Le Mille Facce della Droga Aldo Polettini

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Le Mille Facce della Droga
Aldo Polettini
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Presentazione dell’autore
Aldo Polettini, specialista in Tossicologia Forense, è docente presso il Dipartimento di
Sanità Pubblica e Medicina di Comunità dell’università di Verona. Ha al suo attivo
un’intensa attività di ricerca sperimentale ed epidemiologica nei settori dell’accertamento
del consumo di sostanze stupefacenti, del controllo anti-doping, e della diagnosi chimicotossicologica di avvelenamento, attività sviluppata a livello nazionale ed internazionale in
collaborazione con prestigiosi centri di ricerca quali il National Institute on Drug Abuse,
il Public Institute of Health olandese e il Centro per il controllo anti-doping di
Barcellona. E’ autore di oltre 70 pubblicazioni sulle riviste scientifiche di maggior rilievo
nel settore.
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INDICE
Introduzione
Il Sistema della Gratificazione
Sesso, droga e Rock’n’roll
Stress e Uso di Droga
Geni e Tabacco
Vaccini ed Enzimi contro la Cocaina
Cocaina e Rischio di Infarto
Droga e Gravidanza
Droga e Rischio Infettivo
Una Droga per tutte le Occasioni: il GHB
I Pericoli del Metadone
Sull'Uso Terapeutico della Cannabis
Ritalin: Farmaco Efficace o Nuovo Fenomeno di Abuso?
Il Pallone ´Gonfiato´. L´Abuso di Anabolizzanti tra Dilettanti
e Professionisti dello Sport
Nandrolone: il Doping Corre... sulla Soglia
L’abuso di Diuretici tra Sport, Discoteche e Disturbi alimentari
La Moda dello Sniffing, Nuova Frontiera dello Sballo
E' Ecstasy davvero?
I Danni dell’Eroina
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Introduzione
Strumenti di piacere, ma anche di schiavitù, sostanze d'abuso ma anche farmaci, soluzioni
facili ed immediate ai mille disagi quotidiani, ma anche "cartine tornasole" capaci di
mettere a nudo o di amplificare quegli stessi disagi, le droghe hanno davvero mille facce.
Troppo spesso, tuttavia, nel tentativo di sostenere un certo tipo di orientamento
ideologico, di qualunque colore esso sia, l'informazione sulla droga tende a sottolineare
solo alcune di queste facce a discapito di altre.
Compito del farmacologo e del tossicologo è invece informare sulle sostanze d’abuso in
modo chiaro, portando a conoscenza di tutti gli effetti, positivi e negativi, che il loro uso
occasionale o abituale produce sull’organismo e sulla psiche.
Compito essenziale ma evidentemente troppo spesso trascurato, almeno a giudicare dalla
approssimazione, dalle “leggende metropolitane”, dalla diffusa ignoranza sull’argomento
in cui mi sono imbattuto nelle numerose occasioni di incontro con “non addetti ai lavori”.
Compito, per di più, non facile, che richiede lo sforzo di usare termini di comprensione
immediata, di sintetizzare e di semplificare pur senza trascurare l’accuratezza delle
informazioni, ma soprattutto di sgombrare il campo da pregiudizi ed ideologie in un
ambito in cui invece troppo spesso le opinioni sono preconcette piuttosto che fondate
sulla reale conoscenza dei problemi.
Questo libro raccoglie una serie di interventi divulgativi del sottoscritto sul tema
dell’abuso di sostanze. Gli interventi prendono in esame il tema della droga nelle sue
diverse facce, soffermandosi sugli aspetti pratici, sulle questioni concrete, sui problemi
immediati: il rischio infettivo, la gravidanza, la guida sotto l’effetto di sostanze
stupefacenti, il sottile confine tra uso terapeutico ed abuso, il rapporto tra disagio, stress e
droga, le ultime scoperte nel campo della genetica e dell’immunologia, le nuove droghe e
le nuove frontiere della farmacologia nella lotta alla droga, il doping, gli effetti piacevoli
che vengono ricercati da chi fa uso di droga e quelli spiacevoli che inevitabilmente
subentrano.
Brescia, Aprile 2002
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Il Sistema della Gratificazione
Molti stimoli, tra cui quelli prodotti dal cibo o dall’attività sessuale, generano quello che
gli addetti ai lavori chiamano “rinforzo positivo”. Il termine sta ad indicare che queste
attività e più in generale tutti i comportamenti che ci fanno provare emozioni e sensazioni
piacevoli tendono ad essere da noi ripetute proprio perché sono gratificanti.
Tutto ciò ha un importante significato biologico: è il piacere che proviamo che ci spinge a
ripetere questi comportamenti che sono d’altra parte determinanti per la sopravvivenza
dell’individuo e la riproduzione, assicurando in tal modo la continuazione della specie.
L’elaborazione degli stimoli e la loro eventuale associazione a sensazioni piacevoli
avviene in alcune aree del nostro cervello che prendono il nome assai esplicito di
“sistema della gratificazione” o “della ricompensa”. Questo sistema può essere attivato
non solo da stimoli naturali ma anche da stimoli artificiali come le sostanze d’abuso.
I diversi effetti che le droghe producono sull’organismo e sulla psiche sono infatti dovuti
alla loro capacità di interagire con i neurotrasmettitori, cioè con le sostanze chimiche che
regolano la trasmissione dell’impulso nervoso, e con i loro recettori nelle cellule nervose.
Uno di questi neurotrasmettitori, la dopamina, è il principale “mediatore chimico” del
“sistema della gratificazione”
La capacità di attivare il circuito del piacere nel nostro cervello ha molto probabilmente a
che fare con la compulsione, con l’impulso spesso difficilmente controllabile a procurarsi
altre dosi che spesso caratterizza i consumatori di droghe.
Il profondo legame che vi è tra attività apparentemente scollegate tra loro come
l’alimentazione, l’attività sessuale e l’assunzione di droghe è testimoniato da molti
esempi: molte droghe, tra cui l’amfetamina e le sostanze ad essa correlate, hanno
un’azione anoressizzante, cioè sono in grado di sopprimere la sensazione di fame;
l’effetto stupefacente prodotto dall’eroina è frequentemente descritto come un intenso
orgasmo sessuale ed i consumatori abituali di eroina spesso hanno un’attività sessuale
significativamente ridotta.
Tutto ciò spiega come il piacere artificiale prodotto dalle droghe possa sostituirsi a quello
prodotto dagli stimoli naturali, determinando quel progressivo estraniamento dalla realtà
che è all’origine del dramma quotidiano che molti consumatori di droghe vivono.
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Sesso, Droga e Rock'n'Roll*
La musica e, di riflesso, la sua fedele riproduzione, è indiscutibilmente una fonte di
piacere e di emozione. A volte l'emozione è così intensa da tradursi addirittura in una
vera e propria sensazione fisica: a tutti è sicuramente capitato di provare un brivido nella
schiena all'ascolto di un brano musicale.
In qualche caso l'emozione è legata ad un ricordo richiamato alla memoria dalla musica,
come ad esempio può succedere riascoltando un brano che in passato avevamo ascoltato
in un'occasione particolare che il brano stesso rievoca. Oppure è il testo della musica, e
soprattutto il significato che il testo assume per l'ascoltatore, che può essere fonte di
emozione. Ci sono però molti altri casi in cui è proprio la musica in sé a procurare
emozioni piacevoli.
Sino a poco tempo fa non si aveva la minima idea di come ciò potesse succedere, vale a
dire di quali sono i meccanismi che la musica innesca nel nostro cervello. Oggi ne
sappiamo un po' di più e quello che si è scoperto è molto interessante ma, a pensarci
bene, è anche piuttosto ovvio.
Vediamo con ordine. Alcuni anni fa è stata messa a punto una tecnica, chiamata
Tomografia ad Emissione di Positroni (PET), che permette di misurare e registrare "in
vivo" l'attività di un cervello umano in risposta ad uno stimolo. La PET è in grado di
"vedere" in modo assolutamente non invasivo ed indolore piccole variazioni di flusso di
sangue nelle diverse aree cerebrali. Il tutto si basa sull'assunto che ad una variazione, ad
esempio in aumento, di flusso sanguigno in una specifica zona del cervello deve
corrispondere un aumento dell'attività cerebrale di quella zona.
Alcuni ricercatori canadesi hanno pensato di studiare cosa accade ad un cervello
sottoposto ad uno stimolo musicale e ne sono venute fuori delle belle. Ad alcuni
"volontari" (in realtà si è trattato di studenti di musica della stessa università in cui
insegnano i ricercatori, per cui il termine è volutamente virgolettato ;-) è stato chiesto di
indicare un brano musicale che provocasse in loro una risposta emozionale intensa.
L'emozione doveva però essere intrinseca alla musica e quindi non essere prodotta nè da
associazioni o memorie personali, né dall'eventuale testo. La musica scelta, ovviamente
diversa per ciascun soggetto, è stata "somministrata" agli studenti (oltre a musiche "non
emozionanti" utilizzate come controllo) registrando nel contempo l'attività cerebrale.
Bene, quello che questi ricercatori hanno scoperto è che le aree cerebrali nelle quali si
verifica un aumento di attività in corrispondenza della sensazione di piacere provocata
dalla musica sono sostanzialmente quelle che gli addetti ai lavori indicano come "sistema
della gratificazione" o anche "della ricompensa". Si tratta in pratica del sistema che si
attiva in risposta ad alcuni stimoli primari, come quelli provocati dal cibo e dall'attività
sessuale e che si ritiene abbia un'importanza fondamentale per la sopravvivenza
dell'individuo e la continuazione della specie: è la sensazione di piacere che proviamo
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quando mangiamo o quando facciamo sesso che ci spingono a ripetere queste attività che
d'altra parte garantiscono la sopravvivenza e la riproduzione.
Il "sistema della gratificazione" è anche attivato artificialmente dalle droghe e dall'alcol
ed è all'origine, secondo alcune teorie, della condizione di dipendenza che molte di queste
sostanze producono. Tante per fare un esempio della stretta associazione tra droghe e
"sistema della gratificazione", la sensazione provata da un consumatore di eroina è spesso
indicata come un intenso orgasmo sessuale.
Se ci pensate bene, tutto ciò ha dell'incredibile: che il cibo e il sesso producano piacere è
spiegabile, come abbiamo visto, in termini biologici; che le droghe diano piacere si
spiega con la loro capacità di interagire chimicamente con i neurotrasmettitori che
popolano il nostro cervello, ma la musica che c'entra? La musica non è strettamente
necessaria per la sopravvivenza e la riproduzione ed è priva di attività farmacologica!
Qualche smaliziato starà sicuramente già pensando che una buona musica di sottofondo
può avere effetti molto positivi sulla ....riproduzione ma questo è un altro discorso.
Allo stato attuale come e, soprattutto, perché la musica sia capace di stimolare il "sistema
della gratificazione" resta un mistero. E' possibile che uno stimolo astratto come la
musica abbia un ruolo biologico, cioè che conferisca una condizione di vantaggio
biologico a chi ne "fa uso". Ma questo supposto vantaggio biologico è al momento del
tutto sconosciuto.
Quello che in ogni caso questi studi hanno evidenziato è che la musica è in grado di
attivare il sistema cerebrale coinvolto nella produzione del piacere e che è dunque un
fattore importante per il nostro benessere mentale e fisico.
Bibliografia
A.J. Blood* and R.J. Zatorre (2001), Intensely pleasurable responses to music correlate
with activity in brain regions implicated in reward and emotion, Proc. Natl. Acad. Sci.
USA, 98:818-823.
* Pubblicato sulla rivista on-line TNT-Audio (www-tnt-audio.com)
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Stress e Uso di Droga
Secondo il NIDA (National Institute on Drug Abuse) americano le vendite di droga nella
città di New York hanno registrato un aumento dopo gli attentati dell’11 settembre
scorso.
Le cause sarebbero da individuare nella paura, nel disagio e nell’incertezza
indubbiamente provocati dagli attentati nei cittadini newyorkesi ed il tentativo, da parte
di alcuni di questi, di contrastare questa situazione di stress con l’aumentato ricorso alla
droga.
Diverse ricerche hanno infatti accertato che individui sottoposti a situazioni di stress
hanno maggiore probabilità di cadere nella trappola dell’alcol o delle droghe oppure di
ricadere in queste forme di abuso.
Che vi sia un rapporto tra stress e sostanze d’abuso è evidente anche a tutti quei fumatori
che hanno cercato almeno una volta di smettere di fumare o anche solo di limitare il
numero di sigarette e che spesso hanno visto i loro buoni propositi crollare miseramente
di fronte alla prima situazione di stress psichico o fisico.
L’eroina ha una azione anti-stress che fa parte delle sensazioni positive, assieme a quelle
prodotte dalla stimolazione del sistema della gratificazione, che prova chi fa uso di questa
sostanza. Al contrario, la mancata assunzione di eroina determina chiaramente una
condizione altamente stressogena (la sindrome di astinenza).
Quello che è difficile capire è se la condizione di ipersensibilità di alcuni soggetti allo
stress sia preesistente all’abuso di droghe, ed in tal caso potrebbe essere un fattore
predisponente all’abuso, oppure se sia conseguente all’esposizione abituale alle droghe e
agli effetti che queste producono sul cervello, oppure ancora se vi sia una
sovrapposizione di queste due situazioni.
Comunque sia, si sta cominciando a capire qualcosa sui meccanismi neurobiologici che
sono alla base dello stress e su come le droghe possono interferire in questi meccanismi.
Lo stress induce nel nostro cervello un aumento del livello di un neuropeptide chiamato
CRF (corticotropin releasing factor, vale a dire fattore di rilascio della corticotropina).
Che il CRF abbia a che fare con lo stress è dimostrato dal fatto che se questa sostanza
viene somministrata a degli animali di laboratorio si osserva in questi un chiaro aumento
di comportamenti ansiosi.
Il rilascio di CRF è all’origine di una cascata di effetti biologici. In sintesi, il CRF
rilasciato dal cervello nel sangue raggiunge l’ipofisi, l’importante ghiandola endocrina
che si trova alla base del cervello, dove stimola la produzione dell’ormone
corticotropina. Quest’ultimo a sua volta scatena il rilascio di altri ormoni da parte delle
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ghiandole surrenali e, tra questi, del cortisolo, sostanza che ha invece ben note proprietà
anti-stress.
Il cortisolo, infatti, ha la capacità di inibire l’ulteriore rilascio di CRF nel cervello e di
ristabilire una condizione di normalità. Tuttavia, quando la situazione stressogena è
particolarmente intensa, il meccanismo di retroinibizione indotto dal cortisolo diventa
insufficiente a bloccare il rilascio di CRF.
Come possono le droghe interferire in questo fine meccanismo? Alcuni anni fa si è
scoperto che i circuiti cerebrali che rispondono agli stimoli stressogeni e quelli che
rispondono alle droghe sono parzialmente sovrapposti: per esempio si è visto che la
somministrazione di corticosterone determina un innalzamento dei livelli di dopamina - il
neurotrasmettitore principalmente coinvolto nel sistema della gratificazione stimolato
dalle droghe – ossia della sostanza che è stata definita “l’ormone del piacere”.
Non solo il cortisolo, ma anche altre sostanze endogene possono interagire con i circuiti
cerebrali dello stress. Tra le sostanze in grado di inibire il rilascio di CRF ci sono ad
esempio i neuropeptidi oppiacei, sostanze prodotte naturalmente dal cervello e che hanno
diverse analogie strutturali con l’eroina e la morfina. Ne consegue l’ipotesi fondata che
l’effetto anti-stress di cui l’eroina è capace sia proprio dovuto alla proprietà di questa
sostanza di inibire il rilascio di CRF nel cervello, esattamente come fanno i neuropeptidi
oppiacei.
Di certo vi è che l’astinenza dall’eroina provoca l’aumento dei livelli degli “ormoni dello
stress”, situazione che il consumatore di eroina percepisce come estremamente spiacevole
e che è indubbiamente una spinta a procurarsi altre dosi.
Dal momento che i primi sintomi della sindrome di astinenza si manifestano dopo poche
ore dall’assunzione di eroina, questa situazione di inibizione (quando la droga è in
circolo) e di successiva stimolazione (durante la fase di astinenza) dei circuiti dello stress
si ripete più volte al giorno e potrebbe essere all’origine della ipersensibilità allo stress
che spesso caratterizza i consumatori di eroina.
La cocaina agisce sui circuiti dello stress in modo opposto rispetto all’eroina. Questa
droga, infatti, stimola il rilascio degli ormoni dello stress. Tale effetto, che dovrebbe
essere percepito come spiacevole, è tuttavia mascherato dal simultaneo stimolo dei
circuiti del piacere. E’ solo nella fase di astinenza dalla cocaina che l’azione stressogena
viene percepita agendo anche in questo caso da stimolo ad una nuova assunzione della
droga.
Alcune sperimentazioni cliniche basate sulla somministrazione di metirapone, una
sostanza che inibisce la produzione di cortisolo da parte delle ghiandole surrenali,
dimostrano chiaramente come le droghe agiscano sui circuiti dello stress. Mentre il
metirapone produce l’innalzamento dei livelli degli ormoni dello stress in soggetti
normali, tale innalzamento non si verifica nei consumatori di eroina, mentre se il
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metirapone viene somministrato a consumatori di eroina in astinenza, l’innalzamento dei
livelli di CRF e corticotropina è addirittura superiore a quello dei soggetti normali. E lo
stesso fenomeno si riscontra somministrando metirapone a consumatori di cocaina in
astinenza.
E’ probabile che nel prossimo futuro la ricerca ci dirà molto di più di quel poco che
sappiamo ora sulle strette interconnessioni tra stress e droga e che ho cercato di
descrivere brevemente in questo articolo.
Ciò che sin da ora è accertato e di cui chi opera nel settore del recupero di persone con
problemi legati alla tossicodipendenza è importante tenga il dovuto conto, è che lo stress,
ed in particolare le situazioni di prolungata esposizione a stimoli stressogeni - situazioni
purtroppo sempre più diffuse e frequenti nella vita di tutti i giorni - determinano un
pericoloso aumento della vulnerabilità alle droghe così come ad altre forme d’abuso,
quali i disordini alimentari ed il gioco d’azzardo.
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Geni e Tabacco
Può il comportamento di un individuo ed in particolare l'atteggiamento nei confronti
delle sostanze d'abuso essere influenzato dai geni? E se sì, in che misura? E con quali
meccanismi? Alcuni studi condotti sulla nicotina stanno cercando di dare risposta a
questi quesiti.
Sebbene l'ambiente in cui cresciamo e viviamo sia da tutti riconosciuto come fattore
essenziale nello sviluppo e nella determinazione dei nostri comportamenti, alcuni studi
recenti indicherebbero che la componente genetica - vale a dire le informazioni contenute
nei geni di cui disponiamo sin dalla nascita - svolge un ruolo più importante di quanto
non si credesse in passato.
Le principali evidenze sperimentali di questo rapporto tra geni e comportamento vengono
dagli studi sulle coppie di gemelli monozigoti (cioè dotati dello stesso patrimonio
genetico) separati alla nascita: alcuni comportamenti ed atteggiamenti avrebbero infatti
una certa probabilità di verificarsi comunque, anche se i gemelli sono stati esposti
durante la loro crescita a condizioni ambientali diverse.
Anche il consumo di sostanze d'abuso non sfuggirebbe a questa "regola" e in più di un
caso il rischio di sviluppare una dipendenza e le modalità e la frequenza del consumo
sembrerebbero quanto meno in parte influenzabili dal nostro patrimonio genetico. Il che,
si badi bene, non significa certo che il consumo di sostanze d'abuso sia geneticamente
predeterminato: tossicodipendenti non si nasce.
Siamo ancora lontani dall'aver chiarito le modalità con cui l'espressione di determinati
geni e la soppressione di altri siano in grado di influenzare il nostro comportamento.
Quello che appare oggi chiaro è che i nostri geni sono in continua interazione con
l'ambiente e soprattutto che l'ambiente esterno può addirittura modificare la loro
espressione.
