Seminario 16 novembre 2016 società apparente

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Archivio selezionato: Sentenze Cassazione Civile
ESTREMI
Autorità: Cassazione civile sez. lav.
Data: 21 giugno 2004
Numero: n. 11491
CLASSIFICAZIONE
SOCIETA' DI PERSONE - Societa' irregolare e di fatto in genere Vedi tutto
OBBLIGAZIONI E CONTRATTI - Apparenza del diritto
SOCIETA' DI PERSONE - Societa' irregolare e di fatto prova
Societa' di persone - Societa' di fatto - Comportamento tale da ingenerare nei terzi il
convincimento giustificato della esistenza del vincolo sociale - Sufficienza ai fini della
responsabilita', anche in sede fallimentare, nei confronti dei terzi - Effettiva esistenza della
societa' tra le parti - Irrilevanza.
INTESTAZIONE
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Guglielmo
SCIARELLI
Presidente
Dott. Paolino
DELL'ANNO
Consigliere
Dott. Raffaele
FOGLIA
Consigliere
Dott. Filippo
CURCURUTO
Rel. Consigliere
Dott. Saverio
TOFFOLI
Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
S.T., elettivamente domiciliato in ROMA VIALE G. CESARE 14, presso lo
studio dell'avvocato MARIA TERESA BARBANTINI, che lo rappresenta e
difende unitamente all'avvocato GIANNANTONIO ALTIERI, giusta delega
in atti;
contro
M.B., E.C., B.C., I.C., O.F., E.G., C.M., C.P., M.T.S., J.S., L.V.,
C.B., M.F., P.P., M.P., N.S., B.S., M.C.S., M.R.Z., elettivamente
domiciliati in ROMA VIA TACITO 50, presso lo studio dell'avvocato
BRUNO COSSU, che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato
CARLO CESTER, giusta delega in atti;
- controricorrenti nonché contro
T.G., S.T.;
- intimati avverso la sentenza n. 930/00 del Tribunale di ROVIGO, depositata il
28/11/00 R.G.N. 1462/99;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
09/01/04 dal Consigliere Dott. Filippo CURCURUTO;
udito l'Avvocato COSSU;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
Renato FINOCCHI GHERSI che ha concluso per il rigetto del ricorso.
FATTO
Svolgimento del giudizio
Con ricorso al Pretore di Rovigo M.B. e le altre attuali controricorrenti convennero in giudizio S.T., S.T. e
T.G., esponendo di aver lavorato alle dipendenze di quest'ultima, quale titolare della omonima ditta di
confezioni, subentrata nell'azienda di confezioni formalmente facente capo a due diversi titolari, nelle
persone di S.T. e P.G., da considerarsi in realtà quale unica azienda facente capo a S.T., a sua moglie
T.G., ed al figlio S.T..
Per quanto in particolare interessa in questa sede, le ricorrenti chiedevano che fosse accertata la
sussistenza di una società di fatto tra S.T., S.T. e T.G. ovvero la contitolarità in capo gli stessi dei
rapporti di lavoro intercorsi con le ricorrenti, con condanna dei convenuti al pagamento delle somme ad
esse dovute per titoli vari collegati al rapporto.
Nella resistenza di S.T., il Pretore, accoglieva la domanda, e condannava, per ciò che interessa, S.T. in
solido con S.T. e T.G. al pagamento dei debiti maturati sino alla data della cessione dell'azienda alla
P.G., della quale affermava la responsabilità per il periodo successivo.
S.T. proponeva appello, contrastato dalle lavoratrici.
II Tribunale di Rovigo con la sentenza impugnata ha rigettato l'appello, condannando l'appellante alle
spese del giudizio.
Nella motivazione il giudice del gravame prende anzitutto le mosse dalla decisione del Pretore ed
afferma che quel giudice aveva fatto riferimento ad una società di fatto esistente tra S.T. e S.T..
Precisa, peraltro, che il primo giudice aveva posto in evidenza come il legame imprenditoriale tra più
soggetti possa avere due facce: quella che lega internamente i soggetti tra di loro, e che determina un
legame sociale effettivo, individuabile dalla giurisprudenza in base alla ricorrenza di determinati
parametri, nel caso ritenuti assenti; ed una faccia che si rende palese all'esterno, tale da ingenerare nei
terzi il ragionevole convincimento dell'esistenza di una società che in realtà non sussiste, nella quale si
suole riscontrare la figura giuridica cosiddetta dell'apparenza.
