pag.1
Flaminia Bolzan M ariotti Posocco
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pag.2
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Prima Edizione, Novembre 2011
Copertina:
Metamorfosi di Narciso - 1937
Salvador Dalí
Tate Gallery, Londra
pag.3
EDITORIALE
D
a anni parliamo della comunicazione e di una società costruita attorno alla comunicazione.
“In pochi vivono dentro la comunicazione.”
Vivere dentro la comunicazione significa pensare per connessioni, imparare dai problemi,
sviluppare e formalizzare il pensiero. Vivere nella comunicazione significa avere un progetto
didascalico.
Nel corso degli ultimi anni lo sviluppo dell’informatica e della telematica ha aperto una
nuova dimensione alla comunicazione visiva e alla fruizione dei testi: quella dell’interazione
cibernetica mediata da oggetti grafici.
Tutto cambia: cambiano gli artifici visivi, la interazione relazionale; cambiano i tempi, gli
spazi, i processi di significazione, la partecipazione, le sensazioni, le riflessioni; cambia la
politica, l’economia, la progettazione, la programmazione, i linguaggi; cambiano gli stimoli
percettivi, in dispositivi semiotici, gli oggetti d’uso; cambia infine la scrittura in un lessico fatto
prevalentemente di interfacce grafiche, iconiche, da quando cursori e pulsanti hanno sostituito
penne e calamai popolando ormai il nostro spazio operativo di nuove funzioni Touch Screen.
Ormai siamo definitivamente nella comunicazione, dentro la florida e incessante dinamica
della ipermedialità.
Ma non cambiamo noi. Cambiano molto più lentamente le nostre capacità cognitive e culturali.
Apprendiamo con le vecchie metodologie, le scuole e le università continuano ad ignorare
i processi di apprendimento nuovi della società della comunicazione. Tra la vita scolastica
istituzionale, pubblica e privata, e i processi di apprendimento della società della comunicazione
c’è un vuoto in cui crollano quasi tutte le professioni.
Il Glocal University Network ha la grande ambizione di coprire quel vuoto, di entrare nella
comunicazione globale con una serie di strutture universitarie locali, organizzate in sintonia
con la multimedialità della nuova didattica
Liliana Montereale
pag.4
PROFILO BIOGRAFICO
Nata a Roma nel 1987, ha conseguito il diploma di maturità classica nel 2005 presso il
Liceo Visconti; nel settembre dello stesso anno si è iscritta al corso di laurea in Scienze
dell’Investigazione (Scienze e Tecniche Psicologiche) e nel mese di luglio del 2009 ha
conseguito la laurea presentando una tesi ad indirizzo criminologico/clinico (relatore Prof.
Roberto Filippini).
Nel 2011 ha conseguito il titolo di esperta in criminologia clinica e psicologia giuridica
a seguito della frequentazione e del superamento dell’esame di Master (I.F.O.S. direttore
scientifico Prof. Luca Pisano)
Attualmente è iscritta alla facoltà di Psicologia presso l’Università degli Studi Europea e
nel dicembre 2012 è previsto il conseguimento della laurea specialistica in Psicologia clinica
e di comunità.
Dal giugno del 2010 collabora con il Prof. Francesco Bruno e con l’A.I.A.S.U. in qualità
di ricercatrice e consulente criminologa. Ha maturato diverse esperienze, in particolare si
occupa di criminal profiling nell’ambito dell’analisi criminologica di eventi delittuosi.
PUBBLICAZIONI, ARTICOLI E RELAZIONI:
“Il rispetto delle Forze dell’Ordine” – www.sicurezzascuola.org – 2009
“Il Bullismo” – www.sicurezzascuola.org - 2010
“Bullo o leader: una scelta di vita” – Roma, 11 giugno 2010 – titolo dell’intervento
“Cyberbullismo e altre condotte a rischio”
Correlatrice del Prof. Francesco Bruno al convegno “Anatomia di una strage: Erba, analisi
di un delitto” – Milano, 26 febbraio 2011 – titolo dell’intervento “Dalla scena del crimine al
profiling dell’offender”
Coadiutrice del Prof. Francesco Bruno nella ricostruzione degli omicidi di Alma Prazel
Stamatis, Albina Perez, Giuseppe Canziani, pubblicati dal Dott. Corrado Barbacini – IL
PICCOLO – Trieste 27/28 febbraio 2011
“Stress e lavoro: correlazioni, attualità, problematiche e prospettive future” – Roma
“La Sapienza, 7/8 giugno 2011 – titolo dell’intervento “Violenza e molestie sul lavoro: una
panoramica europea”
“La mediazione: Aspetti giurdici e sociali” – Pensa MultiMedia Editore s.r.l. - 2012
pag.5
SOMMARIO
INTRODUZIONE
IL MITO DI NARCISO E LA CHIAVE DELLA SUA LETTURA PSICOLOGICA..............................7
CAPITOLO I
DAL MITO DI NARCISO ALL’INQUADRAMENTO CLINICO DEL DISTURBO DI PERSONALITA’
NARCISISTICO......................................................................................................................11
1.1.
La struttura di personalità secondo Freud...........................................................13
1.2.
Le fasi dello sviluppo psicosessuale......................................................................14
1.3.
Il conflitto e i meccanismi di difesa......................................................................15
1.4.
Kohut e la psicologia del Se’................................................................................17
1.5. Kernberg e la differenziazione tra il Se’ normale e il Se’ patologico...............19
1.6. Il narcisismo attraverso le teorie di Fairbairn, Klein e Winnicott sulle relazioni
oggettuali..........................................................................................................................21
1.7.
L’Origine dei disturbi di tipo narcisistico a confronto tra le teorie di Lowen e
Symington...........................................................................................................................23
CAPITOLO II
CRIMINALI E NARCISISMO: UNA PROSPETTIVA MULTIDISCIPLINARE DEL FENOMENO
DELITTUOSO.......................................................................................................................28
2.1. Il passaggio all’atto (acting out).............................................................................31
2.2. Rilevanza dei disturbi di personalità ai fini dell’imputabilità..................................33
BIBLIOGRAFIA..................................................................................................................37
pag.6
INTRODUZIONE
IL MITO DI NARCISO E LA CHIAVE DELLA SUA LETTURA PSICOLOGICA
Il mito di Narciso prende forma nelle Metamorfosi di Ovidio e tra i tanti, anche questo, si presta particolarmente
ad un’analisi in chiave psicologica in cui “l’amore per se stessi” può essere considerato il leit motiv.
La storia che narra il poeta latino è certamente una tra le più conosciute e racconta appunto le vicende di un
ragazzo la cui bellezza fu causa della sua stessa distruzione.
Il giovane in questione è proprio Narciso, figlio del fiume Cefiso1 e della ninfa Liriope, la quale desiderando
conoscere il destino del proprio figlio, si recò, secondo Ovidio, dall’indovino Tiresia2 che ne vaticinò il futuro.
Tiresia, dopo aver udito le richieste della ninfa, sentenziò che il giovane Narciso avrebbe avuto una lunga
vita a patto di non conoscere mai se stesso, Liriope però, che non comprese la profezia, andò via e col passare
del tempo dimenticò quanto affermato dall’indovino.
Passarono quindi gli anni e Narciso cresceva forte e bello, di una bellezza così mite e raffinata che tutti
coloro che lo guardavano, fossero uomini o donne, non potevano non innamorarsi di lui nonostante egli
rifuggisse ogni attenzione.
Riguardo la sua vanità e insensibilità si racconta che un giorno egli regalò una spada ad Aminio3, uno
dei suoi numerosi spasimanti, affinchè lo stesso si suicidasse ed Aminio, tanto era forte l’amore provato nei
confronti del giovane, si trafisse il cuore sulla soglia della sua casa.
Il destino volle però che la storia del bel Narciso si intersecasse con quella della ninfa Eco in un incontro
drammatico che significò la distruzione di entrambi.
Si tramanda infatti che la dea Era, la gelosissima moglie di Zeus, era sempre alla ricerca delle prove dei
tradimenti del marito e sfortuna volle che un giorno ella si rendesse conto che le continue chiacchiere e la
compagnia della ninfa Eco erano solo un modo per distrarla favorendo gli amori di Zeus.
La sua rabbia fu grandissima e quando apprese la verità manifestò tutta la sua ira rendendo Eco in grado di
ripetere solo e unicamente le ultime parole dei discorsi che le venivano rivolti.
Un giorno, quindi, mentre il bel Narciso vagava nei boschi tendendo reti tra gli alberi per catturare i cervi,
fu notato da Eco la quale, non potendo rivolgergli parola, dovette limitarsi ad osservarne la bellezza, restando
1
A. Ferrari, Dizionario dei luoghi del mito, BUR Dizionari - Rizzoli, 2011
2
E. Di Rocco, Io Tiresia: metamorfosi di un profeta, Roma, Editori Riuniti Univ. Press, 2007
3
R.Graves, I miti greci, Milano, Longanesi
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estasiata da tanta grazia; per diverso tempo lo seguì da lontano senza farsi scoprire, ma Narciso, intento a
rincorrere gli animali, né si accorse di lei, né tantomeno si accorse di essersi allontanato troppo e di aver
smarrito il sentiero.
A quel punto Narciso, che non sapeva più dove andare, iniziò a gridare e a chiedere aiuto, allora Eco
decise di svelare al giovane la sua presenza e rispondendo al suo richiamo d’aiuto si presentò, con il cuore
traboccante di teneri pensieri, protendendogli le braccia e offrendosi come dono d’amore.
Ma di nuovo, come già altre volte era accaduto, la reazione di Narciso fu spietata e gelida: di fronte alla ninfa
egli fuggì inorridito tanto che la povera Eco, delusa e piena di vergogna, scappò via piangendo e si nascose tra
le fronde del bosco dove iniziò a vivere in solitudine con un solo pensiero fisso nella mente: Narciso.
L’amore nei confronti del giovane cresceva e la distruggeva ogni giorno di più tanto che la ninfa si dimenticò
addirittura della sua stessa vita e il suo corpo deperì talmente tanto fino a scomparire, lascando di lei solo la
voce, la voce di Eco che ripete solo le ultime parole rivolte.
Gli dei decisero allora di punire Narciso per la sua insensibilità e freddezza, mandarono perciò Nemesi, dea
della vendetta, la quale fece si che il giovane, mentre si trovava presso una fonte e si sporgeva chinandosi per
bere dell’acqua, vedesse per la prima volta la sua immagine riflessa; nel guardarsi Narciso iniziò a struggersi
d’amore per quel viso così bello e dolce e il suo cuore cominciò a palpitare, inconsapevole di avere di fronte
se stesso.
Ammirava quindi quell’immagine mandando baci e immergendo le braccia nell’acqua per sfiorare e
accarezzare quel volto, ma ogni volta la toccava, l’effigie scompariva.
Narciso rimase a lungo presso la fonte, nella ricerca affannosa di afferrare quel tenero riflesso e senza
accorgersi che i giorni scorrevano inesorabilmente, dimenticandosi di tutto, sorretto solo dal pensiero e dal
desiderio che quell’immagine sfuggente potesse rimanere sua per sempre.
Alla fine morì presso la stessa sorgente che gli aveva regalato l’amore, bramando in vano un abbraccio della
sua stessa proiezione.
Quando le Naiadi e le Driadi andarono per prelevare il suo corpo nell’intento di collocarlo sulla pira
funebre si narra che al suo posto trovarono un fiore bianco; da quel giorno il bocciolo prese il nome di Narciso.
Tuttavia, narra ancora Ovidio, che a Narciso non servì la punizione; quando infatti, passato ad altra vita si
trovò ad attraversare lo Stige per entrare nell’oltretomba, il giovane continuava a cercare l’immagine amata
nel riflesso nero del fiume.
A seguito di questo breve richiamo al mito, così come ci viene tramandato da Ovidio, possiamo chiederci
se Narciso fosse solo superbo, ingenuo, egocentrico o egoista, ma tuttavia, quello che è sicuramente chiaro è
quanto questo giovane, come ogni creatura, fosse semplicemente alla ricerca dell’amore.
