MODULO 6 Il fenomeno sociale dell’esclusione e della povertà. 6.1 Marginalità e nuove povertà Bisogno è mancanza, carenza di qualche cosa, di un bene, di un oggetto. Un equilibrio compromesso da una carenza. Esistono bisogni primari o naturali della sopravvivenza (nutrirsi vestirsi, abitare); secondari o della sicurezza personale e sociale; superiori o di autorealizzazione. (Maslow) Il bisogno può essere considerato come un dato oggettivo, non influenzato da scelte culturali o sociali, oppure come dato soggettivo, conseguenza di una vicenda esistenziale che, per problemi o difficoltà personali o per mancanza di opportunità, l’individuo non è in grado di gestire da solo. Tra i bisogni primari c’è la povertà. Povertà significa mancanza di reddito e impossibilità di soddisfare bisogni quali il nutrirsi, il vestirsi, fruire di una abitazione. E’ definita povertà assoluta quando si sfiora il livello minimo di sussistenza accettabile, al di sotto del quale sono compromesse le capacità di sopravvivere. E’ definita povertà relativa quando, in una data società, le risorse di un individuo sono decisamente al di sotto di quelle di cui dispone l’individuo o la famiglia media. La povertà assoluta è un fenomeno inscritto nel sottosviluppo; nell’occidente industrializzato e tecnologico sembra incidere la povertà relativa, anche se ormai sempre più spesso entrambe sono compresenti. Infatti l’ISTAT, nel 2007, misura 2007 il 4,1% di cittadini in condizioni di povertà assoluta. E’ povera una famiglia di due persone il cui reddito è uguale o inferiore al reddito medio pro-capite del paese in esame. In Italia, dove le informazioni sul reddito non sono molto attendibili, si applica la stessa definizione alle spese per i consumi. Una famiglia di due persone sarà considerata povera quando la sua spesa in consumi è uguale o inferiore alla spesa media pro-capite in consumi. 1 Per le famiglie di tre persone o più persone la povertà viene misurata applicando dei coefficienti della scala di equivalenza, che tengono conto delle caratteristiche del nucleo familiare. La povertà è un fenomeno instabile, strettamente legato alle condizioni economiche della società in esame e agli standard di vita in essa considerati. Lo standard di vita viene misurato attraverso il volume di beni e servizi consumati dagli abitanti. In questo calcolo tuttavia entrano solo quei beni e quei servizi regolarmente scambiati sul mercato. Ne risulta che importanti aspetti della qualità della vita non vengono presi in considerazione. La misura del consumo non è altro che una misura dei beni e dei servizi forniti dalle imprese ad individui privati e soggetti al pagamento. Vengono così omessi i servizi resi dalla pubblica amministrazione allargata, i servizi gratuiti come quelli prestati dalle madri ai figli, i costi esterni inflitti dalle trasformazioni dell’economia, come il progressivo aumento del costo del petrolio. 1 Euro 869,50: spesa media per consumi pro capite Istat 2003. Per gli immigrati la misura scende del 40%. Nel 2008 l’Istat sposta la soglia di povertà a 724,3 euro mensili, per le aree del Nord 94 Nel 2003 le famiglie povere in Italia sono 2.360.000 pari al 10,6% delle famiglie italiane, un totale di 6.785.000 individui. Nel 2004 le famiglie povere sono 2.674.000 pari all’11,7% delle famiglie per un totale di 6.786.000 individui. Nel 2007 la povertà relativa è pari all’11,1/, ossia 7.542.000 persone.2 Naturalmente sono più povere le famiglie con più componenti, quelle con un solo componente e, quando a capo della famiglia c’è una donna, l’incidenza della povertà risulta più forte. Inoltre si può rilevare come la linea di povertà relativa si sposti di anno in anno a causa delle variazioni dei prezzi al consumo e dei comportamenti di consumo. Nel 2003 le famiglie povere sono il 10,6% delle famiglie, così distribuite sul territorio nazionale (dati che a parte qualche piccola oscillazione non mutano): 21,3% nel mezzogiorno 5,7% al Centro 5,3% al nord Nell’ambito della definizione di povertà relativa si assiste al fenomeno di come, spesso, le persone siano più povere non tanto per la diminuizione del reddito, quanto per