Assoluto e relativo nella terza età Inizierò con alcuni brevi cenni sulla psicologia della terza età, per inquadrare le sue specifiche problematiche e soprattutto la dimensione esistenziale, soggettiva con cui ognuno le affronta, in base alla propria storia e al suo rapporto con il tempo e con se stesso. Si tratta quindi di un intervento che, a partire da nozioni e riferimenti teorico-professionali, rimanda a una riflessione soggettiva che mi fa piacere condividere con un gruppo di amici e che rappresenta la modalità del tutto personale con cui cerco di vivere la mia attuale terza età e con cui spero di affrontare la prossima vecchiaia (che della terza età fa parte) e la morte. Userò il termine assoluto con il significato di quello che rimane invariato, in sostanziale coerenza e continuità, pur nelle trasformazioni e nelle forme ed espressioni mutate, perché relative ai diversi periodi della nostra vita. Il termine relativo è appunto riferito a quello che cambia, che si perde, che è contingente e transitorio. La terza età costituisce l’ottavo ed ultimo stadio (o fase) del ciclo vitale dell’individuo secondo il modello di E. Erickson (psicoanalista del circolo freudiano vissuto nel ‘900). Durante tutta la sua vita ogni individuo persegue l’obiettivo di cercare, conoscere e costruire la propria identità personale, all’interno di un progressivo sviluppo psico-sociale articolato in fasi evolutive. Ogni fase o stadio ha specifici compiti e caratteristiche, in base alla maturazione sia di nuovi bisogni e nuove capacità dell’individuo, sia di nuove aspettative e richieste da parte della società nei suoi confronti; e specifici problemi, difficoltà e conflitti. Il passaggio da uno stadio a quello successivo comporta una crisi evolutiva, per superare la quale occorre trovare un nuovo equilibrio e attivare nuove risorse. Se l’individuo riesce ad affrontare positivamente sia i compiti e le difficoltà dei singoli stadi dello sviluppo, sia le crisi evolutive, procede verso una elaborazione sempre più completa della propria identità; se non vi riesce o vi riesce parzialmente va incontro ad un fallimento e ritrova nelle fasi successive i problemi e i conflitti che non ha risolto e che si cumulano progressivamente. Perciò l’ultimo stadio, che Erickson chiama senilità e data dai sessanta anni, costituisce la fase i cui l’individuo si trova non solo ad affrontare nuovi cambiamenti e nuove problematiche, ma anche a riflettere sul proprio percorso e a fare un bilancio. E poiché è anche contemporaneamente il risultato di questo stesso percorso, dei successi e dei fallimenti delle precedenti fasi evolutive, si trova a vivere questo periodo della sua vita o con un senso di soddisfazione per aver raggiunto i propri obiettivi e con consapevolezza di sé (integrità dell’Io), oppure con problemi non risolti che si sono accumulati, forti rimpianti e intensi rimorsi (disperazione). Vediamo ora quali sono i cambiamenti e le problematiche specifiche della terza età, rispetto, appunto, alla propria identità personale e all’immagine che ognuno ha di sé. Un primo aspetto della propria identità è costituito dal sé sociale, in stretta relazione con il posto che occupiamo all’interno della società. È importante allora il ruolo e lo status sociale che una specifica società riconosce e assegna alla terza età. Nelle società primitive (sia quelle del passato, sia quelle esistenti ancora oggi) stanziali, basate sull’agricoltura e sulla caccia, dove la magia e la tradizione orale hanno gran peso, gli anziani hanno un ruolo importante e uno status sociale definito e riconosciuto: detengono il sapere, l’esperienza, le tradizioni sociali, il culto degli antenati, il potere magico; trasmettendo i riti e i canti assicurano la continuità della comunità e costituiscono il ponte tra i vivi e i morti. Perciò viene loro riconosciuto potere, autorità e rispetto (vedi Navajo, Aranda in Australia, Lele in Congo, Bantù in Nigeria, Incas). Nelle società storiche del passato, quelle gerarchiche, statiche, in cui la proprietà è istituzionalizzata, gli anziani hanno sempre avuto un ruolo importante nella vita pubblica: per mantenere l’ordine stabilito, onorare le istituzioni, celebrare i riti. La società attribuisce al loro status