sottogruppo progetto pedagogico - Città Metropolitana di Bologna

PROVINCIA DI BOLOGNA – ASSESSORATO AI SERVIZI SOCIALI E SANITA’
SOTTOGRUPPO
PROGETTO
PEDAGOGICO
documentazione relativa al lavoro svolto dal sottogruppo
COORDINAMENTO PEDAGOGICO PROVINCIALE
2006/2007
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SOTTOGRUPPO DI LAVORO SUL PROGETTO PEDAGOGICO1
CORNICE E SINTESI DEL PERCORSO SVOLTO
di Franca Marchesi
Nell’affrontare il tema complesso del progetto pedagogico di nido, il sottogruppo di lavoro del Coordinamento
Pedagogico Provinciale ha pensato di focalizzare l’attenzione su alcuni aspetti legati in particolare alla
quotidianità e all’organizzazione del contesto educativo:
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ambientamento
routine
gioco e attività
tempi
spazi
all’interno di tre cornici di riferimento: idea di bambino - idea di famiglia - idea di processo educativo.
Il percorso ha attraversato due anni educativi. Si trova ora alla terza annualità, cioè la fase in cui, a seguito
del lavoro di confronto svolto tra coordinatori, la riflessione coinvolge anche gli Operatori dei servizi.
Proseguirà quindi nell’anno 2007/2008 (conclusivo).
IL PERCORSO DEL PRIMO ANNO (2004/2005)
La prima fase del percorso è stata dedicata soprattutto alla presentazione e conoscenza reciproca, al
confronto e alla definizione degli obiettivi comuni. Il gruppo ha quindi scelto come primo tema di discussione
l’accoglienza /ambientamento e ogni coordinatore ha illustrato ai colleghi il modello organizzativo adottato nei
propri servizi di riferimento. Sono emerse alcune parole chiave, individuate come fulcri che necessitavano
approfondimento: figura e sistema di riferimento, inserimento bambini nuovi e vecchi iscritti, ruolo del
pedagogista, presenza dei genitori, organizzazione degli spazi, rapporto spazio /tempo. E’ stato organizzato a
questo proposito un incontro con due esperti esterni: il neuropsichiatra Eustachio Loperfido e la pedagogista
Chiara Bove. La riflessione, molto articolata, ruotava intorno ad un quesito trasversale: perché agire in un
modo piuttosto che in un altro? In base a quali principi teorici si definisce un modello di ambientamento?
In sintesi è emerso che non esiste un modello più corretto di un altro, ma ci sono dei principi base di cui
tenere conto in ogni realtà. Secondo Loperfido: l’elemento portante del progetto pedagogico è il principio
dell’educazione all’autonomia. Secondo Bove: l’ambientamento è strettamente legato all’approccio culturale di
una società; il gruppo educativo è il principale sistema di riferimento e comunque, il punto fondamentale sta
nella capacità di rinnovare sempre le ragioni del proprio modello, qualunque esso sia.
Nel gruppo si è parlato anche del concetto di “benessere” dei bambini nella quotidianità, nei momenti di
routine, nel gioco libero e nelle attività strutturate. All’interno di ciascuno di questi contenitori infatti c’è una
ritmicità, un fattore comune che li attraversa: lo stile educativo degli operatori. Attraverso la visone di alcuni
filmati su momenti di routine al nido è emerso ancora una volta come i modelli organizzativi possano essere
diversi da servizio a servizio. Ma in ognuno l’impegno degli operatori ha una finalità condivisa: creare un
ambiente sufficientemente rassicurante per tutti i bambini, che sostenga lo sviluppo della loro autonomia e il
loro benessere, in un’ottica di continuità nido-famiglia.
IL PERCORSO DEL SECONDO ANNO (2005/2006)
Il gruppo si è confrontato su come proseguire il percorso, a partire dall’obiettivo di legare la propria
riflessione alla ricaduta sugli operatori dei servizi. E’ ripresa la discussione sul significato di progetto
pedagogico di nido e sugli obiettivi che lo sottendono: sviluppo dell’autonomia e dell’identità di ciascuno in un
costante rapporto con la famiglia. Si è giunti alla seguente definizione comune: “IL NIDO È IL LUOGO DELLA
COMPETENZA NELL’ACCOGLIERE E RISPETTARE I BISOGNI DI AUTONOMIA E DIPENDENZA DEI
BAMBINI”. Per meglio declinare il significato dell’affermazione e facilitare ancor più il confronto, il lavoro è
proseguito in sottogruppi che hanno affrontato i temi: spazi, tempi, azioni/attività. In un gruppo l’attenzione
1I componenti del gruppo di lavoro: Carla Mastrapasqua, Carlotta Ferrozzi, Cristiana Gattai, Davide Donati, Flavia Melecchi, Franca
Lenzi, Franca Marchesi, Gloria Zannini, Licia Vasta, Maria Pia Babini, Maria Pia Casarini, Maria Pia Gentilini, Michelangelo Saldigloria
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si è posata maggiormente sulla dimensione istituzionale, di contesto educativo; quindi sull’importanza del
lavoro di gruppo, della concertazione tra adulti nell’organizzare la quotidianità (attività, routine, spazi ecc.).
Nell’altro si sono scardinati i singoli temi, in particolare: tempi individuali e collettivi, tempi per osservare
ciascuno; spazi che sviluppano le diverse dimensioni della conoscenza, tra cui anche la verticalità; attività, che
possono essere più o meno significative o efficaci (alcune favoriscono più di altre l’individuo e la collettività).
I coordinatori hanno predisposto su questi argomenti le proprie riflessioni scritte con lo scopo di unirle in un
documento di lettura, di stimolo al pensiero personale e di gruppo (contenute in questo fascicolo).
Volgendo al termine la fase di dialogo tra coordinatori, ci si proponeva ora di organizzare la ricaduta sugli
operatori dei servizi nell’anno successivo. Ha preso quindi forma il percorso formativo a livello provinciale, che
si apre il 3 febbraio 2007 in seduta plenaria, prosegue in gruppi territoriali e termina nel mese di aprile con
un seminario conclusivo.
Il titolo del corso è: “La complessità del nido: il nido è… spazi, tempi e attività”. I temi che si andranno a
trattare sono sicuramente insufficienti per rappresentare la complessità del progetto pedagogico dei nidi
d’infanzia. Ci sono infatti altri aspetti che andrebbero al pari considerati: il rapporto con le famiglie, la
documentazione, la verifica e l’auto valutazione, l’integrazione della disabilità, l’intercultura, la continuità…
Si è pensato di iniziare dagli elementi legati alla quotidianità e all’organizzazione del contesto educativo
perché sono stati individuati come quelli più direttamente legati al benessere dei bambini. Resta tuttavia ben
presente il riferimento ad un concetto di progettualità circolare, di rete e reciprocità tra tutti i suoi
componenti.
Buon lavoro a tutti.
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TEMPO, SPAZIO E SIGNIFICATO
di Maria Pia Babini
Significato e cultura
Nel tempo e nello spazio ‘accade' la vita, ovvero quella azione personale e sociale che ci fa essere
persona unica ed originale, attraverso l'incontro con l’altro.
