulo della griglia strutturale, eredità delle teorie e delle opere di Frank Lloyd Wright esposte, presso Palazzo Strozzi, nella mostra del 1951 a lui dedicata, e all’allestimento della quale lo stesso Gizdulich prende parte. La grande finestra allungata, ospitata nella cartella, e sovrastante la porta-finestra grazie alla quale si accede ai terrazzini frontali, segna i prospetti interni di tutti gli ambienti principali – tutti i locali di servizio e i corridoi di distribuzione si affacciano invece sulla corte interna – e diventa, con la sua mensola inferiore, un elemento ordinatore e di definizione dello spazio interno. La mensola infatti, assumendo diverse configurazioni, diventa architrave delle porte e delle vetrate che dividono i diversi locali, elemento di chiusura e di misura per le zone controsoffittate, elemento strutturale portante di librerie ricavate scavando le pareti divisorie, occasione di appoggio di elementi decorativi, linea di separazione per possibili diversi trattamenti materici e cromatici delle pareti e del soffitto. Ogni piano ospita tre appartamenti – ad eccezione dell’attico, diviso invece in due appartamenti, quasi perfettamente speculari – con metrature e soluzioni plani175 metricamente diverse – sebbene corrispondenti a una comune qualità compositiva che caratterizza l’intero intervento – distribuiti da un generoso vano scala centrale. L’intero fabbricato è testimonianza di un professionismo colto, attento nei confronti delle capacità espressive della materia, scrupoloso nella definizione del dettaglio, capace di concentrarsi sugli elementi costitutivi della tradizione e in grado di generarne una sintesi moderna, espressione linguistica e simbolica della coeva contemporaneità, con chiarezza programmatica e compositiva, senza cadere nel facile inganno del revival o del contestualismo mimetico. Come riassume acutamente, infatti, Grazia Gobbi Sica: «e’ evidente nella soluzione complessiva la volontà di affrontare una delle tipiche tematiche degli anni ’50 e cioè la composizione dei principi dell’architettura moderna con la presenza storico-ambientale del luogo. In questo senso l’edificio di Gizdulich dà una risposta duttile e sicura, che costituirà purtroppo il prototipo, nella città, di una serie di volgari imitazioni degli anni immediatamente successivi»1. LEGENDA 1 ingresso 2 soggiorno 3 cucina 4 camera 5 bagno 6 terrazza 5 4 4 2 6 1 1 3 3 5 2 6 4 4 6 6 2 Pianta piano attico LEGENDA note 1 Grazia Gobbi Sica, Itinerari di Firenze Moderna, Alinea, Firenze, 1987, p. 96 1 ingresso 2 soggiorno 3 cucina 4 camera 5 bagno 6 terrazza Bibliografia 4 1 Scorcio del fronte su via Lungo le Mura di Santa Rosa 176 _ G. Klaus Koenig G. Gobbi Sica Casa in S. Frediano a Firenze in “Metron”, n. 52, 1954, pp. 16-20 Architettura in Toscana, 1931-1968 ERI Edizioni Rai, Torino, 1968, pp. 83-84 Itinerari di Firenze Moderna Alinea, Firenze, 1987, p. 96 5 1 3 1 4 4 2 2 3 3 5 5 1 4 4 2 2 4 4 3 Pianta piano tipo 4 Sezione trasversale 177 5 Il cantiere della sopraelevazione 6 Le prime fasi del cantiere 7 Veduta del fronte su piazza di Verzaia 8 Scorcio del fronte sulla corte interna 178 9 Interno di un appartamento 10 Interno di un appartamento 11 Interno di un appartamento 179 Referenze iconografiche Le fotografie (p. 172 e 1, 12, pp. 174, 179) e i relativi diritti, sono di proprietà della dott.ssa Corinna Del Bianco. I disegni e le foto d’epoca (2, 4, 8, 11, pp. 175-177) sono tratti da: Casa in S. Frediano a Firenze, in “Metron”, n. 52, 1954, pp. 16-20. La riproduzione delle foto d’epoca (5-7, 9, 10 p. 176-177) è stata gentilmente concessa dall’arch. Franco Gizdulich che ne detiene la proprietà. 12 Particolare del fronte su via Lungo le Mura di Santa Rosa 181 Nino Jodice edificio residenziale (1956-59) viale Mazzini, 33-35, via Guerrazzi, 1a-1b Parte di una lottizzazione più ampia – che prevede un vasto giardino e un secondo edificio disposto perpendicolarmente alla strada, a sfondo del primo, e a chiusura del lotto – l’intervento occupa, per intero, l’angolo tra viale Mazzini e via Guerrazzi e sorge sulle spoglie della villa Ventilari di Giovanni Michelazzi (1905) – un villino liberty, con qualche leggibile concessione neorinascimentale, opera, non matura come i futuri capolavori quali il Villino Broggi-Caraceni (1910-11) o la Casa-galleria Vichima (1911), ma, tuttavia, di notevole pregio – demolita per permettere, come da previsione di piano, la saturazione del tessuto diffuso e frammentato dei villini isolati, e la creazione di nuovi quartieri residenziali a maggiore densità, volumetrica e di popolazione. L’edificio è organizzato planimetricamente su di un impianto a ferro di cavallo e ha due ingressi indipendenti, collocati nei due bracci paralleli, che si affacciano rispettivamente su viale Mazzini e sul giardino che si viene a creare su via Guerrazzi. Se i fronti interni, derivati dalla configurazione ad U, sono piuttosto regolari – ad eccezione di una rastremazione intermedia per garantire la distanza minima consentita per gli affacci contrapposti – e trattati in modo piuttosto semplice e scarno, quelli esterni sono, al contrario, dominati da una forte articolazione in alzato – su tutti i lati – e in pianta – sul prospetto principale su viale Mazzini, leggermente arretrato rispetto al filo stradale. I prospetti sono infatti immaginati come un fronte articolato, generato dall’accostamento orizzontale di volumi con larghezze ridotte, caratterizzati da diverse finiture esterne, in pietra o intonaco, da colori diversi, oppure dalla presenza di uno sporto o di una declinazione alternativa delle aperture o del loro ritmo, in una frammentazione caratteristica dell’aggregazione spontanea delle compatte case a schiera gotiche che seguivano, indipendentemente da quelle limitrofi, un proprio ordine formale, cromatico e materico, formando un insieme caotico ed imprevedibile. Elemento unificante dell’intero intervento è il basamento comune in pietra che lega e accomuna tutte le diverse sfaccettature degli articolati prospetti, così come fa la riva murata dell’Arno di borgo San Jacopo o di via de’ Bardi con i molteplici volumi che le si attestano, a sbalzo, e a diverse altezze, con regole compositive autonome e differenti (non è un caso che lo stesso Jodice sia autore di diversi interventi proprio su queste due rive murate: i disegni dei fronti lungo l’Arno, soprattutto nei profili di quello di borgo San Jacopo, sono quasi sovrapponibili, fatte le dovute proporzioni, a quelli di questo edificio). Ogni fascia verticale del fronte è caratterizzato da una combinazione, ogni volta mutevole, di finestre e portefinestre di diversa larghezza, dalla colorazione dell’intonaco, ora bianco, ora verde pastello, dai parapetti dei balconi, alternatamente molto lineari e semplici oppure caratterizzati da un disegno astratto (addirittura, per le aperture dello sporto più importante di viale Mazzini, erano previsti dei sopraluce continui sulle due portefinestre di ogni balcone – non realizzati poi in fase ese- 1 Planimetria generale dell’intervento 183 2 Planimetria precedente l’intervento e individuazione di villa Ventilari 3 Veduta di villa Ventilari (Giovanni Michelazzi - 1905) 184 cutiva – che sarebbero andati a costituire un’ulteriore tipologia di apertura diversa da tutte le altre). Si genera, in questo modo, una singolare combinazione tra la differenziazione, scandita da partiture verticali di ampiezze variabili – all’interno delle quali comunque viene rispettato un ordine e un impaginato ben preciso delle bucature – dei prospetti e la loro unitarietà sottolineata dal profilo merlato del basamento e dalla linea orizzontale del tetto a gronda sporgente – o della pensilina che lo sostituisce simbolicamente in via Guerrazzi. Nonostante la grande presenza di aperture – molte delle quali porte-finestre – il tema della massa, della murarietà, rimane comunque dominante, e in gran parte svolto dall’alto basamento in pietra, che a volte sale fino al secondo piano e, in un caso, anche fino al terzo, e ad alcuni setti intonacati, completamente lisci e privi di aperture, che si stagliano in verticale, quasi a voler riequilibrare, con la loro estrema compattezza e stereometricità, le aperture praticate nelle parti restanti del corpo di fabbrica. Alto sei piani fuori terra, più il piano seminterrato – a eccezione del braccio che affaccia sul giardino di via Guerrazzi che è alto quattro piani come l’edificio che lo fronteggia e con il quale costituisce i due fondali opposti del giardino – l’edificio ospita cinque appartamenti per ogni piano, distribuiti da due diversi vani scala, e di cui è impossibile, dall’esterno, leggerne l’articolazione. Gli appartamenti, che propongono una vasta gamma di metrature, che vanno dai 65 mq. dei più piccoli, ai 155 degli appartamenti più grandi con affaccio su viale Mazzini, sebbene canonicamente distribuiti da un corridoio centrale privo di aperture, prevedono, almeno sulla carta, la possibilità di ottenere un’inedita unitarietà degli spazi interni, in prossimità delle numerose aperture sui fronte, con setti appena accennati e pareti a soffietto – o vetrate apribili – a frazionare, in caso di necessità, l’unico ambiente in più stanze. 