X. BAMBINI IN ALLARME: PAURE E ANSIE
Quando si parla di ansia e di paura è importante chiarire subito che di per sé questi fenomeni non
costituiscono una patologia. Entrambi sono meccanismi naturali, fisiologici e psicologici, che si
attivano nell’organismo in risposta a sollecitazioni ambientali di pericolo. L’attivazione delle
risposte fisiologiche di ansia e paura - che comprendono tra l’altro la dilatazione pupillare,
l’incremento della frequenza cardiaca e respiratoria, l’afflusso di sangue ai distretti corporei
periferici – sono la risposta normale di un organismo che si prepara a mettere in atto risposte
comportamentali di difesa e protezione e quindi gli stati di timore o d’apprensione fanno parte del
normale sviluppo emotivo dell’individuo. La paura è una delle emozioni primarie ed è un’emozione
intensa che deriva dalla percezione di un pericolo, reale o supposto. La paura è spesso preceduta da
stupore: gli occhi e la bocca si spalancano, le sopracciglia si alzano. L’individuo spaventato sta
all’inizio immobile, il respiro si rompe, il sangue defluisce dalla superficie della pelle causando il
classico pallore, aumenta la secrezione di sudore, i peli si rizzano, e le ghiandole salivari
funzionano in modo imperfetto. La bocca diventa secca, la voce diventa rauca, le papille sono
enormemente dilatate, tutti i muscoli si irrigidiscono o si contraggono, le pulsazioni cardiache
accelerano. A tutto questo possono aggiungersi tremori, pianto, incontrollabilità della vescica. A
volte la paura può diventare così intensa da impedire ogni reazione. Proprio perché così comune e
nello stesso tempo così intensa,gli episodi fortemente connotati da un’esperienza di paura possono
facilmente lasciare tracce significative che fanno fatica a cancellarsi dalla mente e che, soprattutto,
possono influire sulla personalità e sullo sviluppo individuale non solo per il potere di inibire o
scatenare le azioni, ma anche per gli effetti che hanno nel modificare i processi di pensiero, l’
ideazione, la creatività. La persona spaventata tende a fissare la propria attenzione principalmente
sulle situazioni e sugli aspetti ansiogeni della realtà, ingigantendone la portata e, a volte,
distorcendo in parte la realtà.
Non tutte le paure sono dannose. La natura ci ha forniti della possibilità di interpretare una serie di
stimoli come segnali di pericolo e di reagirvi prontamente, riuscendo così ad orientare in modo
corretto l’ azione e a sottrarci al pericolo che ci minaccia. Sotto un profilo evolutivo-biologico la
paura ha una funzione positiva indispensabile alla sopravvivenza (Oliviero Ferraris, 1998). Lo
scopo principale della paura è quello di difenderci, Un bambino che non provasse emozioni,
disagevoli come la paura, sarebbe passivo, staccato dal mondo circostante, indifferente agli stimoli
e incapace di reagire. Avere paura invece serve a garantirci la sopravvivenza: in ambienti ostili le
paure permettono all’individuo di elaborare strategie di adattamento o di adeguamento. In fondo le
paure sono una specie di “allenamento psicologico” che ci preparano ad affrontare il pericolo,
basato sulle esperienze fatte di volta in volta. Le paure aumentano lo stato di vigilanza e quindi ci
spingono a muoverci con prudenza. Se quindi la paura ci può portare a compiere atti futili e non
adattivi che possono ledere l’integrità personale, è anche vero che un certo grado di ansia non è
pericoloso, perché eccita la curiosità e rende intraprendenti. La paura può avere, quindi, un duplice
effetto: salvarci dal pericolo, stimolarci, oppure bloccare le nostre capacità o impegnarci in attività
senza senso (Oliviero Ferraris 1998).
Le paure si manifestano in periodi relativamente prevedibili nel corso dell’infanzia, di solito nei
periodi di nuova e più intensa attività di apprendimento in cui aumentano i gradi di libertà e la
percezione della propria autonomia e indipendenza, inevitabilmente affiancate da una parziale
destabilizzazione. Le paure hanno anche la funzione di attivare l’energia necessaria per adattarsi a
tutte queste novità: mentre un bambino impara a gestire i suoi sensi di paura, impara anche come
controllarsi e come gestire la spinta verso nuovi apprendimenti. La scarica di adrenalina
nell’organismo che accompagna l’esperienza della paura costituisce una forma di adattamento
fisiologico che aiuta a controllare quanto sta avvenendo, se però il bambino è totalmente sopraffatto
dalle proprie reazioni di spavento, questo meccanismo naturale di apprendimento non funzionerà
adeguatamente (Brazelton, 2003).Gli adulti e le figure di attaccamento fungono solitamente da
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supporto per ridurre il livello di attivazione e far sì che lo stato di paura non venga avvertito come
pervasivo, troppo intenso, disorganizzante (vedi capitolo 2 sull’attaccamento). È importante quindi
che gli adulti siano sensibili agli stati di paura infantili e siano pronti a regolare con la loro presenza
lo stato del bambino.
Alcune paure sono insite nell’uomo sin dalla nascita. Nella prima infanzia le cose che fanno paura
sono per lo più la sensazione della perdita del supporto fisico, i rumori forti e improvvisi, l’altezza.
La paura di cadere, una paura innata, è ben evidente nel movimento dell’afferramento presente nel
neonato e noto come riflesso di Moro: quando un neonato viene scoperto o ha un soprassalto, o
quando viene improvvisamente allentata la presa con cui lo si tiene saldamente, le sue braccia si
estendono di scatto lateralmente, come a voler afferrare qualunque cosa o una persona vicina
(Panizon, 2005). Il grido di allarme che accompagna tale riflesso richiama l’attenzione dei genitori.
Già dalla nascita, il bambino è dotato della capacità di cercare aiuto per evitare di cadere o di non
essere ben sostenuto, grazie alla sua paura istintiva verso queste evenienze.Dall’età di quattro mesi
molti bambini reagiscono occasionalmente alla presenza di una persona estranea dapprima
immobilizzandosi in un atteggiamento guardingo e poi lamentandosi, un disagio che cresce nei mesi
successivi. Al tempo stesso, il sorriso indiscriminato con cui nei primi mesi di vita il bambino
accoglieva qualsiasi essere umano, scompare del tutto: il bambino continua a sorridere alle persone
familiari, ma cessa di sorridere a quelle che non conosce. E’ l’estraneità in sé la causa del
timore.Non soltanto le persone, ma anche gli oggetti e i luoghi sconosciuti possono impaurire i
bambini nella seconda metà del primo anno di vita. Un trasloco in questo arco di età può essere
disturbante e generare nel bambino, che ha perduto i suoi punti di riferimento, uno stato di
angoscia.All’età di sei mesi è evidente anche la paura dell’ abisso: i bambini, come molti animali,
tendono ad allontanarsi da un abisso, anche se non hanno mai fatto esperienze di caduta. Gibson
(Gibson, Walk, 1960) ha dimostrato, attraverso l’esperimento del visual cliff (precipizio visivo), che
un bambino, non ancora in grado di camminare, percepisce già la terza dimensione dello spazio,
cioè la profondità. Un precipizio visivo è semplicemente un grande cubo di legno alto circa un
metro da terra. Su metà della faccia superiore c’è una superficie piatta, ricoperta da una scacchiera
che serve a creare una buona impressione visiva di superficie. Sull’altra metà c’è un vetro
trasparente, attraverso il quale si vede che la superficie fa un salto verso il basso e continua un
metro più sotto. Durante l’esperimento, un bambino che ha appena cominciato a gattonare viene
posto sul lato opaco del cubo, mentre la mamma viene messa sul lato opposto, di fronte a lui, alla
fine della superficie del vetro. La mamma chiama il bambino, invitandolo a venire verso di lei. Il
bambino inizia a gattonare nella direzione della madre, ma arrivato al vetro si ferma, esita, tocca il
vetro, ma nella maggior parte dei casi si rifiuta di attraversarlo. Nel precipizio visivo viene creata
una situazione di conflitto fra l’ informazione tattile, che specifica la presenza di una superficie di
supporto, e quella visiva che specifica un precipizio pericoloso.A un anno di età invece i bambini
hanno imparato a usare l’espressione facciale delle emozioni come una fonte affidabile di
informazione sull’ambiente, ad esempio sulla pericolosità di una situazione: se la madre posta
all’altra estremità del visual cliff mostra un’espressione di gioia o interesse il bambino su avventura
sul precipizio, un volto preoccupato, spaventato o arrabbiato lo bloccaprima che cominci ad
attraversare. L’utilizzo delle informazioni sociali avviene soprattutto nelle situazioni ambigue: se il
bambino viene posto su una superficie che non mostra alcuna profondità attraversa lo spazio che lo
separa dal genitore anche se questo mostra un’espressione del volto negativa (Sorce, Emde,
Campos, 1985). Questo ci permette di capire quando sono importanti le interazioni tra genitore e
bambino relativamente alla possibilità che l’ambiente sia sicuro o pericoloso e quanto un genitore
sicuro o spaventato possa influire sulla percezione che il bambino avrà dell’ambiente e sul suo
modo di approcciarsi al mondo.Le reazioni di allarme presenti nel primo anno di vita tendono a
diminuire con l’esperienza e la crescita cognitiva. In generale, l’abitudine riduce notevolmente le
prime paure. Questo non vuol dire che la storia delle paure sia finita, perché altri sono i timori che
subentrano.
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Tra uno e due anni le paure più comuni sono gli sconosciuti, il farsi male, ma anche le normali
azioni abituali di pulizia – come fare il bagnetto o lasciarsi pulire l’interno delle orecchie - possono
fare paura. Tra i tre e i cinque anni gli animali sono tra le cose che fanno più paura, molto spesso i
cani, e poi le creature immaginarie, i mostri, i fantasmi, i vampiri, il restare da soli. A tre anni inizia
poi per molti bambini la grande paura del buio. L’animale può suscitare allarme per l’estraneità del
suo aspetto, ma ciò che di alcuni animali spaventa di più il bambino sono i rumori che possono
emettere all’improvviso o i movimenti rapidi con cui si avvicinano. Si può affermare quindi che la
paura degli animali risponde ad alcuni innatismi e rientra nella più vasta paura dell’ignoto, può
tuttavia essere rinforzata dall’ambiente e dall’apprendimento. La paura del buio è considerata dagli
etologi una paura innata che fa la sua comparsa con la maturazione del sistema nervoso. Essa è
presente anche in altri animali e filogeneticamente è legata al timore di poter essere più facilmente
vittime degli agguati dei predatori. In fondo il buio non ci spaventa di per sé, ma per quello che può
comportare, per le oscure cose nascoste tra le sue ombre .... Quando non c’è luce infatti diminuisce
drasticamente la possibilità di orientarsi, la percezione diventa incerta: la vista dell’uomo è in
generale meno acuta di quella di molti altri mammiferi e l’assenza di luce e di riferimenti percettivi
alimenta facilmente l’attività della fantasia che mescola realtà e immaginazione. Gli animali
compaiono fin dai primi sogni e spesso hanno un atteggiamento minaccioso, inducono paura, ansia,
a volte terrore e a volte minacciano o mangiano il sognatore. Gli aggressori che spaventano nei
sogni sono anche vampiri, lupi mannari, streghe, fantasmi, alieni o i “cattivi” di film e cartoni
animati (Strepparava, 2004). Nelle paure infantili l’aspetto rilevante non è tanto e non solo di che
cosa abbia paura un bambino, ma se quel tipo di paura sia in qualche modo è coerente con la sua età
oppure no.
Con l’inizio della scuola trai sei i nove anni, le paure continuano spesso a coinvolgere gli animali,
estendendosi anche quelli piccoli come insetti e aracnidi; iniziano a fare paura gli eventi naturali,
come il terremoto, i lampi e i tuoni, ma anche la mancanza di senso di sicurezza personale, e
compare la grande paura della morte. Tra le attività quotidiane anche la scuola può essere oggetto di
paure, soprattutto all’inizio del periodo scolastico. Dai nove anni fin verso i dodici la paura degli
esami o la preoccupazione per la propria salute. Dai tredici anni in poi la paura per la propria salute
può restare una fonte di paura, ma le paure principali interessano le interazioni sociali e il proprio
comportamento o possono interessare il mondo esterno, riflettendo così il processo maturativo del
pre-adolescente e riguardare anche l’economia e le catastrofi mondiali. Nel corso della scuola
primaria la paura di ammalarsi, di venire rimproverati, del buio e dei grandi animali prima frequenti
tendono a diminuire nelle bambine, nei maschietti il cambiamento più significativo riguarda la
paura di farsi male, dei rimproveri, del buio e degli sconosciuti prima rilevanti si riducono, cresce
per tutti la paura legata alla prestazione (Beidel, Alfano, 2011). Tra i quattro e i sei anni il 71% dei
bambini ha delle paure o ha incubi notturni 67%, la percentuale sale a ben l’87% e 95%
rispettivamente intorno ai nove anni per poi scendere verso gli 11 intorno al 70% (Muris,
Merckelbach, Gadet et al. 2000). La fascia di età più delicata quindi per l’emergere di
preoccupazioni e ansia sembra essere quella dei bambini tra la seconda e la quarta classe della
scuola primaria. Le paure dei bambini evolvono quindi da una dimensione che, pur partendo dalla
realtà, si lega a cose e situazioni immaginarie o a trasformazioni della realtà stessa,per diventare poi
paure più strettamente legate asituazioni sociali e relazionali concrete. Nei bambini con ritardo
mentale la sequenza di sviluppo delle paure è la stessa, ovviamente con una dilazione nel tempo
coerente con il livello di sviluppo e l’età mentale del bambino, non con la sua età cronologica. È
importante per chi – insegnate di sostegno o educatore – lavora con questi bambini tenerne
adeguatamente conto.
Di norma accade che le paure infantili, pur presentandosi a volte anche in forma molto
intensa,spariscano abbastanza velocemente: dopo il trasferimento in una nuova città ci può essere la
paura di andare nella nuova scuola, di perdersi nei paraggi, delle persone che si incontrano; dopo la
visione di un film dell’orrore può permanere per un certo tempo la paura per i personaggi e le
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situazioni visti nel film, soprattutto al momento di andare a letto, che è uno dei momenti quotidiani
di separazione, ma di solito passano abbastanza in fretta In altre situazioni però le paure dei bambini
possono interferire in modo importante con il funzionamento sociale e individuale ed è necessario
valutare adeguatamente se e quando sia necessario valutare l’ipotesi dell’intervento di un
professionista. Spesso per i genitori, così come per gli insegnanti della scuola dell’infanzia e della
scuola primaria, un primo punto è proprio questo: riuscire a capire quando la paura è normale e
quando invece è un segnale di difficoltà che non può e non deve essere ignorato perché può essere
l’indicatore di un problema. Alcune domande chiave possono aiutarci a valutare se una paura
infantile debba essere considerata un problema (Beidel, Alfano, 2011, p. 18):
a. la paura che il bambino mostra è proporzionata alla difficoltà della situazione? Avere paura di
un compito in classe è normale, non lo è più se la paura impedisce al bambino di studiare o di
affrontare ripetutamente la situazione critica
b. può essere eliminata attraverso le spiegazioni e il ragionamento? Un bambino può avere
perfettamente capito cognitivamente che non è possibile che ci sia un’ombra minacciosa e assassina
sotto il suo letto, ma continuare a non riuscire a dormire da solo nella propria stanza
c. la possibilità di regolare la paura è completamente al di fuori del controllo volontario del
bambino? Il bambino riesce o non riesce a bloccare i pensieri di paura o i segnali dell’ansia, cuore
che batte, senso di debolezza, respiro affannoso
d. la paura permane immutata per un periodo di tempo relativamente lungo? Molte paure infantili
spariscono nel giro di poche settimane o qualche mese, una paura che dura per più di sei mesi
richiede quanto meno una riflessione e un intervento.
e. la paura porta il bambino a evitare delle situazioni che invece dovrebbe affrontare?
f. è adattativa o disadattativa? Nel senso che sta bloccando il bambino in attività che invece
dovrebbero fare parte del suo normale percorso evolutivo
g. è coerente con l’età anagrafica del bambino? avere paura del buio a quattro anni è parte del
normale percorso evolutivo, a nove non più
h. la paura interferisce con il funzionamento scolastico, relazionale e sociale del bambino? è forse
l’aspetto più complesso da valutare, perché non sempre i legami sono ovvi. Un’elevata ansia può
avere come conseguenza una bassa autostima, una riduzione della competenza e delle abilità sociali,
generare isolamento, solitudine e in alcuni casi anche stati depressivi (Beidel, Turner, Morris,
1999). A volte i bambini ansiosi faticano ad addormentarsi con conseguenze negative sulle loro
prestazioni durante il giorno.
Quando una situazione di paura non è proporzionata alla situazione, non può essere eliminata con le
spiegazioni e il ragionamento, è completamente al di fuori del controllo volontario, dura per un
tempo lungo, induce evitamento, è disadattativa, non è coerente con l’età anagrafica, interferisce
con la vita scolastica e relazionale è necessario intervenire.
Il discorso fatto sopra vale in ugual misura per gli stati d’ansia, una forma di malessere che, a
differenza della paura, non è legato a fatti o fattori specifici, si attiva in condizioni che non lo
giustificano, in assenza di reale pericolo, in modo esclusivamente anticipatorio, automatico e
indipendente dalle circostanze. Quando l’apprensione non è normale reazione al processo di
adattamento è segnale di un malessere più profondo. In realtà è solo in tempi relativamente recenti
che si è iniziato a prendere sul serio le paure e soprattutto gli stati d’ansia nei bambini: fino agli
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anni settanta l’idea prevalente era che ansie e paure infantili fossero una condizione transitoria o un
disturbo reattivo a fatti reali, solo trent’anni fa- con la pubblicazione del DSM III R - i disturbi
d’ansia sono stati diagnosticati come dei veri e propri disturbi anche per l’età evolutiva.
