Ritengo che il concetto di “legalità”, quando viene

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Cons. Nicola Durante
(Magistrato amministrativo e tributario)
Il valore della legalità, l’ideale della giustizia ed i doveri della solidarietà
Relazione resa al convegno “Seminare legalità”, organizzato da Equitalia a Roma, presso
la sede del CNEL, il 12 marzo 2015.
Si tende generalmente ad assimilare i concetti di “diritto”, di “legalità” e
di “giustizia”. Così viceversa non è, sia nel ragionamento filosofico, sia in quello
filologico, sia in quello giuridico.
Nel mondo greco, a prevalere è una concezione giusnaturalistica del
diritto: esistono in natura norme razionali, anteriori rispetto ad ogni norma
giuridica ed universalmente valide. Sono le così dette “norme sovrane”, che
governano gli dei e gli uomini (Anassimandro, Eraclito, Pitagora). E’ la conformità
alla norma naturale a condizionare l’intrinseca validità della legge umana. Quanto
alla “giustizia”, essa viene vista come “equità”, avendo lo scopo di adattare alla
situazione concreta l’inevitabile generalità della legge (Aristotele).
Non di meno, quand’anche la legge degli uomini contraddica quella
naturale, l’uomo “giusto”, per non macchiarsi di un’ingiustizia, dev’essere capace
di sopportare quel che è “ingiusto”, stoicamente e fino alle estreme conseguenze.
Ne è testimonianza la vicenda processuale che porta alla morte di Socrate, come
narrata nel «Critone» di Platone. In questo senso, “giustizia” e “giusto” acquistano
una connotazione etica, diventando sinonimi di “virtù” e di “virtuoso”.
Col primato di Roma, “legalità” e “giustizia” cessano di essere nozioni
filosofiche astratte e si calano nella realtà delle istituzioni e del vivere sociale. I due
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concetti si fondono in una visione politicamente orientata, che se ne serve come
strumento di pace sociale, di sviluppo e di regolazione dei rapporti con gli alleati
ed i sudditi (Cicerone, Seneca). La legge rappresenta, insomma, uno dei mezzi per
il raggiungimento del benessere della res publica.
Tale impostazione è ribaltata nell’età dell’assolutismo monarchico, con la
formazione degli Stati nazionali. Alla base della nuova concezione, vi è
l’assolutizzazione della politica, la quale è resa autonoma dai vincoli etici e
giuridici che, nel corso del Medioevo, ne avevano segnato i limiti. “Giusto”
diventa una parola diversa per dire “legale” ed il diritto, come la “giustizia”,
diventa espressione dell’ordine sociale vigente.
Così facendo, “giusto” ed “ingiusto” vengono a misurarsi sull’incerto
terreno dell’utilità politica ed il termine di paragone del concetto di “giustizia”
diviene il potere del principe (Machiavelli, Bodin, Hobbes).
Questa teoria, poi sviluppatasi nell’ottocento e fino ai nostri giorni
secondo i canoni del “giuspositivismo” e del “formalismo giuridico”, pone legge e
morale su piani distinti, per giungere alla conclusione che il diritto è “giusto” di
per sé e vincola a prescindere dalla sua eticità (Kelsen, «Lineamenti di dottrina
pura del diritto», 1934).
E’ il pensiero liberale a ricostruire una separazione concettuale tra
“legalità” e “giustizia”, non più intese come nozioni sovrapposte, in quanto la
“giustizia” comprende la “legalità”, ma non si esaurisce in essa.
“Legalità” è l’insieme di regole che permette di qualificare il
comportamento umano come “lecito” od “illecito”. Tali regole sono scritte nella
legge o, comunque, dipendono dai princîpi che la legge detta.
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Ogni consesso civile ha bisogno di leggi, perché l’ordine sociale è
garantito dal fatto che la legge, e cioè la regolarità dei comportamenti, sia
rispettata. Di conseguenza, “illegalità” è la rottura dell’ordine, perpetrata
attraverso la violazione della legge: è disordine, caos, conflitto. E quando la
violazione della legge prevale sulla sua applicazione, si verifica la dissoluzione di
ogni possibile convivenza; si verifica, in altre parole, la rovina della società.
Tuttavia, tracciare una rigida equazione tra “giustizia” e “legalità”
significherebbe sposare una concezione meramente formale di “giustizia”.