La sperimentazione condotta da un gruppo di ricerca canadese sulla nicotina ha
recentemente individuato uno dei possibili meccanismi che possono spiegare come i geni
possano influenzare i nostri comportamenti.
Già da molti anni si sapeva che è la nicotina la sostanza che crea e mantiene la
dipendenza dal fumo. La cosa è tanto vera che nei fumatori abituali la frequenza di
consumo di sigarette è regolata in modo da mantenere una concentrazione di nicotina nel
sangue e nel cervello il più possibile costanti.
Rachel F. Tyndale e Edward M. Sellers dell'Università di Toronto si sono occupati del
metabolismo della nicotina e, in particolare, dei geni che codificano gli enzimi
responsabili della inattivazione della nicotina.
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La nicotina viene inattivata dall'organismo mediante la trasformazione in cotinina,
trasformazione effettuata principalmente da un enzima già noto ai ricercatori per il suo
ruolo nel metabolismo di molti farmaci e denominato CYP2A6. L'attività di questo
enzima è soggetta ad una notevole variabilità interindividuale, variabilità che è a sua
volta legata a quella del gene che porta l'informazione necessaria per la sintesi di
CYP2A6.
Esistono in natura diverse forme di questo gene, una delle quali determina la sintesi di un
enzima perfettamente funzionante, mentre altre producono forme di enzima difettose,
cioè incapaci di realizzare la trasformazione della nicotina in cotinina.
Poiché in ogni uomo il gene in questione è presente in duplice copia - un elemento della
coppia viene ereditato dalla madre ed uno dal padre - si possono sostanzialmente
verificare tre diverse situazioni: quando entrambi i geni sono perfettamente funzionanti,
l'organismo è in grado di inattivare efficacemente e rapidamente la nicotina; quando solo
una copia del gene è funzionante la capacità di inattivare la nicotina viene ad essere
significativamente ridotta; infine, quando entrambe le copie del gene sono difettose, la
capacità dell'organismo di inattivare la nicotina è praticamente annullata.
Partendo dall'osservazione che la frequenza di fumatori è variamente distribuita nella
popolazione umana tra i diversi gruppi etnici e, nell'ambito di questi, tra i due sessi,
elementi che potrebbero quindi suggerire l'esistenza di una componente genetica nel
tabagismo, i ricercatori canadesi hanno voluto verificare se esista o meno una relazione
tra il fumo e la capacità geneticamente predeterminata di inattivare la nicotina. In altre
parole, l'ipotesi di lavoro di questi ricercatori era che in una popolazione di non fumatori
le copie difettose del gene che sintetizza CYP2A6 siano più frequenti che in una
corrispondente popolazione di fumatori. Le prime esperienze con il fumo sono spesso
spiacevoli e provocano, tra l'altro, giramenti di testa e nausea. In soggetti con
metabolismo della nicotina difettoso la sostanza permane più a lungo ed a livelli più
elevati nel sangue e, conseguentemente, tali effetti spiacevoli potrebbero essere esaltati
funzionando così da deterrente nei confronti di ulteriori esperienze con il tabacco.
Dopo alcuni anni di ricerche le ipotesi dei ricercatori canadesi hanno trovato conferma.
La frequenza di copie difettose del gene CYP2A6 è risultata significativamente inferiore
in una popolazione di fumatori abituali rispetto a una corrispondente popolazione di
soggetti che, pur avendo avuto in passato esperienze occasionali con il tabacco, non
hanno sviluppato una dipendenza.
Tra i fumatori, quelli con metabolismo “difettoso” consumano mediamente un numero di
sigarette inferiore rispetto a quelli con metabolismo normale ed hanno anche livelli di
monossido di carbonio nel sangue (un buon indicatore dell'esposizione al fumo di
sigaretta) inferiori.
Un aspetto di estremo interesse degli studi qui descritti è che, oltre a fare luce sui
meccanismi di regolazione genetica dell'abitudine al fumo, essi potrebbero aprire nuove
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prospettive non solo nella terapia del tabagismo ma anche nella prevenzione delle
patologie conseguenti all'esposizione cronica al fumo di tabacco.
Che il fumo possa provocare l'insorgenza di diverse forme tumorali è fuori discussione, e
la probabilità che un soggetto sviluppi un tumore causato dal fumo è direttamente
proporzionale al numero di sigarette fumate ogni giorno. Ora, è noto che molte sostanze
sono in grado di inibire o di bloccare l'attività dell'enzima CYP2A6 producendo
sostanzialmente un effetto del tutto simile a quello prodotto dalle copie di gene difettose,
ma questa volta limitato nel tempo (cioè che si verifica quando la sostanza inibitrice
viene somministrata e perdura sino a che questa non è stata eliminata dall'organismo) e
quindi facilmente regolabile.
Una di queste sostanze, il metoxalene, è stata somministrata ad un gruppo di fumatori
subito dopo la prima sigaretta del mattino e, dopo un'ora di astinenza, ai soggetti è stato
permesso di fumare liberamente. I risultati ottenuti non lasciano dubbi: rispetto al gruppo
di controllo (fumatori non trattati con metoxalene) nei soggetti trattati il tempo trascorso
prima di accendere la seconda sigaretta è stato mediamente maggiore, mentre minore è
stato il numero di sigarette fumate e minore è stata la frequenza dei "tiri" per sigaretta e la
durata e la profondità di ciascun "tiro".
Le conseguenze di questi studi sono evidenti. Il metoxalene o altri inibitori dell'enzima
CYP2A6 (e soprattutto quelli privi di attività sul sistema nervoso centrale e privi di
tossicità) possono costituire efficaci forme di protezione dal fumo e dai suoi effetti
dannosi a breve ed a lungo termine.
Bibliografia
M. Ridley, Genome. The Autobiography of a Species in 23 Chapters, HarperCollins,
2000.
R.F. Tyndale and E.M Sellers, Variable CYP2A6-Mediated Nicotine Metabolism Alters
Smoking Behavior and Risk, Drug Metab. Dispos., 29 (2001):548-552.
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Vaccini ed Enzimi contro la Cocaina
La dipendenza da cocaina è, tra le diverse forme di dipendenza da sostanze, quella per la
quale le terapie farmacologiche sino ad ora utilizzate hanno dimostrato la più scarsa
efficacia. Molte le strade battute (dagli antidepressivi triciclici alla buprenorfina, dal
disulfiram alla fluoxetina) ma pochi sino ad ora i risultati e, soprattutto, elevato il rischio
di effetti indesiderati e tossici dovuti alla possibile interazione tra alcuni di questi farmaci
e cocaina.
Non c’è da stupirsi, dunque, che la sperimentazione farmacologica sia attivamente alla
ricerca di nuove strade. In particolare, l’interesse si sta spostando dai farmaci che
agiscono direttamente sul sistema nervoso centrale interferendo nell’azione della cocaina
a terapie farmacologiche che agiscano addirittura prima che la cocaina arrivi a produrre i
suoi effetti sul cervello.
Una di queste strade, ma come vedremo non l’unica, è quella dell’impiego di “vaccini”
contro la cocaina. La strategia è semplice nei termini anche se piuttosto complessa nella
realizzazione: si tratta di impedire alla cocaina di raggiungere l’organo bersaglio, vale a
dire il sistema nervoso centrale. Una volta assunta, generalmente per via inalatoria o per
via endovenosa, la cocaina entra nel circolo sanguigno e da qui, attraverso la barriera
emato-encefalica (cioè la barriera che separa la circolazione sanguigna dal sistema
nervoso centrale) penetra nel cervello.
Come si può evitare questo? Introducendo nell’organismo anticorpi capaci di riconoscere
la cocaina (immunizzazione passiva) oppure facendo in modo che sia l’organismo stesso
a produrli (immunizzazione attiva). Una volta presenti nell’organismo, questi anticorpi
sono in grado di legarsi alla cocaina formando un complesso cocaina-anticorpo che, per
le sue elevate dimensioni, non è più in grado di oltrepassare la barriera emato-encefalica.
L’idea di un vaccino contro la dipendenza da sostanze non è nuova. Già negli anni ’70
alcuni ricercatori americani avevano lavorato alla messa a punto di un vaccino per
l’eroina, ma le sperimentazioni furono interrotte quando fu introdotto in commercio il
naloxone, vale a dire l’antagonista specifico, oltre che estremamente efficace, degli
oppiacei.
Ricerche preliminari hanno dimostrato che il vaccino anti-cocaina è in grado di ridurre
drasticamente il “rush” da cocaina, vale a dire l’effetto stupefacente e di gratificazione
che segue a breve l’assunzione della sostanza, il che dovrebbe a sua volta diminuire
l’appetibilità della sostanza stessa. E studi simili, e con simili risultati, sono stati
effettuati anche per la nicotina, vale a dire la sostanza principalmente responsabile della
dipendenza da fumo di tabacco.
Alcuni gruppi di ricerca sono piuttosto avanti nella sperimentazione di vaccini contro la
cocaina, uno dei quali, messo a punto dalla società britannica di biotecnologie Xenova,
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ha da poco superato la prima fase di sperimentazione clinica, cioè su volontari umani. Il
vaccino è stato ben tollerato dai pazienti e non ha prodotto significativi effetti
indesiderati; il livello di anticorpi nell’organismo è risultato, secondo le attese,
proporzionale alla dose ed al numero di iniezioni di vaccino somministrate. Anche sotto
il profilo della durata della “protezione immunitaria” i risultati sono da considerare
positivi: i livelli di anticorpi hanno raggiunto livelli massimi dopo tre mesi e sono
ritornati ai livelli di base dopo un anno dalla somministrazione del vaccino.
Nonostante queste premesse indubbiamente positive, l’efficacia sul campo di questo
approccio terapeutico è ancora tutta da verificare. Un dubbio da chiarire è se la reazione
anticorpale sia sufficientemente rapida da impedire che quantità significative di cocaina
penetrino nel cervello, evento quest’ultimo estremamente rapido specie se la sostanza
viene direttamente iniettata in vena, ma anche quando viene inalata. Una neutralizzazione
solo parziale potrebbe favorire tentativi di “aggiramento” della terapia semplicemente
aumentando la dose di cocaina. Cosa che è stata effettivamente osservata nella
sperimentazione del vaccino contro l’eroina prima citata: le scimmie trattate con questo
vaccino aumentavano la dose di eroina autosomministrata in modo che, anche se una
quota veniva neutralizzata dal vaccino, vi fosse una quantità di sostanza sufficiente a
produrre l’effetto desiderato.
Un’altra via per ridurre significativamente gli effetti della cocaina è quella di aumentarne
la velocità di disattivazione della sostanza da parte dell’organismo, vale a dire la
metabolizzazione o catalisi, e della conseguente eliminazione. Detto in termini più
semplici, se nel caso del vaccino si trattava di aggiungere un pezzo alla molecola della
cocaina per aumentarne l’ingombro, in questo caso si tratta di “rompere” la molecola per
renderla inattiva.
Le reazioni di metabolizzazione, ossia di “rottura” della molecola della cocaina,
avvengono grazie all’intervento di alcuni enzimi. Uno di questi in particolare, la
butirrilcolinesterasi, sembra essere particolarmente importante, al punto che si è
osservato che alcuni sintomi dell’intossicazione da cocaina sono meno intensi nei
soggetti nei quali la concentrazione plasmatica di questo enzima è più elevata. Tra l’altro,
l’intervento di questo enzima trasforma la cocaina in una sostanza, l’ecgonina
metilestere, che è dotata di azione vasodilatatoria e che quindi potrebbe esercitare
un’azione protettiva nei confronti dell’effetto di vasocostrizione tipico della cocaina.
La somministrazione di questo enzima potrebbe dunque contrastare gli effetti acuti della
cocaina ma anche essere efficace nel trattamento della dipendenza riducendo l’efficacia
della sostanza e, di conseguenza, l’appetibilità da parte del consumatore (con dubbi
sostanzialmente analoghi, tuttavia, a quelli espressi più sopra relativamente all’efficacia
del vaccino).
L’approccio metabolico appena descritto e quello immunitario (il vaccino) arrivano
addirittura ad incrociarsi nella strategia proposta nel 1993 da alcuni ricercatori della
Columbia University di New York. Essi hanno dimostrato che un anticorpo ottenuto nei
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confronti di un prodotto metabolico della cocaina è in grado di promuovere la stessa
reazione metabolica attivata dalla butirrilcolinesterasi. L’immunizzazione passiva o attiva
contro questo metabolita della cocaina potrebbe dunque incrementare la velocità di
disattivazione e di eliminazione della cocaina stessa.
Diverse sono dunque le strategie che la ricerca farmacologica sta mettendo alla prova e
buone sono le prospettive di ottenere nel prossimo futuro ben più efficaci alternative alle
terapie attuali.
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Cocaina e Rischio di Infarto
Una recente pubblicazione sulla rivista scientifica Circulation di un gruppo di
ricercatori dell´Università di Buffalo negli Stati Uniti ha definitivamente confermato
quanto già da diverso tempo si sapeva, e cioè che esiste una forte correlazione tra l´uso
di cocaina ed il rischio di infarto.
Lo studio, eseguito su un campione di oltre 10.000 soggetti di età compresa tra i 18 e 45
anni, ha rilevato che circa un quarto dei casi di infarto del miocardio che si verificano in
questa fascia di età è attribuibile all´uso frequente di cocaina. Gli autori hanno calcolato
che un consumatore frequente di cocaina ha un rischio di infarto del miocardio circa 7
volte superiore a quello di chi non fa uso della sostanza.
Già diverse ricerche avevano in precedenza documentato casi di ischemia miocardica
(vale a dire insufficiente apporto di sangue al muscolo cardiaco) e di infarto in soggetti
consumatori di cocaina, ma l´aspetto particolarmente interessante di questa recente
pubblicazione è quello di aver per così dire isolato l´effetto della cocaina da quello di altri
fattori, cioè il fumo di sigaretta, l´ipertensione, il diabete, il livello di colesterolo, la
massa corporea. In sostanza dunque, questo studio conferma che l´uso frequente di
cocaina è un importante fattore di rischio per l´infarto miocardico anche in assenza di
altri fattori che predispongono all´infarto.
Una dose normale di cocaina è in grado di aumentare la frequenza cardiaca (pari a circa
30 pulsazioni al secondo) e la pressione arteriosa (di circa 20 mm/hg). Si tratta in realtà
effetti modesti, assimilabili a quelli prodotti da una leggera attività fisica, ma non sono
questi i soli effetti prodotti dalla cocaina sul sistema circolatorio. Diversi e probabilmente
complementari sono i meccanismi in gioco. Uno è l´effetto di vasocostrizione, cioè di
contrazione dei vasi sanguigni, che può arrivare nel caso delle arterie coronarie ad una
riduzione sino al 30% del diametro. Un altro è l´accelerazione del processo di
aterosclerosi (vale a dire la formazione di lesioni o placche a carico delle grandi e medie
arterie che riducono l´elasticità e determinano la restrizione del lume vasale). Ancora,
l´uso di cocaina favorisce la deposizione di piastrine sulla superficie interna vasale e la
conseguente formazioni di trombi (cioè coaguli di cellule ematiche).
In Italia il fenomeno dell´infarto da cocaina è sicuramente sottostimato. Sono infatti
rarissimi i casi di infarto in cui si procede ad analisi tossicologiche per accertare il
consumo di cocaina e spesso l´evento viene imputato ad altri fattori tra quelli
precedentemente citati. In realtà, invece, l´abuso di cocaina deve essere considerato tra le
prime cause di infarto, specie nei casi che si verificano in giovane età.
La cocaina non è l´unica droga d´abuso che provoca effetti dannosi sul sistema
circolatorio. L´ecstasy, ad esempio, provoca un aumento della frequenza cardiaca e della
pressione arteriosa, ed ha così la capacità di slatentizzare preesistenti patologie cardiache.
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Un´azione cardiotossica diretta è stata chiamata in causa per spiegare i casi di morte
improvvisa da abuso di sostanze volatili (solventi, benzine, colle, ecc.).
Molte di queste sostanze sono infatti in grado di rendere più sensibile il tessuto muscolare
cardiaco all´azione delle catecolamine. La conseguente eccessiva stimolazione, specie se
associata ad una situazione di intensa eccitazione motoria ed emozionale (l´esercizio
fisico, l´attività sessuale, una situazione di allarme improvviso), può provocare
fibrillazione ventricolare (cioè una contrazione eccessiva ed incoordinata del muscolo
cardiaco) a cui fa seguito l´arresto cardiaco.
Bibliografia
A.L. Qureshi, M.F. Suri, L.R. Guterman, L.N. Hopkins (2001), Cocaine use and the
likelihood of nonfatal myocardial infarction and stroke: data from the Third National
Health and Nutrition Examination Survey. Circulation,103 (2001):502-6.
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Droga e Gravidanza
E’ assodato che le droghe assunte dalla madre passano attraverso la placenta al feto. Vi
sono evidenze sperimentali sugli animali di laboratorio ed evidenze indirette e dirette
sull’uomo. E’ noto che i neonati da madri che fanno uso di eroina sviluppano, nei primi
giorni di vita la tipica sindrome da astinenza. Recentemente sono stati individuati
indicatori diretti di esposizione durante la gestazione: i capelli, che si sviluppano nella
seconda metà della gravidanza, ed il meconio, vale a dire il contenuto intestinale, le
prime feci del neonato. La presenza di droghe in questi campioni prelevati alla nascita è
un’indicazione certa dell’avvenuta esposizione in utero e spesso anche dell’entità della
stessa.
Quali sono le sostanze che producono lesioni?
La prima sostanza ad azione farmacologica di cui sono stati riscontrati effetti teratogeni
(ossia che sono in grado di alterare il normale sviluppo di un embrione causando
malformazioni nel nascituro) è il famigerato talidomide, un farmaco ad azione ipnotica
che veniva somministrato come sonnifero e per prevenire nausea e vomito in gravidanza.
All’inizio degli anni ‘60 ci si rese conto che il talidomide poteva provocare il mancato
sviluppo delle ossa lunghe degli arti o, addirittura degli arti stessi.
Un teratogeno relativamente potente è l’alcol il cui abuso in gravidanza può indurre la
sindrome fetale-alcolica caratterizzata da anomalie cranio-facciali, alterazioni a livello
cardiaco, danni neurologici, riduzione del peso alla nascita.
Praticamente tutte le sostanze d’abuso hanno un effetto più o meno marcato sullo
sviluppo fetale anche se sono rari i casi di malformazioni grossolane evidenti alla nascita.
Spesso si tratta di un aumento del numero di aborti o della mortalità subito dopo la
nascita, di un aumento delle nascite premature, di una riduzione del peso alla nascita o di
danni funzionali.
In che modo l’uso di droghe durante la gravidanza può produrre danni al feto?
Si sa ancora piuttosto poco sui meccanismi d’azione. In qualche caso l’effetto è quello di
ridurre o rallentare il flusso di sangue attraverso l’arteria ombelicale (è il caso dell’alcol e
della cocaina), il che comporta un minore apporto di ossigeno al feto. In altri casi il
meccanismo è più fine, di interferenza nei sistemi di comunicazione chimica tra le
cellule, fondamentali per un corretto sviluppo fetale.
L’effetto prodotto può dipendere da diversi fattori, tra cui l’entità dell’esposizione ed il
momento, nel corso della gestazione, in cui questa si verifica. Lo sviluppo dei diversi
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organi ed apparati non è omogeneo: alcuni, come ad esempio l’occhio, si sviluppano
precocemente, altri, come l’apparato urogenitale, cominciano a svilupparsi più tardi.
Esistono casi di disturbi funzionali o anomalie comportamentali apparse dopo la
nascita?
Spesso si riscontrano deficit di apprendimento ed anomalie dei comportamenti di
relazione (ad esempio un aumento dell’aggressività). La ricerca si sta orientando in
questa direzione, il problema è che molto difficile verificare un rapporto diretto tra danni
funzionali ed esposizione a droghe del feto. Ci sono infatti altre possibili cause
alternative o complementari. Una è l’effetto dell’ambiente in cui il bambino cresce, che
ha una influenza determinante sullo sviluppo successivo.
Teniamo conto che spesso la situazione familiare di un bambino figlio di
tossicodipendenti, è quanto meno problematica. Un altro aspetto da considerare è il
probabile proseguimento dell’esposizione dopo la nascita, con l’allattamento.