Abbiamo visto nel capitolo xx come il DSM sia il riferimento principale per l’identificazione e la
classificazione della sofferenza negli adulti e nei bambini, ma abbiamo anche visto come spesso ci
possa fare perdere aspetti importanti e significativi dell’esperienza di malattia. Questo è
particolarmente chiaro nel caso dei disturbi d’ansia. Le varie forme di disturbo d’ansia (vedi box)
sono raccolte sotto uno stesso ombrello generale, accomunate dal fatto che le persone sperimentano
appunto stati d’ansia più o meno intensi e pervasivi. In questo modo però vanno completamente
perdute le qualità specifiche di ciascuna manifestazione: le caratteristiche tipiche dell’ansia sociale,
che ha spesso alla sua base una forma esasperata di paura del giudizio, sfuggono nel momento in
cui questa forma di ansia viene trattata in modo equivalente all’ansia che accompagna le fobie
semplici o gli stati ansiosi associati ai disturbi ossessivo-compulsivi, che però da un punto di vista
esplicativo sono assai diversi dai disturbi d’ansia. Il quadro dei disturbi d’ansia presentata nel DSM
è ampia e variegata, ma solo alcuni di essi sono facilmente osservabili nell’infanzia e comuni nei
bambini che frequentano la scuola dell’infanzia e la scuola primaria e verranno presentati in
dettaglio. I casi che più facilmente gli insegnanti possono incontrare sono le situazioni di ansia da
separazione, ansia generalizzata, varie forme di fobie specifiche, tra cui la paura di andare a scuola
(o fobia scolastica), nei bambini più grandi forme più o meno marcate di fobia sociale, quelli che di
solito chiamiamo i bambini timidi. Alcuni bambini possono presentare veri e propri attacchi di
panico – con sintomatologie affini, ma non del tutto sovrapponibili a quelle degli adulti – e in casi
più rari, ma anche più frequenti di quel che si potrebbe pensare delle vere e proprie forme di
disturbo post-traumatico da stress
(inizio box)
Disturbo di Panico Senza Agorafobia è caratterizzato da ricorrenti Attacchi di Panico inaspettati,
riguardo ai quali vi è una preoccupazione persistente. Il Disturbo di Panico Con Agorafobia è
caratterizzato sia da ricorrenti Attacchi di Panico inaspettati che da Agorafobia.
Agorafobia Senza Anamnesi di Disturbo di Panico è caratterizzata dalla presenza di Agorafobia e di
sintomi tipo panico senza anamnesi di Attacchi di Panico inaspettati.
Fobia Specifica è caratterizzata da un’ansia clinicamente significativa provocata dall’esposizione a
un oggetto o a una situazione temuti, che spesso determina condotte di evitamento.
Fobia Sociale è caratterizzata da un’ansia clinicamente significativa provocata dall’esposizione a
certi tipi di situazioni o di prestazioni sociali, che spesso determina condotte di evitamento.
Disturbo Ossessivo-Compulsivo è caratterizzato da ossessioni (che causano ansia o disagio marcati)
e/o compulsioni (che servono a neutralizzare l’ansia).
Disturbo Post-traumatico da Stress è caratterizzato dal rivivere un evento estremamente traumatico
accompagnato da sintomi di aumento dell’arousal e da evitamento di stimoli associati al trauma.
Disturbo Acuto da Stress è caratterizzato da sintomi simili a quelli del Disturbo Post-traumatico da
Stress che si verificano immediatamente a seguito di un evento estremamente traumatico.
Disturbo d’Ansia Generalizzato è caratterizzato da almeno 6 mesi di ansia e preoccupazione
persistenti ed eccessive.
Disturbo d’Ansia Dovuto ad una Condizione Medica Generale è caratterizzato da sintomi rilevanti
di ansia ritenuti conseguenza fisiologica diretta di una condizione medica generale.
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Disturbo d’Ansia Indotto da Sostanze è caratterizzato da sintomi rilevanti di ansia ritenuti
conseguenza fisiologica diretta di una droga di abuso, di un farmaco o dell’esposizione ad una
tossina.
Disturbo d’Ansia Non Altrimenti Specificato viene incluso per la codificazione di disturbi con ansia
o evitamento fobico rilevanti che non soddisfano i criteri per nessun specifico Disturbo d’Ansia
definito in questa sezione (o sintomi di ansia a proposito dei quali sono disponibili informazioni
inadeguate o contraddittorie).
Disturbo d’Ansia di Separazione (caratterizzato da ansia legata alla separazione dalle figure
genitoriali) incluso fra i Disturbi Solitamente Diagnosticati per la Prima Volta nell’Infanzia, nella
Fanciullezza o nell’Adolescenza e non fra i disturbi d’ansia.
(fine box)
X.x IL MECCANISMO DELL’ANSIA
Nell’ambito della clinica dei disturbi d’ansia il modello tripartito di Lang (1968) costituisce ancora
un buon punto di partenza anche per la comprensione di quello che accade ai bambini. Il
meccanismo dell’ansia è spiegato facendo riferimento a tre componenti: le modificazioni
somatiche/risposte fisiologiche, lo stato di sofferenza interno/pensieri legati all’ansia e le risposte
comportamentali.
Aspetti somatici: I sintomi fisici che le persone descrivono come caratteristici dei momenti e degli
stati di ansia sono la fatica di respirare, il senso di svenimento, la sensazione della bocca secca,
debolezza alle gambe o un generico senso di debolezza o di svenimento. I bambini di solito
descrivono il senso delle farfalle nello stomaco, le mani sudate e il male alla testa. Anche i bambini
senza un disturbo d’ansia descrivono svariati sintomi fisici legati alla paura (Beidel, Christ, Long,
1991), ma i bambini ansiosi sono molto più attenti al loro stato fisico e alle modificazioni che
avvertono nel loro corpo e che tendono a descrivere in molto più preciso e dettagliato degli altri,
compresa la sensazione di ondate di caldo e freddo, paura di svenire e sentirsi come morire. In
questi bambini c’è decisamente una maggiore sensibilità e consapevolezza dei propri stati corporei,
non di tutti però, ma solamente di quelli che sono connessi all’attivazione/disattivazione del proprio
corpo, paura/non paura, forza/fragilità, energia/debolezza, non per tutti uguale però: i bambini con
un disturbo di ansia da separazione o attacchi di panico tendono ad avere una maggior sensibilità
agli stati corporei a descrivere un maggior quantità di sintomi fisicirispetto ai bambini con fobie
specifiche (Last, 1991). Non è chiaro se ci siano delle differenze nella sensibilità ai segnali fisici tra
maschi e femmine perché le ricerche riportano dati contrastanti: alcuni non rilevano differenze
(Ginsburg, Riddle, Davies, 2006) secondo altri le bambine sono più attente, sensibili e riescono a
discriminare meglio i loro stati fisici (Storch, Murphy, Lack, et al., 2008). Vi è però accordo
generale sul fatto che la sensibilità ai segnali corporei e agli stati di disagio fisico siano direttamente
proporzionali al livello di gravità del disturbo d’ansia (Ginsburg, Riddle, Davies, 2006; Storch,
Murphy, Lack et al., 2008). L’incremento della frequenza cardiaca è uno dei segnali più marcati
dell’ansia e della paura, presente anche negli animali - come nelle scimmie rhesus studiate da
Suomi (1986) – fin dai primi mesi di vita: davanti al precipizio visivo (Schwartz, Campos, Baisel,
1973) o in presenza di uno sconosciuto (Campos, Emde, Gaenbauer et al. 1975) il cuore dei
bambini batte più velocemente, così come negli adulti in situazioni di pericolo o di stress. Dalle
ricerche fatte su questo meccanismo fisiologo è emerso un criterio relativamente semplice per
capire se e quando la risposta di allarme o di ansia è adattativa o indicatore di un non adattamento:
nelle persone non ansiose dopo l’incremento iniziale, la frequenza cardiaca si riduce, probabilmente
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per l’intervento di un meccanismo di abituazione allo stimolo, negli individui ansiosi, al contrario,
la frequenza cardiaca resta elevata per tutta la durata dell’esperienza (Beidel, Alfano, 2011 p. 25)
Aspetti cognitivi. L’intervento sui disturbi d’ansia con gli adulti - secondo il modello cognitivista
classico – prevede un lavoro di riconoscimento e modificazione dei pensieri disfunzionali e delle
distorsioni cognitive che costituirebbero l’elemento essenziale di origine e di mantenimento della
patologia. È abbastanza naturale quindi che anche le ansie infantili siano state affrontate a partire da
questo punto di vista cercando di vedere se e quanto anche nei bambini avessero un ruolo
importante i pensieri disfunzionali e le distorsioni cognitive, cioè che l’ansia fosse il risultato diretto
di un pensare sbagliato sulla realtà. La teoria cognitiva di Kendall (1985) ha fornito a molti
ricercatori di impostazione cognitivista un buon modello per affrontare il tema dei pensieri
disfunzionali nei bambini. Secondo Kendall le manifestazioni patologiche dell’ansia dipendono
dall’iperattivazione di schemi organizzati intorno ai temi della vulnerabilità e del pericolo. Questo
implica che in ogni situazione l’individuo sarà selettivamente attento alle informazioni relative alla
sua sicurezza o pericolo che si tradurranno in pensieri disfunzionali e distorti su ciò che sta
avvenendo e genereranno comportamenti inadeguati. Altri ricercatori hanno poi sottolineato il ruolo
che hanno nella genesi e mantenimento dei disturbi non solo le elaborazioni cognitive coscienti (i
pensieri che siamo consapevoli di avere in mente), ma anche i processi più automatici e non
consapevoli di elaborazione delle informazioni, come ad esempio i processi attenzionali (Crick,
Dodge 1994). Dal punto di vista della ricerca su questi fenomeni è stato necessario integrare le
classiche misure autodescrittive – come i questionari o le interviste – con misure della prestazione,
facendo svolgere i soggetti dei compiti sperimentalicosì da poter valutare come si attivano i
processi automatici (Harvey, Watkins, Mansell, et al. 2004; Williams, Watts, MacLeod, et al.,
1997). Sempre nel modello di Kendall l’attivazione costante nella mente dei bambini ansiosi di
schemi che hanno a che fare con i temi della schemi vulnerabilità-pericolo li porta a orientare
costantemente la loro attenzione prevalentemente sugli stimoli minacciosi (attenzione selettiva), a
richiamare in modo selettivo i ricordi che sono congruenti con lo stato emotivo di paura e ansia, a
interpretare gli stimoli ambigui come minacciosi, classificando la maggior parte delle situazioni
come pericolose. Spendiamo due parole sul meccanismo dell’attenzione selettiva. In qualsiasi
momento la nostra mente raccoglie ed elabora l’insieme complesso delle stimolazioni che arrivano,
in un processo circolare che integra i dati sensoriali, da quelli percettivi a quelli cenestesici, con i
processi attenzionali e di interpretazione. Normalmente noi prestiamo selettivamente attenzione
solo a parte di ciò che accade intorno e dentro di noi e lasciamo sullo sfondo il resto. Se sto
aspettando un amico cinese all’uscita della metropolitana all’ora di punta la mia attenzione selettiva
sarà focalizzata sugli aspetti distintivi del mio amico – occhi a mandorla, capelli scuri lisci, pelle
chiara – e osserverò nella folla che emerge dalla scala più a lungo gli individui con quelle
caratteristiche. Lo stesso meccanismo si applica ai pensieri e ai ricordi: se mi capita di fare brutta
figuradurante una cena importante, ripensando nei giorni seguenti a quanto è successo mi
ritorneranno in mente altre brutte figure simili e farò fatica a ricordare le situazioni in cui tutto è
invece andato bene e al momento di dover prendere parte ad un’altra cena importante saranno questi
ricordi connotati da emozioni negative che mi torneranno alla mente. Anche nei bambini ansiosi c’è
un accesso selettivo ad alcune categorie di ricordi (Muris, Field, 2008). Se è piuttosto semplice
studiare i processi consapevoli con compiti di auto descrizione è un po’ più complicato studiare i
processi automatici che vengono misurati con i tempi di reazione, vale a dire osservando quanto
velocemente o lentamente la persona risponde – di solito premendo un pulsante – quando vede (o
sente) alcuni tipi di stimoli (Harvey, Watkins, Mansell, et al.,2004). Gli strumenti di autodescrizion
maggiormente usati per la valutazione dei pensieri automatici nei bambini sono il Children’s
Automatic Thoughts Scale per la valutazione dei pensieri automatici negativi (Schniering, Rapee,
2002) o il Children’s Negative Cognitive Error Questionnaire (Leitenberg, Yost, Carroll-Wilson,
1986) per la valutazione di alcune distorsioni cognitive come la catastrofizzazione. Si definisce
catastrofizzazione una tendenza del pensiero ad immaginare per prima cosa ed in modo pervasivo
solo o prevalentemente conseguenze drammatiche e catastrofiche al verificarsi di un evento, anche
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relativamente normale: se un individuo ansioso deve restare da solo all’aeroporto di Alghero ad
aspettare di venire imbarcato i pensieri che farà potrebbero essere i seguenti: sicuramente non mi
accorgerò che mi stanno chiamando, mi perderò tra le sale, qualche sconosciuto mi importunerà, mi
ruberà la borsa, mi farà del male e nessuno mi potrà aiutare. L’ovvio risultato è uno stato di marcata
ansia. Per una persona non ansiosa restare sola all’aeroporto può essere invece un fantastico
momento di libertà, in cui vagabondare tra i negozi, magari comperarsi un regalino, avere tempo
per leggere il libro che ha portato con sè, poter chiacchierare con qualche persona nuova.
Attenzione selettiva.Abbiamo menzionato sopra l’attenzione selettiva, vediamo un po’ meglio in che
modo entra in gioco nei disturbi d’ansia. L’attenzione selettiva indica la tendenza a essere
eccessivamente attenti a oggetti, persone, situazioni o anche stati fisici che possono essere
potenzialmente minacciosi e pericolosi (MacLeod, Mathews, Tata, 1986; Mogg, Bradley, 1998).
Una tecnica sperimentale usata per verificare la presenza di forme di attenzione selettiva è una
versione dello Stroop Task. Lo Stroop Taskè una prova sperimentale in cui si chiede alle persone di
indicare il nome del colore in cui è scritta una parola che compare su uno schermo, ignorando il
significato della parola stessa. Se vedo la parola “giallo” scritta in rosso dovrò premere il pulsante
che corrisponde al rosso o dire “rosso”. In questo tipo di esperimenti si possono usare diverse
categorie di parole. Se il significato di una parola è per qualche motivo importante per il soggetto o
se gli genera un’emozione negativa il tempo necessario per rispondere sarà maggiore di quello
necessario per rispondere quando il significato della parola è per lui neutro. Negli studi condotti con
questo metodo sui soggetti ansiosi o fobici adulti si è potuto osservare che il tempo necessario per
dire il nome del colore delle parole che hanno un riferimento significativo alla paura è molto
maggiore rispetto al tempo necessario per dire il nome del colore di parole neutre. Il fenomeno è
stato spiegato facendo riferimento al fatto che i soggetti fobici dirigono automaticamente la loro
attenzione sul contenuto delle parole e questo interferisce con il processo di dirne il colore
(Watts,McKenna, Sharrock, et al., 1986). Un altro paradigma sperimentale usato per misurare
l’attenzione selettiva è il dot-probe-task; in questo caso due stimoli (parole o immagini) vengono
presentate su uno schermo: una è emotivamente neutra, l’altra ha invece una valenza emotiva forte
e collegata agli aspetti psicologici che si stanno studiando. Appena gli stimoli scompaiono dallo
schermo compare un piccolo segnale in corrispondenza della posizione di uno o dell’altro. Quanto
maggiore è tempo che è necessario alla persona per identificare la posizione del segnale, tanto
maggiore è l’attenzione che aveva dedicato allo stimolo nell’altra posizione. Negli studi sui disturbi
d’ansia le parole emotivamente cariche utilizzate sono collegate alla paura o alla minaccia, il
segnale può comparire in corrispondenza alla posizione della parola legata al pericolo, oppure
nell’altra posizione. Tanto più velocemente chi svolge la prova identifica un segnale nella stessa
posizione della parola-stimolo legata al pericolo, tanto maggiore è l’attenzione selettiva di quella
persona agli stimoli di minaccia (Vasey, MacLeod, 2001). Nei bambini con un disturbo d’ansia
studiati in più ricerche con questa procedura è stata osservata una marcata attenzione selettiva a
stimoli connotati come minacciosi (Bar-Haim, Lamy, Pergamin, et al., 2007), tuttavia i risultati non
sono omogenei, anche perché è probabile che stroop-test e dot-probe-test operino coinvolgendo
processi cognitivi differenti (Dalgleish, Taghavi, Neshat-Doost, et al., 2003; p. 19).
Interpretazione. Nei soggetti ansiosi è stata individuata la tendenza ad associare la percezione di
una potenziale minaccia a stimoli ambigui o neutri; viene di solito misurata contando il numero di
volte in cui la persona preferisce un’interpretazione negativa di una situazione o valutando quante
informazioni sono necessarie ad una persona prima di stabilire che una situazione è potenzialmente
pericolosa (Muris, Field, 2008). Ad esempio adolescenti ansiosi tendono a sovrastimare la
probabilità che un evento sociale di segno negativo si verifichi e il suo impatto negativo molto più
della loro controparte senza problemi di ansia (Rheingold, Herbert, Franklin, 2003). La valutazione
della probabilità del verificarsi di un evento negativo, pericoloso o minaccioso non dipende solo
dalle informazioni che si possono trarre dall’ambiente, i soggetti ansiosi tendono a utilizzare in
modo significativo anche i propri stati fisici e le proprie sensazioni interne come indicatori di
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pericolo. Ad esempio uno stato di elevata attivazione interna, per esempio l’eccitazione, che è uno
stato relativamente intenso di attivazione che semplicemente ci mette in una condizione di maggiore
reattività e che può essere tranquillamente legato a fatti e eventi piacevoli e belli, viene
immediatamente etichettato ai soggetti ansiosi come ansia, con una automatica connotazione
negativa.Va notato che le ricerche più recenti sembrano indicare che questi meccanismi sono del
tutto indipendenti dalla cultura (Lu, Daleiden, Lu, 2007).
Memoria selettiva. Nella valutazione dei disturbi d’ansia gioca un ruolo importante capire cosa il
bambino ansioso pensa di sé e delle situazioni in cui si trova. Spesso questi bambini raccontano che
quando sono in una situazione di difficoltà sono così pervasi dalle emozioni negative da sentirsi
incapaci di pensare, tanto che quando si chiede loro di provare a dire quello che pensano tendono a
descrivere stati emotivi e non i pensieri (Alfano, Beidel, Turner, 2006). La capacità di descrivere i
propri pensieri è legata allo sviluppo delle competenze meta cognitive che rendono possibile la
consapevolezza dei propri meccanismi di pensiero e che rendono quindi applicabili gli interventi
cognitivi che si basano sull’insegnare al bambino ad autoregolare i propri stati emotivi attraverso
una regolazione dei propri pensieri solo a partire dai sei-sette anni, quando cioè il piccolo riesce a
comprendere il concetto di “discorso interno” come una forma di attività mentale (Flavell, Flavell,
Green 2001). Il pensiero catastrofico è una delle forme in cui si possono presentare questi pensieri
disfunzionali legati all’ansia. Di solito nei bambini con una fobia specifica preoccupazioni e
pensieri catastrofici ruotano tutti intorno all’oggetto o alla situazione temuta e prendono la forma di
ansia anticipatoria, che cioè si presenta prima di sperimentare realmente la situazione di cui si ha
paura. Le paure e i pensieri possono essere di vario genere, tutti comunque, nel caso delle fobie
specifiche, sono legati a ciò che fa paura. Diverso è il caso del disturbo d’ansia generalizzato o
dell’ansia da separazionein cui le paure sono meno definite, a volte proiettate sul futuro, come
vedremo più avanti. Non ci sono molti lavori sperimentali su questo tipo di pensieri ansiosi nei
bambini, a parte un interessante ricerca di Last, Hersen Kazdin et al. (1991) da cui è emerso che non
c’è differenza nei contenuti delle preoccupazioni tra bambini con diversi tipi di disturbi (disturbi
d’ansia, deficit d’attenzione e iperattività e controlli), ma solo nella quantità e frequenza dei
pensieri, significativamente più elevata nei bambini con disturbi d’ansia.