Questa premessa, viene utilizzata dal Tribunale per osservare che avendo la sentenza di primo grado
parlato di "società di fatto" ponendo però in rilievo solo gli aspetti che il legame ha esplicato all'esterno,
essa ha semplicemente evidenziato che il rapporto di fatto (sintagma riprodotto nella motivazione in
esame con l'uso del corsivo) appare all'esterno come rapporto di diritto, e si collega così all'istituto
dell'apparenza.
Quindi, secondo il Tribunale, era corretto ritenere, come aveva sostenuto l'appellante che il primo
giudice avesse classificato il rapporto fra S.T. e S.T. nella categoria della società apparente. Inesatto
era per contro che l'apparenza avesse rilievo giuridico solo nel momento di formazione del rapporto e
non potesse esplicare alcun effetto durante lo svolgimento di questo. Il tribunale richiama al riguardo gli
orientamenti giurisprudenziali in tema di società apparente, e, sottolineando gli effetti che a tale
fattispecie vengono ricollegati in sede fallimentare, osserva che la posizione del soggetto dichiarato
fallito per la sua posizione di socio apparente, è coinvolta per tutta la durata della cosiddetta società
apparente. Prosegue quindi mettendo in rilievo che nel caso in esame il Pretore aveva fatto discendere
la nascita di obbligazioni in capo a S.T., dalla sua posizione di socio, insieme al figlio, di una società
apparente, quale conseguenza del legittimo affidamento delle lavoratrici di aver instaurato un rapporto
di lavoro subordinato con entrambi tali soggetti, conclusione giustificata sulla base degli elementi di
prova, condivisibili, su cui il Pretore aveva fondato la buona fede dei terzi circa la sussistenza di una
siffatta apparenza societaria.
Rigettato, con tali considerazioni, il primo motivo di appello, con il quale l'appellante aveva contestato la
configurabilità di un rapporto sociale di fatto con S.T., il Tribunale si limita ad osservare, quanto al
secondo motivo, vertente sulla non ricorrenza della figura del socio occulto, che mancando nella
sentenza impugnata alcun riferimento a tale figura, nulla doveva dirsi al riguardo.
Infine, sul terzo motivo d'appello, fondato sul vizio di extrapetizione, la sentenza sottolinea che in primo
grado le lavoratrici avevano chiesto l'accertamento della sussistenza di una società di fatto tra i signori
S.T., T.G. e S.T. comunque tra alcuni di essi, ovvero (anche in tal caso utilizzando il carattere corsivo
per la frase che segue) la contitolarità in capo agli stessi dei rapporti di lavoro intercorsi con le
ricorrenti.
Secondo il tribunale una domanda così formulata rendeva privo di fondamento il motivo in parola.
Di questa sentenza S.T. chiede la cassazione sulla base dei due motivi.
Le intimate resistono con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
DIRITTO
Motivi della decisione
Con il primo motivo denunziando in relazione all'art. 360 comma 1, n. 3 c.p.c., falsa applicazione di
norme di diritto con particolare riferimento alla società apparente ed al rapporto sociale apparente, il
ricorrente addebita alla sentenza l'errore di diritto di ritenere che la tutela dell'apparenza possa
estendersi oltre la fase di formazione del titolo costitutivo del rapporto, dando così indebitamente
rilevanza a situazioni che non esistevano nel momento di formazione di detto titolo a che in ipotesi si
erano verificate successivamente.
Con il secondo motivo di ricorso denunziando in relazione all'articolo 360, comma 1, numeri 3 4 e 5
c.p.c., violazione dell'articolo 112 c.p.c., il ricorrente, con un primo profilo di censura, addebita alla
sentenza impugnata di aver escluso con motivazione contraddittoria che la sentenza di primo grado
fosse affetta da extrapetizione.