4 Pianta piano terra 5 Pianta piano tipo 6 Veduta del fronte su viale Mazzini 7 Scorcio del fronte su via Guerrazzi 185 8 Prospetto laterale e frontale su viale Mazzini 9 Prospetto su via Guerrazzi 186 11 Sezione longitudinale AB 10 Prospetto sul giardino 12 Particolare del fronte su via Guerrazzi 13 Dettaglio su viale Mazzini 187 Referenze iconografiche Le fotografie (p. 180 e 6, 7, 12, 13, pp. 183, 185) e i relativi diritti, sono di proprietà dell’autore. I disegni e le fotografie d’epoca (1, 2, 4, 5, 8-11, pp. 181-187) sono conservati presso l’Archivio Storico del Comune di Firenze, CF 16463 - 1235/1956 e CF 16740 - 860/1958. 14 Prospettiva di progetto del fronte su via Guerrazzi 189 Nino Jodice edificio residenziale (1956-59) via Guerrazzi, 1c-1d Complementare ad una lottizzazione più ampia – che prevede un vasto giardino e un edificio principale che occupa, per intero, l’angolo tra viale Mazzini e via Guerrazzi – l’intervento si sviluppa in profondità, perpendicolarmente a via Guerrazzi, come una quinta di sfondo al giardino interno, a chiusura del lotto di edificazione. L’edificio è organizzato planimetricamente su di un impianto rettangolare, estremamente lineare, e ha un unico ingresso – dal giardino – collocato al centro del corpo. Alto quattro piani fuori terra, più il piano seminterrato e l’attico arretrato, l’edificio ospita due appartamenti per ogni piano, ai quali è possibile accedere da un ingresso principale o da uno secondario che porta direttamente in cucina, praticamente identici per metratura e distribuzione – se si esclude una leggera differenza in corrispondenza della torre d’angolo sul fronte di via Guerrazzi – con una suddivisione canonica degli spazi e delle zone giorno e notte. Come per l’edificio principale – precedentemente analizzato – i prospetti, nonostante siano generati da una pianta molto semplice e regolare, sono trattati come un fronte articolato, grazie alla frammentazione sistematica del volume generale, in volumi con larghezze ridotte, caratterizzati da diverse finiture esterne, in pietra o intonaco, oppure dalla presenza di sporti aggettanti a diverse altezze o di una declinazione alternativa delle aperture o del loro ritmo. Il basamento comune in pietra, che lega e accomuna tutte le diverse sfaccettature degli articolati prospetti, è l’elemento unificante dell’intero intervento e partecipa a sottolineare la massiccia murarietà caratteristica dell’edificio, che trova la sua massima espressione nella soluzione d’angolo tra il giardino e via Guerrazzi. Arrivando da viale Mazzini, infatti, lo spigolo murato dell’edificio si impone, con austerità, come una torre completamente cieca, in aggetto rispetto al basamento in pietra. Uno sporto stereometrico, liscio, intonacato su tutta la superficie, pronto ad aprirsi con generose balconature sul lato corto, testa dell’edificio, prospiciente via Guerrazzi. Separato da un taglio verticale, sottolineato dal rivestimento in pietra del basamento che lo ricopre per intero, comincia poi a svilupparsi il fronte principale che si affaccia sul giardino. Una seconda torre intonacata, questa volta incisa da aperture che ne segnano la superficie, aggetta dal basamento e si pone con la stessa altezza in relazione con quella d’angolo (nel disegno di progetto, in realtà, la torre d’angolo doveva avere, oltre ad altre piccole differenze, un piano in meno, contribuendo a rendere il prospetto ancora più articolato, e meno compatto rispetto a quello effettivamente realizzato). Il prospetto prosegue poi con superfici intonacate, sempre a sbalzo – ma con imposte a diverse altezze – rispetto al basamento in pietra, che alternano balconi, finestre e porte-finestre, in una sequenza ritmica ricca di contrazioni e sospensioni. Dettagli e finiture creano un gioco di rimandi e ammiccamenti con l’edificio principale con cui costituisce un 1 Planimetria generale dell’intervento 191 2 Assonometria volumetrica per la verifica delle cubature 3 Prospetto sul giardino 192 tutt’uno compositivo: se il colore dell’intonaco e la natura della pietra di rivestimento basamentale sono gli stessi, l’orditura delle pietre è leggermente diversa, così come le ringhiere, sia quelle dei balconi, che quelle di recinzione del giardino – uniformate da un muro in pietra comune che si alza e si abbassa in corrispondenza dei cancelli di ingresso – presentano lo stesso disegno ma sono, in un caso, di colore bianco, nell’altro, marrone scuro. La grande varietà, dimensionale e tipologica, delle aperture si ripete costante, negli stessi elementi, per entrambi i blocchi, così come i principi generali di composizione, facendo in modo che l’intero intervento, seppure costituito da due edifici distinti e dalle caratteristiche morfologiche e volumetriche diverse, possa essere letto nella sua unitarietà di progetto. 4 Prospetto su via Guerrazzi 5 Pianta piano terra, pianta piano tipo, pianta piano attico 193 Referenze iconografiche Le fotografie (p. 188 e 6, p. 192) e i relativi diritti, sono di proprietà dell’autore. I disegni e le fotografie d’epoca (1-5, pp. 189-191) sono conservati presso l’Archivio Storico del Comune di Firenze, CF 16463 - 1235/1956 e CF 16740 - 860/1958. 6 Particolare del fronte su via Guerrazzi 195 Giovanni Klaus Koenig edificio per abitazioni e uffici (1967) via XX Settembre, 58 «Dopo aver esaminato a lungo i disegni e le foto e aver riguardato con attenzione qualche costruzione ho pensato che forse questa era un’altra invenzione di Giovanni Klaus Koenig (come il premio Muggia o la serie di posate apocrife...). Koenig aveva messo insieme le carte per inventare il prototipo dell’architettura della “scuola fiorentina”. C’è un continuo altalenare tra localismo e internazionalismo, tra organicità e caratteri distributivi, tra strutturalismo e decorazione. Di volta in volta, scopre l’architettura organica, il neorealismo, l’espressionismo, il neoliberty. E sempre con un certo distacco, con la volontà di non mettersi mai sotto tutela di nessun maestro, con la voglia di rinventare tutto risciacquando i panni in Arno. Il tutto sempre con una grande umanità, con simpatia per coloro che avrebbero usato le case e le cose»1. Ormai distanti quasi un ventennio, dalle prime ricostruzioni post-belliche, l’edificio di via XX Settembre viene concepito sulle basi della ricerca di una nuova espressività, giocata sulla complessità del progetto architettonico e sul raffinato studio delle parti e del loro reciproco assemblaggio, secondo principi sottesi a diverse esperienze coeve, quali – per citare alcuni esempio “vicini” – l’edificio di Franco Bonaiuti in viale Gramsci (precedentemente analizzato) che porterà poi allo sviluppo dell’interessante complesso di via Leone X del 1970 (che si lega a sua volta all’esasperata complessità dell’ Habitat di Moshe Safdie realizzato a Montreal in occasione dell’Expo del 1967), o il grattacielo di Livorno di Giovanni Michelucci. Il fabbricato di Koenig, sebbene non perseguiti l’abolizione programmatica del piano di facciata, riesce, modellando accuratamente i volumi principali con aggetti, scatti e rientranze, e enfatizzando – dimensionalmente e formalmente – le gerarchie tra le parti, a ottenere un equilibrio formale estremamente dinamico e mai scontato. La narrazione architettonica è chiara e suadente in ogni sua declinazione, e – parafrasando le stesse parole dell’autore – enfatizzando periodi, costruendo iperboli, distorcendo significati, giunge, partendo da una prosa “corretta”, a espressioni che rasentano la poesia. Impostato planimetricamente su di un impianto asimmetrico a T, con la parte residenziale che affaccia su via XX Settembre e quella destinata agli uffici che si distende invece su via Vanini, l’edificio è intriso, in ogni suo dettaglio, di echi e di memorie. La storia, quella medioevale, al pari di quella più recente, viene interiorizzata in Koenig, rielaborata e ripresentata in una veste nuova e inattesa, ora in modo serioso ed elegante, ora sfrontato e ironico. Così il ricordo della torre medioevale diventa, nel blocco scale terminale dell’ala su via Vanini, un volume compatto, massiccio, inciso da un profondo taglio verticale, punteggiato da fioriere in aggetto come calderoni pronti a rovesciare olio bollente su, eventuali, “sgraditi” ospiti, oppure, sul fronte parallelo al Mugnone, si trasfigura in una torretta esile, sospesa e in aggetto rispetto al filo della facciata, completamente svuotata dalla serie continua di bow-window sovrapposti, dai quali è formata, e coronata da un aereo gazebo con tanto di leone e bandierina. La memoria della loggia, e dello sporto fiorentino, si fondono in un loggiato passante continuo – ad eccezione del blocco arretrato dell’ingresso, in corrispondenza dell’intersezione dei due bracci – realizzato grazie ad un apprezzabile virtuosismo strutturale, di chiara matrice modernista. Una serie di cavalletti trilitici in cemento armato – costituiti da una coppia di pilastri, sdoppiati e sagomati, e da una trave, dal profilo variabile, sporgente a mensola da ambo i lati – sorreggono l’intero volume del fabbricato generando una notevole tensione tra il peso del corpo sostenuto e il vuoto, d’ombra, 197 sottostante. L’intero corpo destinato alle residenze è rivestito in mattoni sestini rustici, scandito da fasce di cemento armato – in corrispondenza dei solai – e di travertino – all’altezza dei relativi parapetti – che segnano l’altezza dei balconi, ed è coronato dal parapetto-cornicione del terrazzo del piano attico arretrato, costituito da elementi in cemento armato prefabbricati che generano una merlatura appena accennata. La facciata sul Mugnone, se per il primo piano è segnata da una serie di finestre inquadrate da una coppia di fioriere, per tutti gli altri piani è fortemente connotata dal gioco di luci e ombre creato dai balconi in aggetto, dalle profonde nicchie e dagli arretramenti progressivi delle tamponature in corrispondenza delle aperture – rivestimento in laterizio, trave a vista in cemento armato, cassone in legno dell’avvolgibile esterno, muratura intonacata, infisso in legno – che si alternano ritmicamente per l’intero sviluppo del complesso. Il corpo degli uffici invece, di dimensioni ridotte rispetto a quello delle residenze, è trattato in modo modesto e volutamente sottotono, tramite un sistema di prospetti tipo courtain-wall – pensati originariamente in legno ma realizzati, per questioni economiche e di manutenzione, in alluminio anodizzato – e concluso con un’alta copertura rivestita in rame, all’interno della quale è possibile ricavare ulteriori spazi di lavoro. L’ala residenziale è alta sei piani, più il piano attico, e ospita due ampi e lussuosi appartamenti per ogni piano, mentre quella degli uffici è alta quattro piani, più il sottotetto ed è interamente riservata ai soli ambienti di lavoro. Bibliografia Claudio Messina Me ne vado e sbatto l’uscio Giovanni Klaus Koenig. Architetture Alinea, Firenze, 1994, p. 95 A cura di E. Insabato Guida agli Archivi di Architetti e Ingegneri e C. Ghelli del Novecento in Toscana Edifir, Firenze, 2007, pp. 219-222 2 Pianta piano terra e pianta piano primo del villino preesistente 4 Pianta piano tipo 3 Planimetria generale 5 Pianta piano terra note 1 C. Messina, Me ne vado e sbatto l’uscio, Giovanni Klaus Koenig. Architetture, Alinea, Firenze, 1994, introduzione di A. Natalini, p. 9 1 Scorcio del fronte su via XX Settembre 198 199 6 Prospetto su via XX Settembre 7 Sezione trasversale 8 Prospetto su via Vanini 9 Prospetto sul passaggio laterale 200 10 Particolare del fronte su via XX Settembre 11 Scorcio del fronte su via XX Settembre 12 Scorcio del fronte su via Vanini 201 Referenze iconografiche Le fotografie (p. 194 e 1, 10-13, pp. 196, 199-200) e i relativi diritti, sono di proprietà dell’autore. I disegni e le fotografie d’epoca (2-9, pp. 197-198) sono conservati presso l’Archivio Storico del Comune di Firenze, CF 17310 - 1668/ 1962 e CF 17634 - 506/1965. 13 Particolare del fronte su via XX Settembre 203 Giovanni Michelucci edificio INA casa per abitazioni e negozi (1954-57) via Guicciardini, via dello Sprone, 1 Realizzato per l’Istituto Nazionale delle Assicurazioni (INA), l’edificio posto in angolo tra via Guicciardini e via dello Sprone – nelle immediate vicinanze di Piazza Pitti – rappresenta, nella casistica degli interventi per la ricostruzione delle zone intorno a Ponte Vecchio, l’esempio più riuscito di confronto e dialogo con la città storica. Probabilmente grazie anche al lungo tempo di maturazione – la fabbrica vede la sua ultimazione quasi dieci anni dopo l’inizio delle operazioni di ricostruzione – Michelucci riesce ad elaborare un progetto che, senza cedere alla tentazione del mimetismo, opera il recupero della tradizione e della storia, non come atto di mero formalismo e stilismo, bensì come riappropriamento di valori e qualità spaziali e simboliche andate perdute. I temi ambientali ricorrenti, le specificità locali, vengono scomposte, analizzate attentamente nei propri elementi e riassemblate, in una interpretazione nuova della città storica, riuscendo a figurare lo spirito della città stessa, senza rinunciare ad una espressione architettonica personale e contemporanea. Magistrale figurazione – soprattutto sul lato prospiciente via dello Sprone – di quel carattere di solidità e compattezza muraria tipicamente fiorentino, l’edificio diventa, esso stesso, segno iconico del carattere murario della città, di quell’equilibrio sbilanciato fra l’involucro murario e le bucature, della prevalenza massiccia dei pieni sui vuoti. L’edificio è organizzato secondo un impianto planimetrico ad L costituito da due corpi di fabbrica indipendenti – serviti da altrettanti vani-scala – collegati da un androne voltato che immette in una corte interna. Il primo, quello su via Guicciardini, è composto da otto appartamenti duplex, distribuiti da un ballatoio coperto – posto al livello inferiore di ogni serie di appartamenti – che si sviluppano per l’intera profondità del corpo di fabbrica. Il fronte principale, impaginato in 204 quattro fasce verticali dai poderosi montanti verticali, rastremati verso l’alto, e interrotti dalle linee verticali dei balconi e dei marcapiano in cemento, ha un aspetto duro e fortemente connotato – i vuoti sono scavi profondi e affogati nell’ombra – mentre quello laterale più mite, interamente rivestito in pietra forte per l’intera altezza, è caratterizzato dal gioco delle minute finestre si rincorre e si alterna con quello delle porte-finestre prive di balcone. Si compone così, in corrispondenza dell’angolo tra le due strade, la visione di una imponente – contemporanea – casa-torre, accentuata dalla tensione materica e formale dello spigolo che si carica di forti e intense valenze evocative. Il secondo corpo invece, interamente sviluppato su via dello Sprone, è composto da due appartamenti per piano e, seppure trattato formalmente quasi in sottotono, rispetto al primo appena descritto, presenta una facciata articolata comunque nei tre registri canonici del “palazzo”: basamento in pietra forte, corpo residenziale completamente intonacato con bucature – porte e porte-finestre – alternate e sfalsate, e coronamento finale, caratterizzato dall’arretramento dell’ultimo piano – con il conseguente formarsi di un lungo terrazzo coperto dal tetto aggettante – a ricordare le antiche altane. Tetti severi, con un accentuato sporto di gronda, rimarcano, con le loro lunghe e dense ombre, il culmine superiore dell’edificio stesso, contribuendo a quell’equilibrio generale che rende quest’opera – nonostante Michelucci dichiari che non sia tra quelle che più ama – un capolavoro delicato e discreto. «E infatti basterebbe un nonnulla – un diverso trattamento della pietra-forte, lavorata a macchina e non a scalpello, per esempio – per far spostare l’immagine o verso il compromesso dell’ambientazione mimetico-scenografica, o verso la sordità dell’opera del modernista insensibile. Basta 205 dimenticare il rapporto (che non si legge nei disegni frontali) fra il fianco murato, con le piccole aperture disposte liberamente come nelle antiche torri, e il fronte, elaborato come uno spazio interno, in netto rapporto con la strada (di cui costituisce una parete), per togliere all’immagine globale, che è quella che percepiamo di scorcio, quell’equilibrio fra simmetria ed asimmetria, fra ordine e libertà, che abbiamo visto essere tipico dell’ambiente toscano. E ancora: sarebbe sufficiente che i pilastri del fronte, decrescenti in larghezza e leggermente disassati, fossero stati disegnati con meno sensibilità – tutti dritti, per esempio – per trasformare la firma di Michelucci in quella di Ballio Morpurgo. E’ comprensibile perciò che chi è ancora legato alle grosse battaglie razionaliste per l’architettura moderna non possa né apprezzare queste sfumature, né ammettere che fra un capolavoro e una bruttura possano passare solo cinque centimetri, una grana di materiale, e poco d’altro»1. Bibliografia note 1 G. Klaus Koenig, Architettura in Toscana, 1931-1968, ERI Edizioni Rai, Torino, 1968, p. 79 1 L’angolo tra via Guicciardini e via dello Sprone 206 2 Planimetria generale 3 Pianta piano terra, pianta piano secondo, pianta piano terzo N. De Mayer Due edifici di Giovanni Michelucci a Firenze, in “Casabella-continuità”, n. 229/1959 M. Dezzi Bardeschi Giovanni Michelucci, casa d’abitazione a Firenze, in “La casa”, n. 6, 1959 M. Dezzi Bardeschi L’architecture italienne, in “Architecture (L’) d’Aujourd’hui”, 113-114/1964 F. Clemente, L. Luigi Giovanni Michelucci, il pensiero e le opere Bologna, 1966 F. Borsi Giovanni Michelucci Libreria editrice fiorentina, Firenze, 1966 L. Lugli Giovanni Michelucci, il pensiero e le opere Istituto di Architettura ed Urbanistica, Bologna, 1966, pp. 114-117 G. Klaus Koenig Architettura in Toscana, 1931-1968 ERI Edizioni Rai, Torino, 1968, pp. 73-101 M. Cerasi Michelucci De Luca, Roma, 1968 C. Cresti Appunti storici e critici sull’architettura italiana dal 1900 ad oggi, G&G, Firenze, 1971 F. Borsi Elementi di città o del realismo utopico, in “La città di Michelucci”, cat. della mostra a cura di E. Godoli, Basilica di S. Alessandro, 30. 4. - 30. 5. 