INTRODUZIONE
Il lavoro interdisciplinare di cui tanto oggi si parla, non è un confronto tra discipline già costituite
(nessuna delle quali in fondo è disposta a lasciarsi andare). Per fare qualcosa d’interdisciplinare
non basta scegliere un “soggetto” (un tema) e raccogliervi attorno due o tre scienze.
L’interdisciplinarietà consiste nel creare un nuovo oggetto che non appartiene a nessuno (R.
Barthes).
Nei programmi didattici per la scuola primaria (premessa generale, parte I, paragrafo Educazione
alla convivenza democratica), si afferma: “La scuola deve operare perché il fanciullo abbia
consapevolezza delle varie forme di diversità e d’emarginazione allo scopo di prevenire e
contrastare la formazione di stereotipi o pregiudizi nei confronti di persone e culture”.
Il presente lavoro offre una delle strade possibili: la concreta esperienza di sé e dell’altro attraverso
il teatro e le sue molteplici e polimorfe dimensioni espressive, per giungere ad una prassi educativa
che risponda concretamente all’esigenza di una comunicazione interculturale, capace di rendere
conto delle diversità senza assolutizzarle. Una pedagogia “della transizione” che educhi a
comprendere, a gestire ed a rendere fruttuosi i mutamenti e le trasformazioni, attraverso un continuo
dialogo e confronto con se stessi, con il proprio “essere nel mondo” e con gli altri, persone in carne
ed ossa, nel rispetto del proprio ed altrui vissuto personale, sociale e culturale.
La reciprocità dialogica è il fulcro del mio discorso, a partire dall’elemento che lo caratterizza:
l’interdisciplinarietà, ovvero una contaminazione tra prospettiva antropologica, percorsi educativi e
linguaggi espressivi/comunicativi nella sperimentazione teatrale.
I quadri teorici ed empirici cui farò riferimento saranno utilizzati per problematizzare l’incontro con
“il diverso da sé” mettendo a confronto gli strumenti ed i metodi utilizzati dalle discipline chiamate
in causa, in maniera critica ma costruttiva. E’, infatti, mia intenzione, tanto rendere evidente in che
misura il cammino verso un cambiamento, cosciente e consapevole degli errori passati e delle
potenzialità future, si possa realizzalizzare costruendo ponti tra una verità ad un’altra quanto di
restituire alla “interculturalità” come esperienza, la complessità che le è propria, l’interazione che
ne rappresenta il presupposto, la dinamicità che le è intrinseca.
I confini tra osservatore ed osservato (nella ricerca antropologica), tra identità connotate
culturalmente, tra insegnanti e allievi, tra apprendimento logico e sviluppo creativo, tra mente e
corpo, saranno messi, nel corso della mia analisi, continuamente in discussione, attraversati e
frammentati, al fine di evidenziare come, proprio dallo “sconfinamento”, può generarsi
un’interazione fondata su una reale comprensione di sé e degli altri.
Tenuto conto di quanto detto finora, nel primo capitolo intendo soffermare l’attenzione sul processo
di definizione, interpretazione e decostruzione del concetto di cultura, per arrivare a comprendere,
al di là di ogni strumentalizzazione, il senso, il valore e le potenzialità progettuali di quella che
viene definita interculturalità. Attraverso un iniziale excursus storico disciplinare
dell’antropologia culturale, evidenzierò il graduale passaggio da una visione statica e coerente
(presente nell’antropologia classica) che si pone davanti ai sistemi culturali come a dei dati
oggettivamente osservabili e classificabili, ad una prospettiva dinamica e contestuale che guarda
agli “universi di significato” come ad ambiti di verità costruite da negoziare, luoghi di
simbolizzazione dai confini in dissolvenza: l’emergere della visione, nell’era moderna, di
un’intersecarsi di contesti culturali in cui, come sostiene Clifford, “i frutti puri impazziscono”.
Esplicativo, in tal senso, vuole essere l’esempio statunitense: il tentativo, dagli inizi del XX secolo,
di contenere e delimitare i differenti gruppi etnici attraverso strategie assimilazioniste e segregatrici
(melting-pot e salat-bowl) che non risultano però in grado di arrestare l’inevitabile processo di
meticciamento ed ibridazione culturale.
