Marx Il «misticismo logico» hegeliano Il modo in cui lo Stato si media con la famiglia e la società civile sono «le circostanze, l'arbitrio e la propria scelta della determinazione». La ragione dello Stato non ha dunque niente a che fare con la divisione della materia statale nella famiglia e nella società civile. Lo Stato ne scaturisce in una guisa inconsapevole e arbitraria. Famiglia e società civile appaiono come l'oscuro fondo naturale da cui si accende la luce dello Stato. Per materia statale si intendono gli affari dello Stato, la famiglia e la società civile in quanto costituiscono parti dello Stato, partecipano allo Stato come tale. Questo sviluppo è notevole sotto un duplice riguardo. 1) Famiglia e società sono intese come sfere del concetto dello Stato, come le sfere della sua finità, come la sua finità. E lo Stato che si scinde in esse, che le presuppone, e fa questo «per scaturire dalla loro idealità come spirito reale, per sé infinito». «Esso si scinde per.» Esso «assegna perciò a queste sfere la materia della sua realtà, cosicché questa assegnazione ecc. appare mediata». La cosiddetta «idea reale» (lo spirito come spirito infinito, reale) è rappresentata come se agisse secondo un principio determinato e per un'intenzione determinata. Essa si scinde in sfere finite e lo fa «per ritornare in sé, per essere per sé»: lo fa precisamente in modo che ciò è proprio come è in realtà. E a questo punto che si manifesta molto chiaramente il misticismo logico, panteistico. Il rapporto reale è «che l'assegnazione della materia statale è mediata nel singolo dalle circostanze, dall'arbitrio e dalla propria scelta della sua determinazione». Questo fatto, questo rapporto reale, è enunciato dalla speculazione come una manifestazione, come un fenomeno. Queste circostanze, questo arbitrio, questa scelta della determinazione, questa mediazione reale, sono soltanto la manifestazione di una mediazione che l'idea reale intraprende seco stessa, e che succede dietro il sipario. La realtà non è espressa come se stessa, ma come una realtà diversa. L'empiria volgare ha come legge non il suo proprio spirito, ma uno estraneo, e per contro l'idea reale ha come sua esistenza non una realtà sviluppatasi da essa idea, ma bensì la volgare empiria. L'idea è ridotta a soggetto. E il reale rapporto della famiglia e della società civile con lo Stato è inteso come interna, immagina ria, attività dello Stato. Famiglia e società civile sono i presupposti dello Stato, sono essi propriamente gli attivi. Ma nella speculazione diventa il contrario: mentre l'idea è trasformata in soggetto, quivi i soggetti reali, la società civile, la famiglia, «le circostanze, l'arbitrio» ecc., diventano dei momenti obiettivi dell'idea, irreali, allegorici. [...] La realtà empirica viene dunque accolta tale quale è: essa è anche enunciata come razionale, ma non è razionale per sua propria razionalità, bensì perché il fatto empirico ha, nella sua empirica esistenza, un significato altro da se stesso. Il fatto, da cui si parte, non è inteso come tale, ma come risultato mistico. Ciò ch'è reale diventa fenomeno, ma l'idea non ha per contenuto altro che questo fenomeno. E altresì l'idea non ha alcun altro scopo che lo scopo logico: «di essere per sé infinito, reale spirito». In questo paragrafo è depositato tutto il mistero della filosofia del diritto e della filosofia hegeliana in generale. (da K. MARX, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, in Marx-Engels, Opere complete, vol. III a cura di N. Merker, Editori Riuniti, Roma 1976, pp. 7-8; 10) La religione è «l'oppio del popolo» Per la Germania, la critica della religione nell'essenziale è compiuta, e la critica della religione è il presupposto di ogni critica. L'esistenza profana dell'errore è compromessa dacché è stata confutata la sua celeste oratio pro ans et focis.' L'uomo, il quale nella realtà fantastica del cielo, dove cercava un superuomo, non ha trovato che l'immagine riflessa di se stesso, non sarà più disposto a trovare soltanto l'immagine di sé, soltanto il non-uomo, là dove cerca e deve cercare la sua vera realtà. Il fondamento della critica irreligiosa è: l'uomo fa la religione, e non la religione l'uomo. Infatti, la religione è la coscienza di sé e il sentimento di sé dell'uomo che non ha ancora conquistato o ha già di nuovo perduto se stesso. Ma l'uomo non è un'entità astratta posta fuori del mondo. L'uomo è il mondo dell'uomo, lo Stato, la società. Questo Stato, questa società producono la religione, una coscienza capovolta del mondo, poiché essi sono un mondo capovolto. La religione è la teoria generale di questo mondo, il suo compendio enciclopedico, la sua logica in forma popolare, il suo point d'honneur 2 spiritualistico, il suo entusiasmo, la sua sanzione morale, il suo solenne completamento, il suo universale fondamento di consolazione e di giustificazione. Essa è la realizzazione fantastica dell'essenza umana, poiché l'essenza umana non possiede una realtà vera. La lotta contro la religione è dunque, mediatamente, la lotta contro quel mondo, del quale la religione è l'aroma spirituale. La miseria religiosa è insieme l'espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l'oppio del popolo. Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigerne la felicità reale. L'esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l'esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni. La critica della religione, dunque, è, in germe, la critica della valle di lacrime, di cui la religione è l'aureola. La critica ha strappato dalla catena i fiori immaginari, non perché l'uomo porti la catena spoglia e sconfortante, ma affinché egli getti via la catena e colga i fiori vivi. La critica della religione disinganna l'uomo affinché egli pensi, operi, dia forma alla sua realtà come un uomo disincantato e giunto alla ragione, affinché egli si muova intorno a se stesso e perciò, intorno al suo sole reale. La religione è soltanto il sole illusorio che si muove intorno all'uomo, fino a che questi non si muove intorno a se stesso. E dunque compito della storia, una volta scomparso l'al di là della verità, quello di ristabilire la verità dell'al di qua. E innanzi tutto è compito della filosofia, la quale sta al servizio della storia, una volta smascherata la figura sacra dell'autoestraneazione umana, smascherare l'autoestraneazione nelle sue figure profane. La critica del cielo si trasforma così nella critica della terra, la critica della religione nella critica del diritto, la critica della teologia nella critica della politica. (da K. MARX, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, in Opere, vol. III, cit., pp. 190-1) Contro i Giovani hegeliani I Vecchi hegeliani avevano compreso qualsiasi cosa, non appena l'avevano ricondotta ad una categoria logica hegeliana. I Giovani hegeliani criticarono qualsiasi cosa scoprendo in essa idee religiose o definendola teologica. I Giovani hegeliani concordano con i Vecchi hegeliani in quanto credono al predominio della religione, dei concetti, dell'universale nel mondo esistente; solo che gli uni combattono quel predominio come usurpazione, mentre gli altri lo esaltano come legittimo. Poiché questi Giovani hegeliani considerano le rappresentazioni, i pensieri, i concetti, e in genere i prodotti della coscienza, da loro fatta autonoma, come le vere catene degli uomini, cosìcome i Vecchi hegeliani ne facevano i veri legami della società umana, s'intende facilmente che i Giovani hegeliani devono combattere soltanto contro quelle illusioni della coscienza. Poiché secondo la loro fantasia le relazioni fra gli uomini, ogni loro fare e agire, i loro vincoli e i loro impedimenti sono prodotto della loro coscienza, i Giovani hegeliani coerentemente chiedono agli uomini, come postulato morale, di sostituire alla loro coscienza attuale la coscienza umana, critica o egoistica e di sbarazzarsi così dei loro impedimenti. Questa richiesta, di modificare la coscienza, conduce all'altra richiesta, di interpretare diversamente ciò che esiste, ossia di riconoscerlo mediante una diversa interpretazione. Nonostante le loro frasi che, secondo loro, «scuotono il mondo», gli ideologi giovani-hegeliani sono i più grandi conservatori. I più giovani tra loro hanno trovato l'espressione giusta per la loro attività, affermando di combattere soltanto contro delle «frasi». Dimenticano soltanto che a queste frasi essi stessi non oppongono altro che frasi, e che non combattono il mondo realmente esistente quando combattono soltanto le frasi di questo mondo. I soli risultati ai quali questa critica filosofica poteva portare erano alcuni e per giunta parziali chiarimenti, nel campo della storia della religione, intorno al cristianesimo; tutte le altre loro asserzioni non sono che altri modi di abbellire la pretesa di aver compiuto, con quei chiarimenti insignificanti, scoperte di importanza storica universale. A nessuno di questi filosofi è venuto in mente di ricercare il flesso esistente tra la filosofia tedesca e la realtà tedesca, il nesso tra la loro critica e il proprio ambiente materiale. (da K. MARX-F. ENGELS, Ideologia tedesca, in La concezione materialistica della storia, a cura di F. Codino, Editori Riuniti, Roma 1959, pp. 33-4) Contro Feuerbach 1 Il difetto principale d'ogni materialismo fino ad oggi (compreso quello di Feuerbach) è che l'oggetto, la realtà, la sensibilità, vengono concepiti solo sotto la forma dell'obietto' o dell'intuizione; ma non come attività sensibile umana, prassi; non soggettivamente. Di conseguenza il lato attivo fu sviluppato astrattamente, in opposizione al materialismo, dall'idealismo, - che naturalmente non conosce l'attività reale, sensibile, in quanto tale. - Feuerbach vuole oggetti sensibili, realmente distinti dagli oggetti del pensiero; ma egli non concepisce l'attività umana stessa come attività oggettiva. Egli, perciò, nell'Essenza del cristianesimo, considera come veramente umano soltanto l'atteggiamento teoretico, mentre la prassi è concepita e fissata solo nel suo modo d'apparire sordidamente giudaico.' Egli non comprende, perciò, il significato dell'attività «rivoluzionaria», «pratico-critica». 