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Marx
Il «misticismo logico» hegeliano
Il modo in cui lo Stato si media con la famiglia e la società civile
sono «le circostanze, l'arbitrio e la propria scelta della
determinazione». La ragione dello Stato non ha dunque niente a che
fare con la divisione della materia statale nella famiglia e nella società
civile. Lo Stato ne scaturisce in una guisa inconsapevole e arbitraria.
Famiglia e società civile appaiono come l'oscuro fondo naturale da cui
si accende la luce dello Stato. Per materia statale si intendono gli
affari dello Stato, la famiglia e la società civile in quanto costituiscono
parti dello Stato, partecipano allo Stato come tale.
Questo sviluppo è notevole sotto un duplice riguardo.
1) Famiglia e società sono intese come sfere del concetto dello
Stato, come le sfere della sua finità, come la sua finità. E lo Stato che
si scinde in esse, che le presuppone, e fa questo «per scaturire dalla
loro idealità come spirito reale, per sé infinito». «Esso si scinde per.»
Esso «assegna perciò a queste sfere la materia della sua realtà,
cosicché questa assegnazione ecc. appare mediata». La cosiddetta
«idea reale» (lo spirito come spirito infinito, reale) è rappresentata
come se agisse secondo un principio determinato e per un'intenzione
determinata. Essa si scinde in sfere finite e lo fa «per ritornare in sé,
per essere per sé»: lo fa precisamente in modo che ciò è proprio
come è in realtà.
E a questo punto che si manifesta molto chiaramente il misticismo
logico, panteistico.
Il rapporto reale è «che l'assegnazione della materia statale è
mediata nel singolo dalle circostanze, dall'arbitrio e dalla propria
scelta della sua determinazione». Questo fatto, questo rapporto reale,
è enunciato dalla speculazione come una manifestazione, come un
fenomeno. Queste circostanze, questo arbitrio, questa scelta della
determinazione, questa mediazione reale, sono soltanto la
manifestazione di una mediazione che l'idea reale intraprende seco
stessa, e che succede dietro il sipario. La realtà non è espressa come
se stessa, ma come una realtà diversa. L'empiria volgare ha come
legge non il suo proprio spirito, ma uno estraneo, e per contro l'idea
reale ha come sua esistenza non una realtà sviluppatasi da essa idea,
ma bensì la volgare empiria.
L'idea è ridotta a soggetto. E il reale rapporto della famiglia
e della società civile con lo Stato è inteso come interna, immagina
ria, attività dello Stato. Famiglia e società civile sono i presupposti
dello Stato, sono essi propriamente gli attivi. Ma nella speculazione
diventa il contrario: mentre l'idea è trasformata in soggetto, quivi i
soggetti reali, la società civile, la famiglia, «le circostanze, l'arbitrio»
ecc., diventano dei momenti obiettivi dell'idea, irreali, allegorici. [...]
La realtà empirica viene dunque accolta tale quale è: essa è anche
enunciata come razionale, ma non è razionale per sua propria
razionalità, bensì perché il fatto empirico ha, nella sua empirica
esistenza, un significato altro da se stesso. Il fatto, da cui si parte,
non è inteso come tale, ma come risultato mistico. Ciò ch'è reale
diventa fenomeno, ma l'idea non ha per contenuto altro che questo
fenomeno. E altresì l'idea non ha alcun altro scopo che lo scopo
logico: «di essere per sé infinito, reale spirito». In questo paragrafo è
depositato tutto il mistero della filosofia del diritto e della filosofia
hegeliana in generale.
(da K. MARX, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, in
Marx-Engels, Opere complete, vol. III a cura di N. Merker, Editori
Riuniti, Roma 1976, pp. 7-8; 10)
La religione è «l'oppio del popolo»
Per la Germania, la critica della religione nell'essenziale è compiuta,
e la critica della religione è il presupposto di ogni critica.
L'esistenza profana dell'errore è compromessa dacché è stata
confutata la sua celeste oratio pro ans et focis.' L'uomo, il quale nella
realtà fantastica del cielo, dove cercava un superuomo, non ha
trovato che l'immagine riflessa di se stesso, non sarà più disposto a
trovare soltanto l'immagine di sé, soltanto il non-uomo, là dove cerca
e deve cercare la sua vera realtà.
Il fondamento della critica irreligiosa è: l'uomo fa la religione, e non
la religione l'uomo. Infatti, la religione è la coscienza di sé e il
sentimento di sé dell'uomo che non ha ancora conquistato o ha già di
nuovo perduto se stesso. Ma l'uomo non è un'entità astratta posta
fuori del mondo. L'uomo è il mondo dell'uomo, lo Stato, la società.
Questo Stato, questa società producono la religione, una coscienza
capovolta del mondo, poiché essi sono un mondo capovolto. La
religione è la teoria generale di questo mondo, il suo compendio
enciclopedico, la sua logica in forma popolare, il suo point d'honneur
2 spiritualistico, il suo entusiasmo, la sua sanzione morale, il suo
solenne completamento, il suo universale fondamento di consolazione
e di giustificazione. Essa è la realizzazione fantastica dell'essenza
umana, poiché l'essenza umana non possiede una realtà vera. La
lotta contro la religione è dunque, mediatamente, la lotta contro quel
mondo, del quale la religione è l'aroma spirituale.
La miseria religiosa è insieme l'espressione della miseria reale e la
protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura
oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo
spirito di una condizione senza spirito. Essa è l'oppio del popolo.
Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire
esigerne la felicità reale. L'esigenza di abbandonare le illusioni sulla
sua condizione è l'esigenza di abbandonare una condizione che ha
bisogno di illusioni. La critica della religione, dunque, è, in germe, la
critica della valle di lacrime, di cui la religione è l'aureola.
La critica ha strappato dalla catena i fiori immaginari, non perché
l'uomo porti la catena spoglia e sconfortante, ma affinché egli getti
via la catena e colga i fiori vivi. La critica della religione disinganna
l'uomo affinché egli pensi, operi, dia forma alla sua realtà come un
uomo disincantato e giunto alla ragione, affinché egli si muova
intorno a se stesso e perciò, intorno al suo sole reale. La religione è
soltanto il sole illusorio che si muove intorno all'uomo, fino a che
questi non si muove intorno a se stesso.
E dunque compito della storia, una volta scomparso l'al di là della
verità, quello di ristabilire la verità dell'al di qua. E innanzi tutto è
compito della filosofia, la quale sta al servizio della storia, una volta
smascherata la figura sacra dell'autoestraneazione umana,
smascherare l'autoestraneazione nelle sue figure profane. La critica
del cielo si trasforma così nella critica della terra, la critica della
religione nella critica del diritto, la critica della teologia nella critica
della politica.
(da K. MARX, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, in Opere,
vol. III, cit., pp. 190-1)
Contro i Giovani hegeliani
I Vecchi hegeliani avevano compreso qualsiasi cosa, non appena
l'avevano ricondotta ad una categoria logica hegeliana. I Giovani
hegeliani criticarono qualsiasi cosa scoprendo in essa idee religiose o
definendola teologica. I Giovani hegeliani concordano con i Vecchi
hegeliani in quanto credono al predominio della religione, dei
concetti, dell'universale nel mondo esistente; solo che gli uni
combattono quel predominio come usurpazione, mentre gli altri lo
esaltano come legittimo.
Poiché questi Giovani hegeliani considerano le rappresentazioni, i
pensieri, i concetti, e in genere i prodotti della coscienza, da loro fatta
autonoma, come le vere catene degli uomini, cosìcome i Vecchi
hegeliani ne facevano i veri legami della società umana, s'intende
facilmente che i Giovani hegeliani devono combattere soltanto contro
quelle illusioni della coscienza. Poiché secondo la loro fantasia le
relazioni fra gli uomini, ogni loro fare e agire, i loro vincoli e i loro
impedimenti sono prodotto della loro coscienza, i Giovani hegeliani
coerentemente chiedono agli uomini, come postulato morale, di
sostituire alla loro coscienza attuale la coscienza umana, critica o
egoistica e di sbarazzarsi così dei loro impedimenti. Questa richiesta,
di modificare la coscienza, conduce all'altra richiesta, di interpretare
diversamente ciò che esiste, ossia di riconoscerlo mediante una
diversa interpretazione. Nonostante le loro frasi che, secondo loro,
«scuotono il mondo», gli ideologi giovani-hegeliani sono i più grandi
conservatori. I più giovani tra loro hanno trovato l'espressione giusta
per la loro attività, affermando di combattere soltanto contro delle
«frasi». Dimenticano soltanto che a queste frasi essi stessi non
oppongono altro che frasi, e che non combattono il mondo realmente
esistente quando combattono soltanto le frasi di questo mondo. I soli
risultati ai quali questa critica filosofica poteva portare erano alcuni e
per giunta parziali chiarimenti, nel campo della storia della religione,
intorno al cristianesimo; tutte le altre loro asserzioni non sono che
altri modi di abbellire la pretesa di aver compiuto, con quei
chiarimenti insignificanti, scoperte di importanza storica universale.
A nessuno di questi filosofi è venuto in mente di ricercare il flesso
esistente tra la filosofia tedesca e la realtà tedesca, il nesso tra la loro
critica e il proprio ambiente materiale.