Tempo e spazio sono dimensioni del vivere: essendo insieme limite e risorsa, sono dimensioni dell’esperienza
umana per i bambini, se e come lo sono per gli adulti.
Gli antichi usavano la parola ‘dramma’. In quanto azione ‘drammatica’ (gioia, dolore, scoperta, stupore,
sconfitta, fatica, conquista... ) la vita avviene nel tempo e nello spazio, che sono scanditi ed organizzati
dai significati della cultura.
Questi tre fattori - tempo, spazio e significato- sono inseparabili: è impossibile pensarli singolarmente, anche
nelle azioni più banali che noi compiamo quotidianamente.
Tempo, spazio e significato prendendo forma nella cultura, rendono evidente e riconoscibile ciò che gli adulti
intendono per ‘educazione'.
Erikson afferma: “(Il bambino) apprende ad esistere nello spazio e nel tempo nell'atto in cui apprende ad
esistere organicamente nella forma dello spazio e del tempo proprio alla sua cultura e alla tradizione che
guida e dota di significato l'attività educatrice dei suoi genitori”
Questa affermazione ci suggerisce una serie di riflessioni: la persona non è un puro dato fisico, una
somma di funzioni organiche ‘sperimentali’.
Le sue funzioni sono orientate all'apprendere ad esistere dentro la realtà (spazio, ciò che esso contiene
e tempo) , ma sono necessarie precise condizioni: la cultura e la tradizione che danno significato
all'attività educatrice del soggetto che educa, i genitori.
La questione del significato -il perché, lo scopo, l’ideale - è centrale.
L’agito poggia sempre su dati sensibili, quali l’accudimento, il cibo, la relazione con gli oggetti, ma lo scopo
non è la pura capacità di operare.
Prosegue Erikson: “I genitori non devono guidare i loro figli solo per mezzo di consensi o proibizioni; essi
debbono essere capaci di trasmettere una convinzione profonda e quasi fisica che ciò che essi fanno ha
un significato. "
Un significato sperimentato come buono per sé, ricevuto dalla tradizione e vissuto criticamente oggi,
all’interno della propria cultura.
Purtroppo è stato proprio un disastro culturale, lo sterminio del popolo Sioux avvenuto all'inizio del ‘900 di cui
Erikson ha studiato gli effetti devastanti, ciò che ha reso evidente questo legame tra l’io dell'adulto, 1’io del
bambino e l’innesto nella cultura come condizione dell'incontro con la realtà.
E’ indispensabile, quindi, porsi la domanda sulla nostra cultura e, in particolare, sul posto che in essa occupano
i bambini ed il loro desiderio di apprendere a vivere.
L’adulto educatore
Tra le possibili e differenti impostazioni culturali esiste una linea di demarcazione: la presenza o
l'assenza di un tu disponibile che agisca la funzione di testimone e di ‘insegnante’, secondo l'accezione
estesa di questa parola: colui che rivela i ‘segni’ della realtà.
Vygotskij ne "Lo sviluppo psichico del bambino" ha esposto una traccia importante nel percorso del
rapporto con la realtà e del formarsi dell'unità della coscienza. "La storia dell'attenzione volontaria deve
essere tracciata a cominciare dal dito indice della madre”
L'atto dell'indicare come gesto dell'adulto (inizialmente la madre) indirizza l'attenzione su qualcosa
che viene ritenuto un segno significante: in questo modo i bambini apprendono a vivere. Le prime parole
che si rivolgono al bambino sono delle indicazioni: fin dal primo periodo della vita, l'attenzione, secondo
la metafora di Vygotskij, non si muove come palla caduta fra le onde del mare alla mercè di ogni singola
onda che la sbatte di qua e di là; si muove piuttosto in alvei già preparati, spinta da possenti correnti
marine.
Le parole che denotano la realtà sono fin da principio una sorta di pietre miliari poste lungo la via delle
acquisizioni e dello sviluppo dell’esperienza. Senza la funzione dell'indicare da parte dell'adulto, non si
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avrebbe la percezione dei rapporti: al riconoscimento dei rapporti conduce una sola via, quella dei segni.
Il bambino forma la propria cultura a partire dalle ‘indicazioni’ dell'adulto e a sua volta impara ad
indicare; egli viene a mostrarci qualcosa di suo dicendo: “Guarda!”.
Sono suggestive, a questo proposito le indicazioni che Vygotskji dà rispetto alla presenza dell ’area di sviluppo
potenziale, quell’area che caratterizza il momento in cui il bambino ancora non sa fare una cosa, ma già ha in
sé il metodo per imparare a farla: lasciarsi guidare dall’adulto.
Ancora una volta è la realtà che impegna il soggetto (imparare a camminare, a mangiare, a salire le scale,
impugnare un pennarello, scoprire una tana, ammirare una cosa bella, stupirsi per una sorpresa…), ma in questo
il bambino non è un essere in solitudine, come se potesse avere un suo progetto con il quale l’adulto non deve
interferire.
La condizione per cui un bambino può impegnarsi con la realtà é l’incontro con un adulto già impegnato con
essa.
L’organizzazione
Scandire dei tempi ed organizzare degli spazi ha prima di tutto questo significato: sostenere la vita e
permettere l’incontro tra le persone.
I tempi e gli spazi del Nido sono pensati - progettati, organizzati e verificati- per configurare un luogo di vita
e di condivisione, luogo in cui si attua il compito responsabile degli adulti implicati nell’opera educativa:
gestore, coordinatore, educatrici, collaboratori e genitori.
Il confronto è sui significati culturali: la progettazione di tempi e spazi concreti è la traduzione operativa di
questi significati, a partire dalle condizioni (ambientali, sociali, umane, ecc) che sono date a ciascuna realtà
istituzionale. L’organizzazione è una conseguenza della finalità educativa, la quale esige di essere
concretizzata e resa operativa. A livello organizzativo emergono differenze e caratterizzazioni; a livello
istituzionale si realizza una convergenza di giudizio, attraverso la condivisione dell’impostazione culturale.
Compito fondamentale del tempo è quello di fondare ritmi e ritualità che aiutino a riconoscere e a
ordinare i passaggi della vita in quanto azione dotata di significato.
Per i bambini esistono macro-ritualità (la festa di compleanno) e micro-ritualità (la “pesca” del bavaglino),
ma questo desiderio di ordine significante è caratteristico dell'uomo in quanto tale.
Il tempo suggerisce l'immagine dell'educazione come viaggio, poco prevedibile nel suo divenire, ma non
per questo cieco o sregolato: infatti il luogo e il perché illuminano i passi ed usano il tempo affinché
questi passi possano muoversi sempre più certi e sicuri.
