Paolo Mantegazza: la “storia naturale” dell`uomo e le

Saggi
Medicina & Storia, X, 2010, 19-20, n.s., pp. 131-146
Paolo Mantegazza: la “storia naturale” dell’uomo
e le “razze” degli uomini
Giulio Barsanti
Paolo Mantegazza: the “naturale history” of man and the “races” of mankind.
Summary. Paolo Mantegazza, the first ever to teach Europe’s first course on
Anthropology, conceived of his discipline as the natural history of man. His
approach was a materialistic one, even with regard to mental phenomena, yet
it was never reductionist. In contrast with French and English researchers, he
felt that anthropology and ethnology ought always to proceed hand in hand,
and he criticized every attempt to privilege craniology in particular. As the
founder of the Museo nazionale and the Società italiana di antropologia ed
etnologia, he was among the earliest to recognize that individual variability
within any population was at least equal to, if not greater than, the differences between one population and another, and along these lines he succeeded
– thanks to an ingenious and important experiment – to undermine all the
foundations that sustained the concept of race.
Keywords. anthropology; ethnology; human races; Paolo Mantegazza
Paolo Mantegazza si laureò a Pavia, nel 1854, in medicina ma fu, oltre
che fisiologo, patologo e igienista, viaggiatore, antropologo, fotografo, etnologo, psicologo, politico, romanziere. Si è perciò ripetutamente sottolineato
il carattere “poliedrico” del suo ingegno, la natura “multiforme” del suo
approccio scientifico, l’“eclettismo” della sua ricerca e della sua produzione1; di cui lo stesso Mantegazza non solo era pienamente consapevole ma
andava orgoglioso – amando definirsi “poligamo di molte scienze”2 .
Ciò da una parte lo rese noto e stimato in una grande quantità di
ambienti (come testimoniano le circa duecentocinquanta commemorazioni che alla sua morte vennero pubblicate su giornali e riviste di tutto
Vedi per esempio Landucci, 1987, p. 183, Pireddu, 2002, p. 186, Puccini, 2002, p. 55, Rossi,
2002, p. 205, che del resto riprendono quanto era stato rilevato da tempo. Aldobrandino
Mochi aveva così esordito nella sua commemorazione dell’antropologo: “L’ingegno di
Paolo Mantegazza fu multiforme, poliedrico” (Mochi, 1910, p. 271).
2 Ovvero “poligamo di molti amori intellettuali”: Mantegazza, 1909, p. 1; ciò che ha dato il
titolo a una monografia sulla sua opera: vedi Cianfriglia, 2007.
1 issn (print) 1722-2206
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132 Giulio Barsanti
il mondo)3, dall’altra lo mise per tutta la vita nella scomoda posizione di
chi poteva essere (e in effetti fu) considerato troppo filosofo dagli scienziati e troppo scienziato dai filosofi; così come mette chi ne considera oggi
il complesso dell’opera nell’impossibilità di tratteggiarla compiutamente
nella sua interezza.
Ma egli considerava l’antropologia il fulcro e il fine della sua riflessione:
i suoi successi più significativi furono senz’altro quelli di ottenere il primo
insegnamento europeo di Antropologia ed etnologia (1869), di istituire il
Museo nazionale di antropologia, di fondare la Società italiana di antropologia ed etnologia e di creare quel grande organo di informazione e di
discussione che fu l’“Archivio per l’antropologia e l’etnologia” (1870). Mi
propongo qui di documentare, da una parte, che la sua attività di ricercatore, di docente, di organizzatore e di divulgatore fu sempre caratterizzata
dalla pratica di un’antropologia a tutto campo e a tutto tondo – in cui si
riversavano le sue competenze mediche, e che era contaminata dalle sue
aspirazioni letterarie – e dall’altra che essa non mirò, astrattamente, a definire cos’è l’Uomo nella sua presunta essenza ma si pose, date le differenze
riscontrate fra gli uomini empiricamente osservati, come un’antropologia
di popolazione4 .
La bestia meno studiata
dai naturalisti è l’uomo
L’antropologia a tutto campo
“Tenere sempre insieme tutto”, avrebbe potuto essere lo slogan dell’antropologia mantegazziana. Nel senso, in primo luogo, di utilizzare tutti gli
strumenti a disposizione – dal “coltello dell’anatomico” allo “scandaglio
del filosofo” passando per la “lima della critica”, in modo da combinare gli
strumenti materiali con quelli teorici. Il crogiuolo deve sempre accompagnarsi al pensiero, la bilancia all’idea5. Non è la loro natura specifica ma la
loro appropriata integrazione che li rende efficaci. Per quanto affinati possano essere il coltello, la lima, il crogiolo e la bilancia, per quanto sofisticati
La sola sezione di Antropologia della biblioteca di Scienze dell’università di Firenze ne
conserva 232.
4 Fu anche per questo che la mantegazziana “professione di fede” antropologica
(Mantegazza, 1876, p. 100), quella lettera su L’uomo e gli uomini cui ammicca il titolo di
questo mio saggio, venne dall’antropologo qualificata come lettera etnologica.