l’accrescersi della diseguaglianza. La povertà dunque è “una forma di diseguaglianza portata oltre un certo limite”. Una volta definita la povertà come una forma di diseguaglianza grave, per coglierne la insostenibilità, occorre che sia accompagnata: da uno stato di esclusione sociale, una incapacità -soggettiva o oggettiva- di muoversi come cittadino e di fruire delle risorse che sono comunque disponibili nella la società o nel sistema di welfare. Da una condizione personale che conduce al progressivo deterioramento delle motivazioni, al diradarsi delle capacità relazionali e di adattamento, al crollo delle speranze. Ci sono altre situazioni di diseguaglianza, i deboli e i malati ad esempio, che però restano in grado di mantenere relazioni o livelli di reddito accettabili. O ancora i marginali che, pur vivendo ai confine della società mantengono con essa un rapporto, sia pure di rifiuto o di contestazione violenta. Sul piano operativo, sarebbe perciò meglio distinguere tra deprivazione economica (povertà relativa) ed esclusione sociale, quando quest’ultima può essere provocata da altri tipi di disagio differenti dalla sola diseguaglianza in termini di reddito. Per alcuni disagiati il sistema di welfare può contribuire a contemperare la soggettiva situazione di disagio (es. i portatori di handicap che nel passato formavano le folle di elemosinanti alle porte delle chiese o dei mercati, mentre oggi beneficiano di trattamenti pensionistici, interventi di inserimento sociale e prestazioni sanitarie), si incontrano altre forme di esclusione o per circostanze sociali o per barriere istituzionali. L’esclusione per circostanze sociali o soggettive può essere originata dalla mancanza di abilità o delle capacità di fruire delle risorse e dei servizi disponibili. E’ il caso dei portatori di handicap soggetti all’isolamento, degli immigrati che non possiedono le conoscenze linguistiche, dei senza tetto che faticano a mantenere un lavoro o ad avere rapporti stabili con i servizi di cui avrebbero bisogno, degli adolescenti che abbandonano la scuola e non acquisiscono così quelle conoscenze necessarie a muoversi come cittadini nella comunità. E’ anche il caso di molte donne con figli piccoli o donne di mezza età che, avendo investito nella famiglia e non nella formazione 2 Da Famiglie e società, statistiche in breve, ISTAT 95 professionale, una volta rimaste sole trovano difficoltà ad entrare nel mercato del lavoro. Perché nella realtà si possono incontrare sempre nuove forme di povertà e nuovi rischi di impoverimento. Oggi ad esempio, un qualsiasi evento appena fuori la norma può far precipitare nella povertà un nucleo familiare di 4 persone in cui il solo capofamiglia lavori e percepisca un reddito intorno ai 1500 euro -in genere impiegati o insegnantivisto che la linea di povertà di una famiglia è pari al consumo medio pro-capite (700 euro mensili).3 L’esclusione dovuta a barriere istituzionali riguarda invece i giovani a basso reddito che non hanno i requisiti per accedere alle case popolari; i tossicodipendenti o i sieropositivi che sono esclusi dal lavoro, degli immigrati che non riescono ad ottenere il permesso di soggiorno. Gli anziani non autosufficienti che per poter avere accesso al sostegno pubblico devono dare fondo a tutti i propri averi. E’ in generale il caso di tutti quei meccanismi che stabilendo soglie di accesso formali o informali, di reddito, di autonomia residua, di situazione familiare ecc., rendono di fatto molto difficile o impossibile a singoli o a gruppi di cittadini di accedere a beni o servizi costringendo spesso ad un progressivo degrado della situazione. La forma estrema di esclusione è lo stigma di “non avente diritto”, la privazione dell’essere. La dove la povertà non cresce, cambia bersaglio: l’insidia si concentra sulle giovani generazioni, sui nuclei familiari con bambini, soprattutto se monoparentali, sui nuclei con tre o più figli non occupati, sui giovani adulti al margine del mercato del lavoro, sugli anziani ultra sessantacinquenni. Dati recenti rilevano un incremento del 3% (1997-2001), delle povertà estreme, specie tra le persone senza fissa dimora, di