Il tribunale ha infatti affermato che il Pretore aveva ritenuto di poter classificare il rapporto tra S.T. e
S.T. nell'ambito della categoria della società apparente, e non aveva invece mai fatto riferimento alla
figura giuridica del socio occulto. Il tribunale ha poi affermato anche che la domanda delle ricorrenti
mirava ad accertare la sussistenza di una società di fatto tra S.T., T.G. e S.T., o fra alcuni di essi,
ovvero la contitolarità in capo ad essi dei rapporti di lavoro intercorsi con le lavoratrici. Quindi la
domanda è stata fondata su una pretesa responsabilità di S.T. sul presupposto di un vincolo sociale di
fatto reale e sussistente, ancorché non apparente. Ma, se ciè è vero, allora la domanda si fonda
sull'ipotesi dell'esistenza di un socio occulto, nella persona di S.T.. Pertanto, visto che, come la stessa
sentenza ha affermato, una tale ipotesi è stata ritenuta insussistente, la domanda fondata su di essa
avrebbe dovuto esser rigettata. Se, invece, una pretesa estensione di responsabilità al S.T. fosse stata
fondata sull'istituto dell'apparenza non troverebbe spiegazione la sentenza impugnata nella parte in cui
essa afferma che l'accertamento da essa fatto rispetto alla domanda attorea era nel senso che la
responsabilità del S.T. si fondava sulla sussistenza di una società di fatto fra lo stesso S.T., T.G. e S.T.,
ossia sulla sussistenza di un rapporto sociale effettivo ancorché non apparente.
Con un secondo profilo di censura il ricorrente addebita in sostanza alla sentenza impugnata di avere
erroneamente ritenuto che i concetti di società di fatto, società apparente, società occulta e socio
occulto possano esprimere indifferentemente una stessa realtà fenomenica e problematiche giuridiche
identiche. Invece si tratta, come affermato anche dalla giurisprudenza di legittimità, di concetti diversi,
posto che società apparente è quella che appare esistente nei confronti dei terzi che con essa
contraggono, facendo affidamento sull'apparenza di un rapporto sociale nella realtà inesistente; società
occulta o socio occulto di società apparente è, contrariamente a quello dell'apparenza, fenomeno
fondato invece sulla effettività e realtà del rapporto sociale che, seppur non apparente e quindi occulto
è tuttavia esistente, con la conseguenza che in tale caso la tutela del terzo non è più fondata sul
fenomeno dell'apparenza ma su quello della effettività della responsabilità dell'intera base sociale e di
ogni componente della stessa apparente o meno; società di fatto è quella in cui il contratto sociale
risulta non da un documento bensì da "facta concludentia".
Le differenze anzidette rendono i tre istituti assolutamente disomogenei e incomunicabili. La sentenza
impugnata, ignorandole, non ha considerato che, avendo le ricorrenti lavoratrici chiesto l'accertamento
della sussistenza di un rapporto sociale fra S.T., S.T. e T.G., il fatto che il giudice di primo grado avesse
fondato invece la responsabilità di S.T. sull'apparenza societaria implicava non una mera qualificazione
giuridica di un identico presupposto di fatto ma il riconoscimento di una causa petendi diversa ed
alternativa rispetto all'altra e perciò il vizio di extrapetizione erroneamente e contraddittoriamente
escluso dal giudice di appello.
I due motivi fra loro connessi possono essere trattati congiuntamente.
Il nucleo essenziale degli accertamenti di fatto contenuti nella sentenza è riducibile a ciò che, nella
specie esaminata, mancavano i parametri per poter ritenere che tra S.T. e S.T. fosse stata costituita
una società di fatto per l'esercizio della impresa di confezioni facente formalmente capo al secondo,
mentre al tempo stesso, sulla base degli elementi di prova acquisiti, si doveva ritenere che nei terzi,
quali erano i dipendenti, si era determinata la ragionevole convinzione che il loro rapporto di lavoro
subordinato facesse capo ad entrambi i due soggetti, avendo questi determinato l'insorgere nei detti
terzi di un incolpevole affidamento nella effettiva esistenza fra loro di un rapporto societario.
Non rileva qui esaminare se vi fossero indici idonei di tale apparenza, con il connesso problema delle
modalità di esteriorizzazione dell'inesistente rapporto sociale, dal momento che in se, l'accertata
ricorrenza di una apparenza societaria non è stata in effetti contestata.
