l`incapacità di comprendere la rivoluzione galileiana

FISICA
FISICA/
MENTE
L'INCAPACITÀ DI COMPRENDERE
LA RIVOLUZIONE GALILEIANA
Roberto Renzetti
ALLE PARTI QUATTRO/2 E CINQUE
PARTE SEI: GALILEO ED I FILOSOFI CONTEMPORANEI
MA GALILEO HA DIMOSTRATO LA VERITA' DEL MOTO DELLA TERRA ?
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Inizio da qui perché, come vedremo, su questo i furbetti della parrocchietta credono di poter dileggiare
Galileo. Lo faccio con un'ampia citazione di chi ha molta più credibilità di me, Stillman Drake(57).
"In tempi recenti si è venuto manifestando un grande fastidio nei confronti del Dialogo,
allorché la storia della scienza è passata dalle mani degli scienziati a quelle dei filosofi e dei
sociologi. Oggi solo un numero piuttosto limitato di persone sarebbe in grado, se lo volesse,
di leggere il libro come un dialogo progettato per proporre una spiegazione fisica (o nelle
parole di Galileo, « naturale ») dell'esistenza delle maree, ad introduzione della quale fu
originariamente concepito. Ora la gran parte delle persone ha troppe conoscenze per leggere
ciò che Galileo scrisse senza che, in modo cosciente o subcosciente, facciano riferimento a
ciò che Newton scrisse più tardi, e forse la maggior parte delle persone sa troppo poco sulle
teorie delle maree dopo Newton(58), e anche sull'idrologia del Mediterraneo e sulla
periodicità delle maree nei mari che non sono vicini alle coste dell'Europa e dell'America,
per leggere con pazienza e per capire il modo di ragionare di Galileo partendo dai fatti a lui
noti e dalla sua visione delle velocità assolute e relative — visioni casualmente e
notevolmente simili a quelle di Newton come furono esposte in un famoso scolio, mezzo
secolo dopo il Dialogo.
Un gruppo di moderni commentatori si è mostrato insofferente nei confronti del Dialogo, in
quanto sembra loro che Galileo avesse preteso di essere in possesso di una dimostrazione
sicura dei movimenti copernicani, mentre egli non aveva mai avuto una illusione simile.
Nella interpretazione di alcuni scrittori, una tale dimostrazione non è esistita fino al
diciannovesimo secolo inoltrato, come se qualche scienziato avesse definitivamente preso
coscienza del sistema newtoniano solo quando la parallasse stellare fu scoperta e misurata,
o quando il pendolo di Foucault ruotava nel Pantheon di Parigi(59). Nella visione di altri
invece, i quali sono forse più vicini alla realtà, una dimostrazione sicura non è mai esistita
né esisterà mai, proprio come sostenevano i contemporanei di Galileo, Roberto Cardinale
Bellarmino e Papa Urbano VIII. Ma a me sembra che il punto principale sia che per
giustificare le loro affermazioni tali scrittori dovrebbero trovare nel Dialogo, e citarlo, un
passo o dei passi nei quali Galileo inequivocabilmente pretese di aver dimostrato i
movimenti della terra. È possibile che un tale passo, o passi, esista, ma io non ne ho notato
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alcuno, quando ho tradotto il libro, frase dopo frase, né mi ricordo di qualcuno che me ne
abbia indicato uno in seguito(60).
Se si prendono in considerazione le condizioni nelle quali Galileo scrisse il Dialogo, mi
sembra evidente che il massimo che egli potesse fare era esattamente ciò che disse Riccardi
(Padre Mostro, ndr) — cioè, ragionare con probabilità dei moti della terra. Il Dialogo a me
sembra che sia un trattato sulla superiore evidenza, non una dimostrazione del
copernicanesimo(61). La precedente battaglia di Galileo, nel 1613-15, era stata fatta per
evitare, se poteva, una qualunque presa di posizione da parte della Chiesa che trasformasse
un argomento di analisi scientifica in un articolo di fede. Egli sapeva meglio di chiunque
altro in Italia la direzione che la scienza stava prendendo e che stava per prendere nel futuro
che si intravedeva, e non voleva che la sua chiesa, o la sua terra natale, a causa di un inutile
movimento contrario a tale direzione soffrisse la perdita della supremazia nella scienza che
durava da tempo(62). La sua successiva battaglia, rappresentata dal Dialogo, fu condotta per
liberare la Chiesa dalle conseguenze dell'editto del 1616 che regolava i libri copernicani,
conseguenze che si erano già avvertite nel 1624. È il momento di rivolgersi agli eventi di
quell'anno che portarono Galileo ad iniziare la composizione del Dialogo" [la sottolineatura
è mia].
Se l'autorità di questo laico non basta vi è quella del teologo Niccolò Riccardi (Padre Mostro), che
godeva della fiducia del Papa, tanto che da lui dipendeva l'imprimatur definitivo al Dialogo. Padre
Mostro, nel 1631, scrive all'Inquisitore di Firenze(63):
«Il Sig.r Galilei pensa di stampar costì una sua opera, che già haveva il titolo De fluxu et
refluxu maris, nella quale discorre probabilmente del sistema Copernicano secondo la
mobilità della terra, e pretende d'agevolar l'intendimento di quel'arcano grande della
natura con questa posizione, corroborandola vicendevolmente con questa utilità. Venne
qua a Roma a far vedere l'opera, che fu da me sottoscritta, presupposti l'accomodamenti
che dovevano farcisi, e riportatici ricever l'ultima approvazione per la stampa. Non
potendo ciò farsi per gl'impedimenti delle strade e lo pericolo degl'originali(64),
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desiderando l'autore di ultimare costì il negozio, V.P.M.R. potrà valersi della sua autorità,
e spedire o non spedire il libro senz'altra dependenza della mia revisione; ricordandole
però, esser mente di Nostro Signore che il titolo e soggetto non si proponga del flusso e
reflusso, ma assolutamente della mattematica considerazione della posizione Copernicana
intorno al moto della terra, con fine di provare che, rimossa la rivelazione di Dio e la
dottrina sacra, si potrebbero salvare le apparenze in questa posizione, sciogliendo tutte te
persuasioni contrarie che dall'esperienza e filosofia peripatetica si potessero addurr, sì che
non mai si congeda la verità assoluta, ma solamente la hipothetica e senza le Scritture, a
questa opinione. Deve ancor mostrarsi che quest'opera si faccia solamente per mostrare
che si sanno tutte la ragioni che per questa parte si possono addurre, non per mancamento
di saperle si sia in Roma bandita questa sentenza, conforme al principio e fine del libro,
che di qua mandarò aggiustatì. Con questa cauzione il libro non haverà impedimento
alcuno qui in Roma, V.P.M.R. potrà compiacere l'autore e servir la Serenissima Altezza,
che in questo mostra sì gran premura. Me le ricordo servitore, e la pregio a favorirmi de'
suoi commandamenti». [la sottolineatura è mia].
Aggiungo anche io che non ho trovato un solo passo nel Dialogo nel quale Galileo dica di aver provato
la Teoria copernicana. D'accordo con Drake, chiedo agli obiettori di questa affermazione che citino il
brano o tacciano per sempre. Se poi si dovesse entrare nei dettagli della discussione mantenuta, mentre
la fisica e cosmologia aristotelica erano comunemente conosciute, lo stesso non era, nel modo più
assoluto, per la cosmologia copernicana (che però non viene introdotta che di sfuggita in quanto
cosmologia) e non lo era per nulla per la fisica che avrebbe dovuto rimpiazzare quella funzionale a
quella cosmologia. E' quindi del tutto evidente che un maggiore spazio doveva essere dato alle novità
sconosciute. Ma qui viene fuori anche il fatto che, in definitiva, non era tanto un qualche brano del
Dialogo dal quale si parte per mettere Galileo sotto processo ma questioni politiche (l'attacco della
Spagna alle alleanze papali con la Francia e con gli Asburgo) e questioni personali sulle quali vale la
pena insistere (senza entrare nel merito delle dilapidazioni, ruberie e nepotismi che gli venivano
addebitati, in fondo è pur sempre quel Papa indicato ancora con il detto: fecero meno danno a Roma i
barbari che i Barberini).
Il Papa più volte aveva detto che le dottrine copernicane erano indimostrabili. Galileo gli aveva
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certamente parlato della prova che aveva trovato, le maree, per sostenere Copernico. Il Papa non era in
grado di controbattere a questa argomentazione (come quasi nessuno lo era e lo fu) ed allora impose di
non chiamare quel libro come Galileo avrebbe voluto Dialogo sul flusso e reflusso del mare, per non
dare enfasi all'argomento principe di Galileo. Galileo ubbidì tenendo in gran conto quanto gli era stato
detto. E' questo il motivo della sproporzione, che alcuni hanno denunciato come un fatto negativo, delle
giornate del Dialogo. La Seconda è di gran lunga la preponderante ed è proprio una giornata in cui non
si parla di maree. E, dove si parla di maree (parte della Terza e la Quarta), si sente la debolezza delle
argomentazioni, si sente che Galileo non spinge in alcun modo con i suoi discorsi incalzanti come aveva
fatto in precedenza con Simplicio. Galileo rinuncia cioè ad utilizzare il suo argomento principe per
ubbidire al Papa e costruisce un libro sulle maree ma lo rimaneggia in modo significativo, fino ad
occultare le maree, al fine di vederlo pubblicato. Un esempio clamoroso lo abbiamo proprio all'inizio
del Dialogo. Dopo il Proemio, Al discreto lettore, certamente scritto insieme a Padre Mostro, Proemio
nel quale il decreto del 1616 viene definito salutifero, inizia la Prima giornata. E' Salviati che inizia.
Leggiamo:
Salviati - Fu la conclusione e l'appuntamento di ieri, che noi dovessimo in questo giorno discorrere,
quanto più distintamente e particolarmente per noi si potesse, ....
Beh? Vi pare ragionevole ? O piuttosto è la conseguenza degli spostamenti richiesti su un libro, che
aveva richiesto almeno 5 anni per la redazione con un fine detto in un titolo, e con un titolo che deve
sparire e con il libro stesso che deve cambiare il peso specifico delle singole argomentazioni ?
Vi è poi quella convinzione di Urbano VIII, quello che gli faceva dire che in ogni caso sarebbe stato
impossibile mostrare la verità del copernicanesimo, convinzione secondo la quale Dio ha sempre a sua
disposizione innumerevoli modi per produrre qualcuno dei fenomeni che noi percepiamo. Insomma, la
natura non può essere intellegibile all'uomo perché, quando volessimo credere di aver capito qualcosa,
un Dio burlone si divertirebbe a cambiare le carte in tavola; oppure: Dio ha fatto un mondo con regole
diverse per fenomeni diversi (ed anche per stessi fenomeni, perché non dovrebbe ?), giocando a suo
completo piacimento. Ora questa convinzione di Urbano VIII, come visto, va in chiusura del Dialogo in
bocca a Simplicio. E' grave ? Si ma solo per una ripicca personale, la cosa, questa, infatti si poteva
correggere facilissimamente, tanto più che Salviati esalta questa frase. Ma no, non accadde nulla di ciò.
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Si preferì gettare tutta la potenza della Chiesa contro un vecchio di 70 anni, lo scienziato più famoso nel
mondo di allora, che aveva avuto cinque imprimatur da teologi di fiducia del Papa.
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L'ultimo imprimatur, quello di Padre Mostro
Vi è di più. Nell'agosto del 1632, nella relazione della Commissione dei teologi nominata dal Papa per
studiare il libro e per cavarne tutte le possibili accuse contro Galileo, tra l'altro si legge:
6. Nel libro poi ci sono da considerare, come per corpo di delitto, le cose seguenti :
1- Aver posto l'imprimatur di Roma senz'ordine, e senza participar la publicazione con chi
si dice aver sottoscritto.
2- Aver posto la prefazione con carattere distinto, e resala inutile come alienata dal corpo
dell'opera, et aver posto la medicina del fine in bocca di un sciocco, et in parte che né
anche si trova se non con difficoltà, approvata poi dall'altro interlocutore freddamente, e
con accennar solamente e non distinguer il bene, che mostra dire di mala voglia.
3- Mancarsi nell'opera molte volte e recedere dall'hipothesi, o asserendo assolutamente la
mobilità della terra e stabilità del sole, o qualificando gli argomenti su che la fonda per
dimostrativi e necessarii, o trattando la parte negativa per impossibile.
4- Tratta la cosa come non decisa, e come che si aspetti e non si presupponga la definizione.
5- Lo strapazzo de gl'autori contrarii e di chi più si serve S. Chiesa.
6. Asserirsi e dichiararsi male qualche uguaglianza, nel comprendere le cose geometriche,
tra l'intelletto umano e divino.
7- Dar per argomento di verità che passino i Tolemaici a' Copernicani, e non e contra.
8- Haver mal ridotto l'esistente flusso e reflusso del mare nella stabilità del sole e mobilità
della terra, non esistenti.
Tutte le quali cose si potrebbono emendare, se si giudicasse esser qualche utilità nel libro,
del quale gli si dovesse far questa grazia.
7- L'autore hebbe precetto del 1616 dal Sant' Offizio ut supradictam opinionem, quod sol
sii centrum mundi et terra moveatur, omnino relinquat, nec cam de caetero, quovis modo,
teneat, doceat aut defendat, verbo aut scrìptis; alias, cantra ipsum procedetur in Sancto
Officio. Cui praecepto acquievit et parere prontisti. [sottolineatura mia].
Intanto c'è quel riferimento all'utilità non è certo ad una utilità scientifica ma una utilità teologica. Ma la
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cosa più rilevante è che non è in discussione la struttura del libro, ma alcune cose che gli stessi giudici
del fatto dicono potersi emendare, giudici che affermano però quella cosa che non c'entra con il libro
in sé e che è il vero grimaldello giuridico che farà condannare Galileo, il falso precetto. Ciò vuol dire
che il libro non ci aiuta a condannarlo ma diamo per vera questa cosa se lo si vuole far tacere. E quella
cosa risultò nuova al Papa che pure aveva vissuto da vicino le vicende del 1616.
Già sappiamo come andò in tribunale: Galileo chiese di vedere la firma sotto il precetto scritto in un
luogo dove non doveva essere (una pagina pari del registro) e non c'era. Inoltre Galileo aveva un
certificato di pugno e firmato da Bellarmino, davvero insospettabile, che lo assolveva completamente.
Grave infortunio (o bestialità giuridica?) quella di una istituzione alla quale va bene un documento non
firmato ad uno di pugno di una persona che gode di gran rispetto in quella istituzione(65).
Concludo questo paragrafo, del quale occorre evidenziare che Galileo non dimostrò il moto della Terra
e neanche se lo era proposto, con le parole di Drake:
"I Qualificatori nel 1616 commisero un grave errore a permettere che la filosofia
aristotelica imponesse l'interpretazione biblica. L'Inquisizione Romana nel 1633 commise
un grave errore ad inserire l'editto del 1616 nella sentenza contro Galileo, infatti da quel
momento in poi la Chiesa Cattolica considerò l'editto esattamente nel modo in cui il suo
autore [Bellarmino] aveva attentamente evitato di fare — cioè, interpretarlo come una
interdizione dei libri copernicani. Questi due errori sono costati alla Chiesa Cattolica molto
di più di quanto sono costati alla scienza, o, se per questo, anche molto di più di quanto
sono costati a Galileo. Verso la metà del diciottesimo secolo gli assurdi eccessi furono
mitigati da Benedetto XIV, e finalmente nel 1819 la Congregazione dell'Indice cessò di
proibire i libri copernicani, in buona misura come risultato dell'ostinato coraggio di un
astronomo cattolico chiamato Giacomo Settele" (che riuscì a farsi pubblicare i suoi
copernicani Elementi di astronomia. Ancora 2 anni e tale divieto fu tolto per tutti, ndr).