cui il 23,3% sono giovani donne. In Italia si aggiunge l’aggravante territoriale: i due terzi della famiglie in povertà relativa si trovano nel mezzogiorno ove si trovano anche le famiglie più numerose. In Francia, ad esempio, dove il fenomeno delle famiglie monoparentali è stato più indagato risulta che il tasso di disoccupazione delle madri sole è del 17%, contro un tasso medio del 13% delle altre donne. Sono disoccupate, tra le madri sole, soprattutto le nubili 21%, rispetto le divorziate 16%, che sono più vecchie e istruite. Il 44% ha contratto di lavoro part time, mentre le madri con partner fisso usano di questa possibilità solo per il 17%. Il 19% delle famiglie monoparentali si colloca al di sotto della soglia di povertà. Alla fragilità economica poi si accompagna quella sociale: il 34% delle famiglie monoparentali non riceve amici, il 21% parenti, contro rispettivamente il 17% e 18% delle coppie con bambini. Le madri sole hanno meno tempo per gli svaghi, vacanze più brevi e dedicano meno tempo ai figli. Nel 2003 i dati Eurostat sono ancora più allarmanti, dicono che 11 milioni di italiani rischierebbero la povertà senza i trasferimenti garantiti dallo Stato Sociale, che stanno assottigliandosi per ragioni al tempo stesso ideologiche e materiali. Tra le prime va annoverata in Italia e in Europa l’offensiva neoliberale: i cosiddetti neo.-con il cui nucleo costitutivo di pensiero è rappresentato dall’ idea che ciascuno deve fronte con le proprie sole forze alle vicende della vita e tanto peggio per chi soccombe. In questa prospettiva lo Stato sociale viene presentato come un costoso aiuto prestato a individui che di fatto non lo meritano. Nel secondo caso, i fattori materiali sono rappresentati dall’aumento dei costi di produzione e riproduzione biologica, sociale e culturale 3 Istat, Indagine campionaria sui consumi, 2004 96 dell’essere umano al livello di civiltà e di attese raggiunte -studi universitari, durata e qualità della vita, tecnologie sanitarie, consumi culturali-. Un italiano su due se non avesse la pensione, il servizio sanitario nazionale, se non potesse contare sulla cassa integrazione, non riuscirebbe a mantenere un livello di vita appena dignitoso, senza rischiare l’indigenza. Purtroppo il sistema di welfare nel nostro paese è ancora sbilanciato sulle pensioni e dedica poca attenzione alla disoccupazione e alla famiglia. In Europa ad esempio la spesa per le famiglie è pari all’8% della spesa sociale, mentre da noi non arriva al 4%. Di qui l’esigenza di associare al concetto di crescita economica quello di sviluppo sociale. La crescita economica non è solo influenzata dagli investimenti in capitale umano quali lo stato di salute e l’ istruzione, ma anche da investimenti sociali, in primo luogo la protezione dalla disoccupazione. Ciò è dimostrato dal fatto che in Italia, dove spesa sociale a favore della fascia di età 18-64 anni -epurata da sanità e pensioni- è inferiore al 5% del PIL, si registra un tasso di povertà del 12%. Mentre in Danimarca dove raggiunge il 12% del PIL, il tasso di povertà è del 4%. Anche categorie socio-culturali come quelle della funzionalità e della utilità concorrono a creare esclusione. Non si invecchia soltanto per degenerazione biologica ma anche e soprattutto per ragioni culturali, per l’idea che la cultura occidentale si è fatta della vecchiaia come di un tempo inutile: di qui la connessione tra la vecchiaia e l’ inutilità. Così che la centralità che riveste il lavoro diviene, a volte, causa di una lotta di classe imprevista tra i vecchi che non vogliono lasciare e giovani che non sanno come cominciare, costruendo asimmetrie di potere. Sono cascami del fordismo, di un’epoca e di una cultura in cui trovava solo spazio l’adorazione dell’uomo faber, il culto del lavoro e della organizzazione. Il taylorismo, la catena di montaggio, l’organizzazione scientifica del lavoro hanno creato l’illusione di spezzare i vincoli dello stato di natura, introducendo una razionalità assoluta modellata sulle esigenze della produzione e sul predominio della sfera economica su qualsiasi altro settore dell’attività umana. Le contraddizioni che