In buona sostanza la chiave di lettura che possiamo trovare è quella relativa al rischio del fallimento, una
defaillance che genera nell’individuo un profondo senso di dolore che istintivamente e profondamente viene
rifuggito con l’evitamento di incorrere in qualsiasi rischio; c’è un rifiuto della sofferenza che aprioristicamente
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preclude la possibilità di un successo nell’incubo di un fallimento.
Il rifiuto di Narciso è quello di tradire se stesso, laddove la separazione dalla propria immagine costituisce
il tradimento; in ciò è presente il rifiuto e l’inconfrontabilità con l’altro e quindi con la capacità di messa in
discussione dell’Io, di quell’Io che attraverso la relazione focalizzerebbe i propri bisogni e la propria affettività
nei confronti di un oggetto estraneo.
Il nostro Narciso nell’atto di fermarsi a ciò che è identità rifiuta un confronto perché non è in grado di
tollerare il rischio di un fallimento, in buona sostanza, il suo Io si difende dall’intrusione dell’altro per timore
della disfatta nella relazione, dove l’amore costituirebbe una violenza su una sensazione di equilibrio, lasciando
spazio a sentimenti di timore e inquietudine, caratteristici di chi ama.
Nonostante la presenza della fonte che propone un possibile altro, in Narciso è assente l’idea del confronto
e l’impossibilità di possedere la sua immagine rappresenta l’impossibilità di possedere se stesso, generando
quindi la mancanza di una fiducia primaria che è caratteristica essenziale nel rapporto interpersonale.
Quando questa, infatti, subisce una ferita precoce, sarà difficile risanare il vuoto che danneggia la capacità
di delimitare l’Io stringendo rapporti con l’altro.
La tragedia vissuta da Narciso è il dramma di chi non ha purtroppo mai imparato ad allontanarsi da se stesso
perché tradito troppo precocemente, sentendosi perciò costretto a rafforzare il proprio guscio narcisistico
nell’intento di evitare ulteriore dolore.
L’essenza del solo Io non costituisce per Narciso un fattore di vulnerabilità, egli infatti gode di una
soggettività beata, non bisognosa dell’altro, in altre parole un sentimento di totale invincibilità.
Il giovane di Tespi rappresenta il simbolo di un Io non relazionato e di una soggettività presuntuosa d’essere
invulnerabile, dove l’amore è sinonimo di debolezza perché disvelatore dell’anima.
L’esposizione e l’apertura all’altro rappresenterebbero l’oblio e il dolore, perciò Narciso rifiuta
completamente questa possibilità; l’effigie nella fonte viene proprio a rappresentare l’interpersonalità alla
quale il ragazzo si sottrae nel momento in cui non riconosce l’altro e non riconoscendo l’altro neppure nella
sua immagine riflessa, il rifiuto che Narciso prova è anzitutto un disamore per se stesso.
Narciso inoltre è incapace di separarsi dalla propria immagine perché non è in grado di sostenere l’esperienza
della separazione, che sicuramente è un evento traumatico ma secondo Jung “può essere motivo d’azioni
indegne ed estreme, ma che ci permettono di sopravvivere e di far evolvere, durante questa lotta, la nostra
coscienza”.
Il narcisista, quindi, rappresenta un’immagine perdente e sembrerebbe essere colui al quale è riservata
un’inutile sofferenza autogenerata.
Possiamo considerare il narcisismo come fondamento di sofferenza mentale e sicuramente come agente di
azioni distruttive, tanto autodirette quanto riversate sugli altri.
La distruttività tipica del narcisismo è riscontrabile sia nelle varie e conclamate forme psicopatologiche,
sia pure nella psicopatologia cosiddetta della “normalità”, costituita da egoismo, timore, vuoto e assenza di un
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significato profondo della vita.
Il narcisismo costituisce inoltre un substrato di fragilità e illusorietà dove attecchiscono con semplicità i
sintomi prettamente clinici ed essendo fortemente ancorato ad una società moderna può essere letto, in altra
forma, come un inquinamento della mente collettiva.
La caratterialità narcisistica viene emblematizzata nel bisogno persistente e assolutamente inappagabile di
essere considerati i migliori, in associazione ad intensa ambizione e scasi valori, dove la polarizzazione ricade
su miti esteriori di successo, prestigio e invincibilità e gli obiettivi perseguiti sono superficialmente bellezza
e potere.
L’aspettativa idealistica che tutto debba avvenire come si desidera e si crede giusto, secondo prospettive
totalmente ego centrate, è quella che sottende il carattere narcisistico di cui gli aspetti più evidenti sono
certamente il rifiuto di qualsiasi frustrazione, la ricerca incondizionata d conferme, l’intima insicurezza e
l’ostentata arroganza.
La dipendenza dall’approvazione altrui e pertanto il non essere libero e incondizionato rende il narcisista
improntato in maniera irrealistica al controllo e al potere, in nome dei quali arriva a scindersi totalmente dai
propri sentimenti di fragilità emotiva e dai bisogni del proprio essere che vengono vissuti come minaccia alle
proprie finalità autoaffermatorie.
Il fanatismo dell’innamoramento di sé, tipico del narcisista, insieme con la negazione ostinata dei propri
limiti, porta al rifiuto di ogni sentimento di colpa reale; penetrando infatti nella fenomenologia della sofferenza
narcisistica, possiamo riconoscere questa come la tipologia psicologica più separata dalla reale natura del Sé.
Prende infatti piede un falso Sé, grandioso e illusorio, in cui il narcisista incarna una personalità
esageratamente lontana dalla conoscenza della sua vera natura così come dalla consapevolezza dei propri
bisogni reali.
In virtù del profondo disconoscimento di se stesso il narcisista sceglie, del tutto inconsapevolmente, ciò che
è male, trovandosi perciò a seminare vento per raccogliere tempesta, una tempesta che pervade soprattutto la
sfera emotiva.
Attorno a questo nucleo di inconsapevolezza si articolano poi una serie di scelte erronee e di esperienze
fallimentari che sviluppano un›immagine di sé impoverita in forte contrasto con il modello ideale e grandioso
tipico del narcisista; la realtà a questo punto viene percepita come negativa, potente e minacciosa e produce
perciò paura e avversione.
La disfunzionalità della relazione con se stesso e il mondo costituiscono nella mente del narcisista una
somma di conflitti, complessi ed emozioni negative, che lo spingono sempre più ad azioni difensive e attività
compensatorie, lasciandolo in balia di un falso Sé che lo costringe a sperimentare la drammatica rinuncia alla
sostanziale natura umana, incrementando un vuoto di autostima e fiducia nella vita.
E’opportuno concludere evidenziando che, se la direttrice del narcisismo è guidata dal principio del piacere,
viceversa il suo effetto è legato alla morte, come il mito sottolinea, infatti, il giovane che era fortemente attratto
dall’immagine nell’acqua morì proprio a causa di essa.
pag.10
La tematica della morte è perciò emblematicamente connessa agli effetti dell’inconsapevolezza egocentrata,
la quale produce azioni palesemente contrastanti con la vera natura del Sé e quindi con i bisogni intrinseci
dell’esistenza.
Il narcisismo esaspera la tragicità di ideali impossibili e ambizioni non amate, causando l’insorgenza di
odio e vergogna per il non essere in grado di vivere all’altezza di questi.
CAPITOLO I
DAL MITO DI NARCISO ALL’INQUADRAMENTO CLINICO DEL DISTURBO
DI PERSONALITA’ NARCISISTICO
Per fare chiarezza sul narcisismo è opportuno partire da due ipotesi: la prima è quella che prevede come
assunto il collegamento, sia in senso genetico che psicodinamico, del narcisismo con la formazione dell’Io, la
seconda invece è quella secondo cui la patologia evidenzierebbe, nei suoi eccessi e nei suoi difetti, la struttura
della normalità.
Se consideriamo però l’Io come l’istanza che collega l’individuo al mondo esterno, il narcisismo
rappresenterebbe l’elemento fondamentale e regolatore della continua e necessaria tensione del soggetto tra il
desiderio/bisogno di rapportarsi con l’altro, che implica la dipendenza ed il desiderio/bisogno di riconoscimento,
che al contrario implica identità e autonomia, quindi in altre parole possiamo dire che il narcisismo attiene alla
costruzione del soggetto e al rapporto di questi con l’altro.
In genere definiamo “narcisiste” le persone che appaiono molto prese da loro stesse, in un certo senso
innamorate di sé e quindi poco attente agli altri, ma se è vero che i narcisisti sembrano avere una scarsa
considerazione nei confronti di altre persone, è altresì vero che, contrariamente a quanto si possa credere,
queste persone sono totalmente incapaci di provare amore in primo luogo per sé.
Dal punto di vista clinico il narcisismo è stato relegato per molto tempo nell’ambito dei disturbi psichiatrici
ma vari studi che sono stati compiuti nel tempo su persone affette da questa patologia lo hanno posto nel
quadro diagnostico relativo ai disturbi di personalità.
Il concetto di disturbo di personalità si pone come classe specifica di disturbo mentale – strutturale,
comprendente diverse “organizzazioni”.
Oggi nel manuale di classificazione diagnostica DSM-IV TR i disturbi della personalità sono inclusi in un
asse diagnostico specifico (asse II) che ricomprende, tra gli altri, il disturbo narcisistico di personalità.
L’inquadramento clinico di tale disturbo, sulla base dei criteri diagnostici previsti dal DSM-IV TR, prevede
un quadro pervasivo di grandiosità (nella fantasia o nel comportamento), necessità di ammirazione e mancanza
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di empatia che compare nella prima età adulta ed è presente in una varietà di contesti come è indicato dai
seguenti elementi:
. Senso grandioso di importanza (esagerazione di risultati e talenti, aspettativa di essere notato come superiore
senza un’adeguata motivazione);
. Fantasie illimitate di successo, potere, fascino, bellezza e amore ideale;
. Convinzione di essere “speciale” e “unico” e di dover frequentare, per essere capito, solo persone speciali
o di classe elevata;
. Richiesta eccessiva di ammirazione;
. Sensazione che tutto sia dovuto, cioè, l’irragionevole aspettativa di trattamenti di favore o di soddisfazione
immediata delle proprie aspettative;
. Sfruttamento interpersonale, ossia utilizzo degli altri per il raggiungimento dei propri scopi;
. Mancanza di empatia e incapacità di riconoscere o identificarsi con i sentimenti e le necessità altrui;
. Senso di invidia nei confronti degli altri o sensazione di essere invidiato;
. Comportamenti o atteggiamenti arroganti o presuntuosi.
Pur affermando che la condizione narcisistica è necessaria nella parte iniziale della nostra esistenza
per vivere e superare le difficoltà che il mondo in cui siamo gettati ci fa incontrare, dobbiamo comunque
sottolineare che il narcisismo nell’evoluzione della nostra vita va articolato e trasformato affinché non divenga
patologia, quella patologia che ritroviamo come cardine dell’origine aggressiva ove supportata dal disturbo
narcisistico di personalità.
Ognuno di noi ha bisogno di sentirsi unico, prezioso e irripetibile affinché un sentimento di sé prenda
forma e a partire da questo, per potersi sentire importante, per poter creare, per amare, ma quello che accade
nelle personalità narcisistiche è che tali bisogni restano molto intensi ma soprattutto assoluti e quindi rigidi,
fino a totalizzare l’orizzonte delle relazioni; questo può accadere nelle persone che sono state ferite troppo
precocemente e intensamente rispetto a quanto la natura narcisistica poteva sopportare.
In tali situazioni patologiche i bisogni di rispecchiamento e di idealizzazione restano separati dal mondo
degli affetti e degli istinti, quindi, quando fallisce il rispecchiamento emerge la rabbia che può esplodere anche
furiosamente, in quel momento colui che è vissuto come l’oggetto-sé non è più uno specchio che riflette e
l’empatia con il soggetto idealizzato viene meno.
Ogni frustrazione nella relazione di tipo oggetto-sé è una ferita narcisistica e gli individui vulnerabili dal
punto di vista narcisistico rispondono a tale ferita con il ritiro vergognoso (fuga) o con la rabbia narcisistica
(attacco), rabbia narcisistica che può giungere anche, in soggetti con disturbi gravi, all’azione delittuosa.
pag.12
(Kohut H., 1978).
