LA TEORIA ECONOMICA PRIMA DI KEYNES:
LO SCHEMA NEOCLASSICO
Come abbiamo osservato in precedenza, la macroeconomia (e
conseguentemente la politica macroeconomica) moderna nasce con J. M. Keynes,
come premessa teorica volta ad individuare le cause della Grande Depressione
degli anni ’30 e a suggerire misure finalizzate al superamento della situazione. La
Teoria Generale costituisce una reazione al modo di analizzare il funzionamento
del mercato del lavoro, e del sistema economico più in generale, proposto dalla
teoria economica allora dominante, costituita dalla teoria neoclassica. Per
comprendere meglio la natura e la portata della critica keynesiana, conviene
allora esaminare prioritariamente le principali caratteristiche dell’ortodossia
precedente. Al riguardo, il funzionamento del mercato del lavoro può essere
esaminato da due punti di vista, riguardanti rispettivamente l’equilibrio di lungo
periodo e le fluttuazioni di breve attorno a tale equilibrio. A tali questioni
volgiamo dunque la nostra attenzione.
1) LA TEORIA DELL’OCCUPAZIONE
Secondo la teoria neoclassica il mercato del lavoro funziona in condizioni di
concorrenza perfetta. La domanda di lavoro, decrescente, corrisponde alla
Produttività Marginale del Lavoro, mentre l’offerta di lavoro, crescente,
corrisponde alla Disutilità Marginale del Lavoro. Si ha equilibrio sul mercato
quando le due curve si intersecano; in tale punto, quando domanda e offerta di
lavoro sono uguali, non c’è disoccupazione involontaria, ma solo frizionale, dovuta
ai vari tipi di imperfezioni presenti sul mercato (informazione incompleta,
mismatch tra qualifiche domandate e offerte, scarsa mobilità territoriale,
attività di ricerca di migliori condizioni o retribuzioni). In condizioni di
concorrenza perfetta i salari sono ipotizzati perfettamente flessibili; ciò
consente al sistema di raggiungere sempre automaticamente la posizione di
equilibrio (si veda la figura 1). Se ad esempio, per ipotesi, il salario di partenza
fosse più alto di quello di equilibrio, vi sarebbe un eccesso di offerta di lavoro,
cioè disoccupazione involontaria. La concorrenza tra i lavoratori disoccupati per
occupare i pochi posti di lavoro disponibili, tuttavia, farebbe scendere il salario,
consentendo così al sistema di ritornare al punto di equilibrio.
Nell’equilibrio, come si è detto, la disoccupazione esistente è di tipo o
volontario (la parte della curva di offerta al di sopra del punto E) o frizionale: nel
grafico questo tipo di disoccupazione è data dalla differenza tra la retta L, che
rappresenta la forza di lavoro potenziale, e la curva di offerta effettiva S, che
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rappresenta il numero di persone effettivamente disposte ad occuparsi al salario
reale indicato sull’asse delle ordinate. A salari bassi esisterà però un elevato
numero di persone che ritengono la retribuzione offerta troppo ridotta per
occuparsi, e che quindi svolgeranno attività di ricerca di occasioni migliori. Mano
a mano che il salario offerto sale, però, il numero dei disoccupati frizionali si
riduce, perché. In equilibrio il numero di disoccupati frizionali sarà L-N* (ed il
conseguente rapporto (L-N*)/L rcostituirà il cosiddetto “tasso naturale di
disoccupazione”).
Fig. 1. Il mercato del lavoro in concorrenza perfetta
Rispetto alla situazione di funzionamento normale del mercato del lavoro,
sopra descritta, nella quale non c’è mai disoccupazione involontaria, esiste
tuttavia la possibilità di malfunzionamento del mercato, dovuto alle seguenti
cause:
a) PRESENZA DI SINDACATI
Sul mercato del lavoro l’esistenza di sindacati può comportare che il salario
monetario non possieda quella flessibilità che consente alla libera concorrenza di
raggiungere sempre la posizione di equilibrio. In effetti, se il salario monetario è
elevato, e rigido verso il basso, il processo di aggiustamento spontaneo del
mercato non può funzionare. Nel grafico 1, il livello di equilibrio del salario è pari
a (W/P)*; se tuttavia le organizzazioni sindacali contrattano un W/P più elevato
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rispetto a tale livello, si genera una disoccupazione involontaria pari ad AB. Se il
salario rimane immutato, la disoccupazione involontaria persiste nel tempo.