(da K. MARX-F. ENGELS, Ideologia tedesca, in La concezione
materialistica della storia, a cura di F. Codino, Editori Riuniti, Roma
1959, pp. 33-4)
Contro Feuerbach
1
Il difetto principale d'ogni materialismo fino ad oggi (compreso
quello di Feuerbach) è che l'oggetto, la realtà, la sensibilità, vengono
concepiti solo sotto la forma dell'obietto' o dell'intuizione; ma non
come attività sensibile umana, prassi; non soggettivamente. Di
conseguenza il lato attivo fu sviluppato astrattamente, in opposizione
al materialismo, dall'idealismo, - che naturalmente non conosce
l'attività reale, sensibile, in quanto tale. - Feuerbach vuole oggetti
sensibili, realmente distinti dagli oggetti del pensiero; ma egli non
concepisce l'attività umana stessa come attività oggettiva. Egli,
perciò, nell'Essenza del cristianesimo, considera come veramente
umano soltanto l'atteggiamento teoretico, mentre la prassi è
concepita e fissata solo nel suo modo d'apparire sordidamente
giudaico.' Egli non comprende, perciò, il significato dell'attività
«rivoluzionaria», «pratico-critica».
2
La questione se al pensiero umano spetti una verità oggettiva, non
è questione teoretica bensì una questione pratica. Nella prassi l'uomo
deve provare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere
immanente del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà del
pensiero - isolato dalla prassi - è una questione meramente
scolastica.
3
La dottrina materialistica della modificazione delle circostanze e
dell'educazione dimentica che le circostanze sono modificate dagli
uomini e che l'educatore stesso deve essere educato. Essa è costretta
quindi a separare la società in due parti, delle quali l'una è sollevata
al di sopra della società.
La coincidenza del variare delle circostanze dell'attività umana, o
auto-trasformazione, può essere concepita o compresa razionalmente
solo come prassi rivoluzionaria.
4
Feuerbach prende le mosse dal fatto dell'auto-estraneazione
religiosa, della duplicazione del mondo in un mondo religioso e in uno
mondano. Il suo lavoro consiste nel risolvere il mondo religioso nel
suo fondamento mondano. Ma il fatto che il fondamento mondano si
distacchi da se stesso e si costruisca nelle nuvole come un regno fisso
e indipendente, è da spiegarsi soltanto con l'autodissociazione e con
l'auto-contraddittorietà di questo fondamento mondano. Questo
fondamento deve essere perciò in se stesso tanto compreso nella sua
contraddizione, quanto rivoluzionato praticamente. Pertanto, dopo
che, per esempio, la famiglia terrena è stata scoperta come il segreto
della sacra famiglia, è proprio la prima a dover essere dissolta
teoricamente e praticamente.
5
Feuerbach, non soddisfatto del pensiero astratto, vuole l'intuizione;
ma egli non concepisce la sensibilità come attività pratica
umana-sensibile.
6
Feuerbach risolve l'essenza religiosa nell'essenza umana. Ma
l'essenza umana non è qualcosa di astratto che sia immanente
all'individuo singolo. Nella sua realtà essa è l'insieme dei rapporti
sociali.
Feuerbach, che non penetra nella critica di questa essenza reale, è
perciò costretto:
1. ad astrarre dal corso della storia, a fissare il sentimento religioso
per sé, e a presupporre un individuo umano astratto -isolato.
2. L'essenza può dunque essere concepita soltanto come «genere»,
cioè come universalità interna, muta, che leghi molti individui
naturalmente.'
7
Feuerbach non vede dunque che il «sentimento religioso» è esso
stesso un prodotto sociale e che l'individuo astratto, che egli analizza,
appartiene a una forma sociale determinata.
8
Tutta la vita sociale è essenzialmente pratica. Tutti i misteri che
trascinano la teoria verso il misticismo trovano la loro soluzione
razionale nella prassi umana e nella comprensione di questa prassi.
9
Il punto più alto cui giunge il materialismo intuitivo, cioè il
materialismo che non intende la sensibilità come attività pratica, è
l'intuizione degli individui singoli e della società borghese.
10
Il punto di vista del vecchio materialismo è la società borghese, il
punto di vista del materialismo nuovo è la società umana o l'umanità
sociale.
11
I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo: si
tratta di trasformarlo.
(da K. MARX, Tesi su Feuerbach, in Opere complete, vol. V, Editori
Riuniti, Roma 1972, pp. 3-5)
Di fronte ai materialisti «puri» Feuerbach ha certo il grande
vantaggio di intendere come anche l'uomo sia «oggetto sensibile»;
ma a parte il fatto che lo concepisce soltanto come «oggetto
sensibile» e non come «attività sensibile», poiché anche qui egli resta
sul terreno della teoria, e non concepisce gli uomini nella loro
connessione sociale, nelle loro presenti condizioni di vita, che hanno
fatto di loro ciò che sono, egli non arriva agli uomini realmente
esistenti e operanti ma resta fermo all'astrazione «l'uomo», e riesce a
riconoscere solo nella sensazione l'«uomo reale, individuale, in carne
e ossa», il che significa che non conosce altri «rapporti umani»
«dell'uomo con l'uomo» se non l'amore e l'amicizia, e per di più
idealizzati.
Egli non offre alcuna critica dei rapporti attuali della vita. Non
giunge mai, quindi, a concepire il mondo sensibile come l'insieme
dell'attività sensibile vivente degli individui che lo formano, e perciò
se in luogo di uomini sani, per esempio, vede una massa di affamati
scrofolosi, sfiniti e tisici, è costretto a rifugiarsi nella «più alta
intuizione» e nell'ideale «compensazione nella specie», e dunque è
costretto a ricadere nell'idealismo proprio là dove il materialista
comunista vede la necessità e insieme la condizione di una
trasformazione tanto nell'industria quanto della struttura sociale.
Fin tanto che Feuerbach è materialista, per lui la storia non appare,
e fin tanto che prende in considerazione la storia, non è un
materialista. Materialismo e storia per lui sono del tutto divergenti.
(da K. MARX - F. ENGELS, Ideologia tedesca, cit., pp. 70-1)
La concezione materialistica della storia
I presupposti da cui muoviamo non sono arbitrari, non sono dogmi:
sono presupposti reali, dai quali si può astrarre solo
nell'immaginazione. Essi sono gli individui reali, la loro azione e le
loro condizioni materiali di vita, tanto quelle che essi hanno trovato
già esistenti quanto quelle prodotte dalla loro stessa azione. Questi
presupposti sono dunque constatabili per via puramente empirica.
Il primo presupposto di tutta la storia umana è naturalmente
l'esistenza di individui umani viventi. Il primo dato di fatto da
constatare è dunque l'organizzazione fisica di questi individui e il
rapporto, che ne consegue, verso il resto della natura. Qui
naturalmente non possiamo addentrarci nell'esame né della
costituzione fisica dell'uomo stesso, né delle condizioni naturali
trovate dagli uomini, come le condizioni geologiche, oro-idrografiche,
climatiche, e così via. Ogni storiografia deve prendere le mosse da
queste basi naturali e dalle modifiche da esse subite nel corso della
storia per l'azione degli uomini.
Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per
la religione, per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a
distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro
mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro
organizzazione fisica. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli
uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale.
Il modo in cui gli uomini producono i loro mezzi di sussistenza
dipende prima di tutto dalla natura dei mezzi di sussistenza che essi
trovano e che debbono riprodurre. Questo modo di produzione non si
deve giudicare solo in quanto è la riproduzione dell'esistenza fisica
degli individui; anzi, esso è già un modo determinato dell'attività di
questi individui, un modo determinato di estrinsecare la loro vita, un
modo di vita determinato. Come gli individui esternano la loro vita,
così essi sono. Ciò che essi sono coincide dunque immediatamente
con la loro produzione, tanto con ciò che producono quanto col modo
come producono. Ciò che gli individui sono dipende dunque dalle
condizioni materiali della loro produzione.
Questa produzione non appare che con l'aumento della popolazione.
E presuppone a sua volta relazioni fra gli individui. La forma di queste
relazioni a sua volta è condizionata dalla produzione.
I rapporti fra nazioni diverse dipendono dalla misura in cui ciascuna
di esse ha sviluppato le sue forze produttive, la divisione del lavoro e
le relazioni interne. Questa affermazione è generalmente accettata.
Ma non soltanto il rapporto di una nazione con altre, bensì anche
l'intera organizzazione interna di questa stessa nazione dipende dal
grado di sviluppo della sua produzione e delle sue relazioni interne ed
esterne. Il grado di sviluppo delle forze produttive di una nazione è
indicato nella maniera più chiara dal grado di sviluppo a cui è giunta
la divisione del lavoro. Ogni nuova forza produttiva, che non sia
un'estensione puramente quantitativa delle forze produttive già note
(per esempio di dissodamento di terreni), porta come conseguenza
un nuovo sviluppo nella divisione del lavoro.'
La divisione del lavoro all'interno di una nazione porta con sé
innanzi tutto la separazione del lavoro industriale e commerciale dal
lavoro agricolo e con ciò la separazione fra città e campagna e il
contrasto dei loro interessi. Il suo ulteriore sviluppo porta alla
separazione del lavoro commerciale da quello industriale. In pari
tempo, attraverso la divisione del lavoro all'interno di questi diversi
rami, si sviluppano a loro volta suddivisioni diverse fra individui che
cooperano a lavori determinati. La posizione reciproca di queste
singole suddivisioni è condizionata dai metodi impiegati nel lavoro
agricolo, industriale e commerciale (patriarcalismo, schiavitù, ordini,
classi). Quando le relazioni sono più sviluppate, le stesse condizioni si
manifestano nei rapporti fra diverse nazioni.