1976, Fiesole, 1976 M. C. Buscioni Michelucci, il linguaggio dell’architettura Officina, Roma, 1979 A. Belluzzi, C. ConfortiGiovanni Michelucci. Catalogo delle opere Electa, Milano, 1986 G. Gobbi Sica Itinerari di Firenze Moderna Alinea, Firenze, 1987, p. 103 A. Esposito Giovanni Michelucci, Itinerari Domus in “Domus”, n. 692, 1988 L. Macci Nuove stagioni della città: progetti e architetture, Electa, Milano, 1993 E. Godoli Architetture del Novecento: la Toscana Polistampa, Firenze, 2001 AA VV Giovanni Michelucci, 1891-1990 Electa, Milano, 2006, p. 232 AA VV L’architettura in Toscana dal 1945 a oggi Alinea, Firenze, 2011, p. 55 207 4 Prospetto su via Guicciardini 6 Prospetto su via dello Sprone 208 5 Sezione trasversale EF 7 Particolare del fronte su via dello Sprone 8 Particolare del fronte su via Guicciardini 9 Scorcio del fronte sulla corte interna 209 Referenze iconografiche Le fotografie (p. 202 e 1, 7-10, pp. 204, 207-208) e i relativi diritti, sono di proprietà dell’autore. I disegni (2-6, pp. 204-206) sono tratti da: N. De Mayer, Due edifici di Giovanni Michelucci a Firenze, in “Casabella-continuità”, n. 229/1959, pp. 12-29. 10 Particolare del fronte su via Guicciardini 211 Giovanni Michelucci edificio per abitazioni e negozi (1956-60) via Guicciardini, 26 Minata nell’agosto del 1944, alla vigilia dell’inaugurazione, la casa-galleria di Eugenio Ventura – collezionista d’arte e mecenate – viene ricostruita, sempre su progetto di Giovanni Michelucci – che aveva firmato anche la prima, sfortunata, soluzione di cui non sono rimaste testimonianze né grafiche, né fotografiche – su quei locali che avevano, storicamente, ospitato le scuderie del prospiciente palazzo Guicciardini. L’edificio ha un aspetto duro e fortemente connotato: i vuoti sono scavi profondi e affogati nell’ombra e il tetto, con la gronda in forte aggetto, corona il fabbricato in modo severo e deciso. Il fronte su via Guicciardini può essere chiaramente letto nella sua partitura verticale, composta da tre fasce: quella inferiore, destinata originariamente alla galleria – oggi a negozi – dominata dai due grandi e profondi vuoti – dell’ingresso alle abitazioni e delle vetrine – divisi da un imponente pilastro in pietra, e le due fasce superiori, segnate dallo spessore delle travi in cemento armato che diventano marcapiano, e caratterizzate dallo sfalsamento dello stesso disegno delle aperture che scarta, da un piano all’altro, generando, all’interno dello spartito preciso dei ricorsi verticali, un dinamico elegante squilibrio. Dal generoso scavo della galleria fuoriescono due vetrine scatolari, sospese da terra, aggettanti verso l’esterno, che riecheggiano agli antichi banconi di vendita che sporgevano sulla strada – protetti dagli sporti sovrastanti – tipici della “bottega” della casa a schiera medioevale. Un massiccio portone in legno cela invece l’ingresso all’atrio e alla scala condominiale. L’imponente pilastro che separa, asimmetricamente, i due vuoti del piano terra, presenta un trattamento plastico del rivestimento in pietra forte dato dallo sfalsamento programmatico del piano di posa di alcune lastre – presen- te già nei disegni di progetto – che generano, al variare della luce, scultorei effetti di luce e ombra. I due piani superiori, che ospitano rispettivamente un solo appartamento per piano, si distinguono invece, dalla fascia basamentale del piano terra, per l’uso del cemento a vista, dell’intonaco ritmato da listelli di botticino e per le ampie finestrature continue che incidono orizzontalmente quasi l’intero prospetto. Finestrature, con infissi e montanti in legno che riprendono la partitura di quelli in botticino, sottolineate da ininterrotti ricorsi orizzontali che diventano, da soglia, balaustra per le porte-finestre – con balcone leggermente in aggetto – o generano un sopraluce continuo, tagliando, per l’intera lunghezza, la serie di finestre e porte-finestre. «Le due case di via Guicciardini – come ci racconta Giovanni Klaus Koenig – son fra i pochi esempi positivi della ricostruzione del centro di Firenze, e, come abbiamo già notato, furono anche fra le ultime ad essere ricostruite, nel 1956-57; dopo che Michelucci aveva atteso per vari anni alla loro progettazione, in una lunga serie di varianti e di prove. [...] Quando mi è capitato di di accompagnare in via Guicciardini un architetto o un critico straniero (senza far nomi, dirò però che si trattava di persone famose), a cui facevo vedere con orgoglio uno dei rarissimi esempi in cui l’antico e il nuovo andavan d’accordo, mi son visto guardare con stupore, e talvolta con disappunto, come se non fosse valso la pena di arrivare fin lì per vedere una cosa così insignificante. Il che fa indubbiamente riflettere. Delle due l’una: o le case di Michelucci sono un fenomeno puramente locale, che noi dilatiamo con gli occhi amorevoli del discepolo; oppure, il suo è un discorso così sottile da non poter essere capito da chi non capisce perfettamente l’ambiente architettonico toscano. Forse la verità, come 213 spesso avviene, sta nel mezzo: è un’esperienza limitata, e che quindi non può avere risonanza al di fuori di coloro che sono a conoscenza del particolare codice architettonico che denota le cose fiorentine. Però, il valore di questa esperienza è tale da superare questi limiti e da imporsi nel mondo dell’arte; esattamente come le poesie del Belli, che chi non conosce il romanesco non potrà mai gustare veramente, ma che rientrano a pieno diritto nella storia della poesia italiana»1. note 1 G. Klaus Koenig, Architettura in Toscana, 1931-1968, ERI Edizioni Rai, Torino, 1968, p. 78 Bibliografia N. De Mayer Due edifici di Giovanni Michelucci a Firenze, in “Casabella-continuità”, n. 229/1959 L. Lugli Giovanni Michelucci, il pensiero e le opere Istituto di Architettura ed Urbanistica, Bologna, 1966, p. 130 G. Klaus Koenig Architettura in Toscana, 1931-1968 ERI Edizioni Rai, Torino, 1968, pp. 73-101 A. Belluzzi, C. ConfortiGiovanni Michelucci. Catalogo delle opere Electa, Milano, 1986, p. 113 G. Gobbi Sica Itinerari di Firenze Moderna Alinea, Firenze, 1987, p. 109 A. Esposito Giovanni Michelucci, Itinerari Domus in “Domus”, n. 692, 1988 L. Macci Nuove stagioni della città: progetti e architetture, Electa, Milano, 1993 AA VV Giovanni Michelucci, 1891-1990 Electa, Milano, 2006, pp. 184-185 2 Prospetto su via Guicciardini 1 Pianta piano seminterrato, pianta piano terra, pianta piano primo 214 3 Sezione trasversale 4 Scorcio del fronte su via Guicciardini 215 Referenze iconografiche Le fotografie (p. 210 e 4, 5, pp. 213-214) e i relativi diritti, sono di proprietà dell’autore. I disegni (1,3, pp. 212-213) sono tratti da: G. Gobbi Sica, Itinerari di Firenze Moderna, Alinea, Firenze, 1987, p. 109 Il disegno (2, p. 213) è tratto da: A. Belluzzi, C. Conforti, Giovanni Michelucci. Catalogo delle opere, Electa, Milano, 1986, p. 113. 5 Particolare del fronte su via Guicciardini 217 Ugo Saccardi edificio per abitazioni (1962-63) piazza Conti, 7 «Fra gli architetti della generazione laureata nel dopoguerra [...] dobbiamo citare Ugo Saccardi, anch’egli professore alla facoltà fiorentina di Architettura, autore di un edificio in piazza Conti, che è un esempio unico, a Firenze, di quel tipo edilizio che a Roma si chiama “palazzina”, così scaduto da far entrare nel gergo degli architetti il termine dispregiativo palazzinaro per indicare il progettista succube del volere delle imprese edilizie. Ma se questo dispregio è sacrosanto a Roma [...] ben diversamente avviene a Firenze, dove certe strade e piazze dell’ampliamento del primo Novecento non possono che guadagnare dagli interventi come quello operato dal Saccardi. Il quale ha saputo nobilitare questo genere tipologico con un robusto ed al tempo stesso raffinato giuoco di terrazze sfalsate, dal linguaggio organico (è forse l’edificio fiorentino dove l’influsso di Wright è più evidente); e con alcune finezze in cui si riconosce l’insegnamento di Michelucci, come quella delle tamponature in pietraforte, che contribuiscono all’accordo con l’ambiente di una così notevole emergenza formale»1. La palazzina di piazza Conti sorge su di un lotto d’angolo, precedentemente occupato da un villino a due piani con un ampio terrazzo sulla piazza, di forma trapezoidale, con due lati che affacciano sulla corte interna, e due prospicienti rispettivamente, via Marsilio Ficino, e la piazza stessa. L’influenza delle teorie e delle opere di Frank Lloyd Wright – la mostra, a lui dedicata, nel 1951 a Palazzo Strozzi ha notevoli ripercussioni nella riflessione architettonica del tempo – ispira la serie di piani sfalsati indipendenti e aggettanti che si allargano, sporgendo, in ogni direzione che, diventando il tema conduttore del progetto, rappresentano un vero e proprio omaggio urbano alla famosa casa Kaufmann. Ogni piano dell’edificio è infatti marcatamente segnato dalla presenza di lunghi balconi aggettanti, completamente 218 intonacati che – sfalsati di piano in piano – generano un ritmico alternarsi di pieni e di vuoti, andando a sbalzo, ora da un lato, ora dall’altro, in un controllato gioco di squilibri ed equilibri dinamici. A tenere unito, l’intero discorso architettonico, lame verticali rivestite in pietraforte e, vere e proprie, cascate di vetro – rimarcate dai montanti degli infissi in legno continui – percorrono per tutta l’altezza il fabbricato, generando dei punti fissi di equilibrio, capaci di dare slancio verticale ed accentuare allo stesso tempo, per contrasto, le spinte orizzontali delle fasce intonacate dei balconi. Così, se la cascata naturale non esiste, si prende in prestito quella metaforica, fatta di luce, della stazione ferroviaria di Santa Maria Novella. Ma l’insegnamento dei maestri non si ferma ai soli aspetti generali, a quelli compositivi di massima, ma arriva fino alla definizione dei dettagli. Recependo la sentita critica di Michelucci ai rivestimenti in pietraforte che andavano, in nome di una ricercata integrazione di carattere ambientalistico, a ledere la sincerità strutturale dell’edificio che veniva completamente negata, affogata dietro il paramento lapideo di rivestimento, Saccardi decide di denunciare il carattere non strutturale delle tamponature in pietra, lasciando a vista i pilastri in cemento armato e distanziando il rivestimento lapideo dalla struttura – trasformandolo, a tutti gli effetti, in un pannello applicato sulla muratura – attraverso delle profonde e ampie fughe. Anche il setto perpendicolare alla facciata, in corrispondenza dell’ingresso – e il cui rivestimento prosegue anche all’interno dell’atrio – pur essendo completamente rivestito in pietra, non sfugge a questa chiarezza di lettura. Infatti, ogni volta che il setto incontra uno dei balconi sovrastanti, o la pensilina che sottolinea l’ingresso, il proprio rivestimento si interrompe e, grazie ad una fuga pronunciata, ne svela la vera natura. 