Possiamo dunque affermare che rabbia e vergogna sono le due principali manifestazioni esperienziali e
comportamentali dell’equilibrio narcisistico disturbato.
Nella disamina teorica che seguirà andremo ad analizzare e spiegare le tesi più significative rispetto al
narcisismo e al correlato disturbo di personalità partendo proprio dall’analisi strutturale di quest’ultima.
1.1.
La struttura di personalità secondo Freud
Non possiamo parlare propriamente della personalità senza citare il capostipite delle teorie riguardo la
stessa, ovvero Sigmund Freud, poi seguito dall’altrettanto celebre Carl Gustav Jung.
Freud propose un modello esplicativo della mente umana basato sull’assunto che le nostre motivazioni ad
agire, guidate dall’istinto di sopravvivenza e di riproduzione, rimangono quasi sempre nascoste nell’inconscio
ad opera di una forza repressiva che le occulta alla coscienza; egli infatti paragonava la psiche ad un iceberg
la cui parte minore che emerge dalle acque rappresenterebbe la zona della coscienza, mentre la massa ben più
grande che si trova sotto il livello dell’acqua raffigurerebbe la regione dell’inconscio.
Proprio nel dominio dell’inconscio andrebbero ricercati gli impulsi, le passioni, le idee ed i contenuti
rimossi e dunque attraverso l’esplorazione di esso Freud sviluppò quella che ancora oggi viene considerata la
prima vera e propria teoria completa sulla personalità.
Nell’ambito di questa teoria la psiche è costituita da tre strati principali, il primo, più profondo, è l’inconscio,
sede di pulsioni inaccettabili e ripugnanti dal punto di vista morale, il secondo è il preconscio, in cui i pensieri
e ricordi sono accessibili ma si attivano in maniera inconsapevole o attraverso uno sforzo cosciente, l’ultimo è
il conscio, uno stato di consapevolezza che opera attraverso il pensiero logico e il linguaggio verbale.
Il modello strutturale della mente è poi contraddistinto da tre istanze: L’Es (irrazionale e scarsamente
organizzato), l’Io, cioè insieme delle capacità motorie, percettive, sensitive e cognitive che permettono
all’individuo di codificare e operare sulla realtà e il Super-io, che rappresenta la componente normativa e
sociale ed è l’istanza morale introiettata che conduce all’adeguamento.
Sebbene ognuna di queste istanze sia dotata di funzioni, proprietà, componenti, principi operativi, dinamismi
e meccanismi propri, la loro interazione è talmente intima da rendere difficile, se non impossibile, scinderne
completamente gli effetti e valutarne i contributi alla determinazione del comportamento umano.
Secondo Freud la personalità infantile iniziale si identifica con l’Es, in cui vige il principio di piacere e
in cui ogni desiderio richiede un soddisfacimento immediato ma la pressione esercitata dalla realtà esterna,
ovvero l’impossibilità dell’immediata realizzazione del desiderio, porta una parte dell’Es a modificarsi e ne
deriva l’Io, che regola i rapporti tra i desideri e la realtà esterna ed essendo dominato dal principio di realtà
impara ad aspettare e a tollerare l’attesa.
Infine si sviluppa il Super-io attraverso l’interiorizzazione dei valori e delle norme morali, dei genitori
prima e dell’ambiente sociale dopo.
pag.13
Il Super-io controlla e modifica gli istinti per renderli accettabili nell’ambiente esterno ed i suoi fondamentali
scopi sono sostanzialmente due: inibire gli impulsi dell’Es, in particolare quelli di natura libidica o aggressiva,
che sono i più soggetti ad una condanna da parte della società e indurre l’Io a sostituire con finalità moralistiche
i suoi scopi realistici e lottare per la perfezione.
La libido costituisce l’energia vitale a carattere positivo e la determinazione del piacere, si sviluppa e si
articola nella crescita di un bambino e ne caratterizza in modo differente i diversi periodi di vita; l’aggressività,
al contrario, è l’energia vitale a carattere distruttivo tendente all’allontanamento che nell’aspetto positivo
rappresenta l’autoaffermazione.
1.2.
Le fasi dello sviluppo psicosessuale
Secondo la teoria psicoanalitica lo sviluppo viene considerato come un passaggio attraverso vari stadi che,
in corrispondenza con i diversi stadi di alcune zone denominate zone erogene, acquistano predominanza; le
zone erogene vengono identificate come centri di sensazioni piacevoli.
Il primo stadio pulsionale che si articola dalla nascita ai 18 mesi è organizzato intorno alla funzione
alimentare ed è definito fase orale.
La relazione che lega sin dall’inizio il bambino al seno materno è determinata sia dalla necessità di
soddisfare il bisogno di mangiare, sia dalla necessità di soddisfare un piacere intrinseco che ha come zona
erogena la bocca.
La fase orale, quindi, in un momento in cui il bambino dipende quasi totalmente dalla madre, comporta
l’insorgenza di sentimenti di dipendenza che tendono a persistere durante la vita e ad assumere un ruolo
preponderante quando l’individuo si sente ansioso e insicuro; secondo Freud infatti, il segno massimo di
dipendenza è rappresentato dal desiderio di tornare nel grembo materno.
Con l’acquisizione del controllo sfinterico inizia lo stadio anale che dura dai 18 mesi ai tre anni.
Questa nuova acquisizione è un ulteriore passo verso l’individuazione, in quanto la defecazione, con il
piacere associato di espellere o trattenere, diventa un atto che il bambino può controllare, inoltre, trattenere
o lasciare andare le feci diventa espressione di controllo sul mondo esterno per cui la defecazione assume il
significato di dono o di ostilità.
Il controllo di regolazione di un impulso istintuale deve attendere a rinviare il sollievo derivante dal
soddisfacimento dei suoi bisogni fisiologici.
Una madre troppo severa e repressiva potrà favorire nel bambino atteggiamenti di ostinazione e
riservatezza o al contrario atteggiamenti di ira, confusione, e disordine; una madre troppo permissiva potrà
impedire che il bambino raggiunga un ragionato controllo dei propri bisogni.
Il passaggio alla fase fallica, dai tre ai cinque anni, è caratterizzato dalle esperienze masturbatorie legate
all’interesse per la zona genitale quale nuova zona erogena.
pag.14
L’interesse per gli organi genitali, sia da parte del maschio che della femmina, produce un confronto che
rende evidente l’esistenza di differenze anatomiche tra i due sessi e genera le curiosità sessuali.
Con il riconoscimento della propria identità di genere è facile osservare sia nel bambino che nella bambina
un comportamento esibizionistico volto a richiamare l’attenzione su di sè.
Nella fase fallica si creano i presupposti per la formazione del complesso di edipo; dal quinto anno infatti
si sviluppa la fase edipica in cui il bambino presenta sentimenti d’amore per entrambi i genitori, tuttavia, il
genitore del sesso opposto viene investito prevalentemente da cariche libidiche, mentre quello dello stesso
sesso viene preso come modello di identificazione e percepito come rivale.
L’eccitamento sessuale nei confronti del genitore del sesso opposto crea nel bambino forti sentimenti di
colpa e la paura di essere punito dal genitore dello stesso sesso genera un’angoscia di castrazione, in questo
modo il bambino, o la bambina, rinunciano al genitore amato e si identificano con il genitore dello stesso sesso
superando il complesso edipico.
Le dinamiche edipiche portano all’acquisizione del concetto della triangolarità: il bambino percepisce se
stesso in contrapposizione alla coppia genitoriale.
Alla fase edipica succede il periodo della latenza, dai 6 ai 10-11 anni, caratterizzato da una tranquillità
istintuale in cui le pulsioni sessuali vengono in parte rimosse ed in parte sublimate e sottoposte a formazioni
reattive della moralità e della vergogna.
L’energia che viene così liberata è investita a livello sociale ed intellettuale ed i bambini di entrambi i sessi
sono impegnati a scuola e manifestano un certo piacere nell’apprendere.
La momentanea rimozione dell’interesse per l’altro sesso, inoltre, porta alla costituzione di gruppi di
bambini dello stesso sesso e il gruppo rappresenta il momento di transizione dalla famiglia al mondo esterno
in cui il bambino cerca nuove figure con cui identificarsi.
Anche il gioco riflette il cambiamento avvenuto: è più realistico, basato sull’osservazione delle regole e
della ritualità ed è spesso utilizzato come attivazione di abilità intellettuali e motorie volte al controllo delle
pulsioni.
La maturazione fisica puberale segna il passaggio alla fase genitale, caratterizzata dalla ricomparsa degli
impulsi sessuali.
In questa fase tutte le pulsioni parziali (orale, anale, fallica) si uniscono e confluiscono nella zona genitale,
non solo per il soddisfacimento del piacere ma anche per la procreazione.
Non vi è più autoerotismo, come accadeva nella fase fallica, ma vi è la ricerca dell’oggetto sessuale e tutto
ciò conduce alla sessualità adulta.
1.3.
Il conflitto e i meccanismi di difesa
La teoria psicoanalitica colloca il conflitto al centro della vita psichica; l’individuo cerca di evitare il
pag.15
disagio e di acquisire una riduzione immediata della tensione, si verifica perciò un conflitto tra desideri e realtà
esterna che produce angoscia, nella misura in cui l’ambiente esercita una funzione di controllo diretta a punire
o reprimere l’espressione immediata della pulsione.
L’ansia è prodotta dalla relazione conflittuale tra Io, Es e Super-io quando vengono interiorizzate le norme
e i precetti dei genitori.
Per fronteggiare tutto ciò si innescano i cosiddetti meccanismi di difesa, ovvero configurazioni psicologiche
inconsce che riducono il conflitto e di conseguenza l’angoscia, mantenendo un equilibrio intrapsichico e
regolando l’autostima.
Le difese sono considerate evolutivamente necessarie e nel modello relazionale fungono da protezione per
preservare il sé autentico.
Riguardo tali meccanismi, la cui funzione risiede nell’Io, dobbiamo poi aggiungere che possono essere
normali e adattivi o viceversa patologici e se normalmente rappresentano dinamiche mutevoli, nella patologia
possono divenire rigidi.
Inoltre dobbiamo suddividere le difese primitive da quelle mature; i meccanismi primitivi sono i seguenti:
- Il ritiro primitivo, dove il bambino sovra stimolato si addormenta e manifesta la tendenza a sostituire
lo stimolo del proprio mondo interiore alla tensione della relazione con gli altri.
Implica un fuga psicologica dalla realtà che non viene distorta ma estrania la persona dalla partecipazione
attiva alla soluzione interpersonale dei problemi.
- Il diniego, in cui il bambino affronta le cose spiacevoli rifiutando di accettare il loro accadimento e l’Es
manifesta la convinzione prelogica che “se non lo riconosco non accade”
- Il controllo onnipotente per il neonato, in cui la fonte di tutti gli eventi è interna: se infatti ha fame
e riceve il latte egli ha un’esperienza preverbale di averlo magicamente creato, non percependo
l’esistenza di altri che agiscono in modo indipendente da lui.
- L’idealizzazione, in cui il bambino piccolo ha bisogno di credere che mamma e papà sono in grado di
proteggerlo da tutti i pericoli della vita.
Consiste nel bisogno di attribuire un valore e un potere speciale alle persone da cui dipendiamo
emotivamente e che possono aiutarci a battere il terrore interno che proviamo rispetto al fallimento e
all’imperfezione.
- La svalutazione, ovvero l’esatto opposto del precedente bisogno di idealizzazione. Quanto più un
oggetto è stato idealizzato tanto più viene svalutato.
- La proiezione (qualcosa di interno viene considerato proveniente dall’esterno) e l’introiezione (si
considera proveniente dall’interno qualcosa che è in realtà esterno). I bambini che introiettano fanno
propri atteggiamenti, affetti e comportamenti che appartengono ai loro genitori.
- La scissione dell’Io, difesa in cui avviene la separazione degli aspetti buoni e cattivi, che in psicopatologia
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può divenire estremamente rigida a condurre a forme più o meno gravi di malattia mentale.
I meccanismi di difesa secondari sono invece:
- Isolamento: in cui l’aspetto affettivo di un’esperienza o di un’idea viene separato dalla sua dimensione
cognitiva; in pratica è effettuato da quelle persone che raccontano con distacco emotivo situazioni in
cui tutti provano comunque dei sentimenti.