I diversi stadi di sviluppo della divisione del lavoro sono altrettante
forme diverse della proprietà; vale a dire, ciascun nuovo stadio della
divisione del lavoro determina anche i rapporti fra gli individui in
relazione al materiale, allo strumento e al prodotto del lavoro. [...JIl
fatto è dunque il seguente: individui determinati che svolgono
un'attività produttiva secondo un modo determinato entrano in questi
determinati rapporti sociali e politici. In ogni singolo caso
l'osservazione empirica deve mostrare empiricamente e senza alcuna
mistificazione e speculazione il legame fra l'organizzazione sociale e
politica e la produzione. L'organizzazione sociale e lo Stato risultano
costantemente dal processo della vita di individui determinati; ma di
questi individui, non quali possono apparire nella rappresentazione
propria o altrui, bensì quali sono realmente, cioè come operano e
producono materialmente, e dun- 8 que agiscono fra limiti,
presupposti e condizioni materiali determinate e indipendenti dalla
loro volontà.
La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è
in primo luogo direttamente intrecciata alla attività materiale e alle
relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale. 8 Le
rappresentazioni e i pensieri, lo scambio spirituale degli uomini
appaiono qui ancora come emanazione diretta del loro
comportamento materiale. Ciò vale allo stesso modo per la
produzione spirituale, quale essa si manifesta nel linguaggio della
politica, delle leggi, della morale, della religione, della metafisica, ecc.
di un popolo. Sono gli uomini i produttori delle loro rappresentazioni,
idee, ecc., ma gli uomini reali, operanti, così come sono condizionati
da un determinato sviluppo delle loro forze produttive e dalle relazioni
che vi corrispondono fino alle loro formazioni più estese. La coscienza
non può mai essere qualche cosa di diverso dall'essere cosciente, e
l'essere degli uomini è il processo reale della loro vita. Se nell'intera
ideologia gli uomini e i loro rapporti appaiono capovolti come in una
camera oscura, questo fenomeno deriva dal processo storico della
loro vita, proprio come il capovolgimento degli oggetti sulla retina
deriva dal loro immediato processo fisico.
Esattamente all'opposto di quanto accade nella filosofia tedesca,
che discende dal cielo sulla terra, qui si sale dalla terra al cielo. Cioè
non si parte da ciò che gli uomini dicono, si immaginano, si
rappresentano, né da ciò che si dice, si pensa, si immagina, si
rappresenta che siano, per arrivare da qui agli uomini i vivi; ma si
parte dagli uomini realmente operanti e sulla base del processo reale
della loro vita si spiega anche lo sviluppo dei riflessi e degli echi
ideologici di questo processo di vita. Anche le immagini nebulose che
si formano nel cervello dell'uomo sono necessarie sublimazioni del
processo materiale della loro vita, empiricamente constatabile e
legato a presupposti materiali. Di conseguenza la morale, la religione,
la metafisica e ogni altra forma ideologica, e le forme di coscienza
che ad esse corrispondono, non conservano oltre la parvenza
dell'autonomia. Esse non hanno storia,' non hanno sviluppo, ma gli
uomini che sviluppano la loro i produzione materiale e le loro relazioni
materiali trasformano, insieme con questa loro realtà, anche il loro
pensiero e i prodotti del loro pensiero. Non è la coscienza che
determina la vita, ma la vita che determina la coscienza. Nel primo
modo di giudicare si parte dalla coscienza come individuo vivente, nel
secondo modo, i che corrisponde alla vita reale, si parte dagli stessi
individui reali viventi e si considera la coscienza soltanto come la loro
coscienza.
Questo modo di giudicare non è privo di presupposti. Esso muove
dai presupposti reali e non se ne scosta per un solo istante. I suoi
presupposti sono gli uomini, non in qualche modo isolati i e fissati
fantasticamente, ma nel loro processo di sviluppo, reale ed
empiricamente constatabile, sotto condizioni determinate. Non
appena viene rappresentato questo processo di vita attivo, la storia
cessa di essere una raccolta di fatti morti, come negli empiristi che
sono anch'essi astratti, o un'azione immaginaria di soggetti
immaginari, come negli idealisti.
Là dove cessa la speculazione, nella vita reale, comincia dunque la
scienza reale e positiva, la rappresentazione dell'attività pratica, del
processo pratico di sviluppo degli uomini. Cadono le frasi sulla
coscienza e al loro posto deve subentrare il sapere reale. [...]
Per poter «fare storia» gli uomini devono essere in grado di vivere.
Ma il vivere implica prima di tutto il mangiare e bere, l'abitazione, il
vestire e altro ancora. La prima azione storica è dunque la creazione
dei mezzi per soddisfare questi bisogni, la produzione della vita
materiale stessa, e questa è precisamenteun'azione storica, una
condizione fondamentale di qualsiasi storia, che ancora oggi, come
millenni addietro, deve essere compiuta ogni giorno e ogni ora
semplicemente per mantenere in vita gli uomini. [...] Il secondo
punto è che il primo bisogno soddisfatto, l'azione del soddisfano e lo
strumento già acquistato di questo soddisfacimento portano a nuovi
bisogni: e questa produzione di nuovi bisogni è la prima azione
storica. [...] Il terzo rapporto che interviene fino dalle prime origini
nello sviluppo storico, è che gli uomini, i quali rifanno ogni giorno la
loro propria vita, cominciano a fare altri uomini, a riprodursi; è il
rapporto fra uomo e donna, i fra genitori e figli: la famiglia. [...]
Questi tre aspetti dell'attività sociale non vanno concepiti come tre
gradi diversi, ma appunto solo come tre aspetti, o come tre
«momenti» (tanto per scrivere in maniera chiara per i tedeschi), i
quali sono esistiti fino dall'inizio della storia e fin dai primi uomini e
ancor oggi hanno il loro peso nella storia. La produzione della vita,
tanto della propria nel lavoro quanto dell'altrui nella procreazione,
appare già in pari tempo come un duplice rapporto: naturale da una
parte, sociale dall'altra, sociale nel senso che si attribuisce a una
cooperazione di più individui, non importa sotto i quali condizioni, in
quale modo e per quale scopo. Da ciò deriva che un modo di
produzione o uno stadio industriale determinato è sempre unito con
un modo di cooperazione o uno stadio sociale determinato, e questo
modo di cooperazione è anch'esso una «forza produttiva»; ne deriva
che la quantità delle forze produttive acces- i sibili agli uomini
condiziona la situazione sociale e che dunque la «storia dell'umanità»
deve essere sempre studiata e trattata in relazione con la storia
dell'industria e dello scambio. [...]
Appare già dunque, fin dall'origine, un legame materiale fra gli
uomini, il quale è condizionato dai bisogni e dal modo della pro- i
duzione ed è antico quanto gli stessi uomini; un legame che assume
sempre nuove forme e dunque presenta una «storia», anche senza
che esista alcun nonsenso politico o religioso fatto apposta per tenere
congiunti gli uomini. Solo a questo punto, E...] troviamo che l'uomo
ha anche una «coscienza». Ma anche que- i sta non esiste fin
dall'inizio, come «pura» coscienza. Fin dall'inizio lo «spirito» porta in
sé la maledizione di essere «infetto» della materia, che si presenta
qui sotto forma di strati d'aria agitati, di suoni, e insomma di
linguaggio. Il linguaggio è antico quanto la coscienza, il linguaggio è
la coscienza reale, pratica, che ii esiste anche per altri uomini e che
dunque è la sola esistente anche per me stesso, e il linguaggio, come
la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalle necessità di rapporti
con altri uomini. Là dove un rapporto esiste, esso esiste per me;
l'animale non «ha rapporti» con alcunché e non ha affatto rapporti.
Per l'animale, i suoi ii rapporti con altri non esistono come rapporti.
La coscienza è dunque fin dall'inizio un prodotto sociale e tale resta
fin tanto che in genere esistono uomini. Naturalmente, la coscienza è
innanzi tutto semplice coscienza dell'ambiente sensibile immediato e
del limitato legame con altre persone e cose esterne all'individuo che
prende coscienza; in pari tempo è coscienza della natura, che
inizialmente si erge di contro agli uomini come una potenza
assolutamente estranea, onnipotente e inattaccabile, verso la quale
gli uomini si comportano in modo puramente animale e dalla quale si
lasciano dominare come le bestie: è dunque una coscienza della i
natura puramente animale (religione naturale). Qui si vede subito che
questa religione naturale, o questo determinato comportarsi verso la
natura, è condizionato dalla forma sociale e viceversa. Qui come
dappertutto l'identità di natura e uomo emerge anche in ciò, che il
comportamento limitato degli uomini verso la natura condiziona il
comportamento limitato fra uomini e uomini, e il comportamento
limitato fra uomini e uomini condiziona i loro rapporti limitati con la
natura, appunto perché la natura non è stata quasi ancora modificata
storicamente, e d'altra parte la coscienza della necessità di stabilire
dei contatti con gli individui circostanti costituisce per l'uomo la prima
coscienza del fatto che vive in una società. Questo inizio è di natura
animale come la stessa vita sociale a questo stadio, è pura coscienza
da gregge, e l'uomo a questo punto si distingue dal montone soltanto
perché il suo è un istinto cosciente. Questa coscienza da montone o
tribale perviene a uno sviluppo e a un perfezionamento ulteriori in
virtù dell'accresciuta produttività, dell'aumento dei bisogni e
dell'aumento della popolazione che sta alla base dell'uno e dell'altro
fenomeno. Si sviluppa così la divisione del lavoro, che in origine era
niente altro che la divisione del lavoro nell'atto sessuale, e poi la
divisione del lavoro che si produce spontaneamente o
«naturalmente» in virtù della disposizione naturale (per esempio la
forza fisica), del bisogno, del caso, ecc. La divisione del lavoro
diventa una divisione reale solo dal momento in cui interviene una
divisione fra il lavoro manuale e il lavoro mentale. Da questo
momento in poi la coscienza può realmente figurarsi di essere
qualche cosa di diverso dalla coscienza della prassi esistente,
concepire realmente qualche cosa senza concepire alcunché di reale:
da questo momento la coscienza è in grado di emanciparsi dal mondo
e di passare a formare la «pura» teoria, teologia, filosofia, morale,
ecc. Ma anche quando questa teoria, teologia, filosofia, morale, ecc.
entrano in contraddizione con i rapporti esistenti, ciò può accadere
soltanto per il fatto che i rapporti sociali esistenti sono entrati in
contraddizione con le forze produttive; d'altra parte in una cerchia di
rapporti nazionale ciò può anche accadere per essersi prodotta la
contraddizione non all'interno di questa cerchia nazionale, ma fra
questa coscienza nazionale e la prassi delle altre nazioni, cioè fra la
coscienza nazionale e la coscienza universale di una nazione.
