PER UNA PEDAGOGIA DI COMUNITA’:
PARTECIPAZIONE, CITTADINANZA, DEMOCRAZIA
di Andrea Pozzobon
Estratto da Dispensa del corso di Pedagogia Sociale e di Comunità
IUSVE Istituto Universitario Salesiano Venezia,
Facoltà di Scienze dell’Educazione Corso di laurea in Educatore Sociale
(a.a. 2012/2013)
“E’ errato presumere che gli individui,
se abbandonati a se stessi, tendano a seguire,
nella vita di gruppo, uno schema democratico.”
[Kurt Lewin]
CAPITOLO 1
E’ individuabile un’identità epistemologica della Pedagogia di comunità?
Riflessioni a partire dalla relazione con la Pedagogia sociale, la Psicologia
sociale e la Psicologia di comunità.
1.1
Il concetto di comunità
Chiarire il significato del concetto di “comunità” è necessario per poi
fondare obiettivi, strategie ed azioni per un lavoro di comunità. La riflessione
in proposito è estesa e proviene da prospettive diverse, in particolare (ma non
solo) di ambito filosofico, sociologico, psicologico, pedagogico, urbanistico [cfr.
Francescato 1988, Dalle Fratte 1995, Martini-Sequi 1995, Esposito 1998,
Amerio 2000, Bauman 2001, Tramma 2009].
Abbiamo a che fare con un concetto perlopiù indeterminato. L’etimologia
deriverebbe da cum-munia (doveri/compiti comuni) o da cum-moenia (mura
comuni); in ogni caso il prefisso cum suggerisce le dimensioni di relazione, di
condivisione, di sistema di interazioni.
Una prima definizione di comunità, poi approfondita in chiave sociologica
da Tönnies, è fondata sulla distinzione tra comunità e società che ha fatto
Schleiermacher (1768-1834): “nel suo pensiero la comunità si delinea come
una forma di socialità costituita da uno speciale legame tra i suoi membri,
ricco di sentimenti e sostenuto da uno scopo comune; […] un’entità che trova
la sua forza nella contrapposizione a quell’altra forma di socialità che è la
società: quest’ultima, non dotata di uno scopo comune e in cui i legami tra i
membri sono sostenuti solo dalle ragioni del contratto, è quindi solo una difesa
di egoismi e di interessi particolaristici” [cit. in Amerio 2000, 94-95].
Tönnies è il primo a trattare organicamente il concetto di comunità
definendo, in maniera significativa per tutta la riflessione successiva, la
dicotomia tra vita in comunità (gemeinschaft) e vita in società (gesellschaft): “la
comunità è la convivenza durevole e genuina, la società è soltanto una
convivenza leggera e apparente. E’ quindi coerente che la comunità debba
essere intesa come un organismo vivente, e la società, invece, come un
aggregato e prodotto meccanico” [Tönnies 1979, 46-47]. Ai nostri occhi risulta
evidente l’enfatizzazione, in queste due affermazioni storiche, del carattere
necessariamente e invariabilmente positivo del concetto di comunità;
addirittura per Tönnies “parlare di “cattiva comunità” è contrario al senso
della lingua” [id, 45].
E’ con la Scuola di Chicago1 (Dewey, Mead, Park) che viene superata in
parte la contrapposizione tra un ideale di comunità e la comunità reale; per
Park la comunità ha tre caratteristiche essenziali: a) una popolazione
organizzata sul territorio (organizzazione sociale); b) tale popolazione è più o
meno radicata su tale territorio, c) in esso le unità individuali vivono una
relazione di interdipendenza [Amerio 2000]. Tale approccio si concretizza
progressivamente in un’idea di comunità locale come luogo sia geografico sia
umano. E’ difficile infatti che delle relazioni umane/sociali avulse da un
territorio possano assumere le caratteristiche di una comunità; d’altra parte la
dimensione territoriale appare insufficiente a definire una comunità.
In questo senso Amerio rintraccia nelle dimensioni di comunità localeterritoriale, di relazione, di partecipazione le direttrici più adeguate per una
psicologia di comunità che operi, in particolare nelle forme della ricercaazione, per una vita collettiva più armonica, più partecipativa, più giusta [id.
2000].
Sergio Tramma nel suo testo Pedagogia della comunità approfondisce la
contrapposizione tra idealità e realtà della comunità; il suo obiettivo è
superare la dimensione pre-giudiziale di una comunità ideale, astratta,
intrinsecamente positiva, virtuosa: “il problema che si pone è quale comunità
in quale territorio per quale distintiva comunanza. In questo senso, la comunità
territoriale cessa di essere una virtuosa e obbligata risposta al bisogno di
partecipazione e di benessere di cittadini astrattamente intesi, e può invece
diventare anche bisogno di partecipazione di cittadini concreti che possono
aspirare o dare luogo a comunità etniche, difensive, escludenti, razziste,
autoritarie, integraliste. In sintesi, la virtuosità non è connotato della
comunità, ma del progetto di comunità che virtuoso può esserlo molto, ma
anche poco o per nulla” [Tramma 2009, 62].
Secondo Adelson [cit. in Francescato 1988] il termine comunità si fonda su
cinque aspetti:
la comunità come gruppo in cui c’è un’intensiva e intima condivisione
1.
di idee e sentimenti.