- Intellettualizzazione: la persona che la utilizza parla delle emozioni senza sentimento. L’idea di provare
rabbia è accettata ma ne viene inibita l’espressione concreta.
- Razionalizzazione: entra in gioco quando non riusciamo ad ottenere qualcosa e diciamo che non era
poi così importante, come la volpe di Esopo che non riuscendo ad arrivare all’uva la catalogò come
“acerba”; consiste sostanzialmente nel fornire ottime ragioni per giustificare le proprie decisioni.
- Compartimentalizzazione: la sua funzione è quella di permettere l’esistenza di due condizioni
palesemente conflittuali senza creare confusione, sensi di colpa, vergogna e angoscia sul piano
cosciente. La persona abbraccia due idee, due atteggiamenti senza coglierne la contraddizione.
- Annullamento: è lo sforzo inconscio di controbilanciare un affetto, di solito un senso di colpa o di
vergogna, con un atteggiamento e un comportamento che magicamente lo cancelli; alla base vi è il
disconoscimento del senso di colpa e il desiderio di espiazione.
- Volgersi contro il Sè: spostare da un oggetto esterno verso il Sé un affetto o un atteggiamento negativo.
- Spostamento: una pulsione, emozione, preoccupazione o comportamento viene diretto da un oggetto
iniziale verso un altro perché la direzione originaria per qualche ragione provoca ansia; anche l’interesse
sessuale può essere spostato, dagli organi genitali ad altre aree o ad oggetti inconsciamente collegati.
- La formazione reattiva: consiste nella trasformazione di un affetto negativo in positivo ed è presente
già tra il terzo o quarto anno di vita; alcuni aspetti del sentimento originario possono però rimanere
presenti. La funzione della formazione reattiva è negare l’ambivalenza.
Tutti abbiamo delle difese preferenziali che corrispondono al nostro modo abituale di confrontarci con le
situazioni problematiche.
La preferenza per un tipo di difesa deriva da diversi fattori tra cui il temperamento costituzionale, la natura
dei disagi subiti nella prima infanzia, le difese presentate e a volte deliberatamente insegnate dai genitori e le
conseguenze sperimentate nell’utilizzo di particolari difese (effetti di rinforzo).
1.4.
Kohut e la psicologia del Se’
L’apparizione della psicologia de Sé, fondata da Kohut, costituì una sfida all’analisi tradizionale degli anni
settanta; il panorama psicoanalitico di allora era infatti dominato dall’analisi freudiana, di cui Kohut metteva
in discussione alcuni principi basilari.
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Secondo Kohut il disturbo narcisistico parte da un arresto dello sviluppo causato dalla mancanza di risposte
empatiche da parte dei genitori.
Il Sé grandioso del bambino esige empatia e tenerezza rispecchiante da parte della madre, la cui presenza
affettiva assicura il consolidamento di questo arcaico Sé grandioso che, proprio sulla base del rinforzo,
evolverà gradualmente nelle forme dell’autostima e della fiducia in se stesso, tale evoluzione implicherà un
sempre minor bisogno di rispecchiamento.
Alla nascita il bambino per mantenere un senso di benessere a fronte delle difficoltà e delle delusioni della
realtà esterna, creerà un’immagine grandiosa ed esibizionistica del Sé (Sé grandioso) che successivamente
trasferirà su un oggetto-Sé transizionale che è la madre.
Il bambino potrà quindi mantenere questa immagine positiva (Sé grandioso), solo se troverà un reale
oggetto che gli rinforzi questo sentimento, se ci sono, invece, situazioni eccessivamente frustranti, si produce
un arresto evolutivo ed una messa in crisi traumatica del Sé grandioso che si manifesterà successivamente,
come disturbo narcisistico di personalità.
In considerazione di ciò, il Sé del narcisista, secondo Kohut, non sarebbe propriamente disturbato ma solo
bloccato.
Il narcisista di questo tipo, definito come “ipervigile”, mostra caratteristiche fondamentalmente diverse da
quelle che ci si aspetterebbe secondo il sentire comune, è infatti schivo, estremamente sensibile al giudizio
altrui, ha la tendenza ad allontanare quanto più possibile l’attenzione da sé e viene ferito con molta facilità.
In sostanza Kohut considera il disturbo narcisistico di personalità come un disturbo riconducibile ad una
forte vulnerabilità della stima di sé, imputabile ad una carenza di risposte empatiche adeguate nelle prime fasi
dello sviluppo.
Kohut considera, nel formulare la sua teoria, le mutate condizioni sociali in cui si sviluppa la psiche infantile
rispetto al contesto in cui fu elaborata la teoria freudiana; la meno assidua presenza dei genitori priverebbe
secondo lui il bambino di un oggetto immediato per il suo bisogno di idealizzazione e provocherebbe invece
del tradizionale “complesso edipico” una malattia del Sé, “il disturbo narcisistico della personalità”.
Il centro del modello teorico di Kohut è quindi il Sé, un apparato psichico primordiale la cui coesione ed
integrazione è essenziale allo sviluppo successivo dell’Io; il Sé sarebbe all’origine del sentimento per il quale
l’individuo si sente polo autonomo di percezione ed iniziativa, ha quindi un ruolo funzionale essendo una
dimensione intrapsichica che si alimenta del rapporto con gli altri (oggetti-Sé).
Laddove viene a mancare un’adeguata relazione adulto-bambino il Sé si ripiega e si fissa in una posizione
narcisistica, si disintegra e si cristallizza, in modo difensivo, dando luogo ad un Sé grandioso e onnipotente.
Lo sviluppo della personalità di un individuo si origina perciò da un equilibrio narcisistico primario ed
evolve a partire dalla capacità della madre di disilludere gradualmente il bambino sottoponendolo ad una
frustrazione ottimale grazie a cui le delusioni tollerabili dall’equilibrio narcisistico primario, portano al
graduale instaurarsi di strutture interne che permettono al bambino di imparare a calmarsi da solo e di tollerare
la tensione narcisistica.
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L’esperienza della frustrazione è alla base dello sviluppo della capacità di percepire la realtà, interna ed
esterna, distinguendola da fantasie ed allucinazioni.
Nei disturbi narcisistici di personalità il lavoro di consolidamento del Sé non è avvenuto o è avvenuto in
maniera insufficiente.
1.5.
Kernberg e la differenziazione tra il Se’ normale e il Se’ patologico
Kernberg considerò il narcisismo come qualcosa di molto vicino al disturbo borderline di personalità e
nei suoi pazienti notò che in genere avevano un funzionamento discreto in determinati ambiti mentre in altri
presentavano caratteristiche apertamente borderline; egli vedeva quindi il bambino, nei primi mesi di vita,
come in balia di correnti affettive piacevoli e spiacevoli, incapace di distinguere il Sé dal non-Sé e perciò in
totale fusione con la madre.
Successivamente questa fusione lasciava il posto alla differenziazione del sé dell’infante dall’immagine
della madre che forniva le cure.
E’ questo, secondo Kernberg la prima importantissima condizione da raggiungere, la differenziazione;
coloro che non riusciranno ad approdare a questo stadio avranno una particolare predisposizione allo sviluppo
di patologie.
Il bambino che avrà adeguatamente acquisito il senso del Sé separato dall’oggetto utilizzerà, tuttavia, solo
un primitivo meccanismo di difesa: la scissione.
E’ un bene che inizialmente il bambino utilizzi questo meccanismo di difesa , ma con il tempo egli dovrà
abbandonarlo per iniziare a relazionarsi alle persone come “oggetti interi”, che possono essere sia buoni sia
cattivi.
Il superamento della scissione permetterà, quindi, di vedere le persone in maniera tridimensionale
consentendo la riunione di immagini frammentate e facendo si che le pulsioni, tanto quelle libidiche quanto
quelle aggressive, si fondano per dar luogo ad affetti più temperati e meno estremi.
Aspetto fondamentale del tema del narcisismo, così come viene definito da Kernberg, è quindi la differenza
sostanziale tra il narcisismo normale (infantile o tratto di personalità nell’individuo adulto) e il narcisismo
presente nei pazienti con una personalità narcisista, in questo ultimo caso il narcisismo assumerebbe secondo
il teorico, una connotazione strettamente patologica.
Egli sostiene, infatti, che il narcisismo dei pazienti affetti da disturbo narcisistico di personalità sia
qualitativamente e quantitativamente diverso sia da quello presente negli individui sani, sia dal narcisismo
primario.
Kernberg riteneva che i pazienti narcisisti avessero un Sé integrato (a differenza del Sé dei pazienti
borderline), seppur patologico, che a prima vista li faceva apparire meno frammentati, l’unica differenza tra la
condizione narcisistica e quella borderline , secondo Kernberg risiederebbe nella presenza di un Sé grandioso,
integrato e strutturato, nonostante la connotazione patologica, che spiegherebbe come tali personalità disturbate
pag.19
abbiano un buon funzionamento nonostante facciano uso prevalentemente di meccanismi di difesa primitivi,
quali la scissione, l’identificazione proiettiva , l’idealizzazione, l’onnipotenza , il diniego.
In contrasto con Kohut, Kernberg non riteneva che il Sé del narcisista fosse una struttura in un certo senso
normale, seppur bloccata, ma ipotizzava che si trattasse di una struttura altamente patologica e molto diversa
dal normale Sé grandioso presente nei bambini.
Kernberg descrive quindi un narcisista (definito inconsapevole) maggiormente regredito, che non è
cosciente delle reazioni, è più arrogante ed è inoltre meno sensibile alla critica a causa dell’enorme distanza
che lo separa emotivamente dagli altri; opera inoltre la distinzione tra diversi livelli di gravità attraverso il
concetto di diagnosi strutturale (Kernberg, 1984, 1997), che implica la nozione di un livello strutturale che
sottostà ai vari sintomi e costellazioni di tratti caratteriali patologici osservabili.
Egli ipotizza tre grandi organizzazioni strutturali poste su un continuum ideale che corrispondono alle
organizzazioni di personalità nevrotica, borderline e psicotica.
Le differenziazioni principali tra i tre tipi di organizzazione risiederebbero sostanzialmente nel livello di
integrazione dell’identità e nelle tipologie di operazioni difensive prevalentemente utilizzate oltre che nella
capacità di esame della realtà.
La patologia meno grave riguarda l’organizzazione nevrotica, che include le personalità isteriche, ossessivocompulsive e depressivo-masochistiche, le quali in un certo senso possono essere considerate le diverse forme
che un’organizzazione di questo tipo può assumere.
L’organizzazione di personalità borderline invece, viene a sua volta suddivisa in una fascia “alta”, più vicina
al versante nevrotico del continuum, e una fascia “bassa” più vicina a quello psicotico: nella fascia borderline
alta si collocano le personalità istrioniche, narcisiste, dipendenti, ciclotimiche e sado-masochistiche; nella
fascia borderline bassa rientrano le personalità schizoide, schizotipica, borderline, paranoide, ipocondriaca,
ipomaniacale, una variante più patologica del narcisismo denominato “narcisismo maligno”, e la personalità
antisociale.
Il livello di patologia più grave è poi quello dell’organizzazione di personalità psicotica.
Inoltre, mentre Kohut riteneva che in queste persone l’aggressività fosse un fenomeno secondario,
indotto dalle mancanze genitoriali, secondo Kernberg si tratterebbe di un elemento primario, costituzionale
o ambientale, che indurrebbe il narcisista ad essere potenzialmente distruttivo nei confronti delle persone con
cui ha a che fare.
Sinteticamente possiamo quindi riassumere di seguito le caratteristiche del narcisismo patologico secondo
quanto proposto da Kernberg.
Il narcisismo patologico non riflette semplicemente l’investimento libidico sul Sé, ma l’investimento
libidico su una struttura patologica del Sé (il Sé grandioso), inoltre la sua analisi e comprensione devono
riguardare sia i derivati pulsionali libidici che quelli aggressivi, di natura prevalentemente orale (che secondo
Kerberg sono stati trascurati da Kohut).
pag.20
Il Sé grandioso patologicamente coeso è costituito dalla condensazione di immagini oggettuali idealizzate
e di ideali dell’Io che invece normalmente vengono integrati nel Super-Io; accanto al Sé grandioso patologico
si sviluppano quindi un Super-Io scarsamente integrato, dei confini tra Io e Super-Io scarsamente definiti in
alcune sfere e una svalutazione ampia e devastante degli oggetti esterni e delle loro rappresentazioni dovuti
alla dissociazione o rimozione degli aspetti inaccettabili del Sé reale.