D'altronde è del tutto indifferente quel che la coscienza si mette a
fare per conto suo; da tutta questa porcheria ricaviamo, come unico
risultato, che questi tre momenti, la forza produttiva, la situazione
sociale e la coscienza, possono e debbono entrare in contraddizione
fra loro, perché con la divisione del lavoro si dà la possibilità, anzi la
realtà, che l'attività spirituale e l'attività materiale, il godimento e il
lavoro, la produzione e il consumo tocchino a individui diversi, e la
possibilità che essi non entrino in contraddizione sta solo nel tornare
ad abolire la divisione del lavoro. [...]
Questa concezione della storia si fonda dunque su questi punti:
spiegare il processo reale della produzione, e precisamente
muovendo dalla produzione materiale della vita immediata, assumere
come fondamento di tutta la storia la forma di relazioni che è
connessa con quel modo di produzione e che da esso è generata,
dunque la società civile nei suoi diversi stadi, e sia rappresentarla
nella sua azione come Stato, sia spiegare partendo da essa tutte le
varie creazioni teoriche e le forme della coscienza, religione, filosofia,
morale, ecc. ecc. e seguire sulla base di queste il processo della sua
origine, ciò che consente naturalmente anche di rappresentare la
cosa nella sua totalità (e quindi anche la reciproca influenza di questi
lati diversi l'uno sull'altro). Essa non deve cercare in ogni: periodo
una categoria, come la concezione idealistica della storia, ma resta
salda costantemente sul terreno storico reale, non spiega la prassi
partendo dall'idea, ma spiega le formazioni di idee partendo dalla
prassi materiale, e giunge di conseguenza al risultato che tutte le
forme e prodotti della coscienza possono essere eliminati non
mediante la critica intellettuale, risolvendoli nell'«autocoscienza» o
trasformandoli in «spiriti», «fantasmi», «spettri», ecc., ma solo
mediante il rovesciamento pratico dei rapporti sociali esistenti, dai
quali queste fandonie idealistiche sono derivate; che non la critica,
ma la rivoluzione è la forza motrice della storia, anche della storia
della religione, della filosofia e di ogni altra teoria. [...]
Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee
dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante della
società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe
che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in
pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa
in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i
mezzi della produzione intellettuale. Le idee dominanti non sono altro
che l'espressione ideale dei rapporti materiali dominanti presi come
idee: sono dunque l'espressione dei rapporti che appunto fanno di
una classe la classe dominante, e dunque sono le idee del suo
dominio. Gli individui che compongono la classe dominante
posseggono fra l'altro anche la coscienza, e quindi pensano; in
quanto dominano come classe e determinano l'intero ambito di
un'epoca storica, è evidente che essi lo fanno in tutta la loro
estensione, e quindi fra l'altro dominano anche come pensanti, come
produttori di idee che regolano la produzione e la distribuzione delle
idee del loro tempo; è dunque evidente che le loro idee sono le idee
dominanti dell'epoca. Per esempio: in un periodo e in un paese in cui
potere monarchico, aristocrazia e borghesia lottano per il potere, il
quale quindi è diviso, appare come idea dominante la dottrina della
divisione dei poteri, dottrina che allora viene enunciata come «legge
eterna». La divisione del lavoro, che abbiamo già visto come una
delle forze principali della storia finora trascorsa, si manifesta anche
nella classe come divisione del lavoro intellettuale e manuale,
cosicché all'interno di questa classe una parte si presenta costituita
dai pensatori della classe (i suoi ideologi attivi, concettivi, i quali
dell'elaborazione dell'illusione di questa classe su se stessa fanno il
loro mestiere principale), mentre gli altri nei confronti di queste idee
e di queste illusioni hanno un atteggiamento più passivo e più
ricettivo, giacché in realtà sono i membri attivi di questa classe e
hanno meno tempo di farsi delle idee e delle illusioni su se stessi.
(da K. MARX-F. ENGELS, L'ideologia tedesca, cit., pp. 34-7; 42-51;
60-1; 72-3)
Il «Manifesto» del Partito Comunista
• Nel Manifesto del Partito Comunista del 1848 tre elementi spiccano
in modo particolare: l'analisi, profonda e accurata, dei caratteri
essenziali della società borghese; la critica del concetto di proprietà
privata; l'anticipazione delle linee generali della rivoluzione proletaria
e della società comunista futura. A illustrare questi tre elementi è
dedicata la scelta delle pagine che seguono.
Uno spettro s'aggira per l'Europa - lo spettro del comunismo. Tutte
le potenze della vecchia Europa si sono alleate in una santa battuta di
caccia contro questo spettro: papa e zar, Metternich e Guizot, radicali
francesi e poliziotti tedeschi.
Quale partito d'opposizione non è stato tacciato di comunismo dai
suoi avversari governativi; qual partito d'opposizione non ha
rilanciato l'infamante accusa di comunismo tanto sugli uomini più
progrediti dell'opposizione stessa, quanto sui propri avversari
reazionari?
Da questo fatto scaturiscono due specie di conclusioni. II
comunismo è di già riconosciuto come potenza da tutte le potenze
europee.
E ormai tempo che i comunisti espongano apertamente in faccia a
tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro fini, le loro tendenze, e
che contrappongano alla favola dello spettro del comunismo un
manifesto del partito stesso.
A questo scopo si sono riuniti a Londra comunisti delle nazionalità
più diverse e hanno redatto il seguente manifesto che viene
pubblicato in inglese, francese, tedesco, italiano, fiammingo e
danese.
La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di
lotte di classi.Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della
gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e
oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero
una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è
finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con
la comune rovina delle classi in lotta.
Nelle epoche anteriori della storia troviamo quasi dappertutto una
completa articolazione della società in differenti ordini, una molteplice
graduazione delle posizioni sociali. In Roma antica abbiamo patrizi,
cavalieri, plebei, schiavi; nel medioevo signori feudali, vassalli,
membri delle corporazioni, garzoni, servi della gleba, e, per di più,
anche particolari graduazioni in quasi ognuna di queste classi.
La società borghese moderna, sorta dal tramonto della società
feudale, non ha eliminato gli antagonismi fra le classi. Essa ha
soltanto sostituito alle antiche, nuove classi, nuove condizioni di
oppressione, nuove forme di lotta.
La nostra epoca, l'epoca della borghesia, si distingue però dalle
altre per aver semplificato gli antagonismi di classe. L'intera società si
va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi
classi direttamente contrapposte l'una all'altra: borghesia e
proletariato.
Dai servi della gleba del medioevo sorse il popolo minuto delle
prime città; da questo popolo minuto si svilupparono i primi elementi
della borghesia.
La scoperta dell'America, la circumnavigazione dell'Africa crearono
alla sorgente borghesia un nuovo terreno. Il mercato delle Indie
orientali e della Cina, la colonizzazione dell'America, gli scambi con le
colonie, l'aumento dei mezzi di scambio e delle merci in genere
diedero al commercio, alla navigazione, all'industria uno slancio fino
allora mai conosciuto, e con ciò impressero un rapido sviluppo
dell'elemento rivoluzionario entro la società feudale in disgregazione.
L'esercizio dell'industria, feudale o corporativo, in uso fino allora
non bastava più al fabbisogno che aumentava con i nuovi mercati. Al
suo posto subentrò la manifattura. Il medio ceto industriale soppiantò
i maestri artigiani; la divisione del lavoro fra le diverse corporazioni
scomparve davanti alla divisione del lavoro nella singola officina
stessa.
Ma i mercati crescevano sempre, il fabbisogno saliva sempre.
Neppure la manifattura era più sufficiente. Allora il vapore e le
macchine rivoluzionarono la produzione industriale. All'industria
manifatturiera subentrò la grande industria moderna; al medio ceto
industriale subentrarono i milionari dell'industria, i capi di interi
eserciti industriali, i borghesi moderni.