rispetto, prestigio, onore, perché detentori di saggezza, esperienza, memoria, tradizione. Così nella società cinese, in quella ebraica (dal Levitico “Al cospetto dei capelli bianchi ti alzerai in piedi e onorerai la persona del vecchio”), nelle polis greche e nella società romana. L’ideologia celebra la figura dell’anziano, con l’epica (cfr. Il vecchio Nestore in Omero), con la filosofia (cfr. La filosofia greca che decanta la virtus dell’anziano) e con le istituzioni (cfr. mos maiorum, il culto dei mani, la legge del pater familias). Nelle società storiche gli anziani godevano di un ruolo e di uno status sociale riconosciuto e di prestigio non solo perché ritenuti saggi, esperti e virtuosi, ma anche perché detentori di potere economico. Le persone che arrivavano a un’età, per l’epoca, avanzata erano, infatti, generalmente quelle appartenenti alle classi sociali economicamente agiate, dei proprietari e dei cavalieri. Entrambi questi criteri (saggezza e potere economico) si mantengono anche nella successiva società mercantile del ‘300 e poi nella società borghese nata dalla rivoluzione industriale. Gli anziani della borghesia detengono il patrimonio, il profitto, il potere economico da una parte, la saggezza dell’esperienza e del sapere tramandato dall’altra. Quindi hanno un ruolo di prestigio riconosciuto all’interno sia della società che della famiglia. La letteratura descrive l’anziano come una figura nobile, più vicina a Dio e all’infanzia (cfr. Hugo, Dickens). E oggi? Oggi le persone della terza età non hanno più un ruolo e uno status sociale riconosciuto e valorizzato, non sono più integrati nella società, perché entrambi i criteri su cui fino ad ora si basava il loro prestigio non sussistono più. L’attuale società, infatti, sempre più tecnocratica e con saperi specializzati e parcellizzati, con modalità informatizzate di trasmissione in tempo reale e senza confini delle conoscenze, rende del tutto inutile il sapere accumulato con l’esperienza, le conoscenze di ieri diventano rapidamente superflue e obsolete. Parallelamente la cultura della tradizione e il patrimonio della saggezza popolare sono diventati un retaggio del passato privo di valore. Sul piano economico il criterio su cui si basano ruolo e status sociali è oggi unicamente quello della produttività, perciò la terza età con il pensionamento perde ogni ruolo riconosciuto, ad eccezione di poche persone il cui capitale ha rilevanza per l’economia nazionale e/o internazionale. Le persone appartenenti alla classe media conservano in parte il loro ruolo all’interno della micro-società rappresentata dalla famiglia, grazie alla propria pensione e al risparmio accumulato. Ma i pensionati più poveri, i proletari o i lavoratori agricoli che non reggono più i ritmi di lavoro sono condannati a una brutta sopravvivenza con pensioni minime e a sentirsi un peso sia per la società, che al massimo si occupa di loro come oggetto di politica assistenziale, sia per i familiari. Di fronte a questo oggettivo cambiamento del sé sociale, esistono due possibili alternative. Si può far proprio il criterio economico della nostra società, che identifica ruolo e status sociali con la sola produttività, perdendo così del tutto il proprio sé sociale, e finendo in tal modo per sentirsi nel presente inutili e privi di significati, in un vuoto di tempo, in un vuoto di attività, in un vuoto di senso di sé. Ci si identifica nell’Io antico, che non è più; si vive di ricordi e nel tempo passato, in un tempo attuale privo di attività, significati, relazioni e riempito, in modo difensivo, da abitudini routinarie che ripetono il passato e che possono diventare delle vere e proprie manie. Le abitudini, i gesti, come anche gli oggetti, diventano una sicurezza ontologica, che assicura una identità altrimenti smarrita. Il presente, diventato vuoto, porta al distacco, anche affettivo, alla chiusura rispetto al mondo esterno, alla noia di vivere e alla tristezza (cfr. Sartre, cfr. Gide “sono sazio dei giorni e non so più bene come impiegare il tempo che mi resta”, cfr. Ionesco, Beckett). Il relativo distrugge così l’assoluto (il proprio sé sociale). In alternativa è possibile invece recuperare la propria identità sociale al di fuori della produttività, in quanto il