MATEMATICO O FILOSOFO ?
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Altra vicenda che occupa le menti liofilizzate di alcuni critici è relativa alla disquisizione se Galilei era
o no un filosofo. Si dice infatti che finché era matematico ancora ancora ma, ad un certo punto, pretese
di diventare filosofo ed allora ...
La prima osservazione che c'è da fare riguarda il cosa era un intellettuale all'epoca di Galileo. Tutti
dovrebbero sapere che allora si era o istruiti o no. Se lo si era lo si era su tutto e su tutto si dibatteva. Un
aiuto in tal senso proveniva proprio dalla fisica di Aristotele che prevedeva un mondo completamente
integrato di tutti gli aspetti che oggi, per motivi di comodità (economia di pensiero), abbiamo sistemato
separatamente. Galileo, come tutti i suoi colleghi universitari si occupava di matematica, di cosmologia,
di filosofia naturale, di filosofia, di medicina, di architettura, di fortificazioni, di meccanica (in senso
tecnico), di idraulica (in senso tecnico), di teologia, di letteratura, di poesia, ... Chi non aveva questa
ampiezza nella sua formazione non avrebbe mai potuto accedere ad un insegnamento universitario
semplicemente perché non esisteva la matematica senza Aristotele ed il matematico aristotelico era
colui che si occupava di cosmologia e nel farlo doveva dire, in dispute interminabili che coinvolgevano
tutto lo scibile, il perché le cose stavano così e non colà e per questo gli occorreva la fisica aristotelica
che conteneva anche la teoria del caldo, del freddo, dell'umido e del secco che era alla base degli umori
che regolavano il corpo umano che ... Chiaro ? E se non lo è si dovrebbe prendere in mano qualche
opera di Aristotele (la Laterza le ha pubblicate tutte in stupende edizioni economiche) e studiarla
(leggerla non basta).
Ma veniamo a cose più specifiche concernenti la pretesa di Galileo di diventare filosofo. Ricordiamo
allora alcuni fatti per nulla reconditi, basta volerli conoscere. Galileo fa studi di medicina a Pisa (1581);
studia matematica a Firenze (dal 1583 al 1588); insegna matematica a Firenze (1588) a Pisa (15891592); la morte del padre nel 1591 lo mise nella condizione di indebitarsi per dover mantenere, oltre a
se stesso, la madre, due sorelle ed un fratello. Per ragioni economiche nel 1592 accetta la cattedra di
matematica a Padova. Poiché non voleva ripetere tali tristi esperienze anche con le figlie, le indirizzò in
convento. E la cosa non sarà indolore per Galileo che mantenne una fitta corrispondenza con la figlia
diletta, Virginia (Suor Maria Celeste). Due parole su questa vicenda che ha fatto spendere liriche parole
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a storici che usano leggere ciò che conviene loro. Scrive Forti:
"Suor Maria Celeste, la primogenita, era senza dubbio uno spirito superiore, una creatura
mite, affettuosa e soave, che dal padre aveva ereditato qualità di scrittrice per nulla comuni,
e che lo superava, talvolta, per autentico vigore lirico. Generalmente tutti parlano di lei con
frasi estatiche, poetiche e perfino melense, come di un'eterea creatura che irradia la propria
luce sulla vita di Galileo. Purtroppo le cose non stanno solo in questi termini. Se le persone
che parlano di lei si dessero la pena di leggere le sue lettere — e non solo quelle più
comunemente citate — sarebbero turbate dalla tragedia di quell'esistenza crudelmente
sacrificata: gli stenti continui, i malanni non curati, il cibo indigesto e nauseabondo anche
durante le malattie, e — per sovrammercato — fratacchioni imbestiati che scendevano dai
vicini conventi, con le loro sconce pretese. Una morte prematura venne a liberarla, poco più
che trentenne. Per questa mite creatura — la cui devozione e il cui affetto non vennero mai
meno — papà Galileo fu sempre una specie di nume che dall'alto del proprio benessere
poteva dispensare una bottiglia che non sapesse d'aceto, e un sano pan dolce di fattura
domestica, per una compagna ammalata ...
La secondogenita di Galileo, Suor Arcangela, è detta « la bisbetica » da qualche
commentatore, e che tale potesse essere non sorprende del tutto."
A Padova, pur essendo la sua retribuzione molto migliore di quella che aveva a Pisa e pur integrando
con molte lezioni private, Galileo soffriva di ristrettezze economiche (la realizzazione del cannocchiale
gli fece avere un aumento!). Più volte dovette rivolgersi al governo veneziano per avere anticipi ed
aumenti di stipendio. Nel settembre 1610 Cosimo II de Medici lo nomina matematico straordinario a
Pisa e filosofo del serenissimo granduca con alto stipendio e senza obblighi di insegnamento (è quanto
di meglio Galileo possa desiderare: tempo libero e denaro che, nella sua vita, gli mancherà sempre). Il
titolo di filosofo era la chiave di tutto. Dovunque si operasse o si insegnasse, una persona che aveva il
titolo di filosofo guadagnava fino a 10 volte di più di chi aveva il titolo di matematico. Fu anche per
questo che Galileo ambiva a quel titolo e non per essere annoverato nella schiera dei peripatetici. Nelle
trattative con Firenze per accettare le proposte di Cosimo II, vi è una lettera del 7 maggio 1610 a
Belisario Vinta nella quale Galileo chiede: "Finalmente, quanto al titolo et pretesto del mio servizio, io
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desidererei, oltre al nome di matematico ... quello di filosofo, professando io di havere studiato più anni
in filosofia, che mesi in matematica pura".
L'altro motivo per cui richiedeva il titolo di filosofo, come sostenuto da Garin, consisteva nel
"netto rifiuto dei procedimenti dei logici; dell'affermazione che le nuove dottrine
cosmologiche sono reali e non ipotetiche; della consapevolezza che la visione dell'universo
fisico che si viene delineando attraverso esperienze e dimostrazioni matematiche, è totale
ed esauriente nel suo ambito, ossia nell'ambito di un sapere capace di render ragione di sé,
ed oltre il quale non v'ha posto per la fede, che è altra cosa. Il cannocchiale e il magnete,
come gli strumenti logico-matematici rettamente usati; le macchie solari come le fasi di
Venere; l'eliocentrismo come le leggi del moto, se non intendono toccare in nessun modo i
valori religiosi del Cristianesimo, vogliono distruggere senza residui la visione aristotelica
della realtà, con il suo inestricabile intreccio di fisica e metafisica... L'appello galileiano a
un altro testo si risolveva nella lettura... del gran libro della natura sostituito a quello
d'Aristotele. Il ricorrere, così insistente nei suoi scritti come nelle sue lettere, e fin nei
discorsi di cui è conservata testimonianza, dell'antico « topos » del libro, si impone, non
tanto per un'immagine anche troppo comune, quanto per l'intenzione polemica di cui è
caricata. Si deve insegnare e imparare non più mediante il libro di Aristotele, ma in una
elaborazione autonoma del sapere: andando, oggi si direbbe, alle cose stesse, con gli
strumenti adatti: le sensazioni e i concetti, le esperienze e le dimostrazioni
convenientemente integrate. Non più «accomodar la natura e '1 mondo alla peripatetica
dottrina, ma... finalmente adattare la filosofia al mondo e alla natura".
E ben sapeva Galileo di cosa parlava e di come il suo voler essere filosofo lo doveva distinguere da altri
filosofi. Nell'agosto del 1612 discute della cosa con il suo amico Sagredo. Ed il 12 agosto Sagredo gli
risponde: "se bene nelle mie lettere, che le scrissi, ho distinto i filosofi da i matematici (di che ella
mostra aver ricevuto qualche scandalo), vorrei pure ch'ella sapesse che mi sono valuto di questi due
nomi conforme alla volgare interpretazione del popolaccio, il quale chiama filosofi quelli che, non
intendendo niente delle cose naturali (anzi essendo incapacissimi d'intenderle) fanno professione di
essere segretari della natura, et con questa riputazione pretendono istupidire tutti i sensi degli uomini,
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et privarli ancora dell'uso della ragione". Insomma sono d'accordo su una cosa nella quale a 400 anni
di distanza, ci ritroviamo dentro di nuovo, così come testimonia Feynman nelle sue famosissime ed
ineguagliate Lectures on Physics del 1964 (Vol. I, pag. 16-1):
"These philosophers are always with us, struggling in the periphery to try to tell us something, but they
never really understand the subtleties and depths of the problem."
["Questi filosofi sono sempre con noi, si affannano per cercare di dirci qualcosa, ma non comprendono
mai realmente le sottigliezze e la profondità del problema"].
E se ci troviamo a questo punto dipenderà pure da chi continua a non voler guardare nel telescopio di
Galileo volendoci solo far guardare attraverso il suo logoscopio. Ma il logoscopio noi lo sappiamo
leggere e lo sappiamo capire. Dalla parte di lor signori i filosofi non si dà quasi mai la stessa cosa.
Riguardo al trattare temi di teologia, lo stesso Galileo, in una lettera a Monsignor Pietro Dini del
maggio 1615, afferma che le questioni teologiche delle quali si è occupato nella lettera a Benedetto
Castelli ed a Cristina di Lorena per me seriano dormite sempre, parlo dell'entrare nelle Scritture Sacre,
nelle quali non è mai entrato astronomo nessuno né filosofo naturale che stia dentro a i suoi termini. Si
tratta di una protesta di Galileo che dice: alcuni che si dicono filosofi entrano nelle Sacre Scritture per
dire che leggere Copernico è eresia; ciò vuol dire che loro hanno deciso, pur non essendo teologi, che
dentro il libro di Copernico vi sono eresie; ed a loro è permesso questo mentre a me che vado dicendo
che non è così, mi viene tappata la bocca.
In definitiva Galileo era un filosofo della natura come ve ne erano molti. Il titolo accademico coronava
di ufficialità ciò che già Galileo era e faceva con lo spirito di chi non vuole più accomodar la natura e 'l
mondo alla peripatetica dottrina, ma ... finalmente adattare la filosofia al mondo e alla natura. Se
questo programma sembra poco, spiegate in cosa Popper o Feyerabend abbiano fatto di più!
E poiché siamo a discutere di queste poco edificanti vicende conviene da subito dire che:
1) Galileo non ha mai inventato il cannocchiale, chi lo dice fa della facile divulgazione che non serve
certo ad accrescere al fama di Galileo. L'episodio è assolutamente marginale fa il paio con la mela che
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cade sulla testa di Newton. Non è colpa di Galileo se vi sono persone che si emozionano per queste
idiozie.
2) Galileo non ha mai fatto l'esperimento di caduta di gravi dalla torre di Pisa. Egli racconta di vari
esperimenti del genere ma non si ha costanza che li abbia mai realizzati.
3) Molti esperimenti Galileo non li ha realizzati ma li ha immaginati, sono esperienze mentali. Si, e
allora ? E' questo uno dei metodi ancora in uso nella scienza. O credete che l'EPR di Einstein, Podolski,
Rosen sia stato fatto ? O che Heisenberg abbia fatto l'esperienza di un elettrone dentro una scatola
chiusa ed osservato con un microscopio ? O che Schrödinger ha passato il tempo mettendo gatti in
scatole ? Ritorniamo ai filosofi. O si decidono a studiare le cose di cui vogliono discutere o devono
lasciar perdere. Aggiungo dell'altro. La prima cosa è che si resta insoddisfatti confrontando l'ieri con
l'oggi nella redazione dei risultati delle esperienze. Una volta non si richiedeva la pignola precisione che
oggi è indispensabile. Alcuni studiosi (Koyré, Rupert Hall, Naylor, Shea) avevano messo in dubbio i
risultati di alcune esperienze di Galileo. Nel 1960 e 1961 uno storico della scienza, T. B. Settle, ha
realizzato molte esperienze di Galileo, eseguendole riproducendo gli strumenti con la ferramenta del
Seicento, ebbene i risultati sono stati gli stessi che Galileo raccontava nel Dialogo e nei Discorsi. Stessa
cosa è stata fatta da Stillman Drake, J. MacLachlan, R. Seeger e D.K. Hill. Insistere comunque su
questo aspetto di Galileo, da parte di chi, simultaneamente, accetta ogni sciocchezza e misticismo da
parte degli scienziati connazionali è davvero ridicolo(66).
4) Riporto qui una cosa ampiamente discussa nelle pagine precedenti. Galileo non ha dimostrato il
sistema copernicano. Nessuno gli attribuisce tal cosa e tanto meno egli stesso lo ha fatto, la fama di
Galileo non ha nulla a che fare con questa pretesa dimostrazione.
5) E' vero che Galileo non conosceva bene l'ottica ma, di grazia, Galileo doveva far tutto o tacere ? Lo
statunitense A. Van Helden (The Discovery of the Telescope, 1977), alla faccia di Fayerabend, ha
ripreso in esame la questione esaminando in particolare gli studi su Saturno e la loro fortuna, mostrando
quanto il telescopio di Galileo fosse incomparabilmente migliore di quelli costruiti dai suoi predecessori
e dai suoi contemporanei e dunque come fosse priva di fondamento la diffidenza che esisteva attorno al
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lavoro dello scienziato pisano. A questo proposito va ricordato che Galileo si mosse empiricamente in
una scienza non definita con chiarezza. Egli frequentava spesso gli artigiani di Murano ed in particolare
la vetreria del suo amico Girolamo Magagnati, dai quali aveva appreso l'arte di lavorare il vetro e
molare le lenti. Il processo di perfezionamento del cannocchiale fu molto lungo (almeno un anno) e
Galileo si accertò della sua bontà osservativa con una molteplicità di osservazioni terrestri per eliminare
dalle lenti le aberrazioni ed altri fenomeni che provocano le visioni di ciò che non c'è (i fantasmi). Egli
stesso ci racconta nel Saggiatore come operò(67):
Questo artificio o costa d'un vetro solo, o di più d' uno. D' un solo non può essere, perché
la sua figura o è convessa, cioè più grossa nel mezo che verso gli estremi, o è concava, cioè
più sottile nel mezo, o è compresa tra superficie parallele : ma questa non altera punto gli
oggetti visibili col crescergli I o diminuirgli; la concava gli diminuisce, e la convessa gli
accresce bene, ma gli mostra assai indistinti ed abbagliati; adunque un vetro solo non
basta per produr l'effetto. Passando poi a due, e sapendo che '1 vetro di superficie
parallele non altera niente, come si è detto, I conclusi che l'effetto non poteva né anco
seguir dall'accoppiamento di questo con alcuno degli altri due. Onde mi ristrinsi a volere
esperimentare quello che facesse la composizion degli altri due, cioè del convesso e del
concavo, e vidi come questa mi dava l'intento : e tale fu il progresso del mio ritrovamento,
nel quale di niuno aiuto mi fu la concepita opinione della verità della conclusione.
aggiungendo informazioni a quanto aveva già detto nel Sidereus Nuncius(68):
Preparai dapprima un tubo di piombo alle cui estremità applicai due lenti, entrambe piane
da una parte, e dall'altra una convessa e una concava; posto l'occhio alla parte concava
vidi gli oggetti abbastanza grandi e vicini, tre volte più vicini e nove volte più grandi di
quanto non si vedano a occhio nudo. In seguito preparai uno strumento più esatto, che
mostrava gli oggetti più di sessanta volte maggiori. E finalmente, non risparmiando fatiche
e spese, venni a tanto da costruirmi uno strumento così eccellente, che gli oggetti visti per il
suo mezzo appaiono ingranditi quasi mille volte e trenta volte più vicini che visti a occhio
nudo. Quanti e quali siano i vantaggi di un simile strumento, tanto per le osservazioni di
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terra che di mare, sarebbe del tutto superfluo dire. Ma lasciate le terrestri, mi volsi alle
speculazioni del cielo; e primamente vidi la Luna così vicina come distasse appena due
raggi terrestri. Dopo questa, con incredibile godimento dell'animo, osservai più volte le
stelle sia fisse che erranti; e poiché le vidi assai fitte, cominciai a studiare il modo con cui
potessi misurare le loro distanze, e finalmente lo trovai. Su questo è bene siano avvertiti
tutti coloro che vogliono darsi a simili osservazioni. In primo luogo è necessario infatti che
si preparino un cannocchiale esattissimo, il quale rappresenti gli oggetti chiari, distinti e
non coperti d'alcuna caligine, e li ingrandisca almeno quattrocento volte, poiché allora li
mostrerà venti volte più vicini: infatti, se lo strumento non sarà tale, invano si tenterà di
vedere tutte le cose che da me furon viste in cielo, e che più avanti saranno enumerate.