219 1 Planimetria generale La palazzina è alta quattro piani, più il piano attico e un seminterrato riservato alla rimessa delle auto, alle cantine e all’appartamento del portiere. Per ogni piano sono previsti due ampi appartamenti, brillantemente distribuiti, ricchi di servizi e locali accessori. Evidentemente pensati per una medio-alta borghesia, gli appartamenti – ognuno di circa 180 mq. – prevedono, oltre a quello principale, un ingresso secondario che apre direttamente nei locali della cucina. Ogni stanza è generosamente illuminata da grandi aperture e, in linea di massima, è dotata di un accesso ad uno dei numerosi balconi. I vasti soggiorni si articolano alla luce delle grandi vetrate continue, da terra a soffitto, che segnano, verticalmente – come abbiamo già visto – i due fronti principali dell’edificio. Le qualità, non solo della composizione formale esterna, ma anche delle soluzioni degli ambienti interni, il loro stretto legame, l’attenzione e la cura dei dettagli, nell’ottica di una chiarezza sintattica di composizione, rendono, ancora oggi, questa palazzina un raro esempio di attento e colto professionismo. 4 Pianta piano terra note 1 G. Klaus Koenig, Architettura in Toscana, 1931-1968, ERI Edizioni Rai, Torino, 1968, p. 173 Bibliografia 2 Particolare del prospetto su piazza Conti 220 G. Klaus Koenig G. Gobbi Sica AA VV Architettura in Toscana, 1931-1968 ERI Edizioni Rai, Torino, 1968, pp. 173-174 Itinerari di Firenze Moderna Alinea, Firenze, 1987, p. 125 L’architettura in Toscana dal 1945 a oggi Alinea, Firenze, 2011, p. 63 3 Particolare del fronte su piazza Conti 5 Pianta piano tipo 221 6 Prospetto su via Ficino 7 Prospetto su piazza Conti 8 Modello originale 9 Modello originale 222 10 Sezione trasversale AB 11 L’angolo tra piazza Conti e via Ficino 12 Scorcio del fronte su via Ficino 223 Referenze iconografiche Le fotografie (p. 216 e 3, 11-13, pp. 219, 221-222) e i relativi diritti, sono di proprietà dell’autore. La riproduzione dei disegni (1, 4-7, 10, pp. 218-221) è stata gentilmente concessa dal prof. arch. Roberto Corazzi che ne detiene la proprietà. I disegni e le fotografie d’epoca (2, 8, 9, pp. 218, 220) sono conservati presso l’Archivio Storico del Comune di Firenze, CF 17009 - 285/1961. 13 Particolare del fronte su piazza Conti 225 Leonardo Savioli edificio per abitazioni (1964-67) via Piagentina, 29 Posto all’incrocio tra una delle arterie più trafficate della città – via Piagentina – e una strada invece molto silenziosa e senza sfondo – via San Giovanni Bosco – l’edificio viene concepito da Savioli – in collaborazione con Danilo Santi – sia per lo sviluppo verticale, che per il trattamento monomaterico delle superfici esterne – in cemento faccia a vista – come una vera e propria casa-torre. Una torre moderna, frutto delle ricerche sperimentali grafiche e progettuali del suo autore, esemplare, allo stesso tempo, della caratteristica murarietà fiorentina, della storica parsimonia delle bucature, qui caotiche e puntiformi, come i fronti stradali della città gotica, nati dall’accostamento successivo e disordinato delle case a schiera. L’intera fabbrica, che si imposta su di un impianto a terra a V – legato alle direzioni convergenti delle strade che delineano la forma del lotto – si frammenta e si articola in molteplici volumi verticali di altezze e dimensioni diverse. Spicca su tutti quello del blocco distributivo delle scale condominiali e dell’ascensore che segna con potenza l’angolo dell’edificio – in corrispondenza dell’incrocio delle due strade – dandogli l’aspetto di una fortificazione medioevale, compatta e impenetrabile. I volumi massicci, attraverso operazioni reiterate di aggiunte, manipolazioni, e di modifiche progressive, si caricano di potenti episodi plastici tesi, non solo a ricreare la sensazione di verticalità, ma anche ad accentuarne i caratteri di severità e chiusura. Una progettazione architettonica condotta grazie a una “memoria storica” interiorizzata e metabolizzata, in grado di generare un dialogo stretto con il passato della città – assecondando valori e aspirazioni del tempo – ma senza rinunciare al gesto architettonico originale e autografo. Il trattamento dei volumi che, di volta in volta, aggettano o vengono scavati, giocando con le ombre e il variare delle stesse durante la giornata, l’attenzione minuta e ossessiva per ogni aggettivazione e dettaglio, l’equilibrata e ricercata composizione di tutte le parti – apparentemente in ordine sparso e caotico – contribuiscono a creare un’immagine fortemente legata alla città storica. Gli articolati aggetti, gli sporti, gli imprevisti volumi a sbalzo, rimandano direttamente alle provvisorie sovrastrutture in legno che, accessorie alla torre in pietra, caratterizzavano il paesaggio medioevale della città. A chiudere la narrazione architettonica, sul braccio di via Piagentina, un imponente tetto ogivale si stende, col suo pronunciato aggetto, a coprire generosamente corpi principali e corpi secondari, come un grande cappello unificante e protettivo. Alto sei piani, nel blocco su via Piagentina e quattro, in quello su via San Giovanni Bosco, l’edificio ospita, a configurazioni variabili, uno o due appartamenti per piano. Quando l’appartamento si stende sull’intero piano – occupando quindi entrambi i blocchi – si configura con una zona notte, distribuita in modo tradizionale da un corridoio centrale – nel braccio su via Piagentina – e con una zona giorno invece – nel braccio su via San Giovanni Bosco – costituita da un unico volume unitario, frazionabile attraverso pareti scorrevoli, che prevede uno scultoreo camino, posto al centro dello spazio principale. Elemento fisso e inamovibile, ma in grado di gerarchizzare gli spazi che gli ruotano intorno e suggerire utilizzi diversi per le diverse zone, il camino diviene pretesto per creare un’articolazione complessa e articolata, sia dello spazio che dei volumi stessi che lo compongono. La cura estrema degli interni, generosamente definiti da elementi plastici, strutturali e funzionali, sempre formalmente e simbolicamente significativi, così come quella delle scelte espressive che caratterizzano l’intero intervento, è confermata dalle parole dello stesso Savioli: «L’edificio ha funzione residenzia227 1 Pianta piano tipo 2 Prospetto su via Piagentina 228 le, con appartamenti da vendersi o da affittarsi. Nonostante il tema necessariamente generico, dato l’utente generico, il progetto tende ugualmente a caratterizzarsi. Alcuni quartieri occupano per intero l’area costruita, altri, più economici, ne occupano la metà. In tutti i casi è stata preoccupazione di conferire un carattere differenziato da appartamento ad appartamento. La pianta interna tende a risolvere una certa continuità spaziale anche mediante l’uso di pareti scorrevoli. [...] Il fabbricato è realizzato in cemento armato. Le pareti di 15 cm. (5 cm. di cemento, 5 cm. di frigolit [polistirolo espanso], 5 cm. di cemento) rimangono in materiale a faccia a vista tanto nell’interno che all’esterno. La coibenza termica di una parete così formata è uguale a quella di una parete di mattoni pieni di 50 cm. Nell’interno, solo in alcune zone (a fianco dei letti, del tavolo da pranzo o in altri punti) vengono disposti pannelli a stucco. I condotti della luce e del riscaldamento passano in scatolari che hanno la funzione di battiscopa. Le curve delle pareti di cemento sono di due raggi soltanto in modo che con due casseforme si realizza l’opera di carpenteria. [...] Gli infissi sono in cemento per la parte fissa, e legno naturale per la parte mobile. Quelli di cemento sono prefabbricati e modulari in modo che con gli stessi elementi si possano ottenere combinazioni numerose. [...] La parziale prefabbricazione, il sistema costruttivo rapido ed elementare, l’uso del materiale, il mezzo termologico messo in evidenza piuttosto che nascosto od arricchito da rifiniture, dovrebbe esso stesso, costituire motivo di espressione»1. note 1 AAVV, Leonardo Savioli: il segno generatore di forma-spazio, Edimond, Firenze, 1995, pp. 120-121 Bibliografia M. Dezzi Bardeschi Il senso della storia nell’architettura italiana degli ultimi anni, in “Comunità”, n. 130, 1965, p. 55 A cura di G. Fanelli Leonardo Savioli