La grande industria ha creato quel mercato mondiale, ch'era stato
preparato dalla scoperta dell'America. Il mercato mondiale ha dato
uno sviluppo immenso al commercio, alla navigazione, alle
comunicazioni per via di terra. Questo sviluppo ha reagito a
sua volta sull'espansione dell'industria, e, nella stessa misura in cui si
estendevano industria, commercio, navigazione, ferrovie, si è
sviluppata la borghesia, ha accresciuto i suoi capitali e ha respinto nel
retroscena tutte le classi tramandate dal medioevo.
Vediamo dunque come la borghesia moderna è essa stessa il
prodotto d'un lungo processo di sviluppo, d'una serie di rivolgimenti
nei modi di produzione e di traffico.
Ognuno di questi stadi di sviluppo della borghesia era
accompagnato da un corrispondente progresso politico. Ceto
oppresso sotto il dominio dei signori feudali, insieme di associazioni
armate ed autonome nel comune, talvolta sotto forma di repubblica
municipale indipendente, talvolta di terzo stato tributario della
monarchia, poi all'epoca dell'industria manifatturiera, nella monarchia
controllata dagli stati come in quella assoluta, contrappeso alla
nobiltà, e fondamento principale delle grandi monarchie in genere, la
borghesia, infine, dopo la creazione della grande industria e del
mercato mondiale, si è conquistata il dominio politico esclusivo nello
stato rappresentativo moderno. Il potere statale moderno non è che
un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe
borghese.
La borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente
rivoluzionaria.
Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia ha distrutto tutte le
condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliche. Ha lacerato
spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l'uomo al
suo superiore naturale, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro
vincolo che il nudo interesse, il freddo «pagamento in contanti». Ha
affogato nell'acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi
dell'esaltazione devota, dell'entusiasmo cavalleresco, della malin- i
conia filistea. Ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio e
il posto delle innumerevoli libertà patentate e onestamente
conquistate, ha messo, unica, la libertà di commercio priva di
scrupoli. In una parola: ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato,
diretto e arido al posto dello sfruttamento mascherato d'illu- i sioni
religiose e politiche.
La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le attività che fino
allora erano venerate e considerate con pio timore. Ha tramutato il
medico, il giurista, il prete, il poeta, l'uomo della scienza, in salariati
ai suoi stipendi.
La borghesia ha strappato il commovente velo sentimentale al
rapporto familiare e lo ha ricondotto a un puro rapporto di denaro.
La borghesia ha svelato come la brutale manifestazione di forza che
la reazione ammira tanto nel medioevo,` avesse la sua appro- i
priata integrazione nella più pigra infingardaggine. Solo la borghesia
ha dimostrato che cosa possa compiere l'attività dell'uomo. Essa ha
compiuto ben altre meraviglie che piramidi egiziane, acquedotti
romani e cattedrali gotiche, ha portato a termine ben altre spedizioni
che le migrazioni dei popoli e le crociate.
La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente
gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i
rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi
industriali precedenti era invece l'immutato mantenimento del
vecchio sistema di produzione. Il continuo rivoluzionamento della
produzione, l'ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali,
l'incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l'epoca dei
borghesi fra tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti
stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e
venerandi, e tutte le idee e concetti nuovi invecchiano prima di
potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di
stabile, è profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono finalmente
costretti a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i
propri reciproci rapporti.
Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti
sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre.
Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi,
dappertutto deve creare relazioni.
Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato
un'impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i
paesi. Ha tolto di sotto i piedi all'industria il suo terreno nazionale,
con gran rammarico dei reazionari. Le antichissime industrie nazionali
sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno.
Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa
questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che
non lavorano più soltanto materie prime del luogo, ma delle zone più
remote, e i cui prodotti non vengono consumati solo nel paese stesso,
ma anche in tutte le parti del mondo. Ai vecchi bisogni, soddisfatti
con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere
soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani.
All'antica autosufficienza e all'antico isolamento locali e nazionali
subentra uno scambio universale, una interdipendenza universale fra
le nazioni. E come per la produzione materiale, così per quella
intellettuale. I prodotti intellettuali delle singole nazioni divengono
bene comune. L'unilateralità e la ristrettezza nazionali diventano
sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali si
forma una letteratura mondiale.
Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le
comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella
civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare. I bassi prezzi delle sue
merci sono l'artiglieria pesante con la quale essa spiana tutte le
muraglie cinesi, con la quale costringe alla capitolazione la più tenace
xenofobia dei barbari. Costringe tutte le nazioni ad adottare il sistema
di produzione della borghesia, se non vogliono andare in rovina, le
costringe ad introdurre in casa loro la cosiddetta civiltà, cioè a
diventare borghesi. In una parola: essa si crea un mondo a propria
immagine e somiglianza.
La borghesia ha assoggettato la campagna al dominio della città.
Ha creato città enormi, ha accresciuto su grande scala la cifra della
popolazione urbana in confronto di quella rurale, strappando in tal
modo una parte notevole della popolazione all'idiotismo della vita
rurale. Come ha reso la campagna dipendente dalla città, la
borghesia ha reso i paesi barbari e semibarbari dipendenti da quelli
inciviliti, i popoli di contadini da quelli di borghesi, l'Oriente
dall'Occidente.
La borghesia elimina sempre più la dispersione dei mezzi di
produzione, della proprietà e della popolazione. Ha agglomerato la
popolazione, ha centralizzato i mezzi di produzione, e ha concentrato
in poche mani la proprietà. Ne è stata conseguenza necessaria i la
centralizzazione politica. Province indipendenti, legate quasi solo da
vincoli federali, con interessi, leggi, governi e dazi differenti, vennero
strette in una sola nazione, sotto un solo governo, una sola legge, un
solo interesse nazionale di classe, entro una sola barriera doganale.
Durante il suo dominio & classe appena secolare la borghesia
ha creato forze produttive in massa molto maggiore e più colossali
che non avessero mai fatto tutte insieme le altre generazioni del
passato. Il soggiogamento delle forze naturali, le macchine,
l'applicazione della chimica all'industria e all'agricoltura, la naviga- i
zione a vapore, le ferrovie, i telegrafi elettrici, il dissodamento d'interi
continenti, la navigabilità dei fiumi, popolazioni intere sorte quasi per
incanto dal suolo - quale dei secoli antecedenti immaginava che nel
grembo del lavoro sociale stessero sopite tali forze produttive?
Ma abbiamo visto che i mezzi di produzione e di scambio sulla cui
base si era venuta costituendo la borghesia erano stati prodotti entro
la società feudale. A un certo grado dello sviluppo di quei mezzi di
produzione e di scambio, le condizioni nelle quali la società feudale
produceva e scambiava, l'organizzazione feudale dell'agricoltura e
della manifattura, in una parola i rapporti feudali della proprietà, non
corrisposero più alle forze produttive ormai sviluppate. Essi
inceppavano la produzione invece di promuoverla. Si trasformarono in
altrettante catene. Dovevano essere spezzate e furono spezzate.
Ad esse subentrò la libera concorrenza con la confacente
costituzione sociale e politica, con il dominio economico e politico
della classe dei borghesi.
Sotto i nostri occhi si svolge un moto analogo. I rapporti borghesi di
produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la società
borghese moderna che ha creato per incanto mezzi di produzione e di
scambio così potenti, rassomiglia al mago che non riesce più a
dominare le potenze degli inferi da lui evocate. Sono decenni ormai
che la storia dell'industria e del commercio è soltanto storia della
rivolta delle forze produttive moderne contro i rapporti moderni della
produzione, cioè contro i rapporti di proprietà che costituiscono le
condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio. Basti
ricordare le crisi commerciali che col loro periodico ritorno mettono in
forse sempre più minacciosamente l'esistenza di tutta la società
borghese. Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta non
solo una gran parte dei prodotti ottenuti, ma addirittura gran parte
delle forze produttive già create. Nelle crisi scoppia una epidemia
sociale che in tutte le epoche anteriori sarebbe apparsa un assurdo:
l'epidemia della sovraproduzione. La società si trova all'improvviso
ricondotta a uno stato di momentanea barbarie; sembra che una
carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i
mezzi di sussistenza; l'industria, il commercio sembrano distrutti? E
perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di
sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive
che sono a sua disposizione non servono più a promuovere la civiltà
borghese e i rapporti borghesi di proprietà; anzi, sono divenute
troppo potenti per quei rapporti e ne vengono ostacolate, e appena
superano questo ostacolo mettono in disordine tutta la società
borghese, mettono in pericolo l'esistenza della proprietà borghese. I
rapporti borghesi sono divenuti troppo angusti per poter contenere la
ricchezza da essi stessi prodotta. - Con quale mezzo la borghesia
supera le crisi? Da un lato, con la distruzione coatta di una massa di
forze produttive; dall'altro, con la conquista di nuovi mercati e con lo
sfruttamento più intenso dei vecchi. Dunque, con quali mezzi?
Mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e la
diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse.
A questo momento le armi che son servite alla borghesia per
atterrare il feudalesimo si rivolgono contro la borghesia stessa.
Ma la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che le
porteranno la morte; ha anche generato gli uomini che impugneranno
quelle armi: gli operai moderni, i proletari.
Nella stessa proporzione in cui si sviluppa la borghesia, cioè il
capitale, si sviluppa il proletariato, la classe degli operai moderni, che
vivono solo fintantoché trovano lavoro, e che trovano lavoro solo
fintantoché il loro lavoro aumenta il capitale. Questi operai che sono
costretti a vendersi al minuto, sono una merce come ogni altro
articolo commerciale, e sono quindi esposti, come le altre merci, a
tutte le alterne vicende della concorrenza, a tutte le oscillazioni del
mercato.