Praticamente tutte le sostanze d’abuso passano, infatti, nel latte.
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Droga e Rischio Infettivo
E’ accertato da numerosi studi che vi è un stretto rapporto tra l’uso di droga e il rischio di
contrarre diverse malattie infettive. Vi sono diverse modalità attraverso le quali l’uso di
droghe può esporre ad un maggiore rischio infettivo.
La prima modalità, quella indubbiamente più pericolosa e sulla quale l’attenzione dei
media in genere maggiormente si concentra, è quella legata alla diffusa pratica dello
scambio di siringhe usate tra i consumatori di sostanze per via endovenosa. Il rischio di
contrarre non solo l’HIV/AIDS ma anche molte altre patologie infettive pericolose quali
epatiti B e C, infezioni batteriche dei vasi circolatori e delle valvole cardiache
(endocarditi) e polmoniti utilizzando una siringa usata è estremamente elevato.
Anche gli effetti che l’uso di droghe (o la loro mancanza) produce sul comportamento
possono tuttavia determinare un aumento del rischio di esposizione a malattie infettive.
Ad esempio, l’uso abituale di eroina e la necessità irrefrenabile di procurarsi questa droga
portano spesso a sottostimare il pericolo delle infezioni trasmesse attraverso i rapporti
sessuali (rapporti sessuali non protetti, prostituzione). L’effetto “empatico” dell’ecstasy e
dei suoi derivati, vale a dire l’accresciuta confidenza con gli altri, la rimozione delle
barriere emotive e comunicative che queste sostanze producono, può quanto meno
contribuire a sottostimare il rischio di un rapporto sessuale non protetto. La temporanea
riduzione della capacità di giudizio prodotta dai cannabinoidi (e da altre droghe) può
rendere difficili valutazioni sul proprio comportamento sessuale tempestive e, soprattutto,
improntate alla sicurezza propria e degli altri.
Una terza possibilità è quella che le sostanze d’abuso producano un danno diretto sul
sistema immunitario. Nel caso della marijuana e dell’hashish, studi su animali di
laboratorio e su cellule umane coltivate in vitro hanno dimostrato la capacità di produrre
un effetto generale di soppressione del sistema immunitario e cioè, in sostanza, di
indebolire la risposta immunitaria dell’organismo esponendolo maggiormente allo
sviluppo di malattie in caso di infezione. Danni diretti sul sistema immunitario sarebbero
causati anche dagli alchil nitriti (altrimenti noti come “popper”), sostanze che vengono
sniffate dalla popolazione maschile per i loro presunti effetti afrodisiaci. Queste sostanze
sarebbero infatti in grado di prolungare la sensazione di orgasmo secondo un
meccanismo combinato di rallentamento della percezione del tempo e di rilassamento
della muscolatura liscia che previene la contrazione delle vescicole seminali. L’abuso di
popper a scopo afrodisiaco è spesso associato a comportamenti sessuali a rischio e la
combinazione tra questi e gli effetti diretti sul sistema immunitario spiegherebbe la
maggiore incidenza, tra i consumatori di popper, di casi di infezione da HIV e di sarcoma
di Kaposi, una forma tumorale che si manifesta a livello della pelle e delle mucose.
Ancora, bisogna considerare che la sintesi o la raffinazione, la conservazione, le stesse
operazioni di “taglio” delle droghe vengono eseguite generalmente con mezzi artigianali
e in assenza di controlli igienici. Di conseguenza la sostanza può essere contaminata
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durante le fasi di lavorazione e veicolare indirettamente patologie infettive nel caso di
assunzione per via orale o endovenosa.
Non si può fare a meno, in questo ambito, di considerare anche la situazione opposta,
vale a dire il potenziamento degli effetti tossici di una droga causato da malattie infettive.
Certo, un organismo debilitato da una malattia infettiva è necessariamente più esposto
agli effetti tossici delle droghe, ma non si tratta solo di questo. Si tratta dell’azione che
alcuni farmaci anti-virali esercitano sulle capacità che l’organismo ha di “disattivare” una
sostanza introdotta nell’organismo. Alcuni farmaci inibitori delle proteasi dell’HIV-1,
infatti, sono in grado di ridurre la velocità di disattivazione e di eliminazione dell’ecstasy
dall’organismo, prolungando la presenza di questa sostanza nel circolo sanguigno e gli
effetti che ne possono conseguire.
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Una Droga per tutte le Occasioni: il GHB
GHB, liquid X, Gamma-oh, Scoop, sono solo alcuni dei nomignoli utilizzati nel mercato
illecito delle sostanze stupefacenti per l’acido gammaidrossibutirrico. A dispetto del
nome complesso e altisonante si tratta di una piccola molecola, un acido grasso a catena
corta, che deve il suo successo ad una estrema versatilità: via via negli anni è stato infatti
utilizzato come regolatore del metabolismo energetico, anabolizzante, anestetico,
induttore del sonno, afrodisiaco e allucinogeno.
La sua popolarità si è però fermata una decina di anni fa con la scoperta negli Stati Uniti
di una diffusione dell’abuso e degli effetti tossici correlati. In Italia alla fine del 1999 ne è
stato limitato il commercio, la vendita e l’uso ricomprendendolo tra le sostanze soggette a
restrizioni ai sensi del D.P.R. 309/90 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina
degli stupefacenti e sostanze psicotrope), ma la sentenza del TAR del Lazio del 26 marzo
2001 ha annullato le restrizioni destinate all’unica specialità medicinale a base di GHB
prodotta nel nostro paese. La sentenza del TAR non è stata tuttavia ancora recepita e non
è stato ad oggi emanato alcun decreto di annullamento.
Cos’è il GHB
E’ una molecola presente naturalmente nell’organismo dei mammiferi, distribuita
soprattutto nel cervello, ma anche in diversi organi e tessuti (reni, cuore, muscolatura e
tessuto adiposo). Le sue funzioni fisiologiche sono sicuramente complesse ma ancora
oggi poco chiare: si sa che è un precursore e un prodotto di degradazione del
neurotrasmettitore con funzione inibitoria GABA, senza tuttavia possedere delle azioni
dirette sui suoi recettori.
La sua assunzione provoca, attraverso meccanismi ancora in gran pare sconosciuti,
variazioni dei livelli di dopamina, serotonina e acetilcolina, tre molecole responsabili del
trasporto degli impulsi nervosi che sono alla base del funzionamento del cervello. Sembra
che il GHB aiuti a prevenire i danni cellulari dovuti alla carenza dell’ossigeno necessario
alla respirazione, attraverso una riduzione della richiesta di ossigeno da parte delle cellule
e che provochi una riduzione della produzione di radicali liberi e una riduzione della
risposta infiammatoria.
La sua storia comincia nei primi anni ’60, quando viene sintetizzato da un ricercatore
francese che ne individua la presenza nel cervello. Diviene presto un farmaco di successo
e per qualche anno viene prescritto, soprattutto in Europa, come anestetico generale, nel
trattamento dei disordini del sonno, per ridurre la drammaticità della sindrome da
astinenza da alcool e addirittura somministrato durante il parto dove, per la sua capacità
di provocare rilassamento della muscolatura, sembra adatto ad alleviare i dolori e favorire
la dilatazione del collo dell’utero.
23
Negli anni ’80 tuttavia il suo consumo comincia a diffondersi in ambiti meno ufficiali: il
GHB diviene ben presto una sostanza utilizzata in palestre e fitness center in virtù di
presunte attività anabolizzanti (sembra che sia uno stimolatore dell’ormone della crescita,
aiuti a perdere peso e ad aumentare il volume muscolare) e pochi anni dopo si diffonde,
per le proprietà allucinogene, come vera e propria sostanza d’abuso. Viene assunto in
occasione di rave party e nelle discoteche come sostituto di alcool, ecstasy e amfetamine
oltre che utilizzato a dosi più elevare come anestetico per rendere incoscenti le vittime di
stupri o di furti che al risveglio non ricordano di aver subito l’assalto.
Gli effetti stupefacenti
L’assunzione di GHB produce uno stato piacevole di rilassamento e tranquillità, aumento
della sensualità, moderata euforia e tendenza alla loquacità; effetti molto simili a quelli
dell’alcool, ma con il vantaggio dell’assenza del classico malessere post-sbornia. Le
sensazioni piacevoli compaiono una mezz’ora dopo il consumo, scompaiono dopo circa
tre ore e possono essere prolungate ripetendo l’assunzione.
Ma ogni medaglia ha il suo rovescio, gli effetti sono dose-dipendenti e basta un piccolo
aumento della quantità assunta per ottenere un loro forte incremento, a ciò va aggiunto
che la distanza tra dose stupefacente e tossica è assai breve: da un effetto di piacevole
stordimento si può passare inconsapevolmente e rapidamente a uno stato di incoscenza, al
quale possono seguire convulsioni, vomito e depressione respiratoria, sino ad arrivare al
coma e in casi estremi alla morte.
Difficilmente l’assuntore conosce la quantità di principio attivo che sta consumando, il
GHB viene infatti sintetizzato senza particolari difficoltà utilizzando ricette disponibili
via internet che richiedono ingredienti facilmente reperibili anche dagli adolescenti. Si
ottiene una polvere bianca, insapore, assunta per bocca con un cucchiaino in quantità di
1-2 grammi (da mezzo a due cucchiaini), ma nella quale è contenuta una concentrazione
di sostanza pura non nota, oppure viene disciolto in quantità variabili di acqua e
distribuito in bottigliette di plastica simili a quelle utilizzate per lo shampoo negli hotel.
E’ quindi chiaro che l’utilizzatore non sa quanto principio attivo sta assumendo, e non ha
la possibilità di rendersi conto che sta raggiungendo quantità compatibili con un
avvelenamento.
La tossicità del GHB aumenta poi se viene assunto in associazione con altre sostanze
neurodeprimenti, come ad esempio l’alcool, l’eroina o farmaci antiepilettici che ne
amplificano gli effetti sul cervello.
La potenzialità tossicomanica di questa sostanza è poi aggravata dal fatto che provoca
dipendenza: quando si è instaurata l’abitudine ad assumere è difficile smettere e la
dismissione dell’uso conduce ad una sindrome d’astinenza caratterizzata da insonnia,
ansia, tremori e crampi muscolari.
24
Ora si cerca di correre ai ripari
In seguito ai primi episodi di intossicazione avvenuti negli Stati Uniti nel ’90 l’organismo
americano di controllo su farmaci ed alimenti FDA (Food and Drug Administration) ha
vietato la sua produzione. Nonostante ciò la diffusione di laboratori clandestini è
aumentata e oggi l’abuso di GHB rappresenta un preoccupante fenomeno negli Stati
Uniti, associato al fiorire di un mercato parallelo di gamma-butirrolattone (GBL) e, in
tempi più recenti, di 1,4-butanediolo (1,4-BD): due solventi industriali di facile
reperibiltà che hanno la duplice valenza di ingredienti utilizzati nei laboratori casalinghi
per la sintesi del GHB e di sostanze che una volta assunte vengono rapidamente
trasformate dall’organismo in questa molecola. Per questi motivi recentemente anche la
vendita e la produzione di queste due sostanze è stata regolamentata.
In Italia nel 1991 l’azienda farmaceutica Laboratorio Farmaceutico C.T. S.R.L. ha
commercializzato un preparato a base di acido gammaidrossibutirrico come specialità
medicinale denominata Alcover. Le sue indicazioni terapeutiche sono legate al controllo
della sindrome da astinenza da alcol etilico e della fase iniziale dell’alcoldipendenza.
Sulla scia delle conoscenze acquisite a livello internazionale riguardo alla diffusione
dell’abuso, con decreto del 10 novembre 1999, GHB e GBL sono stati inseriti nella prima
tabella delle sostanze stupefacenti del D.P.R. 309/90, che ricomprende anche ad esempio
eroina, cocaina e ecstasy. Una settimana più tardi, con decreto del 16 novembre 1999,
anche l’Alcover è stato sottoposto alle stesse restrizioni previste per la sostanza pura.
Tuttavia la ditta farmaceutica produttrice ha presentato ricorso innanzi al TAR (Tribunale
Amministrativo Regionale) del Lazio contro il Ministero della Sanità e il Ministero della
Giustizia richiedendo l’annullamento dei due decreti e quindi la riabilitazione del
farmaco Alcover e, indirettamente, la liberalizzazione della sostanza pura che, in assenza
di normativa specifica, potrebbe essere assunta e distribuita liberamente da chiunque. Il
TAR si è pronunciato nel marzo del 2001 accogliendo le richieste del ricorrente solo per
quanto attiene al farmaco, il composto GHB resta invece nella tabella delle sostanze
stupefacenti e psicotrope di cui al decreto 309/90. A tutt´oggi, tuttavia, nessun intervento
legislativo ha recepito l’ordine impartito dal TAR con la sentenza del 26 marzo 2001,
quindi l´Alcover allo stato attuale resta nella I tabella delle sostanze stupefacenti assieme
al GHB.
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I Pericoli del Metadone
E’ possibile che il metadone, somministrato a scopo terapeutico, provochi invece
un’intossicazione o addirittura la morte? L'articolo esamina il potenziale tossico del
metadone ed individua le ragioni della pericolosità di questa sostanza all'inizio di una
terapia di disintossicazione dall'eroina.
Se il metadone sia o meno uno strumento efficace nella cura della tossicodipendenza da
eroina è un problema da lungo tempo dibattuto. Gli studi epidemiologici effettuati
indicano in maniera abbastanza chiara che la somministrazione del metadone può ridurre
la pericolosità sociale (riduzione dell’attività criminale) nonché i rischi per la salute
(riduzione del rischio di iniezione, riduzione della mortalità) del consumatore abituale di
eroina. E’ altrettanto assodato che un tossicodipendente da eroina in trattamento con
metadone incide molto meno sui costi sostenuti dalla comunità di un consumatore attivo
di eroina o di un detenuto per reati connessi all’uso di sostanze stupefacenti.
Quanto invece il metadone sia efficace nel liberare del tutto il consumatore di eroina
dalla schiavitù della droga e soprattutto nel realizzare un suo completo reinserimento
sociale e professionale è ben più difficile da dimostrare, anche perché diversi sono i
fattori che entrano in gioco, sia di natura intrinseca (la dose somministrata, la durata del
trattamento farmacologico), sia estrinseci. Tra questi ultimi un ruolo determinante è
comunque giocato dalle attività di supporto psicologico, medico, sociale e professionale
che molti indicano come essenziali per una buona riuscita della terapia di riabilitazione.
La domanda che in questa sede ci si pone è però un’altra: è pericoloso il metadone? E’
possibile, cioè, che il metadone somministrato con finalità terapeutiche provochi invece
un’intossicazione o addirittura la morte?
La risposta è sì. Alcuni ricercatori hanno messo in evidenza come tra le intossicazioni
mortali da metadone, non poche - circa un terzo - sono quelle che avvengono all’inizio di
un trattamento sostitutivo dell’eroina. In particolare, un gruppo di ricercatori australiani
ha calcolato in uno studio retrospettivo che il rischio relativo di morte per intossicazione
nei soggetti all’inizio di una terapia sostitutiva con metadone è più elevato del rischio di
morte per overdose di eroina nei soggetti non in trattamento. Una volta superata la fase
iniziale di trattamento, invece, il rischio di morte si riduce divenendo significativamente
inferiore a quello di intossicazione mortale nei consumatori di eroina non in trattamento
terapeutico.
Cosa rende il metadone così pericoloso all’inizio di un trattamento terapeutico? Diverse,
e tutte valide sono le spiegazioni. Analizziamole nel dettaglio.
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La tolleranza
Il metadone, esattamente come l’eroina e le altre sostanze appartenenti alla classe degli
oppiacei, produce assuefazione, una sorta di progressivo adattamento dell’organismo agli
effetti della sostanza, sia a livello dell’organo su cui agisce - il cervello - sia a livello dei
sistemi coinvolti nella trasformazione metabolica della sostanza stessa e quindi nella sua
disattivazione. A causa di questi fenomeni adattativi la stessa dose avrà nel tempo un
effetto progressivamente minore oppure, che è lo stesso, sarà necessario aumentare
progressivamente la dose per ottenere il medesimo effetto. L’organismo è dunque in
grado di aumentare, con l’uso, la tolleranza nei confronti della sostanza.
Poiché i meccanismi biologici che sono alla base del fenomeno della tolleranza sono i
medesimi per tutte le sostanze oppiacee, chi assume frequentemente eroina è anche in
grado di tollerare bene dosi relativamente elevate di metadone e viceversa. Inoltre, la
tolleranza è un fenomeno reversibile: chi interrompe l’uso di eroina o di metadone perde,
in un tempo anche relativamente breve - un paio di settimane di astinenza sono sufficienti
- la tolleranza. La perdita della tolleranza è considerata tra le più importanti cause di
morte per eroina. Infatti, chi, dopo un periodo di astinenza volontario (ad es. una terapia
di disintossicazione dall’eroina) o forzoso (ad es. un periodo di detenzione in carcere)
riprende a fare uso di eroina, tenderà ad assumere le stesse dosi che prendeva prima di
smettere pur non essendo più in grado di tollerarle ed incorrendo quasi certamente negli
effetti tossici della sostanza.
E’ estremamente difficile per il medico che prende in cura un consumatore di eroina
stabilire il grado di tolleranza sviluppato dal soggetto e, quindi, il dosaggio minimo di
metadone sufficiente a impedire il manifestarsi della crisi da astinenza senza incorrere
negli effetti tossici della sostanza, effetti che poi sono gli stessi prodotti dall’eroina
(depressione dei centri del respiro e del sistema cardio-circolatorio).
La sola anamnesi (l’esame della storia clinica del paziente) non è in grado di fornire
informazioni sufficienti e può essere al contrario fuorviante. Soggetti noti per essere
consumatori di eroina da parecchi anni possono avere smesso recentemente di assumere
la sostanza ed avere perduto o significativamente ridotto la tolleranza. Anche il fatto che
un soggetto faccia richiesta di intraprendere un trattamento metadonico non implica
necessariamente che si tratti di un consumatore abituale di eroina e che quindi sia dotato
di buona tolleranza. L’esperienza ha dimostrato che a volte la richiesta di metadone viene
fatta da soggetti non tossicodipendenti o comunque con esperienze del tutto occasionali
con l’eroina.
La diagnosi di uso abituale di eroina può e deve basarsi, oltre che sull’anamnesi, anche su
elementi oggettivi che indichino in modo inequivocabile l’attualità dell’uso: segni di
assunzione abituale della sostanza; sintomi fisici e psichici di intossicazione in atto;
sindrome di astinenza in atto; presenza di sostanze stupefacenti e/o loro metaboliti nei
liquidi biologici e/o nei tessuti. Questi elementi sono tutti indicati nel Decreto
Ministeriale 12 luglio 1990, n. 186 il quale tuttavia stabilisce che è sufficiente il riscontro
di uno solo dei citati elementi per effettuare la diagnosi di uso abituale. E’ invece ferma e
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fondata opinione di chi scrive che una diagnosi di uso abituale di eroina eseguita in
maniera superficiale, incompleta od imprecisa e la conseguente prescrizione di dosi di
metadone eccedenti il grado di tolleranza espongono il paziente ai possibili effetti tossici,
a volte ad esito letale, del metadone.
L’accumulo
Il metadone presenta alcune caratteristiche che rendono concreto il rischio che la sostanza
si accumuli nell’organismo e che manifesti in tempi successivi i suoi effetti tossici.
Queste sono la piuttosto prolungata emivita plasmatica (ossia il tempo necessario perché
la concentrazione della sostanza nel sangue si riduca della metà) che raggiunge
mediamente le 25 ore e che è evidentemente maggiore, per quanto scritto in precedenza,
nei soggetti non tolleranti, e la latenza con cui il metadone somministrato per ingestione
raggiunge i livelli massimi nel sangue (in media 4 ore).