UNIEDIT, Firenze, 1966, pp. 207-221 L. V. Masini Triennale itinerante di architettura in “La Biennale”, n. 59, 1965, p. 63 R. Pedio Edificio per abitazioni a Firenze, in “L’architettura, cronache e storia”, n. 138, 1967, pp. 810-812 G. Klaus Koenig Architettura in Toscana, 1931-1968 ERI Edizioni Rai, Torino, 1968, pp. 153-161 P.C. Santini Architetture recenti di Leonardo Savioli in “Ottagono”, n. 14, 1969, p. 90 A. Sposito Una struttura ‘nuova’ a Firenze in “L’industria italiana del cemento”, n. 10, 1969, pp. 725-740 _ Unità di architettura, in “Interni”, n. 33, 1969, pp. 2-15 _ Edificio a Firenze in “Architecture (L’) d’Aujourd’hui” n. 161, 1972, pp. 66-68 AA VV Leonardo Savioli UNIEDIT, Firenze, 1974, pp. 34-35 F. Brunetti Leonardo Savioli architetto Dedalo, Bari, 1982, pp. 45-49 M. Tafuri Storia dell’Architettura Italiana, 1944-1985 Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 1985, p. 102 G. Gobbi Sica Itinerari di Firenze Moderna Alinea, Firenze, 1987, p. 149 AAVV Leonardo Savioli: il segno generatore di forma-spazio, Edimond, Firenze, 1995, pp. 120-128 C. Cresti Firenze, capitale mancata, architettura e città dal piano Poggi a oggi, Electa, Milano, 1995, pp. 352-358 AA VV L’architettura in Toscana dal 1945 a oggi Alinea, Firenze, 2011, p. 71 3 Particolare del fronte su via Piagentina 229 7 Prospetto su via San Giovanni Bosco 4 Particolare del fronte su via Piagentina 5 Interno di un appartamento (soggiorno-ingresso) 230 6 Particolare del vano scala e ascensore 8 Prospetto sulla corte interna 9 Disegno di studio di un fianco dell’edificio 231 Referenze iconografiche Le fotografie (p. 224 e 3, 4, 6, 10, pp. 227-228, 230) e i relativi diritti, sono di proprietà dell’autore. Il disegno (1, p. 226) è tratto da: Edificio a Firenze, in “Architecture (L’) d’Aujourd’hui” n. 161, 1972, pp. 66-68. I disegni (2, 7, 8, pp. 226, 229) sono tratti da: R. Pedio, Edificio per abitazioni a Firenze, in “L’architettura, cronache e storia”, n. 138, 1967, pp. 810-812. I disegni e le fotografie (5, 9, pp. 228-229) sono tratti da: AAVV, Leonardo Savioli: il segno generatore di forma-spazio, Edimond, Firenze, 1995, pp. 120-128. 10 Particolare del fronte su via Piagentina 233 Pierluigi Spadolini edificio per abitazioni (1968-70) via Guerrazzi, 10 Seppure in modo originale, legato ad un’attenzione rivolta verso gli aspetti della prefabbricazione e della modularità, anche l’edificio di Pierluigi Spadolini in via Guerrazzi rivela una predilezione, tutta fiorentina, per la massa muraria, per la dominanza dei pieni sui vuoti, giocata, non con le accentuazioni locali dei bugnati in pietra forte e delle estese superfici in intonaco liscio, bensì attraverso l’utilizzo di listelli verticali di emalux – una graniglia di pietra forte impastata con resine trasparenti – di un colore che, assieme a quelli degli infissi in legno, delle finiture in ferro, colore testa di moro, e della copertura in tegole di cotto bruciato, sintetizza la cromaticità del paesaggio cittadino circostante, riprendendo, per dirlo come era solito fare Italo Gamberini, “il colore di Firenze vista dal Piazzale Michelangelo in un giorno di sole, socchiudendo gli occhi”. L’intero disegno della facciata è dato dalla riproduzione seriale dell’elemento in emalux, applicato su di una struttura portante completamente occultata, segnato da scanalature verticali – a sezione parzialmente circolare, come per le antiche colonne greche – che generano una superficie incerta, ondulata, segnata dall’alternarsi ininterrotto di luci e ombre. La presenza, o meno, dei pannelli definiscono i pieni e i vuoti, secondo una scansione ritmica pressoché casuale: un espediente utilizzato, assieme alla sagomatura del rivestimento, per dinamizzare il disegno delle facciate, ulteriormente accentuato dai leggeri sfalsamenti dei piani, che sbalzano, ora in un verso, ora nell’altro. Le aperture che ne risultano vanno quindi da piano a piano e, sia nelle logge in profondità, che nei tagli in pelle dei pannelli-parete, sono costituite da porte-finestre, con gli infissi e i cassonetti degli avvolgibili in legno – mentre gli avvolgibili sono di colore bianco, in contrasto con il colore del rivestimento dei fronti – e protette da balaustre in ferro, colore testa di moro, regolate da un disegno costituito dalla composizione multipla di più circonferenze di diverso diametro e dalla presenza di pochi, essenziali, elementi orizzontali. Dalla relazione di progetto, firmata dallo stesso Spadolini, si legge che il progetto della nuova costruzione nasce «in sostituzione dell’attuale villino [...] in una zona di saturazione S/2 compresa fra i viali e la ferrovia FirenzeRoma» e che «dato che esistono alberature di alto fusto sul fronte e dato l’allineamento dei fabbricati esistenti, si ritiene di mantenere la stessa ubicazione dell’edificio preesistente anche su precisa richiesta della Soprintendenza ai Monumenti [...] Si è cercato di dare al nuovo edificio non il ruolo di un’edilizia di riempimento ma di mantenergli un ruolo significativo quale poteva essere quella del villino preesistente. E’ stato particolarmente curato lo studio sui quattro fronti ed un volume leggermente articolato con uno studio approfondito dei materiali e dei colori medesimi»1. Ancora oggi, il fabbricato è schermato da una grande vegetazione e dalle alberature storiche che lo filtrano e lo allontanano dal fronte stradale, mantenendo, come da intento programmatico, il carattere dei villini del primo Novecento, preesistenti nell’area. L’intento di voler preservare le alberature esistenti porta ad insolite soluzioni, come quella dell’ingresso – al piano terreno e costituito da un solo piano – in corrispondenza del blocco scale di distribuzione, estroflesso verso il giardino – come la testa di una tartaruga – e con una singolare configurazione tesa a salvaguardare i due alberi che, sorgendo sui due lati, “strizzano” metaforicamente, al centro, il volume del corpo aggiunto. La finitura esterna del vano scala – che fuoriesce, in parte, rispetto al volume dell’edificio – realizzata con un grigliato di elementi in laterizio, rappresenta l’unica 235 eccezione alle regola del pannello-parete in emalux. L’edificio, alto sei piani, ospita due appartamenti, al primo e al piano terra, mentre, ai piani superiori, l’intera superficie è coperta da un solo, vasto, appartamento. note 1 Relazione di progetto, Busta n° 1021/68, conservata presso l’Archivio Storico del Comune di Firenze, CF 17979 1968-1021 Bibliografia 1 Pianta piano tipo G. Klaus Koenig G. Gobbi Sica Francesco Gurrieri 2 Pianta piano terra 3 Planimetria generale 236 Architettura in Toscana, 1931-1968 ERI Edizioni Rai, Torino, 1968, pp. 167-172 Itinerari di Firenze Moderna Alinea, Firenze, 1987, p. 126 Pierluigi Spadolini, Umanesimo e tecnologia Electa, Milano, 1988, p. 140-141 4 Particolare del fronte su via Guerrazzi 5 Scorcio del fronte sul giardino di ingresso 6 Scorcio del fronte su via Guerrazzi 237 7 Prospetto sul giardino di ingresso 9 Prospetto su via Guerrazzi 238 8 Sezione trasversale 10 Dettaglio della soluzione di facciata 239 Referenze iconografiche Le fotografie (p. 232 e 4-6, 11, pp. 235, 238) e i relativi diritti, sono di proprietà dell’autore. I disegni (1-3, 7-10 pp. 234, 236-237) sono conservati presso l’Archivio Storico del Comune di Firenze, CF 17979 - 1021/1968 e CF 21011 - 1592/1969. 11 Particolare della soluzione d’angolo 241 Francesco Spinelli edificio per abitazioni (1958-62) via Guerrazzi, 1m-1n L’intervento occupa un’area piuttosto estesa, che si attesta sull’angolo tra via Guerrazzi e via Varchi, e fa parte di una più ampia manovra urbanistica di sviluppo e densificazione del tessuto cittadino, fino ad allora costituito da villette isolate e di ridotte dimensioni. Inizialmente presentato con una soluzione planimetrica a U, posta parallelamente ai lati del lotto, subisce, nel tempo, una serie di modificazioni, dovute in parte anche ad alcune prescrizioni della sovrintendenza, che, in questo non raro, ma comunque fortunato, caso, contribuiscono a migliorare notevolmente il risultato finale. La nuova articolazione planimetrica prevede una configurazione a T con un corpo, bene evidenziato, lo sviluppo del quale si legge su via Guerrazzi – mentre la testa spicca su via Varchi – e uno invece decisamente arretrato su via Varchi – tanto da creare un giardino lungo il filo stradale – dotato di una piccola “coda” che chiude la corte interna sul retro. La linearità e la serialità dei fronti della prima proposta, geometricamente definiti dal reticolo ortogonale della struttura in cemento armato, vengono disarticolati nel progetto definitivo, per assumere un valore espressivo nuovo, simbolico della varietà e della frammentazione del tessuto medioevale della città. L’articolazione dei prospetti, generata dall’aggregazione successiva di volumi con larghezze e profondità differenti, caratterizzati da una diversa finitura esterna, in pietra o intonaco, oppure dalla presenza di uno sporto o di una declinazione alternativa delle aperture o del loro ritmo, è tenuta insieme dal possente basamento in pietraforte, che lega l’intero intervento e lo rende coeso, proseguendo – sotto forma di muro di recinzione – anche in presenza del giardino su via Varchi. Su via Guerrazzi, invece, il basamento si