La giornata è scandita da un ritmo caratterizzato da stabilità, a partire dai bisogni del bambino:
appartenenza e sicurezza; acquisizione di una "memoria" (affettiva e cognitiva) della sua esperienza;
conoscenza (concetti temporali, rapporti causali, connettivi logici..). La godibilità di questa scansione deriva
dal rispetto dei tempi del bambino: l’attenzione a non anticipare le sue azioni ed attendere che ognuno sia
pronto per fare, provare, lasciare andare..; la proposta di uno ‘stare’che non sia solo un susseguirsi di attività
e routine; la possibilità che ognuno abbia il tempo per parlare, raccontare, farsi capire e la reale sensazione di
essere ascoltato (nel pianto come nei momenti di gioia). L’elemento ‘tempo’ si accompagna alla presenza
positiva di un’educatrice che ha il piacere di esserci e di condividere esperienze ed emozioni.
Lo spazio è pensato dall’educatrice come possibilità precisa e significativa di relazione: esso non è
contenitore impersonale, ma luogo d’incontro (adulto/bambini, bambino/bambini).
Lo spazio è proposta precisa fatta ai bambini in risposta ai suoi bisogni, ai suoi desideri, alla sua capacità di
iniziativa.
La disposizione spaziale favorisce la relazione educatrice/bambino, nella ricerca di equilibrio tra
dipendenza/contenimento e separazione/individuazione.
L'educatrice si trova nella necessità -e difficoltà- di mettere insieme un atteggiamento di
contenimento/fusione -in ordine ai bisogni di affetto, sicurezza, fiducia del bambino- e di accettazione e
promozione della separazione/individuazione del bambino -in ordine al bisogno di privacy, esplorazione,
autonomia, spirito d'iniziativa...
Lo spazio non ha solo connotazioni fisiche (dimensioni, igiene, sicurezza), ma anche psicologiche ed
esistenziali: nello spazio il bambino esprime da una parte il suo bisogno di stare con gli altri (incontra i
compagni, comunica, gioca, interagisce..) e dall’altra esprime il desiderio di stare da solo, di trovare luoghi su
cui riposare, accogliere, proteggere se stesso ed i propri oggetti. Luoghi in cui appartarsi (la “tana”, il
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“nascondiglio”, il “rifugio”) per trovare il silenzio, la calma, la tranquillità. La differenziazione dello spazio
risponde ai bisogni differenziati del bambino: relazione, espressione, movimento, privacy, ecc.
Lo spazio assume caratteristiche di stabilità, affinché il bambino ne tragga rassicurazione e nello stesso
tempo di flessibilità in corrispondenza della sua crescita e dell'espressione del suo libero movimento fisico e
psicologico, cosicché egli possa vedere accolti evoluzioni e cambiamenti che si verificano attraverso la
relazione, il gioco e il divenire della vita.
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ASCOLTARE LO SPAZIO
LO SPAZIO COME ASCOLTO
di Carlotta Ferrozzi
Domande generative:
quale idea di spazio?; l’ambiente come può facilitare il dialogo e la relazione?; come progettare lo spazio
affinché risulti comunicativo a livello sinestetico? ; come progettare una propria poetica dello spazio?
come gli ambienti e i vari elementi di arredo influiscono e sono influenzati dalla realtà progettuale
realizzata da ciascuna scuola?
Parole chiave:
conoscenza e pensiero creativo, tridimensionalità, interazione-scambio-relazione-dialogo-ascolto,
estetica, sinestesia, polisensorialità , narrazione, normalità ricca , autonomia e competenza
Lo spazio e l’ambiente di un nido rappresentano un sistema di vita che sostiene la complessità delle
interazioni tra i soggetti che lo abitano.
Lo spazio è linguaggio che possiede una sua grammatica, è un linguaggio potente e condizionante perché
analogico e come ogni altro linguaggio è elemento costituivo della forma di pensiero di colui che lo parla.
Lo spazio quindi veicola comunicazioni ed è esso stesso comunicazione.
Il linguaggio dello spazio comunica con coloro che ne entrano in contatto ed è pertanto necessario porsi in
ascolto per comprendere ciò che ha da dire.
Lo spazio di un nido dichiara l’identità di quel nido, i valori pedagogici e filosofici nei quali si crede, l’immagine
di bambino che si vuole sostenere, l’intreccio progettuale e le azioni educative che avvengono in quel contesto.
Lo spazio deve coniugare, favorire e non solo contenere queste storie, questi eventi, deve sostenere il singolo,
la relazione e il gruppo in questo difficile processo di costruzione della conoscenza. Deve mantenere la
memoria individuale e collettiva.
Lo spazio di una scuola- sostiene Jerome Bruner - deve fornire lo spazio per ognuno degli individui che lo
occupano: mio, tuo, nostro.
Deve restituire, ben visibili, le azioni ed i momenti significativi di questi processi, e deve favorirne e
rilanciarne continuamente altri.
Deve consentire la relazione come la privacy. Deve suscitare curiosità e sostenere i processi di conoscenza
del bambini che nei luoghi in cui vive e in cui si relaziona deve poter trovare degli alleati in grado di
rafforzare questo percorso di costruzione della conoscenza.
Se la conoscenza si sviluppa per costruzione e non per trasmissione, allo stesso modo anche il progetto di una
sezione o di uno spazio del nido deve originarsi da questo processo di costruzione e costruttività.
La progettazione dello spazio corrisponde ad una vera e propria scelta di estetica e di stile: i colori, le forme,
le dimensioni sono costante oggetto di approfondimenti e di ricerca, allo scopo di individuare un ambiente
ideale per la crescita dei bambini.
Il ruolo dell’adulto è fondamentale nei processi di apprendimento del bambino. Lo è sia direttamente, nella
relazione, nello scambio, nel dialogo, nello scontro, ma anche indirettamente, nei contesti che si creano e si
progettano. Negli spazi e negli ambienti in cui il bambino, i bambini, vivono. Un ambiente che consente al
bambino di mettere in atto comportamenti competenti, comportamenti che lo obbligano o lo stimolano a
mettere in gioco le possibilità, le potenzialità e le competenze che padroneggia, è un ambiente che non
inibisce i processi cognitivi del bambino.
Il bambino, guidato dalla curiosità e dalla necessità innata che possiede, di dare un senso al mondo, si pone
continuamente nuovi focus, nuovi territori di ricerca e di esplorazione. La possibilità di esplorarli, però, è una
azione che si ottiene e si sviluppa solo dalla interazione e dalla condivisione tra adulto e bambino. Questo
deve essere tenuto presente quando si progettano gli spazi, gli ambienti, le situazioni, che sono strumenti
indiretti che consentono questa esplorazione. Indiretti, ma non decontestualizzati, collocati in situazioni ed
insiemi di significato.
L’ambiente fisico e quello psicologico-relazionale concorrono a rinforzare il senso di sicurezza del bambino,
che è suscitato dalla percezione di sentirsi atteso ed ascoltato in tutte le sue potenzialità.
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Lo spazio viene organizzato in maniera empatica ed è quindi sostenitore e facilitatore di scambi e relazioni. La
capacità di relazione, di ascolto dei luoghi, della qualità e gradevolezza degli ambienti di vita e di lavoro è
fondamentale per la quotidiana salute mentale delle persone.
Il nido è dunque un sistema relazionale dove i bambini non sono solo iniziati ad una cultura ma devono avere la
possibilità di produrre e creare cultura.