Aspetti comportamentali. Quando si ha a che fare con bambini ansiosi la parte forse più semplice da
osservare sono i comportamenti legati all’ansia e gli indicatori comportamentali della paura.
L’indicatore principe in questo caso è il comportamento di evitamento, vale a dire la tendenza a non
esporsi alle situazioni temute. In alcuni bambini è anche possibile osservare diversi tipi di rituali
messi in atto come rassicurazione e per fronteggiare la paura.
Proviamo a vedere adesso più in dettaglio alcuni dei disturbi d’ansia che più comunemente si
trovano in età evolutiva, per ciascuno abbiamo cercato di dare sia un inquadramento che tenga
conto delle cause e delle manifestazioni, i principali elementi su cui si può intervenire in terapia –
che spesso però sono anche buoni suggerimenti per chiunque abbia a che fare con questi bambini - e
alcuni suggerimenti specifici per insegnanti ed educatori.
X.X DISTURBO D’ANSIA DA SEPARAZIONE
(inizio box)
Il DSM-IV-T-R definisce così i criteri per la diagnosi di Disturbo d'Ansia di Separazione (p. 142143):
A. Ansia inappropriata rispetto al livello di sviluppo ed eccessiva che riguarda la separazione da
casa o da coloro a cui il soggetto è attaccato, come evidenziato da tre (o più) dei seguenti elementi:
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1. malessere eccessivo ricorrente quando avviene la separazione da casa o dai principali personaggi
di attaccamento o quando essa è anticipata col pensiero;
2. persistente ed eccessiva preoccupazione riguardo alla perdita dei principali personaggi di
attaccamento, o alla possibilità che accada loro qualche cosa di dannoso;
3. persistente ed eccessiva preoccupazione riguardo al fatto che un evento spiacevole e imprevisto
comporti separazione dai principali personaggi di attaccamento (per es., essere smarrito o essere
rapito);
4. persistente riluttanza o rifiuto di andare a scuola o altrove per la paura della separazione;
5. persistente ed eccessiva paura o riluttanza a stare solo o senza i principali personaggi di
attaccamento a casa, oppure senza adulti significativi in altri ambienti;
6. persistente riluttanza o rifiuto di andare a dormire senza avere vicino uno dei personaggi
principali di attaccamento o di dormire fuori casa;
7. ripetuti incubi sul tema della separazione;
8. ripetute lamentele di sintomi fisici (per es., mal di testa, dolori di stomaco, nausea o vomito)
quando avviene od è anticipata col pensiero la separazione dai principali personaggi di
attaccamento.
B. La durata dell'anomalia è di almeno 4 settimane.
C. L'esordio è prima dei 18 anni.
D. L'anomalia causa disagio clinicamente significativo o compromissione dell'area sociale,
scolastica, o di altre importanti aree del funzionamento.
E. L'anomalia non si manifesta esclusivamente durante il decorso di un Disturbo Generalizzato
dello Sviluppo, di Schizofrenia, o di un altro Disturbo Psicotico e, negli adolescenti e negli adulti,
non è meglio attribuibile ad un Disturbo di Panico Con Agorafobia.
Esordio Precoce: se l'esordio avviene prima dei 6 anni di età.
(fine box)
Caratteristiche diagnostiche
La manifestazione fondamentale del Disturbo d’Ansia di Separazione è un’ansia eccessiva
riguardante la separazione da casa o da coloro a cui il soggetto è attaccato, eccessiva rispetto a
quanto ci si aspetta in base al livello di sviluppo del bambino, anche se è più frequente nella fascia
deicinque-sette anni, si può presentare a qualsiasi età, anche nella prima adolescenza. La
manifestazione principale dei bambini che soffrono di ansia da separazione è l’intensa difficoltà e
malessere che avvertono nei momenti in cui devono separarsi da una delle loro figure di
attaccamento, solitamente la mamma o, più raramente, il papà o altre figure significative. La
sofferenza che manifestano è molto intensa sia prima che ci sia il reciproco allontanamento, che
durante il momento in cui l’adulto si allontana – o il bambino quando deve entrare a scuola o fare
qualche cosa da solo – che nelle ore successive alla separazione. Nei periodi di lontananza hanno
bisogno di sapere spesso dove sia la persona a cui vogliono bene e di stare in contatto il più
possibile continuo con lei, ad esempio con telefonate frequenti. Sentono e segnalano molto la loro
nostalgia. Spesso nelle occasioni di separazione compaiono sintomi somatici importanti, quali mal
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di stomaco, nausea, vomito, cefalea, che compaiono anche quando il bambino semplicemente si
limita a pensare che ci sarà un momento di separazione. A volte i bambini possono dire qualche
piccola bugia per poter tornare a casa prima, in altri casi sembrano distratti nei giochi o quando si
parla con loro perché stanno pensando a quando potranno rientrare a casa o a quando la persona che
si è allontanata finalmente tornerà. A volte capita che dicano esplicitamente a chi è in quel
momento con loro la paura che hanno a restare da soli senza la mamma, il papà, i nonni o altre
figure significative.
Ci sono due tipi di paure che angustiano questi bambini: da un lato c’è la paura, non realistica e
ingiustificata, che possa accadere qualche cosa di grave e brutto all’adulto che è lontano – che abbia
un incidente, che muoia, che non riesca più a tornare a casa a causa di qualche oscuro pericolo od
ostacolo; l’altro tipo di preoccupazione è che sia a loro stessi che capita qualche cosa di brutto –
perdersi, non trovare più modo di tornare a casa, venire abbandonati – e che li terrà separati da
coloro che amano. Quando, per qualsiasi motivo, si trovano a viaggiare da soli, lontano da casa o da
zone che sono loro familiari e che conoscono, si sentono molto a disagio, al punto di evitare
assolutamente di muoversi per conto proprio: possono essere riluttanti all’idea di andare a scuola o
al campeggio, di far visita o di dormire a casa di amici, o di andare a fare commissioni, o possono
rifiutarsi di farlo. A volte sembrano non riuscire a stare in camera da soli, e possono mostrare un
comportamento “appiccicoso”, stando vicini e facendo da “ombra” ad un genitore per casa o
chiedendo che qualcuno sia con loro quando si recano in un’altra stanza della casa.
I bambini con questo disturbo spesso hanno difficoltà all’ora di andare a letto e possono insistere
perché qualcuno stia con loro finché non si addormentano. In molti casi i genitori, per evitare troppe
difficoltà, accettano che il bambino dorma con loro fino a un età molto oltre quella comunemente
riconosciuta come adeguata a stare nella stanza del papà e della mamma. A volte in queste famiglie
il desiderio del figlio di dormire con la mamma è funzionale ad una difficoltà dei genitori, che
fanno fatica ad avere (o ritrovare) la loro intimità di coppia. Il bambino che riesce ad iniziare la
notte dormendo nel suo letto, poi spesso durante la notte si fa strada a tentoni fino al letto dei
genitori (o a quello di un’altra persona significativa, come un fratello) e lì conclude il suo sonno. In
alcuni casi, quando la porta della stanza dei genitori viene chiusa a chiave, possono anche arrivare
ad addormentarsi fuori dalla loro porta. È facile che le paure del bambino compaiano nei sogni in
forma di incubi: la distruzione della famiglia, un incendio, un omicidio, o un’altra catastrofe. I
bimbi più grandi in alcuni casi descrivono sintomi quali palpitazioni, vertigini, e sensazioni di
svenimento. Quando sono soli specie la sera, i bambini piccoli possono riferire esperienze
percettive insolite (per es., vedere persone che fanno capolino nella loro stanza, creature spaventose,
sentire occhi che li guardano).
Ci sono tante paure che accompagnano le problematiche della separazione dai genitori, anche non
direttamente legate a questa: paura degli animali, dei mostri, del buio, dei rapinatori, dei ladri, dei
rapimenti, degli incidenti automobilistici, dei viaggi aerei, e di altre situazioni che sono percepite
come pericolose per l’integrità della famiglia o di se stessi, ma anche preoccupazioni sulla morte e
sul poter morire. Quando la separazione viene forzata ci sono due tipi di reazioni: rabbia o
aggressività diretta anche verso chi sta forzando la separazione, oppure una forma di tristezza,
difficoltà a concentrarsi nel lavoro o nel gioco, apatia, ritiro sociale, qualche volta rifiuto della
scuola.
Non sono bambini facili: anche se sono descritti come insolitamente coscienziosi, compiacenti, e
desiderosi di piacere, viene poi sottolineato come faticoso il loro bisogno di attenzione costante che
li fa descrivere spesso dai genitori come eccessivamente richiedenti e intrusivi. Queste eccessive
richieste spesso possono diventare una fonte di frustrazione per i genitori, generando risentimento e
conflittualità all’interno della famiglia.
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Nel testo “Terapia scolastica dell’ansia” di Kendall e Di Pietro (2003)viene presentata una tabella
contenente gli indici comportamentali e le componenti cognitive ovvero i tipici pensieri che
emergono nei bambini con sindromi ansiose, riscontrabili sotto sono elencati gli indicatori relativi
all’ansia da separazione.
Indici comportamentali del Disturbo d’Ansia di Separazione:
a. Vuole spesso telefonare alla madre quando è a scuola.
b. Interrompe frequentemente il gioco per controllare che il genitore rimanga vicino.
c. Rifiuta di essere lasciato con la baby-sitter.
d. Si preoccupa in continuazione delle condizioni di salute della madre fino al punto di controllare
se ha preso le medicine.
e. Rifiuta di rimanere a dormire da amici o parenti.
f. Rifiuta di andare in vacanza in colonia o in campeggio senza i genitori.
Indici cognitivi del Disturbo d’Ansia di Separazione
a. Pensieri sulla possibilità che i genitori possano essere uccisi o rapito o che possano in qualche
modo scomparire e non tornare più.
b. Pensieri riguardanti la possibilità che i genitori possano ammalarsi gravemente e morire anche in
seguito a malesseri di poca importanza.
c. Pensieri sulla possibilità che i genitori possano ferirsi gravemente o avere un incidente stradale.
Epidemiologia
Il Disturbo d’Ansia di Separazione è un disturbo abbastanza comune nei bambini (Silverman, DickNiederhauser, 2004), anche se non sono stati condotti molti studi controllati. Un fattore che
probabilmente ha reso più complesso il monitoraggio della situazione è che per molti anni fobia
scolare e disturbo d’ansia da separazione sono stati usati, erroneamente, in modo intercambiabile
(Beidel, Alfano, 2011, p. 228). Questo non significa che la fobia scolare non sia assai diffusa nei
bambini che soffrono di disturbo d’ansia da separazione, d’altra parte l’ingresso nella scuola
primaria è per molti bambini la prima vera separazione dall’ambito protetto della famiglia. È uno
dei meno stabili tra i disturbi d’ansia, infatti in uno dei primi studi longitudinali fatto sulla stabilità
dei disturbi psichiatrici in età evolutiva (Cantwell, Baker, 1989) solo l’11% dei bambini con questa
diagnosi l’avevano mantenuta a distanza di quattro anni; 44% avevano ricevuto un’altra diagnosi e
ben 45% non avevano più alcun tipo di diagnosi clinica, stavano bene, a indicare che si era
verificato uno spontaneo miglioramento della situazione clinica. Nei bambini in cui il disturbo
invece continua ad essere presente è frequente trovare indicatori di un disturbo oppositivo
provocatorio (vedi cap. XX) e/o di ADHD (vedi cap. XX).
La presenza di un disturbo d’ansia da separazione in età infantile è un importante fattore di rischio
per lo sviluppo in età adolescenziale e adulta di un altro disturbo d’ansia: i dati dell’Oregon
Adolescent Depression Project (Lewinsohn, Holm-Denoma, et al, 2008) ci dicono che il 78.6% di
bambini con diagnosi di Disturbo d’Ansia da Separazione avevano un altro disturbo psichiatrico
all’età compresa tra 19 e 30 anni, per lo più attacchi di panico o depressione maggiore. Va anche
notato che nei soggetti in cui il disturbo si mantiene l’impatto psico-sociale della malattia sul lungo
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termine è più grave, quindi non si tratta di un problema da sottovalutare o da risolvere pensando che
passerà da solo con il tempo.
Per molto tempo si è pensato che il disturbo d’ansia da separazione fosse l’esordio infantile degli
attacchini panico che si trovano negli adulti (Klein, 1964), ma le ricerche più recenti stanno
mettendo in crisi questa discendenza diretta: una storia di disturbo d’ansia da separazione in età
infantile è più comune fra i pazienti che hanno molteplici e diversi disturbi d’ansia; in alcune
ricerche effettivamente chi soffre di attacchi di panico risulta aver avuto un disturbo d’ansia da
separazione da piccolo, ma in altri lavori è chi soffre di depressione ad averne sofferto da bambino
e quindi nulla di definitivo si può dire (Beidel, Alfano, 2011, p. 233-234).
La prevalenza nella popolazione è tra il 3% e il 5 % (Lewinsohn, Holm-Denoma, Small, et al.,
2008; Silverman, Dick-Niederhauser, 2004) con un picco trai sette e i nove anni (Suveg,
Ashenbrand, Kendall, 2005). In età adolescenziale scende al 2.4% (Bowen , Offord, Boyle, 1990).
Non c’è accordo tra le ricerche che studiano la prevalenza rispetto al genere, secondo alcune è più
frequente nelle femmine, secondo altre non c’è differenza. I sintomi in ogni caso non sono diversi
tra maschi e femmine, sono invece diverse le manifestazioni in base all’età: mentre i bambini più
piccoli – fino a otto anni – riportano molti incubi notturni, la loro frequenza decresce con l’età,
mentre i sintomi fisici che sono presenti solo nella metà dei bambini più piccoli, caratterizzano
sostanzialmente tutti gli adolescenti (Francis, Last, Strauss, 1987).
Cause
Non sembrano esservi componenti biologiche tra le cause del disturbo d’ansia da separazione,
piuttosto effetti dell’ambiente familiare: spesso i genitori – per lo più la mamma- soffre a sua volta
di disturbi d’ansia (è piena di paure, pensa al mondo come un posto relativamente pericoloso, a
bisogno di tenere tutto sotto controllo e via dicendo) e spesso è anche abbastanza intrusiva, nel
senso che tende a sostituirsi al bambino nell’esecuzione di compiti che pure il bambino è in grado di
svolgere da solo ed in modo indipendente, riducendo drasticamente i gradi di autonomia del piccolo
(Wood, 2006).
Il disturbo d’ansia da separazione può comparire dopo qualche evento di vita stressante nella vita
del bambino: la morte di un parente, di un animale domestico, una malattia del piccolo o di una
persona cara, un cambiamento di scuola, un trasloco, lo spostamento da un paese all’altro, come per
i bambini immigrati che, vissuti i primi anni di vita nel paese d’origine dei genitori, di solito affidati
a parenti e nonni, con il ricongiungimento familiare arrivano per l’inizio della scuola dell’obbligo.
L’esordio può avvenire anche nell’età prescolare, sotto i sei anni, e anche in adolescenza, ma in
questo secondo caso è un evento raro. Il disagio e la sofferenza del bambino possono variare nel
corso del tempo e vi sono periodi di remissione e peggioramento, di solito collegato a situazioni che
vanno ad attivare il sistema dell’attaccamento. La tendenza a evitare situazioni che implicano
separazione possono persistere per molti anni, anche dopo l’adolescenza.
Comorbilità
Circa il 92% dei bambini con un disturbo d’ansia di separazione ha una co-diagnosi di disturbo
d’ansia, spesso fobia scolare, o di disturbo depressivo (Last, Francis, Hersen et al., 1987).
Un bambino molto spaventato per la separazione dalla sua figura di attaccamento può avere
reazioni che assomigliano superficialmente ad un attacco di panico (paura, pianto strozzato, fatica a
respirare, senso di svenimento) ma l’ansia è tutta relativa al fatto che qualcuno se ne sta andando e
non, come nel caso del panico, sull’esperienza di avere paura e avvertire le sensazioni fisiche che
accompagnano la paura in sé e per sé. L’ansia di separazione può essere presente in molti disturbi
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gravi (disturbi pervasivi dello sviluppo, schizofrenia o altri disturbi psicotici) ma in questo caso
ogni tipo di intervento deve essere fatto in relazione alla diagnosi più grave.
Dal loro punto di vista insegnanti e educatori vedono solo che un bambino non sta frequentando la
scuola, ma queste assenze hanno un valore molto diverso a seconda delle ragioni che le
determinano: nel caso del disturbo d’ansia di separazione è la paura a staccarsi, nel disturbo della
condotta il bambino non va a scuola per poter fare altre cose, spesso trasgressive. In altri casi non
andare a scuola è giustificato dalla presenza di una fobia sociale o disturbi dell’umore, una
situazione clinica completamente diversa. Spesso i bambini costretti a separarsi dalle figure di
attaccamento si arrabbiano e possono diventare aggressivi e litigiosi, ma quando questi
comportamenti oppositivi si presentano solo in relazione al lasciarsi e non in altre situazioni non i
deve pensare ad un disturbo oppositivo provocatorio; possono diventare tristi quando vengono
lasciati, ma si deve pensare a un disturbo dell’umore solo se la tristezza è pervasiva in diversi
ambiti e momenti di vita.
Trattamento
Nel 1997 la American Academy for Child and Adolescent Psychiatry ha raccomandato l’intervento
psicoterapeutico come l’intervento d’elezione in questi disturbo, lasciando l’intervento
farmacologico solo come ultima soluzione per i casi difficili. Il trattamento per il disturbo d’ansia di
separazione sostanzialmente segue le stesse linee di intervento che si applicano nei disturbi d’ansia.
È molto importante dedicare spazio agli interventi psicoeducativi con i genitori, con i quali si tratta
da un lato di insegnare loro alcune tecniche – come il rilassamento muscolare progressivo, il
rinforzo sistematico dei comportamenti desiderati e la punizione di quelli non desiderati (gestione
delle contingenze)(Choate, Pincus, Eyberg et al 2005;Eisen , Raleigh, Neuhoff, 2008)e dall’altro di
aiutarli a cogliere quanto il tema della vulnerabilità e della paura è importante per il loro bambino e
di come sia fondamentale per lui poter sentire la presenza stabile, sicura e calda dei suoi genitori
quando prova a fare cose nuove. La letteratura sull’efficacia del trattamento del disturbo d’ansia di
separazione è ancora molto limitata e basata per lo più sull’autovalutazione che danno i pazienti di
come stanno e di cosa è cambiato o la valutazione da parte dei clinici del loro miglioramento.