alza, con le proporzioni di una vera e propria casa torre – raggiun- gendo l’altezza dell’attico arretrato – diventando una cerniera tra le due parti planimetricamente sfalsate – e definizioni formali diverse – che costituiscono il volume principale. Infatti se il rapporto con gli edifici adiacenti è giocato con un arretramento del corpo di raccordo – segnato da grandi finestre a nastro e una terrazza coperta al quinto e ultimo piano – rispetto al basamento, la soluzione d’angolo è affidato ad un grande volume a sbalzo, su ambo i lati, che riecheggia per massa, peso e la presenza di una grande terrazza coperta all’ultimo piano, gli sporti dei palazzi storici e le loro altane. Il massiccio volume d’angolo, quasi un transatlantico adagiato sul basamento in pietra – esaltato dalla doppia trave ricalata, lasciata a vista, che fuoriesce dal basamento, a sostenere lo sbalzo – accusa la matrice geometrico-razionalista – retaggio della prima proposta – del telaio strutturale riportato in facciata che, riquadrando finestre e porte-finestre in un gioco formale alquanto scontato, lo rende – soprattutto sul fronte di testa di via Varchi – non all’altezza del resto della composizione e di certe altre, invece azzeccate, soluzioni progettuali. Internamente, ogni appartamento – tre per ognuno dei cinque piani, più quello dell’attico, serviti dal nucleo centrale delle scale e degli ascensori – è ben curato e prevede, nonostante una distribuzione tradizionale, soluzioni, soprattutto per le zone giorno, influenzate dalle coeve ricerche contemporanee. Si notano infatti, sia in pianta, che in sezioni, particolari attenzioni agli elementi dello spazio interno e alla sua articolazione, alla flessibilità degli spazi, separabili all’occorrenza grazie all’uso delle tende, all’elemento camino che diviene pretesto per gerarchizzare gli spazi e creare un’articolazione complessa e articolata del soggiorno, in cui spiccano – in sezione – le celebri poltrone progettate da Carlo Mollino per casa Minola nel 1944. 243 4 Scorcio del fronte su via Varchi 1 Planimetria generale dell’intervento 2 Sezione trasversale 244 3 Dettaglio del prospetto su via Guerrazzi 5 Particolare del fronte su via Varchi 6 Particolare del fronte su via Guerrazzi 245 7 Prospetto su via Guerrazzi (progetto non approvato) 8 Prospetto su via Guerrazzi (progetto realizzato) 9 Pianta piano terra (progetto non approvato) 10 Pianta piano terra (progetto realizzato) 246 11 Prospetto su via Varchi (progetto non approvato) 12 Prospetto su via Varchi (progetto realizzato) 13 Pianta piano tipo (progetto non approvato) 14 Pianta piano tipo (progetto realizzato) 247 Referenze iconografiche Le fotografie (p. 240 e 4-6, 15, pp. 243, 246) e i relativi diritti, sono di proprietà dell’autore. I disegni (1-3, 7-14 pp. 242, 244-245) sono conservati presso l’Archivio Storico del Comune di Firenze, CF 16583 - 1760/1956. 15 L’angolo tra via Guerrazzi e via Varchi 249 Francesco Spinelli edificio per abitazioni e negozi (1958-59) via Lamarmora, 31-31a Sorto in sostituzione di un preesistente edificio e di un piccolo annesso indipendente, l’edificio progettato da Francesco Spinelli va a occupare l’angolo tra via Alfonso Lamarmora e via Gustavo Modena, con un articolato impianto planimetrico ad S che permette all’ingegnere di riallinearsi, ponendosi come prosecuzione dei prospetti adiacenti, con i due fronti stradali e di mantenere il giardino – già esistente – in corrispondenza dell’incrocio tra le due strade. Conservare il vuoto, la “sosta” verde, in corrispondenza dell’angolo del lotto costituisce, assieme alle altezze dei fabbricati limitrofi, uno dei vincoli principali che determina la brillante, e allo stesso tempo, singolare composizione volumetrica dell’edificio. L’angolo tra le due strade è sottolineato da un muro perimetrale – a chiusura del giardino privato delle residenze – che altro non è che la prosecuzione, oltre il costruito, del basamento in pietra forte. Una pensilina in cemento armato, sorretta dagli esili montanti delle inferriate e dei cancelli di ingresso, sovrasta, sospesa, il muro perimetrale – proteggendolo – e prosegue lungo le facciate, diventando una copertura per l’ingresso dei garage – su via Modena – e per quello dei negozi – su via Lamarmora – e generando una linea continua che unisce, abbracciandolo in ogni sua parte, l’intero intervento. Rispetto alla prima proposta di progetto, si assiste ad una progressiva frammentazione del volume principale – concepito compatto e unitario – che assume connotazioni formali e materiche anche molto diverse, al variare della distribuzione interna e dell’orientamento nel lotto. Un elemento verticale in pietra forte, che sale dal basamento fino a ricoprire l’intera facciata – echeggiando la snellezza e, allo stesso tempo, la massa e la compattezza delle case torri medioevali – viene interposto, come una cerniera di mediazione, tra il volume principale d’angolo, a sbalzo rispetto al basamento, e l’edificio preesistente limitrofo. Se il blocco rivestito in pietra – che racchiude la zona notte di uno dei due appartamenti in cui è diviso ogni piano – viene inciso lungo l’asse centrale – sottolineato dai parapetti, formati da lastre piane in marmo “fior di pesco”, dal sapore de stijl – dalle aperture delle camere, il volume d’angolo – che accoglie invece la zona giorno – è interamente vetrato. Scandita orizzontalmente dal susseguirsi dei solai in cemento e dai ricorsi in legno che, all’altezza di un metro, segnano il passaggio tra il vetro opalino inferiore e quello trasparente superiore – diventando, in corrispondenza dei balconi, la parte terminale di un parapetto in legno costituito da elementi orizzontali – la grande parete vetrata angolare è ritmata dai montanti delle finestre a tutt’altezza che ospitano le guide degli avvolgibili esterni e caratterizza, con grande chiarezza linguistica, l’angolo su via Lamarmora. Meno rigoroso, ma comunque sapientemente giocato, l’angolo su via Modena che si abbassa per instaurare un rapporto dialettico con gli edifici adiacenti. Questo secondo blocco, dall’interno del quale sembra fuoriuscire il volume vetrato, si articola, alternando piano per piano e sui diversi fronti, balconi e partiture piene intonacate, logge e telai strutturali che emergono dalle tamponature, generando una tensione compositiva di pieni e di vuoti ordinatamente caotica, che, per contrasto, si differenzia nettamente con il blocco su via Lamarmora. L’edificio, alto sette piani – più il piano attico arretrato – ospita al piano terra – a doppia altezza – i negozi e i garage, e una coppia di appartamenti – distribuiti da un blocco scale condominiale, collocato nell’intersezione dei due bracci – ad ogni piano. Ogni appartamento è dotato di un doppio ingresso, uno principale attraverso il quale si accede a un grande 251 atrio, e uno secondario, che porta invece, attraverso un piccolo disimpegno, alle cucine. Dall’atrio d’ingresso, sul quale si affacciano direttamente i locali del soggiorno e della sala da pranzo, si sviluppano poi indipendentemente, serviti da corridoi interni ben differenziati, la zona notte e quella dei locali di servizio. Se la zona giorno dell’ala, la cui testa si affaccia su via Modena, è articolato in locali separati e distinti, dotati di balconi, quella dell’ala con fronte su via Lamarmora, si sviluppa invece in un unico grande spazio libero, illuminato dal generoso sistema di vetrate d’angolo, che doveva accogliere, secondo il progetto depositato, un camino, la cui canna fumaria, rivestita in pietra forte, avrebbe segnato verticalmente l’arrestarsi della parete finestrata e l’apertura dei balconi laterali che mediano la chiusura dello “sporto” sull’elemento torre, in pietra, che riprende invece il filo del basamento. Il sapiente uso dei materiali, in relazione agli elementi compositivi e alla loro sintassi, l’articolazione dei volumi – ora in aggetto sul basamento, ora in continuità – l’approfondito e ricercato studio dei dettagli e delle soluzioni tecnologiche, la varietà delle soluzioni formali e il loro reciproco dialogo, all’interno di un disegno unitario, rendono questo progetto un interessante esempio di architettura residenziale in grado di dialogare con il tessuto cittadino circostante, senza rinunciare ad essere espressione viva di moderna contemporaneità. 1 Planimetria generale dell’intervento 252 2 Pianta dell’edificio preesistente e pianta dei tetti dell’edificio realizzato 4 Prospettiva dall’incrocio su via Lamarmora (progetto non approvato) 3 I resti del fabbricato demolito su via Lamarmora 5 Prospetto su via Lamarmora (con lievi modifiche rispetto al costruito) 253 6 Prospetto su via Modena (con lievi modifiche rispetto al costruito) 7 Sezione trasversale (con lievi modifiche rispetto al costruito) 8 Pianta piano terra 9 Pianta piano tipo 254 10 Dettaglio del prospetto su via Lamarmora 11 Scorcio del fronte su via Lamarmora 12 Particolare degli ingressi su via Lamarmora 255 Referenze iconografiche Le fotografie (p. 248 e 11-13, pp. 253-254) e i relativi diritti, sono di proprietà dell’autore. I disegni e le fotografie d’epoca (1-10, pp. 250-253) sono conservati presso l’Archivio Storico del Comune di Firenze, CF 16707 - 189/1958, CF 16876 - 1576/1959. 