Anche la documentazione ha un ruolo importante. Compito della documentazione è quello di fornire al gruppo e
al singolo la possibilità di rivedersi da un punto di vista esterno, mentre è impegnato nel conoscere.
La documentazione dovrebbe rendere visibili, sia pure in modo parziale (quello di chi documenta) i processi di
apprendimento e le strategie di costruzione della conoscenza utilizzate dai bambini, rendendo tali strategie
collettive, intersoggettive, mutuabili. Dovrebbe inoltre consentire letture, riletture ed interpretazioni degli
eventi, permettendo l’approfondimento e la conoscenza.
Attraverso l’organizzazione degli spazi si organizzano le quotidianità e le relazioni di coloro che abitano il
nido, si progettano e predispongo ambienti curati che procurino piacere a chi ne fa uso, ambienti che possano
essere esplorati e vissuto con tutti i sensi, poiché è attraverso l’interazione estetica di tutte le parti che si
sviluppa la conoscenza. È quindi importante prestare attenzione ai materiali che si mettono a disposizione dei
bambini, materiali diversificati tra loro, dotati di un forte potenziale creativo e polisensoriale, materiali che
sostengano i processi dei bambini.
Inoltre è importante riflettere e puntare l’attenzione sulla qualità estetica di ciò che ci circonda facendo
attenzione a non confondere cura e bellezza, con ostentazione e ricchezza: l’ ambiente deve educare gli
sguardi e la sua sensibilità.
Il nostro intento pedagogico consiste, quindi, nell’offrire al bambino una normalità ricca, una combinazione
equilibrata di tanti elementi differenti ed armonici, affascinanti perché capaci di generare continue scoperte.
Realizzare un ambiente qualitativo, dal punto di vista organizzativo ed architettonico, significa renderlo
funzionale allo sviluppo e al mantenimento di questo sistema di interazioni ed interconnessioni che sono
alla base della teoria educativa della partecipazione.
Lo spazio deve essere progettato a “misura di bambino”, ovvero pensato ed organizzato in base alle loro
esigenze cognitive ed alle loro richieste conoscitive, che risponda alla loro necessità di muoversi
autonomamente esprimendo al meglio le loro competenze.
Lo spazio va poi progettato come nella sua tridimensionalità: è necessario organizzare lo spazio nella sua
dimensione orizzontale e verticale.
Per concludere mi piace citare la Sintesi scritta da Carla Rinaldi nel testo Bambini ,Spazi, Relazioni,edito da
Reggio Children in collaborazione con la Domus Accademy Research
“L'obiettivo sarà quello di costruire e organizzare spazi che consentano
al bambino/a:
-di esprimere le sue potenzialità, le sue competenze, le sue curiosità;
-di esplorare, ricercare da solo e con gli altri, coetanei e adulti;
-di sentirsi costruttore di progetti e del progetto più ampio che è il progetto
educativo che nella scuola si realizza;
-di poter rinforzare la sua identità, anche sessuale, autonomia e sicurezza;
- di poter fare e comunicare con gli altri,
-di vedere rispettata la sua identità e privacy.
all'insegnante:
-di sentirsi coadiuvato e integrato nel suo rapporto con i bambini e i genitori;
-di sentirsi sostenuto nella realizzazione di progetti, nella loro organizzazione e archiviazione.
-di essere favorito nelle sue esigenze di;incontrarsi con solo adulti, colleghi e genitori da spazi e
arredi appropriati;
-di essere riconosciuto nella propria esigenza. di privacy;
-di essere sostenuto nell'attuazione dei processi di formazione e aggiornamento
al genitore:
-di essere accolto
-di essere informato;
-di potersi incontrare con altri genitori e insegnanti in tempi e modi idonei a consentire una reale
collaborazione.”
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TEMPI INDIVIDUALI, TEMPI COLLETTIVI:
I RITMI DEL PROGETTO PEDAGOGICO
di Maria Pia Casarini
Il tempo è una delle colonne che sostengono il processo di realizzazione del progetto pedagogico del nido,
che contribuisce a creare un contesto in grado di fare del servizio educativo il luogo delle competenze
nell’accogliere e rispettare i bisogni di autonomia e dipendenza dei bambini.
Il tempo non è un elemento tangibile, è piuttosto una coordinata che orienta il ritmo dell’esperienza
educativa quotidiana e annuale, sia per gli adulti ( educatori e genitori) sia per i bambini. È attraverso il
tempo che l’adulto organizza i ritmi quotidiani, scandisce le routines giornaliere, offre le possibilità di senso
agli eventi eccezionali, costruisce i periodi e i calendari annuali.
Nel tempo si colloca l’esperienza di ogni bambino e di ogni adulto che partecipa alla vita quotidiana di un
servizio educativo. E’ nel tempo che trova spazio la possibilità di vivere le relazioni con gli altri, nel gruppo,
o da soli in intimità con un adulto; è sempre il tempo che scandisce la durata e il significato dello stare da soli,
a guardare cosa capita fuori o ad osservare gli altri. Il tempo non ci parla dei contenuti di una narrazione, è
piuttosto una cornice, che al contempo racchiude ed evidenza il quadro delle esperienze possibili, sottolinea il
paesaggio dei significati individuali e collettivi, il senso e la pregnanza degli avvenimenti quotidiani, o degli
eventi eccezionali, personali e di gruppo. Il tempo permette di comporre e scomporre le relazioni, di dare
qualità e colore agli incontri e agli sguardi.
In un servizio educativo dove i bambini crescono insieme ad altri bambini, la gestione del tempo è
responsabilità di ogni singolo adulto, assomma in sé il compito e il dovere di offrire sempre ad ogni bambino la
possibilità di trovare sia connotazioni individuali sia connotazioni collettive alle esperienze educative. La
gestione del tempo comporta pertanto la capacità dell’adulto di essere flessibile, di saper apportare
cambiamenti e modifiche alle situazioni, per coniugare i bisogni personali e i bisogni del gruppo.
L’educatore, quando scandisce il tempo e ne organizza il ritmo, deve essere consapevole di offrire così ad ogni
singolo bambino la possibilità di movimenti di autonomia e di dipendenza, è necessario, quindi, cercare la
fluidità nell’intercalare di entrambe le possibilità, perché i bambini hanno bisogno di tempi ( e di spazi)
individuali e personali oltre che collettivi. Lo sbilanciamento in una sola di queste direzioni rappresenta una
criticità di cui il servizio educativo deve essere consapevole. Accade più spesso che sia la dimensione
collettiva del tempo a prevale sulla dimensione personale, perché i tempi collettivi si offrono come una realtà,
un dato di fatto oggettivo e naturale, celando e camuffando il loro appartenere piuttosto ad una dimensione
sociale e culturale dell’esperienza umana. I tempi personali di ogni bambino chiedono e necessitano il più delle
volte di essere difesi così come i tempi individuali dell’adulto, impegnato a osservare, a riflettere, a
confrontarsi, che non devono appartenere al piano della buona volontà ma piuttosto rappresentare uno dei
tasselli che compongono il fare dell’educatore e che costruiscono la qualità del progetto pedagogico del
servizio.