2 La questione se al pensiero umano spetti una verità oggettiva, non è questione teoretica bensì una questione pratica. Nella prassi l'uomo deve provare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà del pensiero - isolato dalla prassi - è una questione meramente scolastica. 3 La dottrina materialistica della modificazione delle circostanze e dell'educazione dimentica che le circostanze sono modificate dagli uomini e che l'educatore stesso deve essere educato. Essa è costretta quindi a separare la società in due parti, delle quali l'una è sollevata al di sopra della società. La coincidenza del variare delle circostanze dell'attività umana, o auto-trasformazione, può essere concepita o compresa razionalmente solo come prassi rivoluzionaria. 4 Feuerbach prende le mosse dal fatto dell'auto-estraneazione religiosa, della duplicazione del mondo in un mondo religioso e in uno mondano. Il suo lavoro consiste nel risolvere il mondo religioso nel suo fondamento mondano. Ma il fatto che il fondamento mondano si distacchi da se stesso e si costruisca nelle nuvole come un regno fisso e indipendente, è da spiegarsi soltanto con l'autodissociazione e con l'auto-contraddittorietà di questo fondamento mondano. Questo fondamento deve essere perciò in se stesso tanto compreso nella sua contraddizione, quanto rivoluzionato praticamente. Pertanto, dopo che, per esempio, la famiglia terrena è stata scoperta come il segreto della sacra famiglia, è proprio la prima a dover essere dissolta teoricamente e praticamente. 5 Feuerbach, non soddisfatto del pensiero astratto, vuole l'intuizione; ma egli non concepisce la sensibilità come attività pratica umana-sensibile. 6 Feuerbach risolve l'essenza religiosa nell'essenza umana. Ma l'essenza umana non è qualcosa di astratto che sia immanente all'individuo singolo. Nella sua realtà essa è l'insieme dei rapporti sociali. Feuerbach, che non penetra nella critica di questa essenza reale, è perciò costretto: 1. ad astrarre dal corso della storia, a fissare il sentimento religioso per sé, e a presupporre un individuo umano astratto -isolato. 2. L'essenza può dunque essere concepita soltanto come «genere», cioè come universalità interna, muta, che leghi molti individui naturalmente.' 7 Feuerbach non vede dunque che il «sentimento religioso» è esso stesso un prodotto sociale e che l'individuo astratto, che egli analizza, appartiene a una forma sociale determinata. 8 Tutta la vita sociale è essenzialmente pratica. Tutti i misteri che trascinano la teoria verso il misticismo trovano la loro soluzione razionale nella prassi umana e nella comprensione di questa prassi. 9 Il punto più alto cui giunge il materialismo intuitivo, cioè il materialismo che non intende la sensibilità come attività pratica, è l'intuizione degli individui singoli e della società borghese. 10 Il punto di vista del vecchio materialismo è la società borghese, il punto di vista del materialismo nuovo è la società umana o l'umanità sociale. 11 I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo: si tratta di trasformarlo. (da K. MARX, Tesi su Feuerbach, in Opere complete, vol. V, Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 3-5) Di fronte ai materialisti «puri» Feuerbach ha certo il grande vantaggio di intendere come anche l'uomo sia «oggetto sensibile»; ma a parte il fatto che lo concepisce soltanto come «oggetto sensibile» e non come «attività sensibile», poiché anche qui egli resta sul terreno della teoria, e non concepisce gli uomini nella loro connessione sociale, nelle loro presenti condizioni di vita, che hanno fatto di loro ciò che sono, egli non arriva agli uomini realmente esistenti e operanti ma resta fermo all'astrazione «l'uomo», e riesce a riconoscere solo nella sensazione l'«uomo reale, individuale, in carne e ossa», il che significa che non conosce altri «rapporti umani» «dell'uomo con l'uomo» se non l'amore e l'amicizia, e per di più idealizzati. Egli non offre alcuna critica dei rapporti attuali della vita. Non giunge mai, quindi, a concepire il mondo sensibile come l'insieme dell'attività sensibile vivente degli individui che lo formano, e perciò se in luogo di uomini sani, per esempio, vede una massa di affamati scrofolosi, sfiniti e tisici, è costretto a rifugiarsi nella «più alta intuizione» e nell'ideale «compensazione nella specie», e dunque è costretto a ricadere nell'idealismo proprio là dove il materialista comunista vede la necessità e insieme la condizione di una trasformazione tanto nell'industria quanto della struttura sociale. Fin tanto che Feuerbach è materialista, per lui la storia non appare, e fin tanto che prende in considerazione la storia, non è un materialista. Materialismo e storia per lui sono del tutto divergenti. (da K. MARX - F. ENGELS, Ideologia tedesca, cit., pp. 70-1) La concezione materialistica della storia I presupposti da cui muoviamo non sono arbitrari, non sono dogmi: sono presupposti reali, dai quali si può astrarre solo nell'immaginazione. Essi sono gli individui reali, la loro azione e le loro condizioni materiali di vita, tanto quelle che essi hanno trovato già esistenti quanto quelle prodotte dalla loro stessa azione. Questi presupposti sono dunque constatabili per via puramente empirica. Il primo presupposto di tutta la storia umana è naturalmente l'esistenza di individui umani viventi. Il primo dato di fatto da constatare è dunque l'organizzazione fisica di questi individui e il rapporto, che ne consegue, verso il resto della natura. Qui naturalmente non possiamo addentrarci nell'esame né della costituzione fisica dell'uomo stesso, né delle condizioni naturali trovate dagli uomini, come le condizioni geologiche, oro-idrografiche, climatiche, e così via. Ogni storiografia deve prendere le mosse da queste basi naturali e dalle modifiche da esse subite nel corso della storia per l'azione degli uomini. Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale. Il modo in cui gli uomini producono i loro mezzi di sussistenza dipende prima di tutto dalla natura dei mezzi di sussistenza che essi trovano e che debbono riprodurre. Questo modo di produzione non si deve giudicare solo in quanto è la riproduzione dell'esistenza fisica degli individui; anzi, esso è già un modo determinato dell'attività di questi individui, un modo determinato di estrinsecare la loro vita, un modo di vita determinato. Come gli individui esternano la loro vita, così essi sono. Ciò che essi sono coincide dunque immediatamente con la loro produzione, tanto con ciò che producono quanto col modo come producono. Ciò che gli individui sono dipende dunque dalle condizioni materiali della loro produzione. Questa produzione non appare che con l'aumento della popolazione. E presuppone a sua volta relazioni fra gli individui. La forma di queste relazioni a sua volta è condizionata dalla produzione. I rapporti fra nazioni diverse dipendono dalla misura in cui ciascuna di esse ha sviluppato le sue forze produttive, la divisione del lavoro e le relazioni interne. Questa affermazione è generalmente accettata. Ma non soltanto il rapporto di una nazione con altre, bensì anche l'intera organizzazione interna di questa stessa nazione dipende dal grado di sviluppo della sua produzione e delle sue relazioni interne ed esterne. Il grado di sviluppo delle forze produttive di una nazione è indicato nella maniera più chiara dal grado di sviluppo a cui è giunta la divisione del lavoro. Ogni nuova forza produttiva, che non sia un'estensione puramente quantitativa delle forze produttive già note (per esempio di dissodamento di terreni), porta come conseguenza un nuovo sviluppo nella divisione del lavoro.' La divisione del lavoro all'interno di una nazione porta con sé innanzi tutto la separazione del lavoro industriale e commerciale dal lavoro agricolo e con ciò la separazione fra città e campagna e il contrasto dei loro interessi. Il suo ulteriore sviluppo porta alla separazione del lavoro commerciale da quello industriale. In pari tempo, attraverso la divisione del lavoro all'interno di questi diversi rami, si sviluppano a loro volta suddivisioni diverse fra individui che cooperano a lavori determinati. La posizione reciproca di queste singole suddivisioni è condizionata dai metodi impiegati nel lavoro agricolo, industriale e commerciale (patriarcalismo, schiavitù, ordini, classi). Quando le relazioni sono più sviluppate, le stesse condizioni si manifestano nei rapporti fra diverse nazioni. I diversi stadi di sviluppo della divisione del lavoro sono