Considerato che il metadone viene tipicamente somministrato una volta al giorno, al
momento della seconda somministrazione, a causa della prolungata emivita plasmatica,
sarà ancora presente nel sangue una non trascurabile quantità di sostanza residua dalla
assunzione precedente con conseguente progressivo accumulo e la probabile insorgenza
di manifestazioni tossiche in soggetti non tolleranti. Non è raro, infatti, negli episodi di
intossicazione mortale che si verificano all’inizio di un trattamento metadonico che la
morte avvenga non già dopo la prima dose somministrata, ma dopo la seconda o
addirittura la terza dose.
La prolungata permanenza del metadone nell’organismo, notevolmente maggiore di
quella dell’eroina e della morfina (l’emivita plasmatica di quest’ultima e di circa 2-3 ore),
spiega anche come l’intossicazione acuta da metadone rivesta i caratteri di una maggiore
pericolosità rispetto ad una overdose di eroina. La terapia dell’avvelenamento acuto da
oppiacei si basa sull’impiego di un antidoto specifico molto efficace, il Narcan
(Naloxone). La somministrazione tempestiva di Narcan permette in genere il recupero
rapido e completo del paziente in overdose, paziente che, una volta ripresosi,
generalmente cerca di abbandonare l’ospedale o l’unità di soccorso. Il problema è tuttavia
che la durata dell’effetto del Narcan è piuttosto breve, sicuramente più breve di quella
dell’eroina, ed ancora più breve di quella del metadone, ed è possibile che una volta
cessata l’azione dell’antidoto il paziente ritorni sotto l’effetto della sostanza (eroina o
metadone) che aveva causato l’intossicazione. Per questo motivo è consigliabile, dopo la
somministrazione di Narcan, rimanere sotto osservazione del personale sanitario per
almeno alcune ore nel caso di avvelenamento da eroina e per almeno 24 ore nel caso di
avvelenamento da metadone. E’ compito specifico del medico informare il paziente sui
rischi a cui va incontro abbandonando l’ospedale prima del termine del periodo di
osservazione.
Il fatto poi che il picco di concentrazione si verifichi a distanza di circa quattro ore dalla
somministrazione spiega il ritardo con cui gli effetti tossici del metadone spesso si
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manifestano. Questa latenza è inoltre all’origine della difficoltà di stabilire un rapporto
causale tra la somministrazione di metadone e l’episodio di intossicazione, letale o meno.
Il “poliabuso”
Tra i consumatori di eroina il cosiddetto fenomeno del poliabuso, cioè della assunzione
assieme all’eroina anche di altre sostanze d’abuso (ad esempio l’alcol, gli psicofarmaci, o
anche altre sostanze stupefacenti come cocaina, amfetamine, ecstasy, ecc.) è piuttosto
frequente. Si tratta di una pratica molto pericolosa perché all’azione dell’eroina si viene
ad aggiungere quella delle altre sostanze assunte ed il rischio di intossicazione può
aumentare significativamente.
Gli studi epidemiologici indicano in maniera piuttosto chiara che la terapia metadonica di
mantenimento è in grado di ridurre ma non di eliminare completamente l’uso di eroina
e/o di altre sostanze d’abuso. Ad esempio, in uno studio condotto su un gruppo di 109
pazienti in trattamento metadonico ambulatiorale, il 71% degli intervistati ha dichiarato
di aver fatto uso di eroina nei 3 mesi precedenti l’intervista, e 22 di questi soggetti ha
affermato di avere fatto uso quotidiano della sostanza. I test sui capelli eseguiti per
accertare il consumo recente di droghe d’abuso in un gruppo di pazienti in trattamento
metadonico hanno evidenziato che nel corso degli ultimi 3-4 mesi di trattamento circa i
tre quarti dei soggetti erano stati esposti all’eroina, alla cocaina o ad entrambe le droghe.
Soprattutto all’inizio di un trattamento la probabilità che un paziente continui ad
assumere, oltre al metadone, eroina e/o le sostanze che era solito assumere in precedenza
è dunque particolarmente elevata ed è anche in questo caso indispensabile che il medico
curante informi il paziente in modo completo ed esauriente della pericolosità di questa
evenienza.
Il rischio di intossicazione cosiddetta “mista” permane anche nelle fasi successive del
trattamento metadonico se è vero che tra le intossicazioni mortali da metadone sono più
frequenti quelle miste rispetto a quelle pure, vale a dire causate dal solo metadone.
Un altro potenziale pericolo legato all’uso del metadone nella terapia sostitutiva
dell’eroina e che tuttavia non riguarda la fase iniziale del trattamento bensì le fasi più
avanzate, è quello legato al problema dell’affido domiciliare. Per i pazienti che hanno
dimostrato di poter fornire garanzie di attendibilità (tra cui la prolungata astinenza
dall’uso di stupefacenti, l’inserimento in una attività formativa o lavorativa, l’assenza di
attività criminale) la legge prevede, a giudizio del medico, l’affidamento a domicilio di
più di una dose giornaliera di metadone (sino ad un massimo di 7) allo scopo sia di
evitare al paziente la visita quotidiana al servizio, sia di contenere i costi della terapia
stessa. Pur non volendo entrare nel merito della efficacia di questa pratica, occorre
registrare la possibilità che il paziente non rispetti la posologia, e cioè che possa assumere
una dose giornaliera superiore a quella prescritta. Nella letteratura scientifica sono
descritti inoltre casi di intossicazione di familiari di soggetti in terapia metadonica con
29
affido domiciliare (ed in particolare di bambini) che hanno assunto accidentalmente
metadone trovato in casa.
Le statistiche indicano che nel nostro paese la morte per avvelenamento da metadone è
un evento abbastanza raro (nel periodo 1991-96 i casi di decesso per avvelenamento da
metadone sono stati pari allo 0,5% delle morti da droga) anche se tendente all’aumento
[9]. A questo proposito occorre tuttavia sottolineare come tutt’altro che facile sia
effettuare una corretta diagnosi di avvelenamento da metadone. La già citata latenza con
cui gli effetti tossici del metadone si possono manifestare e la sostanziale impossibilità di
discriminare, in mancanza di specifiche analisi tossicologiche - in molti casi non richieste
dall’autorità giudiziaria - tra un avvelenamento da eroina ed un avvelenamento da
metadone inducono il fondato sospetto che alcuni casi di avvelenamento mortale da
metadone sfuggano alla diagnosi.
30
Sull'Uso Terapeutico della Cannabis
In India e nel Medio Oriente la Cannabis (canapa) è stata impiegata per lungo tempo a
scopo terapeutico come analgesico, anticonvulsivante, antispastico, antiemetico ed
ipnotico. L’uso terapeutico della canapa fu introdotto in Europa, ed in particolare in
Inghilterra, attorno alla metà del diciannovesimo secolo e proseguì sino ad incontrare un
significativo declino verso la fine del secolo, quando la ricerca farmacologica rese
disponibili sostanze pure, somministrabili in dosi standardizzate e quindi dagli effetti più
controllati quali gli oppiacei (es. morfina), l’acido salicilico ed i suoi derivati (es.
aspirina), il cloralio idrato, i barbiturici.
L’isolamento, avvenuto solo nel 1964, del principale ingrediente attivo della canapa, il
delta-9-tetraidrocannabinolo (THC), rivitalizzò la ricerca farmacologica sui cannabinoidi.
Questa però incontrò un grosso ostacolo proprio in conseguenza della diffusione,
avvenuta alla fine degli anni ’60, dell’abuso della canapa come sostanza stupefacente e
della legislazione resasi necessaria per la sua regolamentazione.
L’identificazione, negli anni ’80, di recettori dei cannabinoidi nel cervello e la recente
scoperta di cannabinoidi endogeni, quali l’anandamide ed il 2-arachidonoil glicerolo, ha
dato nuovo impulso alla ricerca sulla efficacia terapeutica dei cannabinoidi. Due sono gli
obbiettivi che attualmente rivestono maggiore interesse per i ricercatori: quello della
verifica e della misura dell’efficacia dei cannabinoidi nel trattamento di diverse patologie
e quello dell’individuazione di sostanze di sintesi che, a fronte di una provata efficacia
terapeutica, rendano invece minimi gli effetti psicoattivi tipici dei cannabinoidi oggi noti.
Sul piano dell’efficacia terapeutica dei cannabinoidi occorre rilevare che le informazioni
attualmente disponibili sono piuttosto confuse per non dire contraddittorie. Nella
letteratura si ritrovano spesso, accanto a ricerche cliniche controllate e convalidate, studi
viziati da più o meno importanti difetti di progetto e quindi inutilizzabili per una
valutazione corretta ed imparziale, rapporti aneddotici e per tale motivo non verificabili,
nonché posizioni preconcette determinate più dall’orientamento ideologico, di segno sia
proibizionistico sia antiproibizionistico, che da una conoscenza reale ed approfondita
dell’argomento.
A fare un po’ chiarezza giungono ora due rassegne bibliografiche di recentissima
pubblicazione sulla autorevole rivista British Medical Journal. Le due rassegne,
realizzate da un gruppo di ricercatori svizzeri ed inglesi, si sono prefisse di valutare,
attraverso l’esame degli studi clinici sinora realizzati, l’efficacia dei cannabinoidi nella
terapia del dolore e nella terapia della nausea e del vomito indotti dalla chemioterapia
antitumorale.
Nel primo caso sono stati presi in considerazione studi clinici eseguiti con diversi
cannabinoidi, tra cui il THC, un suo analogo sintetico azotato (NIB), la
benzopiranoperidina ed il levonantradolo. Per poter essere inclusi nella valutazione gli
31
studi clinici dovevano prevedere, tra l’altro, un confronto controllato e randomizzato con
un altro analgesico, oppure con placebo. In 8 dei 9 studi considerati i cannabinioidi si
sono rivelati più efficaci del placebo ma non più efficaci della codeina (50-120 mg),
mentre uno studio su 37 pazienti ha evidenziato che la benzopiranoperidina, un
congenere del THC, non è stata altrettanto efficace della codeina nel trattamento del
dolore e comunque non più efficace del placebo. Una singola dose di cannabinoidi può al
più realizzare una analgesia equivalente a quella della codeina, una analgesico
sicuramente non dei più potenti, soprattutto a confronto con alcuni farmaci
antiinfiammatori non steroidei (es. naprossene).
In 6 studi su 9 sono inoltre stati riscontrati effetti indesiderati ed avversi dei cannabinoidi,
in qualche caso severi, caratterizzati prevalentemente da depressione del sistema nervoso
centrale (sonnolenza, sedazione). Sulla base di questa valutazione gli autori della
rassegna concludono che è improbabile che i cannabinoidi attualmente noti siano in
grado di sostituire le terapie del dolore già disponibili, pur non escludendo che la
possibile individuazione di nuovi e più efficaci cannabinoidi nei quali l’azione analgesica
sia dissociata da quella psicotropa possa aprire in futuro nuove prospettive.
La seconda rassegna era, come già anticipato, volta a valutare l’efficacia dei cannabinoidi
come antiemetici, vale a dire come farmaci per la prevenzione della nausea e del vomito,
nei pazienti sottoposti a chemioterapia. La rassegna, effettuata con i medesimi criteri
della precedente, ha riscontrato che i cannabinoidi (THC, nabilone e levonantrololo) sono
leggermente più efficaci degli antiemetici convenzionali (es. metoclopramide,
proclorperazina) e che i pazienti tendono generalmente a preferirli a questi. Anche in
questo caso gli effetti indesiderati prodotti dai cannabinoidi (sonnolenza, sedazione,
euforia, depressione, paranoia, allucinazioni) sono stati più frequenti che non nel caso di
altri farmaci antiemetici di confronto: in 19 studi su 30 il numero di pazienti che hanno
interrotto la sperimentazione a causa degli effetti indesiderati è stato significativamente
superiore per i cannabinoidi. La conclusione degli autori è che, a fronte della maggiore
efficacia, il frequente riscontro di effetti indesiderati, riscontrabili anche nell’impiego a
breve termine e per via intramuscolare dei cannabinioidi, limiterà probabilmente la
diffusione dell’impiego di queste sostanze nel trattamento della nausea e del vomito
indotti dalla chemioterapia.
Più utile, anche secondo il parere degli stessi autori delle rassegne bibliografiche citate,
appare invece indirizzare la ricerca nei confronti del possibile impiego dei cannabinoidi
nel trattamento sintomatico del tremore e della spasticità muscolare che colpiscono ad
esempio i malati di sclerosi multipla ed i pazienti affetti da morbo di Parkinson, ambiti
questi in cui la necessità di terapie efficaci è indiscutibilmente maggiore. Diversi studi
sperimentali convergono infatti nel dimostrare l’efficacia dei cannabinoidi, sia esogeni,
sia endogeni, nel trattamento di queste patologie anche se a tutt’oggi mancano al riguardo
sperimentazioni cliniche di dimensioni adeguate sotto il profilo del numero di soggetti
coinvolti.
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Un’ultima considerazione si rende necessaria per poter delineare un quadro completo
delle conoscenze sul potenziale terapeutico della Cannabis. Tutti gli studi più accreditati
in argomento, vale a dire quelli effettuati con criteri oggettivi e verificabili, si riferiscono
all’impiego di sostanze pure (naturali o sintetiche) somministrate in modo controllato ed
in dosi misurate. Solo in tal modo è infatti possibile una corretta valutazione, anche sul
piano quantitativo, degli effetti positivi e negativi dei cannabinoidi. Situazione in ogni
caso ben diversa da quella di una assunzione incontrollata come quella che si realizza
fumando una sigaretta di canapa in cui moltissimi fattori, tra cui ad esempio la stessa
esperienza del fumatore, influiscono sulla dose di THC effettivamente assunta e quindi
sugli effetti desiderati ed indesiderati prodotti.
Bibliografia
F.A. Campbell et al. (2001), Are cannabinoids an effective and safe treatment option in
the management of pain? A qualitative systematic review. BMJ, 323:13-18,
<http://bmj.com/cgi/content/full/323/7303/13?view=full&pmid=11440935>.
M.R. Tramer et al. (2001), Cannabinoids for control of chemotherapy induced nausea
and vomiting: quantitative systematic review. BMJ, 323:16-24,
<http://bmj.com/cgi/content/full/323/7303/16?view=full&pmid=11440936>.
33
Ritalin: Farmaco Efficace o Nuovo Fenomeno di Abuso?
La recente registrazione del Ritalin da parte del Dipartimento del Farmaco del Ministero
della Salute ha suscitato un vivo dibattito, tra addetti ai lavori e non, sulla reale efficacia
terapeutica di questo farmaco, sugli eventuali danni per la salute conseguenti ad un suo
paventato impiego troppo disinvolto e sul potenziale di abuso che caratterizza la sostanza
che ne costituisce il principio attivo, vale a dire il metilfenidato.
Dibattito che, come spesso avviene nel caso degli argomenti in qualche modo legati alle
sostanze d´abuso, si fonda più su convinzioni ideologiche che su una conoscenza
approfondita del problema. Nel caso del Ritalin-metilfenidato c´è un aspetto particolare
che contribuisce non poco a rendere gli animi ancora più accesi e cioé il fatto che la
malattia che la terapia farmacologica con metilfenidato si propone di curare, vale a dire il
Disturbo da Deficit dell´Attenzione e da Iperattività (Attention Deficit and Hyperactivity
Disporder, ADHD, nella terminologia anglosassone), si riscontra in maniera prevalente
nei bambini e negli adolescenti.
Due posizioni estreme si scontrano: quella di chi sostiene a spada tratta la terapia
farmacologica dell´ADHD ed i suoi effetti positivi sul comportamento e sul rendimento
scolastico dei bambini che sono affetti da questa malattia e quella di chi alla terapia
farmacologica si oppone preoccupandosi da un lato per la somministrazione di una
sostanza psicoattiva (vale a dire che produce effetti sulla psiche) a soggetti che si trovano
in una fase di pieno sviluppo del tessuto cerebrale e dall´altro per la possibilità che
diagnosi superficiali e disinvolte possano portare ad eccessi nelle prescrizioni, ed a
somministrare così il farmaco anche a chi non ne avrebbe effettivo bisogno.
Cerchiamo di approfondire la questione. Prima di tutto cos´è il metilfenidato? Si tratta di
una sostanza individuata da un chimico italiano in forza presso l´industria farmaceutica
svizzera CIBA negli anni ´40. In Italia è stato utilizzato come anoressizzante (cioé per
sopprimere la sensazione di fame nelle cure dimagranti) e nel trattamento dell´epilessia.
Nel 1989 il farmaco fu ritirato dal commercio dalla stessa ditta produttrice in
conseguenza della sua inclusione tra le sostanze considerate stupefacenti dalla
legislazione italiana. Attualmente il metilfenidato è infatti classificato nella I tabella delle
sostanze stupefacenti e psicotrope (D.P.R. 309/90), non diversamente cioè dalle più
importanti droghe d´abuso (amfetamina, ecstasy, eroina, morfina, cocaina).
Dal punto di vista chimico il metilfenidato presenta non poche analogie con la struttura
dell´amfetamina. Si tratta di una sostanza stimolante la cui azione sul sistema nervoso
centrale è descritta come più potente di quella della caffeina e meno potente di quella
della amfetamina. Il metilfenidato è in grado di determinare un aumento dell´attenzione e
di diminuire l´irrequietezza in bambini e adulti affetti da ADHD, anche se Il meccanismo
di azione sul sistema nervoso centrale non è ancora chiarito. Si sa, tuttavia, che il
metilfenidato è in grado di interferire nell´azione di un importante neurotrasmettitore, la
dopamina. Analogamente alla cocaina, infatti, il metilfenidato è in grado di inibire il
34
riassorbimento di dopamina a livello dei terminali presinaptici, producendo un´aumento
della concentrazione extracellulare di dopamina e la conseguente sovrastimolazione delle
vie nervose dopaminergiche.
Da diversi anni il Ritalin è utilizzato negli Stati Uniti per il trattamento dell´ADHD,
condizione patologica definita come iperattività e difficoltà di controllo degli impulsi
causata dalla mancata soppressione degli stimoli sensoriali irrilevanti. Il problema è che i
sintomi manifestati dai portatori di questa malattia (ad es. incapacità di prestare
attenzione ai dettagli, difficoltà a mantenere la concentrazione, ad ascoltare, ad eseguire
istruzioni, ad organizzarsi, difficoltà a rimanere seduti, a svolgere attività tranquille,
agitazione motoria, eccessiva loquacità, difficoltà ad aspettare o rispettare i turni) sono
piuttosto vaghi, difficili da riconoscere obbiettivamente e, soprattutto, si possono
manifestare in qualunque bambino, anche il più normale. D´altra parte, l´estemporaneo
manifestarsi di questi sintomi non è sufficiente per fare una diagnosi di ADHD ma è
necessario che essi siano presenti sempre, in tutti i contesti e che si siano presentati già in
età prescolastica. Ciò non toglie che proprio questa sintomatologia vaga possa prestarsi a
valutazioni superficiali ed a diagnosi imprecise con il rischio concreto di scambiare per
malattia la vivacità e la creatività che naturalmente si riscontrano nei bambini.
A favore di questa ipotesi è il significativo, per non dire vertiginoso, aumento delle
prescrizioni di Ritalin nel Nord America negli ultimi anni. Nella Columbia Britannica
(Canada), ad esempio, mentre nel 1990 il Ritalin era prescritto almeno una volta a 2
bambini su 1000, nel 1996 lo era a 11.0 bambini su 1000. Negli Stati Uniti, dove secondo
l´Organizzazione delle Nazioni Unite viene consumato circa l´85% della produzione
mondiale di metilfenidato, si è passati da 3 milioni di prescrizioni nel 1991 a circa 10
milioni nel 1999, con oltre il 50% delle prescrizioni effettuate da parte di pediatri.
Un altro aspetto che è necessario approfondire è se il metilfenidato sia o meno da
considerare una sostanza d´abuso. Secondo l´autorevole National Institute on Drug Abuse
(NIDA) non vi sono dubbi: la sostanza è reperibile nel mercato illecito in diverse aree
degli Stati Uniti. Le compresse possono essere assunte come tali, oppure ridotte in
polvere ed assunte per via nasale (sniffate), oppure ancora solubilizzate ed iniettate per
via endovenosa, talvolta in miscela con l´eroina e la cocaina. Nel 1999 nel Texas sono
stati registrati oltre 400 casi di intossicazione acuta da metilfenidato, ed in un caso su
quattro si trattava di un uso intenzionalmente non corretto oppure di un abuso della
sostanza.