5 Mantegazza, 1871a, pp. 50-51 e Mantegazza, 1875, p. 122.
3 Paolo Mantegazza 133
possano essere lo scandaglio, la critica, il pensiero e l’idea, ciascuno di essi
potrebbe, se utilizzato indipendentemente dagli altri, portare fuori strada.
“Tenere sempre insieme tutto” significa poi, per Mantegazza, che gli
strumenti dell’antropologo debbano essere utilizzati congiuntamente su
tutti i fenomeni e su tutti i processi sia dell’uomo fisico sia – come ancora si
usava dire all’epoca – dell’uomo morale: “accanto al cranio vi sia il pensiero,
accanto all’utero Saffo, accanto al muscolo del cuore il cuore del muscolo”6;
l’uomo va indagato tanto “sotto il rapporto della costituzione fisica, come
sotto il rapporto dello stato intellettuale e sociale”7; “dobbiamo [...] allargare
il campo delle nostre ricerche fin dove l’uomo arriva col suo corpo, col suo
sentimento, col suo pensiero”8 . Mantegazza lo ripete fino alla noia: “non si
dimentichi nulla, [...] non si disprezzi un pelo”; “pigliamo tutte le prospettive di questo Dio umano”; bisogna “rannodare tutti gli anelli della catena
infinita” di cui si compone il nostro mondo; dobbiamo riuscire “in uno
sguardo solo” ad abbracciare “tutti quanti gli elementi umani”9; “cercando
di dedicare le nostre forze a tutti i singoli rami di questo albero gigante che
è l’antropologia, senza dimenticarne alcuno”10.
Fu l’avvertita necessità di realizzare sempre un approccio sintetico e
integrato (Sandra Puccini e Graziella Arazzi hanno parlato di “visione olistica”, Giovanni Landucci di “concezione globale”)11 che spinse Mantegazza,
dopo che fu pubblicato Cuore di De Amicis, a scrivere Testa; non già per
contrapporre la ragione al sentimento, bensì per accostargliela – in modo
da avere, dell’uomo, un’immagine più completa. Sul versante propriamente
scientifico è significativo che quando, a Parigi, le collezioni antropologiche
vennero separate da quelle etnologiche, Mantegazza giudicò il loro distacco
“uno smembramento ridicolo”12; che quando, in Lapponia, si accomiatò
dai primi nativi incontrati personalmente, lo fece dopo aver conquistato,
per il suo Museo, due piccoli “trofei” relativi ad entrambe le dimensioni
umane: una ciocca di capelli, per arricchire l’inventario della variabilità
antropologica, e una châtelaine per documentare l’ampiezza (e l’articolazione) di quella etnologica13 – perché “l’antropologia [...] studia il cranio e i
Mantegazza, 1871a, p. 55.
Ivi, p. 60.
8 Mantegazza, 1906, p. 250.
9 Mantegazza, 1871a, pp. 55 e 59-60.
10 Mantegazza, 1901, p. 237.
11 Puccini, 2002, p. 60, Arazzi, 2002, p. 218, Landucci, 1987, p. 168.
12 Mantegazza, 1879, p. 248.
13 Vedi Mantegazza, 1881.
6 7 134 Giulio Barsanti
capelli, così come i costumi dei popoli”14; che quando promosse la fotografia “scientifica” (quella somatica che consisteva, in particolare, nel ritrarre
il volto degli individui di fronte e di profilo) si raccomandò che ad essa
venisse accostata quella “artistica” – “alle fotografie scientifiche sarà utilissimo aggiungerne ancora delle artistiche, prese cioè coll’atteggiamento
naturale e libero degli individui ritratti, e possibilmente nei loro costumi o
fra strumenti ed utensili caratteristici della loro regione e della loro classe
sociale”15; e che quando si trattò di valutare gli orientamenti europei delle
scienze antropologiche Mantegazza li reputò insoddisfacenti perché unilaterali: condannando quello dominante in Francia come “fanatismo craniologico” e quello prevalente in Inghilterra come “esagerata polverizzazione
etnologica”16 . Possiamo senz’altro lamentarci, chiosò, del fatto che l’Italia
“ebbe pochi cultori” di antropologia, ma possiamo anche senz’altro rallegrarci del fatto che “ne ebbe in tutti i suoi rami e fu sempre studiata con
larga sintesi e con un eclettismo pieno di discrezione”17.