b) ESISTENZA DI RETRIBUZIONI MINIME LEGALI TROPPO ELEVATE
Alla stessa conclusione si arriverebbe in presenza di disposizioni legali che
impongono alle imprese il pagamento di un minimo salariale troppo elevato
rispetto alla produttività dei lavoratori. Ciò è tanto più probabile quanto la
manodopera protetta dalle disposizioni legali è poco qualificata o non ha ancora
sufficiente esperienza e formazione (come nel caso del lavoro giovanile). Una
situazione analoga si verifica se si impone lo stesso livello di retribuzioni in
un’area geografica dove la produttività è differente per zone territoriali. In
tutti i casi il risultato è analogo a quello esaminato nel caso a) precedente: un
livello dei salari troppo elevato e rigido genera disoccupazione involontaria.
c) ESISTENZA DI RIGIDITÀ O COSTI ADDIZIONALI PER LE IMPRESE DI
VARIO TIPO
Sul mercato del lavoro possono poi esistere situazioni legali o di fatto che
comportano per le imprese rigidità di vario tipo nell’utilizzo della mano d’opera
(vincoli sulle assunzioni ed i licenziamenti, limiti ai tempi e all’intensità nell’uso di
lavoro) o costi aggiuntivi per l’assunzione della manodopera (costi di formazione,
oneri sociali, tassazione). In tutti questi casi, rispetto all’equilibrio di
concorrenza perfetta, i maggiori costi sostenuti dalle imprese implicano di fatto
una riduzione della domanda di lavoro, per cui la disoccupazione di equilibrio
aumenta.
d) ESISTENZA DI UN SISTEMA DI WELFARE A TUTELA DEI DISOCCUPATI
Un sistema di Welfare generoso riduce il costo opportunità della
disoccupazione e l’offerta di lavoro effettiva; aumenterà di conseguenza il
numerosi persone che svolgono attività di ricerca, con un conseguente incremento
della disoccupazione frizionale (nel grafico 1, la curva di offerta effettiva di
lavoro S si sposta verso l’alto a sinistra). Lo stesso risultato viene peraltro
prodotto, a parità di sistema di welfare, dall’esistenza di istituzioni (come le
famiglie) che forniscono un supporto di reddito ai disoccupati in cerca di migliori
occasioni di lavoro: anche in tal caso la S si sposta a sinistra e la disoccupazione
di equilibrio aumento.
In definitiva, nell’ottica neoclassica, in presenza di una perfetta
flessibilità di prezzi e salari, la disoccupazione può essere solo volontaria o
frizionale. Quest’ultima può essere ridotta soltanto con riforme strutturali che
eliminino le rigidità o le imperfezioni esistenti sul mercato del lavoro. L’unica
causa di una disoccupazione involontaria di lungo periodo risiede in un salario
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monetario troppo elevato e rigido. Se si elimina tale rigidità, il mercato del lavoro
non potrà che funzionare in maniera adeguata.
2) LE FLUTTUAZIONI CICLICHE
Come abbiamo appena visto, secondo la teoria neoclassica, il sistema di
libero mercato normalmente si trova in condizioni di pieno impiego (o di
equivalente tasso di disoccupazione naturale, in cui esiste solo disoccupazione
frizionale). Per fare funzionare bene tale mercato lo Stato deve solo garantire
l’operare della libera concorrenza, mentre ogni altro tipo di intervento (ad
eccezione delle riforme strutturali) è inutile.