altrettante forme diverse della proprietà; vale a dire, ciascun nuovo stadio della divisione del lavoro determina anche i rapporti fra gli individui in relazione al materiale, allo strumento e al prodotto del lavoro. [...JIl fatto è dunque il seguente: individui determinati che svolgono un'attività produttiva secondo un modo determinato entrano in questi determinati rapporti sociali e politici. In ogni singolo caso l'osservazione empirica deve mostrare empiricamente e senza alcuna mistificazione e speculazione il legame fra l'organizzazione sociale e politica e la produzione. L'organizzazione sociale e lo Stato risultano costantemente dal processo della vita di individui determinati; ma di questi individui, non quali possono apparire nella rappresentazione propria o altrui, bensì quali sono realmente, cioè come operano e producono materialmente, e dun- 8 que agiscono fra limiti, presupposti e condizioni materiali determinate e indipendenti dalla loro volontà. La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è in primo luogo direttamente intrecciata alla attività materiale e alle relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale. 8 Le rappresentazioni e i pensieri, lo scambio spirituale degli uomini appaiono qui ancora come emanazione diretta del loro comportamento materiale. Ciò vale allo stesso modo per la produzione spirituale, quale essa si manifesta nel linguaggio della politica, delle leggi, della morale, della religione, della metafisica, ecc. di un popolo. Sono gli uomini i produttori delle loro rappresentazioni, idee, ecc., ma gli uomini reali, operanti, così come sono condizionati da un determinato sviluppo delle loro forze produttive e dalle relazioni che vi corrispondono fino alle loro formazioni più estese. La coscienza non può mai essere qualche cosa di diverso dall'essere cosciente, e l'essere degli uomini è il processo reale della loro vita. Se nell'intera ideologia gli uomini e i loro rapporti appaiono capovolti come in una camera oscura, questo fenomeno deriva dal processo storico della loro vita, proprio come il capovolgimento degli oggetti sulla retina deriva dal loro immediato processo fisico. Esattamente all'opposto di quanto accade nella filosofia tedesca, che discende dal cielo sulla terra, qui si sale dalla terra al cielo. Cioè non si parte da ciò che gli uomini dicono, si immaginano, si rappresentano, né da ciò che si dice, si pensa, si immagina, si rappresenta che siano, per arrivare da qui agli uomini i vivi; ma si parte dagli uomini realmente operanti e sulla base del processo reale della loro vita si spiega anche lo sviluppo dei riflessi e degli echi ideologici di questo processo di vita. Anche le immagini nebulose che si formano nel cervello dell'uomo sono necessarie sublimazioni del processo materiale della loro vita, empiricamente constatabile e legato a presupposti materiali. Di conseguenza la morale, la religione, la metafisica e ogni altra forma ideologica, e le forme di coscienza che ad esse corrispondono, non conservano oltre la parvenza dell'autonomia. Esse non hanno storia,' non hanno sviluppo, ma gli uomini che sviluppano la loro i produzione materiale e le loro relazioni materiali trasformano, insieme con questa loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero. Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza. Nel primo modo di giudicare si parte dalla coscienza come individuo vivente, nel secondo modo, i che corrisponde alla vita reale, si parte dagli stessi individui reali viventi e si considera la coscienza soltanto come la loro coscienza. Questo modo di giudicare non è privo di presupposti. Esso muove dai presupposti reali e non se ne scosta per un solo istante. I suoi presupposti sono gli uomini, non in qualche modo isolati i e fissati fantasticamente, ma nel loro processo di sviluppo, reale ed empiricamente constatabile, sotto condizioni determinate. Non appena viene rappresentato questo processo di vita attivo, la storia cessa di essere una raccolta di fatti morti, come negli empiristi che sono anch'essi astratti, o un'azione immaginaria di soggetti immaginari, come negli idealisti. Là dove cessa la speculazione, nella vita reale, comincia dunque la scienza reale e positiva, la rappresentazione dell'attività pratica, del processo pratico di sviluppo degli uomini. Cadono le frasi sulla coscienza e al loro posto deve subentrare il sapere reale. [...] Per poter «fare storia» gli uomini devono essere in grado di vivere. Ma il vivere implica prima di tutto il mangiare e bere, l'abitazione, il vestire e altro ancora. La prima azione storica è dunque la creazione dei mezzi per soddisfare questi bisogni, la produzione della vita materiale stessa, e questa è precisamenteun'azione storica, una condizione fondamentale di qualsiasi storia, che ancora oggi, come millenni addietro, deve essere compiuta ogni giorno e ogni ora semplicemente per mantenere in vita gli uomini. [...] Il secondo punto è che il primo bisogno soddisfatto, l'azione del soddisfano e lo strumento già acquistato di questo soddisfacimento portano a nuovi bisogni: e questa produzione di nuovi bisogni è la prima azione storica. [...] Il terzo rapporto che interviene fino dalle prime origini nello sviluppo storico, è che gli uomini, i quali rifanno ogni giorno la loro propria vita, cominciano a fare altri uomini, a riprodursi; è il rapporto fra uomo e donna, i fra genitori e figli: la famiglia. [...] Questi tre aspetti dell'attività sociale non vanno concepiti come tre gradi diversi, ma appunto solo come tre aspetti, o come tre «momenti» (tanto per scrivere in maniera chiara per i tedeschi), i quali sono esistiti fino dall'inizio della storia e fin dai primi uomini e ancor oggi hanno il loro peso nella storia. La produzione della vita, tanto della propria nel lavoro quanto dell'altrui nella procreazione, appare già in pari tempo come un duplice rapporto: naturale da una parte, sociale dall'altra, sociale nel senso che si attribuisce a una cooperazione di più individui, non importa sotto i quali condizioni, in quale modo e per quale scopo. Da ciò deriva che un modo di produzione o uno stadio industriale determinato è sempre unito con un modo di cooperazione o uno stadio sociale determinato, e questo modo di cooperazione è anch'esso una «forza produttiva»; ne deriva che la quantità delle forze produttive acces- i sibili agli uomini condiziona la situazione sociale e che dunque la «storia dell'umanità» deve essere sempre studiata e trattata in relazione con la storia dell'industria e dello scambio. [...] Appare già dunque, fin dall'origine, un legame materiale fra gli uomini, il quale è condizionato dai bisogni e dal modo della pro- i duzione ed è antico quanto gli stessi uomini; un legame che assume sempre nuove forme e dunque presenta una «storia», anche senza che esista alcun nonsenso politico o religioso fatto apposta per tenere congiunti gli uomini. Solo a questo punto, E...] troviamo che l'uomo ha anche una «coscienza». Ma anche que- i sta non esiste fin dall'inizio, come «pura» coscienza. Fin dall'inizio lo «spirito» porta in sé la maledizione di essere «infetto» della materia, che si presenta qui sotto forma di strati d'aria agitati, di suoni, e insomma di linguaggio. Il linguaggio è antico quanto la coscienza, il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che ii esiste anche per altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso, e il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalle necessità di rapporti con altri uomini. Là dove un rapporto esiste, esso esiste per me; l'animale non «ha rapporti» con alcunché e non ha affatto rapporti. Per l'animale, i suoi ii rapporti con altri non esistono come rapporti. La coscienza è dunque fin dall'inizio un prodotto sociale e tale resta fin tanto che in genere esistono uomini. Naturalmente, la coscienza è innanzi tutto semplice coscienza dell'ambiente sensibile immediato e del limitato legame con altre persone e cose esterne all'individuo che prende coscienza; in pari tempo è coscienza della natura, che inizialmente si erge di contro agli uomini come una potenza assolutamente estranea, onnipotente e inattaccabile, verso la quale gli uomini si comportano in modo puramente animale e dalla quale si lasciano dominare come le bestie: è dunque una coscienza della i natura puramente animale (religione naturale). Qui si vede subito che questa religione naturale, o questo determinato comportarsi verso la natura, è condizionato dalla forma sociale e viceversa. Qui come dappertutto l'identità di natura e uomo emerge anche in ciò, che il comportamento limitato degli uomini verso la natura condiziona il comportamento limitato fra uomini e uomini, e il comportamento limitato fra uomini e uomini condiziona i loro rapporti limitati con la natura, appunto perché la natura non è stata quasi ancora modificata storicamente, e d'altra parte la coscienza della necessità di stabilire dei contatti con gli individui circostanti costituisce per l'uomo la prima coscienza del fatto che vive in una società. Questo inizio è di natura animale come la stessa vita sociale a questo stadio, è pura coscienza da gregge, e l'uomo a questo punto si distingue dal montone soltanto perché il suo è un istinto cosciente. Questa coscienza da montone o tribale perviene a uno sviluppo e a un perfezionamento