Le strutture intrapsichiche presenti nei pazienti narcisisti derivano da processi di integrazione e
differenziazione patologici e da relazioni oggettuali altrettanto patologiche, ne consegue che il mondo
intrapsichico dei pazienti narcisisti è popolato soltanto dal loro Sé grandioso, da immagini svalutate del
Sé reale e degli altri, dai precursori sadici del Super-Io e da immagini primitive distorte sulle quali è stato
proiettato un intenso sadismo orale.
L’instaurarsi del Sé grandioso patologico consente comunque una certa integrazione dell’Io, che permette
un adattamento sociale complessivo migliore di quello raggiunto dai pazienti con personalità narcisistica ma
fondamentalmente borderline.
Il narcisismo patologico comporta poi meccanismi di difesa e resistenze specifiche originate da sottostanti
conflitti prodotti da collera e invidia orali, che si riflettono nella traslazione che si sviluppa nel corso del
trattamento.
Nella situazione analitica, inoltre, il paziente narcisista, secondo Kernberg, mostrerebbe un tipo di
idealizzazione nei confronti dell’analista di natura totalmente diversa dai pazienti nevrotici, per questi
ultimi infatti l’idealizzazione rappresenterebbe l’immagine parentale buona; nei pazienti narcisisti, invece,
l’idealizzazione dell’analista altro non è che un’estensione della propria grandiosità: l’analista è una parte di
sé, una figura autosservante, un’appendice, un satellite.
In conclusione, poi, ricordiamo che per Kernberg il narcisismo patologico presenta delle differenze
sostanziali e specifiche rispetto al narcisismo infantile.
1.6.
Il narcisismo attraverso le teorie di Fairbairn, Klein e Winnicott sulle relazioni oggettuali
Fairbairn partiva dal presupposto che il desiderio principale per l’essere umano fosse la ricerca del contatto
emotivo con un altro individuo; quando l’oggetto non è però disponibile, il bambino rivolge verso il proprio
interno l’energia libidica, quindi il ritiro dell’energia libidica dall’esterno e il conseguente investimento sul
Sé sono caratteristiche principali di quello che Fairnbairn definì “Stato schizoide” e ciò si verificherebbe
inizialmente quando la madre non si rende emotivamente disponibile al figlio.
Nel momento in cui il bambino rivolge verso sé stesso la propria energia libidica, egli compie anche
un’operazione mediante la quale introietta l’oggetto cattivo (la madre indisponibile) che entra a far parte
dell’Io.
Quindi secondo Fairbairn, sia l’angoscia, sia il rifiuto dell’oggetto (tratti tipici dello stato schizoide) sono
secondari ad una frustrazione dei bisogni del bambino.
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Si può dedurre che che quello che Fairbairn chiama stato schizoide è qualcosa di molto vicino ad un
disturbo narcisistico di personalità.
Anche Melanie Klein, attraverso il suo lavoro di ricerca e la sua pratica analitica con i bambini, ha dato un
grosso contributo alla conoscenza dello sviluppo psicologico dei primissimi tempi di vita dell’infante.
La Klein riteneva che sarebbe stato ottimale introdurre l’uso dell’analisi come pratica di profilassi e
prevenzione nel corso dello sviluppo, quindi non necessariamente solo come terapia.
La sua ricerca ha posto un particolare rilievo sul mondo interno del bambino, sugli oggetti buoni (le
esperienze gratificanti) e cattivi (le esperienze frustranti), ha inoltre sottolineato l’importanza delle fantasie
inconsce, dei processi di proiezione, delle angosce e delle difese postulando l’esistenza di una pulsione di
morte connaturata al bambino, la quale gli provocherebbe una profonda angoscia di disintegrazione.
Quest’autrice riteneva inoltre che lo stato in cui il bambino si trova ad essere invaso dall’angoscia al punto
di non avere più capacità di relazionarsi al mondo, si può “Stato narcisistico”.
Quindi, anche secondo la Klein, alla base di un disturbo narcisistico ci deve essere un rifiuto degli oggetti,
ma questo rifiuto ha un percorso diverso da quello ipotizzato da Fairbairn, ovvero, il bambino proietta sulla
madre i propri contenuti interni distruttivi per liberarsi dall’angoscia della pulsione di morte; attraverso questa
proiezione rende cattivo l’oggetto–madre e solo successivamente lo rifiuta.
Winnicott si spinge poi oltre e certamente il suo apporto più interessante è quello che riguarda la modalità
di rapporto oggettuale ed i processi che intercorrono tra l’emergente Sé del bambino e la realtà esterna che lo
circonda.
Il bambino vive la realtà esterna , soprattutto quella materiale, come minacciosa, pertanto ha bisogno di un
intermediario che è la madre, allora, anzichè sentirsi sopraffatto dall’”oggetto”, può vivere l’illusione di creare
l’oggetto perché è la madre che gli trasmette questa illusione.
Secondo Winnicot questa esperienza creativa genera un senso di fiducia e sicurezza nel bambino, proprio
in un momento di totale dipendenza ma se le situazioni esterne non sono favorevoli, il bambino percepirà ogni
esperienza come interferenza e sopruso.
Di fronte a questo vissuto egli sarà costretto a costruirsi una maschera che diventerà il falso Sé, necessario
a proteggere il vero Sé da uno sfruttamento che ne determinerebbe l’annientamento.
L’ipotesi di Winnicott è quindi quella che considera il primo movimento verso il narcisismo ciò che si
verifica quando, di fronte a una madre incapace di rispondere ai suoi bisogni, il bambino ritrae il proprio vero
Sé dalla relazione nascondendolo dietro una facciata, quella che è stata definita “Falso Sé”.
A Winnicott dobbiamo poi l’introduzione del concetto di oggetto transizionale.
Con il termine oggetto transizionale o fenomeno transizionale si designa l’area intermedia di esperienza
tra la suzione autoerotica del pollice (in una situazione di narcisismo primario) e l’instaurarsi di una vera
relazione d’oggetto.
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È l’uso, con importanti valenze affettive, di un oggetto che è riconosciuto come non facente più parte del
corpo del bambino (non più appartenente, in modo onnipotente, a sé) ma non ancora pienamente riconosciuto
come appartenente alla realtà esterna.
La particolarità di questo oggetto è il suo essere nell’area intermedia tra sé e non-sé e la sua funzione non
si esaurisce nell’essere un simbolo: il suo essere reale e sostanziale è altrettanto importante per il bambino.
L’oggetto transizionale non è un oggetto interno, tuttavia per il bambino non è nemmeno un oggetto esterno:
è una transizione tra i due.
Per Winnicott quindi “L’oggetto transizionale non è mai sotto il controllo onnipotente come l’oggetto
interno, né fuori controllo come la madre reale.”
In “Gioco e realtà” del 1990, Winnicott sottolinea come l’oggetto transizionale possa a volte degenerare in
un oggetto feticistico e come tale, persistere come una caratteristica della vita sessuale adulta.
In queste casistiche l’oggetto viene iper investito e non può, crescendo il bambino, essere posto “nel limbo”
dei ricordi, come poeticamente afferma Winnicott; è invece utilizzato come mezzo per il diniego, ovvero
un’esperienza angosciante che richiama vissuti di perdita o separazione e viene negata attraverso lo stesso uso
dell’oggetto.
L’oggetto transizionale perde quindi il suo carattere di oggetto calmante, che allenta l’ansia e consola il
bambino, diventando nell’adulto un oggetto feticcio coattivamente utilizzato per negare la perdita.
Classicamente la nascita del feticcio è collegata all’emergere di fantasie relative alla madre fallica: il
feticcio sarebbe un sostituto del fallo materno, di cui si nega l’assenza.
1.7.
L’Origine dei disturbi di tipo narcisistico a confronto tra le teorie di Lowen e Symington
Tra i teorici che si sono occupati in tempi relativamente recenti di narcisismo meritano un posto di
tutto rispetto Alexander Lowen e Neville Symington in quanto sono stati in grado di offrire una visione
multisfaccettata di questo disturbo e quindi molto più vicina alla realtà.
Alexander Lowen dice del narcisismo “Questo termine descrive una condizione sia psicologica che
culturale”, infatti, mentre sul piano personale indica un disturbo di personalità che comporta un eccessivo
investimento sulla propria immagine a scapito dell’identità vera, sul piano culturale è la logica conseguenza
di una “mancanza di valori e di senso di umanità”.
Il narcisista ha un problema che riguarda la sua identità e noi, intesi come gruppo sociale, siamo diventati
narcisisti in quanto eccessivamente centrati su noi stessi in senso egopatico ed egoistico, fino a perdere via
via sempre di più il contatto con la nostra essenza, con il conseguente risultato di dover compensare l’identità
sconosciuta con una falsa personalità basata esclusivamente sull’immagine che deve essere costantemente
sostenuta dall’esterno.
Lowen sostiene che questo è il tipico problema delle società che hanno più ricchezza che saggezza.
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Sostanzialmente, quindi, possiamo trarre come conclusione che in alcuni casi il problema narcisistico
individuale è influenzato e modellato dal problema culturale e sociale.
A Lowen va riconosciuto poi il merito di averci fornito una classificazione delle varie turbe narcisistiche
che amplia e chiarisce in modo molto efficace la classificazione, forse troppo monodimensionale, offerta dal
DSM-IV TR; egli infatti nel suo libro “Il narcisismo” distingue cinque turbe in ordine crescente di gravità che
di seguito elenchiamo.
- Carattere Fallico/Narcisistico: Si tratta del livello più lieve all’interno delle varie turbe narcisistiche;
Lowen descrive i fallico/narcisisti come persone che tendono ad ostentare eccessiva sicurezza nei propri
confronti, con troppo marcate preoccupazioni nei confronti della propria immagine.
Che siano uomini o donne, sono molto preoccupati dalla propria immagine sessuale, anche se esprimono
questa preoccupazione in modi diversi; in particolare gli uomini sono quasi ossessionati dalla propria
potenza sessuale, mentre le donne (che Lowen definisce “Caratteri isterici”) sono apertamente seduttive
e tendono a misurare il proprio valore proporzionalmente alla propria attrattiva sessuale.
Nel carattere fallico/narcisistico si trovano, seppur in grado minimo, tutti gli elementi distintivi del
narcisismo e cioè: la grandiosità, l’apparente mancanza di sentimenti, la mancanza del senso di sé e la
mancanza del senso di realtà.
- Carattere Narcisistico: Ciò che salta all’occhio osservando queste persone è la grandiosità, elemento
molto più accentuato di quanto non avvenga per il carattere fallico/narcisistico; vale a dire che è evidente
in loro la necessità di essere sempre considerati i migliori in ogni cosa, hanno l’esigenza di essere
perfetti.
In effetti spesso si tratta di persone in grado di conseguire notevoli successi in vari ambiti, soprattutto
in quello lavorativo, poiché hanno molta facilità di movimento in tutto ciò in cui siano coinvolti potere
e denaro, di conseguenza può succedere che l’immagine grandiosa che hanno di sé sia in un certo qual
modo confermata dal modo in cui li vedono gli altri ma resta il fatto che questa è un’immagine falsata
e piuttosto lontana dalla realtà.
Mentre riescono a ottenere spesso grandi successi in ambito lavorativo, le persone con carattere
narcisistico si trovano spiazzate in campo sentimentale.
Avendo poco o nessun contatto con i propri sentimenti non riescono a gestirli e di conseguenza non sono
in grado di rapportarsi ad altre persone in maniera reale, umana.
Lowen ha considerato il narcisismo in tutta la sua complessità come un disturbo che può comparire in
forme molto diverse, della stessa idea è stato Neville Symington, che si è spinto fino ad affermare che il
narcisismo può trovarsi potenzialmente alla base di tutti i disturbi mentali.