I sintomi dell´intossicazione acuta da metilfenidato sono legati alla sovrastimolazione del
sistema nervoso centrale e possono includere vomito, agitazione, tremori, convulsioni (a
cui fa seguito talvolta il coma), euforia, allucinazioni, delirio, tachicardia, aritmie
cardiache, ecc. Tra le precauzioni indicate per l´uso del Ritalin viene sconsigliato il
trattamento di bambini di età inferiore ai 6 anni ed il trattamento dei bambini psicotici nei
quali la somministrazione di metilfenidato può determinare un aggravamento dei disturbi
del comportamento. In seguito ad uso prolungato si sono verificati casi di riduzione e
blocco della crescita, sebbene non sia stata stabilita una relazione causale con la
35
somministrazione di Ritalin. Come per molte altre sostanze d´abuso, l´uso prolungato di
Ritalin produce tolleranza (cioè la necessità di aumentare progressivamente la dose per
poter mantenere lo stesso effetto).
Una delle acquisizioni più recenti sugli effetti delle droghe d´abuso sul cervello è quella
del fenomeno della sensibilizzazione. Si è visto, cioé, che esposizioni precedenti, anche
lontane nel tempo, ad una sostanza rendono l´azione di questa sostanza sull´organismo
assai più potente. Tra l´altro è possibile che si verifichino sensibilizzazioni incrociate,
vale a dire, ad esempio, la cocaina può sensibilizzare all´eroina e viceversa.
Recentemente il fenomeno della sensibilizzazione è stato dimostrato anche per il
metilfenidato, il che ci porta alla considerazione che il Ritalin non solo può essere di per
sè oggetto di abuso, ma che potrebbe anche in qualche modo favorire il successivo
contatto con le droghe d´abuso.
E´ da precisare che, a fronte dell´autorevole posizione del NIDA e di altre agenzie
governative americane sul potenziale d´abuso del metilfenidato, c´è invece chi sostiene
che l´ADHD è una patologia che di per sé predispone all´uso di droghe ed il rischio che
un bambino affetto da questa malattia e non sottoposto a terapia farmacologica possa
avere in futuro problemi con la droga è stimabile attorno al 25%.
Un altro aspetto che occorre considerare in questa sede è il fatto che, come accennato
all´inizio dell´articolo, durante l´infanzia e l´adolescenza il nostro sistema nervoso
centrale si trova in una fase di pieno sviluppo. Infatti, sebbene il numero di neuroni sia
già stabilito, il cervello in questa fase va incontro a numerose trasformazioni (ad es.
formazione ed eliminazione di sinapsi, mielinizzazione delle fibre nervose, variazioni del
numero di recettori dei diversi neurotrasmettitori e variazione della concentrazione di
questi ultimi nelle diverse aree cerebrali). Dal momento che questi fenomeni avvengono
in parte sotto il controllo dei neurotrasmettitori e che le diverse droghe interferiscono
proprio nei meccanismi di trasmissione chimica dell´impulso nervoso a livello delle
sinapsi, appare più che fondata l´ipotesi che l´uso di droghe nell´infanzia e
nell´adolescenza possa determinare modificazioni dei processi neurobiologici appena
descritti, con possibili conseguenze a lungo termine sul comportamento.
Queste considerazioni, che per il momento rimangono al livello di ipotesi per la
mancanza di evidenze sperimentali (si tratta di un settore di ricerca comprensibilmente
molto difficile e anche per questo poco battuto), sono evidentemente estensibili in linea
di principio anche al metilfenidato - sostanza che, abbiamo visto, interferisce nell´azione
della dopamina - e non contribuiscono certo a dissipare i dubbi sul rischio per la salute
conseguente alla somministrazione di questa sostanza nel corso del periodo infantile ed
adolescenziale.
Che risposta si può dare allora, alla luce di queste informazioni, alla domanda che intitola
l´articolo? E´ evidente che entrambe le risposte possono essere valide. L´esperienza
americana consente di affermare che, se da un lato il farmaco si è rivelato un efficace
strumento terapeutico in situazioni di manifestazione conclamata della malattia, i rischi di
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eccessi nelle prescrizioni, di fenomeni di abuso e, potenzialmente, di effetti dannosi sulla
salute sono più che concreti.
Sotto questo aspetto, la strategia decisa da alcuni paesi europei di limitare esclusivamente
ai centri psichiatrici la possibilità di prescrivere il Ritalin (escludendo quindi medici
generici e pediatri di base), è quella che probabilmente offre le migliori garanzie di un
impiego del Ritalin limitato ai casi di reale necessità e di controllo dei rischi in
precedenza menzionati.
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Il Pallone ´Gonfiato´. L´Abuso di Anabolizzanti tra Dilettanti e Professionisti dello
Sport.
Danni cardiaci, tumore al rene e al fegato, depressione, aumento dell’aggressività,
disordini alimentari, acne, rischio di infezione da HIV: questo è scritto sulle 500.000
cartoline distribuite in palestre, ristoranti e ritrovi giovanili di sei grandi città degli Stati
Uniti. E’ uno degli strumenti scelti dal National Institute of Drug Abuse nell’ambito della
campagna promossa nel 2000 per arginare il consumo di steroidi anabolizzanti da parte
degli sportivi, informandoli dei rischi ad esso correlati.
L’assunzione di sostanze allo scopo di incrementare la massa muscolare al di là del
training fisico è infatti un fenomeno molto diffuso tra i giovani americani. Anche a casa
nostra il mercato sommerso di steroidi in ambito sportivo sia professionista sia amatoriale
ha dimensioni consistenti, come è possibile intuire dalle numerose indagini istruite dalla
magistratura in ambito di consumo e vendita illecita di sostanze anabolizzanti. In molti
assumono steroidi ma pochi conoscono i rischi per la salute connessi a questa pratica.
Cosa sono
Sotto il termine di Steroidi Androgeni Anabolizzanti si raggruppa un gran numero di
sostanze di origine sia naturale che sintetica. Gli ormoni steroidei, come ad esempio il
testosterone, sono sostanze prodotte dall’organismo che hanno come azione principale
quella di determinare i caratteri sessuali e che sono necessarie nel corso di tutta la vita, a
partire dalla differenziazione che avviene nel grembo materno.
Durante la pubertà governano lo sviluppo dei caratteri sessuali secondari e nell’adulto
sono deputate al loro mantenimento ed alla regolazione della fertilità. Oltre a questi
effetti principali gli ormoni androgeni svolgono un ampio spettro di attività meno
evidenti ma non meno importanti: mediano le funzioni biologiche di molti organi e
tessuti, tra i quali cervello, prostata, fegato e rene come anche muscolatura, tessuto
adiposo e ossa.
Nella pratica clinica le indicazioni terapeutiche di queste molecole sono sempre state
piuttosto circoscritte: fino agli anni ´60, prima che venisse sintetizzato l´ormone della
crescita, erano utilizzati per il trattamento dei difetti di statura provocati da una
particolare sindrome ereditaria (sindrome di Turner), attualmente il loro impiego clinico è
limitato ad alcune particolari patologie come l’ipogonadismo (vale a dire carente
funzionalità delle gonadi), alcune malattie croniche degenerative quali ad esempio
l’osteoporosi e il tumore al seno.
Proprio a scopo terapeutico l’industria farmaceutica produce specialità medicinali
contenenti oltre agli steroidi di origine naturale, steroidi naturali lievemente modificati
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ma anche numerose molecole completamente sintetiche, tra le quali nandrolone,
stanazololo e trembolone.
Perchè un mercato illecito?
La diffusione del consumo di androgeni da parte degli sportivi risale agli anni ‘50 e non è
dovuta agli effetti per i quali questi farmaci vengono sintetizzati e prodotti, ma piuttosto
agli effetti collaterali. E’ stato infatti dimostrato inequivocabilmente che l’assunzione di
androgeni a dosaggi elevati nel periodo di allenamento determina, attraverso variazioni
nel metabolismo, un incremento della massa muscolare (ossia un effetto anabolizzante) e
questo risulta particolarmente utile per affrontare discipline nelle quali è richiesta una
notevole massa muscolare e potenza fisica, come il sollevamento pesi, il football
americano, il rugby, e in sport come nuoto, atletica, ciclismo, attrezzistica in cui
assumono grande importanza resistenza, potenza e velocità.
Gli androgeni sono anche in grado di diminuire i tempi di recupero fisico e mentale e,
attraverso un’azione diretta sul cervello, di indurre euforia, ridurre la sensazione di fatica
e promuovere atteggiamenti determinati ed aggressivi, fondamentali negli sport in cui è
richiesto un contatto fisico con l’avversario. Altra categoria di utilizzatori di androgeni
sono i frequentatori di palestre che, pur non partecipando a competizioni, hanno come
obbiettivo il raggiungimento di un particolare aspetto fisico.
L’assunzione non terapeutica di androgeni, ossia in definitiva il loro abuso, avviene
tipicamente con cicli di 6-12 settimane che comportano l’assunzione contemporanea di
più diversi composti della classe utilizzando il cosiddetto “dosaggio piramidale”: un
incremento progressivo delle dosi a cui segue una progressiva riduzione. Ogni ciclo
comporta l’assunzione di quantità 20-40 superiori a quelle utilizzate nelle terapie
farmacologiche con un evidente incremento del rischio per la salute.
Perchè sono sostanze pericolose per la salute?
La letteratura internazionale di merito è assai esplicita riguardo agli effetti dannosi
dell’abuso di androgeni. La tipologia e l’intensità di questi è legata oltre che al sesso e
all’età dell’assuntore, alla durata dei trattamenti e alle dosi assunte. A grandi linee i danni
si possono suddividere in due principali categorie: la prima comprende gli effetti
androgeni, ossia legati ad una sorta di amplificazione dell’azione fisiologica di queste
sostanze, e la seconda i veri e propri effetti tossici.
Gli effetti androgeni sono assai più dannosi per donne, bambini e adolescenti; si assiste
nella donna ad un processo di virilizzazione irreversibile costituito da abbassamento del
tono della voce, perdita di capelli, aumento dei peli oltre a disfunzioni reversibili del
ciclo mestruale. Nei bambini e negli adolescenti si determina una prematura saldatura
ossea che ha come conseguenza un arresto della crescita e la riduzione della statura
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finale. Nei maschi adulti invece l’abuso di androgeni può provocare riduzione delle
dimensioni dei testicoli, impotenza, disfunzioni della produzione di sperma, aumento
delle dimensioni del petto, oltre che un aumento del rischio di malattie, anche tumorali, a
carico della prostata.
Poi ci sono gli effetti tossici veri e propri: sono descritte in letteratura delle disfunzioni
del metabolismo dei grassi con aumento del rischio di insorgenza di problemi circolatori,
aumento delle dimensioni del fegato e in alcuni casi effetti cancerogeni a carico di
quest’organo nonché casi di tumori renali e di danni cardiaci provocati dall’uso di
androgeni a scopo di doping.
Non vanno poi trascurati gli effetti sulla psiche causati dall’assunzione indiscriminata di
queste sostanze: i sintomi sono irritabilità, ansia, disturbi dell’umore e del desiderio
sessuale, e nei casi più gravi depressione, tendenza al suicidio, allucinazioni e deliri.
L’uso continuativo ad alte dosi può poi far insorgere una vera e propria dipendenza;
l’impossibilità di assumere porta in questi casi a una vera e propria sindrome di astinenza
caratterizzata da fatica, depressione, irrequietezza, insonnia, anoressia e riduzione del
desiderio sessuale. Per contrastare gli effetti psichici spesso gli atleti ricorrono
all’assunzione e all’abuso di sostanze psicostimolanti aggiungendo un ulteriore fattore di
rischio per la salute.
Cosa si fa in Italia
Uno dei maggiori ostacoli alla lotta contro l’abuso di sostanze farmacologicamente attive
da parte degli sportivi era determinato in Italia dalla mancanza di strumenti normativi che
permettessero alla magistratura di combattere il fenomeno. Fino all’anno scorso infatti un
vuoto legislativo faceva sì che la magistratura potesse appellarsi unicamente ad una legge
del 1971 nella quale le violazioni relative al doping non costituivano reato ed erano
soggette solo a sanzioni amministrative. Le lacune sono state colmate con il varo nel
dicembre del 2000 della Legge 376 “Disciplina della tutela sanitaria delle attività sportive
e della lotta contro il doping”, che contiene strumenti importantissimi.
Questa normativa definisce il doping come una minaccia alla salute e di conseguenza
vieta “l’assunzione di farmaci e di sostanze farmacologicamente attive…….idonee a
modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo al fine di alterare le
prestazioni agonistiche degli atleti”. Il reato di doping è oggi perseguibile penalmente ed
anche “chiunque procura ad altri, somministra, assume o favorisce comunque l’utilizzo di
farmaci e di sostanze farmacologicamente attive….al fine di alterare le prestazioni
agonistiche…….o modificare i risultati dei controlli sull’uso di tali farmaci o sostanze” è
punito con la reclusione da 3 mesi a 3 anni e con la multa da 5 a 100 milioni. Il reato
viene considerato più grave se compiuto ai danni di atleti minorenni, e la pena viene in
questo caso aumentata. Altro importante aspetto della legge è poi quello legato alla
promozione di campagne di informazione in tutte le scuole di ogni ordine e grado, per
prevenire il problema tra gli atleti di domani.
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Il Doping di Stato
Dai documenti segreti venuti alla luce dopo il collasso della Repubblica Democratica
Tedesca si è giunti a conoscenza di uno dei più grandi e scellerati esperimenti
farmacologici della storia, quello eseguito a partire dal 1966 su centinaia di atleti di
entrambi i sessi, anche di giovane età, trattati segretamente per anni con androgeni
anabolizzanti. Medici, scienziati e allenatori, sotto la tutela del governo e violando ogni
principio etico, hanno somministrato agli atleti preparati anabolizzanti e studiato le
variazioni delle prestazioni sportive, dando particolare enfasi ai “positivi effetti” sui
risultati sportivi ottenuti dalle donne.
Come tutto è cominciato - Il farmaco utilizzato più frequentemente era l’OralTurinabol, una versione lievemente modificata del metiltestosterone. Introdotto come
farmaco a scopo terapeutico nel 1965, già dal 1966 venne somministrato ad atleti maschi
e, a partire dalla preparazione per i Giochi Olimpici del ’68, superando ogni barriera etica
e deontologica, anche ad atleti di sesso femminile. I risultati di questa sommistrazione
vennero valutati accuratamente e sistematicamente registrando ogni miglioramento delle
prestazioni: un esempio spettacolare è dato dagli effetti ottenuti su una donna lanciatrice
del peso che dopo un ciclo di trattamento di 11 settimane ebbe un incremento
riproducibile del lancio di ben 2 metri.
Gli effetti erano giudicati così positivamente che a partire dal 1969 le dosi aumentarono e
negli anni ’70 l’uso di steroidi divenne abituale anche per atleti in giovanissima età. Alla
fine del decennio gli effetti erano così evidenti che ai Giochi Olimpici del ‘76, 11 su 13
vittorie nel nuoto femminile furono della Repubblica Democratica Tedesca. Già in
quell’occasione le enormi modificazioni dell’organismo degli atleti saltavano però
all’occhio, tanto che i giornalisti trovarono stranamente profondo il tono della voce delle
nuotatrici tedesche.
I controlli antidoping: come evitare lo scandalo? - Nel 1974 con l’avvento dei primi
test per la ricerca di steroidi anabolizzanti la Germania dell’Est mise a punto una strategia
per sviluppare programmi di somministrazione non evidenziabili dai controlli. Nel 1977,
dopo che la lanciatrice del peso Ilona Slupianek risultò positiva, si adottò un ulteriore
stratagemma: ogni atleta in partenza per competizioni all’estero veniva sottoposto a
controllo nelle urine qualche giorno prima della partenza; gli atleti risultati positivi
venivano lasciati a casa. Questo sistema di screening, chiamato “controllo di partenza” fu
particolarmente efficiente e risultò in un certo numero di defezioni dell’ultimo minuto
anche di atleti di punta.
I giovani - Anche ai giovanissimi non venivano risparmiate le “terapie anabolizzanti”.
Nel sollevamento pesi il trattamento cominciava a 16-17 anni, i ragazzi del canottaggio e
degli sport invernali cominciavano ad assumere steroidi a 14-15 anni e le nuotatrici erano
appena quattordicenni. Medici, allenatori e atleti erano tenuti al segreto di stato
41
sull’argomento. Le “terapie” venivano spacciate come necessarie integrazioni
vitaminiche, profilassi o medicazioni e gli adolescenti obbligati ad assumere davanti
all’allenatore. Particolare cura era riservata al fatto che le somministrazioni non
avvenissero a casa in presenza dei genitori. Molte furono le conseguenze sui giovani tra
le quali l’arresto irreversibile della crescita, acne e problemi ginecologici nelle ragazze.
Le donne - La mascolinizzazione delle giovani atlete e delle bambine è uno degli effetti
più tristemente evidenti del programma di doping di stato della Germania Est. Le dosi
somministrate alle donne erano sorprendentemente alte, spesso maggiori di quelle assunte
dai loro colleghi uomini. Numerose sono le testimonianze riguardo a giovani donne
affette da irsutismo irreversibile; un medico che si trovò a visitare un’atleta di altissimo
livello per una banale infezione si trovò di fronte a uno spettacolo che definì scioccante:
”le gambe, compresa la parte alta delle cosce erano irsute e i peli pubici arrivavano fino
all’ombelico, tanto che era costretta a radersi” questo le provocava problemi psicologici
così drammatici che decise di interrompere la sua carriera sportiva. Pure sconcertante fu
il caso una nuotatrice che a causa dell’abbassamento del timbro di voce non poté più
lavorare come interprete. Nel caso di una gravidanza in corso di trattamento con ormoni
androgeni si sarebbe presentato il rischio di malformazioni nel feto. Alle atlete veniva
quindi raccomandato l’uso di pillole anticoncezionali, malgrado fosse noto che
l’assunzione concomitante accresce il rischio di disfunzioni e danni epatici. In caso poi di
gravidanza diventava imperativo l’aborto.
E negli uomini? - Il rischio di cirrosi epatica e in casi più gravi, di coma epatico, veniva
corso da tutti gli atleti, uomini e donne, mentre uno degli effetti più particolari
relativamente frequente negli uomini era lo sviluppo abnorme delle ghiandole mammarie.
In 12 sollevatori di peso l’accrescimento era così consistente che richiese una rimozione
chirurgica.
Il declino - Con la caduta del muro di Berlino trapelarono le prime informazioni riguardo
al programma di doping di stato, inoltre vennero introdotti ulteriori controlli antidoping al
di fuori delle competizioni. Questi due avvenimenti insieme portarono ad una riduzione
dell’uso di sostanze dopanti da parte degli atleti della Germania dell’Est, e ciò determinò
il declino delle prestazioni sportive: molti record mondiali ebbero un arresto e non
vennero più eguagliati. All’inizio degli anni ‘90 poi la documentazione segreta venne
divulgata, molti atleti ebbero il coraggio di parlare pubblicamente e il materiale raccolto
accettato con valore di prova in numerosi procedimenti intentati da vittime, spesso
inconsapevoli, di questo diabolico meccanismo.
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Nandrolone: il Doping Corre... sulla Soglia
Tra le forme di doping più difficili da smascherare vi sono quelle che sfruttano sostanze
che anche il nostro organismo produce normalmente. E’ il caso del famigerato
nandrolone di cui molto si è parlato nel recente passato per i numerosi casi di positività di
atleti, ed in particolare di calciatori, individuati dai laboratori anti-doping.
Alcune ricerche hanno dimostrato che tracce di nandrolone (o meglio dei suoi metaboliti
norandrosterone e noretiocolanolone, vale a dire le sostanze che vengono effettivamente
ricercate nei controlli antidoping) si possono ritrovare nelle urine di soggetti che
sicuramente non hanno mai fatto uso della sostanza.