Nel secondo capitolo, la circolarità e l’interdipendenza che lega il concetto di cultura e di
educazione, attraverso i processi di inculturazione, socializzazione e trasmissione culturale,
introdurranno il discorso su un ipotetico quanto auspicabile “faccia a faccia” tra l’approccio
dialogico, cui fa riferimento la moderna ricerca antropologica, ed il tentativo di creare un sistema
educativo non più basato su relazioni ‘verticali’, bensì su principi di reciprocità, finalizzati ad una
pedagogia critica e problematizzante. Intendo quindi analizzare il possibile contributo che
l’esperienza “sul campo” dell’antropologia può fornire alla ricostruzione di una nuova e differente
prassi pedagogica attraverso il dinamico confronto tra i binomi: antropologo/nativo e
educatore/educando. Vorrei inoltre far emergere, da questo confronto, una nuova prospettiva di
educazione/comunicazione interculturale, che non significhi semplicemente rendere evidenti le
differenze d’usi, costumi, segni e simboli di culture altre, né tantomeno praticare uno scambio
culturale come se si trattasse di un baratto tra manufatti preconfezionati, bensì un’interazione che
sia innanzitutto esperienza concreta di persone concrete che mettano in gioco identità differenti in
una relazione tutt’altro che predefinita.
L’esigenza di trovare un luogo di decentramento in cui poter mettere in gioco se stessi, le proprie
percezioni, il proprio vissuto, la propria identità culturale con altri diversi da sé, mi ha fatto volgere
lo sguardo verso il teatro, laddove il ruolo di quest’ultimo può essere quello di trasmettere, tramite il
confronto in una situazione condivisa, “il gusto fuggevole di un altro mondo in cui quello della
quotidianità si integra e si trasforma” (Brook, 1990: 215).
Nel terzo capitolo (che chiude la prima parte di lavoro), infatti, l’educazione e l’antropologia si
rincontreranno nello spazio teatrale, come possibilità di sperimentare nuovi linguaggi comunicativi
in un luogo pluriforme, polifonico e dinamico, in cui labile è il confine tra ciò che è familiare e
ciò che è estraneo. Un laboratorio di sperimentazione in cui si dissolve la demarcazione tra attori e
spettatori, tra ribalta e retroscena, ed il ribaltamento dello spazio scenico diventa, in un certo senso,
la metafora del desiderio di sovvertire le apparenti ovvietà, di mettere in discussione le proprie
prospettive. Il mio tentativo sarà dunque di dare evidenza ad uno spazio, quello teatrale, in cui,
attraverso il superamento della dicotomia tra intelligenza logica ed intelligenza creativa, tra
rappresentazione e percezione, tra gioco e realtà, tra “me” e “l’altro”, Il sistema educativo, in
particolare la scuola, potrebbe, in un certo senso, ritrovare un’anima, una nuova linfa vitale in grado
di stimolare una rinnovata progettualità di metodi e di prospettive. D’altro canto, proprio
l’educazione interculturale potrebbe, in tale contesto espressivo/comunicativo, divenire finalmente
sinonimo del “fare esperienza”, attraverso le proprie emozioni, le proprie paure, il proprio
disorientamento dinanzi all’inconsueto, il proprio desiderio di scoprire nuovi mondi possibili,
l’opportunità di immedesimarsi “nei panni di…”. L’ipotesi che il teatro possa essere un luogo
idoneo a favorire una reale dialogica interazione tra culture differenti e che un’educazione
interculturale possa, in tal senso, divenire realmente capace di insegnare ad aprirsi al cambiamento,
a generare trasformazioni, a mettersi in gioco in un dinamico sistema di relazioni, mi ha spinto a
voler verificare concretamente e personalmente quanto ipotizzato ed intuito.
L’ultima parte del presente lavoro sarà, infatti, la rielaborazione di una mia attiva e sentita
partecipazione osservante, un patchwork di esperienze, di vissuti, di sensazioni, di ricordi che hanno
l’occasione di emergere e di prendere forma nel e grazie al teatro. Ugualmente protagonisti sono
Abdul - attore marocchino che ha trovato nel teatro (e nell’incontro con me) la possibilità di
reinterpretare il proprio vissuto e di renderlo comunicabile e condivisibile - e i bambini, invitati ad
intraprendere con lui un viaggio attraverso luoghi al confine tra il reale e l’immaginario, a scoprire e
familiarizzare con linguaggi, oggetti, suoni, segni, simboli sconosciuti ma gradualmente
comprensibili, tanto da riscoprirsi, infine, in un luogo in cui giocando ci si ritrova, insieme, a
ridefinire se stessi e l’intera situazione, in uno spazio (interno ed esterno) in costante
trasformazione.