Archeologia e modernità dell`esclusione Metafore del cittadino e

Fabio Martelli
Archeologia e modernità
dell’esclusione
Metafore del cittadino e dello Stato nel Trattato
sugli eunuchi di Charles Ancillon
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I edizione: febbraio 2009
Indice
5 Premessa
7 Capitolo I
Le virtù dell’Esilio: Charles Ancillon, un ugonotto al servizio
della Prussia
87 Capitolo II
L’eunuco nella terra dei patres: aspetti del diritto romano
121 Capitolo III
Voi invece siate eunuchi per il Regno: semantica della “rivoluzione” cristiana
163 Capitolo IV
I “casti viri” nella teologia politica romea
185 Capitolo V
Paradossi fuori di natura: la voce del Castrato, la parola del
Re
225 Capitolo VI
Ipotesi di catarsi: le proposte di Ancillon per un Leviatano
prussiano
361 Capitolo VII
Digressioni circa l’influsso di Ancillon sulla pubblicistica
germanica
393
Bibliografia
Capitolo I
Le virtù dell’Esilio: Charles Ancillon,
un ugonotto al servizio della Prussia
La vita di Charles Ancillon, riassunta nei suoi elementi essenziali,
potrebbe paragonarsi ad uno di quegli apologhi cari alla letteratura
popolare e tesi ad illustrare o la variabilità della fortuna o, al contrario,
la virtù della coerenza ad una fede o ad un’idea e il premio che tale atteggiamento riceve nonostante ogni imprevisto.
Ancillon nasce infatti in Francia, in un’epoca in cui quel regno
aveva raggiunto l’apogeo del proprio splendore, vi riceve una educazione eccellente sotto ogni profilo e si inserisce felicemente nell’alveo
della comunità ugonotta cui la sua famiglia appartiene da molte generazioni. Tutto a prima vista sembra lasciare intravedere per il giovane
una vita tranquilla, in seno alle funzioni che ormai da tempo l’alta
borghesia, a prescindere dalla sua confessione religiosa, deteneva
all’interno dello Stato francese. Il fatto poi che egli fosse universalmente riconosciuto nella propria comunità come grande esperto di diritto rafforzava ulteriormente questa prospettiva. A ciò si aggiunga il
peso economico e sociale della famiglia degli Ancillon, sicuramente
una delle più eminenti all’interno della comunità ugonotta di Metz.
Nella regione, più in generale, essa godeva di grande reputazione:
Daniel, il padre di Charles, era considerato da tempo un punto di riferimento, anche in termini teologici, per tutta la sua comunità, ma ciò
non impediva che anche il notabilato cattolico locale vedesse in lui
una figura preminente, di grande rigore morale e, come sarebbe stato
poi per il figlio, di grande sapere giuridico. Una famiglia profonda-
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Capitolo I
mente radicata nel territorio, dunque, dotata di importanti alleanze,
ovviamente soprattutto nell’ambito della propria confessione, ma ormai da tempo bene inserita nei meccanismi della società francese tutta.
Del resto la Francia, pur avendo conosciuto terribili scontri religiosi, li aveva saputi superare, naturalmente essendo pietra miliare di
questo processo l’Editto di Nantes di Enrico IV.
La monarchia poi aveva fatto taluni, parziali passi indietro. Richelieu aveva voluto lo smantellamento delle cosiddette “piazzeforti di
garanzia”, di quei centri armati come La Rochelle, che dovevano dare
alla fazione calvinista la certezza di potersi difendere, anche militarmente, da un’eventuale e del tutto inopinata nuova “Notte di San Bartolomeo”. Questa politica, più che a questioni di carattere religioso
(non si dimentichi infatti la politica di alleanza sistematica con le monarchie protestanti praticata dal grande ministro), andava riferita alla
ideologia centralizzatrice che Richelieu, e naturalmente lo stesso Luigi
XIII, volevano imporre al Paese, va cioè, in altri termini, comparata
con i divieti, estesi a tutta la società francese, di esercitare autonomamente la forza.
Va inserita, dunque, questa serie di limitazioni ai privilegi
dell’Editto di Nantes per gli ugonotti, in quel fenomeno di disciplinamento della società che deve approdare al monopolio della violenza
come prerogativa esclusiva dello Stato. Così come Richelieu vieta i
duelli come espressione simbolica, oltre che concreta, di una nobiltà
ancora convinta di poter esercitare in tal modo una sorta di contropotere rispetto alla corte, del pari egli non può accettare che sul territorio
del regno sorgano centri militarmente attrezzati, autonomi dal controllo monarchico. Tali, in fondo, erano le “piazzeforti di garanzia”, di cui
il senso, sotto il profilo politico, lasciava ulteriormente interdetto il
Cardinale: era lo Stato e lo Stato solo, per l’appunto nella sua ideologia, a detenere il controllo della forza e ciò doveva essere peraltro
garanzia durevole e bastevole per tutti i sudditi, ugonotti compresi.
Per costoro la minaccia di una nuova “Notte di San Bartolomeo”
doveva essere fugata semplicemente attraverso il lealismo verso lo
Stato. Ciò doveva metterli al sicuro da qualsiasi pericolo di fazioni ultracattoliche o di qualsiasi altro gruppo loro ostile: essi erano cioè in
questo senso parificati agli altri sudditi, tutti in egual misura protetti,
tutelati, ma anche controllati dallo Stato.
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La pretesa ad una forma di esclusività in termini di autodifesa militare, rappresentava oltretutto una contraddizione in termini rispetto alla nuova filosofia della Ragione di Stato adottata dalla monarchia
francese e anche una vistosa aporia rispetto alla capacità stessa dello
Stato di proteggere e controllare i propri sudditi.
Le piazzeforti erano il relitto concreto, oltre che simbolico, di una
stagione ormai passata, quando i partiti, le fazioni, i gruppi della grande nobiltà ancora potevano incidere autonomamente ed in maniera
drammaticamente violenta sul confronto all’interno delle politiche
decise dalla monarchia.