In tali casi gli organismi di controllo non possono fare altro che stabilire una soglia di
concentrazione urinaria al di sopra della quale la positività è da considerare doping,
soglia che per il nandrolone è di 2 nanogrammi per millilitro (ng/ml) di urina.
E qui le cose si complicano. Prima di tutto, la concentrazione di una sostanza nell’urina
dipende da molti fattori: se ad esempio un individuo beve molto produrrà urine più
diluite, mentre un soggetto che ha perso liquidi attraverso la sudorazione e traspirazione
corporea conseguente ad un’intensa attività fisica produrrà invece urine più concentrate.
Altri fattori che possono influenzare la produzione endogena di una sostanza sono la
razza e la presenza di malattie del metabolismo. Per il nandrolone, poi, c’è l’ulteriore
complicazione dovuta alla possibilità che lo steroide e/o suoi metaboliti si possano
trovare in alimenti (ad esempio la carne di maiale non castrato) ed in integratori
alimentari.
Il risultato è che da un lato è possibile che una positività dei controlli per nandrolone non
sia dovuta all’uso volontario di questo steroide a scopo dopante e dall’altro che gli
argomenti appena citati siano sfruttati come alibi da parte di atleti non corretti.
Una soluzione che è stata proposta è quella di eseguire le analisi sui capelli anziché sulle
urine. Nei capelli, infatti, si può trovare direttamente il nandrolone che in questo
campione rimane sequestrato (a differenza di quanto si verifica nelle urine) ed è quindi
evidenziabile anche a distanza di tempo dall’uso (a meno che l’atleta non si tagli i
capelli). Questa nuova tecnica non è tuttavia ancora sfruttata nella pratica per diversi
motivi, non ultimo il fatto che le sue potenzialità di dimostrare inequivocabilmente il
doping da nandrolone non sono ancora state sufficientemente esplorate.
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L’abuso di Diuretici tra Sport, Discoteche e Disturbi alimentari
L’abuso di sostanze chimiche può assumere le forme più strane e inaspettate.
E’ noto, ad esempio, che molti farmaci sono oggetto di abuso, ma pochi sospetterebbero
che una classe di farmaci relativamente innocua e apparentemente poco “appetibile”
come quella dei diuretici possa trovare applicazioni al di fuori dell’ambito terapeutico.
I diuretici sono sostanze che attraverso diversi meccanismi d’azione sulle cellule renali
determinano un aumento della velocità del flusso urinario favorendo l’eliminazione di
acqua e di soluti dall’organismo.
I più noti prodotti farmaceutici a base di diuretici sono: aldactone, aldactazide, esidrex,
igroton, kanrenol, lasix, luvion, moduretic, millibar, natrilix, pressural, spiridazide,
spirofur, zaroxolyn.
Le applicazioni terapeutiche dei diuretici vanno dalla riduzione degli edemi (vale a dire
dell’eccessivo accumulo di fluidi che si può formare in qualsiasi organo o tessuto come
conseguenza di alcune condizioni patologiche), al trattamento dell’ipertensione arteriosa
e dell’insufficienza cardiaca congestizia (la perdita di fluidi determina l’abbassamento
della pressione arteriosa e, quindi, la riduzione del carico di lavoro per il cuore),
dell’insufficienza renale con ritenzione idrica, del glaucoma.
Oltre che per le citate applicazioni terapeutiche, tuttavia, i diuretici sono anche
diffusamente utilizzati, nello sport e non solo, per finalità che di terapeutico non hanno
nulla.
Secondo le statistiche divulgate dal Comitato Internazionale Olimpico (CIO) – che ha
incluso questi farmaci nella lista delle sostanze proibite sin dai giochi olimpici invernali
di Calgary del 1988 - i diuretici sono, assieme agli anabolizzanti, agli stimolanti e agli
analgesici-narcotici, tra le sostanze più frequentemente ritrovate nelle urine di atleti
sottoposti al controllo antidoping. Nel corso dei Giochi Olimpici di Sydney, ad esempio,
ben tre atleti della federazione bulgara di sollevamento pesi furono trovati positivi per
furosemide su un totale di 8 casi di positività al doping tra i quasi 2000 atleti controllati.
Mentre per la maggior parte delle altre sostanze dopanti l’obbiettivo dell’atleta è quello di
ottenere un miglioramento della prestazione sportiva, nel caso dei diuretici gli scopi
possono essere diversi.
In generale, lo scopo prevalente è quello di realizzare un rapido e significativo
decremento di peso (dell’ordine del 2-4%) in conseguenza della perdita di fluidi. L’utilità
è evidente in quelle discipline sportive che prevedono una suddivisione in categorie di
peso come la boxe, le arti marziali in genere, il canottaggio, l’ippica (ovviamente per i
fantini). L’atleta può in tal modo partecipare ad una competizione agonistica dalla quale
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sarebbe altrimenti escluso (con una possibile ingente perdita economica), oppure rientrare
in una categoria di peso inferiore pur mantenendo la potenza muscolare e quindi
gareggiare in una condizione di superiorità fisica rispetto agli altri atleti.
In teoria, la perdita di peso dovrebbe permettere all’atleta un miglioramento della
performance in tutti quegli sport nei quali la prestazione può essere influenzata dal peso
(corsa, salto,ecc.) dal momento che, a parità di potenza muscolare, è minore il peso da
spostare. In realtà sembra che le cose non stiano proprio così.
La perdita di liquidi, che tra l’altro viene a sommarsi a quella indotta naturalmente
dall’attività fisica, comporta da un lato una maggiore difficoltà di portare nutrimento ai
muscoli (in conseguenza della diminuzione della pressione arteriosa) e dall’altro una più
difficile termoregolazione, vale a dire il processo responsabile della regolazione della
temperatura corporea, a causa della minore efficienza della sudorazione.
Un'altra possibile applicazione dei diuretici nello sport è quella di mascherare altre forme
di doping farmacologico. Dal momento che i controlli antidoping sono effettuati sulle
urine, un atleta dopato può trarre notevole vantaggio dall’uso di diuretici sia per
accorciare i tempi di eliminazione delle sostanze dopanti dall’organismo, sia per diluire le
urine stesse abbassando la concentrazione urinaria delle sostanze illecitamente assunte ed
arrivando, per così dire, “pulito” al momento del prelievo del campione.
Tutt’altro che rara è la somministrazione di diuretici ad atleti trattati con steroidi. In
questo caso, tuttavia, l’obbiettivo non è solo quello di mascherare il doping, ma anche di
contrastare la ritenzione idrica che si produce come effetto collaterale della
somministrazione di steroidi.
Purtroppo queste forme di uso illecito di diuretici non sono limitate soltanto allo sport
professionistico. Anche tra gli atleti dilettanti e gli sportivi amatoriali, dove tra l’altro le
forme di controllo sono praticamente inesistenti, l’abuso di diuretici è piuttosto esteso.
Non solo. Vi sono segnalazioni, e questo è l’aspetto insieme più triste e allarmante,
dell’uso dei diuretici tra i praticanti il culturismo ed il fitness, nonché tra i più assidui ed
accaniti frequentatori di discoteche. Lo scopo è in questo caso puramente estetico:
ottenere un “fisico più tirato”, mettere in evidenza la muscolatura, rientrare nei canoni
fisici “giusti”, al di fuori dei quali non è nemmeno pensabile frequentare certi ambienti.
L’abuso, o comunque l’uso improprio di diuretici, oltre che di lassativi, rientra anche tra i
cosiddetti “comportamenti compensatori” messi in atto da chi soffre di bulimia nervosa
allo scopo di "neutralizzare" gli effetti dell’ingestione eccessiva di alimenti e di alleviare
il senso di colpa provocato da questa. Inutile dire che, in questro caso, il rimedio è peggio
del danno: oltre a legittimare “l’abbuffata” con conseguente maggiore probabilità che
questa si verifichi di nuovo, vi è un evidente rischio di complicazioni mediche
conseguenti all’uso improprio di farmaci.
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La Moda dello Sniffing, Nuova Frontiera dello Sballo
Per sniffing, ma anche glue sniffing (sniffing di colle), abuso di solventi, abuso di
sostanze volatili, si intende l´inalazione intenzionale di solventi organici e di altre
sostanze gassose o volatili (cioè che evaporano facilmente) allo scopo di produrre
un´alterazione dello stato di coscienza. Il fenomeno dello sniffing si è diffuso negli Stati
Uniti negli anni ´50 e successivamente si è esteso all´Europa ed al resto del mondo. In
Italia la diffusione dello sniffing risale all´inizio degli anni ´90.
Chi pratica lo sniffing?
Il fenomeno dello sniffing ha alcune caratteristiche peculiari rispetto alle altre forme di
abuso chimico e per questo motivo è poco conosciuto e studiato. Ciò che in particolare
caratterizza lo sniffing è il fatto di essere la forma di "sballo chimico" di più facile
accesso, infatti le sostanze dello sniffing:
1. sono facilmente reperibili e sono molto spesso contenute in prodotti di largo consumo
acquistabili pressoché ovunque;
2. costano poco, soprattutto in confronto ai prezzi "di mercato" di altre sostanze d´abuso
(droghe, farmaci);
3. non sono soggette ad alcuna forma di controllo sulla vendita.
Per queste ragioni lo sniffing si diffonde generalmente tra gli adolescenti, nelle fasce di
popolazione e nei gruppi etnici più emarginati, nei paesi in via di sviluppo.
La facile reperibilità delle sostanze dello sniffing spiega anche la relativa diffusione di
questa forma di abuso nelle carceri.
Lo sniffing si sviluppa generalmente in situazioni di gruppo e, tra gli adolesenti, i maschi
di 14-15 anni di età sono i più esposti. I principali fattori di rischio sono l´appartenenza
ad una famiglia di bassa estrazione socio/economica e con elevato tasso di alcolismo, una
diagnosi di personalità anti-sociale e sensation-seeking (cioè predisposizione alla ricerca
di nuove sensazioni), la disponibilità di prodotti contenenti sostanze volatili
nell´ambiente di lavoro.
Quali sono e dove si trovano le sostanze dello sniffing?
Si tratta in generale di sostanze con caratteristiche chimiche abbastanza diverse, ma tutte
accomunate dal fatto di essere volatili e cioè di evaporare facilmente (per fare un
esempio, il forte odore della benzina è dovuto alla rapida evaporazione dei solventi che la
compongono) o addirittura di essere già in forma gassosa a temperatura e pressione
ambiente (ad es. i gas contenuti nelle bombolette da campeggio).
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Nella seguente tabella sono elencate le principali sostanze dello sniffing ed i prodotti che
le contengono.
Classe
Idrocarburi alifatici
Esempi di sostanze
propano, n-butano
Idrocarburi aromatici
toluene, xilene
Miscele di idrocarburi
Idrocarburi alogenati
benzine
cloroformio, tricloroetilene,
tetracloruro di carbonio,
freon (clorofluorocarburi)
Solventi organici contenenti acetone, etere etilico, etile
ossigeno
acetato
Alchil nitriti
butil nitrito, isoamilnitrito
Prodotti commerciali
bombolette
di
gas
campeggio, accendini
diluenti per vernici, colle
da
carburanti
liquidi per dattiloscritti, fluidi
frigorigeni (per frigoriferi e
climatizzatori)
solvente per unghie, colle
popper
Si tratta dunque quasi sempre di sostanze contenute in prodotti con cui veniamo a
contatto quotidianamente nell´ambiente domestico, di lavoro e di vita. Una delle
eccezioni è costituita dagli alchil nitriti o popper (nome che deriva dal rumore che
facevano all´apertura le fiale di vetro in cui queste sostanze venivano un tempo
distribuite) che oggi sono reperibili esclusivamente nel mercato illecito.
Come vengono assunte le sostanze dello sniffing?
Il modo più semplice è l´inalazione della sostanza direttamente dal contenitore. Allo
scopo di aumentare la quantità di sostanza assunta, e quindi di incrementare l´effetto,
possono tuttavia essere utilizzati alcuni accorgimenti.
Se si tratta di un prodotto liquido viene spesso utilizzato un panno che, imbevuto del
prodotto, viene premuto sulla bocca e sul naso. Se invece si tratta di un prodotto gassoso
può essere utilizzato un sacchetto di plastica che viene riempito di vapori della sostanza e
quindi portato alla bocca o addirittura posto attorno alla testa.
E´ inutile sottolineare la pericolosità di questa pratica che, oltre ad esporre l´individuo ad
una dose eccessiva ed ai conseguenti effetti tossici, può causare il soffocamento per
mancanza di ossigeno.
Le colle possono essere riscaldate in modo da favorire l´evaporazione dei solventi in esse
contenuti.
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Nel caso di prodotti commerciali nei quali la sostanza volatile è miscelata con sostanze
non respirabili o tossiche, il prodotto può essere fatto gorgogliare in un recipiente
contenente acqua, nella quale le sostanze non desiderate rimangono intrappolate.
Quasi tutte le sostanze dello sniffing sono infiammabili e/o esplosive. Dal momento che
il loro uso a scopo voluttuario non avviene certo nel rispetto delle norme di sicurezza si
possono verificare incendi ed esplosioni con conseguenze spesso drammatiche per il
consumatore.
Le sostanze dello sniffing producono tolleranza e dipendenza?
Per alcune sostanze dello sniffing, come ad esempio la trielina (tricloroetilene), la
possibilità di produrre dipendenza è stata dimostrata. L´interruzione dell´uso di questa
sostanza produce infatti una sindrome astinenziale caratterizzata da convulsioni che viene
attenuata dalla ripresa della somministrazione del solvente.
La sindrome astinenziale da solventi viene attenuata anche da altre sostanze che hanno
proprietà sedative-tranquillanti quali l´alcol, i barbiturici e le benzodiazepine (es. Valium,
Tavor, Roipnol, ecc.). Ciò suggerisce che il meccanismo d´azione di queste sostanze ha
quanto meno una base comune. Tra l´altro, lo sniffing è spesso associato all´abuso di
altre sostanze (alcol, farmaci, droghe d’abuso).
E´ evidente, in ogni caso, la pericolosità di assumere alcol, farmaci e droghe d´abuso
assieme alle sostanze dello sniffing per la possibile interazione tra queste sostanze e
l´aumento del rischio di effetti tossici.
L´interruzione dell´assunzione cronica di solventi causa disturbi del sonno, aumento della
sudorazione, irritabilità, tremori, nausea, crampi allo stomaco e tic facciali. Questi
sintomi raggiungono l´intensità massima dopo 24-48 ore dall´interruzione e durano sino a
2-5 giorni.
La trielina produce tolleranza (vale a dire progressivo aumento della dose per ottenere lo
stesso effetto inizialmente sperimentato dal soggetto) ed il meccanismo con cui la
tolleranza si produce sarebbe lo stesso anche per altri idrocarburi alifatici (tolleranza
crociata). In letteratura è segnalato il caso di un inalatore di vapori di propano (il gas
degli accendini e delle bombolette da campeggio) che aveva sviluppato una tolleranza
tale da arrivare a consumare sino a 5 litri di sostanza al giorno.
Quali sono i segni più visibili dello sniffing?
L´odore di solventi sui capelli, sugli indumenti o nell´alito è un evidente segnale di una
esposizione a solventi, come pure la presenza di contenitori di colle, vernici, diluenti,
ricariche di accendini ecc. addosso o nei locali in cui vive il soggetto.
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L´abuso di sostanze volatili può produrre numerosi effetti cronici facilmente riscontrabili
nel consumatore quali rinite cronica, ulcerazioni alla bocca ed al naso (con frequenti
perdite di sangue), alitosi, arrossamento degli occhi e aumento dell’espettorazione
bronchiale. E´ possibile riscontrare anche anoressia, con conseguente perdita di peso, ed
un aumento della sensazione di fatica. Altri sintomi che spesso caratterizzano il
consumatore di sostanze dello sniffing sono perdita di concentrazione, depressione,
irritabilità, paranoia.
Quali sono gli effetti piacevoli dello sniffing?
L´inalazione di basse dosi di sostanze volatili produce una sensazione di euforia e di
disinibizione (“high”) che è del tutto simile a quella prodotta dall´assunzione di moderate
quantità di alcol. A differenza dell´alcol, l´inalazione di sostanze volatili e di idrocarburi
in particolare (es.n-butano, toluene) produce anche effetti allucinatori di tipo visivo,
auditivo e tattile, oltre ad una percezione rallentata del tempo. Sono descritti fenomeni
allucinatori caratterizzati dall´illusione della capacità di volare e di nuotare. Questi effetti
si manifestano in tempi molto brevi dopo l´inalazione a causa del rapido assorbimento
per via polmonare.
I popper producono anche un´azione di vasodilatazione periferica che si manifesta come
una vampata di calore alla testa ed al volto spesso accompagnata da vertigini. Questa
azione, che dura alcune decine di secondi, è seguita da una sensazione di euforia e di
stordimento. Gli utilizzatori di popper descrivono anche una stimolazione della creatività,
della meditazione, dell´apprezzamento della musica ed una maggiore libertà nella danza,
caratteristiche queste che spiegano la relativa diffusione dei popper nelle discoteche.
I popper avrebbero anche un effetto afrodisiaco che viene ricercato in particolare dalla
popolazione omosessuale e bisessuale maschile. Essi sarebbero in grado di prolungare la
sensazione di orgasmo secondo un meccanismo combinato di rallentamento della
percezione del tempo e di rilassamento della muscolatura liscia che previene la
contrazione delle vescicole seminali.
Quali sono gli effetti spiacevoli dello sniffing?
La difficoltà di dosare la quantità di sostanza assunta è spesso causa di sovradosaggi con
conseguenze spesso spiacevoli per il consumatore. I principali sintomi dell´intossicazione
acuta sono: disturbi visivi, agitazione, irritabilità, temporanea incapacità di giudizio,
debolezza muscolare, tremori, confusione, mal di testa, crampi addominali, nausea e
vomito. Stupore, depressione del respiro, convulsioni e coma si possono verificare nei
casi più gravi.
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Le già citate allucinazioni auditive e visive possono portare a comportamenti ed
atteggiamenti pericolosi per il consumatore stesso o per gli altri.
Un effetto tipico dei popper è quello di interagire con l´emoglobina rendendola incapace
di trasportare l´ossigeno (azione metaemoglobinizzante).
Che fare se l´amico è intossicato?
La prima cosa da fare è portarlo a respirare aria fresca, calmarlo e rassicurarlo. Togliere
di mezzo il prodotto consumato è evidentemente opportuno, ma è sconsigliabile se la
cosa può generare un conflitto: alcuni casi di morte improvvisa si sono verificati proprio
in seguito al manifestarsi nel soggetto di uno stato emozionale eccitato.
In caso di collasso fatelo sdraiare su un fianco e chiamate i soccorsi con la massima
urgenza. Non nascondete il nome del prodotto assunto: è una informazione essenziale per
poter praticare subito la terapia adeguata.
Quali danni produce sull´organismo l´uso prolungato di sostanze volatili?
Conseguenze croniche dell´abuso di sostanze volatili dovute alla loro azione irritante
sulle mucose sono congiuntiviti, riniti, ulcerazioni alla bocca e al naso, incremento della
espettorazione bronchiale. Questi effetti sono spesso accompagnati da anoressia, perdita
di peso, sensazione di affaticamento.
Alterazioni neurologiche anche particolarmente gravi sono spesso riscontrate negli
abusatori cronici di sostanze volatili quali atrofia cerebrale degeneralizzata e
demielinizzazione diffusa (vale a dire degenerazione della guaina che riveste le cellule
nervose). Le conseguenze di questi danni cerebrali sono spesso di portata notevole e
possono manifestarsi con alterazioni cognitive, disturbi visivi, psicosi di tipo paranoideo,
epilessia temporale, parkinsonismo e demenza.
Altre gravi conseguenze si possono manifestare a carico di reni, fegato e polmoni
(enfisema polmonare).
L´abuso di sostanze volatili può aumentare il rischio di contrarre infezioni?
L´abuso di popper a scopo afrodisiaco è spesso associato a comportamenti sessuali a
rischio. La sottostima del rischio di un rapporto sessuale non protetto espone al pericolo
di contrarre patologie infettive quali l´HIV/AIDS e le epatiti.