- Personalità Borderline: Il primo tipo di personalità borderline descritto da Lowen proietta un’immagine
di sé di estremo successo, con marcate caratteristiche di grandiosità, il secondo invece è molto schivo,
vulnerabile, con una forte tendenza ad appoggiarsi agli altri.
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E’ evidente come iquesta suddivisione rispecchi in un certo modo quella tra narcisisti ipervigili ed
inconsapevoli.
Quest’apparente contraddizione è facilmente spiegabile tenendo conto che nelle personalità borderline
coesistono potenti complessi di superiorità con altrettanto potenti complessi di inferiorità.
Nel primo tipo descritto il senso di superiorità è palese, mentre quello d’inferiorità è nascosto; nel
secondo tipo invece accade l’opposto.
Questi individui si trovano in un eterno, fortissimo dilemma tra l’essere i migliori del mondo o l’essere
niente.
La differenza tra il carattere narcisistico e la personalità borderline di tipo grandioso sta nel fatto che
in questo secondo caso la facciata di successo ed ineluttabilità è estremamente fragile e può crollare al
primo segno di stress, rivelando il bambino insicuro e terrorizzato che tale facciata doveva celare.
- Personalità Psicopatica: In comune con le altre varianti di narcisisti, coloro che presentano una
personalità psicopatica dimostrano arroganza, disprezzo per l’umanità e tendono a sentirsi superiori a
chiunque altro; di diverso, invece, hanno una tendenza molto forte ad agire i propri istinti antisociali
rubando, imbrogliando, sfruttando le persone senza presentare alcuna traccia di senso di colpa.
Il carattere psicopatico mostra in modo evidente ciò che in altre forme di narcisismo è generalmente
celato, ovvero la tendenza ad agire e l’impossibilità di procrastinare la soddisfazione dei propri impulsi.
Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare le personalità psicopatiche possono conseguire un alto
grado di successo in ambito lavorativo, diventando politici, avvocati, manager e veicolando in queste
attività i propri impulsi omicidi, quindi portandole avanti senza alcun rispetto per gli altri esseri umani;
non è un caso, secondo Lowen, che nella società occidentale si affermino professionalmente persone
con questo tipo di caratteristiche, tanto è vero che per conseguire questo tipo di successo sembra sia
fondamentale non avere alcun tipo di sentimento e l’assenza di sentimenti empatici è uno dei principali
indici diagnostici per determinare la gravità di un disturbo narcisistico.
- Personalità paranoide: Caratteristica tipica degli individui con personalità paranoide è il sentirsi
sempre al centro dell’attenzione, immaginare che tutti i discorsi, tutti gli sguardi siano rivolti a loro, con
intenzioni malevole.
Poiché hanno una percezione di sé come superiori ritengono che le persone non facciano altro che
tramare alle loro spalle, mosse dall’invidia; in questo tipo di personalità troviamo espresse al massimo
grado tutte le caratteristiche tipiche dei disturbi di tipo narcisistico: divario tra l’Io e il Sé, mancanza di
contatto con la realtà, arroganza, insensibilità verso i sentimenti altrui.
Questo tipo di personalità, diversamente da quelle precedentemente elencate, riesce a raggiungere livelli
molto bassi di adattamento, e spesso vi si possono riscontrare dei tratti che sono tipici della psicosi.
Nella sua teorizzazione, invece, Symington inserisce un concetto completamente nuovo, centrale, per
comprendere come si sviluppino i disturbi narcisistici, si tratta del concetto del vivificatore che si può
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sinteticamente definire nel modo seguente: un oggetto associato al seno, alla madre, all’altro; non è nessuno
di questi ma non può esistere separato da questi oggetti.
Si può dire quindi che il vivificatore è l’alternativa a sé stessi per quanto riguarda l’amore, è inoltre un
concetto paradossale poiché, se da un lato esiste solo nel momento in cui viene scelto, dall’altro, ha una sua
propria vita.
Symington ha dunque ipotizzato che il rifiuto del vivificatore conduca in maniera diretta ad una scelta di
tipo narcisistico; tale rifiuto avviene molto probabilmente nell’infanzia, nel caso in cui la madre si dimostri
non disponibile per il bambino, ma poiché il rifiuto non può essere accettato, perché sarebbe messa in pericolo
la sua stessa sopravvivenza, il bimbo scinde il proprio Sé, ed una delle sue parti rifiuta il vivificatore. Questa
struttura si definisce “nucleo narcisista”.
Ciò che è tuttavia è da considerare il più innovativo tra i concetti inseriti nella teorizzazione di Symington
è che secondo quest’autore la scelta che il bambino fa è volontaria.
Sorge a questo punto spontanea la domanda: Come si “diventa” narcisisti? Per capirlo dobbiamo anzitutto
considerare i concetti di Sé e di Io.
Dal punto di vista di Lowen il Sé è innato, si forma insieme al bambino, è biologico e si può definire come
la capacità di sentire il corpo, l’Io invece si forma con la crescita ed è ciò che ci dà la consapevolezza del Sé.
Symington invece parte da una classica teoria psicoanalitica secondo la quale il narcisismo è un rivolgimento
della libido verso l’interno.
Per esaminare questa teoria si può partire dal concetto di Sé coesivo (simile al concetto di Sé espresso da
Lowen), che può essere definito come la catarsi tra mente e corpo.
La presenza di un Sé coesivo (che avviene molto presto nella vita del bambino) genera il narcisismo di base
ed è proprio a questo punto che può verificarsi una scissione.
Se le risposte della madre nei suoi confronti sono positive, il bambino svilupperà una “pelle psichica”,
ossia un’interiorizzazione del vissuto di stimolazione tattile che serve a contenere e unificare le sue esperienze.
Egli potrà quindi interiorizzare una serie di oggetti buoni e sarà capace di sviluppare un Sé relazionale ad
un sano amore di sé.
D’altro canto, se la madre non risponde correttamente alle richieste del bambino, egli si ritirerà da lei,
sviluppando ciò che viene definito “pelle muscolare”, ossia un surrogato della pelle psichica che però funziona
come un’armatura e non consente scambi con l’esterno.
In questo caso il bambino riuscirà ad interiorizzare solo oggetti cattivi, sviluppando un Sé non relazionale
e quindi una prima forma di narcisismo.
Il concetto di “Pelle muscolare” è affine a ciò che Lowen descrive come le contratture muscolari tipiche
dei pazienti con problemi narcisistici, tali contratture, secondo Lowen, sono dovute al fatto che i narcisisti
devono evitare a tutti i costi di provare emozioni poiché le emozioni si esplicano come sensazioni provenienti
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dal corpo, essi si difendono bloccando le percezioni.
Dal canto suo, Lowen traccia un quadro abbastanza simile rispetto alla formazione di un nucleo narcisista
partendo dalla constatazione che in presenza di una madre rifiutante il bambino nega i propri bisogni e
sentimenti di affetto poiché non ritiene di poter avere una risposta adeguata.
Tale percorso si articolerebbe attraverso un vissuto di umiliazione, che rappresenta la ferita narcisistica ed
è riconducibile ad una situazione situazione in cui ci si sente impotenti mentre qualcuno esercita su di noi il
proprio potere, seguiti da atteggiamenti di seduzione da parte del genitore di sesso opposto; ciò genererebbe
nel bambino un sentimento distorto rispetto all’essere “speciale”.
E’ a questo punto che avverrebbe la sperimentazione del rifiuto, ossia il genitore che ha precedentemente
sedotto il bambino lo ripudia, facendolo sentire per di più in colpa per i desideri che egli stesso ha suscitato e
allora Lowen, per spiegare la formazione di un nucleo narcisistico, sottolinea un concetto in particolare, ed è
l’esperienza dell’orrore.
Lowen ipotizzò che, poiché esperienze terribili nella prima infanzia in genere fanno dubitare il bambino
dei propri sensi (in quanto contrastanti con l’idea di come dovrebbero andare le cose), tali esperienze vengono
sottoposte a una potente negazione perciò, se le esperienze di orrore sono reiterate, il bambino comincerà a
dubitare sempre più di sé e delle proprie sensazioni e a negarle volontariamente. Una volta stabilizzatasi tale
negazione diverrà totalmente automatica e inconsapevole.
Symington si avvale di un concetto di trauma simile a quello di Lowen sovraesposto, egli sostiene che la
spinta narcisistica è proporzionale all’entità del trauma e all’età (il trauma è maggiore in relazione al minor
livello evolutivo).
Tuttavia, secondo lui, il trauma non causa direttamente i disturbi narcisistici, che sono invece causati dalle
modalità gestionali di tale trauma; infatti, l’opzione narcisistica è uno dei vari modi che si possono scegliere
per gestire un trauma, attraverso quella che Symington chiama “Acquisizione del modello dell’agente del
trauma”, ovvero dell’identificazione con l’aggressore.
La scelta è tra l’aderire al modello persecutorio e lo sfidarlo; Symington continua perciò a sottolineare la
volontarietà dell’opzione narcisistica.
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CAPITOLO II
CRIMINALI E NARCISISMO: UNA PROSPETTIVA MULTIDISCIPLINARE DEL
FENOMENO DELITTUOSO
La criminologia clinica e la psichiatria forense tendono oggi ad un approccio di analisi integrata attraverso
l’utilizzo contemporaneo di contenuti e metodi sia criminologici che psichiatrici, a scopo preventivo dei
comportamenti antisociali e di ricerca, diagnosi e trattamento per quanto attiene gli autori di reato.
L’analisi della personalità criminale costituisce il fondamentale campo di interesse comune di queste due
discipline strettamente attigue. (Rudas e coll., 1997)
I primi studi che hanno focalizzato l’attenzione sulle possibili correlazioni tra tipo di personalità e crimine
sono da ricondurre allo studioso belga Etienne De Greef, il quale con il termine personalità intendeva una
disposizione prefissata a reagire con una modalità precisa ad uno stimolo, derivante anche dall’insieme delle
esperienze passate.
De Greef ha individuato alcune fasi particolari costituenti la criminologia, in primis la criminogenesi,
caratterizzata da un “silenzio affettivo” derivante dalla convinzione del delinquente di essere sottoposto ad
un’ingiustizia, successivamente la criminodinamica, che spiega il comportamento criminale e che introduce
il concetto di “stato pericoloso” come fase di equilibrio psichico instabile che precede l’esecuzione di un
crimine, segue poi il “passaggio all’atto”, in cui la situazione precipita con l’esecuzione del delitto.
Lo studio criminologico della personalità riceve, in seguito, il contributo di Piatel, egli individua quattro
tratti principali determinanti il nucleo centrale della personalità criminale, che sottendono il passaggio all’atto
e sono presenti in ciascuno di noi (“In ogni persona sonnecchia un delinquente”).
I tratti sono caratterizzati dall’egocentrismo, che permette di ignorare i giudizi, labilità, che consente di non
tenere conto delle conseguenze dell’atto criminale, aggressività, che porta ad effettuare alcune azioni criminali
senza badare agli ostacoli per compierle e indifferenza affettiva, che fa ignorare le sofferenze della vittima.
Tali ipotesi sembrerebbero aver ricevuto conferme da studi di verifica effettuati da Canepa su campioni di
delinquenti.
Ricerche successive non sono state però in grado di chiarire se esistano dei tratti tipici di personalità nei
soggetti criminali o se questi presentino una particolare intensità di tratti diffusi in tutti gli individui e se tali
caratteristiche siano la causa o l’effetto di una vita criminale.
Ripercorrendo la storia di tale ambito di ricerca si è individuata una “sindrome della personalità criminale”,
caratterizzata da una specifica struttura psicopatologica, che favorisce l’acting out ed è caratterizzata da tre
pag.28
tratti fondamentali: l’iperattività delittuosa, l’antisocialità ed un notevole egocentrismo.
E’ stato poi evidenziato come i fattori ambientali e sociali siano sempre mediati dalla sindrome sopraccitata,
che di frequente si va a sovrapporre ad altre strutture di personalità (Strano e coll., 2000).
Yochelson e Samenow, pur evidenziando delle caratteristiche psicologiche ricorrenti in criminologia, come
facilità di eccitamento, fantasie di dominio, di potere e di trionfo, paura diffusa e persistente sospettosità, tratti
che inducono a pensare alla presenza di componenti narcisistiche e paranoicali nella struttura del carattere,
sostengono che le direttrici di personalità del soggetto che compie un crimine sono presenti, seppur in forma
attenuata, in gran parte degli individui.