L’organizzazione del tempo deve permette a ogni bambino di trovare il proprio modo di estrinsecare o di
limitare il piacere della relazione con gli altri, nel gruppo, e a ogni adulto di incontrare il confronto con gli
altri, il gruppo di lavoro, dove co-costruire il significato dei vissuti e il senso delle esperienze educative.
L’organizzazione del tempo deve connotarsi di significati personali permettendo ad ogni bambino relazioni
intime e personali con un adulto, momenti per isolarsi e stare da solo a fare, a esplorare o a guardare e
all’adulto, impegnato in compiti educativi, deve permettere di stare da solo a osservare, il tempo per trovare
ogni giorno il tempo da dedicare a ogni singolo bambino.
Il tempo permette la narrazione degli eventi quotidiani, dei piccoli fatti di tutti i giorni, certamente poco
eroici, quelle piccole storie individuali in grado di riconsegnare ad ognuno l’avventura della propria crescita.
Permette così al fare educativo di diventare memoria e storia, di raccogliere i sentimenti, le emozioni, le idee
e gli avvenimenti che costituiscono la trama di ogni giorno e diventano, nuovamente, tempo e spazio e luogo di
incontro tra adulti, educatori e genitori.
Se per gli adulti il tempo è un orario, per i bambini rappresenta più spesso un rito. E’ compito dell’adulto
rispettare la ritualità dei tempi dei bambini modulando il proprio comportamento, costruendo il ritmo degli
equilibri tra osservazione e proposta, passività e attività, presenza e ritiro e l’adulto deve poterlo fare per
tutti e diversamente per ogni bambino e per ogni situazione.
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Parlare di tempo, di tempi, di organizzazione del tempo al nido, significa parlare della complessità di un
servizio educativo dove i bambini crescono insieme ad altri bambini e con altri adulti, dove i genitori entrano
per condividere la cura e la preoccupazione, l’allevamento e la crescita dei propri figli con altri adulti. Il
tempo e la scansione dei tempi, costruiscono cornici di significato e valore per tutti i soggetti coinvolti, in
grado di connotare la durata degli eventi quotidiani, di coniugare i bisogni personali e quelli della comunità, i
desideri degli individui e gli obiettivi di gruppo, i ritmi giornalieri e gli eventi eccezionali, l’organizzazione del
servizio e la libertà di esplorazione, i ritmi della crescita e degli apprendimenti.
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LE ATTIVITA’
PER LA FANTASIA DEI BAMBINI SERVONO “GRANDI CONTENITORI”
di Davide Donati
Al nido si fanno una moltitudine di attività. Hanno tutte pari dignità, certamente. Non hanno però tutte pari
valore educativo, non tutte incidono cioè nell’esperienza evolutiva dei bambini nello stesso modo.
Partiamo dai vissuti delle educatrici. Sono tipiche frasi del tipo: “Hai visto oggi che attenzione, Caterina poi
non ti staccava gli occhi di dosso!” oppure “…con che impegno Michele ha svolto quel lavoro!”.
Già, qual è “quel lavoro”, cosa stava proponendo l’educatrice per cui la bambina non pensava ci fosse altro al
mondo di così interessante?
Ci sono poi attività che invece si ripetono, un po’ per formazione un po’ per abitudine, ma che non producono
effetti simili a questi.
Ci sono quindi attività, potremmo dire contenitori, che “funzionano” e altri che non lasciano segni profondi in
chi le conduce né in chi ne fruisce.
Il concetto di “grande contenitore” è ripreso da Celestin Freinet (1896-1966), importante educatore
francese che pensò a un certo punto della sua ricerca pedagogica di inventare alcune tecniche tra cui il testo
libero orale e scritto, non tanto per mettere a proprio agio gli studenti facendo loro scrivere o raccontare ciò
che meglio conoscevano, ma perché solo un foglio bianco o un tempo per dire liberamente di sé può contenere
tutta la creatività e la fantasia di un bambino. Le altre tecniche, che ancora oggi vengono utilizzate nei
contesti educativi e scolastici (forse senza sapere chi le abbia introdotte) sono: la tipografia, la
corrispondenza, la ricerca d’ambiente, l’autocorrezione, l’autovalutazione, la valutazione collettiva. La sintesi
estrema del pensiero di Freinet è ritenuta da molti “La storia del cavallo che non aveva sete” tratto da “I
detti di Matteo” (Nuova Italia, Firenze, 1962).
Quali sono, secondo il nostro gruppo di lavoro, i grandi contenitori delle attività?
Sono tutti quelli che permettono un pensiero divergente, autonomo, non finalizzato a un risultato o a una
performance predefinita, che prediligono il processo piuttosto che il prodotto, che individuano i bambini, che
fanno scoprire i loro (prendo il termine a prestito da Roberto Frabetti e Marina Manferrari) “alfabeti”
all’interno del codice che caratterizza quella attività, che coinvolgono il bambino nella sua unità psichica e che
quindi danno spazio e tempo per investimenti di tipo affettivo intrapsichico ed interpersonale.
Mi vengono in mente l’esplorazione tattile (cestino dei tesori, gioco euristico, costruzione con materiale
povero), l’esplorazione sonora (con materiale strutturato e non), l’esplorazione visiva, attraverso il colore e la
luce in particolare.
Tutte queste attività, se supportate da un approccio metodologico che favorisce la ricerca delle potenzialità
espressive del bambino senza la preoccupazione circa il raggiungimento di una prestazione, sono grandi
contenitori. Permettono ampi movimenti fisici, psichici e relazionali. Consentono ai diversi stili che
caratterizzano ogni bambino di stare insieme in modo eterogeneo ma naturale, associando tempi lenti e veloci
in modo armonico, verbale e prossemico senza dissonanze, l’individuale e il gruppale a seconda dei momenti.
Sono poi attività dove il ruolo dell’educatore riprende una connotazione di regista delle dinamiche personali e
collettive, valorizzando gli aspetti caratterizzanti ogni singolo bambino e rilanciandoli in una dinamica di
strutturazione dell’identità a livello di piccolo e grande gruppo.
Ci è sembrato però che ci siano due contenitori ancora più grandi di questi.
Si tratta del linguaggio teatrale e della lettura.
A guardare bene forse si tratta di un unico grande tema che prende il nome di raccontare storie, che assume
due diverse forme comunicative, quella del teatro e quella del leggere ai e coi bambini.
Ci si può chiedere se l’affermare questo primato non sia un po’ forte, forse eccessivo, forse ancora
dirompente. Ma forse vale la pena approfondire.
Di nuovo partiamo dalle frasi delle educatrici, dalla meraviglia con cui, dopo anni e anni di lavoro, rimangono
stupite di fronte a certe espressioni dei bambini, a “quegli occhi” così aperti, così fissi, così vivi quando vanno
a teatro, o quando il teatro va al nido, o quando si racconta o si legge insieme, non come passatempo prima del
cambio o del bagno, ma come attività che prende un suo spazio e un suo tempo dedicati. Alcune educatrici
paragonano quell’attenzione e quel “rapimento” allo sguardo del bambino molto piccolo, quando inizia a
strutturare una buona percezione visiva anche a media distanza e che, nell’atto di guardare, esclude ogni altro
stimolo sensoriale che non sia l’oggetto individuato come interessante.