A questo proposito val la pena di ricordare anche il grande compiacimento con cui Mantegazza ricordò la nascita dell’antropologia italiana
(che pur nacque “molto modestamente, senza trombe né tamburi”): convenuti – in settantuno – a fondarne la Società, “di antropologi ufficiali
forse due o tre, ma invece zoologi e viaggiatori, paletnologi e medici, psichiatri e fisiologi, filologi e storici” – “tutta un’enciclopedia di studiosi, un
mosaico preso dalle miniere di tutte le scienze umane”18; il carattere apparentemente raccogliticcio dell’enciclopedia era per lui la miglior garanzia
della sua solidità. E va infine ricordato che l’antropologo si adoperò affinché l’organo della Società fosse sempre un mosaico fedele delle miniere cui
essa attingeva, accuratamente evitando che ne venisse privilegiata l’una
o l’altra. L’Archivio pubblicò, in quarant’anni, cinquecentoquarantasette
contributi originali e, come è stato documentato da Edoardo Pardini, di
essi furono duecentosettantacinque quelli riconducibili all’antropologia e
alla biologia umana, e duecentosettantadue quelli concernenti l’etnologia e
Mantegazza, 1871a, p. 61
Vedi Chiarelli, 2002, p. 95.
16 Mantegazza, 1901, p. 237. Vedi anche Mantegazza, 1906, p. 246, ove il modello da imitare
appare semmai quello della Germania, “ispirata forse dal grande ingegno del Virchow, che
seppe misurare i crani, ma studiò anche la distribuzione delle razze e i loro costumi, non
sdegnando le indagini nell’oscuro mondo preistorico”.
17 Mantegazza, 1892, p. 201. Come avrebbe ricordato anche più tardi, e con lo stesso
compiacimento, “il nostro indirizzo fu sempre largamente eclettico” (Mantegazza, 1901,
p. 237).
18 Mantegazza, 1901, pp. 234 e 236.
14 15 Paolo Mantegazza 135
la psicologia comparata19. Non poteva esserci sintesi più larga né eclettismo
più pieno di discrezione.
Mantegazza fu sempre fermo nel difendere questo equilibrio, e altrettanto fermo nel predicare la massima prudenza scientifica: “nella scienza
non voglio lampi, ma luce pacata e serena”, quella grande cautela che consente di non commettere errori, in modo “che i nostri posteri trovino molto
da aggiungere, ma nulla da togliere”. Se l’antropologia ha “gli ardimenti
della giovinezza”, deve pur tuttavia saper conservare “la calma serena di
una lunga eredità di esperienza fatta dalle scienze sorelle” – “la serena buddica calma della storia naturale dell’uomo”20.
La “storia naturale” dell’uomo
Non era compito semplice, quello della serena buddica calma, perché
la storia naturale dell’uomo, “scienza poverissima e superbissima”21 (poiché
era appena nata, ma si rivelava già molto ambiziosa), o “non è intesa da tutti
in ciò che vuole e in ciò che vale” o si trova in guerra: “la guerra che le muovono per chiesastica paura i difensori dei pregiudizii ieratici, che vedono in
essa una nemica della fede”22 . E allora si poteva perdere, la buddica calma, e
potevano scappare dei lampi, in un paese come l’Italia “dove l’amore della
scienza non è di certo passione nazionale”, e in cui si ha a che fare con “rugiadosi avversari” (interlocutori bigotti e untuosi) che difendono gli interessi
non certo della fede – “direi piuttosto della bottega”23. Nonostante le buone
intenzioni, ad essi Mantegazza si oppose con qualcosa di più e di diverso
da una “scaramuccia da bersaglieri”24 . Si oppose ironizzando pesantemente
sull’arca di Noè, commiserando chi “crede senza pensare”25, negando persino la buonafede26 a chi è avvolto dalla “buccia tarlata del dogmatismo”27 e
arrivando a definire la teologia un “tumore della scienza”28 .
Vedi Pardini, 2002.
Mantegazza, 1871a, pp. 53, 55, 57 e 63. Vedi anche Mantegazza, 1901, p. 237.
21 Mantegazza, 1871a, p. 62.
22 Mantegazza, 1900a, p. 223.
23 Ivi, pp. 223-224.
24 Mantegazza, 1871b, p. 89.
25 Mantegazza, 1882, pp. 174 e 179.
26 Vedi Mantegazza, 1900b, p. 210.
27 Mantegazza, 1882, p. 185.
28 Mantegazza, 1900a, p. 221. Così, egli poté stupirsi del fatto che l’abate Raffaello
Lambruschini fosse “dotato di un sano criterio benché prete” (Mantegazza, 1900a, p. 222).
19 20 136 Giulio Barsanti
La sua antropologia suscitava chiesastica paura perché era intesa come
storia naturale dell’uomo29 e perché questa aveva un’impostazione palesemente e dichiaratamente materialistica 30. Oltretutto, mentre “fino alla metà
del secolo scorso [...] non aveva casa propria e viveva modesta e randagia
dell’ospitalità, che le offrivano la zoologia e la filosofia”31, adesso una casa –
“un domicilio legittimo”, “il suo posto al sole”32 – l’aveva (nel Museo, con la
Società, sull’Archivio). E come storia naturale dell’uomo – “la quale non è
anatomia, non fisiologia, non psicologia, molto meno metafisica” – adesso
l’antropologia pretendeva “di studiare l’uomo collo stesso criterio sperimentale con cui si studiano le piante, gli animali, le pietre, [...] senza il giogo
di tradizioni religiose, di teorie filosofiche preconcette”33. Pretendeva di studiare l’uomo “come si vede e come si tocca”34; perché “l’antropologia è un
ramo delle scienze naturali e come tutte le altre sorelle non può che avere
un solo indirizzo, l’osservazione illuminata dallo sperimento”35.