2.
la comunità come luogo nel tempo e nello spazio
3.
la comunità come appartenenza culturale e destino condiviso
4.
la comunità come “sistema di sistemi”
1
La Scuola di Chicago si è caratterizzata negli anni tra il 1920 e il 1940 nella ricerca sociale
sulle città e sulle comunità urbane e rurali. Robert Park ne fu il principale animatore grazie al
suo interesse per la città in quanto organismo sociale. La Scuola di Chicago dà una spinta
decisiva all’idea di comunità locale come luogo “umano” oltre che geografico.
2
5.
la comunità come civitas, con i connessi diritti e doveri spettanti ai
cittadini
Più si va ad approfondire/definire il concetto di comunità e più ci si rende
conto della sua accezione plurima che tiene insieme dimensioni oggettive e
soggettive, approcci scientifici e prospettive diverse, dimensioni storiche e
esigenze del mondo contemporaneo2.
Nell’ambito strettamente pedagogico Pellerey tende a porre in maggiore
evidenza le dimensioni relazionali e di reciprocità: “Si potrebbe parlare di un
insieme di elementi o dimensioni più o meno sottolineati che generalmente
entrano a far parte del concetto di comunità: a) solidarietà e senso di
appartenenza; b) consenso e condivisione; c) reciprocità e coinvolgimento; d)
collocazione territoriale unitaria; e) relazioni stabili con le strutture sociali,
istituzionali, economiche e culturali” [Pellerey 1999, 201].
Concepire quindi la comunità come luogo nel quale possono svilupparsi
coesione sociale, cooperazione, senso di appartenenza, democrazia, solidarietà
non significa rimanere aggrappati ad un’idea romantico-ideale della comunità
rimuovendo le dimensioni di conflitto, di chiusura, di sopraffazione e violenza
che ogni giorno accadono nelle comunità (come pare sostenere Tramma);
significa piuttosto agire l’intenzionalità politico-pedagogica di indicare alcune
mete e alcune vie per una comunità più giusta e vivibile, una comunità dove i
legami tra le persone, i gruppi e le istituzioni crescano in una logica di
interdipendenza nella costruzione del bene comune. E’ questa la dimensione
etica, teleologica e politica necessaria ad un lavoro di comunità in prospettiva
pedagogica che promuova partecipazione, cittadinanza e democrazia. “Parlare
di comunità oggi vuol dire, pertanto, sottolineare l’esigenza di sviluppare e
sostenere legami sociali, relazioni fiduciarie, forme di responsabilizzazione e di
cittadinanza attiva a livello locale: indicare una direzione per un’azione sociale
tesa ad affrontare i problemi della post modernità ed esprimere un’opzione per
una società che ponga al centro la pratica delle relazioni e che non rinunci
all’idea di un mondo più giusto” [Martini-Torti 2003, 15].
Una comunità di relazioni o una comunità della partecipazione è quindi il
risultato di articolati e faticosi processi relazionali e di lavoro e non può essere
pretesa come condizione di partenza; una comunità di partecipazione indica
una direzione politica (verso quale comunità vogliamo andare?) e una prassi
pedagogica (fatta di azioni che producono apprendimento e trasformazione). In
questo senso il concetto di comunità è un “concetto negoziato continuamente,
nelle interazioni fra i singoli residenti, e fra essi e le istituzioni e le agenzie
esterne. Le connotazioni di una comunità come luogo debole o forte, sano o
malato, ricco o povero, è il risultato di tali interazioni” [Branca-Colombo 2000].
Un ultimo accenno alla dimensione locale; parlare di comunità locale non
ha valenza escludente, non si intende cioè in maniera riduttiva solamente la
comunità coincidente con una specifica territorialità (quartiere, comune,
bacino di un distretto socio-sanitario, provincia, …); in primo luogo si pone
come dimensione circoscritta e privilegiata tale da permettere ai soggetti
coinvolti di avere il potere di incidere nelle proprie condizioni/problematiche di
vita (empowerment individuale, gruppale e comunitario/collettivo). Se la
dimensione territoriale non è definita e vissuta come “vicina” il rischio è che
2
Ho scelto, per la necessità di circoscrivere l’indagine, di non approfondire il dibattito sulle
relazione locale – globale affrontato in molti dei testi in bibliografia [Amerio 2007, Bauman
2001, Delors 1997, Morin 2001, Sen 2000].
3
non ci siano le condizioni per “dare forma alla partecipazione dei cittadini,
assumersi responsabilità rispetto ai cambiamenti desiderati, vedere la reale
influenza dei contributi collettivi sui processi di cambiamento” [Martini-Torti
2003, 21]. Ecco che, in questa prospettiva, le persone possono “sentire” (o
meno) comunità la propria famiglia, il condominio, la rete di vicinato, la rete
tra famiglie, la scuola, l’associazione sportiva, la comunità parrocchiale, il
gruppo di pari, il proprio quartiere, il proprio comune, ecc…, e tutte (o alcune
di) queste in relazione tra loro.