Alcuni criminali potrebbero venire inoltre spinti alla ricerca dell’illegalità e del dominio da una scarsa
autostima, da una sensazione di disperazione, da sentimenti di superbia e da ricerca del potere (Strano, 2000).
La psichiatria forense costituisce da molti anni un campo che si avvale di teorie, esperienze e metodologie
psicologiche per rispondere alle sempre più frequenti esigenze del sistema giuridico, soprattutto in campo
criminologico, perciò l’individuazione e l’esame delle caratteristiche di personalità criminale e l’identificazione
di quadri psicologici sistematicamente connessi al comportamento criminale si rivelano risorse importanti nel
corso delle indagini, in particolare di fronte a casi di natura seriale e particolarmente violenta.
Questo tipo di analisi può risultare utile nel fornire agli investigatori un più stretto pool di soggetti
sospettabili, più opportunamente caratterizzati sotto il profilo psicologico ed esistenziale (Douglas e Munn,
1992).
Tale prospettiva socio-psicologica offre inoltre un contributo fondamentale di informazioni utili a condurre
gli interrogatori in base alla tipologia di personalità del possibile imputato, discostandosi dalle solite procedure
standard (Goldman, 1999).
Dall’analisi della letteratura criminologica e della cronaca nera emergono poi diversi delitti e fatti reato
legati a problematiche narcisistiche, spesso infatti le dinamiche implicate nel narcisismo patologico possono
costituire il background personale o in alcuni casi la causa principale e la spinta motivazionale primaria che
portano il soggetto a compiere un’azione delittuosa.
Il narcisismo è un “concetto problematico”; il suo studio, infatti, ci impone un’analisi attenta per rilevare i
diversi fattori che concorrono alla sua determinazione e per stabilire il suo rapporto con il continuum salutepatologia.
Quest’ultimo aspetto è legato alla distinzione tra narcisismo sano e narcisismo patologico; tale distinzione
in ambito psichiatrico e psicodinamico è particolarmente critica e complessa, sia perché un comportamento
definibile come narcisista può essere considerato “normale”, sano e addirittura adattivo in un determinato
contesto o in una specifica fase di vita di un individuo, sia perché la cultura (Lash, 1979) in cui viviamo è
impregnata di messaggi in cui si esaltano aspetti narcisistici, quali individualità, vittoria, supremazia, potere,
ecc. ed è pertanto difficile capire quanto l’individuo etichettato come narcisista possa essere stato influenzato
da tali messaggi e quanto, invece, presenti una vera e propria organizzazione di personalità narcisistica.
L’aspetto che maggiormente può chiarire la distinzione tra forme adattive di narcisismo e forme patologiche
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è rappresentato dalle relazioni oggettuali cui abbiamo già accennato nel capitolo precedente.
La qualità delle relazioni interpersonali degli individui caratterizzati da narcisismo patologico è infatti
molto bassa e si concretizza nella cosiddetta “incapacità di amare”.
Il rapporto tra narcisismo, patologia e salute mentale è un rapporto complesso; il narcisismo, infatti,
risulta essere in relazione sia con caratteristiche strettamente patologiche, sia con aspetti normali e adattivi
dell’individuo.
Occorre quindi approfondire questo tema per individuare quali siano le caratteristiche patologiche e quali
quelle adattive e per fare questo è necessario fornire una chiara definizione del concetto di salute mentale e di
patologia.
Va detto, però, che ogni modello, nonostante temi principali in comune, offre una visione propria della
salute mentale, in cui l’accento è posto su aspetti diversi; ad oggi l’approccio di Kohut e quello di Kernberg
costituiscono i modelli psicodinamici più importanti in questo ambito.
Le differenze che caratterizzano le due diverse prospettive teoriche possono essere ricondotte ad un
campione clinico diverso: i pazienti studiati da Kohut corrisponderebbero ai cosiddetti “narcisisti dalla pelle
sottile” (Rosenfeld, 1987) o “narcisisti ipervigili” (Gabbare, 2002), caratterizzati da vergogna, umiliazione,
ipersensibilità alle critiche, ecc.; i pazienti analizzati da Kernberg, invece, sarebbero caratterizzati dalla
sintomatologia espressa dai criteri diagnostici del DSM-IV TR e dell’ICD-10 e verrebbero definiti come
“narcisisti dalla pelle dura” (Rosenfeld, 1987) o “narcisisti inconsapevoli” (Gabbard, 2002), e sarebbero
individui con un funzionamento sociale buono, esibizionisti, arroganti, grandiosi, ecc.
Le ultime ipotesi tendono a vedere il modello di Kohut come un caso particolare del più ampio approccio
di Kernberg.
I diversi modelli teorici, quindi, nonostante le differenze, concordano nel ritenere essenziale per la salute
mentale dell’individuo un buon funzionamento relazionale e sociale e da questo punto di vista il narcisismo,
essendo intimamente connesso agli aspetti relazionali e agli investimenti oggettuali, riveste un ruolo principale
nella valutazione della salute psichica dell’individuo.
I suoi aspetti, in parte patologici e in parte adattivi, confermati da studi empirici e da diverse ricerche
condotte in questo ambito che ne rivelano una struttura multifattoriale, lo collocano in un’area al limite tra
patologia e salute mentale e solo un’analisi qualitativa e quantitativa di tali fattori può fornire indicazioni utili
per quel che riguarda il rapporto narcisismo-salute-patologia.
La letteratura criminologico forense e gli studi di psicopatologia forense ci forniscono diverse prove circa
la centralità delle dinamiche narcisistiche negli omicidi di massa.
Il mass murder viene definito come un particolare tipo di delitti in cui l’autore, in uno stesso spazio temporale
e fisico, tenta o riesce ad uccidere più persone del tutto sconosciute a lui; proprio per questo motivo vengono
escluse le stragi operate in tempo di guerra (sorrette da un non meno drammatico fine ultimo che si realizza
con la vittoria del conflitto), le stragi di stampo terroristico e quelle di tipo mafioso.
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Una sottocategoria piuttosto recente del mass murder è il “family mass murder”, in cui l’autore uccide con
le modalità sopra indicate familiari o parenti più o meno prossimi.
In questo tipo di omicidi la spinta motivazionale primaria che rende possibile il passaggio all’azione e
quindi alla commissione del fatto reato sembrerebbe essere una ferita narcisistica che provoca nel soggetto
depressione e rabbia verso l’altro, che viene vissuto in maniera svalutante e persecutoria e che viene quindi
individuato come bersaglio per una rivendicazione o rivincita personale che possa permettere un riscatto
tramite la scarica degli impulsi aggressivi; in questa tipizzazione delittuosa troviamo spesso dei caratteri
narcisisti tendenti a personalità paranoidee, che percepiscono perciò “gli altri” come troppo potenti rispetto
a loro stessi e quindi il distacco dalla realtà fa sì che la spinta distruttiva sia talmente forte da innescare un
comportamento omicida.
In taluni casi l’omicidio di massa rappresenta una vera e propria missione in cui l’onnipotenza, l’aggressività
e il senso di grandiosità patologici del soggetto narcisista si canalizzano e trovano significato.
Anche le dinamiche interpersonali e di personalità di alcune tipologie di serial killer sono incentrate su
problematiche narcisistiche.
In questi casi il narcisismo patologico e le conseguenti implicazioni psichiche, come ad esempio la mancanza
di integrità del Super Io, la bassa autostima, la mancanza di empatia e l’impossibilità di esperire la relazione
con l’altro in modo significativo e costruttivo, rendono possibile il passaggio dalle fantasie ordinarie al fatto
reato.
L’efferatezza che caratterizza spesso i delitti dei serial killer viene così a trovare senso nella struttura
narcisistica del soggetto: l’altro è solo un oggetto, ed in quanto tale può essere vissuto solo in funzione della
gratificazione, gratificazione che spesso coincide con le fantasie inconsce e pulsionali, libidiche ed aggressive,
non mediate da strutture psichiche superiori come Io e Super Io.
Anche in questi casi l’onnipotenza, l’aggressività e la svalutazione dell’altro dominano l’attività psichica
dell’omicida.
Inoltre, l’assunto teorico proposto da Kernberg circa la presenza di un’elevata pulsione aggressiva orale in
disturbi legati al narcisismo patologico, potrebbe essere utilizzato come chiave interpretativa delle dinamiche
motivazionali soggiacenti ai delitti di tipo cannibalistico.
2.1. Il passaggio all’atto (acting out)
La comprensione dell’atto criminale non può essere disgiunta dal tentativo di fornire una spiegazione
dinamica dell’atto stesso; l’agito criminale (soprattutto nei casi di delitti in cui sia difficile reperire un movente
comprensibile) può essere quindi anche letto come espressione di una formazione di compromesso, un derivato
di un conflitto interno o di una rappresentazione mentale distorta, di cui il reato diviene manifestazione concreta.
L’acting out non va letto come un evento incontrollato ma anzi riconosce in sé un succedersi di azioni
organizzate, per cui non è tanto l’intensità della scarica motoria a definirlo come “messa in atto” quanto il
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fatto che vengono estroiettate, in modo mascherato, pulsioni aggressive e distruttive su un oggetto sostitutivo.
Al contrario, un’azione che si presenta, seppur con caratteristiche di immediatezza e di scarica, ma da cui
non è possibile derivare elementi di conflittualità, ove venissero correttamente considerate le istanze dell’Io
e quelle più interiori, pulsionali e normative, non deve essere considerata una messa in atto ma una modalità
corretta del “fare”.
L’acting out si differenzia sostanzialmente dalle “azioni sintomatiche” (anche se questa operazione di
differenziazione può essere a volte clinicamente difficile), anche in esse, infatti, l’agire appare inappropriato
rispetto al contesto, ma vi è un elemento distonico tra il soggetto e il suo essere stato colto da un irrefrenabile
istanza all’azione.
Le azioni sintomatiche, perciò, non sono organizzate e coerenti ma sono vissute come bizzarre, estranee
all’Io e possono rappresentare un suo cedimento (è frequente la presenza di una patologia psichiatrica rilevante
ai fini penali).
Nell’azione sintomatica l’evento passato viene notevolmente deformato e solo un frammento può esserne
rappresentato, essa implica quindi un atto in cui il paziente si sente coinvolto negativamente, gli provoca
sofferenza inducendo paura e ansietà e avviene suo malgrado, implica inoltre una scissione soggettiva sulla
quale il soggetto si può porre degli interrogativi.
Chiudendo questa breve parentesi riguardante la sua differenziazione dalle azioni sintomatiche dobbiamo
continuare ricordando che l’acting out è stato ed è spesso considerato impropriamente come una scarica
pulsionale diretta, tendente ad alleggerire una tensione.
Ad esso vengono attribuite a volte azioni impulsive antisociali o pericolose scarsamente motivate, ad
esempio in persone con disturbi psicotici, disturbi del carattere, o in persone dipendenti dall’uso di sostanze,
considerandolo in una prospettiva psicodinamica, legato ad una struttura di personalità e al suo funzionamento.
L’agito criminale, in quest’ottica, presenta necessariamente delle caratteristiche da cui si possono derivare,
attraverso lo studio del luogo, delle circostanze e della vittima, diverse informazioni sulla psicologia dell’autore
che consentiranno di restringere il campo di indagine durante la fase investigativa.
Nelle persone che si rendono autrici di acting out criminali vi è spesso uno squilibrio permanente, inerente
la struttura psichica, che produce un agire cronico distruttivo nel mondo esterno, questo agire è comunque
sempre espressione di formazioni di compromesso, derivati distorti e mascherati di conflitti interiori: non sono
mai scariche dirette.
Pur con le precisazioni su descritte, in clinica psichiatrica, il termine viene usato nel suo significato più
estensivo e cioè di un’azione agita da un paziente; è stato posto quindi il quesito su come mai vi siano soggetti
che tendono ad agire più di altri o il cui agire si connoti in modo particolarmente distruttivo.