Dopo essere riuscito a introdurla nell’ordinamento universitario,
Mantegazza chiede che l’antropologia così ridefinita divenga materia
obbligatoria per gli studenti di Scienze, in modo da eliminare “uno dei
paradossi più ridicoli, che macchiano il nostro insegnamento superiore”:
“è assurdo che gli studenti, che vogliono laurearsi in scienze naturali e che
studiano i molluschi più ignoti e i vermi più insignificanti, [...] debbano
ignorare la storia naturale dell’uomo”36 . L’antropologia non è un “oggetto
di lusso”, e dovrebbe esser frequentata anche dagli studenti di Lettere: perché la storia naturale dell’uomo è “una specie di anticamera, che tutte le
persone dotte dovrebbero attraversare, prima di chiamarsi filosofi, letterati, naturalisti, medici” – è l’”introduzione di tutte le scienze”, l’anticamera di tutto il sapere37.
Né Mantegazza si limita a questo: egli chiede anche, in buona sostanza,
che l’antropologia prenda il posto della filosofia, che per come viene praticata e trasmessa dovrebbe essere cancellata affatto: perché “nella più parte
“L’antropologia per me non è, e non sarà mai altra cosa, che la storia naturale dell’uomo,
studiata nell’uomo e nelle sue varietà” (Mantegazza, 1906, p. 246).
30 Nonché evoluzionistica: in proposito si vedano, per il contesto italiano, Continenza,
1989, Landucci, 1996, Barsanti, 2009, e per quello europeo Barsanti, 2005.
31 Mantegazza, 1900a, p. 222.
32 Mantegazza, 1892, p. 200 e Mantegazza, 1900a, p. 222.
33 Mantegazza, 1871a, p. 55. Vedi anche Mantegazza, 1901, p. 236.
34 Mantegazza, 1871a, p. 56.
35 Mantegazza, 1906, p. 245.
36 Mantegazza, 1900a, p. 225.
37 Ivi, pp. 223 e 226.
29 Paolo Mantegazza 137
dei nostri licei sembra insegnata soltanto per deformare il pensiero e conservare all’infinito la preziosa malattia della metafisica”38; attualmente è un
“mondo informe di antichi pregiudizi, di sublimi divinazioni e di confuse
induzioni”, un “vero caos”39. Non è possibile che questo stato di cose permanga, e adesso è possibile che venga superato. Anche ai giovani studenti
di Filosofia si può e si deve dare “un indirizzo positivo”40, e questo può esser
garantito da “un po’ di sana e utile storia naturale dell’uomo”41. La quale si
estende, per Mantegazza, fino a coprire interamente il campo della psicologia; egli si serve dell’approccio medico-naturalistico anche per tentar di
espugnare l’ultima cittadella della metafisica – la cittadella della mente.
Se parlavo di antropologia a tutto campo e a tutto tondo era anche per
questo: essa indaga pure, per Mantegazza, “tutti i fenomeni della vita di
relazione, tutti i fatti del mondo psichico, tutti i sentimenti, tutti i pensieri, tutti i delitti e gli atti generosi, le sensazioni dell’idiota e i delirii del
genio”42 . Lo fa con lo stesso metodo comparato (dal momento che “questi
materiali non si trovano soltanto nell’uomo, ma anche negli animali, e noi
dobbiamo far sempre la psicologia comparata degli animali e dell’uomo”)43
e con il medesimo approccio empirico e materialistico44: quello che prende
le mosse dalla convinzione che “noi siamo tutti quanti figli della natura,
nelle cui carni siam ritagliati”45, e quindi assumendo che “tutti i fenomeni
psichici avvengono nel cervello e nei nervi”46 . La soluzione mantegazziana
non poteva essere più chiara e più radicale: l’intelligenza è “un carattere
organico”; è “la serie dei fenomeni fisici e matematici, che avvengono fra
le sensazioni raccolte (idee) e le energie accumulate (sentimenti)”; è un
insieme di “confronti e pesature” che fa sì che quando siamo alle prese coi
fenomeni intellettuali “siamo in fisica e in fisica elementare, benché siamo
in psicologia”47. L’uomo va spogliato: l’antropologia psicologica si pone l’obiettivo di definire che cosa sia “veramente, non come lo avevano definito il
teologo e il metafisico”; che cosa sia “davvero intus et extra, nudo in faccia
Mantegazza, 1892, p. 203.
Mantegazza, 1876, p. 131.