Invero, l’individuazione di ciò che è “giusto” oltre la legge dipende dalla
capacità della legge stessa di rispecchiare il modo in cui la società viene concepita
in quel momento storico, i fini che ad essa si attribuiscono, i diversi ideali sociali
che si vogliono tramite essa raggiungere.
Nella concezione liberale, è lo Stato che deve realizzare e garantire le
condizioni di accesso ad una libertà, che sia diritto di ciascuno e non privilegio di
pochi (Stuart Mill, Tocqueville).
Perché “legalità” diventi “giustizia”, è dunque necessario che essa sia
permeata dall’ideale di “eguaglianza”: in quanto, per attuare la “giustizia”, non
occorre un ordine qualsiasi, ma un ordine fondato sull’eguale distribuzione di
onori e di oneri (Bobbio).
Non basta, cioè, che vi siano leggi, e che esse vengano rispettate, come
richiede la concezione formale della “giustizia” (perché le leggi vengano rispettate,
può bastare anche soltanto la forza!), ma occorre che le leggi rispettino il criterio
fondamentale dell’“eguaglianza”, dando a ciascuno secondo la propria posizione
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nella gerarchia sociale, secondo le proprie capacità, secondo l’attività svolta nella
produzione di beni e servizi, secondo le necessità spirituali e materiali.
La “giustizia”, insomma, al pari della cieca dea latina, deve sapere fare
uso non solo della spada, ma anche della bilancia.
E’ dunque l’endiade “legalità” – “giustizia”, che consente la formazione di
regole “giuste”, idonee a qualificare positivamente un’azione umana. Di modo che,
è “giusta” l’azione che contribuisce a rendere in qualche modo possibile la
coesistenza degli uomini; è “ingiusta” quella che la ostacola.
Pertanto, la società “giusta” è quella capace di perseguire il maggiore
benessere possibile per il maggiore numero di persone, sicché tutti i beni sociali
principali devono essere distribuiti dando precedenza ai più svantaggiati,
nell’ottica di una “fraternità democratica” basata sulla reciprocità e sulla
solidarietà di cittadinanza (Rawls, «Una teoria della giustizia», 1971).
Il concetto di uguaglianza è ripreso dalla dottrina socialista e comunista,
che però, all’uguaglianza sociale, sostituisce il richiamo all’uguaglianza economica,
che si realizza garantendo la ripartizione del lavoro secondo le possibilità di
ciascuno e la ripartizione dei frutti del lavoro secondo i bisogni di ciascuno. Spetta
dunque alla classe operaia il perseguimento dell’uguaglianza economica,
rovesciando, con la rivoluzione, i rapporti di forza esistenti ed assumendo la guida
del processo produttivo e la collettivizzazione dei mezzi di produzione (Marx,
Engels).
Anche la Chiesa avverte forte l’esigenza che nella società degli uomini si
affermino regole di condotta, a salvaguardia del corretto sviluppo dei rapporti
umani (CEI, «Educare alla legalità», 1991).
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Senza un sistema ordinato di regole, non può esistere una società libera e
giusta. Se mancano chiare e legittime regole di convivenza, oppure se queste non
sono applicate, la forza tende a prevalere sulla giustizia, l’arbitrio sul diritto, con la
conseguenza che la libertà è messa a rischio fino a scomparire. La “legalità”, ossia
il rispetto e la pratica delle leggi, costituisce perciò una condizione di base, affinché
vi siano libertà, giustizia e pace tra gli uomini.
E tuttavia, per la Chiesa “legalità” e “giustizia” non possono
rappresentare un valore in sé, ossia il precipitato storico dei valori imperanti nella
società in un dato momento: le leggi devono infatti corrispondere ad un preciso
“ordine morale”, che è anche un preciso “ordine divino”, poiché la loro
giustificazione più profonda viene dalla stessa dignità della persona umana,
mentre vindice della dignità dell’uomo non è semplicemente lo Stato, ma Dio
stesso.
La formulazione delle leggi deve innanzitutto obbedire alla tutela ed alla
promozione del bene comune, come è richiesto dalla natura stessa della legge e
della politica, il cui scopo sta nel servire il bene di tutti i cittadini, con particolare
attenzione ai più deboli.
Degli ideali di “legalità” e “giustizia” è fortemente impregnata la nostra
Costituzione repubblicana, che tiene i due concetti separati.