1.2
Comunità e prospettiva psicologico-sociale
Nell’ampio spettro della psicologia sociale è in particolare l’approccio
lewiniano (e le sue derivazioni) che appare il più fecondo per la nostra
riflessione. E’ innanzitutto nella relazione individuo-gruppo-comunità-società
che la psicologia sociale può aiutarci. Lewin, nel saggio Il conflitto fra
concezione aristotelica e concezione galileiana nella psicologia contemporanea,
pone una prima distinzione epistemologica fondamentale: quella tra “sostanza”
e “relazione”; possiamo infatti ritenere che la differenza tra il modo di pensare
moderno e quello aristotelico sta proprio “nel fatto che il tipo e la direzione dei
vettori fisici nella dinamica aristotelica sono completamente determinati in
anticipo dalla natura dell’oggetto considerato. Nella fisica moderna, per contro,
l’esistenza di un vettore fisico dipende sempre dalle mutue relazioni fra diversi
fatti fisici, e in particolare dalle relazioni tra l’oggetto e l’ambiente in cui esso si
trova” [Lewin 1965, 36]. Come con i concetti di campo e di forza la fisica spiega
il movimento dei corpi, così Lewin in psicologia spiega il comportamento dei
soggetti, e quindi il cambiamento, in quanto funzione dell’interazione tra la
Persona e l’Ambiente (C = f (P, A) [Lewin 1972 a]). Einstein e Infeld affermano:
“C’è bisogno di una grande immaginazione scientifica per concludere che non
sono le cariche né le particelle, ma il campo compreso nello spazio tra le
cariche e la particelle che è essenziale per la descrizione dei fenomeni” [cit. in
Colucci 2005, 51].
In riferimento alla comunità, e in specifico all’approccio del lavoro di
comunità, questo già ci dice che l’essenziale non sono gli elementi in sé, ma le
interazioni tra gli elementi (cioè tra gli individui, tra i gruppi e tra i gruppi e le
istituzioni). Centrare l’attenzione non sul singolo individuo, ma sull’individuo in
relazione (e sulla relazione tra le persone) ha a che fare innanzitutto con
un’idea antropologica che supera una visione della persona avulsa dalla
relazione sociale.3
“La psicologia sociale acquista perciò “un punto di vista “sovversivo”, come
l’ha definito Serge Moscovici, perché “contesta” la separazione tra l’individuale
e il collettivo, tra lo psichico e il sociale, mostrando come molti fenomeni della
nostra esistenza siano “simultaneamente psicologici e sociali”, e come,
3 Una possibile etimologia del termine “persona” ci rimanda al greco pros-opon che significa
rivolto a; ciò ci fa dire che non può darsi una persona senza un'altra a cui sia rivolta. La
persona, perciò, è sempre essere-in-relazione con l'altro da sé. Ogni persona cresce “nella”
relazione [Bruniera-Pozzobon 2005].
4
affrontando i problemi che vi si collegano, si abbia “sempre a che fare con
l’individuale ed il collettivo insieme, inseparabili” [Amerio 2007, 13].
Non è raro, nella pratica operativa, constatare come persone che agiscono in
contesti diversi (diversità di ambiente, di soggetti, di problemi da affrontare, di
modalità scelte per affrontarli, di interlocutori sociali e istituzionali, …) abbiano
comportamenti a volte estremamente diversi (con i relativi esiti di prodotto e di
clima relazionale). Per non cadere però nel rischio determinista che vede il
sociale che produce/determina l’individuo, è importante introdurre almeno
altre due dimensioni, strettamente interrelate, care a Lewin: la prima è l’idea di
un ragionamento psicosociale che procede per problemi e non per oggetti; la
seconda è la valorizzazione delle competenze attive del soggetto, valorizzando
quindi la dimensione dell’azione. L’intreccio tra queste dimensioni rende
evidente il fatto che la persona è il principale attore del proprio spazio di vita; la
sua percezione soggettiva della realtà (e quindi la percezione delle micro e
macro realtà di vita come più o meno problematiche) è determinante sulle sue
convinzioni e sui suoi comportamenti; ma tale percezione, e di conseguenza il
comportamento, si strutturano nell’influenzamento costante con gli altri e con
la comunità/società. Ogni problema ha quindi la sua genesi e prende la sua
forma nella relazione individuale-sociale, e in tale relazione va affrontato e
risolto. Da qui l’approccio lewiniano di uno strettissimo legame tra la ricerca
volta a scoprire le cause sociali e cognitive del comportamento e la ricerca volta
a risolvere i problemi e indirizzata al cambiamento sociale [Smith – Macie
2004].4
L’esigenza di Lewin di una forte elaborazione teoretica connessa ad un
approccio psicologico decisamente volto alla pratica sociale – non c’è nulla di
più pratico di una buona teoria, amava dire – porta con sé un altro aspetto
molto significativo per una pedagogia di comunità: l’approccio della ricercaazione. Come vedremo più avanti (cfr. § 2.2) “i principi e i metodi della ricercaazione sono il nucleo generatore della psicologia sociale e di comunità” [Colucci
2005, 10]. La relazione circolare nutritiva tra ricerca e azione è una dimensione
che ancor oggi appare sostanzialmente minoritaria nelle azioni che mirano,
nella comunità locale, al cambiamento sociale; da una parte per la
propensione, sia storica sia attuale, del mondo accademico di “spiegare” i
problemi sociali più che di agire su di essi5; dall’altra per una eccessiva
centratura sul fare di molti operatori di comunità (formali e informali) che si
dimenticano che i problemi, nell’affrontarli, devono essere conosciuti, cioè
analizzati e definiti; analizzare e definire una problema è già azione, come agire
per la risoluzione di un problema è (produzione di) conoscenza (un’altra frase
celebre di Lewin è: se vuoi veramente comprendere una situazione, prova a
cambiarla).