13 Particolare del fronte su via Modena 257 Paolo Tincolini e Delfo Del Bino edificio per abitazioni (1960) viale Mazzini, 15-17 L’edificio di viale Mazzini, progettato dagli architetti Paolo Tincolini e Delfo Del Bino nasce, in sostituzione di una villino preesistente a due piani, su di un profondo lotto di forma trapezoidale. Impostato planimetricamente con una configurazione a T, il fabbricato è costituito da un blocco maggiore, alto sei piani, che, parallelamente al viale, occupa l’intero fronte del lotto – ad esclusione del varco laterale, lasciato per l’accesso carrabile alle autorimesse con ingresso nella corte posteriore – e da uno di dimensioni ridotte, e alto un piano in meno, perpendicolare al primo. Per ogni piano sono previsti due appartamenti: il più grande si sviluppa dal fronte su viale Mazzini, per occupare interamente il braccio posteriore proteso nella corte interna, mentre l’altro, concentrato interamente nel volume maggiore, affaccia sul viale godendo di quasi due terzi delle porte-finestre del fronte principale. Il prospetto dell’edificio viene concepito, inizialmente, secondo la logica tripartita del palazzo storico: basamento in pietra – alto due piani nelle prime proposte – corpo centrale – caratterizzato da fasce orizzontali vetrate continue, segnate solo dallo spessore dei solai – e coronamento realizzato attraverso il leggero arretramento del piano attico. Sebbene sia presente, già nella prima proposta di progetto, una riquadratura asimmetrica, lievemente in aggetto, della fascia vetrata, solo nella seconda, questa comincia ad assumere le proporzioni dello sporto effettivamente realizzato. Il fronte, nella sua versione definitiva, è diviso in tre fasce verticali e presenta un basamento in pietra per la sola altezza del piano terra. Tutta la parte vetrata è fortemente scandita dal disegno delle porte-finestre in legno che, con la loro modularità, danno la misura dell’edificio stesso. Le due fasce di sinistra, della stessa larghezza – composte da 3 moduli ciascuna – sono in aggetto, rispetto al basamento, per i primi quattro piani e terminano con un balconcino continuo, e ulteriormente a sbalzo, che le unisce entrambe. La fascia di destra invece, leggermente più ampia delle altre due – costituita da 4 moduli, ulteriormente suddivisi da una parasta centrale – prosegue, fino alla copertura aggettante, per ricongiungersi planarmente al piano attico del resto dell’edificio, costituendo così una sorta di L che abbraccia lo sporto a sbalzo asimmetrico. E’ interessante notare come tutte le soluzioni adottate, e che hanno progressivamente mutato il prospetto fino a farlo diventare quello che tutti noi oggi possiamo osservare, costituiscano un processo di localizzazione e di ibridazione di un modello geometrico razionalista che invece caratterizzava la prima proposta. Infatti, sulla base del disegno del telaio strutturale intonacato, color bianco, si sovrappongono una serie di elementi tesi a riconnotare l’intero intervento: il basamento in pietra dal bugnato appena accennato, la copertura - seppure piana - aggettante verso la strada, la frammentazione delle ampie vetrate - definite dalla semplice maglia strutturale portata in avanti rispetto al filo del basamento - in finestrature minute, fortemente segnate dal disegno degli infissi in legno, ma soprattutto all’articolazione plastica che frammenta, con uno sporto asimmetrico, l’unitarietà planare della superficie, andando a ricreare quel gioco di assemblaggi caratteristico dell’aggregazione spontanea tipico del tessuto gotico della città. 259 2 Planimetria generale 1 Scorcio del fronte su viale Mazzini 260 3 Veduta del villino preesistente 4 Prospetto su viale Mazzini (prima proposta) 5 Prospetto su viale Mazzini (seconda proposta) 6 Pianta piano terra (con lievi modifiche rispetto al costruito) 7 Pianta piano tipo (con lievi modifiche rispetto al costruito) 261 9 Prospetto sul passaggio laterale (seconda proposta) 8 Dettaglio del prospetto su viale Mazzini (prima proposta) 262 10 Sezione trasversale (con lievi modifiche rispetto al costruito) 11 Scorcio del fronte su viale Mazzini 12 Particolare del’ingresso 13 Particolare del fronte su viale Mazzini 263 Referenze iconografiche Le fotografie (p. 256 e 1, 11-14, pp. 258, 261-262) e i relativi diritti, sono di proprietà dell’autore. I disegni e le fotografie d’epoca (2-10, pp. 258-260) sono conservati presso l’Archivio Storico del Comune di Firenze, CF 16930 - 946/1960. 14 Particolare del fronte su viale Mazzini 265 Epilogo «Non c’è – il tempo ce lo fa capire – una verità, né la verità: di ogni cosa ci sono due verità, specie in quest’epoca straordinaria nella quale tutto si trasforma e tutto (ecco già le due verità di una realtà) resta eterno nell’eterno fluire del tempo, fattore immutabile, ed eterno proprio perché si muta, perché si trasforma continuamente; transuente [...] esistono sempre, idealmente (almeno) due verità, la realtà è il drammatico conflitto della loro coesistenza perenne [...] noi dobbiamo rappresentarci questa ambivalenza; salvo figurarci poi il nostro ideale, abbandonarci alla nostra preferenza, alla nostra parzialità: ma sempre nella consapevolezza del contrario; questa la regola del buon gioco [...] e’ onesto però che la contraddizione non sia un’arma veritas, per rappresentare meglio a noi stessi le cose, nei due (o più) aspetti della realtà: loro coesistenza. [...] del resto ognuno ha una sua interpretazione diversa di quel che legge o conosce: questa interpretazione è la sua verità: infinite verità, dunque: questa è la mia, o le mie»1. Gio Ponti note 1 G. Ponti, Amate l’architettura, Vitali e Ghianda, Genova, 1957 premessa, pp. XII-XIII 266 267 Ringraziamenti Voglio anzitutto ringraziare il prof. Ulisse Tramonti, non tanto per il prezioso aiuto e le puntuali indicazioni – perché, parafrasando Umberto Eco, è di cattivo gusto ringraziare il tutor per il proprio lavoro – ma soprattutto per l’immensa pazienza, la fiducia datami per anni, a scatola chiusa, e le piacevoli chiacchierate davanti alla macchinetta del caffè. Un grazie all’arch. Paolo di Nardo che mi ha aiutato, nel primo, traumatico e turbolento periodo di dottorato, a darmi lo spunto essenziale per iniziare la ricerca; quella con il titolo giusto. Un enorme ringraziamento va alla prof.ssa Maria Vittoria Capitanucci che mi ha brillantemente illuminato sulle vicende del professionismo colto milanese del secondo dopo-guerra, grazie a numerosi, e immensamente utili, scambi di e-mail – riportanti, per altro, orari improbabili – e podistiche, allegre, ed estremamente piacevoli, conversazioni nel centro di Milano. Impossibile non ringraziare, per tutto il materiale originale che mi hanno messo generosamente a disposizione, l’arch. Maddalena Bonaiuti, che mi ha accolto, seguito e aiutato con caloroso affetto e impagabile attenzione, l’arch. Franco Gizdulich per avermi permesso di ficcanasare liberamente in giro per il proprio studio, il prof. Roberto Corazzi che, non senza emozione, mi ha mostrato, perfettamente conservati, i disegni di piazza Conti di Ugo Saccardi. Un particolare ringraziamento va al personale dell’Archivio Storico del Comune di Firenze che, con estrema disponibilità e scrupolosa attenzione, mi hanno sempre aiutato in questi anni di ricerca, nonostante le, a volte, nebulose e incomplete indicazioni in mio possesso. Fondamentale faro di riferimento, che ha seguito me, così come tutti gli altri dottorandi, garantendomi sanità mentale e sicura tranquillità, per quanto riguardava tutti gli adempimenti, gli aspetti burocratici, e non, del dottorato, è stata Grazia Poli che si merita un abbraccio grande. Un sentito grazie a Riccardo Renzi, al quale ho fatto veramente una testa quadra – per non dire di peggio – con tutte le miei questioni, teoriche e non, per avermi sempre risposto con gentilezza e pazienza, per avermi consigliato, aiutato e sostenuto durante tutta la mia ricerca e per aver gioito con me per la conclusione della stessa. Un grazie agli altri dottorandi, Federica, Gabriele, Riccardo, Dalia e Flavio che con me hanno condiviso gioie e dolori di questi anni e con i quali mi sono divertito molto, a lavorare, ma anche, e forse soprattutto, ad uscire insieme la sera, quando la facoltà era ormai chiusa. Grazie ai miei amici storici – le solite fave – ai coinquilini del quarto piano – Ornella e Alessio – agli amici lontani – Aurel e Marula per tutti – alla mitica squadra di frisbee – di cui faccio fieramente parte – e a tutti quelli che hanno sopportato con affetto le mie carambolesche disavventure e che mi hanno sempre sostenuto e incoraggiato. Grazie a Laura che, leggendo la prima stesura della tesi, mi ha rassicurato con uno stupito: “...ma dai, non è nemmeno troppo noiosa, pensavo peggio!” e a Lucia che mi ha iniziato – provvidenzialmente – all’uso dei trattini. Un gigantesco ringraziamento va a Corinna, perché senza di lei, senza i suoi consigli, i continui stimoli, il supporto costante, senza le sue caustiche – ma estremamente proficue – provocazioni, il suo affettuoso sostegno, il suo impareggiabile aiuto, e senza il suo naturale e contagioso entusiasmo, questa tesi non sarebbe così, come adesso la state vedendo. Un pensiero va infine al prof. Paolo Iannone al quale devo, architettonicamente parlando, gran parte del poco che so. Grazie mamma, e grazie babbo. 268