Con l'estendersi dell'uso delle macchine e con la divisione del
lavoro, il lavoro dei proletari ha perduto ogni carattere indipendente e
con ciò ogni attrattiva per l'operaio. Egli diviene un semplice
accessorio della macchina, al quale si richiede soltanto un'operazione
manuale semplicissima, estremamente monotona e facilissima da
imparare. Quindi le spese che causa l'operaio si limitano quasi
esclusivamente ai mezzi di sussistenza dei quali egli ha bisogno per il
proprio mantenimento e per la riproduzione della sua specie. Ma il
prezzo di una merce, quindi anche quello del lavoro, è uguale ai suoi
costi di produzione. Quindi il salario decresce nella stessa proporzione
in cui aumenta il tedio del lavoro. Anzi, nella stessa proporzione
dell'aumento dell'uso delle macchine e della divisione del lavoro,
aumenta anche la massa del lavoro, sia attraverso l'aumento delle
ore di lavoro, sia attraverso l'aumento del lavoro che si esige in una
data unità di tempo, attraverso l'accresciuta celerità delle macchine e
così via.
L'industria moderna ha trasformato la piccola officina del maestro
artigiano patriarcale nella grande fabbrica del capitalista industriale.
Masse di operai addensate nelle fabbriche vengono organizzate
militarmente. E vengono poste, come soldati semplici dell'industria,
sotto la sorveglianza di una completa gerarchia di sottufficiali e
ufficiali. Gli operai non sono soltanto servi della classe dei borghesi,
dello stato dei borghesi ma vengono asserviti giorno per giorno, ora
per ora dalla macchina, dal sorvegliante, e soprattutto dal singolo
borghese fabbricante in persona. Questo dispotismo è tanto più
meschino, odioso ed esasperante, quanto più apertamente esso
proclama come proprio fine ultimo il guadagno.
Quanto meno il lavoro manuale esige abilità ed esplicazione di
forza, cioè quanto più si sviluppa l'industria moderna, tanto più il
lavoro degli uomini viene soppiantato da quello delle donne {e dei
fanciulli]. Per la classe operaia non han più valore sociale le differenze
di sesso e di età. Ormai ci sono soltanto strumenti di lavoro che
costano più o meno a seconda dell'età e del sesso.
Quando lo sfruttamento dell'operaio da parte del padrone di
fabbrica è terminato in quanto all'operaio viene pagato il suo salario
in contanti, si gettano su di lui le altre parti della borghesia, il padron
di casa, il bottegaio, il prestatore su pegno e così via.
Quelli che fino a questo momento erano i piccoli ordini medi, cioè i
piccoli industriali, i piccoli commercianti e coloro che vivevano di
piccole rendite, gli artigiani e i contadini, tutte queste classi
precipitano nel proletariato, in parte per il fatto che il loro piccolo
capitale non è sufficiente per l'esercizio della grande industria, e
soccombe nella concorrenza con i capitalisti più forti, in parte per il
fatto che la loro abilità viene svalutata da nuovi sistemi di
produzione. Così il proletariato si recluta in tutte le classi della
popolazione. [...]
La proprietà privata borghese moderna è l'ultima e più perfetta
espressione della produzione e dell'appropriazione dei prodotti che
poggia su antagonismi di classe, sullo sfruttamento degli uni da parte
degli altri.
In questo senso i comunisti possono riassumere la loro teoria nella
frase: abolizione della proprietà privata.
Ci si è rinfacciato, a noi comunisti, che vogliamo abolire la proprietà
acquistata personalmente, frutto del lavoro diretto e personale; la
proprietà che costituirebbe il fondamento di ogni libertà, attività e
autonomia personale.
Proprietà frutto del proprio lavoro, acquistata, guadagnata con le
proprie forze! Parlate della proprietà del minuto cittadino, del piccolo
contadino che ha preceduto la proprietà borghese? Non c'è bisogno
che l'aboliamo noi, l'ha abolita e la va abolendo di giorno in giorno lo
sviluppo dell'industria.
O parlate della moderna proprietà privata borghese?
Ma il lavoro salariato, il lavoro del proletario, crea proprietà a questo
proletario? Affatto. Il lavoro del proletario crea il capitale, cioè quella
proprietà che sfrutta il lavoro salariato, che può moltiplicarsi solo a
condizione di generare nuovo lavoro salariato, per sfruttarlo di nuovo.
La proprietà nella sua forma attuale si muove entro l'antagonismo fra
capitale e lavoro salariato. Esaminiamo i due termini di questo
antagonismo. Essere capitalista significa occupare nella produzione
non soltanto una pura posizione personale ma una posizione sociale.
Il capitale è un prodotto collettivo e può essere messo in moto solo
mediante una attività comune di molti membri, anzi in ultima istanza
solo mediante l'attività comune di tutti i membri della società.
Dunque, il capitale non è una potenza personale; è una potenza
sociale.
Dunque, se il capitale viene trasformato in proprietà collettiva,
appartenente a tutti i membri della società, non c'è trasformazione di
proprietà personale in proprietà sociale. Si trasforma soltanto il
carattere sociale della proprietà. La proprietà perde il suo carattere di
classe.
Veniamo al lavoro salariato.
Il prezzo medio del lavoro salariato è il minimo del salario del
lavoro, cioè è la somma dei mezzi di sussistenza che sono necessari
per mantenere in vita l'operaio in quanto operaio. Dunque, quello che
l'operaio salariato s'appropria mediante la sua attività è sufficiente
soltanto per riprodurre la sua nuda esistenza. Noi non vogliamo
affatto abolire questa appropriazione personale dei prodotti del lavoro
per la riproduzione della esistenza immediata, appropriazione che non
lascia alcun residuo di profitto fletto tale da poter conferire potere sul
lavoro altrui. Vogliamo eliminare soltanto il carattere miserabile di
questa appropriazione, nella quale l'operaio vive solo allo scopo di
accrescere il capitale, e vive solo quel tanto che esige l'interesse della
classe dominante.
Nella società borghese il lavoro vivo è soltanto un mezzo per
moltiplicare il lavoro accumulato. Nella società comunista il lavoro
accumulato è soltanto un mezzo per ampliare, per arricchire, per far
progredire il ritmo d'esistenza degli operai.
Dunque, nella società borghese il passato domina sul presente,
nella società comunista il presente domina sul passato. Nella società borghese il capitale è indipendente e personale, mentre l'individuo operante è dipendente e impersonale.
E la borghesia chiama abolizione della personalità e della libertà
l'abolizione di questo rapporto! E a ragione: infatti, si tratta
dell'abolizione della personalità, della indipendenza e della libertà del
borghese.
Entro gli attuali rapporti di produzione borghesi per libertà s'intende
il libero commercio, la libera compravendita.
Ma scomparso il traffico, scompare anche il libero traffico. Le frasi
sul libero traffico, come tutte le altre bravate sulla libertà della nostra
borghesia, hanno senso, in genere, soltanto rispetto al traffico
vincolato, rispetto al cittadino asservito del medioevo; ma non r
hanno senso rispetto alla abolizione comunista del traffico, dei
rapporti borghesi di produzione e della stessa borghesia.
Voi inorridite perché vogliamo abolire la proprietà privata. Ma nella
vostra società attuale la proprietà privata è abolita per i nove decimi
dei suoi membri; la proprietà privata esiste proprio per il fatto che
per nove decimi non esiste. Dunque voi ci rimproverate di voler
abolire una proprietà che presuppone come condizione necessaria la
privazione della proprietà dell'enorme maggioranza della società.
In una parola, voi ci rimproverate di volere abolire la vostra
proprietà. Certo, questo vogliamo.
Appena il lavoro non può più essere trasformato in capitale, in
denaro, in rendita fondiaria, insomma in una potenza sociale
monopolizzabile, cioè, appena la proprietà personale non può più
convertirsi in proprietà borghese, voi dichiarate che è abolita la
persona.
Dunque confessate che per persona non intendete nient'altro che il
borghese, il proprietario borghese. Certo questa persona deve essere
abolita.
Il comunismo non toglie a nessuno il potere di appropriarsi prodotti
della società, toglie soltanto il potere di assoggettarsi il lavoro altrui
mediante tale appropriazione. [...J
La rivoluzione comunista è la più radicale rottura con i rapporti
tradizionali di proprietà; nessuna meraviglia che nel corso del suo
sviluppo si rompa con le idee tradizionali nella maniera più radicale.
Ma lasciamo stare le obiezioni della borghesia contro il comunismo.
Abbiamo già visto sopra che il primo passo sulla strada della
rivoluzione operaia consiste nel fatto che il proletariato s'eleva a
classe dominante, cioè nella conquista della democrazia.
Il proletariato adoprerà il suo dominio politico per strappare a poco
a poco alla borghesia tutto il capitale, per accentrare tutti gli
strumenti di produzione nelle mani dello stato, cioè del proletariato
organizzato come classe dominante, e per moltiplicare al più presto
possibile la massa delle forze produttive.
Naturalmente, ciò può avvenire, in un primo momento, solo mediante
interventi despotici nel diritto di proprietà e nei rapporti borghesi di
produzione, cioè per mezzo di misure che appaionoinsufficienti e poco
consistenti dal punto di vista dell'economia; ma nel corso del
movimento si spingono al di là dei propri limiti e sono inevitabili come
mezzi per il rivolgimento dell'intero sistema di produzione.
Quando le differenze di classe saranno scomparse nel corso
dell'evoluzione, e tutta la proprietà sarà concentrata in mano agli
individui associati, il pubblico potere perderà il suo carattere politico.