L’equilibrio sopra descritto si verifica tuttavia in una prospettiva di mediolungo periodo. Nel breve periodo, infatti, si possono verificare fluttuazioni
cicliche intorno al livello naturale dell’occupazione e del reddito. L’origine di tali
fluttuazioni può essere ricondotta a due tipologie essenziali:
a) fluttuazioni originate da cause monetarie;
b) fluttuazioni originate da cause reali.
a) LE FLUTTUAZIONI DI ORIGINE MONETARIA
Si consideri per ipotesi l’esistenza di un sistema di puro credito in cui le
banche possono stampare liberamente carta moneta a loro discrezione. In tale
situazione, se le banche vogliono espandere i loro prestiti, possono farlo
riducendo il tasso di interesse praticato alla clientela. In un sistema in cui esiste
una Banca Centrale, invece, fluttuazioni monetarie possono essere generate da
una eccessiva emissione di moneta da parte della Banca Centrale stessa, la quale
provoca una caduta del tasso di interesse di mercato al di sotto di quello di
equilibrio (o naturale), un aumento degli investimenti, dei consumi (e quindi della
AD), con inevitabili effetti inflazionistici, dato che il sistema si trova già
normalmente in una situazione di pieno impiego. Si veda al riguardo la fig. 2 per
una descrizione grafica degli eventi che stiamo esaminando. Se i scende sotto a
i*, gli investimenti aumentano e il risparmio si riduce, ovvero il consumo aumenta.
L’eccesso di domanda fa aumentare i prezzi, generando così un processo
inflazionistico. Nel corso dei cicli, peraltro, alle variazioni della domanda
generate da i<i*, si aggiunge l’effetto degli speculatori e dei mercanti: costoro,
vedendo salire i prezzi ed avendo aspettative estrapolative, comprano a prezzi
correnti sperando di rivendere a prezzi più elevati. In tal modo, l’eccesso di
domanda si amplifica e il processo inflazionistico è più intenso.
Nel corso di un ciclo, si generano tuttavia anche effetti sul reddito, oltre
che sui prezzi, fondamentalmente a causa della diversa velocità di aggiustamento
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di prezzi e salari: in particolare è lecito supporre che i salari monetari si muovano
più lentamente rispetto ai prezzi. Se i lavoratori soffrono di illusione monetaria,
vedendo aumentare i salari, e sottostimando l’aumento dei prezzi (come mostrato
più tardi da Friedman), crederanno di ottenere retribuzioni reali più elevate e
lavoreranno di più: in tal modo l’occupazione aumenta e con essa il reddito.
Il processo inflazionistico sopra descritto continua (da cui il termine
wickselliano di processo cumulativo) finché il tasso di interesse monetario rimane
inferiore al tasso di interesse di equilibrio (o naturale). In un sistema di puro
credito ciò può accadere sino all’infinito, dato che le banche non hanno vincoli
sulla quantità di credito che possono creare. In un sistema in cui esiste un
obbligo di riserva sui depositi delle banche presso la Banca Centrale, ciò però non
può accadere: mano a mano che i prezzi aumentano, cresce pure la domanda di
prestiti alle banche, le quali però non possono soddisfarla integralmente, perché
le riserve sono limitate. Le banche, quindi, di fronte ad un aumento della domanda
di prestiti, alzeranno gradualmente il tasso di interesse monetario, riportandolo
infine in linea con quello naturale. A tal punto il processo cumulativo ha termine, e
con esso il ciclo espansivo.
Fig. 2. Il mercato del capitale o dei fondi prestabili
i
È interessante osservare, tra l’altro, che nei cicli, oltre a variazioni del
livello della produzione, si generano altresì cambiamenti nella composizione della
produzione stessa, a favore dei beni di investimento. Ciò accade perché
l’elasticità della domanda di investimento è normalmente maggiore di quella
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dell’offerta di risparmio, come si può notare ancora dalla figura 2. Quando un
processo cumulativo quale quello descritto in precedenza ha termine, il sistema
finisce con il trovarsi allora con uno stock di K maggiore rispetto al livello
desiderato; ciò può provocare una fase di disinvestimento successiva, e quindi
un’inversione ciclica spontanea successiva (in effetti tale argomentazione è alla
base della teoria dei cicli proposta dalla scuola austriaca).