E’ importante iniziare il lavoro terapeutico da un buon assesstment
Durante l’assessment con i genitori è indispensabile approfondire i seguenti punti:
•
descrizione dettagliata di specifiche situazioni in cui si è verificato il problema,
indagando durata, intensità e frequenza; valutare le circostanze ed il contesto in cui si
verifica la separazione;
•
raccogliere l’analisi funzionale del disturbo;
•
sondare tutte le situazioni di separazione e valutare le reazioni dei genitori al
comportamento-problema, per individuare il loro ruolo nell’evoluzione e nel
mantenimento del problema;
•
raccogliere l’analisi evolutiva del sintomo;
•
ottenere informazioni su come i genitori percepiscono e vivono il problema del bambino;
•
individuare eventuali percezioni erronee, atteggiamenti irrazionali, comportamenti
inadeguati, come pure risorse o doti personali;
•
identificare eventi di vita stressanti recenti o remoti;
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•
sondare l’esistenza di minacce di separazione, di abbandono;
•
valutare le dinamiche affettive intrafamiliari e gli stili educativi dei genitori;
•
raccogliere l’anamnesi psicomotoria del bambino;
•
valutare la presenza di precedenti analoghi in famiglia;
•
identificare i tentativi attuati per risolvere il problema.
Durante l’assessment con i genitori è utile utilizzare alcuni tra questi strumenti diagnostici:
•
domande strutturate finalizzate a rilevare le caratteristiche del disturbo di ansia da
separazione descritte nell’ ICD – 10 (Kendall, Di Pietro, 1995);
•
questionario anamnestico per l’età evolutiva;
•
Personality Inventory for Children (PIC, Wirt e altri, 1978);
•
Children Behavior Checklist (CBCL, Achenbach, 1991);
•
Questionario d’ansia per l’età evolutiva di Busnelli e altri (1987);
•
Children’s Depression Inventory (Kovacs, 1981): per questi due ultimi questionari si può
dare ai genitori la consegna di compilarli cercando di immedesimarsi nel bambino. La
compilazione separatamente da parte del bambino e dei genitori, seguita dalla discussione
congiunta, consente al genitore una maggior conoscenza della mente del bambino e una
maggior differenziazione dei propri pensieri dai suoi;
Spesso è indispensabile contattare anche gli insegnanti in quanto il disturbo si manifesta anche
con comportamenti di rifiuto della scuola. Gli obiettivi dell’assessment con gli insegnanti sono:
•
ottenere una chiara fotografia del comportamento problematico: quando, come, con chi si
presenta, rilevare la frequenza, l’intensità e la durata del problema;
•
reazioni della classe rispetto al comportamento del bambino;
•
reazioni degli insegnanti ed eventuali loro differenze in merito a pensieri, emozioni,
comportamenti;
•
teorie naives di sofferenza e cura degli insegnanti relativamente al problema dell’alunno;
•
stili educativi degli insegnanti ed eventuali incongruenze o differenze;
•
meccanismi di mantenimento;
•
attivazione della loro collaborazione;
Al termine della fase di assessment e prima di intraprendere il trattamento vero e proprio,
è utile effettuare un incontro psicoeducativo sul disturbo d’ansia di separazione, al fine di
fornire informazioni circa la fenomenologia, il decorso e le ipotesi prognostiche, facendo
riferimento alle ricerche cliniche. Ampio spazio va lasciato alle domande dei genitori. Se
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il disturbo interessa un bambino in età pre-scolare il rapporto terapeutico privilegiato è
con i genitori; con le altre fasce di età le persone presenti alla seduta possono variare a
seconda delle esigenze del momento: il bambino ed i genitori, i genitori da soli, il
bambino da solo. Il lavoro terapeutico deve essere svolto sia prestando attenzione al
mondo interno del bambino e del genitore, sia cercando il significato relazionale che il
sintomo ha nel rapporto genitore-figlio.
Intervento con il bambino
Con il bambino in età scolare il lavoro terapeutico può articolarsi nelle seguenti fasi (Kendall , Di
Pietro, 2003):
a. aiutare il bambino a identificare le emozioni di ansia e preoccupazione e le sue reazioni all’ansia
(si può utilizzare il disegno della figura umana con il fumetto per aiutare il bambino ad esprimere i
propri pensieri);
b. cercare di far apparire come normali le reazioni di paura e ansia;
c. fornire al bambino un modello per fronteggiare le situazioni ansiose;
d. prendendo spunto da un personaggio eroico per il bambino, costruire insieme un racconto su
come costui può aver affrontato situazioni temute;
e. esposizione graduale alle situazioni di separazione, dopo aver discusso insieme le modalità per
affrontarle. E’ importante che il bambino durante le esposizioni sperimenti in modo totale la sua
ansia; il terapeuta dovrà astenersi dal rassicurarlo o confortarlo, ma lo inviterà ad applicare le
procedure apprese.
Kendall e Di Pietro suggeriscono di utilizzare le seguenti tecniche terapeutiche:
consapevolezza neurovegetativa ed educazione emotiva;
procedure di rilassamento;
identificazione dei pensieri disfunzionali e sostituzione con affermazioni atte a fronteggiare l’ansia;
esposizione graduata a situazioni di separazione, inizialmente con esposizione immaginativa, come
la visualizzazione emotiva. Un caso particolare di visualizzazione emotiva è quella dell’eroe
preferito, in cui si chiede al ragazzo di individuare il personaggio più amato e di immaginarsi ad
affrontare la situazione temuta con tale personaggio;
esposizione graduata a situazioni reali, ordinate gerarchicamente in ordine crescente di difficoltà;
modeling da parte di un adulto di riferimento o del terapeuta;
problem solving;
gestione delle contingenze;
sequenza graduale di apprendimento e di messa in pratica.
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Il trattamento del disturbo d’ansia di separazione richiede necessariamente il lavoro terapeutico
anche con i genitori, così articolato:
a. costruire la relazione terapeutica;
b. fornire informazioni psicoeducative su come aiutare il bambino a tollerare la separazione (ad
esempio non allontanarsi di nascosto, assegnazione di attività per riempire il vuoto, reperibilità
telefonica…);
c. concordare il programma di esposizione da attuare, facendo assumere ai genitori il ruolo di
modeling e successivamente di coloro che dispensano al figlio i rinforzi per le separazioni che il
bambino risulta via via in grado di affrontare;
d. insegnare ad utilizzare l’estinzione di fronte al comportamento problematico presentato dal
bambino;
e. aumentare la conoscenza della mente del bambino;
f. aumentare la consapevolezza che lo stato d’animo prevalente nei genitori, così come il loro modo
di pensare e di percepire la realtà, condizionano il proprio stile educativo, ripercuotendosi
sull’emotività e sul comportamento del bambino;
g. aumentare la consapevolezza nei genitori che le reazioni comportamentali ed emotive
alimentano il disturbo del figlio;
h. costruire con ABC il rapporto tra emozioni dei genitori ed emozioni del bambino;
i. esplorare ed analizzare le convinzioni interne dei genitori;
l. ripristinare la reciprocità relazionale, la sintonizzazione emotiva;
m. rendere consapevoli i genitori della loro discontinuità relazionale.
Va inoltre concordato con gli insegnanti, unitamente ai genitori, una gerarchia di situazioni di
separazione ordinate in difficoltà crescente che il bambino verrà stimolato ad affrontare, per
riprendere la frequenza scolastica. Successivamente va pianificata una contrattazione delle
contingenze, con elargizione dei rinforzi a casa da parte dei genitori.
Le credenze e le convinzioni che caratterizzano i pensieri disfunzionali vengono modificate
mettendo in discussione i contenuti di pensiero, esaminando contro-evidenze, cercando spiegazioni
alternative, usando processi educativi e strategie per combattere gli errori cognitivi. Le tecniche
comportamentali sono impiegate talvolta per una modificazione diretta dei sintomi, alcune delle
strategie più utilizzate sono: esperimenti di esposizione ai propri sintomi, organizzazione e
monitoraggio delle attività, manipolazione dei comportamenti protettivi e induzione dei sintomi.
Intervento con i genitori
Il trattamento del disturbo d’ansia di separazione richiede necessariamente il lavoro terapeutico
anche con i genitori, il quale può essere così articolato:
•
costruire la relazione terapeutica;
•
fornire informazioni psicoeducative su come aiutare il bambinio a tollerare la separazione
(ad esempio non allontanarsi di nascosto, assegnazione di attività per riempire il vuoto,
reperibilità telefonica…);
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•
concordare il programma di esposizione da attuare, facendo assumere ai genitori il ruolo
di modeling e successivamente di coloro che dispensano al figlio i rinforzi per le
separazioni che il bambino risulta via via in grado di affrontare;
•
insegnare ad utilizzare l’estinzione di fronte al comportamento problematico presentato
dal figlio;
•
aumentare la conoscenza della mente del bambino;
•
aumentare la consapevolezza che lo stato d’animo prevalente nei genitori, così come il
loro modo di pensare e di percepire la realtà, condizionano il proprio stile educativo,
ripercuotendosi sull’emotività e sul comportamento del bambino;
•
aumentare la consapevolezza che le proprie reazioni comportamentali ed emotive
alimentano il disturbo del figlio;
•
costruire con ABC il rapporto tra emozioni dei genitori ed emozioni del bambino;
•
esplorare ed analizzare le convinzioni interne dei genitori;
•
ripristinare la reciprocità relazionale, la sintonizzazione emotiva;
•
rendere consapevoli i genitori della loro discontinuità relazionale.
Intervento a scuola
Va inoltre concordato con gli insegnanti, unitamente ai genitori, una gerarchia d situazioni di
separazione ordinate in difficoltà crescente che il bambino verrà stimolato ad affrontare, per
riprendere la frequenza scolastica. Successivamente va pianificata una contrattazione delle
contingenze, con elargizione dei rinforzi a casa da parte dei genitori.
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X.X FOBIA SPECIFICA
Con il termine fobia specifica si indica la persistente paura – eccessiva o irragionevole – per
qualche cosa, che una persona prova sia in presenza dell’oggetto o situazione temuta sia anche al
solo pensiero di trovarsi nella situazione temuta o di avere di fronte l’oggetto di cui ha paura.
L’oggetto o l’evento non devono avere natura sociale perché in questo caso si parla di fobia sociale
(vedi oltre, xx) e la paura non deve essere la paura di avere un attacco di panico. Nel box sono
presentati i criteri diagnostici per la fobia specifica, il criterio della durata superiore ai sei mesi ha lo
scopo di farci escludere quelle situazioni di paure infantili che fanno parte del naturale percorso di
sviluppo individuale e che, come abbiamo visto nell’introduzione, tendono a ridursi e a scomparire.
DSM IV (in box)
Il DSM-IV-TR definisce così i criteri per la diagnosi di Fobia Specifica (p. 482-483):
A. Paura marcata e persistente, eccessiva o irragionevole, provocata dalla presenza o dall’attesa di
un oggetto o situazione specifici (per es., volare, altezze, animali, ricevere un’iniezione, vedere il
sangue).
B. L’esposizione allo stimolo fobico quasi invariabilmente provoca una risposta ansiosa immediata,
che può prendere forma di Attacco di Panico causato dalla situazione o sensibile alla situazione.
Nota: Nei bambini, l’ansia può essere espressa piangendo, con scoppi di ira, con l’irrigidimento, o
con l’aggrapparsi a qualcuno.
C. La persona riconosce che la paura è eccessiva o irragionevole.
Nota: Nei bambini questa caratteristica può essere assente.
D. Le situazioni fobiche sono evitate o sopportate con intensa ansia o disagio.
E. L’evitamento, l’ansia anticipatoria o il disagio nella/e situazione/i temuta/e interferiscono in
modo significativo con la normale routine della persona, con il funzionamento lavorativo (o
scolastico), o con le attività o le relazioni sociali, oppure è presente disagio marcato per il fatto di
avere la fobia.
F. Negli individui al di sotto dei 18 anni la durata è di almeno 6 mesi.
G. L’ansia, gli Attacchi di Panico o l’evitamento fobico associati con l’oggetto o situazione
specifici non sono meglio giustificati da un altro disturbo mentale, come il Disturbo OssessivoCompulsivo (per es., paura dello sporco in un individuo con ossessioni di contaminazione),
Disturbo Post-traumatico da Stress (per es., evitamento degli stimoli associati con un grave evento
stressante), Disturbo d’Ansia di Separazione (per es., evitamento della scuola), Fobia Sociale (per
es., evitamento di situazioni sociali per paura di rimanere imbarazzati), Disturbo di Panico con
Agorafobia o Agorafobia senza Anamnesi di Disturbo di Panico.
Specificare il tipo:
- Tipo Animali: la paura è legata ad animali piccoli o grandi o a insetti. È una fobia che tipicamente
ha esordio nell’infanzia.
- Tipo Ambiente Naturale (per es., altezze, temporali, acqua), anche in questo caso si tratta di una
fobia che tipicamente ha esordio nell’infanzia
- Tipo Sangue-Iniezioni-Ferite, è legata sia al vedere il sangue o le ferite sia dall’essere oggetto di
una iniezione o altre pratiche mediche invasive. Spesso anche i familiari ne soffrono e genera
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risposte vasovagali molto intense (senso di svenire, giramento di testa etc). la reattività fisiologica
nei bambini ha un andamento interessante: prima un aumento della frequenza cardiaca e della
pressione, seguita da un brusco decremento dei parametri fisiologici che danno quello che
soggettivamente viene descritto come senso di svenimento, questa seconda modificazione è assente
nelle altre forme di fobia (Beidel, Turner, 2005).
- Tipo Situazionale (per es., aeroplani, ascensori, luoghi chiusi). In questo caso l’esordio può essere
sia in età infantile, che più tardi di solito verso i vent’anni.
- Altro tipo (per es., paura di soffocare, vomitare o contrarre una malattia; nei bambini può anche
essere paura dei rumori forti o dei personaggi in maschera)
Epidemiologia
La prevalenza della fobia specifica nei soggetti tra quattro e 18 anni varia tra il 2.6% e il 4.5% con
una media di 3.5% (Ollendick, King, Muris, 2004).Tra i bambini che entrano in contatto con i
servizi per un disturbo d’ansia, il 15-36% soffre di fobia specifica (Strauss, Last, 1993).Le fobie
specifiche sembrano restare relativamente stabili nel corso del tempo e, se non trattate, sono
presenti sia a due che a cinque anni di distanza (Ollendick King, Muris, 2004), spesso inoltre
costituiscono l’antecedente clinico di altri disturbi che compaiono nell’età adulta, sia di tipo fobico,
che di disturbi dell’umore (vedi xx).
Le fobie più diffuse tra i bambini che soffrono di questo problema troviamo la paura del: buio
(29%), scuola (24%), cani (16%), altri animali (8%), altezza (8%), insetti (8%), ascensori (5%),
posti chiusi (3%), nuoto (3%), aghi (3%), tubi (3%), imbalsamazione (3%), come riportato in
Strauss, Last (1993). In un lavoro più recente - condotto però su un campione di adolescenti - il 3%
soffriva di fobia specifica così caratterizzata: animali (31%), ambiente (31%), situazionale (25%),
sangue (22%), altro (11%) (Essau, Conradt, Petermann, 2000). In realtà nel caso dei bambini le
fobie specifiche sembrano raggrupparsi intorno a tre gradi temi: gli animali, le iniezioni/sangue e
tutto il resto, dall’ambiente naturale al buio (Muris, Schmidt, Merckelbach, 1999). Le bambine
sembrano essere più vulnerabili dei maschi nell’avere delle paure intense e i bambini sotto i 13 anni
più vulnerabili rispetto ai bambini più grandi; tra le fobie specifiche la paura incontrollata degli
animali, del sangue e dei fenomeni ambientali sono più frequenti nelle bambine e nei bambini più
piccoli (Muris, Schmidt et al 1999). Una parola su una paura che in molti casi diventa una vera e
propria fobia: il dentista! Alcune ricerche individuano nelle bambine trai nove e i dodici anni i
soggetti più vulnerabili a questo tipo di paura che in alcuni casi diventa davvero un problema di
difficile gestione (Murray, Liddell, Donohue 1989).
Comorbilità
Quando la diagnosi principale è fobia specifica, spesso è presente anche una seconda diagnosi. Il
problema che più frequentemente accompagna le fobie specifiche è il disturbo d’ansia da
separazione che abbiamo appena visto (vedi xx), nel 58% dei casio un disturbo d’ansia
generalizzato (vedi xx) nel 49%dei casi (Essau et al. 2000); in proporzione minore può essere
presente un disturbo post-traumatico da stress (vedi xx) 13.9% e disturbi ossessivo-compulsivi (vedi
xx) nell’ 11% dei casi (Ollendick, King, Muris, 2004). Vale la pena di ricordare che mentre il 66%
di bambini che soffrono di fobia sociale (vedi xx) ha una concomitante fobia scolare, questa è
presente solo nel 24% dei bambini che soffrono di fobie specifiche, facendoci pensare a una radice
profonda differente tra fobie specifiche e fobia sociale (Beidel, Alfano, 2011, p 166).
Cause
Secondo alcuni ricercatoriche hanno studiato i gemelli, nel caso delle fobie specifiche all’effetto dei
fattori ambientali si affiancherebbe anche un ruolo importante dei fattori genetici (Eley, Rijsdijk,
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Perrin, et al., 2008). Il 31% dei genitori di bambini che soffrono di fobie specifiche sono affetti dal
medesimo problema (Fyer,Mannuzza, Gallops, et al., 1990). Questo però non vuol dire che le fobie
sono ereditarie o che ci sia una vulnerabilità genetica, infatti i meccanismi di apprendimento
sociale, esposizione diretta allo stimolo o trasferimento di informazioni possono benissimo spiegare
il fenomeno. In fondo le fobie per gli animali o per gli aghi/sangue sono fobie che possono avere
una funzione protettiva importante nel ridurre le possibilità che un bambino si trovi in una
situazione di pericolo. Mentre avere sperimentato direttamente una situazione difficile o
spaventante (esposizione diretta) sembra caratterizzare maggiormente l’insorgere delle paure legate
a situazioni e stimoli ambientali, come tuoni, lampi ecc, l’apprendimento attraverso l’osservazione
del comportamento delle persone vicine e significative, sia per esplicita loro indicazione sembra
caratterizzare le paure che insorgono in età infantile e più legate a specifici oggetti, ad esempio gli
animali o il sangue: svariate ricerche infatti mettono in luce una stretta correlazione tra l’ansia
materna e le paure dei bambini (Towned, Dimigen, Fung, et al., 2000). Alcuni lavori hanno
ipotizzato che la sensibilità al disgusto sia nel bambino che nella madre possa avere un ruolo
causale nello sviluppo delle fobie specifiche, ma non tutti i ricercatori sono d’accordo su questa
ipotesi e altri pensano che l’ansia sia una motivazione sufficiente a giustificare la comparsa di un
atteggiamento fobico verso alcuni stimoli e situazioni specifiche (Muris, Merckelbach, Schmidt,
Tierney, 1999).