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Studi su animali hanno dimostrato che gli alchil nitriti sono in grado di produrre danni sul
sistema immunitario con conseguente minore capacità di contrastare la replicazione
virale e la proliferazione di cellule tumorali.
La combinazione di queste azioni dirette ed indirette spiegherebbe il maggior rischio per i
consumatori di popper di contrarre l´infezione da HIV e di sviluppare il sarcoma di
Kaposi, una forma tumorale che si manifesta a livello della pelle e delle mucose.
E´
pericoloso
fare
uso
di
sostanze
volatili
durante
la
gravidanza?
Studi sperimentali su animali di laboratorio e studi epidemiologici sull´uomo hanno
riscontrato danni nella prole di madri esposte a sostanze volatili durante la gravidanza.
Ad esempio, l´abuso di toluene e di tricloroetilene durante la gravidanza può causare un
difetto di peso alla nascita e malformazioni dell´apparato scheletrico, in particolare a
livello cranio-facciale, del tutto a simili a quelle prodotte dall´uso di alcol in gravidanza
(sindrome fetale alcolica). Vi sono inoltre evidenze di un possibile effetto sullo sviluppo
successivo del bambino, caratterizzato da deficit cognitivi, alterazioni motorie e del
linguaggio, anche se tali evidenze richiedono la conferma di studi prospettici controllati.
Perché si muore di sniffing?
La morte da sniffing è un evento tutt´altro che raro. Alcuni anni fa, ad esempio, le morti
da abuso di sostanze volatili ammontavano in Gran Bretagna a circa un centinaio
all´anno. Non pochi sono fra l’altro i casi di morte al primo uso o alle prime occasioni di
abuso.
L’evento più frequente è la cosiddetta morte improvvisa da sniffing dovuta a fibrillazione
ventricolare (arresto cardiaco). Tale evento è legato alla sensibilizzazione del tessuto
muscolare cardiaco nei confronti delle catecolamine prodotta dai solventi. Per questo
motivo l´esercizio fisico, l´attività sessuale o una situazione di allarme improvviso o
comunque uno stato emozionale eccitato possono aggravare la situazione.
La morte può anche essere causata da asfissia, specie quando l´inalazione si verifica in
uno spazio confinato che si può rapidamente saturare dei vapori della sostanza
realizzando quindi un´atmosfera priva di ossigeno.
Una azione tossica diretta caratterizzata da depressione respiratoria ed arresto
cardiorespiratorio si può manifestare nel caso di alcune sostanze volatili (soprattutto nel
caso di idrocarburi, clorurati e non).
Ancora, la morte si può verificare come conseguenza dei traumi e delle ustioni prodotte a
causa della manipolazione di sostanze infiammabili o addirittura esplosive nel mancato
rispetto delle minime norme di sicurezza.
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E´ punibile dalla legge chi abusa di sostanze volatili?
No. Attualmente l´uso di sostanze volatili non è soggetto ad alcuna forma di controllo o
di regolamentazione.
E´ pericoloso guidare sotto l’effetto di sostanze volatili?
Alcuni degli effetti prodotti dalle sostanze volatili, ed in particolare la sonnolenza,
l´alterazione delle percezioni sensoriali, una percezione rallentata del tempo, le
allucinazioni visive ed auditive, rendono più che plausibile la possibilità che l´uso di
queste sostanza abbia conseguenze negative sulla performance di guida, sia nei termini di
un allungamento dei tempi di reazione a situazioni di pericolo sia di una sottostima del
pericolo stesso.
E´ dunque pericoloso, per sé e per gli altri, mettersi alla guida sotto l´effetto di sostanze
volatili.
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E' Ecstasy davvero?
L’ecstasy è una sostanza di origine sintetica che si trova nel mercato illecito sotto forma
di compresse di svariati colori (bianco, azzurro, rosa, giallo ecc.) sulle quali sono spesso
impressi dei simboli (animali, stelle, corone, loghi di case automobilistiche ecc.), e di
capsule, anch’esse dai colori più vari (ad es. rosse e nere, rosse e gialle). Raramente si
può trovare sotto forma di polvere.
Il nome chimico della sostanza è 3,4-metilendiossimetil-amfetamina, abbreviato in
MDMA. Tra i consumatori sono in uso molti “soprannomi” tra cui i più diffusi sono
Adam, E, Eckies, Edward, Love drug, Mitsi(bushie)s, X, XTC.
Chi usa l’ecstasy?
L’uso di ecstasy, in progressivo aumento, secondo le statistiche, a partire dagli anni ’80, è
diffuso soprattutto tra i giovani e soprattutto tra i frequentatori di discoteche, pub e rave
parties. In Europa circa il 5% dei giovani di età compresa tra 16 e 24 anni ha fatto uso di
amfetamine o ecstasy nel corso degli ultimi 12 mesi. Attualmente il consumo di ecstasy
tenderebbe a spostarsi dalle grandi discoteche ai piccoli locali di ritrovo ed agli ambienti
privati.
Cosa c’è nell’ecstasy che si compra dallo spacciatore?
La sintesi dell’ecstasy è relativamente semplice da realizzare e non richiede attrezzature
particolarmente sofisticate. L’ecstasy è prodotta illegalmente con metodi spesso
approssimativi ed artigianali, il che significa che non c’è alcun controllo sulla qualità e
sulla quantità e di sostanza attiva contenuta nella pastiglia che si acquista dallo
spacciatore, la cui percentuale può variare dallo 0 a circa il 50% e anche oltre. La
rimanente parte è costituita da diluenti (es. zuccheri).
Spesso, assieme all’ecstasy sono presenti anche altre sostanze che hanno effetti stimolanti
come l’amfetamina, la ketamina, l’efedrina e la caffeina, in grado di modificare
qualitativamente e quantitativamente l’effetto prodotto dall’ecstasy.
Oltre all’ecstasy sono in circolazione altre sostanze molto simili e dagli effetti
sostanzialmente identici, come l’MDA, l’MDEA o MDE, MBDB, DOB, ecc. Alcune,
come la parametossiamfetamina (PMA) sono caratterizzate da maggiore pericolosità
dell’ecstasy.
Non è raro che due o più di queste sostanze si trovino miscelate nella stessa compressa.
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Pastiglie vendute per ecstasy possono contenere in realtà tutt’altro, ad esempio altre
droghe (amfetamina, ketamina), esclusivamente diluenti o, addirittura, farmaci per uso
umano o veterinario.
Il consumatore non ha alcun modo di conoscere la natura e la quantità delle sostanze
contenute nella pastiglia esponendosi così al rischio di assumere altre sostanze
potenzialmente nocive oppure una dose eccessiva di ecstasy.
L’aspetto esteriore della pastiglia può ingannare perché il contenuto può essere diverso
da quello di pastiglie con lo stesso aspetto provate in precedenza. In alcune discoteche
olandesi è stato istituito un servizio di controllo del contenuto delle compresse in modo
che il consumatore possa avere almeno un’indicazione di ciò che sta per assumere. In
Inghilterra è stato messo in commercio un kit diagnostico con il medesimo scopo.
Come si prende l'ecstasy?
Quasi sempre per bocca. Se presa dopo un pasto l’assorbimento della sostanza attraverso
la parete dello stomaco è più lento ed anche l’effetto si manifesta più lentamente.
La polvere può essere inalata e sono segnalati rari casi di assunzione per iniezione
endovenosa.
Cosa succede se, assieme all’ecstasy, si consuma anche alcol o si prendono altre
sostanze?
Molto spesso l’uso di ecstasy è associato al consumo di alcol, di psicofarmaci e di altre
sostanze stupefacenti (cocaina, hashish e marijuana). Sono descritti anche casi di uso
combinato di ecstasy e di Viagra®, talora anche con l’aggiunta di cocaina.
Questi comportamenti sono molto pericolosi perché agli effetti dell'ecstasy
sull'organismo si possono aggiungere quelli prodotti dalla/e altra/e sostanza/e
aumentando significativamente il rischio di manifestazioni tossiche.
L’assunzione di alcuni farmaci o di altre sostanze d’abuso può esaltare gli effetti tossici
dell’ecstasy. In particolare, i farmaci che vengono trasformati ed inattivati dall’organismo
dagli stessi sistemi enzimatici coinvolti nell’inattivazione dell’ecstasy possono
determinare una riduzione della velocità di eliminazione dell’ecstasy dall'organismo e, di
conseguenza, un prolungamento degli effetti della sostanza. Il fenomeno è stato ad
esempio riscontrato nel caso di alcuni farmaci antivirali, tra cui gli inibitori delle proteasi
dell’HIV-1 (ad es. Ritonavir, Saquinavir).
Spesso, inoltre, l’assunzione di altre sostanze, tra cui soprattutto l’alcol e i farmaci
antidepressivi (ad esempio il Prozac) può ridurre l’intensità degli effetti piacevoli prodotti
dall’ecstasy e/o aumentare quella degli effetti spiacevoli.
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L’ecstasy produce tolleranza e dipendenza?
La dose di ecstasy sufficiente a produrre l’effetto ricercato dal consumatore è
mediamente compresa tra 50 e 100 mg.
L’uso regolare di ecstasy produce un rapido aumento della tolleranza: sono cioè
necessarie dosi maggiori per raggiungere l’’high’ e in ogni caso il consumatore regolare
raramente raggiunge le stesse sensazioni e la stessa intensità inizialmente provate. Invece,
diversi consumatori descrivono un aumento dell’intensità degli effetti spiacevoli prodotti
dall’ecstasy. Il fenomeno è in ogni caso reversibile: un consumatore abituale che si
astiene dall’uso perde la tolleranza acquisita.
Il consumatore di ecstasy non raggiunge lo stato di bisogno irrefrenabile di assumere altre
dosi tipico, ad esempio, del consumatore di eroina. Spesso, tuttavia, insorge una
condizione psicologica di dipendenza dallo stato emozionale prodotto dalla droga, al
punto che alcuni soggetti cominciano a pensare che senza l’ecstasy non sia possibile
divertirsi “veramente”.
Quali sono i segni più visibili del consumo abituale di ecstasy?
Sono in generale disturbi di natura neuropsicologica ed in particolare incapacità di
concentrazione, difficoltà di attenzione, disturbi della memoria e del sonno.
Quali sono gli effetti piacevoli dell'ecstasy?
L’ecstasy è uno stimolante con una blanda azione allucinogena (il suo effetto viene
spesso paragonato a quello di una miscela di amfetamina con un po’ di LSD).
Essa provoca il rilascio nel cervello di serotonina, una sostanza implicata nella
trasmissione degli impulsi nervosi e coinvolta, in particolare, nei meccanismi di
regolazione dell’umore, del sonno e dell’appetito. Gli effetti piacevoli dell’ecstasy sono
principalmente legati al forte rilascio di serotonina ed all’impegno da parte della sostanza
di tutti i recettori disponibili nelle cellule nervose.
L’effetto si manifesta entro circa 20 minuti - 1 ora dall’assunzione e dura sino a circa 6
ore: una forte sensazione di benessere, di accresciuta confidenza con gli altri, di
rimozione delle barriere emotive e comunicative. Le sensazioni tattili sono esaltate, la
tensione si scioglie. Alcuni consumatori descrivono anche una maggiore capacità di
percepire il ritmo e la musica. Questi effetti sono particolarmente ricercati tra i
frequentatori di discoteche - l’effetto ipnotico della musica e della luce sono spesso un
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elemento chiave dell’esperienza riferita dai consumatori - proprio per le accresciute
possibilità di contatto e di comunione con gli altri.
Per la capacità di stimolare e facilitare il contatto interpersonale sia spirituale che fisico,
l’ecstasy e le sostanze ad essa simili vengono definite ”entactogene” o anche
“empatogene” (che favoriscono l’empatia, cioè la capacità di immedesimarsi nei pensieri
e negli stati d’animo di un'altra persona).
La capacità del consumatore di ecstasy di vivere e di sperimentare l’effetto soggettivo pur
rimanendo in compagnia e, spesso, senza che gli altri percepiscano lo stato di alterazione
differenzia questa sostanza da molte altre droghe, come ad esempio l’eroina, il cui uso ed
i cui effetti costituiscono invece un’esperienza esclusivamente personale.
L’ecstasy riduce le sensazioni di stanchezza e di fame, il che spiega la notevole resistenza
sulla pista da ballo - anche di ore - di chi ne fa uso.
Quali sono gli effetti spiacevoli dell'ecstasy?
Dopo alcune ore dall’assunzione si verifica nel cervello un drastico calo nei livelli di
serotonina con conseguente sensazione di depressione, apatia e prostrazione. Questa fase
può durare sino a 3-4 giorni.
Alcuni utilizzatori di ecstasy riferiscono esperienze negative quali sensazioni di ansia e di
panico, confusione, spiacevoli distorsioni delle percezioni sensoriali. Questa idiosincrasia
nei confronti dell’ecstasy potrebbe essere spiegata dalla carenza, in questi soggetti, dei
sistemi enzimatici coinvolti nella trasformazione metabolica e quindi nella inattivazione
dell’ecstasy. Tale aspetto è tutt’altro che trascurabile se si considera che questa carenza,
che ha basi genetiche, riguarda dal 5 al 9% della popolazione di origine caucasica.
L’assunzione di una dose eccessiva provoca un notevole innalzamento della pressione
arteriosa, una accelerazione della frequenza cardiaca e temperature corporee elevate (sino
a 43°C). Un altro possibile effetto è la rabdomiolisi, vale a dire la distruzione dei muscoli
scheletrici, a cui consegue un’insufficienza renale acuta. In alcuni casi sono stati descritti
danni anche a carico del fegato (insufficienza epatica acuta)
Alcuni accorgimenti, come interrompere ogni tanto il ballo e reintegrare i liquidi persi
con la sudorazione (evitando naturalmente bevande gelate ed alcolici), possono prevenire
efficacemente il verificarsi di queste situazioni di pericolo.
Elevate dosi di ecstasy possono produrre allucinazioni con conseguenti comportamenti
irrazionali e pericolosi per sé e per gli altri.
I rischi connessi all’uso dell’ecstasy sono particolarmente elevati in soggetti portatori di
patologie cardiache e respiratorie come pure in soggetti con turbe psichiche.
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Quali danni produce sull’organismo l’uso prolungato di ecstasy?
L’uso prolungato di ecstasy può produrre disturbi del sonno, deficit di memoria, periodi
di depressione o di ansia, disturbi dell’appetito (anoressia).
Il forte rilascio di serotonina indotto nel cervello dall’ecstasy è causa sospetta di danni di
natura reversibile ed anche irreversibile alle cellule nervose. Recenti studi hanno
evidenziato che già dopo una singola dose le modificazioni prodotte nel cervello
permangono per anni e forse sono addirittura permanenti.
Che fare se l’amico è in “overdose”?
L’evento più pericoloso è il colpo di calore prodotto dall’innalzamento della temperatura
corporea e dalla disidratazione. In tali situazioni chiamate i soccorsi con la massima
urgenza. Portate l’amico in un luogo fresco e cercate di rinfrescarlo (ad esempio
bagnando il viso) e, se è cosciente, fatelo bere (evitando naturalmente bevande gelate e
alcolici). Anche se il soggetto si riprende è comunque opportuno un controllo medico.
Anche nel caso di un’esperienza spiacevole (“bad trip”) con l’ecstasy la cosa più
importante da fare è chiamare i soccorsi, cercando nel frattempo di tranquillizzare
l’amico parlandogli e allontanandolo da luoghi affollati, rimanendo sempre con lui.
L’uso di ecstasy aumenta il rischio di contrarre malattie infettive?
In alcuni soggetti l’uso di ecstasy determina una riduzione della percezione dei rischi. La
sottostima del pericolo di un rapporto sessuale non protetto espone tali soggetti alla
possibilità di contrarre patologie infettive quali l’HIV/AIDS e le epatiti.
Inoltre, la produzione dell’ecstasy e le successive fasi di “taglio” sono effettuate in
laboratori clandestini e senza alcun controllo igienico. Dunque la stessa sostanza che
viene ingerita può essere causa di infezioni.
E’ importante sottolineare che la somministrazione di alcuni antivirali impiegati nella
terapia del HIV/AIDS, vale a dire gli inibitori delle proteasi dell’HIV 1 (ad es. Ritonavir
e Saquinavir), può inibire la metabolizzazione dell’ecstasy da parte dell’organismo e,
conseguentemente, esaltare gli effetti tossici della sostanza.
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E’ pericoloso l’uso di ecstasy durante la gravidanza?
Molto scarsi sono gli studi scientifici effettuati sull’argomento. Alcuni di questi
evidenziano che l’uso di ecstasy durante la gravidanza può causare aborti e danni per il
neonato.
Un recente studio inglese ha riscontrato una aumentata incidenza di anomalie a livello del
cuore e dell’apparato muscoloscheletrico in bambini nati da consumatrici di ecstasy
durante la gravidanza.
In mancanza di ulteriori e più ampi studi sperimentali che confermino questi risultati
l’uso di ecstasy durante la gravidanza è comunque sconsigliabile.
Si può morire di ecstasy?
Nonostante l’ecstasy sia generalmente percepita come droga poco o per nulla pericolosa,
non pochi sono i casi di morte causati direttamente oppure correlati all’uso di ecstasy.
I casi mortali sono generalmente conseguenti al notevole surriscaldamento corporeo ed
alla disidratazione prodotta dall’intensa e prolungata attività fisica del ballo.
Alcuni accorgimenti, come interrompere ogni tanto il ballo e reintegrare i liquidi persi
con la sudorazione (evitare bevande gelate ed alcolici), possono prevenire efficacemente
il verificarsi di queste situazioni di pericolo.
Oltre alle cause di morte direttamente legate all’ecstasy è necessario anche considerare le
morti ecstasy-correlate (ad es. le morti per incidente stradale di soggetti alla guida sotto
l’effetto di ecstasy).
E’ punibile dalla legge chi fa uso di ecstasy?
Il possesso, l’acquisto e l’importazione di ecstasy per uso personale, anche in piccola
quantità, viene punito con sanzioni amministrative come la sospensione della patente, del
passaporto o del porto d'armi.
La procedura prevede che, una volta accertati i fatti e contestata la violazione di legge, gli
organi della polizia avvisino il Prefetto del luogo in cui è stato commesso il fatto, oppure
invitino la persona a presentarsi immediatamente davanti a lui. Entro cinque giorni il
Prefetto convoca la persona segnalata per accertare le ragioni della violazione e per
individuare gli accorgimenti utili a prevenire violazioni ulteriori.
L'interessato può chiedere di essere sottoposto ad un programma terapeutico presso le
unità sanitarie locali o altra struttura con sede nella provincia che svolga attività di
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prevenzione e recupero. In tal caso il Prefetto, se lo ritiene opportuno, può sospendere il
procedimento. Il Prefetto comunque cura l'acquisizione dei dati necessari per valutare il
comportamento durante il programma e se risulta che l'interessato ha attuato il
programma, archivia il procedimento. Se l'interessato non si presenta alla struttura
sanitaria entro il termine stabilito dal Prefetto ovvero se lo interrompe senza un
giustificato motivo, viene di nuovo convocato innanzi al Prefetto che lo invita a rispettare
il programma.
Se si tratta di persona minore di età e il Prefetto non ravvisa la necessità di applicare la
sanzione di cui sopra, il procedimento verrà definito con un formale invito a non farne
più uso. Il Prefetto se lo ritiene opportuno può convocare i familiari per dar loro notizia
dei fatti.
Chi vende o cede anche gratuitamente ecstasy rischia un'ammenda da 5 a 50 milioni di
lire e l'arresto da 1 a 6 anni. Se si tratta di quantità maggiori, l’ammenda è da 50 a 500
milioni di lire e l'arresto è da 8 a 20 anni.
E’ pericoloso guidare sotto l’effetto dell’ecstasy?
L’effetto stimolante dell’ecstasy determina un aumento dello stato di allerta e una
maggiore confidenza nei propri mezzi che può essere all’origine di una ridotta percezione
del rischio alla guida di un automobile. Anche la alterazione delle percezioni sensoriali,
ed in particolare del tempo, può determinare un peggioramento della performance di
guida.