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Questa considerazione è certamente un punto di partenza che rende però empirica la ricerca. E’ necessario
trovare ragioni più approfondite e articolate per capire meglio il fascino e l’importanza di raccontare storie.
Di nuovo riprendo il pensiero di chi da qualche decennio studia questo tema. Al capitolo “R come Raccontare”
di “Un alfabeto di 21 lettere” (Pendragon, Bologna, 2006) Marina Manferrari scrive che
“Raccontare è ciò che più ci contraddistingue come esseri umani, è un tratto così caratterizzante
dell’uomo da essere paragonato alla stazione eretta o al pollice opponibile. E’ un bisogno primario. Non
c’è civiltà che non abbia espresso questo bisogno e trovato forme per dirsi, per raccontarsi, spiegarsi
ciò che accade attraverso la narrazione.
Raccontare è arte antica dunque e risponde a bisogni profondi: ci aiuta a comprendere; un
comprendere che è capire e sentire allo stesso tempo; a comprendere e a comprenderci, a dare senso
e significato al mondo che ci circonda e al nostro mondo interiore.
Raccontare è mettersi in relazione empatica, rendere possibile provare ciò che prova l’altro .”
Mi piace questa lettura dal sapore antropologico, che accomuna tutti gli esseri umani, grandi e piccoli, e che
evidenzia un’”impasto”, una matrice comune del genere umano. Questo è anche quello che vedo quando si
propongono lettura e teatro in contesti educativi rivolti alla primissima infanzia. I bambini fanno emergere
aspetti inattesi di se stessi e quelli che erano stati etichettati in qualche casella psicopedagogica ci
costringono a ritrattare. Sembra che vengano recuperate competenze presenti in tutti, diminuiscono le
necessità di contenimento perché già quello che si fa suona familiare e quindi contenitivo. Lo vedo, a teatro
soprattutto, quando bambini di diverse età partecipano a uno spettacolo; ognuno coglie qualcosa e nessuno
torna a casa senza aver ricevuto un qualche regalo per crescere. Lo vedo però anche nella commozione degli
adulti che accompagnano i bambini, siano educatori e genitori non fa differenza, che ritrovano codici dismessi
e un po’ arrugginiti ma conosciuti, poco o molto in là nel tempo. Vedo quindi la prova di questo linguaggio
universale, dal punto di vista sia ontogenetico che filogenetico.
Quello che occorre è poi calibrare le proposte in base alla conoscenza individualizzata dei bambini e dei
gruppi. Il bagaglio professionale dell’educatore è come una borsa dai molti attrezzi, in base alle circostanze e
ai bisogni sarà più opportuno uno strumento oppure un altro.
Il teatro, pur attingendo dallo stesso patrimonio simbolico della lettura, aggiunge la dimensione corporea in
modo significativo. Sappiamo infatti che il corpo può essere per alcuni bambini un canale privilegiato di
relazione così come per altri motivo di inibizione o sovrastimolazione. Starà quindi ai tecnici della relazione,
educatori e pedagogisti, capire come incrociare l’esperienza di un bambino o di un gruppo con le proposte che
vengono portate.
In ogni caso l’esperienza di leggere o fare teatro porterà una dimensione di piacere che entrerà nel vissuto
del bambino e che diventerà strutturante per la sua identità, perché, ancora Marina Manferrari ci dice che
“le storie che arrivano dentro rimangono dentro. Seguendo percorsi personali poco visibili vanno a
depositarsi e a nutrire l’immaginario dei bambini, un serbatoio grandissimo che rielabora e conserva .”
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IL GIOCO E LE RELAZIONI ADULTO BAMBINO
di Licia Vasta
Per i bambini piccoli il gioco è un’attività naturale e spontanea e si possono sviluppare 3 premesse
fondamentali:
1) il gioco è un fenomeno legittimo e prevedibile che mostra chiare regole dello sviluppo anche se il grado
in cui tale regolarità viene espressa è molto influenzato dal contesto in cui è il bambino
2) il gioco serve ad integrare complessi elementi cognitivi, emotivi e sociali
3) il gioco aiuta il bambino a rappresentare i suoi disagi. Utilizzo del gioco come una finestra attraverso
la quale l’adulto osserva e capisce cosa il bambino sta cercando di trasmettere. Ottimo strumento di
indagine è il gioco simbolico.
La formazione dell’educatrice basata sull’osservazione del gioco dovrebbe non solo affrontare le tappe
evolutive dello sviluppo del bambino, ma conoscere il significato dell’energia aggressiva e libidica e
dell’aggressività.
Esempio: gioco dei mostri/sparare/uccidere/lottare……… buoni/cattivi. Il bene e il male, il forte e il debole, la
gestione dell’aggressività, l’autonomia e la diffidenza come contenuti dello sviluppo emotivo del bambino nei
primi anni di vita.
Tre aree dell’infanzia che l’educatrice ha presente nel gioco del bambino:
1) contenuto tematico del gioco
2) lo stile nel quale il bambino conduce il gioco
3) le interazioni adulto/bambino e bambino/bambino
Winnicott diceva che il gioco è “ terapeutico” in sé, ciò vuol dire che il gioco costituisce il mezzo più semplice,
naturale, piacevole per il bambino per evolvere in ogni area di sviluppo.
Il senso del gioco va ricercato non “in cosa il bambino vuol dire”, ma nel COME GIOCA. OSSERVARE COME
equivale a osservare ed integrare il bambino nella sua unicità mente/corpo. L’adulto nella relazione con il
bambino integra le sue competenze emotive o intellettive per cogliere e accogliere i movimenti del/dei
bambino/i.
Momenti di gioco al nido:
1) gioco libero ---------- gioco strutturato
2) gioco sensomotorio ---------- gioco simbolico
Importante
1) GIOCO SENSOMOTORIO 2 fattori:
a) emozione giocata attraverso il gioco
b) componente corporea attraverso cui l’emozione è fatta scorrere
2) GIOCO SIMBOLICO
a) tema del gioco
b) forma del gioco (cioè il contenente/modo corporeo con cui si gioca/individualità di ciascun
bambino)
c) emozione che scorre attraverso il gioco (vissuto emozionale); energia libidica e aggressiva.