40 Mantegazza, 1900a, p. 224.
41 Mantegazza, 1892, p. 203.
42 Mantegazza, 1900b, p. 209.
43 Ibidem.
44 “E perché il naturalista non potrà adoperare i soliti criteri dell’osservazione e dello
sperimento per studiare i fenomeni morali e intellettuali?” (Mantegazza, 1871b, p. 83).
45 Mantegazza, 1901, p. 233.
46 Mantegazza, 1900b, p. 210.
47 Ivi, pp. 213-214.
38 39 138 Giulio Barsanti
alla natura, senza le vernici e i vestiti di cui lo avevano ricoperto le false
scienze e l’orgoglio suo”48 . L’uomo è nudo – o almeno, è nudo che interessa.
Mantegazza crede tanto nell’antropologia psicologica, che ne fa la cifra
dell’antropologia tutta. Questa va praticata adottando molti criteri diversi
ma “s’io fossi costretto ad adoperare un unico criterio – dichiarò l’antropologo a Enrico Giglioli – ti confesso francamente, che mi appiglierei
all’intelligenza”49. Perché “nel corpo l’uomo è quasi un gorillo, nel cervello
che pensa è un uomo”; si trova in esso “la più alta e la più larga sintesi delle
energie umane”, e dunque ha da essere la psicologia comparata “il più alto e
il più nobile scopo dei nostri studii”50.
Per il fondatore del Museo di antropologia ciò ha, tra le sue più immediate e più impegnative conseguenze, quella di dover ripensare la logica
del suo allestimento. Da una parte è vero che il cervello è “un organo così
complesso, una sintesi così larga di tutte le energie vitali, che, prendendo un
solo filo, ne stringo nella stessa mano cento altri”; dall’altra è vero pure che
“essendo l’istologia cerebrale troppo bambina”51, non si può ancora puntare direttamente sull’organo: si può puntare solo sui suoi prodotti. E allora
Mantegazza medita di sconvolgere l’organizzazione del Museo. Invece di
trovarvi oggetti (i più diversi) raggruppati popolazione per popolazione,
secondo la loro distribuzione geografica, bisognerebbe trovarveli raggruppati (prescindendo da quella distribuzione) attività per attività 52 . “Io amerei
vedere tutto un Museo d’etnografia disposto nell’ordine psichico”; “è certo
che si tratta più di una questione di metodo nell’ordinamento delle cose,
che di una diversità delle cose da raccogliersi; ma nella scienza le questioni
di metodo sono importanti quanto le questioni di fatto”. E “le stesse cose
disposte in diversa maniera parlerebbero diversamente al nostro pensiero”53.
Realizzato quest’approccio globale e concepita questa visione integrata
della scienza dell’uomo, l’originaria intestazione andava stretta alla Società
fondata nel 1870: così, su proposta dello stesso Mantegazza, essa prese il
nuovo nome di Società italiana di antropologia, etnologia e psicologia comparata. Era il 1878, e per la cronaca quella delibera, che comportava l’anaMantegazza, 1901, p. 236.
Mantegazza, 1876, p. 112.
50 Ivi, pp. 112 e 117.
51 Ivi, pp. 112-113.
52 “Invece di veder nell’armadio destinato all’Australia come gli australiani si vestano,
come mangino, come caccino e come uccidano, noi troveremmo in una sala tutto ciò che
riguarda la caccia di tutti i popoli, in un’altra tutto ciò che riguarda la guerra e così via”
(Mantegazza, 1886, p. 195).
53 Mantegazza, 1886, p. 195.
48 49 Paolo Mantegazza 139
logo cambiamento del nome dell’Archivio, venne approvata a maggioranza
(dodici favorevoli, tre contrari). Per un verso si trattava della “naturale”
conclusione di uno sviluppo coerente (“anche nello studio del pensiero e
del sentimento noi siamo monisti”)54 , per un altro val la pena di sottolineare che quello sviluppo, governato appunto da una filosofia monistica, non
portò Mantegazza ad accogliere soluzioni riduzionistiche. Il rischio c’era:
definire la psicologia come “fisiologia del cervello umano” tout court, presumere di poter risalire “dai nervi irritati al cervello che pensa”55 e spingersi
fino a sostenere che l’intelligenza è “un carattere organico come la pelle,
come il cranio”56 , poteva condurre a forme di materialismo tanto ingenuo
e brutale quanto presuntuoso e sterile. Tanto più che l’antropologo fiorentino confessava, calcando la mano: “io sarò molto, troppo positivo, ma per
l’avanzamento della psicologia comparata credo più utile un domatore di
belve [...] che un filosofo”57.