caratterizzano il ‘900 sono non solo il fordismo della ferrea disciplina della fabbrica e della catena di montaggio, ma l’intero sistema che intorno alla produzione si è costituito, a partire dalla accelerazione dei consumi e dalla assoluta mancanza di limiti alla fabbricabilità del mondo, sino alla illusione di un mercato infinitamente espandibile e di una disponibilità assoluta di materie prime, insieme ai mezzi tecnici messi a disposizione dall’umanità. Così inteso il fordismo ha impresso il proprio segno su tutto il XX secolo. Non ha solo ridisegnato l’impresa, ma ha riplasmato tutte le figure sociali comprese quelle del lavoro, ha generato una nuova antropologia, un tipo umano diverso, apparentemente più potente di ogni precedente, in realtà dipendente dai mezzi produttivi che credeva di usare e che invece lo usavano. Il fordismo ha scatenato i deliri dell’uomo faber, una umanità dominata dalla febbre del fare. La rivoluzione tecnologica in corso sta spezzando l’involucro fordista, segnando il passaggio a un modello meno centralizzato più frammentato, molecolare, reticolare.4 Nel quale però l’esclusione, cambia bersaglio, ma continua ad esistere. Sempre regole culturali stabiliscono che è preferibile che le donne si dedichino agli affetti e alle cure domestiche, mentre uno degli indicatori di sviluppo è l’occupazione femminile che dovrebbe arrivare al 60% della popolazione attiva. In Europa la media è Marco Revelli, “Oltre il novecento. La politica, le ideologie, le insidie del lavoro”, Einaudi, Torino 2001 4 97 del 55%, invece Italia è del 42,7. Uno scarto significativo, come significativo nel corso delle carriere lavorative il progressivo restringimento dell’accesso ai vertici della piramide organizzativa. Il tetto di cristallo è un fenomeno assolutamente attuale, nonostante il sorpasso tra diplomate e diplomati, laureate e laureati (si laurea 38,6% delle iscritte contro il 32,8% dei maschi). E ancora regole culturali, senso comune, sembrano suggerire che l’immigrato perfetto (o meglio il migrante) sia quello invisibile. Si tratta di una dissonanza cognitiva, ossia di quel disturbo della personalità che vede la compresenza fastidiosa, nello stesso individuo, di due convinzioni oppose e del tutto inconciliabili. Disturbo che sembra risiedere ormai stabilmente nella nostra società, soprattutto nelle regioni del nord est. Qui gli imprenditori, che hanno avuto certamente il merito di creare una società affluente con l’aiuto anche di una mano d’opera di colore pronta a fare lavori poco gradevoli, non solo la apprezzano ma la richiedono. Però quando questi immigrati così importanti in fabbrica, diventano “persone” e camminano per strada, infastidiscono. Imprenditori e quanti in quella società vivono e prosperano di un benessere, costruito anche grazie ai coloured, preferirebbero non incontrare, non vedere. Nella situazione della esclusione culturale o soggettiva il termine migrante è da preferirsi al termine immigrato perchè sottintende una situazione di transizione durante la quale il paese di origine è diventato parte del passato, mentre la terra di accoglienza non è stata ancora metabolizzata come reale luogo di investimento psichico e affettivo. I migranti sono da intendersi come coloro che già partiti non sono ancora -o mai- arrivati. I migranti sono spesso in preda ad una confusione identitaria concomitante con l’incapacità di trovare il giusto posto in una società che li rifiuta, e devono rassegnarsi ad una ipotetica prospettiva di ritorno alquanto incerta, in realtà irrealizzabile. Soprattutto devono sviluppare dei meccanismi di adattamento ad una società inquietata dalla loro presenza, che non ha saputo offrire un quadro di accoglienza nei tempi e nei modi attesi. Il più diffuso è il ripiegamento nell’identità originaria, tanto più esibita quanto più additata dagli altri come marchio di una identità svalutata e disprezzata. Il migrante, proprio per l’assenza di un luogo in cui esistere, non riuscendo a liberarsi dall’angoscia di sentirsi errante, ripiega sui segni esteriori della sua identità come ad es. il burka o il rispetto esasperato dei precetti religiosi. Riguardo