Per Richelieu non era neppure ipotizzabile, perciò, che il re, fonte
primaria di giustizia, decidesse arbitrariamente e illogicamente di perseguitare gli ugonotti, a meno che questi ultimi non si fossero resi in
qualche modo colpevoli di qualche reato contro lo stato. In tal caso
però non doveva essere, per loro come per nessun altro suddito del
reame, possibile sfuggire alla giustizia regia e dunque quei loro apprestamenti difensivi rappresentavano una sorta di insulto al potere assoluto che ormai, secondo il Cardinale, si doveva concentrare solo nelle
mani del re e del suo governo. A ciò va aggiunto naturalmente lo stato
perdurante di tensione con l’Inghilterra e quindi, nel caso specifico di
La Rochelle, nella possibilità di questa piazzaforte, in caso di dissenso
tra gli ugonotti e la corte, di trasformarsi in una testa di ponte per un
eventuale esercito di invasione inglese.
Tutto questo porta al celebre assedio della città, nell’ambito più
generale di uno smantellamento dello specifico privilegio delle piazzeforti in garanzia, stabilito dall’Editto di Nantes. Va tutt’al più osservato che per il resto la politica di Luigi XIII in termini confessionali
resta improntata alla tolleranza voluta dal padre e d’altronde questa
valutazione trova conferma, in una ancorché sommaria analisi, delle
più importanti circostanze in cui il Cardinale, vero leader dello stato
francese assai più del monarca, decise di mettere in moto l’apparato
repressivo dello stato contro qualche gruppo.
Dopo la campagna di La Rochelle, infatti, la scure del boia si
abbatte quasi esclusivamente su esponenti della grande nobiltà cattolica, tutti sospettati, a torto o a ragione, di voler creare fazioni, se non
direttamente avverse al re, quantomeno desiderose di limitarne o controllarne il potere.
Capitolo I
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In sintesi, la politica di Richelieu, spingendosi vigorosamente verso
una direzione di centralizzazione dell’apparato statale e di totale controllo di quest’ultimo sui sudditi, non poteva tollerare anomalie, forme
di contropotere territoriale o anche di significative fazioni clanicopolitiche come quelle gestite dalla grande nobiltà cattolica.
Su quest’ultima, così come sugli ugonotti, si abbatté allora la
repressione violenta della monarchia francese, non tanto in nome della
differenza religiosa, quanto piuttosto a sostegno di quel modello di
primazia dello stato su qualsiasi altra forma di aggregazione sociale.
Il processo di disciplinamento della società francese imponeva
necessariamente il monopolio della violenza da parte dello stato come
fase preliminare ad ogni ulteriore rimodellamento giuridico e istituzionale del sistema e perciò Richelieu combatté con eguale foga e
forza contro le autonomie militari degli ugonotti e contro i simboli,
più ancora che non contro le reificazioni, dei residui feudali del potere
della nobiltà, ma fu soprattutto in realtà contro quest’ultima, in larghissima maggioranza cattolica, che l’azione poliziesco-giudiziaria
del grande ministro si accanì dopo che, per l’appunto, la questione di
La Rochelle si era risolta, sia pure faticosamente, a favore della monarchia.
Sotto Luigi XIII dunque la situazione religiosa degli ugonotti non si
modifica in maniera sostanziale: essi escono, per così dire, dalla condizione post bellica e come tale quindi atipica e quasi anomica, che
Enrico IV aveva ritenuto saggiamente di dover concedere loro ed
entrano forzatamente in una normalità che è quella della parificazione
in diritti e doveri a tutti gli altri sudditi del regno, il che naturalmente
implica anche, per l’apparato poliziesco che il Cardinale sta costruendo, una facoltà di capillare controllo su di un processo sociale che egli
si sforza di disciplinare1.
Pur di parte, si vedano i materiali raccolti in H. BENOIST, Histoire de l’édit de
Nantes contenant les choses…., Delft 1693-1695; cfr. H. BOST, Des porte-parole
protestants au chevet de l’édit de Nantes moribond, in AA.VV. (es. Messieurs de la
R.P.R. Histoire et écritoires de huguenots, XVII e XVIII siècles, Paris 2001, pp. 280
ss; ID., Les arguments des protestants françaises dans la négociation de l’édit des
non-catholiques (175 -1787), in G. SUPIN, R. FABRE, M. LAUNAY (ed.), La tolérance, Rennes Press Universitaires, 1999, pp. 225 ss..
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La filosofia di Richelieu fu ripresa, anche in merito al rapporto con
le altre confessioni presenti nel regno, dal suo grande successore, il
Cardinale Mazzarino e, in questo modo, ci si avvicina così all’ascesa
al potere del Re Sole.
Charles Ancillon nacque due anni prima di quell’evento che, con
una certa enfasi, si suole chiamare “colpo di stato monarchico” del
futuro Re Sole. Di fatto esso altro non fu che l’affermazione, da parte
del giovane re, della sua volontà di essere Primo Ministro di se stesso,
una scelta comprensibile per chi era stato educato, in fondo, nell’alveo
della grande tradizione centralistica dei due Cardinali e dello stesso
Luigi XIII, ma ancora più dettata, a mio avviso, dalla impossibilità a
reperire nell’ambito della corte figure di genialità e affidabilità paragonabili a quella dello stesso Mazzarino.
Al di là delle leggende, il Cardinale aveva assunto costantemente
un atteggiamento più che paterno verso il giovane re e lo aveva servito
con modalità a volte criptiche, tortuose, ma sempre tuttavia mirando a
realizzare e a completare quel programma di centralismo monarchico
o per meglio dire, di vero assolutismo che in certa misura Richelieu
aveva già improntato.
Come dimostrerà l’affaire Fouquet, alla corte del Re Sole vi erano
indubbiamente ministri e personaggi di grande spessore intellettuale,
ma nessuno pari per capacità a Mazzarino e, soprattutto, nessuno
capace di coniugare lo spirito di intrapresa politica con il lealismo
assoluto alla figura del re, così come era stato appunto per il Cardinale
italiano.
La svolta del 1661, ancorché epocalizzata ulteriormente dalla storiografia successiva, comunque modifica in qualche modo la situazione francese, soprattutto perché da quel momento è Luigi XIV in prima
persona a sentirsi artefice di un mutamento drastico nella gestione del
Paese. In altri termini, al di là di come e perché si realizzò l’abolizione
de facto della figura di un Primo Ministro, vicariante la funzione regia
più determinante ancora credo sia stata successivamente la progressiva
autopercezione da parte del re delle implicanze ideologico-simboliche
di quel gesto. Per meglio dire, si potrebbe osservare che, prima ancora
di diventare il “Re Sole”, Luigi XIV con quella svolta aveva posto le
basi per collocare se stesso e la sua persona, al centro di un sistema,
per così dire, “eliocentrico”.