4
La visione lewiniana della ricerca volta al cambiamento sociale trova risonanze sostanziali sia
nel legame tra senso della ricerca e senso dell’impegno sociale riformatore di John Dewey (e
della Scuola di Chicago), sia nella prospettiva pedagogica di Paulo Freire che vede nell’utopia e
nella relazione dialettica coscienza-mondo due pilastri irrinunciabili: “non esiste vera utopia al
di fuori della tensione tra la denuncia di un presente sempre più intollerabile e l’annuncio di
un futuro che deve essere creato, costruito, in senso politico, estetico ed etico, per noi donne e
uomini” [Freire 2008].
5 Colucci parla di una “rinuncia ad ogni possibilità di intervento sui problemi di cui si occupa”
in riferimento ad una sorta di psicologia sociale del perché, citando Asch, Festinger e poi
Milgram e Tajfel (Colucci 2005, 13-14).
5
In chiave pedagogica, la valorizzazione della dimensione dell’agire non
significa una semplicistica propensione al fare. C’è una differenza sostanziale
tra il facere, inteso come semplice azione realizzativa, e l’agere inteso come
“un’azione attuale, presente che, essendo di tipo intensivo, spinge oltre il
presente, promuove il futuro. […] Il sapere stesso dell’agere, che è il sapere
della pedagogia, è un sapere che mira a trasformare, ad agire su, ad orientare.
[…] Trasformazione e “azione su” indicano un rapporto, una comunicazione
intersoggettiva, che è la condizione di reciprocità, che si innesta nella stessa
intenzionalità educativa” [Orlando Cian 1989, 51-52]. Azione e trasform-azione,
quindi, come nuclei di un possibile approccio pedagogico alla comunità.
1.3
Dalla psicologia sociale alla psicologia di comunità: la comunità come
oggetto/soggetto specifico.
La psicologia di comunità è un’area di ricerca e di intervento alquanto
giovane; nasce ufficialmente negli USA nel 1965 e muove i primi passi in Italia
alla fine degli anni ’70. Più di quarant’anni di vita non gli hanno assicurato
però ancora una precisa identità epistemologica. Pur con un rischio di
semplificazione possiamo considerare la psicologia di comunità come una
psicologia sociale applicata con vari ambiti di interesse [Francescato 1988].
Tale affermazione va però sostanziata; un’estensione acritica e sproporzionata
degli ambiti di interesse della psicologia di comunità comporterebbe infatti un
riduzionismo impensabile della valenza pratica della psicologia sociale (dove
andrebbe a collocarsi, ad esempio, l’approccio psicologico-sociale di Lewin?);
d’altra parte la non definizione in maniera specifica di tali ambiti non
permetterebbe una distinzione identitaria tra psicologia sociale e psicologia di
comunità (pur nella strettissima relazione/derivazione). Definire infatti la
psicologia di comunità come interfaccia tra la sfera personale e quella
collettiva, tra la sfera psicologica e quella sociale [Amerio 2000] può valere
come premessa introduttiva, ma non è sufficiente per distinguerla dalla
psicologia sociale. Rapaport insiste in particolare sulla dimensione del
“cambiamento della società”, su una psicologia di comunità con una forte
valenza etica, che miri cioè ad una società più ugualitaria, più giusta, più bella
[id]. La psicologia di comunità si configurerebbe così come un approccio alla
comunità locale (nelle sua pluralità identitaria) con una spiccata valenza
politico-pedagogica6. Tale prospettiva è affine all’approccio pedagogico di Paulo
Freire e può essere sicuramente fecondo per lo statuto epistemologico di una
pedagogia di comunità.
Secondo Francescato [1988] “la psicologia di comunità non ha mai cercato
di elaborare una concezione teorica propria, ponendosi piuttosto come
6
Più volte finora e nel seguito della dispensa la dimensione politica e, in specifico politicopedagogica, emerge come caratterizzante il lavoro di comunità e quindi una pedagogia di
comunità. E’ importante precisare che il termine “politico” non è riconducibile ad una
possibile strumentalizzazione ideologico-funzionale della pedagogia da parte di una o più
visioni politico/partitiche settarie. Qui l’aggettivo “politico” sta ad indicare la necessaria
direzione teleologica della prassi pedagogica e il radicamento di questo telos nella storia
concreta e quotidiana. Fare riferimento ad una “politicità” della pedagogia significa riferirsi ad
una tensione generativa tra il mondo già dato e l’idea/immagine di mondo desiderato che
coinvolge i singoli, i gruppi e la comunità, al di là di ogni illusione di neutralità scientifica e
pedagogica in senso amorale e apolitico.