Affinché chiunque con poca fatica possa farsi certo dell'ingrandimento dello strumento,
tracci il contorno di due circoli o due quadrati di carta, di cui l'uno sia quattrocento volte
maggiore dell'altro; il che sarà quando il diametro del maggiore avrà lunghezza venti volte
più grande del diametro dell'altro: poi guardi insieme da lontano le due superfici infisse
alla stessa parete, la minore con un occhio posto al cannocchiale, la maggiore con l'altro
occhio, libero. Senza fatica infatti questo si può fare nel medesimo tempo, tenendo aperti
tutti e due gli occhi: entrambe le figure appariranno allora della stessa grandezza, se il
cannocchiale moltiplicherà gli oggetti secondo la proporzione voluta. Preparato simile
strumento, bisognerà studiare il modo di misurare le distanze: cosa che otterremo col
seguente artificio. Sia, per maggior semplicità, il tubo ABCD.
L'occhio di colui che guarda sia E. I raggi, finché non ci sono nel cannocchiale le lenti,
giungono all'oggetto FG secondo le linee rette ECF, EDG; ma, poste le lenti, giungeranno
secondo le linee rifratte ECH, EDI: infatti sono raccostati, e quelli che prima, liberi, si
dirigevano all'oggetto FG, ne comprenderanno solo la parte HI. Trovato poi il rapporto
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della distanza EH alla linea HI, con la tavola dei seni si troverà l'ampiezza dell'angolo
formato nell'occhio dall'oggetto HI, che vedremo contenere soltanto qualche minuto. Se poi
adatteremo alla lente CD sottili lamine, perforate alcune con fori maggiori altre con fori
minori, sovrapponendo or questa or quella secondo sarà necessario, formeremo a piacere
angoli diversi, sottendenti più o meno minuti, con l'aiuto dei quali potremo facilmente
misurare gli intervalli fra le Stelle, distanti l'una dall'altra di qualche minuto, senza errore
nemmeno di uno o due minuti. Ma per il momento basti aver toccato di questi argomenti
così lievemente, e quasi averne gustato a fior di labbra, poiché in altra occasione
esporremo intera la teoria di questo strumento.
Si vuole di più ?
In definitiva in tutto il suo operare Galileo tentava di costruire oggetti che fossero amplificatori dei sensi
(termoscopio, bilancia, cannocchiale, ...).
6) Galileo avrà certamente avuto conoscenza delle elaborazioni (l'impetus) delle scuole di Oxford e
Parigi (Roberto Grossetesta, Alberto Magno, Nicola Oresme, Giovanni Buridano, ...) del Trecento ma è
un dato di fatto che non ebbero alcuna trascendenza e solo con Galileo alcune nuove formulazioni si
affermarono. Questa sorta di continuismo che prevede una crescita lineare delle conoscenze è stato
introdotto dall'epistemologo cattolico Duhem all'inizio del 900. Forse se si riflettesse un poco di più
sulla concezione materialistica della storia, sulle modificate condizioni economiche in relazione alle
spinte culturali ed ai nuovi bisogni di nuove classi, si capirebbe meglio.
L'invenzione di questi aneddoti per poi scagliare contro di essi l'accusa di falso è tipica dei bambini che
inventano i mostri per poi distruggerli tappandosi gli occhi. Serve a qualcosa dire che questi bambini
sono in grandissima parte dei filosofi, degli epistemologi cattolici, dei sociologi ? Serve entrare
duramente con loro in polemica per la loro infruttuosa ricerca del Paradiso perduto (per colpa di
Galileo) ? Anche qui, invece di continuare con questi ritornelli, si dica quale storico della scienza
sostiene tali cose e quale e quanta sia la sua preparazione scientifica (conosce la matematica ? fino a che
livello ? è mai entrato in un laboratorio ? ha fatto esperienze ?), sono spiacente ma questi sono
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prerequisiti indispensabili per disquisire di queste cose, altrimenti ritorniamo a ciò che Galileo ha
combattuto per tutta la vita, il dar più credito ai testi, all'autorità che non allo studio della natura
mediante discorsi, sensate esperienze e dimostrazioni.
POPPER, FEYERABEND ED ALTRI
Galileo è da sempre ed ancora bersaglio di critiche feroci ed insulti. Dietro di tutto ciò vi sono quasi
sempre cattolici ed ecclesiastici che parlano di lui a vario titolo. Tralasciando persone che parlano senza
sapere di cosa, restano quelle che in mala fede costruiscono tesi e teorie che oggi si definiscono
negazioniste dei meriti di Galileo.
Vi sono poi gli epistemologi, dei filosofi che avrebbero il compito di spiegare come si fa scienza e che
dovrebbero guidarci sui sentieri della conoscenza, essendo in gran parte persone che non hanno mai
fatto scienza e con una tara quasi onnipresente, la non conoscenza della matematica. Ebbene, vediamo
come alcuni di questi luminari discutono di Galileo.
Inizio da Duhem(69), fisico teorico poi divenuto storico della scienza, cattolico e francese, degli inizi del
Novecento definito da Federigo Enriques come una mentalità logica scolastica portata a misconoscere
ciò che vi ha d'intuitivo nella ragione. Duhem utilizza un metodo indiretto di squalifica: Galileo ha
pochi meriti perché non vi fu una vera rivoluzione nel Seicento, infatti i principali concetti della fisica
elaborati all'epoca erano in realtà presenti in pensatori del XIV secolo. Secondo Duhem quindi la
nascita della scienza moderna si presenta non come un atto rivoluzionario, ma come un processo
graduale e continuo. La negazione del concetto di "rivoluzione scientifica" aveva un chiaro valore
ideologico: contro il positivismo che vedeva la scienza moderna nascere rompendo con la cultura
medievale e con la religione, Duhem poteva sostenere che la scienza era nata nel Medioevo per opera di
uomini di chiesa. Dice Duhem che, "a costo di contraddire le leggende, le concezioni di Galileo sulla
dinamica portano l'impronta profonda dei principi peripatetici, si discostano molto poco dalle dottrine
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ammesse da un buon numero di fisici del secolo XVI, sono in notevole ritardo sulle intuizioni di
qualcuno dei suoi predecessori". Più in dettaglio, in una serie di ponderose opere sulla scienza antica e
medievale Duhem attaccò vigorosamente l'immagine di Galileo rivoluzionario e, oltre a sostenere che
vari pensatori medievali, in particolare Giovanni Buridano e Nicola di Oresme, avevano anticipato
talune fondamentali idee galileiane, adombrò che Galileo era venuto a conoscenza di questi autori
tramite la mediazione dei manoscritti di Leonardo ed in qualche modo aveva copiato. Duhem sostenne
anche, in Salvare i fenomeni (1908, ed. it. 1986), che, se inserito nella tradizione dell'astronomia,
Galileo appariva singolarmente grossolano dal punto di vista metodologico con la sua pretesa di far
accogliere il sistema copernicano come teoria vera, mentre metodologicamente più raffinata era stata la
posizione della chiesa cattolica, la quale si era giustamente appellata alla plurisecolare storia
dell'astronomia matematica per sostenere che l'eliocentrismo era soltanto una comoda ipotesi
calcolistica. Oltre a rivedere profondamente il rapporto tra la figura di Galileo e la scienza a lui
precedente, Duhem innovò anche la visione tradizionale circa l'essenza della metodologia galileiana,
sostituendo al Galileo empirista dei positivisti un Galileo teorico, che rompe con l'esperienza quotidiana
per inaugurare una teoria fisica profondamente contraria all'esperienza comunemente intesa.
Quest'ultimo contributo di Duhem al rinnovamento degli studi galileiani fu soprattutto indiretto, poiché
lo scienziato francese non dedicò analisi molto approfondite su Galileo, concentrandosi piuttosto sui
suoi predecessori. Furono invece la critica epistemologica di Duhem e i suoi lavori di storia, non
specificatamente dedicati a Galileo, a dimostrare l'inadeguatezza di una interpretazione empirista della
rivoluzione scientifica. A Galileo Duhem dedicò un solo scritto di grande impegno, del 1904, che fu
comunque decisivo per illustrare la rottura operatasi tra la scienza della meccanica galileiana e
l'esperienza acriticamente intesa. Ma Duhem è, oltre che cattolico, anche francese e cioè profondamente
sciovinista. Poiché dietro di sé ha le scuole del XIV secolo dei francescani del Merton College di
Oxford e del vescovo occamista francese Oresme, egli non esita ad assegnare ogni merito alla scuola di
Parigi. E riesce anche in un'operazione di gran difficoltà. Egli, che è un cattolico, vuole ridimensionare
il ruolo di Galileo, datando la rivoluzione scientifica proprio ai lavori di Oresme che è uomo di Chiesa
(inaugurando quel filone che ancora oggi va di moda nei siti della catena totus tuus, che vuole Galileo
come un mero continuatore di quanto iniziato da Oresme medesimo). Sembra quasi che per la frenesia
di dare la primogenitura ad un cattolico di sicura fede, ci si dimentichi delle condanne con cui la Chiesa,
su ordine di Papa Giovanni XXI ed attraverso il vescovo di Parigi Etienne Tempier, nel 1277, colpì un
gruppo di professori universitari alla Facoltà delle Arti di Parigi. Censurate furono alcune proposizioni
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attribuite ai maestri "averroisti" ossia a quegli intellettuali che spiegavano le tesi fisiche e etiche di
Aristotele seguendo il commento del musulmano Averroé. Sono 219 le proposizioni riconducibili ad
Aristotele che furono giudicate eretiche. Anche lì, la Chiesa aveva bloccato tutto tanto che Edward
Grant, che pure è un estimatore di Duhem, nel suo La scienza nel Medioevo, afferma: E' vero, come
sostenne Pierre Duhem, ...che gli articoli 34 e 49 (condannati perché imponevano a tutti di ammettere
che Dio potrebbe muovere l'universo in linea retta anche se ciò determinasse un vuoto e di concedere
che egli potrebbe creare tutti i mondi che vuole) contribuirono a dare inizio alla scienza moderna ? Se
è vero, sarebbe un'ironia che una limitazione di libertà di espressione e di ricerca abbia fatto nascere
la scienza moderna. Se questa interpretazione ricevesse sostegno, essa suggerirebbe inevitabilmente
che la rivoluzione scientifica, i cui inizi sono associati di solito al grande nome di Galileo, non sia stata
che la continuazione delle correnti scientifiche antiaristoteliche generate nel quattordicesimo secolo. ...
O non sta forse la verità altrove ? E non ha invece ragione Alexander Koyré ... quando afferma che la
condanna del 1277 non produsse che un cambiamento di lieve entità nell'edificio della scienza
aristotelica ? Avevano gli articoli condannati, così importanti per Duhem, il valore di un mero
intoppo ? ... E l'insistenza sulla potenza assoluta di Dio di compiere qualunque azione fisica non
implicante una contraddizione logica, non fu nociva ad uno sviluppo rigoroso di una scienza, come
quella aristotelica, le cui parti erano troppo integrate per adattarsi realmente alle richieste teologiche
della condanna ? E poi, se, come credeva Duhem, la condanna fu efficace nel generare una reazione
radicale alla scienza aristotelica, perché quest'ultima non subì trasformazioni più drastiche nei secoli
quattordicesimo e quindicesimo ? Perché il suo rifiuto totale fu posticipato fino allo scorcio del
diciassettesimo secolo ? (pagg. 50-51). Insomma, per Duhem, la scienza moderna inizia dalla scuola di
Parigi. Ma la Chiesa condannò molte delle cose che lì vennero elaborate. Duhem riesce a dire che la
Chiesa fece bene perché si era sbarazzata di proposizioni che non avrebbero fatto fare passi avanti alla
scienza ! Caspita ! è un capolavoro che non tiene conto, ad esempio e come traspare dalle
considerazioni di Grant, del fatto che bloccare quelle proposizioni è bloccare tutta la critica alla filosofia
aristotelica che, anche qui come detto, è un insieme estremamente articolato e tale che toccando alcuni
punti si smonta l'intera costruzione. Ma tant'è. Le vicende storiche fecero poi in modo che addirittura
l'insieme della filosofia aristotelica diventasse intoccabile, dopo l'intervento miracolistico di San
Tommaso su Aristotele(69 bis).
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Ma i Duhem, nel mondo, avranno sempre un gran seguito che è un seguito acritico di credenti
reazionari. Come dice il cattolico Maurizio Brunetti al chierichetto Benassi che lo intervista:
L’eccellenza di Duhem come pensatore consiste proprio nel fatto di aver riconosciuto con
chiare argomentazioni l’incapacità del metodo scientifico di dire qualcosa attorno a
problemi ontologici o di metafisica. Questa incapacità viene dimostrata non solo mediante
una analisi del metodo scientifico, ma facendo propri quegli insegnamenti che la storia
della scienza mette a disposizione. In tutto questo Duhem fece del suo meglio per rispettare
le esigenze poste dai principi della logica e dalla storia della scienza. Infatti, il rispetto
della storia lo spinse a intraprendere l’eroico compito di far venire alla luce le vere origini
della meccanica classica. Con grande sorpresa egli ritrovò tale origine negli scritti di
scienziati medioevali del secolo XIV, specialmente della Sorbona, come Nicola di Oresme e
Giovanni Buridano. Ciò che mi ha colpito in Pierre Duhem non è stato soltanto, com’è
naturale, la sua dedizione al lavoro di studioso che sfiora i limiti dell’eroicità, ma anche il
fatto che egli sperimentò cosa significasse essere un profeta la cui voce sembra perdersi nel
deserto.
Duhem, a parte gli adoratori di cui sopra, ebbe un qualche seguace, il più noto dei quali è certamente A.
C. Crombie. Tra i quasi-seguaci di Duhem vi è anche il nostro inutile Severino che di Galileo sa dire
che è un precursore del 'convenzionalismo' contemporaneo ed un realista dogmatico che pretende di
considerare il sapere scientifico come un vero sapere. Si tratta di un’abile interpretazione strumentale
basata su un agnosticismo assoluto del filosofo per il quale l'unica 'episteme' è quella incontrovertibile
dell'essere parmenideo. Chiaro, no? Come definire chi di Galileo sa dire solo queste cose ? Non ne sono
capace, a parte il dire che Severino non sa come stanno le cose ed ha letto di seconda o terza mano
qualcosa. Il sapere scientifico come vero sapere ? Dove lo ha letto ? Severino confonde il modo di
conoscere scientifico con i risultati della ricerca. Il primo è il metodo che Galileo ha indicato per
conoscere, i secondi sono provvisori e sempre soggetti ai criteri di falsicabilità che lo stesso Galileo ci
offre. Ma come spiegarglielo ? Lor signori si muovono in altri mondi e, come era accaduto ai tempi di
Galileo, sono quelli per cui le verità discendono dalle autorità ... almeno quelle che Severino riconosce
(Don Verzè ?). In ogni caso Severino conclude criticando Giovanni Paolo II per i suoi mea culpa. Sulla
strada aperta da Duhem si muove il gesuita Wallace (sul quale tornerò). Utilizzando scritti che escono
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dagli archivi vaticani quando occorrono, questa volta relativi al moto ed ai primi studi di Galileo,
Wallace afferma che Galileo si muove su strade aperte dai gesuiti romani ed in particolare sui lavori di
Padre Clavio (Wallace parla addirittura di Plagio affermando che la fama di Galileo è dovuta al De
Motu: credo davvero che, oltre che in malafede, stia poco bene!). La cosa è sconvolgente perché non
riesco a pensare ad un serio studioso che, all'età di 26 anni non studi su ciò che di più avanzato vi sia ed
all'epoca il Collegio Romano lo era. E Crombie si schiera anche su questo come Carugo anche se con
visioni più sfumate. Altre indagini a Padova e Pisa hanno fatto ipotizzare ulteriori legami tra Galileo e la
tradizione scolastica universitaria (C.B. Schmitt, C. Lewis). Anche tutti gli studi sulla metodologia del
XV e XVI secolo hanno costantemente considerato come punto d'arrivo Galileo e hanno esplorato i
rapporti tra il grande pisano e le tradizioni a lui precedenti (J.H. Randall jr, N. Jardine, W.L. Wisan).