Capitolo I
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Con il passare degli anni, riguardando a quella scelta drammatica
compiuta in gioventù, egli stesso finì in certa misura per idealizzarla,
per darle un significato di vero spartiacque nella storia della monarchia francese, per farne, per così dire, il primo gradino della sua stessa
apoteosi.
L’evento storico, pur rilevantissimo, viene così rapidamente trasfigurato in una fase simbolica che, riletta post eventum, sembra tracciare
dunque una linea di coerenza assoluta tra le prime scelte del giovane
monarca, condotte appunto ovviamente in autonomia rispetto al Cardinale appena scomparso e la sua ideologia assolutista, che si affermerà poi negli anni con sempre maggior forza e vigore. In realtà tuttavia, nel 1661 nulla lasciava presagire che quel gesto inaugurasse il regno di un monarca che, al contrario dei suoi predecessori, compreso lo
stesso Luigi XIII, avrebbe fatto dell’assolutismo personale una sorta di
ragion d’essere della diretta esperienza di governo.
All’assolutismo de facto, Luigi XIII era stato indirizzato, talvolta
controvoglia, almeno per quanto attiene agli strumenti utilizzati2, sotto
l’impulso soprattutto della lucida intelligenza politica di Richelieu; il
Cardinale Mazzarino era riuscita a conservare questa sua autorità pure
ai tempi della Reggenza.
Ora, per Luigi XIV, la filosofia assolutista diventava non solo il
modello da perseguire più o meno sotterraneamente (si ricordi che lo
stesso Richelieu in pubblico amava condannare gli eccessi della Ragion di Stato), quanto, prima di ogni altra cosa, l’espressione formale
della cifra ultima della monarchia francese.
L’assolutismo, da condizione di fatto, quasi celata nelle sue forme
più radicali e dure dallo stesso Richelieu, diventava ora motivo di vanto, di orgoglio, una sorta di ripetuto manifesto del nuovo regno che
doveva apparire chiaro e ben comprensibile a tutti, ai sudditi in primo
luogo, ma anche al resto d’Europa, ai circoli politici interni e alle monarchie straniere, all’“uomo della strada”, così come all’intellighentia
tutta del Vecchio Continente. Quindi, il mutamento che si sarebbe poi
detto inaugurato dalle scelte del giovane Luigi XIV nel 1661, divergeva dal passato soprattutto nell’estetica politica complessiva del regno:
F. MARTELLI, Estetica del colpo di Stato. Teologia e politica nella Francia di
Richelieu, Milano 2003, pp. 310 ss..
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l’assolutismo, da corollario implicito nel primato dello Stato e nelle
sue istanze sul resto del corpo sociale, contestuale alle filosofie di disciplinamento già inaugurate da Richelieu, diventava ora vero e proprio “manifesto” da condividere, senza reticenza o esitazione, da parte
di qualsiasi suddito francese e, presto, anche da parte di coloro che avrebbero voluto essere alleati del Re Sole fuori dalle frontiere francesi.
In questo clima, la politica religiosa di Luigi XIV fu inevitabilmente
complessa e per molti versi contraddittoria e naturalmente su di essa
torneremo in seguito.
Per ora ci basta ricordare l’evento che cambiò tutta l’esistenza di
Charles Ancillon, cioè la revoca nel 1685 dell’Editto di Nantes. Non è
possibile in questa sede ricostruire le dinamiche e soprattutto le motivazioni con cui il Re Sole pervenne a quella scelta. Resta invece indubitabile che essa sancisce in maniera drammatica una cesura nella storia del suo regno e dei suoi stessi rapporti con la società francese.
Il Re Sole aveva iniziato una politica di repressione, in gran parte
“illegale”, con quelle che sarebbero poi state chiamate le dragonnades, forme di intervento militare anomico, per l’appunto, condotte dai
dragoni regi a discapito delle comunità ugonotte. Un fremito di terrore
e qualche anelito di rivolta, cominciarono allora a serpeggiare tra i
riformati del regno, ma era difficile, quasi impossibile, divisare la radicalità della prossima mossa del Re Sole.
Le tensioni degli anni precedenti sembravano in qualche modo far
presagire una risposta, alla “diversità” religiosa violenta e persino illegale da parte della monarchia, ma altra cosa era prevedere che Luigi
XIV avrebbe rotto con la tradizione dei suoi antenati, giungendo per
l’appunto ad un atto tanto clamoroso come la revoca dell’Editto che
aveva sancito la pacificazione del Paese e con essa anche l’ascesa
stessa della casata dei Borbone sul trono di Francia.
La grande figura del “primo re” della dinastia era inevitabilmente
legata ad alcuni momenti simbolici, impressi ormai nell’immaginario
collettivo dei francesi, ma più in generale si potrebbe dire di tutto il
Vecchio Continente. La sua morte, drammatica certo, figlia dell’intolleranza religiosa, era stata una sorta di avvertimento permanente non
solo ai re di Francia, ma più in generale a tutte le casate europee circa
i rischi impliciti in una radicalizzazione del confronto confessionale
da un lato, ma altrettanto e forse ancora più, il famoso Editto con il
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Capitolo I
quale si stabiliva la pacificazione religiosa del regno era divenuto un
gesto politico di portata europea anche nelle leggende popolari.
È grazie essenzialmente a questa svolta che il primo dei Borbone a
salire sul trono di Francia entra durevolmente nell’immaginario collettivo europeo, sia quello dell’intellighentia, sia quello popolaresco.
Proprio partendo dal riconoscimento della valenza epocale dell’Editto
di Nantes, si ritenne poi di dovere costruire intorno al personaggio tutta una declinazione ermeneutica in funzione di altri valori; è per quella
scelta che la tradizione popolare, oltre a quella erudita, lo identifica,
indipendentemente quasi dalla confessione di appartenenza de singoli,
come “padre della patria” francese.
È per questo stesso motivo che egli viene presentato con simpatia e
affetto sinceri, come un politico abile, che ha compreso da tempo ciò
che altri in Europa sembrano faticare ad intendere e, cioè, come le esigenze e gli obblighi verso lo Stato (sarei quasi tentato di dire verso la
“patria”, se la parola non avesse valenze in certe misure anacronistiche), non possano essere offuscati o tantomeno cancellati dai presunti
obblighi confessionali del singolo.