6
psicologia sociale applicata. L’interesse non è tanto conoscitivo quanto rivolto
alla “rilevanza emancipatoria” ovvero alla capacità di una certa disciplina di
incidere nella realtà attivando significativi processi di trasformazione sociale.
[…] L’originalità e la pregnanza della psicologia di comunità deriva a nostro
avviso dall’inusuale mix fra l’orientamento al cambiamento sociale, la spinta
alla partecipazione e la metodologia scientifica di taglio psicologico-sociale e
sistemico-ecologico.”
Lo sviluppo della comunità locale o, in altri termini, la crescita di
comunità competenti sembra perciò essere lo specifico della psicologia di
comunità; una crescita che avviene attraverso lo sviluppo del potere dei
singoli, dei gruppi e della comunità di generare opportunità, alternative al “già
dato”; attraverso lo sviluppo di conoscenze e competenze per ri-conoscere e/o
ottenere risorse e superare gli ostacoli burocratici e la distanza/indifferenza
dalle/alle istituzioni; attraverso la partecipazione dei cittadini (siano essi
giovani, famiglie, imprenditori, leader territoriali, persone in situazione di forte
disagio, …) nell’espressione, nel confronto e soprattutto nella presa di
decisione su ciò che li riguarda e, più estesamente, sul bene comune;
attraverso una modalità dialettica/dialogica dell’influenzamento sociale che
superi l’arida dinamica della persuasione morale e/o razionale; attraverso la
costruzione di reti solidali e di senso di appartenenza (interdipendenza);
attraverso la crescita di sentimenti di fiducia e di speranza verso quello che
Freire chiama “l’inedito possibile”, che nel nostro caso è la comunità che
desideriamo, la qualità delle relazioni che vogliamo, la qualità di una vita
cercata e “intera” e non subìta e frammentata.
Tutto ciò possiamo chiamarlo empowerment, processo e finalità sintetica
della psicologia di comunità, nel senso di acquisizione di potere, capacitazione,
possibilità di controllare attivamente la propria vita a livello individuale,
gruppale e di comunità.
L’approccio lewiniano (pur non isolato) è fondante per la psicologia di
comunità, come fondante risulta l’approccio della ricerca-azione (con
l’attenzione a non ridurlo a semplice metodologia/tecnica).
Di interesse particolare nella psicologia di comunità, proprio per la sua
spiccata valenza applicativo-pratica (a differenza della psicologia sociale e della
pedagogia sociale, nelle quali la dimensione pratica rischia talvolta di rimanere
una dichiarazione di intenti), è lo sviluppo di specifiche metodologie e
strumenti nell’ambito della ricerca-azione e di approcci analoghi al lavoro di
comunità quali la progettazione e la valutazione partecipata, l’animazione dei
gruppi e della comunità, la soluzione collaborativa dei problemi, la
negoziazione dei conflitti [Branca-Colombo 2000, 2003 a/b/c; Martini-Sequi
1988; Martini-Torti 2003].
1.4 L’approccio pedagogico-sociale alla dimensione comunitaria
Non è scontato o retorico chiedersi se la pedagogia sociale si occupi di
comunità (come fin qui intesa) e, se sì, in che modo, secondo quali criteri, con
quali obiettivi, attraverso quali azioni.
L’apporto che la pedagogia sociale può dare probabilmente non è tanto in
termini di ambiti di ricerca e intervento; questi, infatti, rimangono sempre
aperti e mai definibili una volte per tutte, pur rimanendo l’educazione degli
7
adulti come l’ambito maggiormente riconoscibile [Izzo 1997]. Da questo punto
di vista la comunità non è certo un ambito privilegiato di analisi.7
Piuttosto la pedagogia sociale può fondare meglio una specificità
applicativa della pedagogia di comunità, sia nella relazione con altre discipline
(in particolare con la psicologia sociale e la psicologia di comunità), sia nella
caratterizzazione pedagogica e pedagogico-sociale del lavoro di comunità.
E’ sostanzialmente condiviso che la pedagogia sociale si configura come
articolazione e specializzazione del discorso pedagogico [Santelli Beccegato
2001]; in generale la pedagogia sociale mira al raccordo tra aspetti educativi e
dinamiche sociali in quanto “progettazione critico-teorica e pratico-operativa
delle dimensioni sociali dell’educazione” e come “analisi scientifica dei processi
e dei modelli educativi coinvolti nel sistema sociale”, tutto ciò con una sana
preoccupazione per l’uomo e per la società senza in nessun modo priorizzare
l’uno o l’altro aspetto, ma considerandoli intrinsecamente legati [id].
In un’ottica comunitaria sono interessanti le caratterizzazioni della
pedagogia sociale come pedagogia dell’impegno [Izzo 1997] o come pedagogia
del territorio o del lavoro territoriale [Tramma 1999]; queste prospettive
pongono al centro: a) l’educare alla socialità, al senso di appartenenza, alla
solidarietà [Izzo 1997]; b) l’educazione come attenzione ai soggetti individuali,
gruppali e collettivi portatori di problemi, di bisogni, di domande e risposte
educative [Tramma 1999]; c) il riconoscimento e il potenziamento dei motivi e
delle condizioni di benessere sociale, di vivibilità per un migliore convivenza; il
riconoscimento e il superamento di condizioni di sofferenza, di disagio e di
emarginazione [Santelli Beccegato 2001].