Secondo Cassirer, invece, Galileo ha avuto il merito grandissimo di bandire dalla scienza la ricerca delle
cause, per concentrarsi sulle relazioni fenomeniche: la scienza, grazie a Galileo, è passata dai "perché"
ai "come" con una operazione che, con estrema semplicità, bandisce la metafisica (salvo la
reintroduzione di tale metafisica da parte di Descartes che insisteva proprio nella ricerca dei perché).
Insomma, Galileo sotto il microscopio!
Altro personaggio che spara con estrema durezza su Galileo è Robert Musil. Egli usa dei paradossi
sgradevoli e penosi nel suo L'uomo senza qualità (1930-1933, Einaudi 1957), paradossi contro la
scienza poi ripresi da altri in modo pedissequo e, se possibile, più stupido. Musil inizia con un attacco
alla scienza:
Possiamo cominciare subito dalla bizzarra predilezione del pensiero scientifico per le
definizioni meccaniche, statistiche, materiali alle quali è stato cavato il cuore[...] Certo, si
ama e si ricerca la verità; ma intorno a quel lucido amore c'è tutta una preferenza per la
delusione, per la coercizione, l'inesorabilità, la fredda minaccia o l'asciutta censura, una
preferenza diabolica, o almeno una involontaria irradiazione di sentimenti del genere.
Naturalmente:
La matematica è l'origine del perfido raziocinio che fa, sì, dell'uomo il padrone del mondo
ma lo schiavo della macchina pericolosa.
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Il Seicento di Galileo ha indagato la natura in modo superficiale con una matematica
madre delle scienze esatte, nonna della tecnica [che è] matrice di quello spirito che ha poi
prodotto i gas asfissianti e gli aereoplani da bombardamento.
Per questo è stato un grave errore da parte della Chiesa fare il processo a Galileo
La Chiesa Cattolica ha commesso un grave errore minacciando di morte un tal uomo
(Galileo) e costringendolo alla ritrattazione invece di ammazzarlo senza tanti complimenti;
perché il suo modo, e quello dei suoi consimili, di considerare le cose ha poi dato
origine .... agli orari ferroviari, alle macchine utensili, alla psicologia fisiologica e alla
corruzione morale del tempo presente e ormai non può più porvi rimedio.
Naturalmente Musil non ha letto Duhem, altrimenti avrebbe applaudito Tempier ed imprecato contro
Grossatesta. E così, neppure consolati da una qualche erudizione delle tesi del cattolico Duhem, Galileo
deve anche risolvere i problemi psicoanalitici di persone senza qualità.
Passiamo a Popper, che ho avuto alcune volte modo di citare parlando di Galileo, perché il nucleo del
falsicazionismo di Popper discende direttamente e letteralmente da Galileo. Ma Popper fa il bambino e
fa finta di non vedere come stanno le cose. Egli inizia con l'informarci che
la base empirica delle scienze oggettive non ha in sé nulla di "assoluto". La scienza non
poggia su un solido strato di roccia. L'ardita struttura delle sue teorie si eleva, per così
dire, sopra una palude. E' come un edificio costruito su palafitte [...] la nostra conoscenza
ha fonti d'ogni genere, ma nessuna ha autorità.
e questa dovrebbe essere una novità per Galileo. Poi (K. R. Popper, Scienza e Filosofia, Einaudi, 1969,
pagg. 14-15; ed anche Congetture e Confutazioni, il Mulino, 1972, pagg. 172-173) Popper ci dice:
Oggi la concezione della scienza fisica fondata da Osiander, dal cardinale Bellarmino e
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dal vescovo Berkeley ha vinto la sua battaglia senza sparare un solo altro colpo. Senza
dibattere ulteriormente il problema filosofico, senza produrre nessun nuovo argomento, il
punto di vista strumentalistico (cosí lo chiamerò) è diventato un dogma indiscusso. Ora
può essere a ragione chiamato il “punto di vista ufficiale” della teoria fisica - da quando è
stato accettato dalla maggior parte dei nostri principali teorici della fisica (esclusi, però,
Einstein e Schrödinger). Ed è diventato una parte dell'insegnamento corrente della fisica.
e più oltre ci spiega che i fisici sono diventati dei pragmatici (a loro interessa la matematica e delle sue
applicazioni) e non si occupano più di filosofia ma nel far questo abbracciano una teoria filosofica. Io
condivido ed osservo che ben pochi sono i filosofi che meritano attenzione. Se li dobbiamo giudicare
dalle sciocchezze che dicono sulla scienza, estrapolando ... E la definitiva rottura tra fisica e filosofia
avvenne a Copenaghen nel Congresso Solvay del 1928. Si sancisce la separazione, si formalizza il fatto
che ogni attività non strettamente attinente alla scienza, il chiedersi i perché, fa perdere tempo; si decide
che l'efficienza non va d'accordo con chi chiede, con quelli che vogliono sapere. Si sottintendono due
cose: da una parte che la scienza, comunque e dovunque la si faccia è buona in sé (l'eredità
neopositivista è sempre presente ed è una mostruosa malattia infantile della scienza); dall'altra che lo
scienziato è in grado di capire e che l'organizzazione sociale non lavora mai contro l'uomo. Queste
posizioni si affermarono come vincenti. I rompiscatole come Einstein, Boltzmann, Schrödinger e Planck
persero.
Il discorso sarebbe lungo almeno come un libro che dovesse raccontare nei dettagli tutti gli eventi del
Novecento. Taglio per ovvie necessità. Proprio l'efficienza che domina tra gli scienziati, spesso
impregnati inconsciamente di una ingenuità neopositivista, ha fatto sì che sulle loro teste sia passato
tutto ed il contrario di tutto. Posizioni chiare e nette sono sempre state appannaggio dei rompiscatole
come Einstein. Gli altri, pur essendo dei giganti nei loro campi di attività, erano felici con il solo avere a
disposizione i giocattoli con cui lavorare (importava poco chi li fornisse).
Da qui parte (o partiva) la lotta all'interno del sistema della ricerca scientifica perché la filosofia
entrasse, non per far perdere tempo, ma per far comprendere e scegliere coscientemente. Ma qui urtiamo
contro i filosofi o presunti tali, contro i tuttologi che fanno dei danni enormi perché fanno ritirare quei
pochi che avevano aderito agli appelli dell'impegno, a causa delle castronerie quotidiane di cui si
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rendono artefici e ci fanno testimoni certi filosofi.
Sono almeno 150 anni che, nel mondo della scienza, e particolarmente in quello della fisica, nessuno
ardirebbe sostenere che egli sa, egli ha la verità, egli conosce, egli è in grado di ... Da tempo
immemorabile ogni scienziato è al corrente degli enormi limiti della scienza, della provvisorietà di ogni
conoscenza, dei limiti personali di conoscenza rispetto addirittura ad altri capitoli della disciplina di
studio (è noto a chi lavora in un Istituto di fisica che un "particellaro" non è in grado di entrare in
argomento con uno "strutturista" e viceversa). E tutto questo è stato inaugurato da Galileo.
I guai vengono da chi, dall'esterno, tenta di spiegare la scienza, costruendo recinti, paradigmi, dizionari,
mondi, strutture logiche che, il più delle volte, sono parto della sola fantasia di chi, tra l'altro, non è mai
stato un praticante sul campo della scienza. Insomma, arrivano alcuni filosofi che in gran parte si
muovono su piani rinunciatari, lavorando su ogni scienziato che non abbia mai formalizzato. E così si
sprecano gli studi su Galileo (saltando con cura i Discorsi e dimostrazioni matematiche!), su Cartesio
(ma solo nella parte dell'Introduzione al Discorso sul Metodo, il resto è troppo difficile!), su Leibniz
(ma senza entrare nella formalizzazione delle monadi perché lì occorrerebbe entrare nel calcolo
differenziale!), su ogni scienziato che ha scritto e parlato senza perdersi in troppe formule,... Questi
filosofi sono le calamità, sono personaggi che tentano giudizi sulla scienza conoscendo quasi nulla di
essa ed in gran parte di seconda mano. A questo si deve poi aggiungere il disastro di Comte che
seleziona, cataloga, classifica le scienze immettendovi discipline che di scientifico non hanno mai avuto
nulla (compresa la Sociologia che piace tanto a Popper per essere egli stesso un sociologo e non un
filosofo). Ma inizia anche un movimento di scienziati che inizia a discutere di scienza (si pensi a Mach,
ad Otswald, a Boltzmann, a Wittgenstein,...) proprio in quell'epoca in cui inizia la separazione tra il
lavoro teorico e sperimentale dello scienziato. Siamo nella "mittle-europa" della fine dell'Ottocento, nei
circoli di Vienna, di Berlino,... Ma la cosa coinvolge anche la Francia di Poincaré e la Gran Bretagna di
Russel (in Italia siamo alle disquisizioni tra Rosmini e Gioberti sulla libera Chiesa in libero Stato). Ho
citato scienziati che, dalla loro formazione scientifica, discutono di scienza e di filosofia. Non si trovano
filosofi che possano opinare di scienza se la scienza non la conoscono. E conoscere la scienza non vuol
dire conoscere alcuni risultati più o meno ben divulgati, ma essere entrati in istituzioni a fare per un
certo periodo della ricerca scientifica.
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Quando si conosce, per averlo vissuto, il modo di lavorare (o uno dei modi di lavorare) del ricercatore
scientifico, quando si è padroni di alcuni pezzi di qualche disciplina scientifica, è allora possibile entrare
in argomento e costruire una teoria epistemologica, una ricostruzione plausibile del modo di lavorare
dello scienziato (o di "quello" scienziato). In caso contrario è facile scadere in luoghi comuni, in
affermazioni mai realmente comprese, in sciocchezze, nel rifugiarsi in parti estranee all'ambito
scientifico toccate da tale studioso. Si può addirittura fare il gioco di chi è più bravo ad inventare,
quando poi le confutazioni sono solo a livello di libero dibattito, senza possibilità di un qualunque
arbitro. Si chiamano volgarmente idee in libertà. Come fa infatti uno scienziato, supposto che ne abbia
voglia (e se ne ha voglia, la avrà solo in età avanzata, quando la creatività sul campo della ricerca di
frontiera avrà lasciato il posto a riflessioni e all'organizzazione della scienza medesima), a spiegare ad
un epistemologo di provenienza filosofica che non ha capito l'essenza dei problemi? Si parla con una
persona che generalmente non conosce l'argomento del contendere. E' un poco come i pedagogisti che
spiegano come insegnare senza aver mai avuto a che fare con una classe, con un corso di studi, per
almeno un ciclo completo.
Ma perché tanto spazio e tanta divagazione a partire da Popper ? Perché Popper è considerato, nel bene
e nel male, il prototipo dell'epistemologo ed ora io avrò a che fare con epistemologi, tra cui alcuni
allievi proprio di Popper.
Ed uno di essi è Feyerabend, il noto teorico del metodo anarchico nella ricerca (ognuno fa come vuole,
non esiste un metodo: Gli scienziati risolvono i problemi non perché posseggono una metodologia e
una teoria della razionalità, ma perché hanno studiato il problema molto tempo, conoscono bene la
situazione e non sono troppo stupidi). Ciò che è d'interesse è che Ratzinger, futuro Papa, come vedremo,
farà riferimento a lui sapendo (o no?) che Feyerabend è il leader mondiale dei relativisti e fa di essa una
teoria che applica rigorosamente alla scienza (viene spontanea la domanda: ma anche Ratzinger è un
relativista ? e se lo fosse senza rendersene conto ?). E proprio perché non esiste un metodo con chi ce la
prendiamo ? Ma con Galileo che invece indica un metodo che è il metodo sperimentale per
antonomasia. Feyerabend ne dice molte. Il nostro presenta Galileo come uno scienziato privo di
scrupoli, che non esitò a impiegare le sue osservazioni con il cannocchiale come operazioni delle quali
vi erano seri motivi per dubitare (ma il nostro dimentica completamente di parlare di chi neppure voleva
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vedere in quel cannocchiale), in favore della propria battaglia filocopernicana, occultando con abili
manovre gli aspetti deboli della teoria(70).
Il telescopio è un "senso superiore e più eccellente" che ci offre materiali di osservazione
nuovi e più attendibili per giudicare in materia di astronomia. In che modo viene esaminata
quest'ipotesi e quali argomenti vengono presentati in suo favore?
Nel Sidereus Nuncius ... Galileo scrive che riuscì a costruire il cannocchiale "fondandomi
sulla dottrina delle rifrazioni". Ciò suggerisce che Galileo avesse ragioni teoriche per
preferire i risultati delle osservazioni telescopiche a osservazioni compiute a occhio nudo.
Ma la ragione particolare da lui fornita — la sua conoscenza della teoria delle rifrazioni
— non è né corretta e neppure sufficiente.
Feyerabend si suggerisce cose che non hanno senso, egli stesso più oltre ammette che Galileo cerca di
imparare l'ottica teorica e scopre che Galileo ha costruito il cannocchiale provando e riprovando.
Provando e riprovando: ciò significa che "nel caso del cannocchiale, fu l'esperienza e non
la matematica a condurre Galileo alla sua grande conquista: la conquista della fiducia
nella veridicità dell'apparecchio". Anche questa seconda ipotesi sull'origine del
cannocchiale ha il sostegno della testimonianza di Galileo, il quale scrive di avere
sperimentato il telescopio "centomila volte in centomila stelle e oggetti diversi".
La mia poca fantasia mi impedisce di capire lo scandalo anche se sono capace di capire la frase di
Galileo: "fondandomi sulla dottrina delle rifrazioni", fondandomi cioè sull'ottica delle lenti, sul fatto
che esse ingrandiscono e che disposte opportunamente ingrandiscono oggetti grandi o oggetti piccoli
(microscopio). Perché fare i bambini ? E perché sostenere che Galileo ha inventato il telescopio, quando
Galileo apre in Nuncius Sidereus dicendo:
Circa dieci mesi fa ci giunse notizia che era stato costruito da un certo Fiammingo un
occhiale, per mezzo del quale gli oggetti visibili, pur distanti assai dall'occhio di chi
guarda, si vedevan distintamente come fossero vicini,
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affermando, cioè, ciò che successivamente Feyerabend gli rimprovera ? Ma la cosa non finisce qui se
tutto Contro il metodo è un affermare e no, nel dire e non dire, nell'esaltare e nel denigrare. Un caso non
proprio normale. Ma l'epistemologo ha una teoria a priori da dover sostenere: la scienza ha infettato il
mondo. La realtà che essa propone non è data, è costruita, fabbricata grazie ad una messa in scena, con i
suoi dispositivi ed i suoi apparati di proiezione; non c'è differenza in tal senso fra arte e scienza,
entrambe costruiscono artefatti ... Anche Galileo costruì una scena, quella dell'esperimento, e si servì di
meccanismi di proiezione presentati, in modo ingannevole, come rispondenti alla realtà (il guaio di
Galileo è che ha usato poca matematica ed ha tentato di farsi capire, per questo impazzano filosofi,
epistemologi, sociologi e financo teologi). Lo scienziato pisano avrebbe, per così dire, meritato la
bocciatura se fosse stato esaminato secondo i paradigmi strettamente razionalistici privilegiati da
neopositivisti vecchi e nuovi: e invero, quante indebite generalizzazioni, quante disinvolture teoriche
proibite dal 'giusto' metodo sono rintracciabili nell'opera galileiana… E allora, delle due l'una: o le
acquisizioni cognitive della fisica di Galileo sono false, o le regole del metodo possono, e talora
debbono, essere trasgredite. Ciò che diciamo progresso nella scienza non è che un cambiamento di stile.