In senso proprio, il potere politico è il potere di una classe
organizzato per opprimerne un'altra. Il proletariato, unendosi di
necessità in classe nella lotta contro la borghesia, facendosi classe
dominante attraverso una rivoluzione, ed abolendo con la forza, come
classe dominante, gli antichi rapporti di produzione, abolisce insieme
a quei rapporti di produzione le condizioni di esistenza
dell'antagonismo di classe, cioè abolisce le condizioni d'esistenza delle
classi in genere, e così anche il suo proprio dominio in quanto classe.
Alla vecchia società borghese con le sue classi e i suoi antagonismi
fra le classi subentra una associazione in cui il libero sviluppo di
ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti.
(da K. MARX, Manifesto del Partito Comunista, a cura di E. Cantimori
Mezzomonti, Einaudi, Torino 1963, pp. 64-5; 100-10; 148-51; 1568)
L'alienazione dell'operaio
• Leggiamo ora alcuni brani tra i più famosi dei Manoscritti
economico-filosofici del 1844, pubblicati per la prima volta solo nel
1932. Questi Manoscritti, nei quali Marx descrive il rapporto di
alienazione che lega l'operaio alla merce da lui stesso prodotta, e in
generale la riduzione del proletario a «cosa», a mera «forza lavoro»,
a «cavallo» costretto a girare la sua macina in cambio della pura
sopravvivenza fisica, determinarono, in seno al marxismo del nostro
secolo, una svolta e un approfondimento «umanistico» del pensiero di
Marx, di cui ci occuperemo in seguito.
L'operaio diventa tanto più povero quanto più produce ricchezza,
quanto più la sua produzione cresce in potenza e estensione.
L'operaio diventa una merce tanto più a buon mercato quanto più
crea delle merci. Con la messa in valore del mondo delle cose cresce
in rapporto diretto la svalutazione del mondo degli uomini. Il lavoro
non produce soltanto merci; esso produce se stesso e il lavoratore
come una merce, precisamente nella proporzione in cui esso produce
merci in genere.
Questo fatto non esprime nient'altro che questo: che l'oggetto
prodotto dal lavoro, prodotto suo, sorge di fronte al lavoro come un
ente estraneo, come una potenza indipendente dal producente. Il
prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, che si è
fatto oggettivo:' è l'oggettivazione del lavoro. La realizzazione del
lavoro è la sua oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro
appare, nella condizione descritta dall'economia politica, come i
annullamento dell'operaio, e l'oggettivazione appare come perdita e
schiavitù dell'oggetto, e l'appropriazione come alienazione, come
espropriazione.
La realizzazione del lavoro si palesa talmente come annullamento
che l'operaio è annullato fino alla morte per fame. L'oggettivazione si
palesa tale perdita dell'oggetto che l'operaio è derubato non solo degli
oggetti più necessari alla vita, ma anche degli oggetti più necessari
del lavoro. Lo stesso lavoro, anzi, diventa un oggetto di cui egli può
impadronirsi solo con lo sforzo più grande e le interruzioni più
irregolari. L'appropriazione dell'oggetto prodotto si palesa tale
estraniazione che più oggetti l'operaio produce, meno può possederne
e tanto più cade sotto il dominio del suo prodotto, del capitale.
Tutte queste conseguenze si trovano nella determinazione: che
l'operaio sta in rapporto al prodotto del suo lavoro come ad un
oggetto estraneo. Poiché è chiaro, per questo presupposto, che
quanto più l'operaio si consuma nel lavoro tanto più acquista potenza
il mondo estraneo, oggettivo, ch'egli si crea di fronte, e tanto più
povero diventa egli stesso, il suo mondo interiore, e tanto meno egli
possiede. Come nella religione. Più l'uomo mette in Dio e meno serba
in se stesso. L'operaio mette nell'oggetto la sua vita, e questa non
appartiene più a lui, bensì all'oggetto. Più è grande questa sua
attività e più l'operaio diventa senza oggetto. Ciò ch'è il prodotto del
suo lavoro egli non lo è. Quanto maggiore dunque questo prodotto,
tanto minore è egli stesso. L'espropriazione dell'operaio nel suo
prodotto non ha solo il significato che il suo lavoro diventa un
oggetto, un'esterna esistenza, bensì che esso esiste fuori di lui,
indipendente, estraneo a lui, come una potenza indipendente di
fronte a lui, e che la vita, da lui data all'oggetto, lo confronta
estranea e nemica.
Consideriamo più da vicino l'oggettivazione, la produzione
dell'operaio, ed in essa l'alienazione, la perdita dell'oggetto, del suo
prodotto.
L'operaio non può produrre nulla senza la natura, senza il mondo
esterno sensibile. La natura è il materiale su cui il suo lavoro si
realizza, in cui esso è attivo, da cui e mediante cui esso produce.Ma
come la natura fornisce l'alimento del lavoro, nel senso che il lavoro
non può sussistere senza oggetti, sui quali esercitarsi, così essa
fornisce d'altra parte anche gli alimenti in senso stretto, cioè i mezzi
per la sussistenza fisica dell'operaio stesso.
Dunque, quanto più l'operaio si appropria col suo lavoro il mondo
esterno, la natura sensibile, tanto più si priva di alimento: nel duplice
senso che, in primo luogo, il sensibile mondo esteriore cessa sempre
più di esser un oggetto appartenente al suo lavoro, un alimento del
suo lavoro, e che, in secondo luogo, esso mondo sensibile cessa
sempre più di esser alimento nel senso immediato di mezzo per la
sussistenza fisica dell'operaio.
Sotto questo duplice aspetto, dunque, l'operaio diventa uno schiavo
del suo oggetto: primieramente in quanto egli riceve un oggetto di
lavoro, cioè lavoro, e secondariamente in quanto riceve mezzi di
sussistenza. Primieramente, dunque, in quanto può esistere come
lavoratore, secondariamente in quanto può esistere come soggetto
fisico. L'apice di questa schiavitù è che egli, ormai, solo in quanto
operaio [può] conservarsi come soggetto fisico, e solo in quanto è
soggetto fisico egli è operaio.
(L'alienazione dell'operaio nel suo oggetto si esprime, secondo le
leggi dell'economia politica, in modo che, quanto più l'operaio
produce, tanto meno ha da consumare, e quanto più crea dei valori,
tanto più egli è senza valore e senza dignità, e quanto più il suo
prodotto ha forma, tanto più l'operaio è deforme, e quanto più è
raffinato il suo oggetto, tanto più è imbarbarito l'operaio, e quanto
più è potente il lavoro, tanto più impotente diventa l'operaio, e
quanto più è spiritualmente ricco il lavoro, tanto più l'operaio è
divenuto senza spirito e schiavo della natura).
L'economia politica occulta l'alienazione ch'è nell'essenza del lavoro
per questo: ch'essa non considera l'immediato rapporto fra l'operaio
(il lavoro) e la produzione. Certamente il lavoro produce meraviglie
per i ricchi, ma produce lo spogliamento dell'operaio. Produce palazzi,
ma caverne per l'operaio. Produce bellezza, ma deformità per
l'operaio. Esso sostituisce il lavoro con le macchine, ma respinge una
parte dei lavoratori ad un lavoro barbarico, e riduce a macchine l'altra
parte. Produce spiritualità, e produce la imbecillità, il cretinismo
dell'operaio. [...]
In che consiste ora l'espropriazione del lavoro?
Primieramente in questo: che il lavoro resta esterno all'operaio, cioè
non appartiene al suo essere, e che l'operaio quindi non si afferma
nel suo lavoro, bensì si nega, non si sente appagato ma infelice, non
svolge alcuna libera energia fisica e spirituale, bensì mortifica il suo
corpo e rovina il suo spirito. L'operaio si sente quindi con se stesso
soltanto fuori del lavoro, e fuori di sé nel lavoro. A casa sua egli è
quando non lavora e quando lavora non lo è. Il suo lavoro non è
volontario, bensì forzato, è lavoro costrittivo. Il lavoro non è quindi la
soddisfazione di un bisogno, bensì è soltanto un mezzo per soddisfare
dei bisogni esterni a esso. La sua estraneità risalta nel fatto che,
appena cessa di esistere una costrizione fisica o d'altro genere, il
lavoro è fuggito come una peste. Il lavoro esterno, il lavoro in cui
l'uomo si espropria, è un lavoro-sacrificio, un lavoro-mortificazione.
Infine l'esteriorità del lavoro al lavoratore si palesa in questo: che il
lavoro io non è cosa sua ma di un altro, che il lavoro non gli
appartiene, e che in esso egli non appartiene a sé, bensì a un altro.
Come nella religione l'attività propria dell'umana fantasia, dell'umano
cervello e del cuore umano, opera sull'individuo indipendentemente
da esso, cioè come un'attività estranea, divina o diabolica, così
l'attività del lavoratore non è la sua attività propria. Essa appartiene
ad un altro, è la perdita del lavoratore stesso.
Il risultato è che l'uomo (il lavoratore) si sente libero ormai soltanto
nelle sue funzioni bestiali, nel mangiare, nel bere e nel generare,
tutt'al più nell'aver una casa, nella sua cura corporale ecc., e che
nelle sue funzioni umane si sente solo più una bestia. Il bestiale
diventa l'umano e l'umano il bestiale.