Ebbene l’opera di Mantegazza è caratterizzata dalla critica di qualsiasi forma di riduzionismo. Farò solo qualche esempio, relativo a episodi
specifici e questioni generali. Nello specifico, non fu un caso che recensendo un’opera assai impegnativa di Tito Vignoli (Della legge fondamentale dell’intelligenza nel regno animale, 1877) l’antropologo ne denunciasse
l’appiattimento al livello più basso dell’analisi – quello dell’analisi sensoriale. “L’errore massimo di questo libro è quello di tacer del tutto del sentimento, delle facoltà affettive”; “lo stesso sarebbe scrivere un trattato sui
sali, nel quale si parlasse solo degli acidi e non delle basi”58 . Non fu un caso,
perché anche recensendo nel suo complesso l’opera di Cesare Lombroso,
improntata al riduzionismo dell’antropologia criminale, Mantegazza la
bollò senza mezzi termini come una pur seducente mistificazione: “un
ingegnoso tranello”59.
E passando a questioni più generali: Mantegazza è noto per la sua riforma
craniologica, e purtroppo in molti ambienti per il suo presunto riduzionismo craniologico. Ebbene egli contestò ripetutamente l’eccellenza dell’approccio craniologico, e nei termini più perentori: “se tu prendi il cranio per
criterio di classazione, [...] arrischi di metter vicini popoli diversissimi e
di separare i fratelli, con un taglio più crudele di quello che voleva il buon
Mantegazza, 1900b, p. 217.
Mantegazza, 1871a, p. 64.
56 Mantegazza, 1876, p. 112.
57 Mantegazza, 1877, pp. 137-138.
58 Ivi, p. 136.
59 Mantegazza, 1902, p. 3.
54 55 140 Giulio Barsanti
Salomone”60; i craniologi producono “una farragine di cifre, che nessuno
legge” e perciò, ovviamente, nessuno utilizza; “è davvero degno di tanta
fatica e di tanto tempo questo travaglio craniologico? [...] Ne quid nimis”;
perché il cranio è soltanto “una buccia ossea, che alla fine non è altro che un
astucchio”61. Intendiamoci: esso “è di certo la parte del nostro scheletro che
serba più profonde le tracce dell’umanità”, perché è “la casa del cervello”;
“ma da questo al voler fare della craniologia tutta quanta la nostra scienza,
vi è un abisso”62 . Mantegazza appronta, a questo proposito, un ingegnoso
esperimento cruciale che era fin qui sfuggito agli studiosi della sua opera.
L’esperimento del 1875
Egli seleziona duecento crani della sua collezione, prende di ciascuno di
essi le dieci misure più significative, li mescola e nomina una commissione
(formata da lui stesso, “un distinto zoologo e un egregio antropologo”) che
incarica di, senza conoscerne la provenienza, disporli in successione dal
più “alto” al più “basso” (da quello “olimpico” al “pitecoide”) e ne valuta le
conclusioni63. Esse risultano tanto sorprendenti, e significative, da convincerlo a tenere quelle due centinaia di crani “per parecchie settimane schierate nel campo del mio Museo”, come monito a diffidare della “metafisica
geometrica” e della “cabalistica di cifre”64 . La successione risulta infatti
assolutamente sballata: nel senso che invece di consistere in sottoinsiemi
omogenei di crani di popolazioni ordinatamente allineate (“tutte in fila per
benino, le une sopra, le altre sotto”)65, tra i primi classificati figurano un
polinesiano insieme con alcuni italiani, tra gli ultimi vari Italiani insieme
con alcuni australiani. E tra gli Italiani: anche i fiorentini si sparpagliano
lungo tutta la scala – uno arrivando tra i primi e uno tra gli ultimi. E
per quanto riguarda le facoltà intellettuali e morali: Ugo Foscolo arriva
sì prima di un sardo analfabeta ma per poco, e si vede superato non solo
– e ampiamente – da un oscuro poeta siciliano ma anche da un anonimo
accattone bresciano. Neppure i criminali (abilissimi ladri, feroci assassini,
tremendi pirati...) sembrano occupare un luogo preciso, distribuendosi
Mantegazza, 1876, p. 110.
Mantegazza, 1875, pp. 121-122 e 131.
62 Ivi, p. 122. “Guai a noi, se l’antropologia non fosse che craniologia” (Mantegazza, 1871a,
p. 57).
63 Mantegazza, 1875, pp. 126-127
64 Ivi, pp. 122 e 129.
65 Mantegazza, 1882, p. 174.
60 61 Paolo Mantegazza 141
lungo una buona metà di scala. Donde lo sberleffo: “misurate, misurate i
cranii dei Giapponesi e dei Russi e spiegate con quelle misure le vittorie del
Nippon e il naufragio della Duma…”66 .
Il luogo comune del Mantegazza sbilanciato verso l’antropologia fisica
dovrebbe dissolversi tenendo presente anche un solo episodio: quello delle
sue dimissioni da presidente di una commissione incaricata di esaminare
i titoli di alcuni concorrenti a una cattedra di antropologia. Egli si dimise
quando e perché uno dei colleghi “escluse dall’esame più di una ventina
di lavori di un candidato, perché trattavano argomenti di etnografia”.