Trattamento
L’intervento clinico svolto dallo specialista sulle paure infantili si muove sul doppio registro degli
interventi comportamentali e di quelli cognitivi. È importante però avere in mente che l’uso delle
tecniche ha un senso solo all’interno di una relazione di cura che sia attenta agli aspetti relazionali.
È importante quindi, come vedremo più avanti, la lettura in termini relazionali di queste paure.
•
Spesso alla base delle fobie vi sono episodi realmente accaduti che hanno spaventato il
bambino e che non sono stati adeguatamente gestiti dagli adulti significativi. È
importante quindi risalire insieme con il bambino alla prima volta in cui la paura si è
presentata e con calma insieme a lui ricostruire non solo lo svolgersi dei fatti, ma
soprattutto la dinamica delle emozioni e la costruzione di senso che il bambino ha fatto di
ciò che è avvenuto. A questo va aggiunto che l’espressione delle paure non avviene mai
a caso, ma c’è sempre un senso e una funzione relazionale, di regolazione della distanza
relazionale tra i piccolo e le sue figure di riferimento. Per il clinico diventa quindi di
primaria importanza la comprensione di questi aspetti ai quali può accedere attraverso il
colloquio con il bambino nel quale farà comprendere al piccolo il ruolo del terapeuta e
costruirà con lui un’alleanza terapeutica.
Il terapeuta cercherà di ottenere una
descrizione, dal punto di vista del bambino, di quali sono le sue paure, come le affronta o
le evita e le conseguenze dei suoi comportamenti a casa e a scuola. Il bambino può
fornire interessanti particolari su come reagiscono i genitori e i suoi insegnanti quando si
comporta in modo ansioso.
Capire come il bambino percepisce il suo problema è il modo per aiutarlo, ottenere dati sulle
situazioni specifiche in cui si manifestano le paure chiedendo al piccolo qual è secondo lui la
causa è l’inizio della risoluzione.
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L’utilizzo di semplici ABC (evento attivante→convinzioni, pensieri, immagini→reazioni emotive
e comportamentali) le modalità di pensiero prevalenti nel bambino (presenza di distorsioni degli
eventi) è utile per di aiutare il bambino a descrivere accuratamente i dettagli delle sue reazioni
d’ansia, può essere utile chiedergli di immaginare una tipica situazione temuta e verbalizzare ciò
che accade in lui.
Importante è che il bambino si senta compreso dalle persone di riferimento attorno a lui a volte la
paura non è stata abbastanza presa sul serio oppure, viceversa ha generato una reazione ancora più
spaventata
Ci sono alcune tecniche comportamentali particolarmente utili nel trattare le paure infantili:
desensibilizzazione sistematica, apprendimento sociale o modeling, gestione delle contingenze,
esercizi di rilassamento. Più sul versante cognitivo gli interventi di regolazione affettiva e del
comportamento ottenuti attraverso l’attivazione del dialogo interno.
INIZIO BOX
Desensibilizazione sistematica
La tecnica della desensibilizzazione sistematica si basa sul modello del condizionamento classico
(Wolpe, 1958). La situazione o oggetto che genera paura viene accoppiato con un altro stimolo o
risposta che è incompatibile con l’ansia, di solito uno stato di rilassamento, secondo una sequenza
che va dallo stimolo che induce il livello più basso di ansia fino agli stimoli che generano la
maggiore ansia. Se la paura riguarda le vespe, una gerarchia di paure potrebbe essere la seguente:
guardare l’immagine di una vespa, toccare l’immagine di una vespa, guardare un programma Tv o
un filmato sulle vespe, toccare una vespa morta, stare in una stanza con una vespa chiusa in un
barattolo, tenere in mano il barattolo con la vespa e infine uscire all’aperto in presenza di una vespa.
A partire dalla meno spaventosa il bambino viene aiutato a rilassarsi – con la regolazione del
respiro, la contrazione-decontrazione dei muscoli – finché non si sente bene. In alternativa o
integrazione si può far immaginare al bambino una storia con emozioni positive, per esempio
l’arrivo di un supereroe o far immaginare qualche cosa di emotivamente intenso e positivo. A
questo punto si passa al livello successivo. Con i bambini può essere difficile lavorare sugli stimoli
immaginati e comunque l’esposizione direttamente in vivo agli stimoli temuti sembra essere più
efficace (Ultee, Griffioen, Schellekens, 1982).
Modeling
Il modelling, vale a dire l’apprendimento osservativo, ha una lunga tradizione come tecnica di
intervento nel trattamento delle fobie infantili, a partire da una delle più classiche, cioè la paura dei
cani: è a partire dai lavori di Bandura (1969) che si è potuto verificare come la scomparsa di una
paura avviene spesso osservando il comportamento di qualcuno – un “modello” – che non mostra di
averla davanti allo stimolo ritenuto pericoloso (così come avviene anche il contrario: si ha paura
delle cose che abbiamo visto generare paura nelle persone di cui ci fidiamo). Ci sono vari modi in
cui un modello riesce a plasmare il comportamento di un altro, e ci sono vari tipi di modelli. In ogni
caso comunque la maggiore efficacia viene dalla possibilità di osservare il comportamento di
modelli diversi in situazioni parzialmente differenti con diverse versioni dello stimolo che genera la
paura (Bandura et al 1967) e soprattutto l’esperienza in vivo, cioè diretta, ha il maggior grado di
efficacia (Ultee,Griffioen, Schellekens,1982). L’esperienza in vivo può avvenire in due modi: il
bambino si limita a osservare il comportamento di un altro che non ha paura, oppure viene
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attivamente coinvolto nell’interazione con l’oggetto o la situazione che fa paura insieme a chi gli fa
da modello. Nelle situazioni di classe affiancare a un bambino che ha paura a fare qualche cosa un
compagno o compagna che non ha questa paura e adeguatamente sensibile a porsi in assetto di aiuto
e non di competizione o giudizio con il compagno più spaventato spesso porta a risultati positivi.
Un aspetto importante emerso nel tempo a partire dalle ricerche sull’efficacia del modelling nella
riduzione di diversi tipi di paure è stata l’osservazione che il livello della paura diminuisce di più
quando alle istruzioni comportamentali e all’osservazione viene affiancato anche un percorso di
riflessione sia sul senso di quanto viene appreso, sia di approfondimento di pensieri ed emozioni
che la situazione pericolosa attiva nel bambino
Anche i personaggi delle storie costituiscono dei potenziali modelli di comportamento e il
raccontare storie, soprattutto seguite da una rielaborazione individuale o di gruppo su ciò che viene
narrato sui pensieri e le emozioni dei personaggi e sulle strategie di regolazione della paura,
costituiscono una possibile strategia di intervento, ovviamente nelle situazioni non gravi o appena
agli esordi e se ben condotte possono essere anche applicate in classe.
Gestione dei rinforzi
Rinforzare in modo sistematico i comportamenti che si desiderano e non rinforzare (o punire) i
comportamenti che si desidera eliminare è un'altra tecnica comportamentale utile nell’intervento
sulle paure infantili. In questo caso ciò su cui si lavora sono le conseguenze del comportamento
fobico (Ollendick, King, 1998).
La tecnica dell’EMDR (eye movement desensitization and reprocessing) normalmente impiegata
nel trattamento del disturbo post traumatico da stress degli adulti e in altre situazioni cliniche è
utilizzata anche nel trattamento delle paure infantili. La tecnica dell’EMDR (Shapiro, 1995) si basa
sull’ipotesi che la paura viene ridotta attraverso la rielaborazione di un evento traumatico attraverso
i movimenti saccadici. I pazienti vengono abituati a immaginare l’oggetto o la situazione temuta e
prendere consapevolezza dei pensieri associati all’evento traumatico. La rielaborazione dei pensieri
e delle immagini traumatiche porta alla riduzione della paura. L’EMDR è stata utilizzata in alcuni
casi con i bambini, ad esempio per trattare la fobia dei ragni – 22 soggetti tra i 9 e i 14 anni (Muris,
Meckelbach, Holdrinet et al. 1998), ma è ancora un settore in via di sviluppo.
FINE BOX
Come abbiamo visto, la fobia per il sangue, ferite e iniezioni è caratterizzata da una reazione
fisiologica del tutto particolare: l’esposizione allo stimolo temuto porta inizialmente ad
un’attivazione generale dell’organismo seguita da un pronunciato abbassamento della pressione
sanguigna, bradicardia e in taluni casi svenimento. In questo caso le tecniche di rilassamento non
sono adeguate, perché accentuano gli effetti della deflessione del tono fisico aumentando il rischio
di svenimento, così come gli interventi di esposizione graduale appaiono controindicati perché
implicano una prolungata esposizione allo stimolo che può avere come conseguenza proprio la
perdita dei sensi. Alcuni autori (Öst, Fellenius, Sterner, 1991) hanno messo a punto una strategia di
esposizione graduale agli stimoli temuti, associata però non all’induzione di rilassamento, ma, al
contrario, alla tensione di alcuni gruppi muscolari (braccia, mani, spalle) per mantenere alto il
livellopressorioe ridurre il rischio che la persona svenga. La procedura sembra funzionare
relativamente bene con gli adulti (Ayala, Meuret, Ritz, 2009), mentre con i bambini le ricerche sono
ancora in corso.
Gli interventi cognitivo comportamentali si basano, nel caso del trattamento delle paure infantili,
sull’aiutare i bambini a sviluppare un dialogo interno che li aiuti nei momenti di difficoltà. Il focus
di questi discorsi-pensieri può essere sia la cosa che fa paura, che la competenza del bambino nel
gestirla. Nel primo caso si tratta di trovare insieme degli aspetti e qualità di ciò che è temuto che lo
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rendono meno temibile, se non piacevole o interessante. Nel secondo caso di pensare che si è capaci
di fare fronte alla situazione o di rassicurarci: “non ho paura” o “va tutto bene, stai tranquillo” o
anche “ce la faccio perché sono capace”.
Manifestazioni e sintomi a casa e a scuola
Cosa può fare l’insegnante
La collaborazione con gli esperti, la famiglia e la scuola è indispensabile.
Anche in classe il bambino ha bisogno di sentirsi protetto. Va coinvolto nelle attività scolastiche e,
durante l’intervallo nei giochi con gli altri bambini. L’insegnante può trovare delle letture da fare in
classe dove i protagonisti del racconto devono superare alcune paure e ce la fanno. Invoglierà poi la
classe a parlare in gruppo delle proprie paure evidenziando la strategia usata per superarle.
L’obiettivo è che l’alunno in difficoltà possa trarre giovamento dall’esempio degli altricompagni.
X.x Fobia sociale
La fobia o ansia sociale è uno dei disturbi più comuni in età evolutiva e spesso sono i bambini che
nel parlare comune etichettiamo come timidi o molto timidi, senza a volte renderci conto di quanto
problematica e inabilitante sia questa condizione. Definiamo timidi i bambini che tendono a evitare
le situazioni sociali indipendentemente dai motivi per cui lo fanno. è importate distinguere però tra i
bambini che scelgono di stare da soli e interagire poco con gli altri, ma che se si trovano in
situazioni in cui devono farlo non hanno difficoltà né eccessiva ansia, dai bambini che pur
desiderando stare in compagnia e interagire con gli altri vanno in tensione, si sentono ansiosi e in
difficoltà quando lo devono fare: sono questi i bambini timidi (Coplan, Prakash, O’Neil, et al.
2004). La timidezza appare essere un tratto presente fin dai primi anni di vita, spesso legato a
elevati tratti di ansia e bassa autostima. Gli insegnanti tendono a descrivere i bambini timidi come
meno capaci di stare con gli altri bambini, di attivarsi per aiutarli nelle situazioni di difficoltà, meno
propositivi nei giochi, che partecipano poco ai giochi interattivi e tendono a fare giochi da svolgere
individualmente (Coplan, cit) questo non vuol dire che ci sia una dipendenza stretta tra la timidezza
e l’emergere di un disturbo d’ansia o una fobia sociale in senso clinico.
DSM IV (in box)
Il DSM-IV-TR definisce così i criteri per la diagnosi di Fobia Sociale (p. 489-490):
A. Paura marcata e persistente di una o più situazioni sociali o prestazionali nelle quali la persona è
esposta a persone non familiari o al possibile giudizio degli altri. L’individuo teme di agire (o di
mostrare sintomi di ansia) in modo umiliante o imbarazzante.Nota: Nei bambini deve essere
evidente la capacità di stabilire rapporti sociali appropriati all’età con persone familiari e l’ansia
deve manifestarsi con i coetanei e non solo nell’interazione con gli adulti.
B. L’esposizione alla situazione temuta quasi invariabilmente provoca ansia, che può assumere le
caratteristiche di un Attacco di Panico causato dalla situazione o sensibile alla situazione.Nota: Nei
bambini, l’ansia può essere espressa piangendo, con scoppi d’ira, con l’irrigidimento, o con
l’evitamento delle situazioni sociali con persone non familiari.
C. La persona riconosce che la paura è eccessiva o irragionevole.Nota: Nei bambini questa
caratteristica può essere assente.
D. Le situazioni sociali o prestazionali temute sono evitate o sopportate con intensa ansia o disagio.
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E. L’evitamento, l’ansia anticipatoria o il disagio nella/e situazione/i sociale/i o prestazionale/i
interferiscono significativamente con le abitudini normali della persona, con il funzionamento
lavorativo (scolastico) o con le attività o relazioni sociali, oppure è presente marcato disagio per il
fatto di avere la fobia.
F. Negli individui al di sotto dei 18 anni la durata è di almeno 6 mesi.
G. La paura o l’evitamento non sono dovuti agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per es.,
una droga di abuso, un farmaco) o di una condizione medica generale, e non sono meglio
giustificati da un altro disturbo mentale (per es., Disturbo di Panico Con Agorafobia o Senza
Agorafobia, Disturbo d’Ansia di Separazione, Disturbo da Dismorfismo Corporeo, un Disturbo
Pervasivo dello Sviluppo o il Disturbo Schizoide di Personalità).
H. Se sono presenti una condizione medica generale o un altro disturbo mentale, la paura di cui al
Criterio A non è ad essi correlabile, per es., la paura non riguarda la Balbuzie, il tremore nella
malattia di Parkinson o il mostrare un comportamento alimentare abnorme nell’Anoressia Nervosa
o nella Bulimia Nervosa.
Specificare se:
- Generalizzata: se le paure includono la maggior parte delle situazioni sociali (prendere in
considerazione anche la diagnosi addizionale di Disturbo Evitante di Personalità).
(fine box)
Nella diagnosi di fobia sociale è necessario escludere che le difficoltà mostrate dal bambino
nell’interagire con gli altri dipendano da altri disturbi più gravi come l’autismo o la sindrome di
Asperger ed è altrettanto importante ricordare che i segnali di sofferenza nei bambini sono diversi
da quelli degli adulti: spesso i genitori di bambini che soffrono di fobia sociale dicono che quando
un estraneo entra in casa i bambini scappano via e corrono a nascondersi. Altrettanto importante è
tener presente che nel caso dei bambini i comportamenti di evitamento sociale possono essere
temporaneamente presenti in situazioni di difficoltà, come ad esempio quando si cambia casa, e
quindi i dintorni e le persone intorno sono nuove,o si cambia scuola e quindi maestri e compagni di
classe. In queste situazioni una forma di timidezza iniziale è del tutto normale, comincia a essere un
segnale preoccupante quando dura per più di sei mesi. La scuola è per i bambini il luogo principale
di socializzazione, ricco di interazioni strutturate, in classe durante le lezioni (ad esempio quando
l’insegnante chiede di esporsi durante gli esercizi, come leggere ad alta voce, eseguire un esercizio
alla lavagna, rispondere alle domande o commentare quanto è stato appena fatto) e non strutturate
(come parlare con gli altri bambini, condividere un gioco, partecipare ai giochi di gruppo, andare in
mensa e così via). Tutte situazioni sociali potenzialmente assai difficili per un bambino che fatica
ad esporsi e interagire con gli altri. In ambito scolastico per i bambini nella fascia della
preadolescenza sono proprio le situazioni di interazione informali quelle maggiormente temute e
vissute con maggiori difficoltà(Rao, Beidel, Turner, et. al., 2007). Per tutti comunque essere
costretti a parlare in pubblico è la situazione più terribile e le strategie più adottate per cavarsela
vanno dal malessere fisico all’evitamento. Spesso sul lungo termine le conseguenze sono serie e
vanno dal rifiuto della scuola alla depressione, alla solitudine e all’isolamento sociale
(Essau,Conradt, Petermann,1999), si tratta quindi di una problematica assolutamente da non
sottovalutare, soprattutto quando la problematica emerge presto: è più facile che passi
spontaneamente una fobia sociale comparsa in età adolescenziale – dopo i 14 anni – che non
quando l’esordio è prima, verso i 7-10 anni (DeWitt, Ogborne, Offord et al. 1999)
Epidemiologia
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Circa il 3% dei bambini in età scolare e degli adolescenti soffre di fobia sociale, percentuale che
tende a crescere con l’età (Essau, Conradt, Petermann,1999; Wittchen, Stein, Kessler, 1999). È più
diffusa a partire dagli 11 anni, ma è facile trovare casi anche in bambini più piccoli, dai 7-8 anni.
Non ci sono differenze di genere nella fascia dei preadolescenti, ma nell’adolescenza la percentuale
di femmine è maggiore (5.5%) mentre solo il 2.7% dei maschi ne soffre (Wittchen,Stein, Kessler,
1999).
Manifestazioni e sintomi
Un aspetto chiave della fobia sociale è la natura squisitamente interpersonale del disturbo: i bambini
hanno paura di apparire impacciati, goffi, ridicoli, stupidi davanti agli altri, che spesso sono proprio
i compagni di classe. Le paure più tipiche sono quelle di non essere all’altezza del gruppo o di
arrossire. La paura di arrossire è estremamente faticosa, si tratta infatti di una reazione fisiologica
indipendente dal controllo cognitivo e per certi versi paradossale: quanto più siamo consapevoli del
nostro rossore e tanto più questo aumenta invece di diminuire. La vera paura in effetti non è tanto il
rossore in sé, ma il fatto di essere visti arrossire dagli altri. La conseguenza prima è l’evitamento
sistematico di tutte le situazioni in cui è necessario esporsi agli altri. Sono bambini e ragazzi
estremamente sensibili alle critiche e ai giudizi espressi nei loro confronti. Quando devono esporsi a
una situazione sociale pensano che faranno brutta figura, non sapranno cosa dire e se pure diranno
qualche cosa sarà sbagliata o sciocca. L’ansia anticipatoria su questi aspetti di prestazione sociale
rende l’attesa faticosa e difficile e il bambino (o l’adolescente) si sente inquieto, nervoso, fragile e
insicuro prima di ogni incontro. Al momento di essere concretamente nella situazione temuta la
maggior parte del tempo è spesa non tanto nel parlare con gli altri o nell’esprimere la propria
opinione, ma nel pensare a cosa è più appropriato, corretto o intelligente fare o dire. Per non
incorrere nella possibilità di fare brutte figure è meglio stare in silenzio, evitando di inserirsi nelle
conversazioni o esprimere giudizi, evitando accuratamente il confronto con gli altri.