Un altro aspetto che rende pericolosa l’ecstasy in rapporto alla guida è la stanchezza
accumulata in seguito all’intensa attività fisica in discoteca e che può ripresentarsi, sotto
forma di colpi di sonno, una volta terminato l’effetto della sostanza, al momento del
ritorno a casa. E’ dunque pericoloso, per sé e per gli altri, mettersi alla guida sotto
l’effetto dell’ecstasy.
Guidare sotto l’effetto dell’ecsasy, oltre che pericoloso è anche vietato. Il Codice della
Strada prevede l’arresto fino ad 1 mese, una multa da Lire 500.000 a 1.000.000 e la
sospensione della patente da 15 giorni a 3 mesi. La sospensione della patente può durare
da 1 a 6 mesi se vengono commesse più violazioni nel corso di un anno.
La procedura prevede che in caso di incidente o se vi è ragionevolmente motivo di
ritenere che il conducente si trovi sotto l’effetto di stupefacenti, la polizia stradale può
accompagnare il conducente presso una struttura sanitaria pubblica per il prelievo di
sangue e di urina. Copia del referto sanitario positivo deve essere tempestivamente
trasmessa al prefetto del luogo della commessa violazione. Il Prefetto, sulla base della
certificazione rilasciata, ordina che il conducente sia sottoposto a visita medica di
revisione e può disporre, in via cautelare, la sospensione della patente di guida fino
all’esame di revisione che deve avvenire comunque entro un termine stabilito.
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Nel caso in cui il conducente si rifiuti di sottoporsi all’accertamento, verrà denunciato per
il reato di rifiuto congiuntamente al reato di guida in stato di alterazione psicofisica.
Come per l’ebbrezza alcolica, anche per l’alterazione psicofisica dovuta all’assunzione di
sostanze stupefacenti, è possibile accertare il reato senza l’esame tecnico, ma con
l’osservazione di un comportamento che dimostri lo stato di alterazione psicofisica e che
questo, inequivocabilmente, sia collegabile all’uso delle sostanze stupefacenti.
Il Codice della Strada ed in particolare l’articolo 320 del Regolamento di attuazione,
stabilisce che “la patente di guida non deve essere rilasciata o confermata ai candidati che
si trovino in uno stato di dipendenza attuale da alcol, stupefacenti o sostanze
psicotrope….”.
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I Danni dell’Eroina
L’eroina è un composto che deriva dalla trasformazione chimica della morfina, sostanza
di origine vegetale contenuta nel lattice che si ottiene dalla incisione delle capsule
ancora verdi ma completamente sviluppate del papavero sonnifero (Papaver somniferum
L.). Il lattice bianco che fuoriesce dalle incisioni si coagula e si condensa trasformandosi
nel giro di poche ore in una sostanza densa e di colore bruno, l’oppio. Il papavero
sonnifero da oppio è coltivato in estremo oriente, nell’Asia Minore, nella penisola
balcanica e, in tempi più recenti, nel centro e sud America.
Cosa c’è nell’eroina che si compra dallo spacciatore?
L’eroina che si acquista nel mercato illecito è una polvere fine oppure in piccoli granuli,
di colore dal bianco al marrone chiaro, di odore leggermente pungente e dal sapore
amaro, costituita in realtà da una miscela di sostanze la cui composizione è molto
variabile.
La “dose” è in genere confezionata in un piccolo pezzo di carta argentata (quella che si
trova dentro i pacchetti di sigarette) oppure in bustine di plastica.
Anche la percentuale di eroina contenuta nella “dose” o “bustina” può variare
notevolmente a seconda del numero di passaggi intermedi dal produttore al consumatore:
si va dal 50% e oltre alla traccia minima (meno dell’1%). In media, la percentuale di
eroina contenuta in una “dose” si aggira attorno al 10%.
Proprio a causa della notevole variabilità della percentuale di eroina che si può trovare
nella “bustina”, il consumatore non ha alcun modo di sapere la quantità di eroina pura
che sta per assumere.
Le altre sostanze che possono essere presenti nella ”eroina da strada” sono classificabili
in:
- sostanze che, pur non avendo effetto stupefacente, simulano alcune caratteristiche
dell’eroina (ad esempio il sapore amaro). Queste sostanze sono indicate con il nome di
adulteranti (ad esempio caffeina, procaina, lidocaina, fendimetrazina, aminofenazone,
barbiturici, chinina, stricnina);
- sostanze aggiunte con l’unico scopo di diluire l’eroina e di realizzare quindi un
maggior profitto dalla vendita. Queste sono indicate con il nome di diluenti (ad esempio
zuccheri, acido citrico, bicarbonato, acido borico);
- sostanze estratte dall’oppio assieme alla morfina e presenti nella bustina da strada
come impurezze (ad esempio acetilcodeina, narcotina, papaverina).
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A volte, oltre all’eroina, possono essere presenti altre sostanze stupefacenti, come ad
esempio cocaina (la miscela di eroina e cocaina è nota con il nome di “speedball”) o
amfetamina (“bombitas”).
Al contrario di quanto comunemente si crede e di quanto generalmente viene riportato dai
media, quello che rende pericolosa l’eroina da strada e che in genere causa fenomeni di
aumento della mortalità in un’area geografica e/o in un ristretto arco di tempo non sono le
sostanze aggiunte all’eroina (il cosiddetto “taglio”) ma, invece, la variabilità della
percentuale di eroina che può essere contenuta nella bustina che si acquista dallo
spacciatore. All’origine di questi fenomeni vi è infatti la temporanea presenza sul
“mercato” di preparati contenenti percentuali di eroina più elevate di quelle normalmente
reperibili e tali da non essere tollerate da molti consumatori di eroina. In altre parole, non
è la natura del “taglio” ma la occasionale “riduzione del taglio” a rendere pericolosa
l’eroina da strada.
Come si prende l'eroina?
Nei paesi occidentali il modo più diffuso di prendere l'eroina è l'iniezione in vena ("pera",
"buco") dopo avere sciolto il contenuto della "bustina" in acqua.
Gli strumenti che vengono utilizzati per il "buco" sono la siringa da insulina, dell'acqua
(spesso vengono usate le fiale di acqua distillata per preparati iniettabili che si comprano
in farmacia), il cucchiaino, un accendino o un'altra fonte di calore, del succo di limone
(che servono a sciogliere la polvere in acqua), e un filtro (per rimuovere sostanze non
disciolte dalla soluzione che verrà iniettata; in genere viene usato il filtro di una
sigaretta).
Generalmente l'iniezione viene fatta nelle vene degli avambracci, in alcuni casi vengono
scelte altre aree del corpo che sono normalmente coperte da indumenti, come le gambe, i
piedi o anche gli organi genitali.
L'eroina viene anche inalata (sotto forma di polvere, “sniffata”) o fumata. Un’altra
modalità di assunzione, indicata come “chasing the dragon” (inseguendo il drago),
consiste nel bruciare l’eroina sopra ad una lastra e nell’inalare i fumi attraverso un
piccolo tubo o una banconota arrotolata. La via inalatoria viene in genere scelta sia nella
convinzione (sbagliata) che l'eroina se non è iniettata in vena non produca dipendenza,
sia per evitare i rischi di infezione che sono associati al “buco”. Per questa ragione è stata
riscontrata una recente tendenza all'aumento della scelta di questa via di assunzione
rispetto all'iniezione in vena. Quest'ultima è in ogni caso la via di assunzione che produce
un effetto stupefacente più rapido e più intenso.
62
Cosa succede se, assieme all'eroina, si consuma anche alcol o si prendono altre
sostanze?
Negli ultimi anni si sta diffondendo tra i consumatori di eroina la tendenza ad assumere
anche altre sostanze d'abuso assieme all'eroina. Tra queste ci sono soprattutto l'alcol,
alcuni farmaci sedativi e tranquillanti (Valium, Darkene, Roipnol, Tavor) e altre sostanze
stupefacenti (cocaina, ecstasy, hashish e marijuana).
Questo comportamento è molto pericoloso perché agli effetti dell'eroina sull'organismo si
possono aggiungere quelli prodotti dalla/e altra/e sostanza/e aumentando
significativamente il rischio che si producano effetti tossici anche in soggetti consumatori
abituali di eroina.
Per la stessa ragione é molto pericoloso, per un soggetto in trattamento con metadone o
con altri farmaci sostitutivi dell'eroina (es. buprenorfina), continuare ad assumere eroina
oppure anche altre sostanze d'abuso (alcol, sedativi, tranquillanti, stupefacenti, ed anche
altro metadone al di fuori di quello prescritto).
Perché col tempo si tende ad aumentare la dose?
Un consumatore cronico di eroina assume in genere tra i 100 milligrammi ed 1 grammo
al giorno divisi in 2-4 dosi.
L'eroina è una sostanza che produce assuefazione. Questo vuol dire che in un
consumatore che continuasse ad assumere tutti i giorni sempre la stessa dose, l'effetto
prodotto sull'organismo sarebbe progressivamente minore. Per questo motivo i
consumatori di eroina tendono con il passare del tempo ad aumentare la dose assunta.
Questo fenomeno, legato al progressivo adattamento dell'organismo all'eroina
(tolleranza), è reversibile: l'astinenza volontaria o forzata - per esempio conseguente ad
un periodo di detenzione in carcere - dall'eroina per un periodo anche relativamente breve
(un paio di settimane sono sufficienti) causa una riduzione della tolleranza.
Ciò significa che se un soggetto, dopo un periodo di astinenza, riprende a usare l'eroina
nelle stesse dosi che prendeva prima, rischia di incorrere quasi certamente negli effetti
tossici della sostanza. Il fenomeno della perdita della tolleranza è considerato una delle
principali cause di morte per intossicazione acuta da eroina.
Quali sono i segni più visibili dell'assunzione di eroina?
Oltre ai segni più evidenti nei consumatori di eroina per iniezione, e cioè i segni di
agopuntura o “buchi”, generalmente agli avambracci, ma anche in altre parti del corpo
(gambe, piedi, organi genitali), sono:
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-
parola "impastata"
rallentamento nei movimenti
tendenza alla sonnolenza
prurito insistente
pupille "a spillo"
Quali sono gli effetti piacevoli dell'eroina?
L'iniezione di eroina provoca nel giro di pochi secondi una forte sensazione di piacere
("flash") spesso descritta come un intenso orgasmo sessuale, accompagnata da una
sensazione di euforia e da vampate di calore.
Dopo questo effetto, che dura pochi minuti, subentra una seconda fase caratterizzata da
calma, rilassatezza, soddisfazione, e distacco da quanto succede all'esterno. Questo
effetto si esaurisce entro 2-6 ore dall'iniezione. Se l'eroina viene inalata o fumata gli
effetti sono qualitativamente uguali, ma sono meno rapidi e meno intensi. L'eroina ha
anche una potente azione depressiva sul sistema nervoso e ottunde sia gli stimoli esterni
che quelli interni sgradevoli: il dolore, le angosce, le paure, l'urgenza del sesso.
Quali sono gli effetti spiacevoli dell'eroina?
Entro un periodo di tempo che va da 2 sino a 6 ore dopo l'iniezione o l'inalazione di
eroina, agli effetti piacevoli cominciano a subentrare quelli spiacevoli: agitazione, dolori
diffusi, bisogno che a poco a poco diventa irrefrenabile di assumere un'altra dose.
In un tempo piuttosto rapido (bastano poche dosi) si sviluppa una forte dipendenza che si
manifesta come desiderio prepotente di assumere nuovamente la droga e come spinta a
procurarsela con ogni mezzo.
L’assunzione abituale di eroina determina una progressiva riduzione delle sostanze che
agiscono nel cervello sui meccanismi che regolano la percezione del dolore (le più note
delle quali sono le endorfine), oltre che la perdita di gran parte dei recettori attraverso i
quali la sostanza agisce sulle cellule nervose. Se non viene assunta una nuova dose di
eroina, la mancanza della sostanza in aggiunta alla riduzione delle endorfine e dei
recettori provoca la comparsa della crisi da astinenza. La crisi da astinenza comincia a
manifestarsi dopo poche ore dall'ultima assunzione e raggiunge il massimo di intensità
entro 1 o 2 giorni. I principali sintomi della crisi da astinenza comprendono agitazione,
allucinazioni, insonnia, dolori diffusi, tremori, aumento della produzione di sudore, di
saliva e di muco nasale, nausea, vomito, diarrea e crampi addominali e sono tanto più
intensi quanto maggiore è stata la durata del consumo di eroina. La crisi da astinenza
scompare dopo l'assunzione di una nuova dose o, nel caso in cui l'astinenza prosegua, nel
giro di 3-7 giorni.
64
Quando la dose di eroina è superiore a quella che l'organismo è in grado di sopportare
("overdose"), o quando l'eroina viene presa assieme ad altre sostanze che ne potenziano
gli effetti (alcool, sedativi, tranquillanti) la sensazione di calma e rilassatezza si trasforma
in una progressiva depressione del respiro e del sistema circolatorio, sino a giungere
all'arresto cardiocircolatorio e quindi alla morte.
Che fare se l’amico è in “overdose”?
Chiamate i soccorsi con la massima urgenza, rimanete con lui, fatelo sdraiare su un
fianco e non fatelo addormentare. Non nascondete ai medici di soccorso il nome della
sostanza assunta: il naloxone (Narcan) è l’antidoto specifico dell’eroina e deve essere
iniettato al più presto. Esso è disponibile presso gli ospedali, molte unità di soccorso da
strada e in tutte le farmacie, dove può essere acquistato anche senza ricetta medica.
Il naloxone è molto efficace e consente un rapido recupero del soggetto in overdose il
quale, una volta ripresosi, generalmente cerca di abbandonare l’ospedale o l’unità di
soccorso. Questo è un comportamento molto pericoloso: l’effetto del naloxone è più
breve di quello dell’eroina e c’è il rischio concreto che, una volta terminato l’effetto del
naloxone, il soggetto ritorni sotto gli effetti dell’eroina. Per questo motivo è consigliabile,
dopo la somministrazione di Narcan, rimanere sotto osservazione del personale sanitario
per almeno alcune ore.
Perché i consumatori di eroina corrono un rischio elevato di contrarre infezioni?
In primo luogo per la pratica, piuttosto diffusa tra i consumatori di eroina per iniezione,
di scambiarsi la siringa o di utilizzare siringhe usate trovate in giro. Questi sono
comportamenti assolutamente da evitare perché sono la causa principale di trasmissione
di malattie infettive quali l’HIV/AIDS e l’epatite B e C.
Anche chi assume eroina con modalità diverse dall’iniezione è esposto al rischio di
infezione. Ad esempio, l’uso abituale di eroina e la necessità irrefrenabile di procurarsi la
droga portano spesso a sottostimare il pericolo delle infezioni trasmesse attraverso i
rapporti sessuali (rapporti sessuali non protetti, prostituzione). Inoltre, la lavorazione
dell’oppio e le successive fasi di “taglio” dell’eroina sono condotte senza alcun controllo
igienico. Dunque la stessa polvere che viene iniettata, inalata o fumata può essere causa
di infezioni.
Oltre all’HIV/AIDS ed alle epatiti, le infezioni che si riscontrano spesso nei consumatori
abituali di eroina sono le infezioni batteriche dei vasi circolatori e delle valvole cardiache
(endocarditi) e polmoniti di varia origine.
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Quali danni produce sull’organismo l’uso prolungato di eroina?
A parte il rischio di contrarre patologie infettive, l’uso prolungato di eroina produce una
progressiva debilitazione fisica. Gli organi più direttamente interessati sono fegato, reni e
polmoni. La presenza di particelle insolubili nel liquido iniettato può causare fenomeni di
otturamento dei vasi sanguigni e la conseguente morte delle cellule irrorate da questi
vasi. La reazione immunitaria ai vari contaminanti presenti nell’eroina di strada è
all’origine dell’artrite (infiammazione delle articolazioni) e di altri problemi reumatici.
Perché è pericoloso fare uso di eroina durante la gravidanza?
L’uso di eroina durante la gravidanza è estremamente pericoloso per il feto e per il
bambino ed è causa di aborti o parti prematuri e di morte improvvisa nei bambini. D’altra
parte, anche la disassuefazione dall’eroina durante la gravidanza è sconsigliabile perché
può causare anch’essa aborti e parti prematuri. Per questo motivo la terapia di
mantenimento con metadone può essere indicata durante la gravidanza anche se occorre
tenere ben presente i possibili effetti collaterali, quali l’insorgenza di una dipendenza
fisica da metadone nel bambino e possibili danni al feto causati dall’uso prolungato di
metadone.
Perché si muore di eroina?
Per diverse ragioni.
La prima e più importante è la assunzione di una dose eccessiva rispetto al grado di
tolleranza che il consumatore ha sviluppato nei confronti dell’eroina (“overdose”).
Questo può succedere o perché il consumatore acquista, senza saperlo, una polvere
contenente una percentuale di eroina superiore a quella solitamente reperibile nel mercato
illecito, oppure perché ha perduto la tolleranza in seguito ad una interruzione dell’uso di
eroina (ad esempio dopo una terapia di disassuefazione o dopo un periodo di detenzione
in carcere) e riprende ad assumere la stessa dose di eroina che usava prima
dell’interruzione.
Un’altra ragione è il consumo, assieme all’eroina, di altre sostanze d’abuso (ad esempio
alcol, psicofarmaci, altri stupefacenti) che possono esaltare gli effetti dell’eroina. In tal
caso, anche una dose “normale” di eroina può essere letale.
In alcuni casi la causa della morte è lo stesso indebolimento fisico generale causato dal
prolungato abuso, che rende l’organismo più esposto agli effetti dell’eroina.
Spesso si legge o si sente parlare nei media di eroina “tagliata male”, indicando così nelle
sostanze usate per il “taglio” la causa della morte. Questo è una “leggenda metropolitana”
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assolutamente da sfatare. In genere, infatti, si muore perché l’eroina è tagliata “poco”
(ossia è particolarmente concentrata), non “male”.
Oltre alle cause di morte direttamente legate all’eroina, appena elencate, è necessario
anche considerare le morti eroina-correlate (ad es. le morti per patologie infettive causate
dall’uso di eroina, le morti per incidente stradale di soggetti alla guida sotto l’effetto di
eroina).
E’ punibile dalla legge chi fa uso di eroina?
Il possesso, l’acquisto e l’importazione di eroina per uso personale, anche in piccola
quantità, viene punito con sanzioni amministrative come la sospensione della patente, del
passaporto o del porto d'armi.
La procedura prevede che, una volta accertati i fatti e contestata la violazione di legge, gli
organi della polizia avvisino il Prefetto del luogo in cui è stato commesso il fatto, oppure
invitino la persona a presentarsi immediatamente davanti a lui. Entro cinque giorni il
Prefetto convoca la persona segnalata per accertare le ragioni della violazione e per
individuare gli accorgimenti utili a prevenire violazioni ulteriori.
L'interessato può chiedere di essere sottoposto ad un programma terapeutico presso le
unità sanitarie locali o altra struttura con sede nella provincia che svolga attività di
prevenzione e recupero. In tal caso il Prefetto, se lo ritiene opportuno, può sospendere il
procedimento. Il Prefetto comunque cura l'acquisizione dei dati necessari per valutare il
comportamento durante il programma e se risulta che l'interessato ha attuato il
programma, archivia il procedimento.
Se l'interessato non si presenta alla struttura sanitaria entro il termine stabilito dal Prefetto
ovvero se lo interrompe senza un giustificato motivo, viene di nuovo convocato innanzi
al Prefetto che lo invita a rispettare il programma.
Se si tratta di persona minore di età e il Prefetto non ravvisa la necessità di applicare la
sanzione di cui sopra, il procedimento verrà definito con un formale invito a non farne
più uso. Il Prefetto se lo ritiene opportuno può convocare i familiari per dar loro notizia
dei fatti.
Chi vende o cede anche gratuitamente dell’eroina rischia un'ammenda da 5 a 50 milioni
di lire e l'arresto da 1 a 6 anni. Se si tratta di quantità maggiori, l’ammenda è da 50 a 500
milioni di lire e l'arresto è da 8 a 20 anni.
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