b) LE FLUTTUAZIONI DI ORIGINE REALE
Le cause monetarie delle fluttuazioni cicliche, analizzate in precedenza,
presuppongono che all’inizio del processo il tasso di interesse monetario si riduca
al di sotto del livello naturale. Nel corso del ciclo, quindi, tasso di interesse (i) e
prezzi (P) si muovono in direzioni opposte. Nella realtà concreta si osserva invece
che l’aumento dei prezzi sperimentato nei boom si accompagna ad un incremento
nel tasso di interesse, piuttosto che ad una sua riduzione (un fenomeno noto nella
letteratura come paradosso di Gibson, anche se si dovrebbe più propriamente
denominare paradosso di Wicksell, visto che è stato l’economista svedese ad
esaminarne per primo evidenza e spiegazione). Inoltre la stessa genesi
monetaria dei cicli non ha spiegazione logica in un’economia non di puro credito: in
effetti non si vede per quale ragione o finalità la Banca Centrale dovrebbe
inizialmente ridurre i. A tali insufficienze della spiegazione monetaria delle
fluttuazioni economiche cerca di ovviare la teoria dei cicli reali, per la quale la
vera causa delle fluttuazioni sperimentate è riconducibile a mutamenti nella
profittabilità degli investimenti, generati da un progresso tecnologico che non
procede in maniera uniforme nel tempo. Si supponga al riguardo che, come nella
figura 3, la domanda di investimenti I si sposti a destra in seguito ad una
improvvisa ondata di innovazioni tecnologiche (in realtà ad una accelerazione del
ritmo del progresso tecnico). Come si può osservare, in conseguenza di ciò il
tasso di interesse di equilibrio sale, al nuovo livello i**. In tale situazione le
banche, le quali non svolgono attività produttiva, ma solo di finanziamento delle
imprese, non sono in grado di percepire direttamente l’innalzamento del tasso di
interesse naturale, cosicché continuano ad offrire credito al precedente i*<i**,
causando un eccesso di domanda di fondi (pari ad EA). In conseguenza di tale
eccesso di domanda di fondi e di domanda aggregata i prezzi salgono. Come in
precedenza, il processo cumulativo continua sino a che il tasso di interesse
praticato dalle banche non si adegua al nuovo livello di equilibrio, il che prima o
poi accade, in presenza di un obbligo di riserva delle banche. Nel corso del ciclo,
peraltro, prezzi e tassi di interesse salgono insieme, cosicché il paradosso di
Gibson- Wicksell risulta facilmente spiegato.
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Fig. 3. Le fluttuazioni cicliche di origine reale
E’
E
A
L’atteggiamento dei neoclassici di fronte alle fluttuazioni cicliche risulta di
assoluta neutralità. In effetti i cicli sono visti come parte dell’ordine naturale
delle cose, per cui l’inevitabile fase recessiva è vista come cura degli eccessi
speculativi della fase espansiva e come premessa per una successiva ripresa
dell’economia su basi più solide. Lo Stato non deve quindi intervenire per cercare
di limitare le fluttuazioni cicliche; deve solamente evitare che le fluttuazioni
siano più intense di quelle dovute al funzionamento spontaneo dei meccanismi
mercato. Ciò può avvenire in particolare:
o garantendo una maggiore flessibilità di prezzi e salari;
o impedendo l’instaurazione di un sistema di puro credito con
l’attribuzione di funzioni di controllo dell’offerta di moneta alla
Banca Centrale;
o imponendo alla Banca Centrale di seguire regole predeterminate di
creazione dell’offerta di moneta;
o al più, come suggerito da Simons a Chicago, imponendo alle banche
un coefficiente di riserva dei depositi del 100%, che impedirebbe
loro di espandere il volume di credito al di là della quantità di base
monetaria creata dalla banca Centrale.
In definitiva, secondo i neoclassici, la disoccupazione non è considerata un
problema di politica economica. Nel lungo periodo il sistema si trova nella
situazione di pieno impiego o di equivalente tasso di disoccupazione naturale,
mentre nel breve periodo le inevitabili fluttuazioni cicliche possono determinare
temporanei cambiamenti nel volume di occupazione, che vengono però
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rapidamente eliminati dall’operare dei meccanismi riequilibratori spontanei del
mercato. In tale contesto la disoccupazione segnala semmai un problema di
povertà in mezzo all’abbondanza, che deve essere affrontato e risolto
approntando uno schema di sicurezza sociale, mentre non serve una politica
economica anticiclica.