Le paure più comuni riguardano di solito il parlare in pubblico, andare alle feste, avere relazioni con
persone di sesso opposto, servirsi dei bagni pubblici, mangiare davanti agli altri (ad esempio ala
mensa della scuola) scrivere alla lavagna sotto gli occhi dei compagni leggere in classe, parlare in
un gruppo di coetanei, vale a dire in quasi tutte le situazioni sociali che normalmente un bambino
incontra frequentando la scuola. “La situazione sociale viene vissuta con un senso di fallimento, di
umiliazione, di imbarazzo. Tutto questo esaspera l’autocritica [del ragazzo] e può creare un tipico
circolo vizioso dell’ansia: ecco sto facendo brutta figura davanti ai compagni, questo mi manda in
ansia, tutti mi guardano e se ne accorgeranno, cosicché l’ansia aumenta il mio senso di fare brutta
figura e il mio senso di fare brutta figura aumenta l’ansia” (Celi, Fontana, 2010, p. 315).
Il vissuto soggettivo del bambino/ragazzo è quello di non sentirsicompletamente integrato nel
gruppo dei pari. È presente spesso il dubbio che gli altri non ti vogliano, che non ti cerchino e
preferiscano quando non ci sei. La sensazione spesso riportata è che gli altri tollerino la tua
presenza, ma non desiderino realmente stare con te, né che ti cerchino per averti in loro compagnia.
Questa sensazione di esclusione e rifiuto, accompagnata dal non sentirsi socialmente accettati è
causa di altre preoccupazioni e timori e spesso dell’attribuzione agli altri di una più o meno velata
ostilità. È evidente che la consapevolezza dei propri pensieri negativi, soprattutto quelli che si
attivano durante l’interazione è maggiore tanto maggiore è l’età del bambino, tanto è vero che nei
più piccoli – sotto i sei/sette ani - quando si chiede di descrivere i pensieri che avevano in mente
mentre erano impegnati in una prestazione sociale, la risposta che si ottiene è solitamente la
descrizione di uno stato emotivo negativo (“ero molto nervoso” o “spaventato”) ma non di veri e
propri pensieri (Alfano et al. 2002), a volte l’unico segnale di disagio in questi bambini è il pianto o
le esplosioni di collera. Nei bambini più grandi la strategia di stare in disparte e non partecipare
attivamente alle attività di gruppo non è sufficiente a dare tranquillità “il bisogno di rimanere in un
angolo è connesso all’idea di farsi notare il meno possibile: eppure ciò non basta a tranquillizzarlo,
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perché, anche se nessuno lo nota, è lui stesso che si vede lì in un cantuccio, solo a fare la figura
dello stupido. Si vede come immagna che gli altri lo vedano e questo contribuisce a farlo star male”
(Celi, Fontana, 2010, p. 316). In un certo senso è come se il disagio nascesse da un eccesso di
consapevolezza di sé in rapporto agli altri, della prospettiva degli altri su di me, ma, ovviamente, a
partire da quello che io penso di me. Applico agli altri le aspettative e i giudizi che in realtà sono io
stesso a emettere, in modo severo e giudicante, su quelle che io reputo le mie incapacità e difficoltà.
Quando si osservano le interazioni sociali di questi bambini a volte si ha la sensazione che
manchino di alcune fondamentali abilità sociali. Non è chiaro se effettivamente ci sia un deficit di
sviluppo delle abilità sociali o se, invece, le abilità ci siano e ciò che manca è semplicemente la loro
concreta attuazione (Beidel, Turner, Morris 1999; Rao et. al. 2007). Probabilmente si tratta di un
processo circolare: esporsi poco in situazioni sociali non aiuta a sperimentare e sperimentarsi in
situazioni diverse e con persone diverse limitando lo spazio di crescita delle proprie competenze e
abilità di interazione sociale, a sua volta l’eccessivo monitoraggio di sé, dell’effetto delle proprie
azioni sugli altrie della consapevolezza delle proprie difficoltà che porta a enfatizzare gli insuccessi
le poche volte in cui il bambino si mette alla prova in uno scambio sociale genera inevitabilmente la
tendenza a evitare situazioni simili, riducendo ulteriormente la possibilità di sviluppare e articolare
le proprie competenze sociali, che diventano sempre più inadeguate alla complessità
dell’esperienzae portando al consolidamento dell’immagine di sé come incapace. È abbastanza
ovvio quindi che tutti gli esercizi – sia nello studio del terapeuta, che in classe, che hanno
l’obiettivo di sviluppare le abilità sociali sono utili. Alcune ricerche sembrano avere messo in luce
la difficoltà di questi bambini nel riconoscere le espressioni facciali delle emozioni, che sono invece
un aspetto importante nelle interazioni sociali: l’espressione del volto dei propri interlocutori
costituisce infatti un‘informazione fondamentale per la mutua regolazione durante gli scambi
comunicativi, perché ci permette di individuare l’emozione, lo stato d’animo del nostro
interlocutore e adeguarci al meglio, facendo funzionare lo scambio reciproco in modo ottimale. I
bambini con ansia sociale sembrerebbero non riconoscere l’espressione di rabbia, scambiandola per
disgusto e interpreterebbero come tristezza un’espressione neutra (Battaglia, Ogliari, Zanoni et al.
2004). Anche sulla base di questi dati, può essere particolarmente utile con questi bambini il lavoro
sul riconoscimento delle espressioni delle emozioni: soprattutto con i più piccoli si può lavorare
sull’espressione delle diverse emozioni con specchio, macchina fotografica e videocamera,
invitando i bambini a “fare la faccia della … paura, rabbia, disgusto, felicità, tristezza”,
fotografandoli (o lasciando che si fotografino loro se abbastanza grandi). Questo materiale, ed
eventualmente altro materiale (come disegni o fotografie di altri) vengono poi usati nella
discussione di gruppo, guidata dall’insegnante, secondo i criteri del circle time per lavorare sulla
consapevolezza delle proprie e altrui espressioni. Esempi di domande stimolo sono “Che faccia fate
quando avete paura? Da cosa capite che un compagno/persona è impaurito? Ci sono delle
somiglianze nelle facce di chi ha paura?” e così via (vedi Grazzani Gavazzi, Ornaghi, Antoniotti,
2011). È importante che l’insegnante non abbia il ruolo di interlocutore privilegiato che pone
domande e fornisce risposte, ma sia parte integrante del gruppo, il suo è il ruolo del facilitatore: non
giudica, non critica, ma stimola i ragazzi ad interagire con gli altri, ad esprimere senza timore i
propri pensieri, ad ascoltare ciò che gli altri dicono senza interrompere. È importante che osserci i
rapporti all’interno del gruppo, stimolando le persone più timide e contenendo quelle più aggressive
cercando di rendere tutti partecipi della discussione. Alla fine riassumerà quanto emerso in maniera
obiettiva e senza dare giudizi personali (Francescato, Putton, Cudini, 2000).
Il seguente test permette di verificare la presenza di comportamenti e pensieri associati
alla fobia sociale; non ha valenza diagnostica e il suo risultato è puramente indicativo1.
1
Da www.ansia-panico.net/test-fobia-sociale.html
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Indica il livello di preoccupazione/ansia che ti suscitano i seguenti pensieri:
1. Parlare davanti ai membri della famiglia
nessuno ○ || lieve ○ || medio ○ || elevato ○
2. Parlare davanti a un gruppo di amici
nessuno ○ || lieve ○ || medio ○ || elevato ○
3. Parlare davanti a un gruppo di sconosciuti
nessuno ○ || lieve ○ || medio ○ || elevato ○
4. Essere osservato da altre persone
nessuno ○ || lieve ○ || medio ○ || elevato ○
5. Fare una telefonata ad uno sconosciuto
nessuno ○ || lieve ○ || medio ○ || elevato ○
6. Frequentare un locale affollato
nessuno ○ || lieve ○ || medio ○ || elevato ○
7. Affrontare un colloquio
nessuno ○ || lieve ○ || medio ○ || elevato ○
8. Ricevere un complimento o una critica
nessuno ○ || lieve ○ || medio ○ || elevato ○
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9. Partecipare ad una festa in proprio onore
nessuno ○ || lieve ○ || medio ○ || elevato ○
10. Dover sbrigare faccende in un ufficio pubblico
nessuno ○ || lieve ○ || medio ○ || elevato ○
11. Dover guardare una persona sconosciuta negli occhi
nessuno ○ || lieve ○ || medio ○ || elevato ○
12. Essere nominato durante un evento o una manifestazione
nessuno ○ || lieve ○ || medio ○ || elevato ○
13. Conoscere nuove persone
nessuno ○ || lieve ○ || medio ○ || elevato ○
14. Essere interpellato durante una discussione
nessuno ○ || lieve ○ || medio ○ || elevato ○
15. Dire qualcosa di sbagliato o commettere un errore in presenza di altri
nessuno ○ || lieve ○ || medio ○ || elevato ○
16. Dimenticare quello che si doveva dire ad una persona
nessuno ○ || lieve ○ || medio ○ || elevato ○
17. Svolgere un’attività mentre ci si trova in mezzo ad altre persone
nessuno ○ || lieve ○ || medio ○ || elevato ○
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Indica con quale frequenza ti capita di accusare i seguenti sintomi quando ti trovi in mezzo ad
altre persone:
18. Battito del cuore accelerato
nessuno ○ || lieve ○ || medio ○ || elevato ○
19. Tremori e tensione muscolare
nessuno ○ || lieve ○ || medio ○ || elevato ○
20. Vampate di calore e arrossamenti
nessuno ○ || lieve ○ || medio ○ || elevato ○
BOX ESERCIZI PER LO SVILUPPO DELLE SKILL SOCIALI
Un modo per aiutare lo sviluppo delle competenze e abilità sociali è l’utilizzo del role playing: il
bambino prova, come farebbe un attore, a simulare alcuni comportamenti per poi metterli in pratica
quando si trova nelle situazioni reali. È una tecnica che può essere utilizzata anche in gruppo, ad
esempio a scuola. Una prima coppia fa l’esercizio davanti a tutti, gli altri poi, divisi a coppie, lo
faranno contemporaneamente. In questo caso è bene che i bambini con difficoltà relazionali non
siano scelti per esporsi davanti a tutti e che vengano messi in coppia con un compagno/a
sufficientemente sensibile da non essere giudicante, ma più capace di gestire le situazioni
relazionali ed è anche necessario che l’insegnante monitori più da vicino queste coppie “delicate” in
modo da poter intervenire a supportare, suggerire e confortare alla bisogna.
Cause
Al momento, sulla base delle ricerche condotte con la risonanza magnetica (MRI) e la risonanza
magnetica funzionale (fMRI) non ci sono indicazioni che vi sia una componente neurobiologica del
disturbo negli adulti (Bell, Malizia, Nutt, 1999). Nei bambini le ricerche sono al loro inizio, ma
anche in questo caso non ci sono dati relativi ad anormalità neurologiche strutturali, differenziando
in questo la fobia sociale dal disturbo di panico (Argyropoulos, Bell, Nutt, 2001). Gli studi sui
gemelli pur indicando la presenza in alcuni casi di fattori genetici, attribuisce ai fattori ambientali il
ruolo predominante ereditari probabilmente sono gli aspetti temperamentali che rendono l’individuo
più vulnerabile ai fattori ambientali e famigliari, ma non il disturbo in sè(Eley et al. 2008)
Un ruolo fondamentale sembra invece essere giocato dagli aspetti relazionali e familiari. Circa il
50-60% degli adulti con una fobia sociale non è grado di individuare uno specifico episodio a cui
far risalire le loro difficoltà quindi l’origine episodica non può essere la spiegazione principale. Più
probabile è l’effetto di un ambiente familiare in cui almeno uno dei due genitori ha questo tipo di
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difficoltà e nel quale l’importanza del giudizio degli altri, l’enfasi sulla vergogna sociale e la
tendenza all’isolamento. È abbastanza comprensibile come, se vive in un ambiente in cui
l’attenzione di tutti è rivolta a domandarsi cosa gli altri penseranno di te e di quello ce fai e di come
lo fai, per un bambino questo diventi il modo naturale di pensarsi e di regolare le proprie interazioni
sociali e come l’anticipazione del giudizio altrui sia un pensiero predominante. Spesso inoltre i
genitori di questi bambini tendono ad essere intrusivi e iperprotettivi, limitando le interazioni sociali
dei loro bambini, ma anche nello stesso tempo giudicanti e rifiutanti, soprattutto quando il figlio
non risponde a criteri ottimali di prestazione scolastica. Sono anche genitori che utilizzo
prevalentemente la critica nei confronti dei figli, senza fornire spiegazioni e supporto in caso di
errori o difficoltà. Spesso sono genitori che parlano poco con i loro figli e così a loro volta anche i
bambini tendono a spiegare poco, a chiedere poco e a usare poco i feedback positivi con gli altri,
tendendo invece ad utilizzare per lo più commenti critici e comandi, facendo pensare che proprio
questo sia lo stile di comunicazione all’interno della famiglia (Beidel, Alfano, 2011). Mentre gli
altri disturbi d’ansia, quali le fobie specifiche o il disturbo d’ansia da separazione, non sono
collegati alla presenza di tratti di inibizione del comportamento in età prescolare, la fobia sociale
invece sembra essere uno dei naturali sviluppi cui sono esposti i bambini che nei primi anni di vita
mostrano questa caratteristica (Hirshfeld-Becker, et al., 2008). L’espressione inibizione
comportamentale (Kagan, Reznick, Clarke, et al., 1984) descrive la tendenza di alcuni bambini ad
attivarsi emotivamente in alcune situazioni, senza riuscire ad adattarsi alle situazioni che generano
il disagio e che sono riluttanti ad impegnarsi in attività nuove o che possono apparire pericolose,
fino al punto di evitarle apertamente, a differenza dei bambini non inibiti che facilmente si lasciano
coinvolgere in attività nuove, avventurose e che di cui tendono meno ad avvertire la possibile
connotazione di pericolo. Nei bambini inibiti l’essere esposti a situazioni nuove provoca un
immediato incremento della frequenza cardiaca, che poi si mantiene sempre su livelli elevati,
indicatore di uno stato di iperattivazione che non cessa. Varie ricerche hanno identificato un chiaro
legame tra la presenza di queste caratteristiche in età infantile e l’emergere di fobia sociale quando
il bambino entra nel periodo scolare, mentre non sembrano essere legate ad altri disturbi di ansia,
come la fobia specifica o il disturbo d’ansia da separazione (Chronis-Tuscano et al., 2009). Vale la
pena di sottolineare però che se è vero che è più probabile che i bambini che presentano un’elevata
inibizione comportamentale in età prescolare sviluppino un disturbo d’ansi, non necessariamente
questo sarà il loro inevitabile destino. In molti casi l’inibizione diminuisce mano a mano che i
bambini crescono. Sui possibili percorsi evolutivi giocano ovviamente un ruolo chiave le figure
genitoriali: una figura materna controllante, calda ma non adeguatamente sintonizzata e responsiva
non aiuta il cambiamento e tende a stabilizzare i comportamenti evitanti, mentre una figura materna
che offre al suo bambino la possibilità di sperimentarsi nelle situazioni nuove, incoraggiandolo lo
aiuta a essere meno spaventato; figure genitoriali con uno stile di accadimento permissivo, distratto,
che non si cura di intervenire quando il bambino è in difficoltà, a volte accompagnato da una scarsa
fiducia nella propria competenza genitoriale, tendono ad avere bambini con problemi
internalizzanti, in particolare di ansia (Beidel, Alfano, 2011, p. 89).
Un altro aspetto spesso presente nelle storie dei bambini con fobia sociale è la presenza di una
malattia cronica nei primi anni di vita, fatto che probabilmente induce nei genitori un atteggiamento
iperprotettivo che a sua volta va a rinforzare e consolidare i comportamenti di evitamento sociale
che il bambino, probabilmente avvertendo le preoccupazioni dei genitori tende a mettere in atto.
Inoltre una malattia cronica, quanto più grave o debilitante, riduce notevolmente le occasioni di
socializzazione del bambino, vuoi per la vulnerabilità fisica vuoi per la frequenza di visite mediche
o ricoveri ospedalieri, rendendo difficoltosa l’acquisizione naturale delle competenze sociali
attraverso l’interazione con i pari. Sicuramente non è possibile pensare a singoli fattori che causano
la fobia sociale, ma è più ragionevole ipotizzare una complessa interazione di aspetti, compresi
quelli sopra delineati.
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Dal punto di vista della percezione di sé,il senso di autostima viene drasticamente messo in crisi
ogni volta che il bambino si trova a dover affrontare le situazioni sociali, in un circolo vizioso che,
abbiamo visto prima, attiva un intenso senso di inferiorità e da cui deriva una marcata difficoltà ad
essere assertivi e la continua ricerca di segnali che confermano le attese di rifiuto nelle relazioni. La
sicurezza personale è funzione della percezione soggettiva della propria accettazione da parte di un
altro ritenuto importante o da parte del gruppo, che porta spesso come conseguenza la tendenza a
cercare di aderire alle aspettative dell’altro, che viene costantemente monitorato per valutare i
segnali di accettazione o rifiuto. Questo essere costantemente orientati sull’altro porta anche una
ridotta capacità di auto riflessività, il bambino cioè fatica ad avere consapevolezza immediata delle
proprie emozioni, dei propri desideri, della propria volontà e delle proprie autonome convinzioni o
credenze, tranne ovviamente quelle negative e aprioristiche sulla propria incapacità e
inadeguatezza. A questo si accompagna una ridotta capacità di decentramento, è presente una certa
fatica a cogliere e prendere autenticamente il punto di vista dell’altro, cui si attribuisce
esclusivamente l’attenzione costante ai propri deficit, debolezze e incapacità. Anche le capacità di
mastery sono in parte ridotte nel senso che è spesso presente la fatica ad applicare strategie di
problem-solving funzionali nei diversi contesti di vita. In questi bambini a guidare la lettura della
realtà, degli eventi e delle azioni altrui, e quindi il processo di costruzione del significato, sono in
prevalenza le credenze cristallizzate su di sé che ruotano intorno ai temi della vergogna (farò la
figura dello sciocco), inaiutabilità (non potrò farcela) e paura di agire (tutti mi guardano e io
sbaglierò) e la memoria selettiva dei propri fallimenti. È su questi aspetti che è importante
intervenire per sbloccare la situazione.