L’antropologo osservò, scandalizzato, che “sarebbe stato lo stesso quanto
l’escludere da un concorso di astronomia, i lavori che trattavano delle stelle
o delle comete”. Sganciare l’antropologia dall’etnologia (così come dalla psicologia comparata) è “un’eresia”. Farlo significa ridurre la scienza dell’uomo
a “quisquiglia osteologica, che non ha bisogno che di un compasso, di molta
pazienza e soprattutto di una grande mediocrità d’ingegno”67.
Cosa spingeva Mantegazza a definire stupidi – in buona sostanza – i
riduzionisti cultori della “quisquiglia osteologica”? Si possono fornire,
credo, molte risposte; in questa sede mi limito ad abbozzarne una, su
cui la critica non si è adeguatamente soffermata ma che reputo sia non
meno soddisfacente di altre. Fu l’attenzione all’accertata variabilità individuale. È in virtù di essa che il fondatore del museo antropologico pensò
di riallestirlo psicologicamente: l’allestimento etnologico, che all’epoca
sembrava “naturale”, gli risultò artificioso perché non esiste popolazione
che si esprima omogeneamente; all’interno di ognuna di esse i prodotti
del pensiero sono i più vari68 , e l’allestimento per tipologia di prodotto
ha il grande vantaggio di testimoniare e di valorizzare le differenze degli
atteggiamenti, degli approcci, delle strategie, delle soluzioni e dei prodotti
individuali69. Mantegazza lo aveva già rilevato, e sottolineato, nel suo “sillabo etnologico”70: quella Lettera indirizzata all’amico Enrico Giglioli, e da
questi pubblicata in introduzione al suo Viaggio intorno al globo (1875),
che era significativamente intitolata L’uomo e gli uomini. L’antropologia
si occupa dell’uomo in quanto tale, genericamente (si occupa dell’Uomo),
Mantegazza, 1906, p. 248.
Ivi, pp. 247-248.
68 Non si insisterà mai abbastanza su “i fatti, che illustrano le variazioni individuali dei
diversi atteggiamenti psichici” (Mantegazza, 1886, p. 195).
69 Per restare a casa nostra: in Italia “abbiamo la Divina Commedia e il Saggio protochimico-fisico-medico-astronomico-teologico del Signor Giovanni Battista Pacchiarotti di
Voghera”. (Mantegazza, 1871a, p. 59).
70 Mantegazza, 1876, p. 118.
66 67 142 Giulio Barsanti
ma senza mai dimenticare che in realtà esistono solo, specificamente,
uomini – al plurale. Essa “non si accontenta di studiare un uomo ideale” (il
presunto “uomo medio”): “dopo aver studiato l’uomo, studia gli uomini”,
scoprendo che “i confini della variabilità sono in questa creatura infiniti”.
“Nulla [...] è più diverso da un uomo quanto un uomo”71. Che era poi ciò
che Mantegazza aveva di lì a poco verificato con l’esperimento cruciale di
cui ho appena detto; che lo aveva portato a ottenere una successione (apparentemente) “sballata”, ovvero a smembrare le popolazioni, documentando
che se vi sono Italiani “alti” ve ne sono pure di “bassi” (come, ovviamente,
di intermedi). Dunque le misurazioni non bastano a caratterizzare una
popolazione e, più in generale, “nessun criterio basta da solo”72 .
Ma le misurazioni servono eccome: documentando l’ampiezza della
variabilità individuale, all’interno di qualsiasi popolazione, documentano
per esempio che non ha senso parlare di “razze” – ciò che costituisce forse il
contributo più importante di quella che i francesi chiamarono, con qualche
invidia, l’école de Florence73.
Le “razze” degli uomini
Il problema razziale è “scombuiato e intricatissimo” e, purtroppo, “mentre avrebbe dovuto essere avvicinato con calma grandissima, con olimpica
serenità, vennero invece di mezzo paure, fanatismi, pregiudizii, e passioni
d’ogni maniera”; così che “di razza parlano tutti, ma in modo molto diverso,
per cui quando parecchi etnologi si mettono a discutere fra di loro, ci presentano un miracolo ancor più singolare di quello della Torre di Babele”74 . E
ciò nonostante il problema può essere risolto, e può esserlo abbastanza semplicemente. Affinché si possa parlare di “razze” è necessario che esistano
popolazioni omogenee al loro interno e nettamente distinte dalle altre popolazioni. Ebbene, non si dà né l’una né l’altra cosa. Si dà, anzi, esattamente il
contrario: vi sono più differenze all’interno delle popolazioni, che fra popolazione e popolazione. “Le oscillazioni individuali sono eguali o maggiori
delle etniche e per definire una razza, noi abbiamo bisogno di prendere
Mantegazza, 1871a, p. 58.
Mantegazza, 1875, p. 131.
73 Vedi Landucci, 1987, e lo stesso Mantegazza, 1886, p. 191. Di essa facevano parte, fra
gli altri, Odoardo Beccari, Angelo De Gubernatis, Federico Delpino, Felice Finzi, Enrico
Giglioli, Alexandr Herzen, Pietro Marchi, Hugo Schiff, Moritz Schiff, Gaetano Trezza.