Anche la perenne fortuna della celebre frase, peraltro non esattamente pronunciata così da Enrico IV, “Parigi val bene una Messa”,
non è originariamente connotabile in una dimensione cinica. Al contrario in origine, ha una valenza strettamente positiva, dal momento
che riconosce il temperamento realista, sensato del monarca e, soprattutto, uno spirito di servizio che antepone le esigenze collettive, quelle
del regno e dei sudditi, alle preclusioni di carattere religioso.
Calvinista, toccato in prima persona dalla strage della Notte di San
Bartolomeo, Enrico IV non esita, infatti, a farsi cattolico per il bene
dello Stato e della società. Questo è il senso iniziale di una frase che
poi è stata rovesciata in termini semantici, proprio in virtù della fortuna che essa aveva conosciuto fin dall’inizio, tuttavia sottolineando ancora una volta che la leggenda di Enrico IV è fortemente positiva
all’interno dell’immaginario del regno di Francia.
Ciò non toglie naturalmente che le fazioni cattoliche oltranziste, i
cui interessi ormai si fondevano con le spinte centrifughe che i nobili
francesi cercavano in qualche modo di conservare (e che si ripresenteranno puntualmente con gli episodi della Fronda), continuassero a vedere in lui un ipocrita, una sorta di Machiavelli gallico, capace, in no-
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me del potere, di fingere di abiurare la propria religione, e quindi di
dipingerlo come il nemico per eccellenza della Cattolicità, proprio
perché, mascherandosi da cattolico e salendo su uno dei più importanti
troni d’Europa, egli, meglio che qualunque altro riformato, poteva minare la forza della Chiesa; ma queste sono tradizioni minoritarie, che
presto scompariranno (anche se non totalmente) insieme ai gruppi che
le hanno prodotte.
Per la gran parte dei sudditi, Enrico dunque è il “padre della patria”, proprio per avere pacificato, attraverso l’Editto di Nantes, un regno prima sconvolto dalle guerre di religione. Egli è l’uomo di buon
senso, ironico, persino vagamente scettico rispetto alla questione religiosa, che sa porre la tematica confessionale in secondo piano per il
bene collettivo. Ma questo scetticismo non viene inteso, nelle tante
leggende su Enrico IV, come un esempio di cinica sete di potere: in
esse, al contrario, si sottolinea la razionalità di un uomo che ha visto
troppo sangue sparso in tutto il reame a causa di differenze religiose,
spesso incomprensibili ai più, almeno nella loro profonda sostanza
teologica; ci si uccideva ormai, prima di Enrico IV, essenzialmente
per un’appartenenza partitica, per la fedeltà a clan nobiliari, a gruppi
dinastici contrapposti, rispetto ai quali le raffinate controversie religiose che avevano portato alla riforma rivestivano una valenza meramente strumentale.
In altri termini, nella percezione collettiva, è assai più cinica la posizione degli ultimi Valois o dei Guisa che, con il pretesto di lottare in
nome della radicalità della fede, stanno distruggendo il regno, piuttosto che non quella del bonario Enrico IV che comprende la necessità
di dividere la propria intima sfera della coscienza e, dunque, della
confessione religiosa, dalla funzione istituzionale, quella di re della
Francia e perciò di tutti i francesi.
Anche in questo senso sono poi le sue numerose avventure galanti
che, lungi dall’essere oggetto di scandalo, diventano quasi oggetto di
simpatia e di orgoglio per uomini della strada e intellettuali. Il loro re
ama talmente la vita, ne condivide a tal punto tutti gli aspetti lieti e felici da mostrare,anche nel suo lato sentimentale, una gaia esuberanza
che lo porta ovviamente a recitare il ruolo di un elegante cavaliere innamorato, così come appariva nella tradizione dei romanzi d’amore
dell’epoca. Ciò lo avvicina ai sudditi da un lato, ma rafforza anche o
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la consapevolezza o meglio dire la convinzione, che quella epocale
scelta di anteporre il bene collettivo ai rigori della propria fede, corrisponde effettivamente al carattere di un uomo la cui vitalità è totale, il
cui distacco dal cinismo e dal cerebralismo dei teorici della Ragione di
Stato è assoluto, e che per questo ancora più forte e marcata è la sua
distanza rispetto a quanti, proprio in nome della religione ritengono di
dovere compiere i più efferati crimini.
Enrico IV diventa inevitabilmente un’icona, non solo perché una
sorta di culto del “re martire” viene subito instaurato dai suoi successori, quasi all’indomani del suo assassinio, ma ancora più per questa
sua immagine di re benevolo e bonario, che ha saputo dare a tutta la
vita della Francia, anche quella culturale oltre che materiale,
un’impronta di buonsenso, moderazione, gaiezza, dopo decenni di
stermini e massacri; il tutto si riassume e si concretizza nell’Editto di
Nantes3.
Ecco allora che la sua revoca da parte di Luigi XIV nel 1685 va a
costituire una cesura fondamentale, non solo per gli ugonotti, che sono
le prime vittime di questa decisione del Re Sole, ma rispetto a tutta
una tradizione culturale ed è in quest’ottica che dobbiamo valutare
l’evento.
Luigi XIV non rompeva solo una sorta di foedus che la monarchia
aveva istituito da decenni con una componente socialmente importante
ancorché demograficamente minoritaria della cittadinanza, ma più in
generale andava a smantellare, oltre che una realtà di tolleranza, anche
un sistema mitografico collegato alla funzione regia. Enrico IV era
ormai, a decenni dalla sua scomparsa, il grande dispensatore di
bonheur per tutti i francesi e il suo nome si legava inevitabilmente e
imprescindibilmente, proprio in tale ottica, a quell’Editto che ora Luigi XIV, anche lui portatore di gioia nel regno nella sua giovinezza, ora
in età matura sembrava improvvisamente cancellare.
La gloria militare, le esigenze di una politica a tutto campo, fortemente aggressiva rispetto ai Paesi confinanti avevano già portato ad
D. LETOCHA (ed.), Aequitas, Aequalitas, Auctoritas. Raison théorique et légitimation de l’autorité dans le XVIe siècle europeén, Paris 1992, pp. 1992; R.
MOUSNIER, L’Assassinat d’Henry IV, Paris 1964, pp. 220 ss.; TH. GODEFROY, Cérémonial de France, Paris 1619, pp. 660 ss..