Comorbilità
Come per gli altri disturbi d’ansia la fobia sociale è spesso accompagnata da altre condizioni
cliniche. Nei preadolescenti il 60% dei bambini ha un’altra forma associata; di questi il 10% un
disturbo d’ansia generalizzato, 10% una fobia specifica e 8% mutismo selettivo, il resto è spalmato
su altri disturbi: dal disturbo ossessivo-compulsivo, al disturbo da deficit d’attenzione e iperattività,
al disturbo d’ansia da separazione e via dicendo (Beidel,Turner, Morris,1999). Negli adolescenti la
comorbilità resta quasi uguale (57.1%), ma sale la percentuale di chi tra essi ha un disturbo d’ansia
generalizzato (74.1%), compaiono i disturbi depressivi (11%) e in taluni casi l’abuso di sostanze.
Mentre nei preadolescenti quindi lo spettro di disturbi associati è quanto mai variegato, negli
adolescenti la gamma si restringe sostanzialmente a pochi disturbi (Rao et. al 2007). In alcuni casi
si possono osservare quelli che apparentemente sembrano comportamenti oppositivi, ma che sono
semplicemente la manifestazione della paura e del rifiuto di esporsi e non un vero e proprio disturbo
oppositivo.
Trattamento
Poiché i genitori spesso sono anch’essi fortemente ansiosi, con le ambivalenze descritte poco sopra,
un aspetto importante è sia ridimensionare la centralità che essi attribuiscono agli aspetti scolastici e
di prestazione del figlio, sia fornire loro un buon contenimento emotivo per aiutarli a fronteggiare la
loro ansia, cercando di rendere più morbide le loro aspettative sul cambiamento solitamente
caratterizzate da una certa rigidità, per lo più nella forma del pensiero dicotomico bianco-o-nero e
tutto-e-subito, accanto a interventi più pedagogici in cui spiegare la natura del sintomo
(Lambruschi, 2004).
Per poter lavorare con i piccoli pazienti sulla loro ansia sociale è in primo luogo essenziale capire
insieme come per ciascuno di loro questa ansia si declina, qual è la mappa delle situazioni temute,
quali più e quali meno, qual è la gamma dei sintomi fisici che ciascuno di loro sperimenta, quali i
nomi che vengono dati a questi stati fisici, quali le emozioni provate, quali i pensieri o le immagini
che passano nella mente nelle diverse situazioni e nelle diverse fasi di una sequenza difficile e quali
le azioni che da questi pensieri ed emozioni nascono per fare fronte alle situazioni temute. È il
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primo intervento di automonitoraggio, da cui derivare anche una gerarchia delle situazioni difficili
che poi potrà venire usata per le prove di esposizione graduale. È importante che il bambino possa
riflettere sul fatto che anche la paura è un’esperienzache può avere intensità e sfumature diverse,
non solo, ma che non solo è qualche cosa cha abbiamo imparato, ma che si può disimparare, così
come anche il coraggio si può imparare, così come si possono imparare a fare cose che si pensava di
non saper fare. Come in tutti i casi di ansia è sempre importante seguire i principi della gradualità e
dei piccoli passi: l’invito ad andare insieme ad alcuni compagni di classe a mangiare da McDonalds
può innescare immediatamente un’ampia gamma di paure: e se non mi diverto, e se non c’è niente
che mi piace, e se non so cosa dire mentre si mangia, e se .. , e se …, e se …, ma la prospettiva
cambia se ci si mette d’accordo che il solo obiettivo che uno ha in mente è semplicemente di
accettare l’invito, non di divertirsi o di chiacchierare, ma solo di accettare l’invito. Accettare di
uscire è il primo passo, il resto viene poi, ma si vedrà. È il principio della gradualità e dei piccoli
passi. La soddisfazione di essere riusciti a fare una piccola cosa spinge a provare di nuovo e la
probabilità che una volta ci sia anche del divertimento o una maggiore tranquillità aumenta: uscire
spesso con gli amici riduce la probabilità di provare ansia e aumenta la probabilità di divertirsi e
stare bene in compagnia (Celi, Fontana, 2011, pp 323-324).
La maggior parte delle persone che soffrono di fobia sociale hanno la sensazione di essere sempre
al centro dell’attenzione (negativa e giudicante) altrui. Un esercizio semplice è quello del
decentramento. A partire da una situazione sociale in cui il bambino si è sentito al centro
dell’attenzione altrui, si chiede di disegnare una torta che rappresenta la mente (la testa)
dell’osservatore e di colorare la parte occupata dall’attenzione che il bambino pensa l’altro abbia
avuto per lui. Di solito la quasi totalità. Allora si chiede di elencare tutte le cose che possono
occupare la testa dell’altro, con le relative percentuali di attenzione. Poi si chiede di riportare sulla
torta le varie cose individuate nella mente dell’altro, disegnando le fette corrispondenti e lasciando
per ultima l’attenzione su di sé che risulterà di molto ridimensionata. L’indicazione poi è di ripetere
più volte questo esercizio in modo da riuscire a farlo anche in vivo per ridurre l’impatto che il
pensare al pensiero altrui ha sul proprio comportamento. Per la sua complessità può essere applicato
con i bambini più grandi (Dimaggio, Procacci, Semerari, 1999)
Proprio per il ruolo così importante che i pensieri disfunzionali hanno è importante lavorare in
primo luogo sull’incremento di consapevolezza di questo dialogo interno che il bambino ha con se
stesso e dei rapporti tra questi pensieri e le emozioni che da questi pensieri derivano. Attraverso la
ristrutturazione cognitiva è possibile aiutare i bambini a riconoscere alcuni pensieri disadattivi
consente anche di metterli in discussione, provare a cercare pensieri alternativi più funzionali,
sviluppando alternative realistiche e la consapevolezza che le cose no possono sempre andare come
vorremmo (Di Pietro, 1999). È importante anche lavorare sull’autostima del bambino,
normalizzando ciò che lui avverte come una sua unica caratteristica negativa: è normale avere
paura, come è normale essere imbarazzati nelle situazioni nuove. Una persona non “è” ansiosa, ma
“reagisce” in modo ansioso davanti ad alcune situazioni e per tutti ci sono situazioni che fanno
paura. Le tecniche di ristrutturazione cognitiva ci permettono anche di provare modificare
l’atteggiamento perfezionistico che spesso hanno questi bambini e ragazzi: sui voti scolastici, sui
risultati nello sport o in ogni altra attività, sulle aspettative su di sé e le proprie prestazioni sociali.
È importante favorire l’acquisizione di modi di pensare che aiutino l’autoaccettazione come
pensieri del tipo “ogni persona ha qualità sia positive che negative, ci sono cose in cui riesco bene e
altre in cui non riesco ; a tutti può capitare di fare errori; nessuno è perfetto; anche se commettiamo
un errore, le nostre buone qualità rimangono” (Lambruschi, 2004, p. 359). Le fiabe costituiscono un
interessante strumento per ottenere questo obiettivo
Un altro aspetto centrale su cui lavorare è l’interpretazione corretta dei segnali fisiologici dell’ansia,
un intervento di fatto standard in tutti i disturbi d’ansia, con lo scopo principale non solo di
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riconoscere i sintomi che anticipano e caratterizzano l’ansia, ma soprattutto di imparare che si tratta
di risposte fisiche che non devono generare particolare preoccupazione, ma possono essere utili
perché ci anticipano che potrebbe presentarsi un problema.
I 10 comandamenti per superare l’AS:
1. Non ti fare abbattere dai giudizi altrui
2. Non cercare di essere perfetto
3. Impara a controbattere alle affermazioni e ai pensieri illogici
4. Impara a conoscerti e ad apprezzare le tue qualità
5. Impara a rilassarti
6. Impara l’arte di conversare
7. Prova e riprova le tue nuove abilità
8. Esponiti alle situazioni sociali senza inutili protezioni
9. Agisci in modo assertivo
10. Esplora liberamente il mondo della vita sociale
Cosa può fare l’insegnante
In questi bambini il tema della vergogna è centrale, sia che si tratti della timidezza dei bambini più
piccoli, che della vera e propria fobia sociale dei bambini più grandi. Lo spazio di intervento per gli
insegnanti e gli educatori è ampio, anche se va calibrato in modo diverso a seconda delle età.
Scuola dell’infanzia
Frequentare la scuola dell’infanzia è un’esperienza che aiuta i bambini a sviluppare fin da piccoli le
loro abilità sociali, ma quali sono gli aspetti di cui, come insegnante, è importante tenere conto?
Ecco alcune linee guida (Zimbardo, Radl, 1999):
a. salutare i bambini individualmente, chiamando per nome, chiedere esplicitamente come sta e
rilevare sempre in senso positivo eventuali novità sul suo aspetto: l’attenzione positiva fa sentire il
bambino pensato e riconosciuto.
b. quando si parla con i bambini accovacciarsi per essere alla loro altezza e stabilire il contatto
oculare ogni volta che si parla con i piccoli; questo ha una doppia funzione: far sentire l’altro al
centro dell’attenzione e insegnare come si comunica con gli altri per imitazione
c. davanti a situazioni nuove è importante permettere al bambino di osservarla per familiarizzare
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d. soprattutto con i bambini timidi è importante non metterli al centro dell’attenzione – anche
positiva – se mandano segnali di non essere pronti, ovviamente i rimproveri soprattutto con questi
bambini non vanno fatti di fronte a tutti; i momenti di condivisione sono occasioni in cui i bambini
gradiscono ricevere attenzione, ma sono percepiti come meno pericolosi perché coinvolge tutti
e. in alcune situazioni i bambini timidi che se ne stanno in disparte hanno più attenzioni da parte
dell’insegnante, questo in alcuni casi può rinforzare parzialmente i comportamenti di evitamento
sociale, meglio avvicinarsi al bambino ma invitandolo sempre a stare con gli altri
Scuola primaria
L’esperienza della scuola primaria è un momento in cui l’autostima del bambino può essere messa
in discussione e comportare quindi una serie di effetti a cascata sulla sua timidezza. Il periodo trai
sei e i dieci anni è il momento in cui il senso di identità personale si sta formando ed è
particolarmente sensibile e ricettivo ai messaggi che gli arrivano dall’ambiente esterno, compreso il
fatto che per la prima volta nella sua vita si dee confrontare con il fornire prestazioni a scuola e a
casa. A scuola si consolida nei bambini la percezione della loro capacità e competenza (o della
mancanza dell’una e dell’altra) e il ruolo dell’insegnante in questo processo è molto importante. Il
bambino si trova in una situazione in cui contemporaneamente vuole compiacere una figura
autorevole, vuole ricevere attenzione e gratificazione, è esposto costantemente alla dinamica dei
premi (buoni voti, buoni giudizi) e punizioni (cattivi voti e cattivi giudizi). La scuola è anche il
luogo dove il bambino deve imparare a trattare con il gruppo dei pari. I bambini che hanno
frequentato la scuola dell’infanzia sono avvantaggiati, perché hanno imparato a sviluppare alcune
abilità sociali e hanno imparato a coordinarsi con gli altri. Ma spesso i bambini che iniziano la
scuola primaria non conoscono i loro compagni e la strada della socializzazione è all’inizio spesso
tutta in salita. Un piccolo paradosso: spesso la timidezza (o la riservatezza) può essere favorita da
alcuni insegnanti che apprezzano il bambino tranquillo, pacifico e passivo, attento, ma non assertivo
(troppo spesso invece etichettato come indisponente). Sembra forse scontato, ma in molte storie di
vita di bambini timidi e/o con ansia sociale ci sono figure di insegnanti giudicanti, severi e
soprattutto disprezzanti e squalificanti nei loro giudizi: non ci sono bambini stupidi, sciocchi,
superficiali, aggressivi, chiacchieroni, distratti e via discorrendo, ma bambini che hanno fatto una
cosa sciocca, fatto un commento superficiale, si sono comportati in quella situazione in modo
aggressivo, hanno chiacchierato in quel momento, si sono distratti mentre un compagno leggeva. Il
rischio più grande è cristallizzare, come una gabbia che non si toglie più,un comportamento o una
reazione temporanea.
Alcune idee da ricordare (Zimbardo, Radl, 1999):
a. per i bambini timidi è faticoso sentirsi al centro dell’attenzione anche per ricevere una lode,
perché quello che spaventa e disturba è il sentirsi diversi dagli altri, meglio rinforzare prima il senso
di autostima con lodi più private e passare al riconoscimento pubblico quando il disagio
dell’esposizione sociale è diminuito
b. mai fare confronti tra i bambini della stessa classe e mai fare confronti con fratelli o sorelle
(magari più bravi) che hanno frequentatola stessa scuola e/o classe
c. mai permettere ai bambini di prendere in giro o tormentare i compagni deridendoli per l’aspetto
fisico o coalizzarsi
d. attenzione alle proprie antipatie personali, se un bambino non ci piace per qualsiasi motivo c’è il
rischio concreto che diventi il nostro capro espiatorio
La fobia sociale è di solito un passo ulteriore della fobia scolastica, il bambino inizia spesso con una
fobia scolastica e poi estende il suo non voler andare più da nessuna parte. Ci sono alcuni piccoli
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accorgimenti che l’insegnante può suggerire ai genitori: è importante che la famiglia inviti a casa
propria gli altri bambini, creando così degli spazi di incontro protetti in casa. In questo modo il
figlio può “giocare in casa” la partita e sentirsi un poco più sicuro. È importante poi che sia il
bambino a scegliere chi vedere e chi invitare. L’insegnante può preparare il terreno ad esempio
facendo lavorare i bambini a piccoli gruppi, in modo da creare il contesto perché l’incontro con i
compagni nasca in modo naturale. Sempre l’insegnante può identificare tra i tanti bambini della
classe qualcuno che – adeguatamente sensibile – possa fare da guida al ragazzino più timido,
ponendosi come modello: l’amico spalla e prova a fare le cose, il piccolo passettino esterno
(l’educatore può fare da spalla, e poi togliersi dal giro)
X.x Disturbo d’Ansia Generalizzata
L’aspetto centrale in questo disturbo, molto comune, ma spesso poco compreso (Beidel, Alfano,
2011, p. 123) è la presenza di uno stato di ansia fluttuante e pervasiva che può nascere come
risposta ad un evento esterno o a una situazione interna che diventa esasperante, ma che poi non è
legata a specifiche situazioni ambientali, ha dimensioni cliniche diverse e anche sintomatologie
diverse, anche con rilevanti manifestazioni somatiche quali dolori o malesseri di diverso tipo e di
tende a diventare sempre più pervasiva nel corso del tempo.Può essere peggiorata da alcuni tipi di
situazioni, ma è presente anche in altri momenti. I bambini sono spesso tesi, soprattutto preoccupati
per il loro comportamento per cui chiedono costanti rassicurazioni. Le preoccupazioni possono
essere sia per fatti già successi, che per eventi che ancora devono accadere, in tutti i casi la
preoccupazione principale è venire rassicurati sul fatto che si è fatto o si farà bene e che tutto andrà
bene (Lambruschi, 2004, p. 325). Spesso si tratta di bambini che danno la sensazione di essere più
grandi della loro età, anche per queste loro preoccupazioni:
“Melissa è una bambina di 9 anni. È stata portata in ospedale dalla mamma perché dice di essere
spaventata dalla paura di morire. Dice che potrebbe morire per una malattia e così perderebbe
tutto. Si preoccupa che da più grande potrebbe avere un attacco cardiaco. Si preoccupa che la sua
mamma possa morire e suo padre ammalarsi […] è per i ladri, ma meno rispetto alla possibilità di
morire, si preoccupa della preoccupazione di poter vomitare o soffocare” (Beidel, Alfano, 2011, p.
123).
Le preoccupazioni sembrano quindi essere al centro del disturbo d’ansia generalizzata. Stante che
questo tipo di preoccupazioni (worry in lingua inglese) sono il risultato di specifici processi
cognitivi, caratterizzati da pensieri e immagini a valenza negativa associati a potenziali minacce o
pericoli, la psicoterapia cognitiva degli adulti ha dedicato ampio spazio alla ricerca e al trattamento
di questi aspetti, individuati come la causa prima del disagioattraverso svariate tecniche, tra cui
ovviamente, la ristrutturazione cognitiva. Il rimuginio è stato introdotto nel campo della
psicopatologia cognitiva dagli studi di Borkovec (Borkovec, Inz, 1990; Borkovec, Ray e Stöber,
1998) come fenomeno mentale che si accompagna all’ansia e ne contribuisce al mantenimento e
all’aggravamento. Nel rimuginio predominano il pensiero verbale di valenza negativa, la mancanza
di aspetti immaginativi e l’inibizione degli aspetti emotivi che non siano l’ansia. Si tratterebbe di
una ripetizione mentale continua dei vari aspetti di un problema, insieme a previsioni catastrofiche,
legate a un’incapacità di scegliere un piano operativo di risposta al pericolo e di soluzione al
problema, perché ogni soluzione è avvertita come non sufficiente e non risolutiva. Queste forme di
rimuginio preoccupato nei bambini si presenta come un insieme di pensieri anticipatori, catastrofici
e autoriferiti (al più riferiti alle figure di attaccamento). Complessità, articolazione e proiezione
temporale sono ovviamente adeguate allivello evolutivo del bambino: nei bambini più piccoli –
sotto i sei anni - le preoccupazioni tendono a essere maggiormente centrate su minacce concrete nel
qui e ora, nei bambini più grandi, intorno agli otto anni, vanno a toccare temi quali la propria
competenza comportamentale e relazionale, la valutazione sociale e il proprio benessere mentale.
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Le preoccupazioni dei bambini ovviamente non sono identiche a quelle degli adulti, che di solito
rimuginano anche sui possibili tentativi di soluzione del problema o sulle varie implicazioni degli
scenari possibili. Solo un terzo dei bambini preoccupati rimugina sulle possibili soluzioni al
problema. Anzi la difficoltà di focalizzarsi sulle possibili soluzioni per risolvere qualche cosa che
genera ansia sembra essere il tratto distintivo dei bambini che rimuginano rispetto a chi non lo
fa.Rimuginare su alcuni problemi è un comportamento assolutamente normale come molti studi
mostrano: 69% dei bambini dicono di preoccuparsi per le prestazioni scolastiche, i contatti sociali, a
volte la morte, anche un paio di volte la settimana, ma questo non interferisce con le loro vite, anche
se i pensieri sono comunque difficili da bloccare. Quello che cambia nei bambini ansiosi è
l’intensità, la frequenza di questi pensieri e l’impatto sulla vita quotidiana (Beidel, Alfano, 2011, p.
124). Nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza il focus delle preoccupazioni passa da
preoccupazioni sulla salute e il benessere proprio o delle figure di attaccamento a preoccupazioni
più spostate sula propria immagine sociale, anche se non si perdono del tutto gli aspetti legati alla
propria sicurezza e/o fragilità fisica.
(inizio box)
I criteri diagnostici per il Disturbo d’Ansia Generalizzato [GAD] secondo il DSM-IV-TR* sono i
seguenti (pp. 511-512)
A. Ansia e preoccupazione eccessive (attesa apprensiva), che si manifestano per la maggior parte
dei giorni per almeno 6 mesi, a riguardo di una quantità di eventi o di attività (come prestazioni
lavorative o scolastiche).