I fattori culturali o l'abilità di "gruppi di potere" impongono programmi di ricerca, spacciandoli per
realtà; non sono l'adeguatezza empirica, la presunta corrispondenza con la realtà, o la logica
argomentativa, a determinare la sopravvivenza di una teoria rispetto all'avversaria. Un gruppo di
pressione, sorretto da un brain trust e ben rifornito di risorse economiche, potrebbe ristabilire l'autorità
del pensiero aristotelico. Osservo io che è a tutti noto, infatti, che Galileo riuscì ad affermare le sue
opinioni attraverso un brain trust guidato da Maffeo Barberini. Più seriamente, l'argomentazione di
questo signore è tanto scandalistica quanto slegata da ogni realtà se il brain trust della Chiesa non è mai
riuscito ad imporre creazionismi o tomismi. Dice Feyerabend:
Galileo sostituisce un'interpretazione naturale con un'interpretazione molto diversa e fino
allora (1630) almeno in parte innaturale. In che modo procede? In che modo riesce a
introdurre asserzioni assurde e controinduttive, come l'asserzione che la Terra si muove,
procurando nondimeno loro un ascolto giusto e attento? Ci si immagina immediatamente
che le argomentazioni da sole non bastino — ecco qui una limitazione interessante e molto
importante del razionalismo — e i discorsi di Galileo sono in effetti argomentazioni solo in
apparenza. Galileo si serve infatti dei mezzi della propaganda. Oltre a tutte le ragioni
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intellettuali che può offrire egli fa ricorso anche a trucchi psicologici. Questi trucchi hanno
molto successo e lo conducono alla vittoria. Essi oscurano però il nuovo atteggiamento nei
confronti dell'esperienza in divenire e procrastinano per secoli la possibilità di una
filosofia ragionevole. Essi oscurano il fatto che l'esperienza su cui Galileo vuoi fondare la
concezione copernicana non è altro che il risultato della sua fertile immaginazione, che è
un'esperienza inventata. Essi oscurano questo fatto insinuando che i nuovi risultati che
emergono siano noti e concessi da tutti e che abbiano bisogno solo di richiamare su di sé la
nostra attenzione per apparirci come l'espressione più ovvia della verità.
Secondo il nostro, Galileo fa violenza imponendo il suo punto di vista relativistico con il quale pretende
di farci vedere una realtà che è contraria al buon senso (la scienza moderna schiacciò i suoi oppositori,
non li convinse, si impose con la forza, non con il ragionamento). Ma non basta, Galileo
conduce anche all'invenzione di un nuovo genere di esperienza che è non soltanto più
sofisticato ma anche assai più speculativo di quanto non sia l'esperienza di Aristotele o del
senso comune. Parlando in modo paradossale, ma non sbagliato, si potrebbe dire che
Galileo inventa un'esperienza che contiene ingredienti metafisici.
Proprio per tutto questo, per Feyerabend, Galileo ha degli indiscutibili meriti epistemologici. E,
mostrando un poco di schizofrenia, riesce a dire:
Procedendo in questo modo Galileo esibì uno stile, un sense of humour, un'elasticità ed
eleganza e una consapevolezza della preziosa debolezza del pensiero umano, che non è
stata mai eguagliata nella storia della scienza. Nell'opera di Galileo abbiamo una fonte
quasi inesauribile di materiale per la speculazione metodologica e, fatto molto più
importante, per il recupero di quei caratteri della conoscenza che non soltanto ci
informano ma anche ci deliziano.
E più oltre, quasi in chiusura di Contro il metodo ed a proposito del colonialismo al quale si
accompagna l'imperialismo culturale che opprime altri popoli, riesce a dire che il cristianesimo è la
religione assetata del sangue dei fratelli (e dico questo perché lo si ricordi quando Ratzinger si rifarà a
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Feyerabend come occorrerebbe ricordare che alla messa in scena della versione tedesca della Vita di
Galileo del comunista Brecht abbia collaborato proprio Feyerabend).
Salvo pentirsi più avanti nel tempo quando Feyereband mostra il suo livore mescolato ad un infinito
opportunismo prestandosi ad una recente e sporca operazione della Chiesa.
Nel 1987 la Chiesa di Roma, riunita a Cracovia in un Congresso dell'Accademia pontificia, invitò
Feyerabend a tenere una relazione. Il nostro inviò una registrazione che fu poi pubblicata in una raccolta
a cura di Marcello Pera (proprio lui! ndr) sotto il titolo Addio alla ragione (Armando, 1990). Qui si
tenta una denigrazione di Galileo, attraverso considerazioni capziose. Oggi Galileo non sarebbe più
libero di ieri. Galilei non aveva prove nell'affermare il copernicanesimo. Galileo insisteva in campi che
non gli competevano.
Galileo non rivendicava solo la libertà di pubblicare i suoi risultati, voleva imporli agli
altri. Sotto questo aspetto era altrettanto dogmatico e totalitario di molti moderni profeti
della scienza, e anche altrettanto disinformato. Dava semplicemente per scontato che
metodi particolari e molto limitati usati dagli astronomi (e da quei fisici che li seguivano)
costituissero il modo corretto di avere accesso alla Verità e alla Realtà.
Galileo aveva di fronte un personaggio ragionevole, come Bellarmino. Quest'ultimo non era chiuso al
nuovo, tanto è vero che in uno scritto dice a Galileo che la Chiesa è aperta a dimostrazioni (queste
limitazioni dirette e razionali che venivano imposte alla ricerca non erano inamovibili).
La Chiesa, allora, non solo era sulla via giusta quando usava le preoccupazioni umane
come metro della realtà, ma era notevolmente più razionale di molti scienziati e filosofi
moderni che tracciano una netta distinzione fra fatti e valori e danno per scontato che il
solo modo per arrivare ai fatti, e quindi alla realtà, sia quello di accettare i valori della
scienza. (...)
Dunque, gli scienziati possono contribuire alla cultura, ma non possono fornirle un
fondamento; e, vincolati e accecati come sono dai loro pregiudizi “esperti”, certamente
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non possono essere autorizzati a decidere, senza controllo da parte degli altri cittadini,
quale fondamento i cittadini dovrebbero accettare.
Le Chiese hanno molte ragioni per sostenere un simile punto di vista e usarlo per criticare
risultati scientifici particolari come anche il ruolo della scienza nella nostra cultura.
Dovrebbero superare la loro cautela (o è paura?) e ridare vita all'equilibrata saggezza di
Roberto Bellarmino, proprio come gli scienziati costantemente traggono forza dalle
opinioni di Democrito, Platone, Aristotele e del loro presuntuoso Patrono San Galileo.
In quanto scritto si nota una conversione del nostro epistemologo anarchico al gesuitismo. Invia un suo
intervento ai rappresentanti del Vaticano dicendo ciò che questi ultimi volevano sentirsi dire. Parla di
maggiori difficoltà di Galileo oggi ma dimentica che oggi nessuno brucia chi la pensa in modo diverso e
Galileo non fu bruciato solo per l'enorme fama che aveva nel mondo intero (anche se la galera coatta ad
un anziano, l'obbligo al silenzio e la minaccia di tortura, restano fatti orrendi).
Insomma il buon senso bistrattato da Galileo ed una visione della conoscenza da Bar dello Sport con la
consumazione pagata.
Arrivato a questo punto resta solo un cenno al filosofo marxista romantico Ernst Bloch, non per la sua
rilevanza (il personaggio sa poco di scienza) ma perché è stato richiamato addirittura da Ratzinger nella
sua denigrazione di Galileo e non in quanto scienziato ma in quanto marxista (sic!).
Di E. Bloch c'è poco da dire. Il filosofo che tenta di intrecciare ebraismo e marxismo introducendo la
Speranza nei concetti filosofici, si è occupato molto poco di Galileo. Bloch non conosce la matematica e
le problematiche di calcolo. Racconta cose su Galileo che non corrispondono al vero. Punto. Inizia con
il mito illuminista del Galileo vittima, mito al quale egli non crede. Dice Bloch che il sistema
eliocentrico, così come quello geocentrico, si fonda su presupposti indimostrabili, tra cui l'affermazione
di uno spazio assoluto che è stata cancellata dalla teoria della relatività. Quindi non raggiunge una
maggior corrispondenza alla verità oggettiva rispetto al sistema tolemaico. Per quel che c'interessa,
Bloch conclude affermando qualcosa di stupefacente: una volta data per certa la relatività del
movimento, un antico sistema di riferimento umano e cristiano non ha alcun diritto di interferire nei
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calcoli astronomici e nella loro semplificazione eliocentrica, ma «ha il diritto di restare fedele al
proprio metodo di preservare la terra in relazione alla dignità umana e di ordinare il mondo intorno a
quanto accadrà e a quanto è accaduto nel mondo». C'è poco da dire su Bloch. Incredibilmente il
sistema copernicano era molto più complesso di quello aristotelico per fare i conti ai quali si riferisce
Bloch. E' vero che uno degli scopi di Copernico nell'elaborare il suo sistema era quello di tentare di
semplificare i calcoli ma ciò non avvenne, probabilmente anche perché non si aveva alcuna pratica con
il nuovo sistema. Ma c'è di più. E' falso che i presupposti geocentrici o eliocentrici sono indimostrabili.
Vero è che è molto difficile. Intanto la questione della relatività del moto. Non è mica una cosa così
banale e scontata! Fu Galileo ad introdurla per dare credibilità al sistema Copernicano perché è vero che
dalla Terra, il mondo sembra aristotelico. Rovesciare questo contro Galileo rappresenta non solo una
falsificazione ma anche una sciocchezza conseguente all'ignoranza delle questioni in gioco. Così come è
discorso pasticciato quello di affermare che per la relatività del moto serve lo spazio assoluto. Chi non
conosce neppure l'argomento della secchia di Newton (e le critiche di Mach), non sa che il problema fu
posto da Newton ma esattamente rovesciato: Newton credeva che se avesse individuato un moto
assoluto, avrebbe potuto affermare uno spazio assoluto. Egli si convinse che tale moto assoluto era
quello originato da forze centrifughe (in proposito si può leggere qui), sbagliando come poi mostrò
Mach (leggere qui). Ma qui si parla degli sviluppi di quanto aveva seminato Galileo, non delle
problematiche che si posero con Galileo(70 bis).
PARTE SETTE: LA DECADENZA DELLA RICERCA IN ITALIA
LA CATTEDRA DI FISICA SACRA
E' utile avere per riferimento questa carta dello Stato Pontificio per capire meglio la situazione culturale
in Italia dal processo a Galileo fino all'Unità.
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Le note vicende della condanna di Galileo allontanarono dall'Italia la ricerca e, salvo qualche caso
sporadico, essa è stata quasi del tutto assente fino a che, con i bersaglieri a Porta Pia, non si è rinchiusa
la Chiesa dentro le mura leonine.
Tutto questo sembrerebbe non meritare commento, tanto è risaputo. Ma con le gerarchie ecclesiastiche
che minano continuamente la storia con il dubbio che instillano negli uomini di fede, occorre entrare in
spiegazioni anche sull'ovvio.
Mi riferisco allora a degli studi importanti fatti da Ugo Baldini e Pietro Redondi per la Storia d'Italia
(Annali 3, Scienza e Tecnica), da Fernand Braudel (Dalla caduta dell'Impero Romano al Secolo XVIII) e
da Stuart J. Woolf (Dal primo Settecento all'Unità) della Einaudi.
Baldini discute dell'attività scientifica in Italia nel primo Settecento. Divide il Paese in zone ed un
ampio spazio è dedicato a Roma e lo Stato Pontificio.
In questa parte d'Italia vi è una differenza tra le zone emiliane evolute rispetto al resto.
Un'analisi non pregiudiziale può esordire osservando che la struttura universitaria dello
Stato era comparativamente densa, essendo stati mantenuti Studi d'origine comunale e
signorile; quelli a sud di Bologna, però, e in parte la stessa Sapienza di Roma, avevano una
didattica scientifica ristretta, funzionale al carattere più arretrato del tessuto sociale e con
più vive pregiudiziali speculative verso lo sperimentalismo, e rilievi analoghi sono da farsi
per le numerose
scuole religiose, popolari e nobiliari. Tuttavia Roma era un fenomeno culturale per certi
aspetti privo di paragoni, con gruppi intellettuali connessi alla curia e alle case generalizie
degli ordini e con i giuristi e tecnici richiesti dall'amministrazione dello Stato e dei
numerosi patrimoni delle casate nobili, alcune delle quali provviste di vere e proprie corti
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con la relativa dimensione mecenatistica. Nel complesso questi gruppi rientravano in una
strutturazione tradizionale della cultura, ma non erano schierati compattamente su posizioni
chiuse; inoltre il suo ruolo ecumenico faceva convergere a Roma personalità portatrici di
temi e impostazioni eccedenti di molto i limiti della cultura ufficiale. I caratteri dell'attività
scientifica vanno così intesi in base a quest'intreccio di fattori,
fattori tra i quali s'inserì Galileo che in qualche modo coagulò intorno alle sue ricerche degli studiosi
attraverso il suo amico Benedetto Castelli che teneva dei corsi di matematica alla Sapienza ed attraverso
l'Accademia dei Lincei inizialmente diretta dall'altro amico Federico Cesi. Vi erano spazi per le ricerche
che potevano
Roma: Palazzo Cesi in Via della Maschera d'Oro dove ebbe la prima sede l'Accademia dei Lincei
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porsi come alternative (la nuova scienza) all'unico centro evoluto della Chiesa, il Collegio romano.
Questo nucleo di studiosi intorno al 1640 si disperse restando un solo labile collegamento tra Roma e
Firenze nella persona evoluta e colta di Michelangelo Ricci (un letterato e non scienziato). Nelle nobili
e papaline accademie che sorsero furono pochissimi i veri ricercatori e tutti provenienti da fuori. Veniva
proprio a mancare quel tessuto di raccordo tra ricerca e botteghe artigiane che era stato il motore
propulsore per i lavori di Galileo.
Riassumendo molto, si può dire che in qualche settore si mantenne un livello di dignità ma in tutti quelli
che sarebbero diventati trainanti per la possente avanzata scientifica del Nord Europa, vi fu il quasi buio
totale e la cosa coinvolse rapidamente il resto d'Italia per la grande forza di ricatto che lo Stato della
Chiesa esercitava. Il caso della Toscana è emblematico. Nel 1651 viene creata l'Accademia del Cimento
(diventerà operativa nel 1657) dal Granduca Ferdinando de' Medici e da suo fratello Leopoldo. Viene
attrezzato un ottimo laboratorio nel quale opereranno Lorenzo Magalotti, Vincenzo Viviani, Giovanni
Alfonso Borelli, Carlo Renaldini, Francesco Redi, Alessandro Segni, Carlo Roberto Dati, i fratelli
Candido e Paolo del Buono, Alessandro Marsili, Steno, Magalotti, Cassini grandi scienziati formatisi
nello spirito entusiasta delle ricerche e scoperte dei primi decenni del secolo. Ma ... solo 10 anni dopo,
nel 1667, verrà chiusa d'autorità come prezzo per la nomina di Leopoldo a cardinale ed uno dei membri
dell'Accademia, Antonio Oliva, fu arrestato dall'Inquisizione e per evitare la tortura si suicidò.
