Cortina 26 agosto 2008 "Flessibilità del lavoro, giovani e sviluppo economico" Mi è difficile dibattere in termini tecnici di meccanismi di liberalizzazione del mercato del lavoro con Maurizio Sacconi che di questi temi si occupa da sempre ed è un vero esperto. Voglio invece parlarvi delle mie esperienze di lavoro all'estero e raccontarvi come funziona il rapporto di lavoro in quei paesi dove la flessibilità è la regola ed è parte della vita dei lavoratori e delle imprese. Come si vive in Inghilterra o negli Stati Uniti dove chiunque può arrivare in ufficio o in fabbrica la mattina, essere convocato dal capo del personale e perdere il lavoro, senza troppe spiegazioni, in un processo certamente traumatico, ma vissuto con serenità da entrambe le parti. La flessibilità del lavoro è regola non solo in Inghilterra e negli Stati Uniti, ma in tutte le economie che sono cresciute a ritmi sostenuti negli ultimi anni, in Australia, in Canada, in Irlanda, in Brasile e naturalmente nelle nuove tigri asiatiche Cina ed India. Che un mercato del lavoro liberalizzato e quindi flessibile giochi a beneficio delle aziende è intuitivo: più facile applicare la meritocrazia, più agevole costruire un'organizzazione con le persone giuste al posto giusto, più rapida la reazione a crisi di mercato o aziendali. È anche opinione condivisa che un mercato del lavoro liberalizzato giovi all'economia del paese che lo adotta. Nei paesi nei quali le aziende possono ridurre il personale modulandolo secondo le loro esigenze, c'è più concorrenza, più crescita e, paradossalmente, più occupazione. Ed è ovvio che sia così: quando le aziende sono più competitive, crescono ed assumono senza il timore che il personale in più si tramuti in zavorra che ti tira sotto nei momenti difficili. E' solo da noi, in Italia ed in pochi altri paesi dell'Europa Continentale, che imprenditori e capi azienda passano il tempo a lambiccarsi il cervello su come "non assumere" vedendo in ogni neo assunto un'inscindibile obbligazione quarantennale. Ed è proprio così: chi entra in un'azienda, soprattutto in una grande azienda italiana, è sostanzialmente illicenziabile per qualunque motivo sia esso correlato alla sua prestazione di lavoro sia alle necessità aziendali. Il risultato di questo sistema è un basso tasso di occupazione complessiva - meno del 60% in Italia a fronte di quasi l'80% dell'Inghilterra o degli Stati Uniti. Il nostro tasso di occupazione femminile poi è un record in negativo. E i giovani? Disoccupati o precari veri sottopagati, ovvio risultato di uno sistema concepito per proteggere chi il lavoro a tempo indeterminato l'ha già. E poi, da noi, chi il lavoro lo perde fatica a trovarne un altro. Più della metà dei disoccupati italiani lo sono da più di un anno. Negli Stati Uniti, il tempo medio di disoccupazione è di appena un mese. Alla luce delle mie esperienze all’estero, sono convinto che se in Italia il mercato del lavoro venisse liberalizzato e le imprese potessero ridurre il personale utilizzando adeguati ammortizzatori sociali, si creerebbero centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro ed il nostro tasso di occupazione salirebbe rapidamente per raggiungere quello dei paesi più evoluti. Come dicevo, che un mercato del lavoro flessibile faccia bene alle aziende e all'economia lo riconoscono quasi tutti. Quello che è meno evidente è che un mercato del lavoro flessibile faccia bene anche a chi lavora. Bisogna innanzitutto chiarire che là dove il sistema consente di ridurre il personale non vuole affatto dire che le aziende licenzino a raffica. Al contrario. Un'azienda che opera in un mercato liberalizzato e quindi competitivo ha tutto l'interesse a tenersi stretti i dipendenti che ha formato, sui quali ha investito, che hanno acquisito esperienze, competenze e conoscenze all'interno ed all'esterno dell'organizzazione. Per la stragrande maggioranza dei lavoratori dei paesi che hanno liberalizzato il mercato del lavoro, la flessibilità si traduce in un rapporto lavorativo lungo, lunghissimo, spesso a vita. Nelle grandi multinazionali americane o inglesi, le icone dell'industria mondiale, come la GE, l'IBM, la Microsoft, la Shell o la Vodafone, la grande maggioranza dei lavoratori passa nella stessa azienda tutta la vita lavorativa pur potendo, teoricamente, perdere il