ulteriori in virtù dell'accresciuta produttività, dell'aumento dei bisogni e dell'aumento della popolazione che sta alla base dell'uno e dell'altro fenomeno. Si sviluppa così la divisione del lavoro, che in origine era niente altro che la divisione del lavoro nell'atto sessuale, e poi la divisione del lavoro che si produce spontaneamente o «naturalmente» in virtù della disposizione naturale (per esempio la forza fisica), del bisogno, del caso, ecc. La divisione del lavoro diventa una divisione reale solo dal momento in cui interviene una divisione fra il lavoro manuale e il lavoro mentale. Da questo momento in poi la coscienza può realmente figurarsi di essere qualche cosa di diverso dalla coscienza della prassi esistente, concepire realmente qualche cosa senza concepire alcunché di reale: da questo momento la coscienza è in grado di emanciparsi dal mondo e di passare a formare la «pura» teoria, teologia, filosofia, morale, ecc. Ma anche quando questa teoria, teologia, filosofia, morale, ecc. entrano in contraddizione con i rapporti esistenti, ciò può accadere soltanto per il fatto che i rapporti sociali esistenti sono entrati in contraddizione con le forze produttive; d'altra parte in una cerchia di rapporti nazionale ciò può anche accadere per essersi prodotta la contraddizione non all'interno di questa cerchia nazionale, ma fra questa coscienza nazionale e la prassi delle altre nazioni, cioè fra la coscienza nazionale e la coscienza universale di una nazione. D'altronde è del tutto indifferente quel che la coscienza si mette a fare per conto suo; da tutta questa porcheria ricaviamo, come unico risultato, che questi tre momenti, la forza produttiva, la situazione sociale e la coscienza, possono e debbono entrare in contraddizione fra loro, perché con la divisione del lavoro si dà la possibilità, anzi la realtà, che l'attività spirituale e l'attività materiale, il godimento e il lavoro, la produzione e il consumo tocchino a individui diversi, e la possibilità che essi non entrino in contraddizione sta solo nel tornare ad abolire la divisione del lavoro. [...] Questa concezione della storia si fonda dunque su questi punti: spiegare il processo reale della produzione, e precisamente muovendo dalla produzione materiale della vita immediata, assumere come fondamento di tutta la storia la forma di relazioni che è connessa con quel modo di produzione e che da esso è generata, dunque la società civile nei suoi diversi stadi, e sia rappresentarla nella sua azione come Stato, sia spiegare partendo da essa tutte le varie creazioni teoriche e le forme della coscienza, religione, filosofia, morale, ecc. ecc. e seguire sulla base di queste il processo della sua origine, ciò che consente naturalmente anche di rappresentare la cosa nella sua totalità (e quindi anche la reciproca influenza di questi lati diversi l'uno sull'altro). Essa non deve cercare in ogni: periodo una categoria, come la concezione idealistica della storia, ma resta salda costantemente sul terreno storico reale, non spiega la prassi partendo dall'idea, ma spiega le formazioni di idee partendo dalla prassi materiale, e giunge di conseguenza al risultato che tutte le forme e prodotti della coscienza possono essere eliminati non mediante la critica intellettuale, risolvendoli nell'«autocoscienza» o trasformandoli in «spiriti», «fantasmi», «spettri», ecc., ma solo mediante il rovesciamento pratico dei rapporti sociali esistenti, dai quali queste fandonie idealistiche sono derivate; che non la critica, ma la rivoluzione è la forza motrice della storia, anche della storia della religione, della filosofia e di ogni altra teoria. [...] Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale. Le idee dominanti non sono altro che l'espressione ideale dei rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque l'espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante, e dunque sono le idee del suo dominio. Gli individui che compongono la classe dominante posseggono fra l'altro anche la coscienza, e quindi pensano; in quanto dominano come classe e determinano l'intero ambito di un'epoca storica, è evidente che essi lo fanno in tutta la loro estensione, e quindi fra l'altro dominano anche come pensanti, come produttori di idee che regolano la produzione e la distribuzione delle idee del loro tempo; è dunque evidente che le loro idee sono le idee dominanti dell'epoca. Per esempio: in un periodo e in un paese in cui potere monarchico, aristocrazia e borghesia lottano per il potere, il quale quindi è diviso, appare come idea dominante la dottrina della divisione dei poteri, dottrina che allora viene enunciata come «legge eterna». La divisione del lavoro, che abbiamo già visto come una delle forze principali della storia finora trascorsa, si manifesta anche nella classe come divisione del lavoro intellettuale e manuale, cosicché all'interno di questa classe una parte si presenta costituita dai pensatori della classe (i suoi ideologi attivi, concettivi, i quali dell'elaborazione dell'illusione di questa classe su se stessa fanno il loro mestiere principale), mentre gli altri nei confronti di queste idee e di queste illusioni hanno un atteggiamento più passivo e più ricettivo, giacché in realtà sono i membri attivi di questa classe e hanno meno tempo di farsi delle idee e delle illusioni su se stessi. (da K. MARX-F. ENGELS, L'ideologia tedesca, cit., pp. 34-7; 42-51; 60-1; 72-3) Il «Manifesto» del Partito Comunista • Nel Manifesto del Partito Comunista del 1848 tre elementi spiccano in modo particolare: l'analisi, profonda e accurata, dei caratteri essenziali della società borghese; la critica del concetto di proprietà privata; l'anticipazione delle linee generali della rivoluzione proletaria e della società comunista futura. A illustrare questi tre elementi è dedicata la scelta delle pagine che seguono. Uno spettro s'aggira per l'Europa - lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa si sono alleate in una santa battuta di caccia contro questo spettro: papa e zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi. Quale partito d'opposizione non è stato tacciato di comunismo dai suoi avversari governativi; qual partito d'opposizione non ha rilanciato l'infamante accusa di comunismo tanto sugli uomini più progrediti dell'opposizione stessa, quanto sui propri avversari reazionari? Da questo fatto scaturiscono due specie di conclusioni. II comunismo è di già riconosciuto come potenza da tutte le potenze europee. E ormai tempo che i comunisti espongano apertamente in faccia a tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro fini, le loro tendenze, e che contrappongano alla favola dello spettro del comunismo un manifesto del partito stesso. A questo scopo si sono riuniti a Londra comunisti delle nazionalità più diverse e hanno redatto il seguente manifesto che viene pubblicato in inglese, francese, tedesco, italiano, fiammingo e danese. La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi.Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta. Nelle epoche anteriori della storia troviamo quasi dappertutto una completa articolazione della società in differenti ordini, una molteplice graduazione delle posizioni sociali. In Roma antica abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel medioevo signori feudali, vassalli, membri delle corporazioni, garzoni, servi della gleba, e, per di più, anche particolari graduazioni in quasi ognuna di queste classi. La società borghese moderna, sorta dal tramonto della società feudale, non ha eliminato gli antagonismi fra le classi. Essa ha soltanto sostituito alle antiche, nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta. La nostra epoca, l'epoca della borghesia, si distingue però dalle altre per aver semplificato gli antagonismi di classe. L'intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente contrapposte l'una all'altra: borghesia e proletariato. Dai servi della gleba del medioevo sorse il popolo minuto delle prime città; da questo popolo minuto si svilupparono i primi elementi della borghesia. La scoperta dell'America, la circumnavigazione dell'Africa crearono alla sorgente borghesia un nuovo terreno. Il mercato delle Indie orientali e della Cina, la colonizzazione dell'America, gli scambi con le colonie, l'aumento dei mezzi di scambio e delle merci in genere diedero al commercio, alla navigazione, all'industria uno slancio fino allora mai conosciuto, e con ciò impressero un rapido sviluppo dell'elemento rivoluzionario entro la società feudale in disgregazione. L'esercizio dell'industria, feudale o corporativo, in uso fino allora non bastava più al fabbisogno che aumentava con i nuovi mercati. Al suo posto subentrò la manifattura. Il medio ceto industriale soppiantò i maestri artigiani; la divisione del lavoro fra le diverse corporazioni scomparve davanti alla divisione del lavoro nella singola officina stessa. Ma i mercati crescevano sempre, il fabbisogno saliva sempre. Neppure la manifattura era più sufficiente. Allora il vapore e le macchine rivoluzionarono la produzione industriale. All'industria manifatturiera subentrò la grande industria moderna; al medio ceto industriale subentrarono i milionari dell'industria, i capi di interi eserciti industriali, i borghesi moderni. La grande industria ha creato quel mercato mondiale, ch'era stato