Vi erano poi i diretti allievi di Galileo, come il citato Viviani, Bonaventura Cavalieri, Giovanni Battista
Baliani, Evangelista Torricelli ... ma alla loro scomparsa non ci furono ricambi. E questo anche
nell'ambito della tecnica dove, come dice Braudel, poiché la tecnica non muore dall'oggi al domani,
su questo piano essenziale l'Italia continua a proporre all'Europa i propri ingegneri, che
sono indubbiamente i migliori del tempo. Essi sono all'opera al tempo del gigantesco
assedio di Anversa del 1585, agli ordini di Alessandro Farnese; sono ancora all'opera nel
corso dell'assedio, non meno gigantesco, della Rochelle, da parte di Richelieu nel 1628; lo
sono ancora ai tempi di Vauban. E i trattati di meccanica italiani sono fra i più belli che
conosciamo, destinati ad essere spesso utilizzati ancora nel secolo XVIII: così il libro di
Agostino Ramelli, pubblicato a Parigi nel 1588, così le opere di Fausto Veranzio (1617), di
Vittorio Zonca, Novo teatro di machine et edificii (Padova 1624), di Benedetto Castelli,
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Delle misure dell'acque correnti (1628).
E Braudel prosegue facendo sue le tesi di G. Gusdorf:
La decadenza italiana è un processo quasi esclusivamente culturale, e culturali sono i
sintomi e le cause di questa decadenza: il concilio di Trento (1545-63), l'istituzione
dell'Indice da parte di papa Paolo IV nel 1557, il processo postumo a Copernico (morto nel
1543) nel 1616, il processo di Galileo e la sua condanna (che sarebbe stata certamente più
grave senza la protezione medicea) nel 1633. L'intolleranza religiosa soffoca
progressivamente il pensiero scientifico, e in generale il pensiero in tutte le sue forme.
L'Italia, nel cuore della Controriforma, paga per contraccolpo gli enormi successi che la
Chiesa riporta, con l'aiuto spagnolo, nell'opera di ricattolicizzazione dell'Europa, quella
riconquista che sbocca sul duplice limes del Reno e del Danubio, dove Roma, ancora una
volta, si insedia e si arresta di nuovo. In questa violenta lotta ideologica, si verificò un
irrigidimento di Roma e, oltre Roma, di tutta l'Italia. [...] Si pensi, poi, ai roghi su cui sono
arsi i libri condannati. Il primo viene acceso nel 1524 a Venezia, nel giorno dei santi Pietro
e Paolo (29 giugno), e questo giorno resterà in seguito il giorno stabilito per questo triste
rito, che avviene regolarmente sul Ponte di Rialto. Le altre città seguono l'esempio, che
dura oltre la fine del secolo. Nel 1600 a Ferrara, ritornata in possesso del papa, vengono
bruciati i libri eretici della biblioteca di Renata di Francia, moglie di Ercole d'Este (151075).
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E quello che si perde in Italia non è solo il primato culturale, a questa perdita si accompagna
evidentemente anche la perdita di un certo predominio economico. E alla decadenza italiana si
accompagna l'ascesa dei Paesi del Nord Europa: le province Unite (Paesi Bassi), la Francia e
l'Inghilterra. In questi Paesi si recherà la gran parte degli ultimi scienziati rimasti in Italia, iniziando
esodi che si ripeteranno nella Storia d'Italia.
Per una qualche ripresa molto marginale occorrerà attendere la metà del Settecento quando, sull'onda
dell'Illuminismo, qualcosa si mosse non senza dure resistenze dal solito mondo ecclesiastico, giansenisti
e gesuiti (si, proprio loro, ora intransigenti difensori dell'ortodossia). Ma anche i cattolici illuminati, in
Italia, restavano convinti che alla Chiesa si dovesse ubbidienza. Fu comunque in questo periodo che in
Italia iniziò a porsi il problema della laicità, dell'ateismo, del dubbio religioso, del protestantesimo, ... di
tutto ciò che con il tempo avrebbe formato le generazioni del Risorgimento e della presa di Roma.
Comunque, dice Woolf,
La censura ecclesiastica e l'Inquisizione rimanevano minacce assai serie, specialmente nel
decennio 1730-40, quando i principi, messi in difficoltà dalla crisi che scuoteva l'Italia,
ritirarono parzialmente la loro protezione. Ancora nel 1739 il poeta toscano Tommaso
Crudeli, membro della massoneria, poté essere arrestato dall'Inquisizione, ..., e costretto ad
abiurare. Solo durante il lungo pontificato di un uomo dalla mente aperta, Benedetto XIV
(1740-58), quando ormai l'influenza dei gesuiti era in declino, la critica e l'opposizione
poterono essere espresse più liberamente. Ma anche allora furono il giurisdizionalismo e la
protezione del principe ad offrire un paravento alle nuove idee e a dare impulso alle
riforme, sia in campo giuridico ed economico, sia pedagogiche (...).
Dopo il 1740 la nuova mentalità scientifica, cioè la fiducia nell'utilità pratica della scienza,
rese più saldo il convincimento che le riforme fossero non solo desiderabili, ma realizzabili
concretamente. Le tradizioni scientifiche non si erano mai interamente spente in Italia,
soprattutto nei centri dove più forte era stata l'influenza del Galilei e del Pomponazzi, come
Pisa, Padova, Bologna e Napoli. Verso la fine del Seicento gli scienziati italiani erano
molto aperti ai progressi del pensiero scientifico europeo. Fardella, Malpighi, Sorelli, Redi,
Viviani, Ramazzini, Di Capua, Marchetti guardavano a Descartes e a Gassendi, oltre che a
Galileo, nell'esplorare i nuovi orizzonti aperti dal metodo sperimentale fondato su
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un'intuizione matematica della realtà.
E là dove fino a 100 anni prima era in tutta Europa che si insegnava Galileo, ora in Italia si fanno lezioni
su Cartesio, su Leibniz, su Locke (le cui opere vennero sequestrate), su Newton, con l'Inquisizione che
continua inesorabilmente a colpire. Ma Woolfe continua:
Nel 1748 ... Muratori scriveva amaramente: «Mettendo in paragone l'Italia con la Francia,
Inghilterra, Fiandra, Olande e con qualche paese della Germania, buona parte dell'Italia
resta inferiore nell'industria e commercio a i suddetti ultramontani». Dal punto di vista
intellettuale ed economico, l'Italia era rimasta indietro rispetto ai progressi delle altre
nazioni europee.
Con il progressivo sviluppo del movimento riformatore, gli intellettuali italiani si resero
conto in modo sempre più chiaro del loro debito verso la cultura straniera, specialmente
francese. Montesquieu, Helvétìus, Buffon, Diderot, D'Alembert, Hume, Rousseau furono
gli ispiratori dell'opera di Beccaria Dei delitti e delle pene (1764), come l'autore dichiarò
apertamente al Morellet. All'epoca in cui scrisse La scienza della legislazione (1780),
Filangieri — oltre che ad alcuni philosophes ormai classici, come D'Alembert e Helvétius
— faceva riferimento ad illuministi più tardi e più radicali, a fisiocratici e a filosofi della
storia come Mably, Boulanger, D'Holbach, Chastellux, Linguet, Raynal, Robertson, Hume,
Blackstone, Mercier de la Rivière, Schmidt d'Auenstein, ma era in grado anche di
richiamarsi ad autori italiani, come Genovesi e Pietro Verri. L'illuminismo italiano era
ormai diventato adulto; gli scrittori e i riformatori italiani avevano dato un positivo
contributo allo sviluppo del movimento, un contributo di portata internazionale. Già nel
1767 il Paradisi era pronto a confutare le opinioni denigratorie del Deleyre sul panorama
culturale italiano, facendo appello a nomi come quelli del Beccaria, del Frisi, del Della
Torre, del Fontana, dello Spallanzani. Negli anni fra il 1775 e il 1780, davanti alla crisi del
movimento riformatore in Francia, i continui progressi realizzati in Italia rafforzarono la
coscienza dei risultati raggiunti, senza che, per ciò, ne fossero indeboliti i legami con la
cultura straniera.
L'importanza del metodo empirico, della nuova «filosofia sperimentale», derivava dalla
fiducia che questo metodo offrisse dei criteri già elaborati ed applicati con successo nel
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campo delle scienze sperimentali e suscettibili di essere estesi ad ogni aspetto dell'umana
attività. Vi era la ferma persuasione dei successi raggiunti dal metodo scientifico, che
risaliva alle invenzioni e alle scoperte degli umanisti e si identificava nei nomi di Bacone,
Galileo, Newton e Locke; ma vi era anche la convinzione che queste conoscenze
scientifiche, questi «lumi», fossero legati strettamente al progresso economico e civile di
alcune nazioni come l'Inghilterra, la Francia e l'Olanda. Il nuovo metodo poteva essere
compreso da ogni persona colta che avesse fatto uso della propria ragione e poteva essere
applicato per il bene della società. In ciò esso era diverso, anzi decisamente superiore, ad
ogni generica accettazione del valore della ragione o, ancor peggio, di qualche «sistema», e
in particolare di quello cartesiano. Per questo motivo l'Algarotti (Newtonianesimo per le
dame, ndr), come Voltaire nelle Lettres philosophiques, si propose di spiegare la nuova
«filosofia sperimentale» a un largo pubblico, con fini deliberatamente divulgativi.
L'erudizione onnicomprensiva, la cultura scientifica a vasto raggio dèi primi decenni del
secolo si restringe e si concentra, di proposito, su quegli elementi che appaiono «utili»
all'uomo e alla società. L'ottimismo, la fiducia nella capacità dell'uomo di assicurarsi, nella
pace, un'esistenza più civile ed umana, furono i tratti caratteristici della nuova mentalità
illuministica.
La lunga citazione, oltre a darci importanti informazioni, è servita, se ce ne fosse ancora bisogno, a
citare dei nomi di personaggi stranieri che dicono tutto di per sé se confrontati con qualche coraggioso
nostro isolato studioso. Questo significa la decadenza italiana. Non siamo più trainanti culturalmente
dall'esaurirsi delle persone che avevano vissuto nello spirito di Galileo. E non servono le sedute
spiritiche di monsignor Brandmüller per esorcizzare tale decadenza.
Nelle scienze particolari la grande tradizione geometrica italiana, a cui erano legati molti progressi in
astronomia, ottica e meccanica, tende a sparire per lasciar posto (Bologna e Roma) alla più innocua
algebra in gran parte di provenienza straniera. Un calo notevolissimo si ebbe negli studi di ottica fisica,
acustica, termologia, barometria e parzialmente idraulica (che si sviluppò nell'area padana per motivi
pratici). In pratica tutta la fisica teorica e sperimentale era sparita. Pubblicazioni superficiali come Arte,
scienza e cultura in Roma cristiana, accreditano risultati importanti per il nostro Paese ed elencano pure
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i nomi dei nostri grandi scienziati che è utile riportare. Matematici e fisici: Antonio Santini di Lucca,
Vitale Giordani di Bitonto, Carlo Maria Quarantotti di Roma, Francesco Maria Gaudio ligure; oltre a
questi vi sono i sacerdoti scienziati dei vari collegi religiosi: Gregorio Fontana, Paolo Chelucci, Paolo
Casati di Piacenza, Daniello Bartoli di Ferrara, Atanasio Kircher di Fulda (quasi un mago la cui opera
spaventa un poco perché sembra scritta sotto l'effetto di droghe pesanti), Gaspare Schott, Francesco
Lana, Giuseppe Calandrelli di Zagarolo, ... Tutti eccelsi nomi noti in tutto il mondo, come Newton,
Boyle, Huygens, Halley, Hooke, Muschenbroek, 's Gravesande, i Bernouilli, ... Mah, come si possono
dire cose così banali ? Come è possibile non vedere e continuare a farlo ancora oggi ? Se non si prende
coscienza di ciò che è accaduto e perché non si farà mai un passo avanti perché gli stessi impedimenti,
le stesse palle al piede le abbiamo ancora oggi, e siamo fermi a Zagarolo.
In quali campi si fece qualcosa che ebbe valore assoluto ? In quelle discipline che non erano
direttamente implicate nella rivoluzione di Galileo: botanica, zoologia, mineralogia, vulcanologia,
matematica (nel senso detto prima), ... I maggiori successi li abbiamo avuti in anatomia ed in fisiologia
con Malpighi, con Redi, Guglielmini, Borelli, Morgagni.
Un esempio di grandissimo spessore del come era stata ridotta la fisica ed il suo insegnamento nello
Stato della Chiesa lo abbiamo raccontando le vicende della Cattedra di Fisica Sacra alla Sapienza di
Roma(71). Proprio la liberazione di Roma ed il disastro lì trovato nell'insegnamento della fisica (ma
anche della matematica e della biologia) presso l'Università la Sapienza (ed in tutte le università
pontificie), può far rendere conto dello stato in cui ci trovavamo. La cosa fu denunciata con toni
allarmati dagli ispettori del Ministero della Pubblica Istruzione dell'Italia Unita, Matteucci e Brioschi
nel 1870 i quali aggiunsero che tutti gli insegnamenti erano influenzati dalla tradizione aristotelica nelle
scienze naturali (e la cosa avveniva anche nei seminari arcivescovili). Gli stessi ispettori apprezzarono
l'osservatorio del Collegio Romano, e la medicina insegnata nella Scuola degli ingegneri.
Dopo aver represso duramente ogni cosa si muovesse intorno a Copernico e Galileo per circa duecento
anni (!), nella prima metà del XIX secolo la Chiesa si propose di tentare un aggiornamento culturale
stimolato in vario modo dalla crisi dei valori politici, culturali ed istituzionali provocata
dall'occupazione napoleonica. Il periodo precedente era stato caratterizzato da un clima di pesante
restaurazione politica e culturale, soprattutto nelle università dove si esercitava un rigido controllo
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ideologico sui docenti scientifici (la cosa proveniva dall'Enciclica del 1824 di Leone XII, Quod divina
sapientia, che prevedeva la costituzione di vere e proprie commissioni di controllo per combattere
infiltrazioni di Illuminismo). Ci fu allora questo tentativo di aprirsi alle scienze con un fine (neppure
recondito) apologetico (c'è da notare che nel 1825, in occasione del Giubileo, lo stesso Leone XII fece
togliere dall'Indice alcune opere di Galileo che erano restate in quel luogo infame per ben 187 anni).
Questo compito fu affidato, come no?, ai gesuiti, con il fine di raccordare di nuovo la fede con la
scienza che discendeva dalla visione positivista. La Chiesa coglieva così la grande opportunità che il
Positivismo le offriva: superare il materialismo illuminista per tentare di far penetrare la teologia
cattolica nel pensiero della società industriale che stava esplodendo con grande fiducia nelle scienze
positive (e si tenga ben presente questo quando si agita il positivismo come papà dello scientismo, chi
dice questo non conosce neppure la storia della Chiesa. Chi fa scienza sa invece che il Positivismo è
proprio la metafisica della scienza ed in questo ben si accorda con la religione). Come ci racconta
(1886) l'abate Stoppani, la Chiesa voleva combattere scienza con scienza e per farlo occorreva
impadronirsi delle conoscenze scientifiche del tempo per usarle in modo spregiudicato contro le
conseguenze filosofiche di tale scienza giudicate (ancora!) empie.
