Rosaria Cozzolino
DAGLI SHORFA AL TEATRO
Verso uno spazio teatrale per nuovi
percorsi di
Educazione Interculturale
Tesi di laurea in
ANTROPOLOGIA CULTURALE
Università degli studi “La Sapienza” di Roma
Facoltà di Sociologia
INDICE
INTRODUZIONE
PRIMA PARTE
1° CAPITOLO - INTERCULTURA: LA
COMPRENSIONE NEGOZIATA
1.1
1.2
Dall’osservazione alla negoziazione
Dal melting pot all’intercultura: una
decostruzione per la comprensione
2° CAPITOLO - EDUCAZIONE
INTERCULTURALE: LA COMPLESSITA’ DI UNA
NUOVA PRASSI EDUCATIVA
2.1 Cultura e educazione
2.2 Educare alla reciprocità: antropologia culturale e
educazione a confronto
2.3 Educazione interculturale: nuovi percorsi per culture
impure
3°CAPITOLO - TEATRO E EDUCAZIONE
INTERCULTURALE: UNA TRAMA DA
CONNETTERE.
3.1 Animazione teatrale e educazione dialogica: giocare
ad essere…
3.2 Rappresentazione e percezione nella <<Animazione
antropologica>>
3.3 Il teatro nell’educazione interculturale: una prassi
attraverso confini in dissolvenza
SECONDA PARTE
PREMESSA METODOLOGICA
4° CAPITOLO - DALLA MEMORIA AL TEATRO
4.1 Gli orizzonti della Cooperativa Teatro Laboratorio
4.2 Abderrahim El Adiri: un’identità in transizione
4.3 Frammenti culturali in gioco: Heina e il Ghul e Sotto
la tenda
5° CAPITOLO - ESPERIENZE IN PATCHWORKS
5.1 Dallo straniamento alla condivisione: Heina e il Ghul
5.2 Insieme, sotto la tenda
CONCLUSIONI
APPENDICE
BIBLIOGRAFIA
INTRODUZIONE
Il lavoro interdisciplinare di cui tanto oggi si parla, non è un
confronto tra discipline già costituite (nessuna delle quali in fondo è
disposta a lasciarsi andare). Per fare qualcosa d’interdisciplinare
non basta scegliere un “soggetto” (un tema) e raccogliervi attorno
due o tre scienze. L’interdisciplinarietà consiste nel creare un nuovo
oggetto che non appartiene a nessuno (R. Barthes).
Nei programmi didattici per la scuola primaria (premessa generale,
parte I, paragrafo Educazione alla convivenza democratica), si
afferma: “La scuola deve operare perché il fanciullo abbia
consapevolezza delle varie forme di diversità e d’emarginazione allo
scopo di prevenire e contrastare la formazione di stereotipi o
pregiudizi nei confronti di persone e culture”.
Il presente lavoro offre una delle strade possibili: la concreta
esperienza di sé e dell’altro attraverso il teatro e le sue molteplici e
polimorfe dimensioni espressive, per giungere ad una prassi
educativa che risponda concretamente all’esigenza di una
comunicazione interculturale, capace di rendere conto delle diversità
senza assolutizzarle. Una pedagogia “della transizione” che educhi a
comprendere, a gestire ed a rendere fruttuosi i mutamenti e le
trasformazioni, attraverso un continuo dialogo e confronto con se
stessi, con il proprio “essere nel mondo” e con gli altri, persone in
carne ed ossa, nel rispetto del proprio ed altrui vissuto personale,
sociale e culturale.
La reciprocità dialogica è il fulcro del mio discorso, a partire
dall’elemento che lo caratterizza: l’interdisciplinarietà, ovvero una
contaminazione tra prospettiva antropologica, percorsi educativi e
linguaggi espressivi/comunicativi nella sperimentazione teatrale.
I quadri teorici ed empirici cui farò riferimento saranno utilizzati per
problematizzare l’incontro con “il diverso da sé” mettendo a
confronto gli strumenti ed i metodi utilizzati dalle discipline
chiamate in causa, in maniera critica ma costruttiva. E’, infatti, mia
intenzione, tanto rendere evidente in che misura il cammino verso un
cambiamento, cosciente e consapevole degli errori passati e delle
potenzialità future, si possa realizzalizzare costruendo ponti tra una
verità ad un’altra quanto di restituire alla “interculturalità” come
esperienza, la complessità che le è propria, l’interazione che ne
rappresenta il presupposto, la dinamicità che le è intrinseca.
I confini tra osservatore ed osservato (nella ricerca antropologica),
tra identità connotate culturalmente, tra insegnanti e allievi, tra
apprendimento logico e sviluppo creativo, tra mente e corpo, saranno
messi, nel corso della mia analisi, continuamente in discussione,
attraversati e frammentati, al fine di evidenziare come, proprio dallo
“sconfinamento”, può generarsi un’interazione fondata su una reale
comprensione di sé e degli altri.
Tenuto conto di quanto detto finora, nel primo capitolo intendo
soffermare l’attenzione sul processo di definizione, interpretazione e
decostruzione del concetto di cultura, per arrivare a comprendere, al
di là di ogni strumentalizzazione, il senso, il valore e le potenzialità
progettuali di quella che viene definita interculturalità. Attraverso
un iniziale excursus storico disciplinare dell’antropologia culturale,
evidenzierò il graduale passaggio da una visione statica e coerente
(presente nell’antropologia classica) che si pone davanti ai sistemi
culturali come a dei dati oggettivamente osservabili e classificabili,
ad una prospettiva dinamica e contestuale che guarda agli “universi
di significato” come ad ambiti di verità costruite da negoziare, luoghi
di simbolizzazione dai confini in dissolvenza: l’emergere della
visione, nell’era moderna, di un’intersecarsi di contesti culturali in
cui, come sostiene Clifford, “i frutti puri impazziscono”.