preparato dalla scoperta dell'America. Il mercato mondiale ha dato uno sviluppo immenso al commercio, alla navigazione, alle comunicazioni per via di terra. Questo sviluppo ha reagito a sua volta sull'espansione dell'industria, e, nella stessa misura in cui si estendevano industria, commercio, navigazione, ferrovie, si è sviluppata la borghesia, ha accresciuto i suoi capitali e ha respinto nel retroscena tutte le classi tramandate dal medioevo. Vediamo dunque come la borghesia moderna è essa stessa il prodotto d'un lungo processo di sviluppo, d'una serie di rivolgimenti nei modi di produzione e di traffico. Ognuno di questi stadi di sviluppo della borghesia era accompagnato da un corrispondente progresso politico. Ceto oppresso sotto il dominio dei signori feudali, insieme di associazioni armate ed autonome nel comune, talvolta sotto forma di repubblica municipale indipendente, talvolta di terzo stato tributario della monarchia, poi all'epoca dell'industria manifatturiera, nella monarchia controllata dagli stati come in quella assoluta, contrappeso alla nobiltà, e fondamento principale delle grandi monarchie in genere, la borghesia, infine, dopo la creazione della grande industria e del mercato mondiale, si è conquistata il dominio politico esclusivo nello stato rappresentativo moderno. Il potere statale moderno non è che un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese. La borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria. Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliche. Ha lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l'uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo «pagamento in contanti». Ha affogato nell'acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell'esaltazione devota, dell'entusiasmo cavalleresco, della malin- i conia filistea. Ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio e il posto delle innumerevoli libertà patentate e onestamente conquistate, ha messo, unica, la libertà di commercio priva di scrupoli. In una parola: ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido al posto dello sfruttamento mascherato d'illu- i sioni religiose e politiche. La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le attività che fino allora erano venerate e considerate con pio timore. Ha tramutato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l'uomo della scienza, in salariati ai suoi stipendi. La borghesia ha strappato il commovente velo sentimentale al rapporto familiare e lo ha ricondotto a un puro rapporto di denaro. La borghesia ha svelato come la brutale manifestazione di forza che la reazione ammira tanto nel medioevo,` avesse la sua appro- i priata integrazione nella più pigra infingardaggine. Solo la borghesia ha dimostrato che cosa possa compiere l'attività dell'uomo. Essa ha compiuto ben altre meraviglie che piramidi egiziane, acquedotti romani e cattedrali gotiche, ha portato a termine ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le crociate. La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l'immutato mantenimento del vecchio sistema di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l'ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l'incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l'epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti. Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni. Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un'impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi all'industria il suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazionari. Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più soltanto materie prime del luogo, ma delle zone più remote, e i cui prodotti non vengono consumati solo nel paese stesso, ma anche in tutte le parti del mondo. Ai vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All'antica autosufficienza e all'antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale, una interdipendenza universale fra le nazioni. E come per la produzione materiale, così per quella intellettuale. I prodotti intellettuali delle singole nazioni divengono bene comune. L'unilateralità e la ristrettezza nazionali diventano sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali si forma una letteratura mondiale. Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare. I bassi prezzi delle sue merci sono l'artiglieria pesante con la quale essa spiana tutte le muraglie cinesi, con la quale costringe alla capitolazione la più tenace xenofobia dei barbari. Costringe tutte le nazioni ad adottare il sistema di produzione della borghesia, se non vogliono andare in rovina, le costringe ad introdurre in casa loro la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi. In una parola: essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza. La borghesia ha assoggettato la campagna al dominio della città. Ha creato città enormi, ha accresciuto su grande scala la cifra della popolazione urbana in confronto di quella rurale, strappando in tal modo una parte notevole della popolazione all'idiotismo della vita rurale. Come ha reso la campagna dipendente dalla città, la borghesia ha reso i paesi barbari e semibarbari dipendenti da quelli inciviliti, i popoli di contadini da quelli di borghesi, l'Oriente dall'Occidente. La borghesia elimina sempre più la dispersione dei mezzi di produzione, della proprietà e della popolazione. Ha agglomerato la popolazione, ha centralizzato i mezzi di produzione, e ha concentrato in poche mani la proprietà. Ne è stata conseguenza necessaria i la centralizzazione politica. Province indipendenti, legate quasi solo da vincoli federali, con interessi, leggi, governi e dazi differenti, vennero strette in una sola nazione, sotto un solo governo, una sola legge, un solo interesse nazionale di classe, entro una sola barriera doganale. Durante il suo dominio & classe appena secolare la borghesia ha creato forze produttive in massa molto maggiore e più colossali che non avessero mai fatto tutte insieme le altre generazioni del passato. Il soggiogamento delle forze naturali, le macchine, l'applicazione della chimica all'industria e all'agricoltura, la naviga- i zione a vapore, le ferrovie, i telegrafi elettrici, il dissodamento d'interi continenti, la navigabilità dei fiumi, popolazioni intere sorte quasi per incanto dal suolo - quale dei secoli antecedenti immaginava che nel grembo del lavoro sociale stessero sopite tali forze produttive? Ma abbiamo visto che i mezzi di produzione e di scambio sulla cui base si era venuta costituendo la borghesia erano stati prodotti entro la società feudale. A un certo grado dello sviluppo di quei mezzi di produzione e di scambio, le condizioni nelle quali la società feudale produceva e scambiava, l'organizzazione feudale dell'agricoltura e della manifattura, in una parola i rapporti feudali della proprietà, non corrisposero più alle forze produttive ormai sviluppate. Essi inceppavano la produzione invece di promuoverla. Si trasformarono in altrettante catene. Dovevano essere spezzate e furono spezzate. Ad esse subentrò la libera concorrenza con la confacente costituzione sociale e politica, con il dominio economico e politico della classe dei borghesi. Sotto i nostri occhi si svolge un moto analogo. I rapporti borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la società borghese moderna che ha creato per incanto mezzi di produzione e di scambio così potenti, rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate. Sono decenni ormai che la storia dell'industria e del commercio è soltanto storia della rivolta delle forze produttive moderne contro i rapporti moderni della produzione, cioè contro i rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio. Basti ricordare le crisi commerciali che col loro periodico ritorno mettono in forse sempre più minacciosamente l'esistenza di tutta la società borghese. Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta non solo una gran parte dei prodotti ottenuti, ma addirittura gran parte delle forze produttive già create. Nelle crisi scoppia una epidemia sociale che in tutte le epoche anteriori sarebbe apparsa un assurdo: l'epidemia della sovraproduzione. La società si trova all'improvviso ricondotta a uno stato di momentanea barbarie; sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza; l'industria, il commercio sembrano distrutti? E perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive che sono a sua disposizione non servono più a promuovere la civiltà borghese e i rapporti borghesi di proprietà; anzi, sono divenute troppo potenti per quei rapporti e ne vengono ostacolate, e appena superano questo ostacolo mettono in disordine tutta la società borghese, mettono in pericolo l'esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono divenuti troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta. - Con quale mezzo la borghesia supera le crisi? Da un lato, con la distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall'altro, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi. Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse. A questo momento le armi che son servite alla borghesia per atterrare il feudalesimo si rivolgono contro la borghesia stessa. Ma la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che le porteranno la morte; ha anche generato gli uomini che impugneranno quelle armi: gli operai moderni, i proletari. Nella stessa proporzione in cui si sviluppa la borghesia, cioè il capitale, si sviluppa il proletariato, la classe degli operai moderni, che vivono solo fintantoché trovano lavoro, e che trovano lavoro solo fintantoché il loro lavoro aumenta il capitale. Questi operai che sono costretti a vendersi al minuto, sono una merce come ogni altro articolo commerciale, e sono quindi esposti, come le altre merci, a tutte le alterne vicende della concorrenza, a tutte le oscillazioni del mercato. Con l'estendersi dell'uso delle macchine e con la divisione del lavoro, il lavoro dei proletari ha perduto ogni carattere indipendente e con ciò ogni attrattiva per l'operaio. Egli diviene un semplice accessorio della macchina, al quale si richiede soltanto un'operazione manuale semplicissima, estremamente monotona e facilissima da imparare. Quindi le spese che causa l'operaio si limitano quasi esclusivamente ai mezzi di sussistenza dei quali egli ha bisogno per il proprio mantenimento e per la riproduzione della sua specie. Ma il prezzo di una merce, quindi anche quello del lavoro, è uguale ai suoi costi di produzione. Quindi il salario decresce nella stessa proporzione in cui aumenta il tedio del lavoro. Anzi, nella stessa proporzione dell'aumento dell'uso delle macchine e della divisione del lavoro, aumenta anche la massa del lavoro, sia attraverso l'aumento delle ore di lavoro, sia attraverso l'aumento del lavoro che si esige in una data unità di tempo, attraverso l'accresciuta celerità delle macchine e così via. L'industria moderna ha trasformato la piccola officina del maestro artigiano patriarcale nella grande fabbrica del capitalista industriale. Masse di operai addensate nelle fabbriche vengono organizzate militarmente. E vengono poste, come soldati semplici dell'industria, sotto la sorveglianza di una completa gerarchia di sottufficiali e ufficiali. Gli operai non sono soltanto servi della classe dei borghesi, dello stato dei borghesi ma vengono asserviti giorno per giorno, ora per ora dalla macchina, dal sorvegliante, e soprattutto dal singolo borghese fabbricante in persona. Questo dispotismo è tanto più meschino, odioso ed esasperante, quanto più apertamente esso proclama come proprio fine ultimo il guadagno. Quanto meno il lavoro manuale esige abilità ed esplicazione di forza, cioè quanto più si sviluppa l'industria moderna, tanto più il lavoro degli uomini viene soppiantato da quello delle donne {e dei fanciulli]. Per la classe operaia non han più valore sociale le differenze di sesso e di età. Ormai ci sono soltanto strumenti di lavoro che costano più o meno a seconda dell'età e del sesso. Quando lo sfruttamento dell'operaio da parte del padrone di fabbrica è terminato in quanto all'operaio viene pagato il suo salario in contanti, si gettano su di lui le altre parti della borghesia, il padron di casa, il bottegaio, il prestatore su pegno e così via. Quelli che fino a questo momento erano i piccoli ordini medi, cioè i piccoli industriali, i piccoli commercianti e coloro che vivevano di piccole rendite, gli artigiani e i contadini, tutte queste classi precipitano nel proletariato, in parte per il fatto che il loro piccolo capitale non è sufficiente per l'esercizio della grande industria, e soccombe nella concorrenza con i capitalisti più forti, in parte per il fatto che la loro abilità viene svalutata da nuovi sistemi di produzione. Così il proletariato si recluta in tutte le classi della popolazione. [...] La proprietà privata borghese moderna è l'ultima e più perfetta espressione della produzione e dell'appropriazione dei prodotti che poggia su antagonismi di classe, sullo sfruttamento degli uni da parte degli altri. In questo senso i comunisti possono riassumere la loro teoria nella frase: abolizione della proprietà privata. Ci si è rinfacciato, a noi comunisti, che vogliamo abolire la proprietà acquistata personalmente, frutto del lavoro diretto e personale; la proprietà che costituirebbe il fondamento di ogni libertà, attività e autonomia personale. Proprietà frutto del proprio lavoro, acquistata, guadagnata con le proprie forze! Parlate della proprietà del minuto cittadino, del piccolo contadino che ha preceduto la proprietà borghese? Non c'è bisogno che l'aboliamo noi, l'ha abolita e la va abolendo di giorno in giorno lo sviluppo dell'industria. O parlate della moderna proprietà privata borghese? Ma il lavoro salariato, il lavoro del proletario, crea proprietà a questo proletario? Affatto. Il lavoro del proletario crea il capitale, cioè quella proprietà che sfrutta il lavoro salariato, che può moltiplicarsi solo a condizione di generare nuovo lavoro salariato, per sfruttarlo di nuovo. La proprietà nella sua forma attuale si muove entro l'antagonismo fra capitale e lavoro salariato. Esaminiamo i due termini di questo antagonismo. Essere capitalista significa occupare nella produzione non soltanto una pura posizione personale ma una posizione sociale. Il capitale è un prodotto collettivo e può essere messo in moto solo mediante una attività comune di molti membri, anzi in ultima istanza solo mediante l'attività comune di tutti i membri della società. Dunque, il capitale non è una potenza personale; è una potenza sociale. Dunque, se il capitale viene trasformato in proprietà collettiva, appartenente a tutti i membri della società, non c'è trasformazione di proprietà personale in proprietà sociale. Si trasforma soltanto il carattere sociale della proprietà. La proprietà perde il suo carattere di classe. Veniamo al lavoro salariato. Il prezzo medio del lavoro salariato è il minimo del salario del lavoro, cioè è la somma dei mezzi di sussistenza che sono necessari per mantenere in vita l'operaio in quanto operaio. Dunque, quello che l'operaio salariato s'appropria mediante la sua attività è sufficiente soltanto per riprodurre la sua nuda esistenza. Noi non vogliamo affatto abolire questa appropriazione personale dei prodotti del lavoro per la riproduzione della esistenza immediata, appropriazione che non lascia alcun residuo di profitto fletto tale da poter conferire potere sul lavoro altrui. Vogliamo eliminare soltanto il carattere miserabile di questa appropriazione, nella quale l'operaio vive solo allo scopo di accrescere il capitale, e vive solo quel tanto che esige l'interesse della classe dominante. Nella società borghese il lavoro vivo è soltanto un mezzo per moltiplicare il lavoro accumulato. Nella società comunista il lavoro accumulato è soltanto un mezzo per ampliare, per arricchire, per far progredire il ritmo d'esistenza degli operai. Dunque, nella società borghese il passato domina sul presente, nella società comunista il presente domina sul passato. Nella società borghese il capitale è indipendente e personale, mentre l'individuo operante è dipendente e impersonale. E la borghesia chiama abolizione della personalità e della libertà l'abolizione di questo rapporto! E a ragione: infatti, si tratta dell'abolizione della personalità, della indipendenza e della libertà del borghese. Entro gli attuali rapporti di produzione borghesi per libertà s'intende il libero commercio, la libera compravendita. Ma scomparso il traffico, scompare anche il libero traffico. Le frasi sul libero traffico, come tutte le altre bravate sulla libertà della nostra borghesia, hanno senso, in genere, soltanto rispetto al traffico vincolato, rispetto al cittadino asservito del medioevo; ma non r hanno senso rispetto alla abolizione comunista del traffico, dei rapporti borghesi di produzione e della stessa borghesia. Voi inorridite perché vogliamo abolire la proprietà privata. Ma nella vostra società attuale la proprietà privata è abolita per i nove decimi dei suoi membri; la proprietà privata esiste proprio per il fatto che per nove decimi non esiste. Dunque voi ci rimproverate di voler abolire una proprietà che presuppone come condizione necessaria la privazione della proprietà dell'enorme maggioranza della società. In una parola, voi ci rimproverate di volere abolire la vostra proprietà. Certo, questo vogliamo. Appena il lavoro non può più essere trasformato in capitale, in denaro, in rendita fondiaria, insomma in una potenza sociale monopolizzabile, cioè, appena la proprietà personale non può più convertirsi in proprietà borghese, voi dichiarate che è abolita la persona. Dunque confessate che per persona non intendete nient'altro che il borghese, il proprietario borghese. Certo questa persona deve essere abolita. Il comunismo non toglie a nessuno il potere di appropriarsi prodotti della società, toglie soltanto il potere di assoggettarsi il lavoro altrui mediante tale appropriazione. [...J La rivoluzione comunista è la più radicale rottura con i rapporti tradizionali di proprietà; nessuna meraviglia che nel corso del suo sviluppo si rompa con le idee tradizionali nella maniera più radicale. Ma lasciamo stare le obiezioni della borghesia contro il comunismo. Abbiamo già visto sopra che il primo passo sulla strada della rivoluzione operaia consiste nel fatto che il proletariato s'eleva a classe dominante, cioè nella conquista della democrazia. Il proletariato adoprerà il suo dominio politico per strappare a poco a poco alla borghesia tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello stato, cioè del proletariato