Emerge quindi un’ipotesi di società (o di comunità) alla quale la pedagogia
sociale dovrebbe contribuire come scienza in vista di un superamento della
società data, verso una società desiderata e progettata/costruita: i problemi, i
bisogni, i disagi (individuali e collettivi) sono in questo caso i motori
educativi/trasformativi. Santelli Beccegato sottolinea che “azioni di
potenziamento e prevenzione costituiscono la via maestra per perseguire la
prioritaria finalità della pedagogia sociale e cioè il perseguimento di una
democrazia sostanziale” [id., 56]; nella visione della Santelli Beccegato la
prospettiva politico (direttiva)-pedagogica (trasformativa) è esplicita e
strettamente coerente con la prospettiva psicologico-sociale di derivazione
lewiniana e con la psicologia di comunità. In particolare l’educazione alla
politica e alla cittadinanza attiva è (o dovrebbe essere) una priorità di interesse
della pedagogia sociale, attraverso lo sviluppo della dialettica freireana
coscienza-mondo al fine di esprimere la propria presenza di uomini e di donne,
di cittadini e cittadine partecipanti attivi di visioni, progetti, scelte, impegni,
azioni.
Resta però da chiedersi se in questo discorso ci sia una specificità
pedagogica; cosa cioè differenzia, nella unità di prospettiva emersa finora, la
pedagogia sociale dalla psicologia sociale? Santelli Beccegato afferma in
7
In questo senso si veda ad esempio il Manuale di pedagogia sociale di A. Gramigna [2003]
che privilegia una struttura fondata sugli ambiti di ricerca e intervento. Troviamo l’educazione
degli adulti, la dimensione formativa del lavoro, la pedagogia della famiglia, il malessere
sociale e disagio giovanile, l’associazionismo e il volontariato come luoghi formativi, la
pedagogia della marginalità e le prospettive multiculturali. Tutti ambiti che, evidentemente,
sono in stretta connessione con la comunità locale e con una pedagogia di comunità. Resta il
dato di fatto che non emerge in maniera esplicita e specifica la comunità locale (in questo come
in altri manuali) come ambito di ricerca e di intervento.
8
proposito che “la specificità della pedagogia sociale nei confronti della
psicologia sociale è riconoscibile proprio nel preciso impegno critico-valutativo
che l’una assume a differenza dell’altra, rispetto alle finalità e alla possibilità
di giudizio conseguente sulla validità, e non solo sull’efficacia, dell’adozione di
determinate procedure operative” [id., 41-42]. L’ambito della pedagogia sociale
si caratterizzerebbe perciò in termini eminentemente valutativi, proprio in
quanto scienza applicata.
La dimensione “giudizio sulla validità”, distinta da Santelli Beccegato
dalla valutazione di efficacia, non può/deve riguardare anche la tensione al
cambiamento sociale propria della psicologia sociale e di comunità? La
dimensione valutativa a cui ella si riferisce riguarda probabilmente le
dimensioni di apprendimento/ trasformazione proprie di ogni azione che voglia
dirsi educativa; l’azione educativa è tale perché caratterizzata da una tensione
etica (ad esempio: qual è il bene per questo soggetto? quale percorso aiuta a
maturare la relazione tra questi gruppi? quale riorganizzazione istituzionale
permette una migliore qualità della vita della comunità locale?), a sua volta
fondata su un’idea antropologica, sull’immagine di uomo e di donna che fonda
il nostro operare [cfr. Ducci 1992]. I principali approcci analizzati della
psicologia sociale e di comunità dimostrano una fondazione etica e una visione
antropologica ben solide e una prospettiva di apprendimento/trasformazione
altamente spiccata. Branca parla esplicitamente, ad esempio, di prospettiva
politico-pedagogica nel lavoro di comunità [2000] e, mantenendo una
prospettiva di psicologia di comunità, va Verso una pedagogia di comunità,
come titola il suo testo. Anche Martini, come il già citato Rapaport, parla di
necessaria fondazione etica e, conseguentemente, politico-pedagogica:
“affrontare la questione etica nel lavoro di comunità vuol dire spingersi oltre la
descrizione e la valutazione della mera funzionalità degli interventi8 e mettere
come punto di partenza chiaro, anche se relativo, un sistema di valori” –
dimensione etica – “che dà confini e direzione all’azione.” – dimensione politica
– “Eludere la questione etica comporta privare il lavoro di comunità del “senso”
e ridurlo ad una “tecnologia” che funziona, ma della quale non si sa più
cogliere lo scopo” – dimensione teleologica [2003]. L’ambito applicativo rischia
perciò di sfumare (o semplicemente di contaminare) le rispettive identità
epistemologiche.
Se Izzo arriva a affermare che “i fenomeni pedagogici con forte valenza
sociale non possono essere analizzati, studiati, interpretati e compresi con
criteri, mezzi e metodi esclusivamente pedagogici” [Izzo 1997, 207], ciò
probabilmente vale anche al contrario: nessun approccio al lavoro di comunità
può eludere una fondazione, una prospettiva e una valutazione pedagogiche.