Nel 1816 il cardinale Consalvi affidava all'abate Scarpellini la cattedra di "fisica sacra" al fine di
rimettere a posto le conoscenze "segnatamente nel tempo presente, in cui si abbusa dei progressi delle
scienze naturali, o delle nuove cognizioni, per introdurre degli errori a danno della religione cattolica".
C'è dietro la paura della Rivoluzione francese e l'esempio negativo dell'Encyclopédie che aveva
permesso la diffusione di un sapere scientifico di massa, diffusione con la quale si poteva trasmettere
l'idea di progresso sociale, culturale e politico aborrito dalla Chiesa.
Nel 1837, il matematico S. Proja, nel "Giornale accademico di scienze, lettere ed arti" (nº 74, pagg. 106110), così descrive la cattedra di Fisica sacra di Scarpellini alla Sapienza di Roma:
"In un ramo della pubblica istruzione, che ha per oggetto l'applicazione delle scienze
naturali alla considerazione di Dio, non può immaginarsi sistema né più ordinato né più
sublime di quello, che la stessa divina sapienza ne tratteggiò laonde con saggio divisamento
dal primo libro della Genesi desunse la nostra cattedra l'ordine e la distribuzione delle
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materie, nonché l'appellazione di FISICA MOSAICA, FISICA SACRA, COSMOLOGIA
TEOLOGICA. Pertanto in sei grandi trattati se ne divise l'ampio argomento, essendoché in
sei giorni divise Mosè l'opera divina della creazione, ed a ciascun trattato serve di tema ciò
che creò Iddio nella corrispondente giornata. Quindi è che il I si occupa della creazione del
mondo, o piuttosto della creazione delle sostanze elementari; il II del firmamento, o sia
dell'aria, e della divisione delle acque sopra la Terra divisa in continenti e mari; il III della
produzione dei vegetabili; il IV dei corpi celesti, e de' loro uffici; il V della produzione dei
pesci e dei volatili; il VI finalmente della produzione degli altri animali e della formazione
dell'uomo ... Sebbene il genere di istruzione che questa facoltà si propone richieggia che
sian cognite agli uditori le generali teorie delle scienze, nondimeno basando sopra di questo
il più bello e il più sublime dell'applicazione, che dee farsene con bene intesa maestria vi si
sviluppano a minuto, e persino con apposite dimostrazioni sperimentali, le principali non
meno che le più recenti dottrine della fisico-chimica, dell'ottica, della geologia,
dell'astronomia, della storia naturale. Né questo è già un uscire di via, come talvolta la
maledicenza andò divulgando e cornando per diminuire alla nostra cattedra il credito a cui
in breve pervenne; ... Sapea bene egli quel supremo padre e pastore della cattolica Chiesa
che d'ordinario gli allievi delle scuole ove colali scienze si apparano, sono sapienti del
secolo, e giganti che assalir vorrebbono il Ciclo; per cui con assai provvido consiglio
dispose che i giovani ecclesiastici dalla nuova cattedra le apparassero, e così eglino pure
sapienti addivenissero, ma di quella sapienza che da Dio scaturendo a Dio conduce"(72).
La cattedra di Scarpellini durò fino al 1840, ma il suo spirito restò. Esso andava sotto il nome di
"concordismo", il mettere sempre d'accordo Bibbia con fatti scientifici. Osserva Redondi che:
Dall'ordinamento della materia d'insegnamento che abbiamo prima citato risulta chiaro che
le difficoltà di questo reciproco adattamento erano notevolissime. Per esempio, gli esegeti
scientifici cattolici e protestanti facevano ricorso alla cosmologia di Laplace e all'ipotesi
della nebulosa originaria per spiegare la creazione della luce prima degli astri. La creazione
del sole e della luna dopo quella delle piante veniva fatta corrispondere al dissolversi, con le
precipitazioni, di densi strati di vapore. Ma è anche evidente che questo sforzo esegetico per
adattare il testo biblico alle nuove ipotesi scientifiche e viceversa si rivelò ben presto, agli
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occhi della stessa cultura cattolica, un progetto illusorio e controproducente. Gli entusiasmi
e anche i successi iniziali di questa apologetica in chiave scientifica si infransero
irrimediabilmente, alla metà del secolo, di fronte al darwinismo e alla sua inconciliabilità
con la rivelazione.
E così le scienze restavano in grandissima parte insegnate in modo aristotelico, con inutili e superficiali
classificazioni. Anche quei pochi scienziati (astronomi gesuiti) che tentarono ricerche (Secchi,
Pianciani, De Vecchi) dovettero abbandonare Roma nel 1848, a seguito dell'allontanamento della
Compagnia di Gesù, per recarsi in Inghilterra e poi negli Stati Uniti. Allo stesso modo l'altro scienziato
in tonaca, Schiapparelli, non ebbe vita facile. Vi fu un barlume di libertà è laicità proprio l'anno dopo la
cacciata dei gesuiti: la Repubblica Romana che cito solo perché fu l'occasione per conoscere documenti
vaticani sui processi di vari eretici o comunque condannati dall'Inquisizione tra cui Giordano Bruno e
Galileo. In particolare l'aver avuto accesso ai documenti del Processo a Galileo da parte di Silvestro
Gherardi (che scoprì i documenti che convinsero gli studiosi - Gherardi, Wohlwill, Cantor, Scartazzini,
Banfi, De Santillana - che il Precetto del 1616 era un falso) fece si che il Vaticano si decidesse a
pubblicarli nel 1868 (in realtà non sappiamo e non sapremo mai quanti di questi documenti continuano a
giacere negli Archivi. Ogni tanto, a propri fini, ne viene fatto filtrare qualcuno).
E poco prima che i bersaglieri entrassero in Roma, anche il darwinismo veniva a dare altri colpi al
concordismo.
Segue ...
NOTE
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(57) Stillman Drake - Galileo's 'Dialogue': Al discreto lettore - Scientia, 117, V/VIII, 1982, pagg. 241-274.
(58) La teoria delle maree di Newton, in parte anticipata da Kepler, congetturava delle convessità dell'acqua
create principalmente dall'attrazione lunare. Di fatto tali convessità sono minori di quanto Newton calcolò;
infatti sono cosi piccole che non se ne tiene conto come convessità vere e proprie nella moderna teoria delle
maree. A partire dai tempi di Laplace, le teorie delle maree si sono sviluppate dalla considerazione dei flussi, e
non delle convessità dell'acqua nei grandi mari. In un modo sicuramente curioso, questo fu anticipato da Galileo;
il quale comunque si servì solamente di ragionamenti cinematici e non dinamici per spiegare le continue
perturbazioni nei grandi mari.
(59) Solo le prime attendibili misure di parallasse stellare, eseguite da Bessel e Struve (1838) mostrarono
inconfutabilmente quanto richiesto dagli scrittori ai quali si riferisce Stillman Drake. Mentre per mostrare la
rotazione della Terra su se stessa occorrerà attendere l'esperienza di Foucault (il pendolo) del 1851.
(60) La commissione di teologi riunita da Urbano VIII per esaminare le accuse contro il Dialogo non vi trovò
alcunché che non potesse se necessario essere facilmente corretto.
Io credo che gli scrittori moderni, che attribuiscono a Galileo la credenza che tale dimostrazione esista nel
Dialogo, confondono la sua scienza con il precedente ideale filosofico delle dimostrazioni incontrovertibili. Galileo
si contentava della schiacciante superiorità dell'evidenza, e dubitava che fosse possibile di più, al di fuori del
regno della pura aritmetica e della pura geometria; cfr. E.N. Vol. 7, pag. 129 (riga 1); 127 (righe 1-3); Vol. 18,
pagg. 314-316. Nell'ultimo brano indicato, Galileo mise in evidenza le inevitabili limitazioni imposte dagli
strumenti di misura a disposizione, per quanto non se ne tenga conto nelle dimostrazioni matematiche pure.
(61) Non fu colpa di Galileo se, una volta esibiti tutti gli argomenti a favore e contro ciascuno dei due sistemi, la
maggiore evidenza era a favore del copernicanesimo. Parlare del Dialogo come se il suo autore avesse soppresso
qualche parte della tesi a favore di Aristotele e di Tolomeo, sebbene qualche volta attualmente venga fatto, non fu
fatto a suo tempo da parte degli autori dei libri scritti contro il Dialogo, i quali sarebbero stati certamente pronti
a scoprire una simile scorrettezza.
(62) È solo per questa ragione, io credo, che Cosimo II dei Medici permise a Galileo di andare a Roma alla fine
del 1615 contro il parere del suo moderato ambasciatore romano. Cosimo non era sicuramente un partigiano del
copernicanesimo, ma era un cattolico devoto e un patriota italiano, ed egli confidava che Galileo si comportasse
come tale, mentre era alloggiato presso l'ambasciata toscana a Roma — e non come un fanatico fedele a tutti i
costi alla causa copernicana.
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(63) E.N. Vol. 19, pag. 327.
(64) Gli impedimenti erano legati alla peste a causa della quale sarebbe stato anche necessario affumicare ogni
pagina del libro prima di entrare in città.
(65) Sembra che questo modo di procedere, quando conviene, è in uso nella Chiesa. Nel 1983 uscì un inutile libro
su Galileo (lo scriveva, come no!, un sociologo) di Pietro Redondi: Galileo eretico, Einaudi (alle tesi di questo libro
vi fu l'adesione entusiasta di Paolo Mieli - L'Espresso, 2 ottobre 1983 - e di Cesare Marchi - il Giornale 19 ottobre
1983 -). Il libro è costruito sopra due documenti fatti filtrare dagli Archivi Vaticani (rigorosamente chiusi ad ogni
studioso del mondo). In essi si adombra il fatto che Galileo fosse condannato in quanto eretico. Naturalmente,
anche qui, i documenti in oggetto non sono firmati ... Ed il libro di cui sopra ha fatto la figura di quelle tante cose
indegne che vanno nella spazzatura della storia.
(66) Esemplare è lo sciovinista francese Koyrè, davvero insopportabile nello studiare Galileo solo per far vedere
che era un giocherellone rispetto a Cartesio. Egli sfiora il ridicolo per la sua mania di aver in Cartesio il suo
Popov. Parlando dell'inerzia il nostro ci spiega:
" In realtà fu Descartes e non Galileo che per la prima volta comprese totalmente il senso e la portata del principio
d'inerzia" ?
Qual è dunque la formulazione cartesiana del principio d'inerzia ?
Egli enuncia tre regole, delle quali la prima è:
"... se una parte della materia avrà cominciato a muoversi, continuerà sempre con ugual forza, finché le altre non la
faranno fermare o rallentare ... [e questo movimento non potrà che essere rettilineo perché] il movimento rettilineo è
il solo che sia perfettamente semplice" .
Dopo aver enunciato la seconda regola (conservazione della quantità di moto) così dice Descartes:
"... ora le due regole derivano evidentemente solo da questo: che Dio è immutabile e che, con l'agire sempre alla
stessa maniera, produce sempre lo stesso effetto. Infatti,supponendo che nell'atto stesso di crearla, Dio abbia posto in
tutta la materia in generale una certa quantità di movimenti, a meno di negare che egli agisca sempre allo stesso
modo, bisogna ammettere che ne conservi sempre la stessa quantità ".
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E ciò vuol dire che c'è l'inerzia e si conserva la quantità di moto perché Dio mai toglie ciò che ha dato ?
Ma stiamo scherzando ? Ebbene, dove sta tutta la cura, il dubbio, l'apparato sperimentale di Galileo? Queste
cose che sostiene Cartesio sono solo affidate a Dio, ma in questo modo si può dire ciò che uno vuole!
E poi, non è il mondo di Cartesio tutto pieno ed eternamente in moto, con una struttura a vortici, di modo
che quest'ultimo è l'unico moto indefinitamente possibile? Ed allora, di nuovo, il principio d'inerzia di Descartes
non è una mera enunciazione geometrica che nulla ha a che vedere con la struttura dello spazio fisico che lo
stesso Descartes ipotizza?
Ma Koyré dice ancora varie cose. Dopo aver sostenuto che per la corretta formulazione del principio
d'inerzia
"sarebbe stato necessario che [Galileo], cessando di essere archimedeo, fosse divenuto cartesiano"
egli continua:
"... l'impossibilità, per Galileo, di formulare il principio d'inerzia si spiega, da una parte, con il suo rifiuto ... di
ammettere francamente l'infinità dello spazio ; e, d'altra parte, si spiega con la sua incapacità di concepire il corpo
fisico (o il corpo della fisica) come privo del carattere costitutivo della gravità."
ed aggiunge:
"Perché Galileo si rifiuta di ammettere l'infinità dello spazio ?... Forse - ma non è che un'ipotesi - Galileo fu
spaventato dall'esempio di Bruno. Vogliamo dire: dalle conseguenze a cui la dottrina dell'infinità aveva condotto il
filosofo di Nola ».
La domanda più semplice che può venire in mente è: perché Galileo doveva ammettere l'infinità dello
spazio ? Ed a questa domanda si può aggiungere l'altra: perché lo spazio infinito doveva essere lo spazio euclideo,
omogeneo ed isotropo ?
Ma poi il riferimento a Bruno è quantomeno inopportuno (almeno nell'economia delle tesi dello stesso
Koyré) se non altro perché il Descartes di Koyré, venuto a conoscenza della condanna di Galileo, si rifiutò di
pubblicare quanto aveva scritto (mentre Galileo, pur trovandosi già in domicilio coatto e pur così vicino a Roma,
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continua con i "Discorsi", la più copernicana delle sue opere). E Koyré ci parla di Bruno ? Con lo sciovinismo
non si fa storia e tanto meno storia della scienza.
(67) E.N. Vol. 6, pag. 259.
(68) E.N. Vol. 3, pagg. 60-61 (traduzione di www.liberliber.it/ )
(69) Sulle posizioni di Duhem ho riportato quanto scritto in http://www.pbmstoria.it/dizionari/storiografia/
lemmi/167.htm.
(69 bis) Nel mio libro Relatività da Aristotele a Newton (A.I.F. Roma, 1980) ho dedicato ampio spazio alla "fisica"
sviluppata nel XIII secolo dalle scuole francesi ed inglesi. Chi è interessato può trovare qui buona parte delle
cose che ho scritto a suo tempo. E' utile riportare anche le opinioni di uno storico e filosofo eccellente come
Eugenio Garin (Scienza e vita civile nel Rinascimento, Laterza 1965) ed è utile tenere presente ciò quando parlerò
delle sciocchezze di Padre Wallace sul preteso Plagio di Galileo su gesuiti del Collegio Romano:
La filosofia, che nel Quattrocento si era rifugiata fra politici e moralisti, chiede asilo, ora, a fisici e
matematici, o addirittura agli « eretici », sbanditi da tutte le scuole. Con profondità Keplero, negli
scritti famosi sul Sidereus Nuncius, riporta Galileo, non ai professori delle Università, ma a Cusano,
a Copernico, a Bruno, oltre che agli antichi greci. Se legami si debbono cercare, è nella direzione di
una filosofia non scolastica che conviene muoversi: la filosofia della natura di Telesio, o di
Campanella, l'inquieta curiosità di Cardano e di Della Porta. In realtà i nomi che conviene fare a
proposito di Galileo non sono molti, e tutti sono chiaramente indicati da lui: tra gli antichi, il suo
vero maestro, il divino Archimede; tra i moderni, il « maestro nostro comune » Copernico.