Affinché una legge sia valida, non è infatti sufficiente che rispecchi la
volontà del Parlamento, o che segua un particolare iter formativo. Essa dev’essere
anche “giusta”, ossia conforme ai dettami ed ai princîpi della Costituzione. La
difformità a tali dettami ed a tali princîpi determina la sanzione più grave per un
atto giuridico: il suo annullamento, la sua cancellazione.
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In un unico caso, nella Costituzione, un giudice viene posto al di sopra
della legge e del Parlamento, e questo caso riguarda la Corte costituzionale, che è il
giudice chiamato a valutare la conformità della legge alla Costituzione e che può
dichiarare una legge nulla. In tutti gli altri casi, il giudice è, e rimane, servus legis,
sottoposto alla legge.
Uno dei princîpi costituzionali cui la legge deve necessariamente
uniformarsi è quello solidaristico, di cui all’art. 3, comma 2, Cost., che impegna lo
Stato a creare fra i cittadini condizioni di eguaglianza non soltanto formale, ma
sostanziale, rimuovendo gli ostacoli di natura economico-sociale che di fatto
impediscono la partecipazione di tutti alla vita del Paese.
Attraverso l’affermazione dei doveri di “solidarietà” (tra i cittadini e verso
i cittadini), la nostra Costituzione abbraccia l’idea di un “ordine morale”, che
presiede alla formazione delle leggi, le quali non possono limitarsi a conservare
l’esistente, ma devono creare i presupposti per un futuro migliore, per condizioni
di vita e di sviluppo più eque.
E’ l’affermazione della funzione dello Stato sociale che, tra le sue finalità,
deve proporsi di ridurre le disuguaglianze, facendo gravare sull’intera comunità il
peso delle situazioni di inferiorità e comunque l’onere del welfare pubblico (sanità,
pensioni sociali, ammortizzatori, ecc...).
Per citare le parole del Presidente emerito Giorgio Napolitano,
pronunciate a Roma all’inaugurazione anno scolastico 2012/2013: «la legalità si
deve praticare a tutti i livelli e, dunque, anche nel nostro piccolo mondo
quotidiano. Nella vita scolastica, legalità vuol dire rispetto per le regole, rispetto
dei compagni, specie di quelli più deboli e, soprattutto, rispetto degli insegnanti. A
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ciò, si aggiunga un altro fondamentale valore: quello della solidarietà, la capacità
di stare al fianco di chi ha maggiori difficoltà».
Buona parte della crisi finanziaria in cui versano oggi gli Stati moderni è
proprio una crisi di welfare, generata dall’incapacità dello Stato di alimentare il
gettito delle risorse pubbliche necessarie a tenere in piedi il sistema di protezione
che si è stratificato nel corso degli anni.
E’ sotto gli occhi di tutti l’effetto più dirompente che questa crisi
economica ha determinato nel rapporto tra i cittadini: la riduzione del livello delle
tutele verso i più deboli, che è proporzionale alla contrazione della spesa destinata
al settore sociale.
Tutto questo può portare ad un modello di società meno “giusta” e meno
in linea con l’ideale di promozione individuale e sociale, voluto dal Costituente.
Per altro, la recente legge costituzionale n. 1/2012, nel modificare gli artt.
81, 97, 119 Cost., ha imposto a tutte le pubbliche amministrazioni l’obbligo di
assicurare l’equilibrio di bilancio e la sostenibilità del debito pubblico. In tal modo,
il pareggio di bilancio è diventato un interesse costituzionalmente protetto, al pari
degli altri, ed impedisce di finanziare, anche occasionalmente, col debito le
prestazioni dello Stato sociale.
Non per nulla, la costituzionalizzazione del vincolo di pareggio del
bilancio è propugnata dalla scuola della “Libera scelta” di Buchanan («La
democrazia in deficit», 1977), in antitesi allo “statalismo interventista” di Keynes,
che finisce per scaricare sulle nuove generazioni il peso del debito pubblico.
Il richiamo alla sostenibilità economica delle scelte politiche era, del resto,
ben presente pure nella giurisprudenza della Corte costituzionale anteriore alla
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riforma del 2012, là dove questa, intervenendo in materia di tutela del diritto alla
salute, aveva osservato come, «in presenza di limitatezza delle risorse e riduzione
delle disponibilità finanziarie, accompagnata da esigenze di risanamento del
bilancio nazionale, non è pensabile di poter spendere senza limite, avendo
riguardo soltanto ai bisogni quale ne sia la gravità e l’urgenza; è viceversa la spesa
a dover essere commisurata alle effettive disponibilità finanziarie, le quali
condizionano la quantità ed il livello delle prestazioni sanitarie, da determinarsi
previa valutazione delle priorità e compatibilità e tenuto ovviamente conto delle
fondamentali esigenze connesse alla tutela del diritto alla salute» (cfr. C. Cost n.