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Le virtù dell’Esilio
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una sorta di militarizzazione del regno. Le spese per l’esercito erano
andate crescendo, a discapito delle altre voci di bilancio. Il re si isolava sempre più a Versailles, lasciando la sede antica della capitale. La
simbologia stessa dei cortei reali alludeva ormai sempre più alla semplice gloria militare o all’assolutezza del potere del monarca, piuttosto
che non alla sua funzione di benefattore permanente del regno.
Il clima era dunque mutato, così come era mutata in parte
l’ideologia del Re Sole, ormai scarsamente interessato a portare avanti
quella funzione simbolica di natura euergetica che era stata fortissima
in Enrico IV, che era continuata anche sotto Luigi XIII e sotto la stessa Reggenza. È un’atmosfera più rigorosa e più cupa quella in cui la
Francia si preparava, dopo la grande e ininterrotta espansione militare,
ad affrontare più duri conflitti, quelli che si andranno a produrre intorno all’aggregazione politica che prenderà il nome di Lega d’Augusta4.
In questo clima non vi è spazio, si potrebbe dire in maniera un po’
semplicistica, per la diversità e dunque gli ugonotti devono affrontare
la stessa drammatica scelta di tutte le minoranze religiose dell’età moderna, la conversione o l’esilio, ma vi è naturalmente una dimensione
più ampia, quella che vede un necessario riavvicinamento del Re Sole
al Papato e dunque la volontà di compiere gesti forti a suggellare un
rapporto che negli anni era stato controverso, ambiguo e comunque
sempre assai difficile.
Se a ciò si aggiunge la filosofia politica degli ugonotti, il quadro si
completa: il calvinismo ha sempre propugnato una preferenza per
l’istituto repubblicano su quello monarchico, ha equiparato i re ai tiranni, ha sempre auspicato una progressiva crescita di potere delle varie componenti della società rispetto agli apparati dello Stato e a maggior ragione agli apparati della corte.
La pubblicistica ugonotta ha martellato la Francia mettendola in
guardia prima dai tentativi del Cardinale di abolire le famose “piazze4
Interessanti elementi sulla evoluzione della simbologia ufficiale e dell’immaginario collettivo in J. BERGIN, Des indults aux hommes, in B. BARBICHE, J.P.
POUSSON, A. TALLON, Pouvoirs, contestations et comportements dans l’Europe moderne. Mélanges en l’honneur de professeur Yves-Marie Bercé, Paris 2004, pp. 327
ss.; A. MARAL, Clergé de cour et sainteté: la desserte de la chapelle royale de Versailles sous Louis XIV, ivi, pp. 361 ss.; M. VERGE FRANCESCHI, La gloire de roi sur
mer, ivi, pp. 421 ss..
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Capitolo I
forti di garanzia” all’età di Luigi XIII e poi ha continuato insistentemente a denunciare l’assolutismo dei ministri durante la Reggenza, e
infine anche la politica bellica dello stesso Luigi XIV.
L’indubbio legame delle comunità calviniste con molti poteri esteri
accresce le preoccupazioni del Re Sole: non si tratta più, come ai tempi di Richelieu, di veri e propri potenziali capisaldi per un esercito di
invasione, tantomeno dall’Inghilterra, ancora salda alleata del Re Sole;
piuttosto è l’intreccio continuo che gli ugonotti tessono in termini culturali, ma anche velatamente politici, con uno dei maggiori avversari
del Re Sole, Guglielmo d’Orange, Staadthoder della Province Unite,
leader del paese che, eccetto la stessa Ginevra e alcune parti della
Svizzera, meglio sembra avere saputo incarnare l’ideale politico del
calvinismo (nonostante la dinastia D’Orange continui, in maniera anche abbastanza scoperta, a cercare di trasformare in vera monarchia la
propria funzione ancora semimagistratuale, in seno a quelle Province
Unite che sono formalmente una repubblica).
L’Olanda è anche il Paese della tolleranza, il luogo dove si può editare, almeno in teoria, qualsiasi tipo di pubblicazione, ed è proprio nelle città delle Province Unite che gli ugonotti fanno editare pamphlet,
libri, operette di ogni genere contro l’assolutismo del Re Sole, contro
le sue guerre di aggressione, rivolte innanzitutto proprio contro le
Province Unite stesse Colporteurs, con notevoli rischi naturalmente,
cercano poi di diffondere questi libelli in tutta la Francia e tali operette
spesso cercano di confondere il controllo dello stato, con segni tipografici falsi che dovrebbero garantire il privilegio regio o quando si
tratta, al contrario, di opere esplicitamente “illegali”, ci si sforza di nasconderne quantomeno il reale luogo di edizione, collocandolo in città
o regni immaginari, ma il governo del Re Sole sa benissimo dove questa dura, radicale e dissacrante propaganda viene stampata.
Se l’impero si sforza di svegliare gli spiriti tedeschi, animandoli
con una nuova ideologia identitaria in chiave anti francese, se Vienna
cerca di mobilitare gli intelletti più importanti del mondo tedesco, a
cominciare dallo stesso Leibniz, perché agiscano ora come diplomatici, ora scopertamente come critici spietati dell’imperialismo gallico,
gli ugonotti al contrario, come sudditi del Re Sole, devono muoversi
con grande circospezione e, pur tuttavia, la generale contestazione
all’assolutismo e alla guerra di Luigi XIV, inaspritasi ulteriormente
Le virtù dell’Esilio
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dopo gli orrori perpetrati dal Turainne, dopo la guerra nel Palatinato,
sembrano far perdere a questi ultimi ogni sorta di cautela e di freno
inibitore. La loro polemica contro Luigi XIV esplode virulenta, con
forme inedite, andando a rievocare anche la pamphletistica più dura
dell’epoca delle guerre di religione.
Il tentativo di celare l’identità degli autori e il collegamento di questi ultimi con le Province Unite è impresa del tutto vana: i loro nomi
sono noti alla polizia del re, così come è noto il cammino che questi
testi percorrono, manoscritti esportati verso l’Olanda e come opere a
stampa reimportate in Francia e poi distribuite ovviamente attraverso i
ben noti canali illeciti.
La scelta della Revoca, dunque, va in ogni caso collocata in una
duplice dimensione, di ostentazione di forza e di percezione di debolezza. Luigi XIV vuole dimostrare a tutta l’Europa, ma prima ancora
anche ai francesi, che ormai egli ha un potere tale da non poter accettare più alcuna forma di contestazione all’interno.