organizzato come classe dominante, e per moltiplicare al più presto possibile la massa delle forze produttive. Naturalmente, ciò può avvenire, in un primo momento, solo mediante interventi despotici nel diritto di proprietà e nei rapporti borghesi di produzione, cioè per mezzo di misure che appaionoinsufficienti e poco consistenti dal punto di vista dell'economia; ma nel corso del movimento si spingono al di là dei propri limiti e sono inevitabili come mezzi per il rivolgimento dell'intero sistema di produzione. Quando le differenze di classe saranno scomparse nel corso dell'evoluzione, e tutta la proprietà sarà concentrata in mano agli individui associati, il pubblico potere perderà il suo carattere politico. In senso proprio, il potere politico è il potere di una classe organizzato per opprimerne un'altra. Il proletariato, unendosi di necessità in classe nella lotta contro la borghesia, facendosi classe dominante attraverso una rivoluzione, ed abolendo con la forza, come classe dominante, gli antichi rapporti di produzione, abolisce insieme a quei rapporti di produzione le condizioni di esistenza dell'antagonismo di classe, cioè abolisce le condizioni d'esistenza delle classi in genere, e così anche il suo proprio dominio in quanto classe. Alla vecchia società borghese con le sue classi e i suoi antagonismi fra le classi subentra una associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti. (da K. MARX, Manifesto del Partito Comunista, a cura di E. Cantimori Mezzomonti, Einaudi, Torino 1963, pp. 64-5; 100-10; 148-51; 1568) L'alienazione dell'operaio • Leggiamo ora alcuni brani tra i più famosi dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, pubblicati per la prima volta solo nel 1932. Questi Manoscritti, nei quali Marx descrive il rapporto di alienazione che lega l'operaio alla merce da lui stesso prodotta, e in generale la riduzione del proletario a «cosa», a mera «forza lavoro», a «cavallo» costretto a girare la sua macina in cambio della pura sopravvivenza fisica, determinarono, in seno al marxismo del nostro secolo, una svolta e un approfondimento «umanistico» del pensiero di Marx, di cui ci occuperemo in seguito. L'operaio diventa tanto più povero quanto più produce ricchezza, quanto più la sua produzione cresce in potenza e estensione. L'operaio diventa una merce tanto più a buon mercato quanto più crea delle merci. Con la messa in valore del mondo delle cose cresce in rapporto diretto la svalutazione del mondo degli uomini. Il lavoro non produce soltanto merci; esso produce se stesso e il lavoratore come una merce, precisamente nella proporzione in cui esso produce merci in genere. Questo fatto non esprime nient'altro che questo: che l'oggetto prodotto dal lavoro, prodotto suo, sorge di fronte al lavoro come un ente estraneo, come una potenza indipendente dal producente. Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, che si è fatto oggettivo:' è l'oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare, nella condizione descritta dall'economia politica, come i annullamento dell'operaio, e l'oggettivazione appare come perdita e schiavitù dell'oggetto, e l'appropriazione come alienazione, come espropriazione. La realizzazione del lavoro si palesa talmente come annullamento che l'operaio è annullato fino alla morte per fame. L'oggettivazione si palesa tale perdita dell'oggetto che l'operaio è derubato non solo degli oggetti più necessari alla vita, ma anche degli oggetti più necessari del lavoro. Lo stesso lavoro, anzi, diventa un oggetto di cui egli può impadronirsi solo con lo sforzo più grande e le interruzioni più irregolari. L'appropriazione dell'oggetto prodotto si palesa tale estraniazione che più oggetti l'operaio produce, meno può possederne e tanto più cade sotto il dominio del suo prodotto, del capitale. Tutte queste conseguenze si trovano nella determinazione: che l'operaio sta in rapporto al prodotto del suo lavoro come ad un oggetto estraneo. Poiché è chiaro, per questo presupposto, che quanto più l'operaio si consuma nel lavoro tanto più acquista potenza il mondo estraneo, oggettivo, ch'egli si crea di fronte, e tanto più povero diventa egli stesso, il suo mondo interiore, e tanto meno egli possiede. Come nella religione. Più l'uomo mette in Dio e meno serba in se stesso. L'operaio mette nell'oggetto la sua vita, e questa non appartiene più a lui, bensì all'oggetto. Più è grande questa sua attività e più l'operaio diventa senza oggetto. Ciò ch'è il prodotto del suo lavoro egli non lo è. Quanto maggiore dunque questo prodotto, tanto minore è egli stesso. L'espropriazione dell'operaio nel suo prodotto non ha solo il significato che il suo lavoro diventa un oggetto, un'esterna esistenza, bensì che esso esiste fuori di lui, indipendente, estraneo a lui, come una potenza indipendente di fronte a lui, e che la vita, da lui data all'oggetto, lo confronta estranea e nemica. Consideriamo più da vicino l'oggettivazione, la produzione dell'operaio, ed in essa l'alienazione, la perdita dell'oggetto, del suo prodotto. L'operaio non può produrre nulla senza la natura, senza il mondo esterno sensibile. La natura è il materiale su cui il suo lavoro si realizza, in cui esso è attivo, da cui e mediante cui esso produce.Ma come la natura fornisce l'alimento del lavoro, nel senso che il lavoro non può sussistere senza oggetti, sui quali esercitarsi, così essa fornisce d'altra parte anche gli alimenti in senso stretto, cioè i mezzi per la sussistenza fisica dell'operaio stesso. Dunque, quanto più l'operaio si appropria col suo lavoro il mondo esterno, la natura sensibile, tanto più si priva di alimento: nel duplice senso che, in primo luogo, il sensibile mondo esteriore cessa sempre più di esser un oggetto appartenente al suo lavoro, un alimento del suo lavoro, e che, in secondo luogo, esso mondo sensibile cessa sempre più di esser alimento nel senso immediato di mezzo per la sussistenza fisica dell'operaio. Sotto questo duplice aspetto, dunque, l'operaio diventa uno schiavo del suo oggetto: primieramente in quanto egli riceve un oggetto di lavoro, cioè lavoro, e secondariamente in quanto riceve mezzi di sussistenza. Primieramente, dunque, in quanto può esistere come lavoratore, secondariamente in quanto può esistere come soggetto fisico. L'apice di questa schiavitù è che egli, ormai, solo in quanto operaio [può] conservarsi come soggetto fisico, e solo in quanto è soggetto fisico egli è operaio. (L'alienazione dell'operaio nel suo oggetto si esprime, secondo le leggi dell'economia politica, in modo che, quanto più l'operaio produce, tanto meno ha da consumare, e quanto più crea dei valori, tanto più egli è senza valore e senza dignità, e quanto più il suo prodotto ha forma, tanto più l'operaio è deforme, e quanto più è raffinato il suo oggetto, tanto più è imbarbarito l'operaio, e quanto più è potente il lavoro, tanto più impotente diventa l'operaio, e quanto più è spiritualmente ricco il lavoro, tanto più l'operaio è divenuto senza spirito e schiavo della natura). L'economia politica occulta l'alienazione ch'è nell'essenza del lavoro per questo: ch'essa non considera l'immediato rapporto fra l'operaio (il lavoro) e la produzione. Certamente il lavoro produce meraviglie per i ricchi, ma produce lo spogliamento dell'operaio. Produce palazzi, ma caverne per l'operaio. Produce bellezza, ma deformità per l'operaio. Esso sostituisce il lavoro con le macchine, ma respinge una parte dei lavoratori ad un lavoro barbarico, e riduce a macchine l'altra parte. Produce spiritualità, e produce la imbecillità, il cretinismo dell'operaio. [...] In che consiste ora l'espropriazione del lavoro? Primieramente in questo: che il lavoro resta esterno all'operaio, cioè non appartiene al suo essere, e che l'operaio quindi non si afferma nel suo lavoro, bensì si nega, non si sente appagato ma infelice, non svolge alcuna libera energia fisica e spirituale, bensì mortifica il suo corpo e rovina il suo spirito. L'operaio si sente quindi con se stesso soltanto fuori del lavoro, e fuori di sé nel lavoro. A casa sua egli è quando non lavora e quando lavora non lo è. Il suo lavoro non è volontario, bensì forzato, è lavoro costrittivo. Il lavoro non è quindi la soddisfazione di un bisogno, bensì è soltanto un mezzo per soddisfare dei bisogni esterni a esso. La sua estraneità risalta nel fatto che, appena cessa di esistere una costrizione fisica o d'altro genere, il lavoro è fuggito come una peste. Il lavoro esterno, il lavoro in cui l'uomo si espropria, è un lavoro-sacrificio, un lavoro-mortificazione. Infine l'esteriorità del lavoro al lavoratore si palesa in questo: che il lavoro io non è cosa sua ma di un altro, che il lavoro non gli appartiene, e che in esso egli non appartiene a sé, bensì a un altro. Come nella religione l'attività propria dell'umana fantasia, dell'umano cervello e del cuore umano, opera sull'individuo indipendentemente da esso, cioè come un'attività estranea, divina o diabolica, così l'attività del lavoratore non è la sua attività propria. Essa appartiene ad un altro, è la perdita del lavoratore stesso. Il risultato è che l'uomo (il lavoratore) si sente libero ormai soltanto nelle sue funzioni bestiali, nel mangiare, nel bere e nel generare, tutt'al più nell'aver una casa, nella sua cura corporale ecc., e che nelle sue funzioni umane si sente solo più una bestia. Il bestiale diventa l'umano e l'umano il bestiale. Il mangiare, il bere, il generare ecc., sono in effetti anche schiette funzioni umane, ma sono bestiali nell'astrazione che le separa dal restante cerchio dell'umana attività e ne fa degli scopi ultimi e unici. Abbiamo considerato da due lati l'atto di alienazione dell'attività pratica umana, del lavoro. 