416/1995).
Pertanto, il diritto alla salute si qualifica come «diritto finanziariamente
condizionato», giacché «l’esigenza di assicurare l’universalità e la completezza del
sistema assistenziale nel nostro Paese si è scontrata, e si scontra ancora
attualmente, con la limitatezza delle disponibilità finanziarie che annualmente è
possibile destinare, nel quadro di una programmazione generale degli interventi
di carattere assistenziale e sociale, al settore sanitario» (cfr. C. Cost. n. 267/1998 e
n. 248/2011).
E’ evidente che, in tal modo, un diritto fondamentale, “riconosciuto” (e
non “istituito”) dalla Costituzione, viene ad essere degradato quasi alla stregua di
un interesse legittimo.
Di qui la necessità di fare tutti qualcosa.
Ogni cittadino è tenuto ad adempiere ai «doveri inderogabili di solidarietà
politica, economica e sociale», previsti dall’art. 2 Cost.
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Tra questi doveri, vi è quello di assolvere fedelmente agli obblighi fiscali,
anche allo scopo di consentire il mantenimento dello Stato solidale.
Senza dubbio, il dovere di pagare le tasse appartiene alla sfera dell’etica
civile e riflette il senso di appartenenza del singolo alla comunità, fondandosi sul
postulato che il bene personale ed il bene della comunità civile devono stare
insieme.
Ma tale precetto, sin dal Concilio Vaticano II°, è magna pars anche della
dottrina cattolica, secondo la quale «i diritti delle persone, delle famiglie e dei
gruppi e il loro esercizio devono essere riconosciuti, rispettati e promossi, non
meno dei doveri ai quali ogni cittadino è tenuto. Tra questi ultimi non sarà inutile
ricordare il dovere di apportare alla cosa pubblica le prestazioni, materiali e
personali, richieste dal bene comune» (Paolo VI, Costituzione pastorale «Gaudium
et spes», 1965, § 75).
Non è perciò accettabile che l’82 per cento del gettito IRPEF continui ad
essere assicurato dai lavoratori dipendenti e dai pensionati. E ciò, a fronte di un
lavoro autonomo, che fornisce alle casse pubbliche il 4,33 per cento del totale; di un
reddito da impresa, che fornisce il 3,76 per cento; di un reddito da partecipazione,
che fornisce il 4,37 per cento; di un reddito da altre fonti, che fornisce il 5,49 per
cento.
Così come non è possibile chiudere gli occhi su un’evasione fiscale
valutata in oltre 180 miliardi di euro nel 2013, da uno studio commissionato dal
gruppo socialista-democratico del Parlamento europeo, o comunque in un importo
variabile fra i 100 e i 120 miliardi, secondo le stime dell’ISTAT e della Banca
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d’Italia. Quando annualmente ne basterebbero all’incirca 13, per garantire un
reddito minimo all’intera popolazione italiana.
Né possono lasciarci indifferenti i così detti “paradisi fiscali”, dove nostri
concittadini hanno depositato enormi fortune, sottraendole non soltanto agli
obblighi contributivi, ma anche alla circolazione nel territorio italiano (si pensi al
noto caso della “lista Falciani”).
E’ vero: lo Stato sociale – come oggi lo conosciamo – pecca per inefficienze
e per sprechi.
Ma da ciò non può discendere, in via automatica, che il ruolo
dell’intervento pubblico sia completamente da rimuovere.
Certamente, taluni settori possono essere soppressi o privatizzati, al fine
di concentrare le (poche) risorse là dove esse servono maggiormente.
Ma – e voglio chiudere, richiamando le alte parole del magistero della
Chiesa (CEI, «Democrazia economica, sviluppo e bene comune», 1994) – tutto
questo deve avvenire, avendo ben presente che «il mercato non può assicurare una
distribuzione equa dei servizi sociali di base, caratteristici dello Stato sociale:
l’istruzione, la tutela della salute, la sicurezza sociale. Tanto meno, può garantire
una soddisfacente qualità».
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