74 Mantegazza, 1876, pp. 101 e pp. 105-106.
71 72 Paolo Mantegazza 143
individualità lontanissime e di pestarle poi in un mortajo per cavarne fuori
una pasta omogenea, un tipo medio che in natura non esiste”75. Prendiamo
il caso, delicatissimo, della “razza” ebraica: “guardati intorno – Mantegazza
chiese a Giglioli – e dimmi, se fra gli Israeliti che popolano le cento città italiane, tu non hai forme diverse e lontane e teste brachicefale, e mesocefale e
dolicocefale”76 . Egli dubitava fortemente, quindi, che essi costituissero una
“razza”, e si prendeva anzi un preciso impegno: “spero un giorno di dimostrare che la razza semitica non esiste”77. Quanto, poi, alla “razza” ariana,
Mantegazza la considerava senz’altro “un mito”, sul quale “fino ad ora non
trovo che romanzi storici”78 . Non esistono le specie (“la specie in natura non
esiste, ma esistono solo degli individui. La specie è una pura e semplice creazione del cervello umano, uno dei tanti pilastrini di frontiera, che siamo
costretti a segnare nei nostri viaggi attraverso il mondo dei fatti”)79, figurarsi le “razze”80. In natura esiste un continuum di forme, che ci autorizza, o
meglio ci impone, di parlare – invece che di una molteplicità di “razze” – di
un’“universale fratellanza umana”81 (siamo “fratelli di un’unica famiglia”82;
ovvero, quello dell’“umana famiglia” è “un unico e robusto tronco”)83: perché “se l’uomo non ha caratteri anatomici importanti ben distinti da quelli
delle scimmie antropomorfe, gli uomini si rassomigliano fra di loro assai
più che non gli uomini alle scimmie”; essendo che “si passa dagli uni agli
altri per gradazioni intermedie leggerissime ed innumerevoli”84 . Il cosiddetto “albero umano” ha “rami e ramoscelli” che “si toccano fra di loro
con tanto intreccio, da far rassomigliare la nostra pianta ad un cespuglio
intricatissimo”; perché le cosiddette “razze” umane sono tutte popolazioni
“frammiste tra di loro”85.
Mantegazza, 1876, p. 105.
Ibidem.
77 Mantegazza, 1883-1884, cit. in Chiozzi, 2002, p. 42.
78 Mantegazza, 1884, cit. in Chiozzi, 2002, p. 44.
79 Mantegazza, 1876, p. 102.
80 “Quale razza sembra in apparenza più omogenea della negra? Or bene gli etnologi, che
per tanti anni le assegnarono come uno dei caratteri più salienti la forma dolicocefala
del cranio, che cosa dicono oggi che abbiamo scoperti tanti negri mesocefali, e tanti
brachicefali?” (Mantegazza, 1876, pp. 110-111).
81 Ivi, p. 107.
82 Mantegazza, 1871a, p. 60.
83 Mantegazza, 1876, p. 115.
84 Ivi, pp. 107 e 109.
85 Ivi, p. 115. Un esempio eloquente ne viene fornito dall’occupazione, nella scala risultante
dall’esperimento del 1875, dei posti che vanno dal 120° al 125°: vi si “frammischiano” Greci
e Maori, Sardi e Ungheresi, Antichi e Moderni.
75 76 144 Giulio Barsanti
Dunque “siamo tutti meticci”, come di lì a poco avrebbe convenuto
anche Paul Topinard 86 e sarebbe stato recepito in tutti i manuali di antropologia. Siamo tutti bastardi, e d’altra parte lo siamo stati fin dall’inizio.
Mantegazza non ebbe bisogno, per sostenerlo, di aspettare le rivelazioni
darwiniane. Il giovane patologo se ne convinse prima e indipendentemente
da qualsiasi ipotesi evoluzionistica, nel corso dei suoi viaggi nell’America
latina – che fu per lui, come è stato detto, “un vero e proprio laboratorio”87.
E il meticciato (l’“incrociamento”, nel lessico di Mantegazza) è non solo
una condizione di fatto. È anche una pratica doverosa, come dimostra la
storia delle nazioni ed era attestato già nella Bibbia: “Mosè scegliendo la sua
moglie fuori del ceppo d’Israel dava un esempio splendidissimo di igiene
del matrimonio e splendidissimo lo danno i Chinesi i quali non avendo
che cento cognomi impediscono l’unione di due individui che portino lo
stesso nome”88 . L’endogamia porta alla rovina, e solo un idiota, malriposto orgoglio può opporsi all’esogamia: “l’orgoglio spagnolo lottando con
tutte le sue forze contro l’incrociamento delle razze, maritò sempre i pochi
nobili alle pochissime nobili, sicché ne nacque una generazione di uomini
epilettici”89. Siamo tutti bastardi, lo siamo stati fin dall’inizio ed è bene che
continuiamo ad esserlo.
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88 Mantegazza, 1859a, p. 44.
89 Ibidem.
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