B. La persona ha difficoltà nel controllare la preoccupazione.
C. L’ansia e la preoccupazione sono associate con tre (o più) dei sei sintomi seguenti (con almeno
alcuni sintomi presenti per la maggior parte dei giorni negli ultimi 6 mesi).
Nota: Nei bambini è richiesto solo un item.
1. irrequietezza, o sentirsi tesi o con i nervi a fior di pelle
2. facile affaticabilità
3. difficoltà a concentrarsi o vuoti di memoria
4. irritabilità
5. tensione muscolare
6. alterazioni del sonno (difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno o sonno inquieto e
insoddisfacente).
L’oggetto dell’ansia e della preoccupazione non è limitato alle caratteristiche di un disturbo in Asse
I, per es., l’ansia o la preoccupazione non riguardano l’avere un Attacco di Panico (come nel
Disturbo di Panico, Senza Agorafobia e Con Agorafobia), rimanere imbarazzati in pubblico (come
nella Fobia Sociale), essere contaminati (come nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo), essere lontani
da casa o dai parenti stretti (come nel Disturbo d’Ansia di Separazione), prendere peso (come
nell’Anoressia Nervosa), avere molteplici fastidi fisici (come nel Disturbo di Somatizzazione), o
avere una grave malattia (come nell’Ipocondria) e l’ansia e la preoccupazione non si manifestano
esclusivamente durante un Disturbo Post-traumatico da Stress.
L’ansia, la preoccupazione, o i sintomi fisici causano disagio clinicamente significativo o
menomazione del funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti.
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L’alterazione non è dovuta agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per es., una droga di abuso,
un farmaco) o di una condizione medica generale (per es., ipertiroidismo) e non si manifesta
esclusivamente durante un Disturbo dell’Umore, un Disturbo Psicotico o un Disturbo Pervasivo
dello Sviluppo.
(fine box)
Manifestazioni e sintomi
Come abbiamo visto poco sopra gli aspetti cognitivi – pensieri e rimuginazioni su fatti la cui
probabilità di accadere spesso è assai bassa – sono una caratteristica centrale del disturbo d’ansia
generalizzata, ma un altro aspetto significativo è la presenza di numerosi sintomi fisici, che
caratterizzano quasi la maggior parte dei bambini con un disturbo d’ansia generalizzata:
l’agitazione motoria è il più comune (74%), seguito dall’irritabilità (68%), difficoltà di
concentrazione (61%) disturbi del sonno (58%), affaticabilità (52%), mal di testa (36%), tensione
muscolare e dolori allo stomaco, 29% rispettivamente (Tracey et al. 1997), proporzioni che non
cambiano negli adolescenti (Pina et al., 2002). Un’interessante differenza con gli adulti è che in
questi ultimi la tensione muscolare diventa una caratteristica principale del disturbo, tanto che da
sola costituisce il miglior predittore sul piano somatico del disturbo (Masi et al., 2004). Va anche
detto che non è facile per un bambino essere consapevole appieno e quindi saper descrivere
adeguatamente uno stato somatico così sottile e diffuso come la tensione muscolare; spesso anche
noi adulti non ci rendiamo conto di avere tutti o alcuni muscoli tesi, fino a quando, magari facendo
un esercizio di rilassamento o yoga ci accorgiamo di quanto stavamo tenendo in tensione i muscoli
del collo, delle spalle o delle braccia. Nei bambini che stanno imparando a conoscere il loro corpo e
tutta la gamma delle sue sensazioni è ancora più difficile e per loro l’esperienza dell’ansia è
qualche cosa anche sul piano fisico di diffuso e non specifico.
(inizio Box)
Esercizi di rilassamento per bambini
Servono ad aiutare il riconoscimento delle sensazioni corporee e ad articolare la percezione
somatica di sé. Alcuni di essi possono essere eseguiti in gruppo e nella palestra della scuola.
Insert lambruschiesercizi per la consapevolezza corporea e delle emozioni
Un altro aspetto caratteristico dei disturbi d’ansia è la marcata sensibilità ai segnali di minaccia e
pericolo. Come abbiamo visto anche prima, spesso in questo tipo di studi per valutare quanto una
persona è selettivamente attenta a certi aspetti della realtà, si utilizzano come stimoli volti umani
che esprimono diverse emozioni. Sia nel lavoro di Monk e colleghi (2008), che nel lavoro di Waters
e colleghi (2008) i bambini con un disturbo d’ansia generalizzato apparivano più sensibili e attenti a
volti che esprimevano l’emozione della rabbia. Evidentemente si tratta di segnali ambientali
soggettivamente importanti, come se si dovesse sempre essere all’erta pronti a reagire a un possibile
pericolo; ciò che non è affatto chiaro è se la sensibilità alla potenziale aggressività altrui sia il
risultato dell’ansia o sia ciò che genera e mantiene l’ansia.
Epidemiologia
L’età media di comparsa di un disturbo d’ansia generalizzato si situa intorno ai dieci/undici anni;la
percentuale di sintomi fisici, aspettative negative, bisogno di rassicurazione e la presenza di
un’immagine di sé negativa non cambia nelle diverse fasce di età (Masi et al., 2004); è stata
osservata una debole correlazione tra l’età e la quantità di sintomi presentati, maggiore nei ragazzi
più grandi, più vulnerabili al mal di testa che al mal di stomaco, più tipico dei bambini più piccoli
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(Tracey et al., 1997). I dati sulle differenze di genere sono pochi, ma non sembrano esservi
differenze nella prevalenza tra maschi e femmine (Masi et. al., 2004).
Comorbilità
In circa la metà dei casi il disturbo d’ansia generalizzato si accompagna a un disturbo depressivo,
che però non implica un peggioramento dei sintomi ansiosi. Nei bambini che non presentano una
concomitante depressione è facile trovare invece un disturbo ossessivo-compulsivo (Masi et al.,
2004). È invece decisamente assai rara la comorbilità con i vari disturbi esternalizzanti (disturbo
oppositivo-provocatorio, ADHD, ecc.)
Cause
In uno studio su 37.000 coppie di gemelli è stata individuata una stretta relazione tra disturbo
depressivo e GAD probabilmente dovuta all’azione del medesimo gene (Kendler, Gardner, Gatz,
2007). Sulla neurobiologia del disturbo d’ansia generalizzata negli adulti vi è un ampio corpus di
ricerche, che segnalano un incremento di attività nei circuiti neurali della paura, tra cui
l’amigdala,mentre la corteccia prefrontale, che svolge una funzione di regolazione e integrazione tra
pensieri, emozioni e azioni, sembra non attivarsi in modo appropriato quando è necessario per
ridurre i sintomi (Stein, 2009).Al contrario sono pochissimi i lavori condotti sui bambini, che hanno
portato risultati tra loro non sempre coerenti e a volte assai diversi rispetto agli adulti. Ad esempio
non in tutti i lavori è stata ritrovata nei bambini la medesima iperattivazione dell’amigdala e
l’interrelazione tra le varie strutture cerebrali è complessa. I lavori più recenti sembrano far pensare
che le differenze nelle aree cerebrali attivate e nell’intensità dell’attivazione dipendano anche dai
meccanismi attentivi: l’attivazione di quello che viene definito il circuito distribuito della paura (che
comprende amigdala, corteccia ventrale prefrontale, corteccia cingolata anteriore) si ha solo quando
il soggetto si focalizza specificatamente sulla sua sensazione interna di paura (McClure,Monk,
Nelson, et al., 2007).
È stata avanzata l’idea che il disturbo d’ansia generalizzata sia, come l’inibizione
comportamentale, la manifestazione comportamentale di un tratto (Turner et al., 1996) e che quindi
sia la base temperamentale a partire dalla quale, attraverso l’interazione con le variabili ambientali,
socio demografiche e culturali porta allo sviluppo dei diversi disturbi, giustificando così come mai
compare tanto raramente come disturbo isolato: la caratteristica temperamentale rende i bambini più
vulnerabili, in presenza di qualche evento precipitante, allo sviluppo di un disturbo d’ansia. Alcuni
suggeriscono, vista l’alta comorbilità con i disturbi depressivi, che sia più congruo classificarla tra i
disturbi dell’umore (Watson, 2005).
Trattamento
Vi sono diversi protocolli di intervento per i disturbi d’ansia dei bambini evidence-based. Tutti
tendenzialmente lavorano sui tre aspetti – somatici, cognitivi e comportamentali – coinvolti
nell’esperienza dell’ansia. tra le diverse componenti del trattamento vi sono parti psicoeducative,
acquisizione delle abilità di regolazione degli aspetti somatici, ristrutturazione cognitiva,
esposizione graduale alle situazioni temute e piani di prevenzione delle ricadute. Nelle fasi iniziali
del trattamento di solito si cerca di aumentare la consapevolezza emotiva, aiutando i bambini a
identificare e distinguere le diverse reazioni fisiche all’ansia (dal cuore che batte più forte, alle mani
sudate, al dolore allo stomaco) e le tecniche di autoregolazione, ad esempio l’acquisizione delle
tecniche di rilassamento. Obiettivo primario dell’intervento riuscire ad applicare le tecniche di
regolazione dell’ansia imparate nel corso dei primi incontri in situazioni reali (Kendall, Furr,
Podell, 2010).
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Uno dei più conosciuti protocolli di trattamento per il disturbo d’ansia generalizzato, inserito anche
in diversi trials randomizzati controllati, vale a dire abbastanza ben verificato nella sua efficacia, è il
CopingCat Program for Anxious Children (Kendal, 1990) sviluppato presso la Temple University
per i bambini tra sette e tredici anni (vedi box), per gli adolescenti esiste un programma similare, il
C.A.T. Project (Kendall, Choudhury, Hudson et al., 2002).
(inizio box/tabella)
Struttura del protocollo
Incontri 1-3 È importante nei primi incontri illustrare nel suo complesso il programma che si
seguirà, e che è riassunto nell’acronimo FEAR (Feeling Frightened? Expecting bad things to
happen? Attitude and Actions that might help; Results and Rewards) mantenendo un clima caldo
per aiutare il bambino a verbalizzare pensieri e paure nel corso degli incontri; nel secondo incontro
viene introdotto il primo punto F (per feeling frightened), sentirsi spaventati: si lavora per aiutare il
bambino a identificare le sensazioni somatiche e gli stati di attivazione legati alla paura,
normalizzando fin da subito la paura. L’obiettivo principale in questi incontri è incrementare la
consapevolezza di sé dal punto di vista corporeo. Nell’incontro successivo si lavora insieme per
distinguere l’ansia dalle altre emozioni (paura, rabbia, eccitazione e via dicendo) e si approfondisce
la consapevolezza delle proprie specifiche reazioni fisiche all’ansia
Incontro 4
viene fatto con i genitori spiegando loro il senso dell’intervento, dando loro
l’occasione di fare domande, di raccontare in quali situazioni il loro bambino prova ansia dal loro
punto di vista, si descrivono alcune delle tecniche usate con il bambino, in modo che possano
aiutarlo anche loro a casa. Il coinvolgimento dei genitori è importante perché da un lato li fa sentire
partecipi del lavoro, si trasmette la sensazione di avere comunque un controllo parziale della
situazione
Incontri 5-8 nel primo si introducono le tecniche di rilassamento e si invita il bambino a fare
esercizi a casa, mostrando ai genitori quello che hanno imparato; negli altri tre incontri si trattano
gli altri tre punti del programma: E (expecting bad, aspettarsi che le cose vadano male). È
importante identificare e far verbalizzare tutte le aspettative negative, gli scenari catastrofici, con
particolare attenzione al modo in cui il bambino si descrive, di solito lo fa in modo negativo,
sottolineando la sua impotenza e incapacità a reagire. Lo si aiuta a trovare altri modi di raccontarsi.
In questa fase si possono utilizzare disegni e vignette per identificare i pensieri che corrispondono al
dialogo interno, aiutando il bambino a identificare il proprio ansioso dialogo interno, ma soprattutto
siaiuta il bambino a individuarepensieri e discorsi interni che generino meno ansia. È questa una
fase delicata perché spesso per i bambini è difficile descrivere e raccontare i propri pensieri. È
possibile aiutarsi con fumetti e vignette, partendo da vignette che descrivono situazioni non
stressanti si chiede al bambino di scrivere nei fumetti i suoi pensieri in quelle situazioni, si passa poi
a situazioni mediamente ansiose o più ambigue e il bambino e il terapeuta riempiono insieme i
fumetti con i pensieri che gli passano nella mente e i pensieri alternativi e più funzionali. La tecnica
del role-playing può servire a individuare i pensieri negativi e disfunzionali. L’obiettivo on è
cancellare completamente la sensazione di stress, ma trasmettere al bambino la sensazione che lui è
comunque in grado di gestire ciò che gli accade. Poi si passa alla A (attitude and actions,
atteggiamenti e azioni), vale a dire l’introduzione delle strategie cognitive utile per la gestione
dell’ansia. In questa fase si utilizza la tecnica delproblem-solving per generare un’ampia gamma di
soluzioni alternative, valutate nella loro fattibilità e possibili conseguenze. È importante non solo
tenere traccia su un quaderno di lavoro delle riflessioni condivise in seduta, ma registrare le
occasioni e gli eventi vissuti al di fuori della seduta.Infine è il turno della R (results and rewards,
risultati e ricompense) che introduce il passaggio dell’autovalutazione; in tutti questi passaggi si
continuano a riprendere le tecniche di rilassamento ed è importante utilizzare cartelloni e altri
sussidi grafici per aiutare la memorizzazione
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Incontro 9
si svolge con i genitori per spiegare la seconda parte del trattamento, spiegando
anche che questa seconda parte del trattamento può generare ansia, incoraggiandoli a esplicitare le
loro preoccupazioni
Incontri 10-15 questi incontri costituiscono la seconda fase del programma che ha come obiettivo
principale l’applicazione e la pratica delle abilità apprese. In questi incontri si lavora, con la tecnica
dell’esposizione graduale, sulla sperimentazione in vivo delle situazioni che generano ansia e
sull’applicazione delle abilità individuate nella prima parte
Incontro 16 ultimo incontro e consegna del certificato Coping Cat, il riconoscimento del percorso
fatto e delle capacità acquisite
[Tratto e modificato da Kendall, Furr, Podell, 2011, p. 47]
(fine box/tabella)
Vale la pena di osservare che, nonostante il programma Coping Cat sia un trattamento
manualizzato, Kendall stesso ribadisce sempre e da più parti che la qualità più importante del
terapeuta è la flessibilità (Chu, Kendal, 2004): il terapeuta deve avere in mente quali sono gli
obiettivi tecnici di ciascun incontro, ma tenere sempre conto delle caratteristiche individuali del
bambino, adattando il protocollo alle esigenze del piccolo paziente e non perdendo mai di vista
l’obiettivo più importante che è sia mantenere a un livello ottimale la relazione e far sempre sentire
competente il bambino. Il clinico può più facilmente applicare in modo flessibile il protocollo
quando ha ben chiari i differenti livelli a cui si svolge l’intervento, il modello di riferimento e gli
elementi implicati nel processo di trattamento.
Altrettanto importante nel trattamento dell’ansia infantile è coinvolgere i genitori, per i quali è stato
sviluppato un manuale apposito (Kendall, Podell, Gosh, 2010). I genitori possono avere spesso
bisogno di essere aiutati loro stessi a gestire la loro ansia oppure ad aiutare il bambino negli esercizi
di esposizione guidata ma soprattutto è centrale individuare quali comportamenti dei genitori
mantengono il sintomo ansioso – ad esempio perché hanno comportamenti iperprotettivi oppure
perché non riescono a tollerare le emozioni negative - o bloccano i passi verso l’autonomia – ad
esempio perché incoraggiano i comportamenti evitanti o hanno la tendenza ad essere intrusivi e
quindi vanno modificati perché l’intervento con il bambino possa aumentare la probabilità di avere
buon esito. Quando i genitori tendono ad essere ipercontrollanti o iperprotettivi i bambini possono
avere un minore livello di autostima e maggiore ansia.
Un altro programma di intervento con i bambini ansiosi è il programma FRIENDS (Shortt, Barrett,
Fox, 2001) nel quale accanto alle tradizionali tecniche (esposizione graduale, rilassamento, rinforzo,
ristrutturazione cognitiva) è aggiunta un parte sull’acquisizione di abilità per le famiglie
(ristrutturazione cognitiva e soprattutto incoraggiamento a creare delle reti sociali) ponendo
particolare enfasi sull’importanza di creare delle relazioni amicali per il bambino e la famiglia e e
lavorando con i bambini per costruire un’attribuzione interna dei loro successi. I bambini inseriti in
questo programma hanno migliorato in modo importante la loro capaictà di regolare i sntomi
ansiosi, miglioramento che si è mantenuto anche a distanza di una anno.
Un principio aureo dell’intervento clinicoè che non ci sono due bambini uguali; solitamente i
protocolli sono strutturati per toccare tuttii possibili aspetti di un disturbo, ma nella pratica vi sono
alcuni inteventi che funzinano di più con alcuni piccoli pazienti ed altri con altri: quando i
rimuginii sono la caratteristica principale funziona meglio un intervento che dedichi ampio spazio al
lavoro su uesti aspetti, se sono i sinotmi somatici a prevalere funzionano meglio gli interventi di
rilassamento (Eisen, Silverman, 1998), il che ci fa capire come la valutazione iniziale del bambino,
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nella specificità delle sue manifestazioni sia essenziale prima di pianificare qualsiasi tipo di
intervento.
Le tecniche sopra esposte ben si prestano a interventi di gruppo, che danno risultati tanto buoni e
permanenti nel tempo quanto l’intervento individuale (Rapee, 2003; Manassis, Mendlowitz,
Scapillato, et al., 2002). Nonostante i buoni risultati riportati sopra, in altri studi (Nauta, Scholing,
Emmelkamp, et al., 2003) gli interventi sui genitori – per modificare le loro credenze negative sui
loro figli e l’ansia che li affligge – non modifcano in modo sostanziale l’efficacia degli interventi
condotti solo sui bambini, è possibile che questo sia legato al fatto che non è ancora chiaro come
atteggiamenti, comportamenti e differenze individuali dei genitori influenzino il disagio del
bambino, per questi aspetti lavori sull’efficacia e l’outcome sono probabilmente prematuri
Cosa può fare l’insegnante
Lo strumento principe dell’insegnante, è la relazione educativa, caratterizzata
dall’intenzionalità, che fa dell’atto educativo e didattico un evento mirato a obiettivi
precisi e non improvvisato. Ogni bambino è diverso, si comporta in modo diverso e
quindi ha bisogno di approcci adeguati al suo carattere, a quello che è. L’insegnante
collaborerà con la famiglia e gli specialisti nel creare in classe un clima familiare e
prevedibile. Coinvolgerà gli alunni ad affrontare insieme tematiche legate all’ansia e
alle paure. Diventerà un riferimento, se necessario anche per i genitori.
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