Così facendo, non solo colpisce una minoranza oggettivamente dissidente rispetto alla sua politica, forte e salda in questa contrapposizione, anche grazie al vigore delle proprie convinzioni religiose, ma
va ad intercettare in certa misura un segmento dell’immaginario collettivo popolare francese, rimasto da sempre ostile alla attività dei riformati che ha continuato a guardare loro come una sorta di corpo
estraneo, di necessità tollerato, ma certo non omologato all’interno
del Paese, una minoranza che non è semplice stemperare all’interno
del corpo sociale, anche perché essa stessa vuole auto escludersi da
esso.
A ciò si aggiunga che la componente ugonotta ricopriva spesso ruoli importanti nelle arti liberali o nelle magistrature locali, apparteneva
cioè a una sorta di notabilato territoriale su cui inevitabilmente si appuntavano gli strali e le invidie della gran parte dei ceti socialmente
inferiori, questi sì quasi integralmente di confessione cattolica.
Non da ultimo, vi era stato poi il problema del grande e continuo
contenzioso tra Luigi XIV e i Pontefici, un contenzioso ancora una
volta nascente dalle ambizioni di controllo del Re Sole, all’interno e
all’esterno del proprio regno, dalla sua volontà di non accettare alcun
condizionamento da parte della Chiesa Cattolica, al punto da riallacciare, certo anche per convinzione teologica oltre che per utilità politi-
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Capitolo I
ca, le fila di quella grande questione gallicana che aveva sempre minacciato l’integrità e l’unità tra Sede papale e Chiesa francese.
Per lungo tempo il Re Sole aveva potuto minacciare, usare persino
la forza e non di rado sbeffeggiare i Pontefici, ma ora la situazione
politica complessiva andava mutando: la pressione sulla Francia si
stava annunciando, nonostante compromessi e vittorie recenti, di ben
diverso impatto.
L’appoggio del Papato diventava allora rilevantissimo, non solo in
termini diplomatici ed economici, ma anche e soprattutto simbolici,
per rinsaldare ogni eventuale forma di dissenso interno, naturalmente
nel campo cattolico. Venire incontro al Papa, compiere in suo nome
ciò che non solo Enrico IV, ma neppure lo stesso Luigi XIII avevano
saputo e voluto fare, cioè eliminare l’eresia dal territorio francese,
diventava una sorta di “Crociata” in cui molti sudditi, anche quelli per
altri versi distanti dalle posizioni del re, potevano riconoscersi ed
identificarsi.
La scelta della Revoca, che pur si rivelerà un drammatico errore
anche politico, sembra dunque all’inizio soddisfare molte esigenze
della monarchia francese: la eliminazione di un forte dissenso interno,
la rottura di un ponte virtuale tra alcuni sudditi della Francia e un
grande avversario di quest’ultima e una decisa scelta di campo, in cui
rotto ogni indugio di carattere personalistico rispetto alla questione dei
rapporti con il Papato, Luigi perviene ad una union sacrée con Roma
che pare connaturata alla identità più antica e profonda della Francia
stessa, con il risultato naturalmente di compattare numerose forze,
peraltro talvolta scettiche rispetto alla politica di potenza del Re Sole o
indispettite dal suo assolutismo, intorno alla monarchia e allo stendardo della Cattolicità. Quell’evento modificò per sempre l’intera esistenza di Charles Ancillon e della sua famiglia.
Come molti altri suoi correligionari, egli stentò a credere che quella
Revoca potesse applicarsi effettivamente, sperò a lungo in un ripensamento del re, cercò di convincersi che si trattava di una misura drastica con la quale la monarchia voleva aprire una sorta di nuova pattuizione, ovviamente da posizioni di forza e con condizioni più dure,
per riaprire poi, rinegoziandola per l’appunto, la presenza della confessione calvinista nel regno. La sua speranza, come quella di molti
altri intellettuali calvinisti, fu delusa: Luigi XIV intendeva effettiva-
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mente continuare a usare la forza per dare applicazione alla revoca. I
dragoni che avevano tormentato, di fatto extra legem spesso, le comunità calviniste, ora, proprio in virtù della deliberazione regia, potevano
infierire su di esse apertamente e senza alcuna titubanza.
Da grande giurista quale era, Ancillon non ebbe fatica a trovare
motivazioni che rendevano nullo, in termini legali, l’atto unilaterale di
Luigi XIV, così come del resto tentarono di far notare molti altri studiosi ugonotti in quella drammatica circostanza. Le loro obiezioni nulla valsero, il re restava fermissimo nella propria posizione.
Ancillon allora cercò di sfruttare un ultimo elemento, a favore non
tanto dell’intera comunità ugonotta, quanto solo di quella del territorio
in cui viveva: egli era nato infatti a Metz nel 1659 e la grande città era
da poco passata sotto il controllo della Francia. Metz infatti, al pari di
alcune altre grandi città tedesche, era stata l’oggetto degli appetiti imperialistici della monarchia di Parigi che aveva saputo abilmente sfruttare la propria egemonia militare e la contestuale debolezza dell’impero, per impadronirsi di posizioni chiave nel territorio del Reich.
Al Kaiser non era rimasto altro che accettare il fatto compiuto, con
cui si sanciva un progressivo smembramento della frontiera renana.
Si trattava dell’epilogo di una politica che i ministri francesi avevano sapientemente iniziato sfruttando la Guerra dei Trent’Anni e proprio nel corso di essa, Parigi aveva intuito come, oltre a sostenere vigorosamente le potenze riformate, era suo interesse andare a solleticare le velleità autonomistiche dei principi ed Elettori tedeschi di confessione cattolica.
Anche questi ultimi in fondo, al di là di ogni identità religiosa, avevano quale ambizione ultima la trasformazione delle proprie giurisdizioni, se non in regni, quantomeno in principati totalmente indipendenti de facto e de jure dall’autorità imperiale, e solo il potente vicino
francese poteva farsi garante di questa condizione.
Non a caso, intorno all’Elettore di Magonza si era andata costituendo la cosiddetta Lega Renana, un insieme di principati e città, tutti
cattolici, che disconoscendo di fatto l’autorità imperiale, si ponevano
per l’appunto sotto la protezione del re di Francia, di cui si proclamavano alleati. Questa presa di controllo della frontiera tuttavia non bastava ancora a dare stabilità a uno dei principali disegni della monarchia francese: il completamento del cosiddetto quadrilatero.