Il mangiare, il bere, il generare ecc., sono in effetti anche schiette
funzioni umane, ma sono bestiali nell'astrazione che le separa dal
restante cerchio dell'umana attività e ne fa degli scopi ultimi e unici.
Abbiamo considerato da due lati l'atto di alienazione dell'attività
pratica umana, del lavoro. 1) Il rapporto dell'operaio col prodotto del
lavoro come oggetto estraneo e avente un dominio su di lui. Rapporto
che è contemporaneamente rapporto col mondo i: sensibile, cogli
oggetti naturali, come mondo che gli sta di fronte estraneo, nemico.
2) 11 rapporto del lavoro con l'atto di produzione nel lavoro.
Rapporto ch'è il rapporto dell'operaio con la sua propria attività come
estranea, non sua, l'attività come passività, la forza ch'è debolezza, la
generazione ch'è impotenza, l'energia fisica e spirituale propria
dell'operaio, la sua vita personale - che cos'è la vita se non attività come un'attività rivolta contro lui stesso, da lui indipendente, a lui
non appartenente. L'autoalienazione, allo stesso modo in cui
vedemmo sopra l'alienazione della cosa. [...]
Se il prodotto del lavoro mi è estraneo, mi sta di fronte come una
potenza straniera, a chi esso appartiene allora?
Se la mia propria attività non mi appartiene, ma è un'estranea e
coartata attività, a chi appartiene allora?
A un ente altro da me.
Chi è questo ente?
La divinità? Certamente nei primi tempi la produzione principale, ad
es. a costruzione di templi ecc., in Egitto, in India, al Messico, appare
al servizio degli dèi e anche il prodotto appartiene agli dèi. Ma gli dèi
non furono mai i soli padroni del lavoro. Tanto meno la natura. E
quale contraddizione sarebbe anche che, vieppiù l'uomo si sottomette
la natura col suo lavoro, e vieppiù i prodigi degli dèi sono resi
superflui grazie ai prodigi dell'industria, l'uomo debba rinunciare per
amore di tali potenze alla gioia della produzione e al godimento del
prodotto.L'ente estraneo, al quale appartiene il lavoro e il prodotto
del lavoro, al servizio del quale sta il lavoro e per il godimento del
quale sta il prodotto del lavoro, può esser soltanto l'uomo stesso.
Quando il prodotto del lavoro non appartiene all'operaio, e gli sta di
fronte come una potenza estranea, ciò è solo possibile in quanto esso
appartiene a un altro uomo estraneo all'operaio. Quando la sua
attività gli è penosa, essa dev'essere godimento per un altro, gioia di
vivere di un altro. Non gli dèi, non la natura, soltanto l'uomo stesso
può esser questa potenza estranea sopra [l']uomo. [...]
Dunque, nel lavoro alienato, espropriato, l'operaio produce il
rapporto che a questo lavoro ha un uomo estraneo e che sta fuori di
esso. Il rapporto dell'operaio col lavoro genera il rapporto del
capitalista - o come altrimenti si voglia chiamare il padrone del lavoro
- col medesimo lavoro. La proprietà privata è dunque il prodotto, il
risultato, la necessaria conseguenza del lavoro espropriato, del
rapporto estrinseco dell'operaio alla natura e a se stesso.
La proprietà privata risulta così dall'analisi del concetto del lavoro
espropriato, cioè dell'uomo espropriato, del lavoro alienato, della vita
alienata, dell'uomo alienato.
Abbiamo certamente ricavato il concetto del lavoro espropriato
(della vita espropriata) dall'economia politica come risultato del
movimento della proprietà privata. Ma nell'analisi di questo concetto
si mostra che, quando la proprietà privata appare come ra- i gione e
causa del lavoro espropriato, essa è piuttosto una conseguenza di
quest'ultimo, così come gli dèi sono in origine non causa ma bensì
effetto dello smarrimento dell'intelletto umano. Poi questo rapporto si
rovescia in un effetto reciproco.
Solo all'ultimo punto culminante dello sviluppo della proprietà i
privata questa fa di nuovo risaltare il suo segreto: cioè che, da una
parte, essa è il risultato del lavoro espropriato, e secondariamente
ch'essa è il mezzo col quale il lavoro si espropria, la realizzazione di
questa espropriazione.
Questo sviluppo illumina subito diverse collisioni finora insolute.
1) L'economia politica parte dal lavoro come anima autentica della
produzione, e tuttavia al lavoro non dà nulla e alla proprietà privata
dà tutto. Proudhon da questa contraddizione ha concluso a favore del
lavoro contro la proprietà. Ma noi comprendiamo che questa speciosa
contraddizione è la contraddizione del lavoro alie- i nato con se stesso
e che l'economia politica ha espresso soltanto le leggi del lavoro
estraniato.
Noi quindi comprendiamo anche che salario e proprietà privata sono
identici: ché il salario, nel quale il prodotto, l'oggetto del lavoro
retribuisce il lavoro stesso, è solo una necessaria conse- i guenza
dell'alienazione del lavoro, così come nel salario il lavoro non si
palesa fine a se stesso, bensì mezzo che serve al salario.
Concluderemo su ciò più tardi, ora traiamo soltanto ancora alcune
conseguenze.
Un forzato aumento del salario (prescindendo da tutte le altre
difficoltà, prescindendo dal fatto che, essendo un'anomalia, esso
potrebbe anche esser mantenuto soltanto con la forza) non sarebbe
dunque altro che una migliore retribuzione degli schiavi e non
sarebbe la conquista, né per il lavoratore né per il lavoro, della loro
umana vocazione e dignità.
Sì, anche l'eguaglianza dei salari, come l'esige Proudhon, trasforma
soltanto il rapporto dell'odierno operaio al suo lavoro in un rapporto
di tutti gli uomini al lavoro: e la società è allora concepita come un
astratto capitalista.
Il salario è un'immediata conseguenza del lavoro alienato, e il
lavoro alienato è la causa immediata della proprietà privata. Con un
aspetto deve, quindi, cadere anche l'altro.
2) Dal rapporto del lavoro alienato alla proprietà privata consegue
inoltre che l'emancipazione della società dalla proprietà privata ecc.,
dalla servitù, si esprime nella forma politica dell'emancipazione
operaia non come se si trattasse soltanto dell'emancipazione
dell'operaio, bensì per il fatto che nell'emancipazione di questo è
implicita la generale emancipazione umana; e vi è contenuta in
quanto l'intera servitù umana è coinvolta nel rapporto dell'operaio
alla produzione, e tutti i rapporti di servitù sono soltanto modificazioni
e conseguenze di questo rapporto.
(da K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Opere, vol.
III, cit., pp. 298-301; 305; 306-8)
Il plusvalore
• Il concetto di plusvalore è una delle principali acquisizioni teoriche
del Capitale di Marx. La questione, come tutta l'opera maggiore di
Marx, è molto tecnica e ha provocato discussioni tra economisti,
storici e filosofi che non si sono spente neppure ai nostri giorni. Nella
pagina che ora leggeremo viene fornita la prima descrizione generale
della produzione del plusvalore, cioè di quella parte di prodotto che il
capitalista sottrae all'operaio e, appunto, capitalizza per sé.
La produzione capitalistica non è unicamente produzione di merce; in
sostanza è produzione di plusvalore. L'operaio non produce per se
stesso ma per conto del capitale. Dunque non basta più che l'operaio
produca genericamente: deve produrre il plusvalore. E produttivo solo
quell'operaio che produce plusvalore per conto del capitalista,
contribuendo all'autovalorizzazione del capitale. Prendiamo un
esempio estraneo alla sfera della produzione materiale: un maestro di
scuola è un lavoratore produttivo non perché educa e forma le menti
dei bambini, ma perché si ammazza di lavoro per arricchire il
proprietario della scuola.' In questo rapporto non cambia nulla il fatto
che il proprietario abbia investito il suo capitale in un fabbrica di
istruzione piuttosto che in una fabbrica di salami. Il concetto di
lavoratore produttivo non riguarda dunque solo una relazione tra
attività e risultato raggiunto, tra lavoratore e prodotto del lavoro, ma
riguarda per di più uno specifico rapporto di produzione sociale,
rapporto storicamente determinato che bolla il lavoratore come
strumento immediato della valorizzazione del capitale. per ciò che si
deve considerare una disgrazia e non una fortuna essere operaio
produttivo. Nel quarto libro di quest'opera, dove esporremo la storia
della teoria, vedremo in dettaglio come l'economia politica classica
abbia costantemente considerato la produzione di plusvalore come il
carattere fondamentale dell'operaio produttivo. In conseguenza di ciò
essa fornisce dell'operaio produttivo delle definizioni che variano col
variare del suo modo di intendere la natura del plusvalore. [...]
Il prolungamento della giornata lavorativa oltre quel punto in cui
l'operaio si sarebbe fermato in base alla semplice produzione
dell'equivalente del valore della propria forza produttiva, e
l'appropriazione del plusvalore [che ne deriva] da parte del capitale,
danno vita alla produzione del plusvalore assoluto. Questo processo
può compiersi e di fatto si compie sulla base di metodi produttivi che
si sono trasmessi attraverso la storia senza la partecipazione del
capitale. Si tratta dunque di una forma trasformata, e il modo di
sfruttamento capitalistico si distingue da quelli precedenti, come il
sistema schiavistico ecc., solo perché in questi ultimi il plusvalore
viene estorto con la costrizione diretta, mentre nel primo viene
ricavato dalla «libera» vendita della forza lavorativa.
(da K. MARX, Il capitale, libro I, cap. XIV)
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