1) Il rapporto dell'operaio col prodotto del lavoro come oggetto estraneo e avente un dominio su di lui. Rapporto che è contemporaneamente rapporto col mondo i: sensibile, cogli oggetti naturali, come mondo che gli sta di fronte estraneo, nemico. 2) 11 rapporto del lavoro con l'atto di produzione nel lavoro. Rapporto ch'è il rapporto dell'operaio con la sua propria attività come estranea, non sua, l'attività come passività, la forza ch'è debolezza, la generazione ch'è impotenza, l'energia fisica e spirituale propria dell'operaio, la sua vita personale - che cos'è la vita se non attività come un'attività rivolta contro lui stesso, da lui indipendente, a lui non appartenente. L'autoalienazione, allo stesso modo in cui vedemmo sopra l'alienazione della cosa. [...] Se il prodotto del lavoro mi è estraneo, mi sta di fronte come una potenza straniera, a chi esso appartiene allora? Se la mia propria attività non mi appartiene, ma è un'estranea e coartata attività, a chi appartiene allora? A un ente altro da me. Chi è questo ente? La divinità? Certamente nei primi tempi la produzione principale, ad es. a costruzione di templi ecc., in Egitto, in India, al Messico, appare al servizio degli dèi e anche il prodotto appartiene agli dèi. Ma gli dèi non furono mai i soli padroni del lavoro. Tanto meno la natura. E quale contraddizione sarebbe anche che, vieppiù l'uomo si sottomette la natura col suo lavoro, e vieppiù i prodigi degli dèi sono resi superflui grazie ai prodigi dell'industria, l'uomo debba rinunciare per amore di tali potenze alla gioia della produzione e al godimento del prodotto.L'ente estraneo, al quale appartiene il lavoro e il prodotto del lavoro, al servizio del quale sta il lavoro e per il godimento del quale sta il prodotto del lavoro, può esser soltanto l'uomo stesso. Quando il prodotto del lavoro non appartiene all'operaio, e gli sta di fronte come una potenza estranea, ciò è solo possibile in quanto esso appartiene a un altro uomo estraneo all'operaio. Quando la sua attività gli è penosa, essa dev'essere godimento per un altro, gioia di vivere di un altro. Non gli dèi, non la natura, soltanto l'uomo stesso può esser questa potenza estranea sopra [l']uomo. [...] Dunque, nel lavoro alienato, espropriato, l'operaio produce il rapporto che a questo lavoro ha un uomo estraneo e che sta fuori di esso. Il rapporto dell'operaio col lavoro genera il rapporto del capitalista - o come altrimenti si voglia chiamare il padrone del lavoro - col medesimo lavoro. La proprietà privata è dunque il prodotto, il risultato, la necessaria conseguenza del lavoro espropriato, del rapporto estrinseco dell'operaio alla natura e a se stesso. La proprietà privata risulta così dall'analisi del concetto del lavoro espropriato, cioè dell'uomo espropriato, del lavoro alienato, della vita alienata, dell'uomo alienato. Abbiamo certamente ricavato il concetto del lavoro espropriato (della vita espropriata) dall'economia politica come risultato del movimento della proprietà privata. Ma nell'analisi di questo concetto si mostra che, quando la proprietà privata appare come ra- i gione e causa del lavoro espropriato, essa è piuttosto una conseguenza di quest'ultimo, così come gli dèi sono in origine non causa ma bensì effetto dello smarrimento dell'intelletto umano. Poi questo rapporto si rovescia in un effetto reciproco. Solo all'ultimo punto culminante dello sviluppo della proprietà i privata questa fa di nuovo risaltare il suo segreto: cioè che, da una parte, essa è il risultato del lavoro espropriato, e secondariamente ch'essa è il mezzo col quale il lavoro si espropria, la realizzazione di questa espropriazione. Questo sviluppo illumina subito diverse collisioni finora insolute. 1) L'economia politica parte dal lavoro come anima autentica della produzione, e tuttavia al lavoro non dà nulla e alla proprietà privata dà tutto. Proudhon da questa contraddizione ha concluso a favore del lavoro contro la proprietà. Ma noi comprendiamo che questa speciosa contraddizione è la contraddizione del lavoro alie- i nato con se stesso e che l'economia politica ha espresso soltanto le leggi del lavoro estraniato. Noi quindi comprendiamo anche che salario e proprietà privata sono identici: ché il salario, nel quale il prodotto, l'oggetto del lavoro retribuisce il lavoro stesso, è solo una necessaria conse- i guenza dell'alienazione del lavoro, così come nel salario il lavoro non si palesa fine a se stesso, bensì mezzo che serve al salario. Concluderemo su ciò più tardi, ora traiamo soltanto ancora alcune conseguenze. Un forzato aumento del salario (prescindendo da tutte le altre difficoltà, prescindendo dal fatto che, essendo un'anomalia, esso potrebbe anche esser mantenuto soltanto con la forza) non sarebbe dunque altro che una migliore retribuzione degli schiavi e non sarebbe la conquista, né per il lavoratore né per il lavoro, della loro umana vocazione e dignità. Sì, anche l'eguaglianza dei salari, come l'esige Proudhon, trasforma soltanto il rapporto dell'odierno operaio al suo lavoro in un rapporto di tutti gli uomini al lavoro: e la società è allora concepita come un astratto capitalista. Il salario è un'immediata conseguenza del lavoro alienato, e il lavoro alienato è la causa immediata della proprietà privata. Con un aspetto deve, quindi, cadere anche l'altro. 2) Dal rapporto del lavoro alienato alla proprietà privata consegue inoltre che l'emancipazione della società dalla proprietà privata ecc., dalla servitù, si esprime nella forma politica dell'emancipazione operaia non come se si trattasse soltanto dell'emancipazione dell'operaio, bensì per il fatto che nell'emancipazione di questo è implicita la generale emancipazione umana; e vi è contenuta in quanto l'intera servitù umana è coinvolta nel rapporto dell'operaio alla produzione, e tutti i rapporti di servitù sono soltanto modificazioni e conseguenze di questo rapporto. (da K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Opere, vol. III, cit., pp. 298-301; 305; 306-8) Il plusvalore • Il concetto di plusvalore è una delle principali acquisizioni teoriche del Capitale di Marx. La questione, come tutta l'opera maggiore di Marx, è molto tecnica e ha provocato discussioni tra economisti, storici e filosofi che non si sono spente neppure ai nostri giorni. Nella pagina che ora leggeremo viene fornita la prima descrizione generale della produzione del plusvalore, cioè di quella parte di prodotto che il capitalista sottrae all'operaio e, appunto, capitalizza per sé. La produzione capitalistica non è unicamente produzione di merce; in sostanza è produzione di plusvalore. L'operaio non produce per se stesso ma per conto del capitale. Dunque non basta più che l'operaio produca genericamente: deve produrre il plusvalore. E produttivo solo quell'operaio che produce plusvalore per conto del capitalista, contribuendo all'autovalorizzazione del capitale. Prendiamo un esempio estraneo alla sfera della produzione materiale: un maestro di scuola è un lavoratore produttivo non perché educa e forma le menti dei bambini, ma perché si ammazza di lavoro per arricchire il proprietario della scuola.' In questo rapporto non cambia nulla il fatto che il proprietario abbia investito il suo capitale in un fabbrica di istruzione piuttosto che in una fabbrica di salami. Il concetto di lavoratore produttivo non riguarda dunque solo una relazione tra attività e risultato raggiunto, tra lavoratore e prodotto del lavoro, ma riguarda per di più uno specifico rapporto di produzione sociale, rapporto storicamente determinato che bolla il lavoratore come strumento immediato della valorizzazione del capitale. per ciò che si deve considerare una disgrazia e non una fortuna essere operaio produttivo. Nel quarto libro di quest'opera, dove esporremo la storia della teoria, vedremo in dettaglio come l'economia politica classica abbia costantemente considerato la produzione di plusvalore come il carattere fondamentale dell'operaio produttivo. In conseguenza di ciò essa fornisce dell'operaio produttivo delle definizioni che variano col variare del suo modo di intendere la natura del plusvalore. [...] Il prolungamento della giornata lavorativa oltre quel punto in cui l'operaio si sarebbe fermato in base alla semplice produzione dell'equivalente del valore della propria forza produttiva, e l'appropriazione del plusvalore [che ne deriva] da parte del capitale, danno vita alla produzione del plusvalore assoluto. Questo processo può compiersi e di fatto si compie sulla base di metodi produttivi che si sono trasmessi attraverso la storia senza la partecipazione del capitale. Si tratta dunque di una forma trasformata, e il modo di sfruttamento capitalistico si distingue da quelli precedenti, come il sistema schiavistico ecc., solo perché in questi ultimi il plusvalore viene estorto con la costrizione diretta, mentre nel primo viene ricavato dalla «libera» vendita della forza lavorativa. (da K. MARX, Il capitale, libro I, cap. XIV)