In effetti proprio negli anni ’30, in cui la Grande Depressione cominciava a
manifestare i suoi effetti anche in Europa, il Ministero del Tesoro britannico, di
fronte alla richiesta, proveniente da più parti, di fare qualcosa contro la
disoccupazione dilagante, ed in particolare di aumentare la spesa pubblica per
ridurre il numero di disoccupati, faceva sapere il proprio punto di vista al
riguardo tramite un opuscolo divenuto successivamente assai famoso.
Il “punto di vista del Tesoro” esposto in maniera chiara nella figura 4, che
fa ancora una volta riferimento al mercato dei fondi prestabili. In assenza di
intervento governativo, la domanda di fondi è pari a I e l’offerta S, con un
equilibrio al tasso naturale i* nel punto E. Secondo il Teorema fondamentale della
finanza ortodossa, il bilancio dello Stato deve essere sempre in pareggio; in
effetti, come visto nell’introduzione, lo Stato deve solo attuare interventi
correttivi o redistributivi, per i quali l’ammontare delle spese deve essere
esattamente bilanciato da un equivalente ammontare di tasse. Se le fluttuazioni
economiche fanno parte dell’ordine naturale, politiche anticicliche non sono
ritenute utili o desiderabili. L’economia inoltre si trova normalmente in condizioni
di pieno impiego, per cui l’ammontare complessivo di risparmio, per ogni livello del
tasso di interesse, è dato.
Con S dato, se la spesa pubblica G aumenta, il tasso di interesse di
equilibrio inevitabilmente sale. Tale innalzamento spiazza un ammontare
equivalente di spesa privata, tanto di investimento quanto di consumo (si ricordi
che il consumo è l’alternativa al risparmio, ovvero il non risparmio). Nella figura,
in particolare, all’aumento della spesa pubblica, pari al segmento EA, corrisponde,
in seguito all’aumento del tasso di interesse, una riduzione dell’investimento pari
ad AB e una caduta dei consumi pari a EB. In ogni caso, come si può verificare dal
grafico, poiché la somma di AB e di EB è uguale a EA, per cui ΔG = lΔI+ΔCl, lo
spiazzamento è completo. Gli effetti di spiazzamento, ai danni dell’investimento o
del consumo, dipendono in maniera fondamentale dall’inclinazione della funzione
del risparmio. Come si può facilmente osservare dalla figura 4, più la S è rigida,
più lo spiazzamento avviene a sfavore dell’investimento. Ne consegue
l’affermazione dell’inutilità della spesa pubblica al fine di stimolare l’economia e
ridurre la disoccupazione nelle recessioni; poiché anzi il reddito rimane immutato,
ma il tasso di interesse sale, e la spesa privata diminuisce (in particolare gli
investimenti), tale manovra è addirittura dannosa, posto che si sostituisce una
spesa pubblica improduttiva ad una spesa privata produttiva, fonte di
accumulazione e di crescita.
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Fig. 4. Il punto di vista del Tesoro
E’
E
B
i*
A
I*=S*
Nonostante le loro certezze, e le affermazioni più dogmatiche sugli
effetti della spesa pubblica e sul ruolo passivo dello Stato nelle fluttuazioni
cicliche, di fronte all’incalzare degli eventi e all’aggravarsi delle recessioni, già
negli anni ’20, i neoclassici adottarono un atteggiamento più pragmatico. In
particolare essi iniziarono ad ammettere la possibilità di modificare la scansione
temporale di lavori pubblici già deliberati, anticipandone l’esecuzione durante le
fasi recessive, al fine di mitigarne le conseguenze. Il principio generale della
“sana finanza ortodossa”, per cui il bilancio doveva essere in pareggio, non veniva
comunque alterato, in quanto non si proponevano nuovi investimenti, ma solo una
diversa programmazione temporale dei lavori pubblici già deliberati.
Sul fronte monetario, invece, Marshall auspicava una manovra del tasso
ufficiale di sconto in funzione anticiclica, alzandolo durante i boom e riducendolo
durante le recessioni. Anche tale misura avrebbe reso possibile mitigare gli
impatti occupazionali delle fluttuazioni cicliche. In ogni caso la fiducia nella
validità della legge di Say rimaneva incrollabile.
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