Funzioni del gioco:
-
scarica pulsionale
elaborazione della realtà
catartica
anticipatoria
integrazione tra realtà e immaginario
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L’adulto aiuta il bambino nel sostenere, filtrare, elaborare i vissuti del bambino non solo attraverso il sapere,
ma il saper fare più il SAPER ESSERE
Funzioni dell’adulto/educatore:
- accorgersi se il bambino presenta delle fatiche: osservare il contenuto del gioco del
bambino (cosa fa) e la forma (come gioca)
- consapevolezza dei propri vissuti per non confondersi con il bambino. Empatia e non
confusione
- aiuto, supervisione all’educatore
-
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BAMBINO E VASINI,
UN SOSTEGNO ALL’AUTONOMIA CORPOREA
PASSANDO DALL’INDICAZIONE ALL’AZIONE
di Gloria Zannini
Pochi giorni fa, alla riapertura di un nido, un bimbo della sezione grandi, con già una buona autonomia per
l’igiene e il fare da solo in bagno, sceglie di defecare in due casette: quella del giardino e quella del salone, con
‘prodotti’ normali, non causati da possibili malesseri gastrointestinali, sporcandosi in po’.
Le interpretazioni sulle motivazioni del bambino sono state assai fantasiose, forse tutte possibili: ‘l’avrà fatta
tante volte in giardino questa estate’, ‘vacanza in Africa, da nudisti,..’, ‘non gli avranno dato il tempo di farla’,
‘non si ricorda dove è il bagno’, ‘ci provoca’… A me è piaciuto pensarlo un segno per manifestare lo stress del
ritorno al nido, rappresentato da una comunità sempre presente, a tavola, nei giochi, a letto, per i cambi,
anche in bagno, senza le mamme e i papà. Il possibile momento ‘regressivo di rabbia’, è durato solo un giorno.
Le funzioni sfinteriali vengono controllate, in genere, nel secondo, terzo anno di vita, momento di grande
complessità maturativa neurologica, di motivazione all’autonomia, avendo alle spalle una crescita
psicoaffettiva nella relazione con la madre e il padre, di sviluppi cognitivi e linguistici.
Le risonanze emotive delle funzioni sfinteriali sono presenti fin da subito, l’autonomia dal pannolino è un
momento molto significativo per il percorso di crescita al nido, e il controllo anale, in assenza di lesioni a
livello del sistema nervoso centrale, o di altre problematiche organiche, risulta un segnale di allerta,
nell’altalenare tra il benessere e le difficoltà.
Gli indicatori più ricorrenti sono il rifiuto ostinato alla defecazione, e/o mai all’interno degli ambienti nido,
periodi più o meno prolungati di stipsi su cui cade la crescente preoccupazione della famiglia, o, all’opposto,
passa inosservata, rilegandola al solo piano sanitario, con la necessità di stimolare l’evacuazione con lassativi e
purganti, situazione ancor più grave nella fase iniziale di una acquisizione di un controllo soddisfacente.
Si è osservato come la stitichezza si associa ad una difficoltà di espressione emozionale, di forte chiusura
verso l’ambiente nido e/o verso gli altri adulti e bambini, timidezza, o di aggressività portata nell’agito,
iperattività, e forte bisogno di relazioni affettive oppositive. Può essere opportuno soffermare l’attenzione
su questi bambini: i vari sintomi di chiusura psicosomatici, difficilmente correggibile se divenuti automatici,
anche se l’evoluzione globale del bambino presenterà un’intelligenza emozionale migliore, saranno riprodotti in
situazioni di forti stress, perdendone il normale andamento.
Nelle attività del nido, la lettera di racconti che parlano di capricci, di paure del buio e dei mostri, di ciucci,
di alimenti che non piacciano, di ‘cacca’, è ormai considerata da tutti utile, divertente e importante per
sollecitare autonomie, comprendere il risvolto emozionale, favorire indirettamente la costruzione di un
legame simbolico altro. Il progetto “Nati per leggere”, promosso anche dal Comune di Bologna, ne offre molti
esempi.
Pur riconoscendo che è un tema faticoso da affrontare, connesso con la vergogna e con il volgare, (io stessa,
nello scrivere, cerco i termini dotti e medici perché mi è difficile), sollecito le educatrici e trovo di aiuto
potere parlare esplicitamente della ‘cacca’ in sezione, individuare letture ‘ludico ricreative’ che mostrano
significati emozionali: la ‘cacca’ come forma di affronto, la ‘cacca’ parte normale di me, forma di
riconoscimento e di scherzo, la ‘cacca’ buona e cattiva.
I libri che consiglio anche ai genitori sono di ampia diffusione, ad esempio “Pingu e il gabbiano” (Dami Editore,
2002, n.3), “Chi me l’ha fatta in testa”, (di W. Holzwarth e W. Erlbruch, 1998 Salani Firenze), e sulle diverse
‘cacche’ degli animali, e “Le cacche del coniglio” (di Pittau e Gervais, 2000 Ed. Il Castoro Milano).
Prendendo alcuni spunti da una tecnica psicoterapeutica specifica per affrontare problematiche sulla
condotta alimentare ed evacuativa, la giocoterapia focale sviluppata da Trombini (in vari articoli dell’autore
dal 1969, ricordiamo: Baldaro B., Trombini 1989, Disturbo del controllo sfinterico, in M.W. Battacchi
‘Trattato enciclopedico di psicologia dell’età evolutiva’, Piccin, Padova) si può anche arrivare ad attività in cui
si riproduce il ciclo alimentare, il gioco simbolico del preparare il pranzo, mangiare e..andare in bagno.
Brevemente la tecnica studiata per bambini in età prescolare, con situazioni riuscite già su piccoli di tre anni,
prevede la costruzione di una bambola/bambino di materiale manipolabile, (dido, pongo, farina e sale..) sul
quale l’adulto e il bambino arrivano a rappresentare il cibo in palline che scende, nella pancia e poi nel vasino,..
Pur essendo una tecnica psicoanalitica, il modello di base è fenomenicamente percepibile, costruito con gli
elementi della Gestalt, che sollecita la centratura del bambino sulle proprietà del campo, aiutandolo ad una
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autonoma comprensione del fenomeno, centrandolo su di sé e mettendo sullo sfondo le
centrature/ansie/richieste dell’adulto.
All’interno del nido, nel gioco semistrutturato di una sezione, nello spazio della cucina, può essere facile
‘accettare inviti’ a mangiare e bere dai piccoli, inscenare un pancione e poi dopo aspettarsi che… Al vero
pranzo di sezione sento spesso dalle educatrici delle allusive frasi come “oggi c’è il kiwi..per fortuna smonto
alle 12.30..”, e questi sono altri agganci possibili per informare i bambini dei possibili e numerosi casi di
evacuazione.
Ancora mi riprometto di tentare una parziale riproduzione di tutto il percorso alimentare durante le attività
di manipolazione, ma sono smorzata dall’imbarazzo, o dalle violente affermazioni “Che discorsi di …merda”.
Anche se credo molto in una comprensione emozionale, umoristica, che allenta la possibile tensione quotidiana
del bambino, della bambina in difficoltà, permettersi di raccontarla tra i pari e non solo tra adulti giudicanti,
alludere a nulla, vivendola con un po’ di leggerezza.
In situazioni complesse come quelle sopra indicate, è sempre auspicato e necessario un coinvolgimento della
famiglia, che va aiutata a spostare l’attenzione dall’agito, ad altri fattori quali la richiesta di attenzione, il
bisogno di non deludere, i tempi di maturazione globali del bambino, la specifica storia del loro bambino, della
loro bambina facenti parte degli elementi per stimolare una adeguata assunzione di autonomie.