il tema dell’immigrazione occorre pensare anche a soluzioni politiche: negli ultimi 5 anni gli immigrati sono raddoppiati portando il nostro paese oggi a una incidenza sulla popolazione vicina alla media europea ( 5%), ancora lontana dal 9% di Austria o Germania. Il mutamento nella composizione della popolazione italiana è però evidente se usiamo come chiave di lettura lo scorrere del tempo. Nel 1970 gli immigrati erano solo 140.000, con i processi di globalizzazione a partire dal 1980 abbiamo visto circolare non solo merci ma persone: 2.800.000 stranieri, secondo la stima Charitas del 2005. Una immigrazione il cui dato caratteristico è quello della multietnicità, con localizzazioni del 63,5 al nord, del 24% al centro, del 12,5% nel mezzogiorno. Roma, Milano; Torino Brescia….le città con maggiore incidenza. 98 La multietnicità comporta la convivenza di più religioni: 49% cristiano, 33% mussulmano, in aumento. Come si evince dai dati relativi alle comunità più numerose nel 2005, assieme allo scarto di incremento calcolato sulle presenze del 2001: Albania Marocco Romania Cina Ucraina Filippine Tunisia Senegal 316.659 294.945 248.849 111.712 93.441 82.625 78.230 31.174 + 83% +63,8 +232,3 +138,3 +980,6 +53,0 +64,2 +73,0 Persone che in Italia costruiscono le loro biografie, che qui intendono restare, come dicono i numeri dei ricongiungimenti familiari o la presenza nelle prime classi elementari di bambini stranieri. Percorsi segnati anche da una rapida mobilità verticale, visto il crescente numero di imprenditori. 5 Gli stranieri, sono meno avversi al rischio non solo perché hanno meno da perdere, ma perché hanno tanto di più da guadagnare. Gli stranieri sono soprattutto risparmiatori e consumatori: la spesa media mensile in consumi di una famiglia di 2,81 componenti è di 1005,00 euro (mentre la spesa media mensile di una famiglia italiana di 2,59 persone è di 2400,00 euro). I consumi degli stranieri sono destinati per il 96% al cibo, il 68% all’affitto o mutuo, 40% per libri, 37% all’istruzione dei figli. Il risparmio medio mensile è di 174,00 euro di cui 118,00 euro inviati alle famiglie in patria. (indagine Eurisko, in La Repubblica 11/3/07) Per questo le banche hanno capito chi sarà la clientela del futuro. Ma né occupazione stabile (54% con contratto stabile), nè mobilità verticale può mettere la sordina alla spaesante sensazione della “doppia assenza”, quella sofferenza interiore che fa sentire a lungo gli emigranti né più parte della società di origine, nè ancora parte di quella in cui vivono. Il cui lento superamento avviene tramite il rapportarsi non solo con la comunità di origine, ma con le istituzioni locali per evitare che la società diventi un reticolo di “comunità non comunicanti”. Nel nostro paese per lungo tempo l’immigrazione è stata percepita come fenomeno transitorio, adesso la rimozione sociale ha preso altre vie, come quella delle esigenze del mercato di lavoro. In tal modo non si è pensato a come integrare gli stranieri, ci si è affidati allo spontaneismo sociale, sfuggendo alle gabbie dei modelli assimilazionista e integrazionalista, che peraltro non hanno avuto grande successo. Il problema però rimane aperto e forse una soluzione potrebbe essere quella della “cittadinanza amministrativa”. Chi paga le imposte e risiede da anni nelle nostre città deve poter votare per il governo locale. Tanto più le comunità straniere si sentiranno parte di un tessuto istituzionale condiviso, tanto più i fenomeni di estraneità o addirittura di mancata lealtà politica, saranno ridimensionati. Nell’Italia del XXI secolo la politica dell’inclusione si nutre anche di queste forme di partecipazione. Parlare di Politiche di inclusione porta a riflettere sulle funzioni dei sistemi di welfare e di quanto invece succede qua e là nel mondo. Per quanto riguarda la provincia di Biella interessanti i dati raccolti in “Il risparmio invisibile” (2005),una ricerca della Fondazione Cassa di Risparmio di Biella affidata a E.M. Napoletano, A.Quarenga, A.Cavalleri. 