In questo senso proprio Santelli Beccegato suggerisce quattro indicazioni
che la migliore psicologia sociale (facendo esplicito e preciso riferimento alla
psicologia topologica di Lewin) offre al pedagogista: a) la prima riguarda la
considerazione del soggetto come soggetto attivo, non oggetto passivo plasmato
dall’ambiente (in linea con la critica freireana al meccanicismo educativo); b) la
seconda è la valorizzazione della relazione persona-ambiente che comporta il
considerare ogni comportamento in maniera contestualizzata e non isolata; c)
l’importanza non della situazione, ma della definizione della situazione da
parte della persona che la vive, cioè l’importanza di partire dalla percezione
8
Non è forse a questa “funzionalità” che si riferisce Santelli Beccegato quando parla del
necessario superamento della sola efficacia delle procedure operative?
9
della realtà e non da una ipotetica realtà oggettiva (posto che esista); d) la
quarta riguarda la particolarità di ogni relazione sociale, con la conseguente
prudenza nella sua estensione e catalogazione (posto che siano possibili).
Come nell’ambito psicologico-sociale e di comunità, anche nel contesto
pedagogico-sociale l’approccio della ricerca-azione ha particolare rilevanza (cfr.
§ 2.2); “la stretta dinamica esistente tra dimensioni teoriche e interessi
operativi, il coinvolgimento continuo di tutti i soggetti interessati, fa della
ricerca-azione una delle modalità indubbiamente più interessanti in ambito
educativo” [Santelli Beccegato 2001, 20]. Tale approccio è confermato in senso
più ampio anche da Izzo quando afferma che “la pedagogia sociale non ricerca
per poi agire, ma agisce per conoscere e mutare le situazioni di fatto” [1997,
26].
Le principali idee guida della pedagogia sociale sono perciò da ritrovarsi:
a) nella partecipazione (cfr. § 2.4), intesa come comunicazione, confronto e
decisione dei singolo, dei gruppi e delle istituzioni; b) nell’animazione (nel
nostro caso potrebbe essere definita come animazione di comunità)
nell’accezione più alta di dinamica che promuove il cambiamento strutturale e
politico, la coscientizzazione delle problematiche e delle possibilità di
cambiamento dei singoli, dei gruppi e della comunità; c) nella cooperazione (o
lavoro cooperativo), contrapposta alla competizione, quale modalità che
promuove, assieme alla partecipazione e all’animazione di comunità, una
democrazia sostanziale [Quintina Cabanas cit. in Santelli Beccegato 2001].
Un ultimo aspetto della pedagogia sociale che può rivelarsi
particolarmente fecondo per una pedagogia di comunità è l’attenzione ai “corpi
primari e intermedi tra individui e Stato, attraverso cui la società educa: la
famiglia, i gruppi, la scuola, le associazioni” [Marini-Ellerani 2004, 27]. Può
risultare vuoto infatti, nella prospettiva del lavoro di comunità, considerare la
relazione individuo-società senza far preciso riferimento ai luoghi in cui si
sostanzia questa relazione: la famiglia innanzitutto, ma poi i gruppi, la scuola,
le associazioni culturali e sportive, le parrocchie, le reti comunitarie, ecc… E’
con questi e tra questi soggetti collettivi che si sostanzia una pedagogia di
comunità.
1.5 Verso una pedagogia di comunità
Se la pedagogia sociale si caratterizza per la sua dimensione di scienza
applicata o, meglio, di scienza pratico-progettuale, ancora di più la pedagogia
di comunità dovrà essere caratterizzata da una tensione pratica verso la
trasformazione sociale e, in specifico, comunitaria. Quanto afferma Pellerey in
riferimento alla pedagogia generale, trova in una prospettiva di comunità
senso pieno: “la prospettiva propria della Pedagogia come scienza progettuale
esige un approccio che permetta non tanto e non solo di spiegare o di
comprendere le situazioni e i problemi affrontati, quanto di impostare e
attuare una strategia di risposta valida e efficace”; si tratta perciò di un
“sapere che guida la trasformazione del reale secondo principi d’azione e valori
di riferimento” [1999, 27. Il corsivo è mio]. La pedagogia di comunità dovrebbe
perciò mirare a risolvere problemi in azione, secondo direzioni fondate e
10
condivise, e mirando al cambiamento sociale9. Il legame tra teoria e intervento
(non in senso diacronico - prima la ricerca, poi l’intervento -; ma in senso di
nutrimento circolare tra le dimensioni della ricerca e dell’azione) può quindi
essere un primo punto fermo della nostra riflessione.
Un secondo aspetto riguarda la definizione dell’ambito di intervento: la
comunità. Nel § 1.1 abbiamo esplorato alcune dimensioni del concetto
“comunità”; qui basti dire che una pedagogia di comunità dovrebbe occuparsi
della comunità quale “luogo” geografico e umano, oggettivo e soggettivo,
spaziale e psicologico [Martini-Sequi 1988] al tempo stesso; la dimensione
territoriale ci porta a delimitare il confine alla comunità locale quale
dimensione (per quanto labile) che permette ai singoli e ai gruppi di percepire
come vicini e modificabili i problemi/bisogni. D’altra parte la comunità locale
non può essere concepita semplicemente e solamente come comunità
territoriale; può essere invece intesa come articolazione e relazione di forme
comunitarie (le cosiddette organizzazioni intermedie tra individuo e
Stato/istituzione) percepite tali dalle persone: famiglia, scuola, associazione,
parrocchia, condominio, rete di vicinato, frazione/quartiere, ecc… L’occuparsi
di tali organizzazione intermedie è quindi una specificità della pedagogia di
comunità.