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OSSERVARE
NELLE ISTITUZIONI EDUCATIVE DELLA PRIMA INFANZIA
di Flavia Melecchi
Osservazione come pratica professionale
Vedo, guardo osservo: l’educatrice è chiamata a passare da una funzione sensoriale naturale ad una
strumentazione teorico pratica di tipo professionale.
La differenza è nell’intenzionalità e nell’autenticità della posizione personale
L’osservazione è atteggiamento mentale e posizione morale:
- atteggiamento mentale, in quanto è porsi davanti alla realtà con un pensiero attivo;
- posizione morale: morale è stare a quello che vedo, immorale è negare una cosa che c’è e che si
manifesta. A monte dell’osservazione c’è un atteggiamento di stima per quello che si manifesta: questa
realtà interessa (atteggiamento di curiosità ed attenzione). La posizione personale è vincolata al piano
descrittivo e non interpretativo: osservatore come mente pensante e non giudicante.
Finalità
Conoscere: l’osservazione è un modo di conoscere che valorizza la capacità di abbraccio della realtà che viene
dallo sguardo. Ogni bambino -ogni uomo- chiede di essere guardato. Conoscere per ‘comprendere’: collocare
un particolare dentro la globalità della persona, cioè “con-prendere” (il particolare nella totalità). Un rapporto
comprensivo è caratterizzato dal guardare un bambino, dei bambini (il contesto della scuola, ecc.) facendo
posto dentro di sé all’altro: accogliendo e assumendosene la responsabilità.
Comprendere per condividere: la relazione bambino - adulto in un contesto educativo.
Contenuto
E’ l’oggetto che impone il metodo: cosa interessa osservare? I soggetti nel contesto ed il rapporto educativo
che li coinvolge.
Osservo i moti di un soggetto in azione dentro una situazione reale (ambientale e relazionale). Osservo i
comportamenti come ‘libro di lettura’: comportamenti ed atteggiamenti per la portata relazionale e
comunicativa che essi hanno ed esprimono.
Quindi osservo anche me in relazione con…, prestando attenzione alla risonanza interiore che i fatti osservati
provocano in me.
Metodologia
osservazione pedagogica, secondo la metodologia della neutralità partecipe.
Osservare è:
puntare gli occhi su ciò che nel bambino ‘funziona’ e tende a svilupparne le potenzialità; sapersi mettere nei
panni di... (partecipazione ed umiltà); acquisire un habitus che rende presenti nelle relazioni con il sufficiente
distacco per riflettere, stile di rapporto che implica osservare esternamente l’altro, internamente sé stessi;
cogliere i vari piani dello sviluppo del bambino (motorio, cognitivo, affettivo/emozionale, sociale) ed integrarli,
per capire meglio l’unicità di quel bambino; attribuire anche un significato al fare del bambino in funzione
della nostra proposta educativa
Osservare non è:
cercare conferme a ciò che pensiamo o che “sappiamo già”; capire tutto; ‘quantificare’ e ‘paragonare’ ad un
modello standard/rintracciare il bambino ideale; la compilazione di una scheda, griglia; attribuire un
significato causale extracontestuale
Tappe metodologiche
Osservazione come strumento di lettura di: ambiente (spazio, tempi, materiali); relazione; gioco (spontaneo,
guidato, ricreativo)
Per comprendere:
- I bisogni e i desideri dei bambini
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il livello evolutivo di quel bambino rispetto al suo sviluppo socio/comunicativo; psicomotorio; cognitivo;
affettivo/emozionale; al livello di sviluppo di gioco spontaneo
- lo stile comportamentale/relazionale di quel bambino rispetto all’ambiente (indizi di
piacere/dispiacere, di benessere/non benessere, interesse-curiosità/disinteresse-indifferenza, ecc.)
Osservazione insatura: capire meglio …. non capire …
L’osservazione si colloca in una dimensione di rilancio: nuovi quesiti, nuove ipotesi, curiosità da approfondire,
cambiamenti/modifiche di progetto…
L’osservazione fa emergere aspetti di criticita’, oppure valorizza la modalita’ attraverso cui l’adulto sa:
aspettare/stare fuori; entrare; stare; uscire… nella relazione col bambino in modo adeguato rispetto alle
esigenze del bambino stesso.
Protocolli di osservazione → sistematizzazione → relazione di sintesi osservativa
Protocollo di osservazione: descrive in modo globale un bambino/una situazione osservata.
“Lettura” successiva del protocollo di osservazione: diventa analitica in base agli obiettivi specifici. Gli stessi
obiettivi determinano la successiva sistematizzazione dei protocolli di osservazione.
Sistematizzazione: stralci di protocolli, schemi, griglie…
Relazioni di sintesi osservativa: periodiche durante le fasi di: progettazione, verifica in itinere e/o di
valutazione finale.
-
I tempi:
tempo individuale:
- protocolli carta/penna: descrizione ambientale; comportamentale /relazionale/comunicativa; il gioco
(tempi, spazi, modalità, contenuti)
- durata del tempo di osservazione (in un contesto educativo): 15/20 minuti.
- tempo di trascrizione successivo al tempo di osservazione
- le “memorie” individuali scritte: riflessioni, quesiti, scoperte dell’osservatore/trice.
tempo pre-collegiale:
- modalità e strumenti di consultazione dei protocolli di osservazione (raccoglitori, cartellette, ecc.)
- le “memorie” individuali scritte: riflessioni, quesiti, chiarimenti, scoperte,ecc…da parte di tutti i
componenti del collegio scolastico.
tempo collegiale:
- decisione iniziale sul tempo trasversale/ longitudinale dell’osservazione e sul ruolo dell’osservatore
(chi, quando, quanto, come)
- confronto collegiale sui protocolli di osservazione: tempi, modalita’, obiettivi
- sistematizzazione dei protocolli di osservazione: chi (competenze, suddivisione integrata di compiti),
tempi, modalità, obiettivi
- tempo trasversale e longitudinale: la sistematicita’ del metodo dell’osservazione, cioe’ l’acquisizione di
un “habitus osservativo”
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ALLEGATO
Osservazione: cos’è; perché; che cosa; come
(tratto dalla Documentazione “Osservando, osservando” della Scuola dell’Infanzia Paritaria “Il Bosco” di
Imola, a.s. 2002/03 consultabile presso LabDocForm del Comune di Bologna e Centro Documentazione FISM)
punto di partenza
attenzione/ascolto
OSSERVAZION
E
COS’E’
raccolta dati
raccolta domande/ interrogativi
confronto
verifica
punto di arrivo
acquisire un habitus
conoscere/comprendere
OSSERVAZION
E
PERCHÈ
valutare
intervenire
ciò che funziona
OSSERVAZION
E
CHE
COSA
Piani di sviluppo
Linee evolutive
quotidianità/gioco/routine
linguaggio
In situazione ambientale
prima si guarda
poi si scrive
in situazione partecipe relazionale
OSSERVAZION
E
COME
giusta distanza mentale e fisica
Tempo limitato (15’)
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