Interlocutori nel suo gran dialogo, Keplero come Mersenne; nello sfondo, Gilbert e Gassendi,
Descartes e Hobbes. Suo avversario, non Tolomeo, ma il peripatetismo come mescolanza di fisica e
teologia, dalla tradizione intrecciato ormai alla dottrina cristiana. E proprio qui si deve affrontare il
problema della rivoluzione galileiana, di cosa essa fu veramente nella storia del pensiero: qui
conviene dire delle vie per le quali venne affermandosi. Che Galileo conoscesse bene le discussioni
dei peripatetici medievali è dimostrato dagli appunti giovanili, conservati autografi, parzialmente
pubblicati dal Favaro, e da lui riferiti con buone ragioni all'84. Meno persuasiva la dipendenza di
quegli appunti dai soli corsi del Buonamici: perché non da quelli del Borri e del Verino? Le ragioni
derivate dal confronto col De motu non convincono, e sia il Favaro sia, in tempi molto più vicini, il
Giacomelli, sembra non abbiano esaminato la cosa con attenzione. Pubblicato nel '91, il grosso infile:///D|/SITO/SCARICATO DA SITO FISICA 030309/index-1046.htm (48 of 60)27/08/2009 21.44.56
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folio del maestro pisano reca una precisa testimonianza: l'opera è nata — egli dichiara — in seguito
alle accese discussioni sul movimento che si erano avute nuper allo Studio fra scolari e maestri dei
vari corsi ". L'indicazione è parallela al ricordo di Galileo, consegnato alla lettera al Mazzoni del
'97, che rinvia alle conversazioni serene ma vivaci avute col maestro cesenate, e di cui, più che eco, è
documento preciso, purtroppo costantemente ignorato, una parte cospicua dell'opera maggiore del
Mazzoni ". D'altra parte gli Juvenilia solo per tratti sono confrontabili col libro del Buonamici, né
sembrano caratterizzati da precise corrispondenze. Comunque, lasciando impregiudicata in questa
sede la questione, resta indubitata la conoscenza, da parte di Galileo, delle discussioni fisiche dei
peripatetici sul moto dei gravi, sul moto violento e sul ciclo. È chiaro che di lì egli si mosse. Orbene,
la grande maggioranza degli storici moderni della scienza, francesi, tedeschi, inglesi e americani, e,
purtroppo, italiani, all'insegna del tema ' i precursori di Galileo ', ha ritrovato via via, a seconda
della nazionalità dello storico, nei fisici parigini, in Alberto di Sassonia e nelle discussioni da lui
influenzate, nei calculatores e nei teorici inglesi de proportionibus velocitatum in motibus, pressoché
tutti i motivi di Galileo, o almeno gli argomenti critici da lui usati. Al quale proposito converrebbe
ricordare innanzitutto l'osservazione di Comte, ripresa dal nostro Vailati, che non si critica se non
si sostituisce l'ipotesi criticata. Ora, se è innegabile che la fisica del tardo Medioevo, riprendendo
argomentazioni usate dai commentatori antichi, mise in crisi non poche parti dell'aristotelismo; se è
vero che i teorici dell'impeto, rifacendosi al Filopono, liquidarono la tesi del mezzo come causa del
moto, è pure indiscutibile che le varie posizioni via via indicate come precorritrici di Galileo, non
solo sono isolate dai loro contesti, ma mentre indicano un lavoro erosivo intorno a posizioni
particolari dell'aristotelismo, non presentano proposte efficaci né per rinnovarne il metodo
d'indagine, né per distruggerne i fondamenti, né per uscirne fuori in nuove teorie d'insieme. Sono
singoli « pezzi » critici, destinati a rimanere sterili proprio perché non vengono abbandonati né i
presupposti generali, né i procedimenti metodici. Questo è il punto da sottolineare: i meravigliosi
sforzi d'ingegno dei fisici tardomedievali restano sempre prigionieri nei quadri dell'ari-stotelismo e
nei suoi equivoci. Perfino gli studi del Benedetti, l'allievo del Tartaglia, usciti a Torino nel 1585, non
mai citati da Galileo, ma certo a lui noti, non escono — e lo notò benissimo Vailati — dalla
distruzione di singole posizioni aristoteliche, anche se, nell'allievo di Tartaglia, è rilevante l'uso di
Archimede.
...
Noti sono gli appunti galileiani dell' '84, documento prezioso di una partenza aristotelica nelle
questioni « del cielo », della « intensio et remissio formarum », delle qualità. In quegli autografi si
riflettono esposizioni scolastiche bene informate, di ambiente pisano, come attestano, per esempio,
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le citazioni dei corsi di Flaminio Nobili. Che si tratti di lezioni di Francesco Buonamici, hanno
ripetuto un po' tutti, sulle orme del Favaro. Il confronto con il monumentale De motu del maestro
pisano, edito a Firenze nel '91, svela corrispondenze d'argomento molto parziali, col libro decimo, e
discordanze notevoli nel tono, nelle citazioni, nel tipo di discorso. Mancano, negli Juvenilia di
Galileo, i duri attacchi alle tesi dei platonici circa la corruttibilità dei cicli e l'uso della matematica.
Di più: il Buonamici avverte che alla stesura del libro egli era giunto per le discussioni recenti allo
Studio pisano, di uditori suoi e di colleghi, a proposito del movimento. Siamo nel '91; del '90 sono i
più antichi scritti di Galileo sul moto, che sappiamo rispecchiare osservazioni e colloqui col
Mazzoni, e che sono fortemente critici, ormai staccati dall'atmosfera circolante nell'opera coeva del
Buonamici.
Converrà perciò tornare sugli Juvenilia fisici; converrà leggere gli appunti, autografi anch'essi, di
logica, uniti in origine agli altri, e non usati dal Favaro. Vi si affrontano questioni di rilievo, sui
princìpi e l'ordine delle scienze, quali troviamo nei massimi logici del secondo Cinquecento, per
esempio in Zabarella: questioni più importanti delle trite formule sulla « risoluzione » e la «
composizione », ormai banalizzate, e in cui il Randall ha creduto di individuare la saldatura del
metodo di Galileo col peripatetismo delle scuole. Comunque la ricomposizione di tutti gli Juvenilia
gioverà anche a formarsi un'idea compiuta delle prime esperienze culturali di Galileo, e a
rimetterne in discussione certi legami col Buonamici. Proprio quando questi da alla luce il De motu,
Galileo si avvia per una strada diversa, destinata a portarlo fuori da quell'ordine cosmico, e da
quella nozione di spazio, in cui il maestro pisano collocava con tanta fermezza i suoi corpi, gravi e
lievi per natura, e per nessun'altra ragione — osservava Galileo — se non perché dovevano pur
avere aliquem ordinem.
La distruzione di quest'ordine, l'influenza di Archimede, la negazione di corpi gravi e lievi in sé, la
trasformazione del concetto di spazio, l'inizio di quel processo che lo porterà a rifiutare un centro
del mondo, e a precisare la sua concezione della relatività — tutto questo si venne legando nella
mente di Galileo alla interpretazione ed accettazione del copernicanesimo come visione della realtà,
non come mera ipotesi matematica.
(70) Le citazioni di Feyerabend provengono da Contro il metodo - Feltrinelli, 1979. Per leggere delle stroncature
epistemologiche di Feyerabend proprio sulla questione galileiana, si veda Imre Lakatos, The Methodology of
Scientific Research Programmes - Philosophical Papers. Volume 1 - Cambridge University Press, 1978.
(70 bis) Sulla scia di Koyré, alcuni storici della scienza hanno criticato Galileo in vari modi, spesso contrastanti
tra loro. Credo sia utile vedere una rassegna di tale critiche e tentare di capire quale fondamento hanno. A tal
fine si può vedere il mio Alcuni elementi di Giudizio su Galileo.
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(71) Per le vicende della Cattedra di Fisica Sacra ho seguito Pietro Redondi, dal quale sono tratte le citazioni, in
Storia d'Italia, Annali 3, Scienza e Tecnica, pagg. 782-794.
(72) Di seguito riporto l'intero articolo di S. Proja:
Cenni intorno la cattedra di fisica sacra nell'
archiginnasio romano
(Giornale arcadico di scienze, lettere, ed arti, Volume 74, pp. 106-110, 1838)
di S. Proja
Tra le molte cattedre di scienze sacre, da cui leggono ed istruiscono nell'università romana della
sapienza valentissimi maestri in divinità, havvi quella così detta di fisica sacra fondata nel 1816 dall'
immortale pontefice Pio VII di santa memoria. Questa cattedra ha per iscopo l'applicazione delle
scienze naturali alla considerazione delle opere dell'autore supremo della natura, col doppio fine di
magnifìcare il nome di questo divino autore, e di confutare gli errori che derivarono dall'abuso
delle scienze istesse; e comechè un'altra del medesimo genere n'esistesse già da lunga pezza
nell'università di Cambridge fondata dal celebre Boylc, pure per assai titoli ne va superiore quella,
di che parliamo.
In un ramo di pubblica istruzione, che ha per oggetto l'applicazione delle scienze naturali alla considerazione di
Dio, non può immaginarsi sistema né più ordinato, né più sublime di quello, che la stessa divina sapienza ne
tratteggiò; laonde con saggio divisamento dal primo libro del Genesi desunse la nostra cattedra l'ordine e la
distribuzione delle materie, nonché l'appellazione di fìsica mosaica, fìsica sacra, cosmogonia teologica. Pertanto in
sei grandi trattati se ne divide l'ampio argomento, essendochè in sci giorni divise Mosè l'opera divina della
creazione, ed a ciascun trattato serve di tema ciò che creò Iddio nella corrispondente giornata. Quindi è che si
occupa il I della creazione del mondo, o piuttosto della creazione delle sostanze elementari; il II del firmamento, o
sia dell' aria, e della divisione delle acque; il III della distribuzione delle acque sopra la terra divisa in continenti
e mari, e della produzione de'vegetabili; il IV dei corpi celesti, de'loro movimenti, e de'loro uffici; il V della
produzione de'pesci e dei volatili , il VI finalmente della produzione degli altri animali, e della formazione
dell'uomo. Non è mia intenzione di dare in questo articolo un ragionato estratto dell'intero corso delle lezioni che
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da questa cattedra si dettano: e perciò non entro ne' particolari di ciascun trattato, né seguo via via per serie
ordinata i punti, o sia le contemplazioni, in cui è suddiviso ciascuno. Dirò solo, che sebbene il genere d'istruzione
che questa facoltà si propone riechiegga che siano cognite agli uditori le generali teorie delle scienze, nondimeno
basando sopra di queste il più bello ed il più sublime dell'applicazione, che dee farsene, con bene intesa maestria
vi si sviluppano a minuto, e perfino con apposite dimostrazioni sperimentali, le principali non meno che le più
recenti dottrine della fisico-chimica, dell'ottica, della geologia, dell' astronomia, della storia naturale. Né questo è
già un uscire di via, come talvolta la maldicenza andò divulgando e cornando per diminuire alla nostra cattedra il
credito, a cui in breve pervenne: chè anzi è un corrispondere appuntino alle lodevoli vedute del sapientissimo
pontefice che la istituì. Sapea ben egli quel supremo padre e pastore della cattolica chiesa, che d'ordinario gli
allievi delle scuole, ove cotali scienze si apparano, sono sapienti del secolo, e giganti che assalir vorrebbono il
ciclo; per cui con assai provvido consiglio dispose che i giovani ecclesiastici dalla nuova cattedra le apparassero, e
così eglino pure sapienti addivenissero, ma di quella sapienza, che da Dio scaturendo, a Dio riconduce.
Quello però che forma il carattere distintivo di questa scuola, e la rende non men delle altre commendevolissima,
è la direzione ch'ella dà a cosiffatte scienze, in genere alle filosofiche. E primieramente siccome a'dì nostri ogni
scienza, per servirmi della frase dell'illustre Wiseman (conferenza I), è stata individualmente messa a sacco, e non
traggonsi più dal fondo di tenebrosa metafisica inviluppata da oscuro gorgo scolastico errori e sofismi che
degradano la ragione, ma da' progressi delle utili scienze la depravazione e l'ignoranza si sforzano di derivarli:
così è che adattando l'istruzione a'tempi, le vie insegna ed i sicuri modi, onde colle scienze stesse combatterli e
vincerli; talchè confuso ne resti e l'empio che delle scienze si abusa, e l'ignorante che le scienze teme e calunnia.
Di poi lasciando al nudo spositore, che s'impingua in volumi, le vane e lunghe discussioni sopra il sacro testo
scelto per guida, prende ad interpretarne in modi quanto veri, altrettanto ingegnosi i più difficili luoghi, a
spiegarne nel senso il più acconcio, ed insieme il più letterale i passi più oscuri, a far conoscere a via di fatti, come
non fu e non sarà mai possibile di coglierlo in fallo, od in opposizione colla scienza, sì che faccia d'uopo
all'incredulo confessare essere un solo l'autore della natura e quel della grazia, che pria in patribus etprophetis,
novissime vero locutus est nobis in filio ( Hebr. c. 1 ). In fine non contenta di aver formata la mente, rivolgesi al
coro: e giovandosi sempre de'lumi e de'progressi delle scienze, si ferma tratto tratto sulla considerazione delle
maraviglie delle cose create, onde alla reazione di tante idee si sublimi l'ingegno, si eletrizzi la fantasia, e vivo sì
desti il sentimento. La divota sagacità dell'ascetico saprà additarti nella sensitiva, che fugge la mano che se le
appressa, nel polipo che si moltiplica, nell'insetto che si trasmuta, svariati e nuovi motivi per sollevar tua mente
al creatore. Ma questo è ben altro che ricevere, come dalla nostra cattedra si ricevono, impressioni di un genere
affatto straordinario e trascendente, di cui solo è capace colui che dopo avere assottigliato lo intelletto ne'veri
delle matematiche, in quelli delle scienze naturali ha nudrito lo spirito.
Per la qual cosa si rende manifesto come questo ramo di pubblica istruzione riuscir debba utilissimo ad ogni ceto
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di colte persone, e precipuamente a coloro, le cui labbra custodiscono la scienza, e che maestri esser denno in
Israello. Che però si debbe assai buon grado al pontefice massimo, che lo istituì; a quel suo zelantissimo ministro
Ercole cardinal Consalvi, che lo promosse; all'attuale professore sig. cavaliere D. Feliciano Scarpellini, che ne
concepì il vasto e ben ordinato disegno, e lo eseguì ne'preziosi suoi scritti. Facciamo voti che, per la generosità di
qualche illustre mecenate della religione e delle scienze, questi scritti, in cui la filosofia e la natura parlano di Dio
alla mente, al core, ed agli occhi, moltiplichino l'immagine loro ne'torchi, ed ottengano in Roma la pubblicità
delle stampe, come gia non ha guari per la generosa testamentaria disposizione del conte di Bridgewater, l'hanno
ottenuta in Inghilterra opere consimili, che la fama oscureranno di quelle dei Boyle, dei Paley, dei Derham, dei
Sturm, dei Niewcntitt, dei Schevchezer.
S. Proja
BIBLIOGRAFIA
(l'unico ordine è relativo all'ordine con il quale ho consultato le varie opere)
Una avvertenza è necessaria: è impossibile riportare tutto ciò che su Galileo è stato pubblicato. Riporterò solo alcuni
testi, quelli da me consultati per questo lavoro tra i quali alcuni che vale la pena leggere.
Innanzitutto Galileo va letto nelle sue opere che sono fruibili da ogni persona che sia semplicemente curiosa
ed interessata. Le cose da sapere prima sono in gran parte riportate dai "Frammenti di storia ....". Non vi è
matematica da conoscere preliminarmente. Vi sono varie edizioni di opere originali di Galileo e tutte vanno bene.
Personalmente consiglio i 20 volumi dell'Edizione Nazionale che riportano tutto ciò che Galileo ha fatto in ordine
cronologico, includendo una mole impressionante di lettere. Questa Edizione Nazionale nasceva tra il 1890 ed il
1909. Io ho una delle varie ristampe, quella del 1968 fatta fa G. Barbera. Una tale edizione cartacea è oggi
introvabile ma gli interessati la troveranno pubblicata per intero nel sito.
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