5 99 Al posto di: “creare tutti i raccordi possibili tra i bisogni e le risorse -familiari e sociali, istituzionali e comunitarie-, attivando un sistema di solidarietà intorno ai problemi del singolo o della collettività, favorendo e migliorando i rapporti e le relazioni fra gli individui e, ancora, fra gli individui e il sistema di risorse. rivendicando attenzione istituzionale e tensione etica alla ecologia sociale nella stessa misura, almeno, della ecologia ambientale”. O ancora di: “aiutare la collettività -mediante l’uso corretto della informazione e dei flussi informativiad individuare i propri bisogni e a riconoscerne le priorità di soddisfazione, ad attivare la rete di solidarietà naturale, i processi di partecipazione al fine di creare risorse per la soluzione di problemi individuali e collettivi. Soprattutto eliminare, o arginare, i fenomeni di burocratizzazione degli apparati della pubblica amministrazione e di spersonalizzazione dei servizi” Nel mondo: A New York (2006). è stata presa la decisione di premiare i poveri meritevoli, attraverso la “Pay per virtù” . La dove è partita la rivoluzione del New Deal si vuole aprire uno spazio di “sicurezza sociale”, non basato secondo i bisogni come avrebbe voluto il pensiero marxista, ma secondo i meriti di chi la riceve come avrebbe preferito il darwinismo sociale. Opportunità NYC, il programma finanziato da privati tra cui la Rockfeller Foundation e già sperimentato in America Latina soprattutto in Messico, infatti eroga: -50 dollari ai genitori che fanno frequentare regolarmente la scuola ai figli -150 dollari per chi fa eseguire scrupolosamente le vaccinazioni annuali richieste per i bambini -300 dollari per gli scolari promossi con le migliori pagelle -3000 dollari l’anno, come integrazione del salario, per chi riesce a mantenere stabile il proprio impiego. Pay per virtù è dunque una specie di Borsino della virtù, un programma di incentivi per aiutare a capire che dipendere da se stessi, dal proprio comportamento e dalle proprie scelte è più remunerativo che dipendere dalle elargizioni caritative o dal sussidio pubblico. Il Governo inglese (2008), a sua volta, ha disposto di elargire 200 sterline alle famiglie più povere, con bambini al di sotto dei 5 anni, a patto che provvedano a farli vaccinare, prevenirne l’obesità e incoraggiarli nella lettura. Sollecitare le singole famiglie a una “virtù” individualistica attraverso sussidi che una volta ricevuti lasciano il tempo che trovano invece di creare una rete di servizi efficienti ed efficaci, in un paese che ha visto crescere nel 2008 di 100.000 unità i bambini poveri -oggi 2,9 milioni- . Bambini abbandonati a se stessi e preda delle gangs minorili di strada, figli non di disoccupati ma di genitori il cui salario è al di sotto della soglia di sussistenza. Bambini e famiglie che hanno perduto l’aspirazione alla mobilità sociale perché, comunque, la laurea lascia disoccupati. Mentre il Governo italiano, in un paese dove il potere di acquisto di pensioni e salari continua a perdere colpi, non sceglie la strada delle riforme ma introduce la “tessera 100 prepagata per gli indigenti anziani” che, pur ribattezzata più esoticamente “poor card” è, e rimane, la tessera di iscrizione all’elenco dei poveri di lontana memoria. Il messaggio è eloquente: non esiste più lo Stato sociale, esisteranno politiche compassionevoli per i bisognosi. In ultima analisi non ci sono più cittadini che hanno ugual diritto ad accedere ai servizi con i quali soddisfare i bisogni definiti primari. Ci saranno cittadini in grado di far da sé, e cittadini che non potendo far da sè sono soccorsi dallo Stato. Il principio di uguale dignità è stravolto, l’idea che ha accompagnato la rinascita politica del dopoguerra, la cittadinanza come grappolo di diritti civili, politici e sociali che, per quanto ci riguarda, sono stati l’oggetto dell’incontro di Tremezzo del 1946, viene a cadere. La poor card, anche se verrà garantito l’anonimato, crea di per sè discriminazione, marginalità. La povertà se non può essere sconfitta dovrebbe almeno essere neutralizzata. Introdurre la compassione per i poveri di fatto legittima l’esistenza delle disuguaglianze spostando la povertà dall’ambito dei diritti a quello della carità, di fatto discrezionale. 101