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Capitolo I
Guardando sommariamente la carta d’Europa, la Francia poteva essere considerata per l’appunto come un grande quadrilatero, di cui il
territorio tedesco rappresentava la frontiera orientale, una frontiera in
verità frammentaria, incerta, che si andava poi a fondere con l’ancora
più insicura linea confinaria con le Province Unite.
Regolarizzare questo segmento del Quadrilatero era un obiettivo
strategico fondamentale in termini militari, e dalle enormi potenzialità
in termini politici: controllando infatti queste regioni di frontiera,
Parigi si trovava non solo garantita da qualsiasi controffensiva imperiale o olandese, ma al tempo stesso poteva ingerirsi agevolmente nelle vicende interne dei Reich.
A ciò si aggiunga che l’area entrata in questo modo sotto controllo
gallico era tra le più avanzate del territorio tedesco, dotata ancora di
una discreta ricchezza e culturalmente di certo la più aperta a recepire
l’idea del primato della civiltà letteraria e giuridica della Francia. Una
regione colonizzabile, per così dire, che poteva fare da avamposto
permanente per un’ulteriore espansione nel territorio germanico.
Quando la politica di controllo non bastò più, Parigi decise di prendere il controllo diretto di alcune delle città chiave di questa area, e
Metz fu tra queste. Metz dunque non era in origine una città francese,
lo era diventato attraverso una serie di pattuizioni molto assimilabili a
un mero diritto di conquista. Come città germanica, essa aveva nella
propria tradizione una serie di garanzie e di privilegi sanciti dal Kaiser
stesso.
Così Ancillon aveva nuovi appigli per argomentare contro la revoca dell’Editto, almeno in favore della comunità ugonotta della sua città natale. Come poteva infatti, sosteneva egli, il Re Sole, subentrato
con la forza al Kaiser, annullare unilateralmente ciò che da decenni,
anzi da secoli era implicito nello statuto giuridico della città? Non aveva forse quest’ultima conservato, almeno teoricamente, i propri istituti interni, entrando a far parte del regno francese? E questi ultimi
non comprendevano anche quei principi di reciproco riconoscimento
tra le diverse confessioni che l’impero aveva più volte ribadito, almeno a partire dalla Dieta di Augusta? Come poteva dunque il Re Sole,
senza violare non solo la legge del regno francese, ma più in generale
tutta una serie di pattuizioni internazionali, applicare anche a quella
città, un tempo sotto il controllo del Reich, una scelta drastica, irragio-
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nevole, ingiusta come quella che prevedeva la conversione o l’esilio
per gli ugonotti?
Da buon giurista, Ancillon aveva individuato uno specifico e ulteriore punto di debolezza dell’atto di revoca, e tuttavia era piuttosto ingenuo ritenere che la corte francese avrebbe fatto in questo caso,
un’eccezione recependo tale istanza, certo, più solida di quelle fino al
momento presentate, circa la nullità giuridica totale dell’Editto, ma
comunque capace di per se stessa di mettere in discussione l’impianto
generale del provvedimento e la sua legittimità, del resto, quasi senza
prenderne visione, il Re Sole aveva respinto tutte le eccezioni giuridiche per il regno francese e del pari i suoi ministri fecero pere quello
che riguardava gli ugonotti di Metz e le argomentazioni di Ancillon5.
Anche al nostro autore e alla sua famiglia non restava che affrontare la dura alternativa: esilio o conversione. Vi era in realtà una terza
via, estremamente lontana peraltro dalla tradizione culturale degli Ancillon e dalla filosofia culturale dello stesso Charles, cioè la permanenza sul territorio francese, ma in forma militarmente ostile alla monarchia, la linea, dunque, della vera e propria rivolta, una scelta che,
come vedremo, fu adottata e praticata da molti ugonotti, una politica
che fu poi appoggiata, più o meno segretamente, dalle potenze europee ostili al Re Sole, che creò quest’ultimo numerosi problemi anche
di carattere militare, soprattutto in distretti isolati, come quello delle
Cevennes, ma che non portò di fatto a nulla di concreto.
Per una famiglia ugonotta appartenente al notabilato e dunque aliena alle visioni apocalittiche dei futuri rivoltosi, l’unica via praticabile
era quella dell’esilio e i luoghi per individuare ciò che sarebbe stato
chiamato il rifugio erano molti. L’ostilità di cui il Re Sole godeva in
gran parte del Vecchio Continente, in teoria, apriva la via persino anche a numerosi regni cattolici.
Molti ugonotti francesi decisero persino di rifugiarsi in territorio
imperiale, dove in effetti furono ben accolti, non tanto in nome della
R. SAUZET, Le notaire et son roi. Etienne Borelly (1633-1728). Un nîmois sous
Louis XIV, Paris 1998, pp. 120 ss.; R. SALA, Dieu, le roi et les hommes, Perpignan
1997, pp. 320 ss.; P. SONNINO, Louis XIV’s View of the Papacy, Los Angeles 1966;
R. DARRICHU, Louis XIV et la Sainte Siège, in “Bulletin de la Littérature Ecclesiastique”, 66 (1965), pp. 16 ss.; L. CHATELLIER, Tradition Chrétienne et renouveau
catholique dans l’ancien diocèse de Strasbourg, Paris 1981.
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Capitolo I
tolleranza religiosa, quanto perché in loro si riconoscevano degli interessanti avversari del Re Sole e della sua politica. Queste tuttavia sono
eccezioni: coerentemente la gran parte degli ugonotti decise di fuggire
in Paesi riformati.
La scelta cadde in primo luogo su quegli Stati che aderivano alla
religione calvinista, pur praticando al proprio interno la piena tolleranza religiosa, e quindi sulle Province Unite, con il loro bellicoso
Staadthoder, perennemente pronto a entrare in campagna contro il Re
Sole, ma anche sulla più remota e più tranquilla Svizzera, dove si era
sviluppato l’insegnamento di Calvino, aree in cui comunque il regime
politico era esattamente opposto a quello che gli esuli avevano lasciato
in Francia, strutture in senso generico repubblicane (anche se per
quanto attiene alle Province Unite, in lenta trasformazione verso un
regime monarchico, ma pur sempre “costituzionalista”).