Il primo motivo di censura, senza denunziare vizi di motivazione, pone il problema (di diritto) della
rilevanza che nel rapporto di lavoro possa avere un affidamento circa la individuazione dell'effettivo
datore di lavoro, formatosi successivamente al sorgere del rapporto. Il secondo motivo denunzia nel
primo profilo contraddittorietà ma con riguardo alla esclusione del vizio di extrapetizione da parte del
primo giudice, mentre nel secondo prospetta ancora una volta errori di diritto in tema di distinzioni fra
società di fatto, società apparente e società occulta, ma nulla osserva sui menzionati indici di
apparenza.
Aver determinato l'incolpevole convinzione che del rapporto fossero contitolari, quali datori di lavoro,
S.T. e S.T., benché il rapporto fosse formalmente sorto con il primo significa aver determinato la
convinzione di una modifica soggettiva del rapporto stesso. La modificazione soggettiva, se sussistente,
avrebbe determinato anche in capo a S.T. responsabilità per i debiti relativi al rapporto di lavoro. Il
principio della tutela dell'affidamento comporta che chi abbia ingenerato nel terzo ancorché senza mala
fede il ragionevole convincimento sulla ricorrenza di una determinata situazione, produttiva di
conseguenze giuridiche risponde dell'ingannevole apparenza posta in essere.
È insegnamento consolidato nella giurisprudenza di questa Corte che al di fuori dei casi particolari di
tutela dell'affidamento da essa suscitato, previsti per legge, l'apparenza del diritto non integra un
istituto di carattere generale con connotazioni definite e precise ma opera nell'ambito dei singoli istituti
giuridici secondo il vario grado di tolleranza di questi in ordine alla prevalenza dello schema apparente
su quello reale (Cass. 1 marzo 1995, n. 2311; 17 marzo 1975, n. 1020). In tale ordine di idee non è
stato escluso quindi in linea generale che il principio dell'apparenza possa essere invocato non già al
fine di individuare il soggetto o il contenuto di un rapporto determinato (della cui realtà non si dubita)
bensì per aggiungerne altro, sul fondamento dell'affidamento venutosi a creare ad es. nel corso delle
trattative e della costituzione del primo. Né rileva ai fini che qui interessano che in determinati tipi di
rapporti tale operazione non possa esser compiuta per i limiti intrinseci di disciplina del rapporto (v. al
riguardo , con riferimento ad un preteso rapporto fideiussorio apparente, Cass. 8 maggio 1981, n.
3027). Ciò che invece appare rilevante per decidere del ricorso in esame è l'inesistenza di elementi
normativi che, in linea generale, impediscano di attribuire rilievo a situazioni che nel vigore di un
determinato rapporto inducano senza colpa una parte di tale rapporto a ritenere che l'originaria
struttura soggettiva della controparte abbia subito un mutamento, modificandosi, come nella specie, nel
senso della sostituzione all'unico datore di lavoro individuale di un diverso e più complesso centro di
imputazione costituito da una società di fatto fra detto datore e altro o altri soggetti. Una siffatta
esclusione del resto sarebbe difficilmente compatibile con il carattere del rapporto lavoro, che è
rapporto non istantaneo ma di durata, equivalendo a dire che non potrebbe trovare tutela l'interesse del
lavoratore ad invocare la responsabilità di chi creando l'apparenza del suo essersi aggiunto alla parte
originaria del rapporto abbia, ad es. con la sua maggiore capacità patrimoniale o attitudine
imprenditoriale determinato nel lavoratore la scelta di restare alle dipendenze di una impresa giudicata
conseguentemente più solida. Contro tali considerazioni non vale richiamare il precedente costituito da
Cass. 5 marzo 1987, n. 2311, osservando che in quel caso la società apparente era emersa nei
confronti del terzo al momento del primo negozio intervenuto fra le parti. Ivi il negozio considerato (una
compravendita) non aveva il menzionato carattere né quindi quella decisione aveva ragione di
esaminare lo specifico profilo qui controverso.