lavoro ogni giorno. E questa stabilità del rapporto di lavoro nel mondo della flessibilità non deve sorprendere: gli unici momenti nei quali un datore di lavoro ha l'interesse a licenziare sono o quando l'azienda è in crisi o quando il lavoratore non risponde alle esigenze aziendali. Nel primo caso, lo stato di crisi, è evidente che il licenziamento è lo strumento necessario per risanare l'azienda e per difendere le opportunità di lavoro future. Nel secondo caso, quando il lavoratore non risponde alle esigenze aziendali, il tutelarlo a tutti i costi, oltre a minare la competitività dell'impresa, stravolge l'equilibrio del rapporto di lavoro. Per il lavoratore indesiderato presentarsi in ufficio o in fabbrica ogni giorno, svolgendo per lunghe ore un'attività non più apprezzata in nome della sicurezza del posto del lavoro è frustrante, poco dignitoso e può davvero rovinare la vita. Nei paesi che hanno liberalizzato il lavoro le opportunità sono molte e a portata di mano ed è per questo che, negli Stati Uniti o in Inghilterra, i disoccupati restano tali per poche settimane. Per chi lavora in un'azienda che non è obbligata a tenerlo alle sue dipendenze, la continuità del rapporto di lavoro è di per sé un apprezzamento delle sue capacità. Sarà motivato ad affrontare il lavoro ed anche i rapporti con capi e colleghi saranno vissuti con la consapevolezza di chi può avere altre opportunità. Il rapporto di lavoro in un mercato flessibile è un po' come il matrimonio in un paese che permette il divorzio: se continua, vuol dire che i coniugi sono felici o almeno non troppo infelici di stare insieme. E poi quando il "posto" non è garantito, ci si dà da fare per difenderlo. Aggiornarsi, dare prova delle proprie capacità, portare risultati diventa necessario per tutti. Ma nel mondo della flessibilità nemmeno il datore di lavoro può stare tranquillo: anche lui deve competere sul mercato per trattenere i dipendenti, soprattutto i migliori, e lo farà motivandoli a restare, pagandoli meglio, investendo nella loro formazione e assicurando loro migliori condizioni di lavoro. Questo mondo del lavoro virtuoso, fatto di lavoratori impegnati a dare il meglio di sé, liberi di scegliere tra le opportunità che si presentano loro, e di datori di lavoro impegnati a motivare e premiare i propri dipendenti nel timore di perderli sembra un sogno irrealistico ed irraggiungibile per il nostro paese. Non lo è per me che l'ho vissuto per molti anni negli Stati Uniti ed in Inghilterra, ma anche in Brasile Russia Cina ed India. In questi paesi, che rappresentano la grande maggioranza dell'economia mondiale e che sono i principali concorrenti dell'Italia, il mercato del lavoro è flessibile per tutti e non solo, come da noi, per una sfortunata popolazione di lavoratori, spesso giovani o oramai ex-giovani, davvero "precari" in un sistema superprotetto per tutti gli altri, che soffrono tutti gli svantaggi della rigidità senza trarne alcun beneficio. Un mercato del lavoro flessibile è un sistema più efficiente e più equo. Introdotto in Italia sarebbe uno strumento decisivo per il recupero della competitività delle nostre imprese e della nostra economia. Un mercato del lavoro flessibile è poi il prerequisito essenziale per la liberalizzazione del mercato dei servizi del nostro paese. Fa sorridere, soprattutto per chi ha lavorato nel mondo anglosassone, ascoltare plotoni di politici nostrani discettare di liberalizzazioni, citando le esperienze inglesi su questo terreno, senza nemmeno prendere in considerazione la liberalizzazione del mercato del lavoro. Fare tutto questo permetterebbe anche di abbandonare la cultura del "posto garantito” imperante in gran parte del nostro paese, per passare alla cultura della dignità del lavoro, della professionalità, dell’eccellenza in tutto quello che si fa. L’impegno, il merito, la ricerca dell’eccellenza sono principi che la nostra scuola deve insegnare fin dalla prima elementare. Sono convinto, ed attingo di nuovo alle mie esperienze, che se riusciremo a toglierci di dosso la cultura del “posto” sicuro, degli aumenti uguali per tutti e della tutela ad ogni costo di chi non si impegna, il nostro formidabile paese, ricco di talenti e di intelligenze come nessun altro, riprenderà a correre e a riconquistare posizioni di preminenza nell’economia globale.