Più difficile l’approccio verso l’Inghilterra, pur vicina per molti
versi, culturalmente aperta, sicuramente capace di offrire grandi risorse, anche in termini professionali, ai rifugiati. Formalmente il regno
era ancora nel solco della riforma voluta da Enrico VIII e venivano
tollerate anche le cosiddette “sette”, residui della esperienza repubblicana dei tempi di Cromwell. Tuttavia la fama del re inglese nell’ambito riformato era quantomeno dubbia: la moglie era cattolica e si
parlava di una sua segreta adesione alla Chiesa di Roma.
Al pari di Carlo II, anche Giacomo non nascondeva la propria
fascinazione verso il modello assolutista e coerentemente a questa
linea aveva negli anni stabilito una sempre più solida alleanza con il
Re Sole.
Il panorama inglese appariva agli esuli in qualche modo dicotomico: da un lato il corpo sociale era omogeneamente ostile al Cattolicesimo, al Re Sole, all’assolutismo e dunque ideale per accoglierli,
dall’altro tuttavia vi era una monarchia sospettata di collusioni con
Roma, di certo alleata con Parigi e retta da un principe ambiguo sotto
il profilo religioso. Vi erano poi ancora i Paesi luterani del Nord,
e tra essi uno in particolare attirava l’attenzione dei rifugiati, il Brandeburgo. Qui, a differenza della Svezia, dove il luteranesimo era di
fatto una sorta di religione nazionale, l’Elettore, ancorché egli stesso
di fede luterana, aveva imposto un principio di piena tolleranza confessionale. Nel suo regno la carriera all’interno delle strutture dello
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Stato era strettamente legata alle scelte del Principe e eventualmente al
casato di appartenenza, l’identità religiosa restava del tutto marginale.
In più quello brandeburghese era uno Stato in piena crescita: nonostante si trattasse ancora di una potenza regionale, l’Elettore, portate a
conclusione con un certo successo numerose guerre contro i propri
vicini, in particolare proprio contro la riformata Svezia, dopo avere
preso anch’egli le armi contro lo stesso Re Sole (anzi dopo essere stato uno dei principali fautori di una costante politica di controffensiva
rispetto all’espansionismo francese), si era concentrato sulla crescita
culturale ed economica del proprio stato.
Grandi progetti stavano in quel momento modificando la morfologia geografica, economica e in buona sostanza anche culturale di quella che sarebbe stata la futura Prussia, e non a caso Charles Ancillon
nel corso della sua vita ha potuto vedere la formalizzazione istituzionale di questo salto di qualità, passando egli stesso dal servizio di un
Elettore a quello del primo re di Prussia. A ciò si aggiunga che il corpo sociale brandeburghese era relativamente elementare: l’Elettore si
appoggiava alla nobiltà guerriera del Brandeburgo, a discapito ovviamente della crescita dei centri urbani e borghesi.
Altro elemento del corpo sociale era essenzialmente la parte rurale,
tenuta del tutto estranea nei processi politici ed alla crescita burocratica dello Stato.
In questo dualismo nobiltà / ceto contadino, a fronte di grandi progetti di riforma strutturale voluti dall’Elettore, appariva chiaro che vi
era un grande spazio per tutti i soggetti stranieri depositari di una specifica competenza tecnica, strutturale, ma anche ovviamente culturale
in senso lato e giuridica in particolare, poiché il diritto e la filosofia
del diritto apparivano forme di sapere fondamentali in un momento di
passaggio come quello che stava attraversando il Brandeburgo, alla
soglia della trasformazione formale in stato indipendente, ma anche
alla vigilia di un processo di accentramento totale del potere nelle
mani dell’Elettore e della più alta nobiltà del territorio.
Meno allettante sotto il profilo climatico e culturale rispetto a paesi
come l’Inghilterra o l’Olanda, il Brandeburgo offriva però ai rifugiati
stranieri tutti i vantaggi di uno Stato in costruzione, dove quindi vi
era la possibilità di creare e crearsi grandi occasioni di valorizzazione
personale.
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Per gli Ancillon la Germania era poi ovviamente un punto di riferimento naturale: Metz, come si è detto, era stata prima che francese
una città tedesca del Reich. A ciò si aggiunga che la formazione culturale dello stesso Charles, forse non a caso, si era sviluppata integralmente in territorio estraneo alla Francia.
In primo luogo in territorio tedesco, a Marburg, poi a Ginevra,
patria del calvinismo, e solo infine egli aveva completato i propri studi
a Parigi, più che altro per sancire in questo modo la validazione delle
proprie esperienze attraverso un titolo del regno di appartenenza.
La Germania era una realtà storicamente, culturalmente ed emotivamente vicina per la famiglia Ancillon, il luogo naturale di rifugio, e
tale opportunità fu dunque sfruttata.
Gli Ancillon furono accolti con grande favore nella nuova capitale
che l’Elettore andava rendendo sempre più fastosa: a Berlino agli
Ancillon infatti fu riconosciuto subito un ruolo di preminenza rispetto
a tutta la comunità ugonotta. A quest’ultima, l’Elettore aveva scelto di
riconoscere una sorta di autonomia, quasi una sfera giurisdizionale a
parte e naturalmente ciò esigeva che vi fossero dei referenti istituzionali, tali da potersi confrontare con il potere politico e eventualmente
applicarne le decisioni.
Gli Ancillon ebbero subito un ruolo di primo piano come rappresentanti della comunità ugonotta, e lo stesso Charles ricoprì il titolo di
giudice, prima della comunità di Berlino, poi quello di giudice per tutti gli ugonotti presenti nel territorio brandeburghese. Era qualche cosa
che lo poneva in un ruolo simile a quello degli antichi “etnarchi” in
certe strutture provinciali romane, o appaiabile al presidente di una
comunità allogena, dotata di regole proprie e suddita tuttavia di un
regno dove essa aveva trovato rifugio.
Il termine giudice non deve quindi ingannare: da un lato esso riconosceva le competenze giuridiche di Charles (e più in generale si
potrebbe dire di tutta la famiglia Ancillon), dall’altro si trattava anche
di una funzione eminentemente politica, quella di guida della comunità ugonotta e al tempo stesso responsabile dei suoi comportamenti
dinanzi all’Elettore6.
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F. HARTWEG, Hugenotten in Brandenburg-Preussen, Berlin 1987.