Ma i principi affermati in quella come in numerose altre sentenze di questa Corte, dai quali
evidentemente non vi è ragione per discostarsi, sono costantemente nel senso che il comportamento di
due o più persone che, pur non essendo realmente legate da alcun vincolo sociale, operano nel mondo
esterno in modo da generare il convincimento che esse agiscano come soci, così determinando
l'affidamento dei terzi sull'esistenza e la responsabilità della società apparente determina la
responsabilità di ciascun socio apparente per le obbligazioni contratte anche da uno solo di essi e si
riflette anche sotto il profilo concorsuale con la dichiarazione di fallimento della società e dei soci,
indipendentemente dal fatto che essi abbiano, o non, inteso dare vita tra di loro ad un rapporto sociale
(v. fra le molte oltre a Cass. 5 marzo 1987, n. 2311, cit; 4 agosto 1988 n. 4827; 11 marzo 1992 n.
969; 9 giugno 1993, n. 6438; 26 luglio 1996, n. 6770; 12 settembre 1997, n. 9030).
Sulla base di tali considerazioni la Corte reputa quindi infondato il primo motivo.
La sentenza impugnata, riportando il contenuto della domanda svolta dagli attori in primo grado ha
sottolineato (usando fra l'altro la particolare forma grafica del corsivo per mettere in evidenza solo una
parte - ovviamente ritenuta di particolare rilievo - di un testo citato nella sua integrità) che essa
conteneva una richiesta di affermazione di contitolarità dei rapporti in capo ai due S.T. e a T.G.. Tale
affermazione, contrariamente all'opinione manifestata nel primo profilo del secondo motivo, non entra
in contraddizione con la negata assenza di extrapetizione nell'operato del primo giudice. Premesso che
compito del giudice di una qualsivoglia impugnazione è l'interpretazione dell'atto impugnato, e
premesso che d'altra parte spetta esclusivamente al giudice di merito interpretare la domanda, salvo il
caso in cui se ne lamenti l'omesso esame (v. fra le molte Cass. 17 luglio 2002, n. 10384) questa Corte
reputa che il Tribunale di Rovigo abbia letto la domanda delle ricorrenti come rivolta a far valere la
contitolarità dei rapporti in capo a S.T. e S.T. per effetto dell'apparente vincolo sociale, in alternativa al
riscontro di un vincolo sociale effettivo. Tale lettura è coerente con l'insieme delle considerazioni in
punto di fatto svolte nella motivazione della sentenza impugnata, e rende perfettamente coerente a sua
volta il rigetto del motivo con cui l'appellante aveva fatto valere il vizio di extrapetizione. Nella sentenza
del Pretore non vi era infatti alcuna eccedenza fra la richiesta di far valere la contitolarità dei rapporti in
capo anche a S.T., e la decisione di ritenere, che verso le lavoratrici, terze rispetto ai rapporti effettivi
interni fra i due S.T. e la P.G., operasse una siffatta contitolarità a prescindere dalla reale consistenza
dei rapporti interni alla controparte. D'altra parte come la sentenza del Tribunale mette varie volte in
evidenza (anche, come detto, con l'uso di particolari accorgimenti grafici) il nucleo fondamentale della
decisione del Pretore era la riscontrata sussistenza di un fenomeno di apparenza societaria rilevante ai
fini della responsabilità verso i terzi, e i riferimenti alla sussistenza di rapporti di fatto andavano letti in
tale direzione.
Il secondo profilo del secondo motivo contiene censure irrilevanti, dal momento che si indirizza contro
talune incertezze terminologiche della decisione impugnata in tema di società apparente, di fatto o
occulta che non pregiudicano tuttavia l'essenza della decisione resa.
In conclusione il ricorso deve essere rigettato con condanna del ricorrente alle spese di lite.
P.Q.M.
P.Q.M.
rigetta il ricorso; condanna il ricorrente alle spese in euro 26,00 oltre ad euro 2000,00 per onorari.
Roma 9 gennaio 2004.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 21 GIU. 2004.
NOTE REDAZIONALI
- In senso sostanzialmente conforme cfr.: Cass. 22 marzo 2001 n. 5089; Cass. 12 settembre 1997 n.
9030.
Cassazione civile sez. lav., 21 giugno 2004, n. 11491
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