La spiegazione che è stata accreditata è quella che pone come assunto il fatto che agiscono maggiormente
coloro che hanno conflitti situabili in età preverbale o che hanno avuto inibizioni alla comunicazione verbale
e che quindi privilegiano l’espressione motoria, in tali quadri clinici la funzione riflessiva, ossia la capacità di
dare significato psicologico comprensibile ai propri pensieri, risulterebbe marcatamente deficitaria.
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Persone con un tipo di disturbo che induce frequentemente comportamenti di “passaggio all’atto” fortemente
aggressivi sia in senso eteroaggressivo che autoaggressivo, presentano non di rado severe alterazioni della
struttura di personalità (sebbene ciò non conduca ad una riduzione della loro imputabilità).
Spesso infatti le modalità relazionali del soggetto disturbato sul piano della personalità sono tali da
determinare bruschi passaggi da relazioni di dipendenza da un oggetto esterno vissuto come onnipotente o
potenzialmente gratificante, a relazioni aggressive, in cui l’altro viene connotato come rifiutante o espulsivo
o oggetto di attacchi invidiosi che, nell’ottica del soggetto, assumono il significato distorto di “fare giustizia”.
E’in questo modo che si possono avere “messe in atto” estremamente aggressive; l’acting out tuttavia è
sovente preceduto da una vita intera di rimuginazioni, fantasie inconfessabili e desideri perversi.
E’come se il soggetto, vissuta una vita intera in una dimensione scissionale, esteriormente normale ma
interiormente dominata e popolata da fantasie rivendicative particolarmente connotate in senso sadico e
violento, cedesse all’impulso di “dare fiato” alle proprie istanze interiori.
2.2. Rilevanza dei disturbi di personalità ai fini dell’imputabilità
In ambito criminologico e psichiatrico forense le considerazioni di natura psicodinamica devono ovviamente
essere inquadrate e organizzate all’interno della giurisprudenza e devono quindi essere analizzate in modo da
fornire chiare indicazioni circa la capacità di intendere e di volere del soggetto al momento del reato.
L’imputabilità consiste in un presupposto necessario affinché un soggetto possa essere chiamato a rispondere
giuridicamente di un determinato fatto avente rilevanza giuridica (Rossi, 2005).
Dottrina e giurisprudenza concordano, pertanto, nel ritenere che l’imputabilità non sia soltanto una
condizione soggettiva necessaria ad applicare la conseguenza di un reato (la pena) ma anche la condizione
dell’autore del reato che rende possibile la rimproverabilità del fatto; non è rimproverabile, infatti, una persona
che al momento della commissione del fatto non era capace di intendere e di volere.
L’articolo 85 del nostro codice penale così recita quando parla di imputabilità: “Nessuno può essere punito
per un fatto preveduto dalla legge come reato se, al momento in cui l’ha commesso non era imputabile. E’
imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere”.
Un soggetto penalmente perseguibile deve quindi possedere la capacità di intendere, cioè l’attitudine del
soggetto medesimo non solo a conoscere la realtà esterna, ma a rendersi conto del valore sociale, positivo o
negativo, degli atti che egli compie (Mantovani, 2001).
Altresì la capacità di “intendere” può essere considerata come la capacità di discernere rettamente il
significato e il valore, nonché le conseguenze morali e giuridiche, di determinati fatti e la chiara consapevolezza
di ciò che è bene e di ciò che è male, cioè la capacità di apprezzamento e di previsione della portata delle
proprie azioni od omissioni, sia sul piano giudiziario, sia su quello morale (Ponti, 1993).
Parimenti necessaria ai fini dell’imputabilità è la capacità di “volere”, intesa come l’attitudine del soggetto
a determinarsi in modo autonomo tra i motivi antagonistici coscienti in vista di uno scopo, volendo, quindi, ciò
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che l’intelletto ha giudicato preferibile fare e adeguando il proprio comportamento alle scelte fatte (Mantovani,
2001).
In senso più ampio la capacità di “volere” implica la capacità di esercitare in modo autonomo la propria
scelta, di pianificare delle azioni, di incanalare l’affettività e infine di agire in modo coerente alle intenzioni
iniziali, autoregolando il proprio comportamento.
Il nostro sistema giuridico considera quindi l’imputabilità collegata a questi due fattori, venendo meno nel
momento in cui sia mancante anche solo uno di questi.
Il sistema riduce tuttavia le dimensioni dell’essere umano ad una semplice dicotomia, non tenendo conto
del complesso delle funzioni psichiche, tra loro inscindibili, che fanno parte integrante del nostro essere e
quindi del nostro agire, inoltre non considera tutta un’altra serie di dimensioni che attengono ai meccanismi
dell’inconscio, dimensioni non consapevoli, eppure capaci di condizionare, talvolta completamente, il nostro
comportamento (Andreoli, 1999).
Proprio per questo motivo, la responsabilità di un individuo dovrebbe essere esaminata studiando nel loro
insieme queste dimensioni e verificando il grado di incidenza delle stesse nello svolgersi del reato.
Va sottolineata poi la difficoltà nell’analisi dei sopraccitati presupposti, non tanto relativamente alla capacità
di intendere, quanto a quella di volere; è più facile infatti verificare l’incidenza dell’infermità sulla prima di
quanto non lo sia sulla seconda.
L’esperto sarà infatti in grado di ricercare come l’autore di un reato abbia potuto rappresentarsi la situazione,
in che misura sia stato capace di prevederne i risultati, in che grado abbia avuto coscienza del carattere
delittuoso del gesto, ma avrà grandi difficoltà a compiere una valutazione sulle capacità volitive del soggetto,
su quanto sia stato pressante l’impulso ad agire, ma soprattutto, se tale impulso abbia realmente impedito di
poter scegliere tra azioni alternative.
Secondo il nostro ordinamento, in ogni caso, l’imputabilità può essere esclusa o diminuita aprioristicamente
in talune specifiche circostanze.
In particolare gli articoli 884 e 895 del codice penale fanno riferimento al concetto di infermità mentale.
I principali orientamenti giurisprudenziali che considerano l’infermità di mente come causa di esclusione
della capacità di intendere e di volere si riassumono in due paradigmi; il primo “paradigma medico”, il secondo
“paradigma psicologico”.
Il paradigma medico intende il concetto di infermità come “malattia mentale”, ovvero, stato patologico
avente origine da una deficienza organica.
Tale modello, elaborato sul finire dell’ottocento, afferma in sostanza la piena identità tra infermità di mente
4
art.88 c.p. “Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale
stato di mente da escludere la capacità d’intendere o di volere”
5
art.89 c.p. “Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da
scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d’intendere o di volere, risponde del reato commesso, ma
la pena è diminuita”
pag.34
ed alterazioni biologiche riconducibili alle classificazioni documentabili elaborate dalla psichiatria.
Questa tendenza affonda le sue radici in considerazioni di natura general preventiva considerando il fatto
che un’eccessiva estensione della sfera di non punibilità potrebbe avere gravi ripercussioni sul piano della
deterrenza.
Solo le psicosi endogene od organiche possono quindi escludere le capacità di intendere e di volere, mentre
le nevrosi e le psicopatie, pur essendo nosograficamente inquadrate, non assumerebbero rilevanza ai fini
dell’imputabilità.
Nello specifico si considerano “psicosi organiche” quelle malattie psichiche provenienti da un noto agente
patogeno e accompagnate da conosciute alterazioni anatomopatologiche (traumi, epilessia, ecc.).
Vengono invece definite “psicosi endogene” le alterazioni mentali prive di cause organiche che tuttavia
alterano profondamente i processi mentali rispetto a quelli abituali (schizofrenia, paranoia, psicosi depressiva).
Il paradigma psicologico ha avuto origine, invece, nei primi anni del novecento sotto l’influenza dell’opera
di Freud e considera i disturbi mentali come disarmonie dell’apparato psichico, in cui le fantasie inconsce
raggiungono un potere tale che la realtà psicologica diventa, per il soggetto, più significante della realtà esterna.
In questo modo il concetto di infermità si allarga fino a comprendere, non solo le psicosi organiche ed
endogene, ma anche altri disturbi morbosi dell’attività psichica, come le nevrosi, le psicopatie e i disturbi
dell’affettività.
Per una migliore comprensione andremo ora ad analizzare nello specifico il significato dei termini “nevrosi”
e “psicopatia”.
La nevrosi fa riferimento ad una condizione di sofferenza della psiche che si manifesta con ansia in misura
eccedente e duratura, espressione di una conflittualità non risolta, generata da conflitti interiori o con l’ambiente
sociale.
Nelle nevrosi le risposte a certi stimoli (frustrazioni, conflitti psichici ecc.) si traducono essenzialmente in
sofferenza personale del soggetto (autoaggressività).
La psicopatia sottintende invece ad una grave e permanente anomalia del carattere che favorisce
comportamenti di disturbo e di sofferenza per gli altri (eteroaggressività).
Lo psicopatico, senza ansie e conflitti interiori, riflette le proprie dinamiche psichiche sull’ambiente
attraverso condotte disturbanti (personalità istrioniche, impulsivi, disaffettivi, sessuali, ecc.) (Mantovani,
1984).
Tuttavia il termine psicopatia non risulta di facile classificazione, infatti, nel manuale statistico e diagnostico
dell’American Psychiatric Association DSM-II tale termine coincise con l’espressione “personalità antisociale”;
Kernberg, invece, identificò la psicopatia come una variante primitiva del “disturbo narcisistico di personalità”,
che fa affidamento su difese primitive e relazioni d’oggetto interne altamente patologiche (Kernberg, 1975).
Oggi i concetti clinici di psicopatia e disturbi di personalità coincidono per descrivere un tipo di personalità
pag.35
non psicotica e non nevrotica ma che può, in alcuni casi, avere caratteristiche simili ad entrambe.
Attualmente nella scienza psichiatrica sono presenti orientamenti che affermano un “modello integrato”
della malattia mentale, in grado di spiegare il disturbo psichico sulla base di diverse ipotesi riguardo la sua
natura e la sua origine; n pratica il modello integrato tiene conto di tutte le variabili biologiche, psicologiche,
sociali, relazionali, che entrano in gioco nel determinismo della malattia.
Nell’attuale giurisprudenza si tende quindi ad attribuire rilevanza, ai fini dell’imputabilità del soggetto
agente, anche ai disturbi di personalità ed all’incidenza che tali disturbi possono avere sulla capacità di
valutazione del fatto-reato.
Il fatto di aver ancorato la valutazione del disturbo alla sua incidenza sulla capacità di valutare l’azione ha
sottolineato quindi un nesso eziologico tra infermità e reato come requisito della non imputabilità.
Il merito della sentenza della Corte di Cassazione6che si è pronunciata dichiarando i disturbi di personalità
atti ad incidere sull’imputabilità, quindi, è certamente quello di aver superato un contrasto giurisprudenziale,
affermando un principio di diritto sulla base del quale orientare, da qui in avanti, una valutazione sul tema
dell’imputabilità.
E’ dunque in questa prospettiva che va letto lo spazio dato ai “disturbi di personalità”, superando il rilievo
finora attribuito alle sole malattie mentali, ferma restando la necessità di una correlazione diretta tra disturbo e
azione delittuosa che costituisca un’importante criterio delimitativo della nozione allargata di infermità.
Tale correlazione, se da un lato può garantire un maggiore rispetto delle regole general preventive, dall’altro
assicura comunque che il giudizio di colpevolezza rispecchi le reali componenti, psichiche e soggettive, del
fatto reato e consenta una risposta individualizzata che tenga conto delle condizioni totali dell’imputato.
6
Corte di Cassazione-Sezioni Unite Penali, sentenza n.9163/2005 Massima: “Anche i disturbi di
personalità, come quelli da nevrosi e psicopatie, possono costituire causa idonea ad escludere o grandemente
scemare, in via autonoma e specifica, la capacità di intendere e di volere del soggetto agente ai fini degli art.88
e 89 c.p., sempre che siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da concretamente incidere sulla
stessa; per converso, non assumono rilievo ai fini dell’imputabilità le altre “anomalie caratteriali” o gli “stati
emotivi e passionali”, che non rivestano i suddetti connotati di incisività sulla capacità di autodeterminazione
del soggetto agente; è inoltre necessario che tra il disturbo mentale e il fatto di reato sussista un nesso
eziologico, che consenta di ritenere il secondo casualmente determinato dal primo”.
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