Esplicativo, in tal senso, vuole essere l’esempio statunitense: il
tentativo, dagli inizi del XX secolo, di contenere e delimitare i
differenti gruppi etnici attraverso strategie assimilazioniste e
segregatrici (melting-pot e salat-bowl) che non risultano però in
grado di arrestare l’inevitabile processo di meticciamento ed
ibridazione culturale.
Nel secondo capitolo, la circolarità e l’interdipendenza che lega il
concetto di cultura e di educazione, attraverso i processi di
inculturazione,
socializzazione
e
trasmissione
culturale,
introdurranno il discorso su un ipotetico quanto auspicabile “faccia a
faccia” tra l’approccio dialogico, cui fa riferimento la moderna
ricerca antropologica, ed il tentativo di creare un sistema educativo
non più basato su relazioni ‘verticali’, bensì su principi di
reciprocità, finalizzati ad una pedagogia critica e problematizzante.
Intendo quindi analizzare il possibile contributo che l’esperienza “sul
campo” dell’antropologia può fornire alla ricostruzione di una nuova
e differente prassi pedagogica attraverso il dinamico confronto tra i
binomi: antropologo/nativo e educatore/educando. Vorrei inoltre far
emergere, da questo confronto, una nuova prospettiva di
educazione/comunicazione interculturale, che non significhi
semplicemente rendere evidenti le differenze d’usi, costumi, segni e
simboli di culture altre, né tantomeno praticare uno scambio
culturale come se si trattasse di un baratto tra manufatti
preconfezionati, bensì un’interazione che sia innanzitutto esperienza
concreta di persone concrete che mettano in gioco identità differenti
in una relazione tutt’altro che predefinita.
L’esigenza di trovare un luogo di decentramento in cui poter
mettere in gioco se stessi, le proprie percezioni, il proprio vissuto, la
propria identità culturale con altri diversi da sé, mi ha fatto volgere
lo sguardo verso il teatro, laddove il ruolo di quest’ultimo può essere
quello di trasmettere, tramite il confronto in una situazione
condivisa, “il gusto fuggevole di un altro mondo in cui quello della
quotidianità si integra e si trasforma” (Brook, 1990: 215).
Nel terzo capitolo (che chiude la prima parte di lavoro), infatti,
l’educazione e l’antropologia si rincontreranno nello spazio teatrale,
come possibilità di sperimentare nuovi linguaggi comunicativi in un
luogo pluriforme, polifonico e dinamico, in cui labile è il confine
tra ciò che è familiare e ciò che è estraneo. Un laboratorio di
sperimentazione in cui si dissolve la demarcazione tra attori e
spettatori, tra ribalta e retroscena, ed il ribaltamento dello spazio
scenico diventa, in un certo senso, la metafora del desiderio di
sovvertire le apparenti ovvietà, di mettere in discussione le proprie
prospettive. Il mio tentativo sarà dunque di dare evidenza ad uno
spazio, quello teatrale, in cui, attraverso il superamento della
dicotomia tra intelligenza logica ed intelligenza creativa, tra
rappresentazione e percezione, tra gioco e realtà, tra “me” e “l’altro”,
Il sistema educativo, in particolare la scuola, potrebbe, in un certo
senso, ritrovare un’anima, una nuova linfa vitale in grado di
stimolare una rinnovata progettualità di metodi e di prospettive.
D’altro canto, proprio l’educazione interculturale potrebbe, in tale
contesto espressivo/comunicativo, divenire finalmente sinonimo del
“fare esperienza”, attraverso le proprie emozioni, le proprie paure, il
proprio disorientamento dinanzi all’inconsueto, il proprio desiderio
di scoprire nuovi mondi possibili, l’opportunità di immedesimarsi
“nei panni di…”. L’ipotesi che il teatro possa essere un luogo idoneo
a favorire una reale dialogica interazione tra culture differenti e che
un’educazione interculturale possa, in tal senso, divenire realmente
capace di insegnare ad aprirsi al cambiamento, a generare
trasformazioni, a mettersi in gioco in un dinamico sistema di
relazioni, mi ha spinto a voler verificare concretamente e
personalmente quanto ipotizzato ed intuito.
L’ultima parte del presente lavoro sarà, infatti, la rielaborazione di
una mia attiva e sentita partecipazione osservante, un patchwork di
esperienze, di vissuti, di sensazioni, di ricordi che hanno l’occasione
di emergere e di prendere forma nel e grazie al teatro. Ugualmente
protagonisti sono Abdul - attore marocchino che ha trovato nel teatro
(e nell’incontro con me) la possibilità di reinterpretare il proprio
vissuto e di renderlo comunicabile e condivisibile - e i bambini,
invitati ad intraprendere con lui un viaggio attraverso luoghi al
confine tra il reale e l’immaginario, a scoprire e familiarizzare con
linguaggi, oggetti, suoni, segni, simboli sconosciuti ma gradualmente
comprensibili, tanto da riscoprirsi, infine, in un luogo in cui
giocando ci si ritrova, insieme, a ridefinire se stessi e l’intera
situazione, in uno spazio (interno ed esterno) in costante
trasformazione.