Il terzo aspetto riguarda la specifica, ma ampissima, dimensione
pedagogica. Abbiamo visto infatti come diverse discipline si occupino di
comunità.10 E’ importante definire la specificità dell’approccio pedagogico,
senza per questo voler togliere preventivamente valenza pedagogica ad
approcci altri volti allo sviluppo di comunità.
La dimensione pedagogica si caratterizza per essere inscindibilmente
connessa con le dimensioni etica, teleologica e politica. Una pedagogia di
comunità deve essere infatti caratterizzata da una forte valenza
trasformativa/emancipatoria in vista di una direzione politico-pedagogica
condivisa. Non si può infatti operare pedagogicamente senza un’idea (di uomo)
di comunità e di bene comune al quale si tende: è importante perciò esplicitare
che la crescita individuale e collettiva si fonda su alcuni valori e processi
relazionali; è necessario perciò sostanziare (in termini sempre negoziali) cosa i
singoli e le comunità intendano per democrazia sostanziale (finalità prioritaria
di una pedagogia sociale e di comunità). In un’ottica comunitaria la
prospettiva pedagogica è necessariamente quindi prospettiva politicopedagogica, nel senso che comprende un’idea di società/comunità alla quale
tendere attraverso processi trasformativi fondati pedagogicamente. In tale
prospettiva generale trovano quindi riferimento numerose delle dimensioni
9
In un’ottica di ricerca-azione (cfr. § 2.2) ogni processo di cambiamento sociale non mira,
ingenuamente, alla semplicistica modificazione della realtà in maniera a-direzionale. Un
processo pedagogicamente orientato può ad esempio configurarsi come processo di
trasformazione del reale semplicemente attraverso una coscientizzazione interdipendente dei
soggetti coinvolti su un problema, che si traduce, grazie ad un’azione che trasforma la
conoscenza, al consolidamento di significati e di prassi di una comunità specifica.
Cambiamento sociale è perciò anche coscientizzazione in quanto modificazione della realtà
percepita dal/i soggetto/i.
10 Per necessità di indagine ho tralasciato l’interesse comunitario di discipline quali la filosofia,
la sociologia, l’urbanistica. Rimando in particolare, per le inevitabili riflessioni di ordine
antropologico e filosofico sulla comunità, ai corsi del prof. Biagi (Antropologia filosofica e
Pedagogia Sociale e di Comunità II) e del prof. Emilio (Filosofia dell’educazione), oltre che ai
testi suggeriti in bibliografia.
11
relazionali-pedagogiche accennate nei paragrafi precedenti che contribuiscono
nello specifico a dare forma ad un approccio pedagogico di comunità: il
concetto di soggetto attivo, l’empowerment (a livello individuale, di gruppo e di
comunità), il senso di appartenenza, la reciprocità, la solidarietà, la
sussidiarietà, la coesione sociale, la responsabilità individuale e collettiva nei
confronti del bene comune, il senso del potere, la capacitazione, l’aumento del
controllo sulla propria vita, la capacità di soluzione collaborativa dei problemi
e di negoziazione con gli altri soggetti, la cooperazione, ecc.
La dimensione pedagogica si caratterizza quindi per un’attenzione alla
relazione e, in specifico, alla relazione educativa. Nel § 1.2 ho affrontato questo
aspetto secondo la prospettiva psicologico-sociale e lewiniana in particolare.
Nel § 2.3 cercherò di declinare alcune dimensioni specifiche della relazione
educativa nella prospettiva pedagogico-comunitaria. La relazione in quanto
dimensione essenzialmente antropologica e come attenzione pratica nello
sviluppo comunitario (relazione tra singoli, tra gruppi e tra gruppi e istituzioni)
è in una pedagogia di comunità fondamento irrinunciabile. Tale aspetto
relazionale è legato anche alla dimensione del tempo. Lavorare con la
comunità chiede infatti la valorizzazione continua e generativa della relazione
tra passato-presente-futuro. Partire infatti dalla percezione della realtà
presente significa essere consapevoli che questa è nutrita (o denutrita) dalla
storia che ha portato alla percezione odierna e che tale percezione può essere
modificata/trasformata in relazione a come viene proiettata nel futuro (con
quali aspettative, a partire da quali immagini, con quale fiducia/speranza di
cambiamento). Morin in proposito afferma che “ogni essere umano, ogni
collettività deve irrigare la propria vita con una circolazione incessante fra il
passato, in cui radica la sua identità riallacciandosi ai propri ascendenti, il
presente, in cui afferma i suoi bisogni, e un futuro nel quale proietta le sue
aspirazioni e i suoi sforzi” [2001, 78-79].
Nel successivo capitolo approfondirò alcune dimensioni che possono
ulteriormente sostanziare, anche da un punto di vista metodologico, la
dimensione pedagogica nella comunità: la partecipazione, la cittadinanza, la
democrazia.
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