sé sociale è costituito anche dall’insieme di atteggiamenti e comportamenti verso gli altri, e più in genere verso la società., e dalle nostre relazioni interpersonali e affettive. Si possono trovare altri ruoli, altre dimensioni, altri significati di diversa utilità sociale e di pienezza affettiva (cfr. rapporto nonni-nipoti, volontariato, ecc.). Attraverso il dare valore alla vita degli altri, tramite l’interesse, la solidarietà, l’amicizia, l’amore, si ritrova il valore della propria. Occorre mantenere la capacità di investire sugli altri e sulle relazioni, la passione, la curiosità; occorre riscoprire nuovi motivi e interessi per poter ritrovare il significato assoluto della socialità nelle forme mutate (relative) del presente. Come diceva Aristotele “La vita è movimento”. Un altro cambiamento significativo nella terza età è quello relativo al proprio corpo e alle sue funzioni, in seguito al processo biologico di invecchiamento. Si modifica l’immagine corporea (i capelli che imbiancano, l’aumento delle rughe, la diminuzione della tonicità muscolare…); si indebolisce la funzionalità dell’apparato percettivo e sensoriale, con il necessario ricorso a una serie di orpelli (occhiali, bastone, dentiera…). Il nostro corpo, come in adolescenza, diviene nuovamente oggetto d’investimento privilegiato, in quanto oggetto di cure, di tutela della salute, di attenzione ai suoi segnali. Il Sé corporeo rappresenta fin dall’inizio della nostra vita la base della complessiva identità personale; perciò la sua trasformazione comporta un necessario “riaggiustamento” tramite l’elaborazione del “lutto” per la perdita della precedente immagine corporea. Poiché tale processo di elaborazione richiede del tempo, all’inizio si verifica uno scollamento tra l’immagine che ognuno conserva di sé e lo sguardo degli altri, che registra immediatamente, molto prima di noi, i cambiamenti. Una volta acquisita la consapevolezza della trasformazione del proprio corpo, si verifica un ulteriore scollamento tra il corpo che invecchia e lo spirito che rimane “giovane”(cfr. Voltaire “lo spirito non invecchia, ma è triste alloggiarlo nelle rovine”). Ogni persona si trova perciò in questa fase della vita ad affrontare il non facile compito di accettare i cambiamenti ed elaborare una nuova immagine corporea, come aspetto fondamentale del proprio senso di sé e delle relazioni con gli altri. Anche in questa area, come già avviene nell’ambito del ruolo sociale, il modello imperante nella nostra società rimanda a una visione negativa della terza età e ancora più degli anziani. Il criterio di riferimento, il termine di confronto (anzi di contrapposizione) è la giovinezza, valorizzata dal punto di vista del vigore, della prestanza, della bellezza, del corpo estetico e del suo mostrarsi. Il corpo e le sue funzioni nella maturità sono viste perciò unicamente in base a quello che perdono rispetto alla gioventù, e l’immagine che ne deriva è quella di un triste declino che subisce progressivamente le devastazioni del tempo. Tutto questo è evidente soprattutto nell’area della sessualità. A livello sociale esistono, infatti, pesanti pregiudizi nei confronti della sessualità delle persone mature, dall’andropausa e dalla menopausa in poi; pregiudizi che si traducono nell’opinione che il declino della “potenza” sessuale con l’avanzare degli anni porti alla cessazione di relazioni sessuali soddisfacenti. Già Kuhn aveva individuato i falsi miti sulla sessualità in età avanzata (il sesso non ha più importanza, non si prova più desiderio sessuale, non c’è più capacità sessuale, le persone mature non sono sessualmente desiderabili…). Questi assunti sono appunto miti, cioè false credenze. Lo dimostrano recenti ricerche, che evidenziano che oltre il 60% delle persone comprese tra i 70 e 80 anni sono sessualmente attive e che le donne a 60 anni conservano immutate le possibilità di desiderio e di piacere. E lo dimostrano le tante biografie di personaggi illustri, che in età avanzata hanno avuto una vita sessuale attiva (Tolstoj; Hugo che a 70 anni aveva amanti giovanissime, tra cui Sarah Bernhardt; Chaplin con Oona; Miller che a 75 anni ha sposato una giapponese di 29 anni…). In questa situazione di oggettivo invecchiamento e modificazione del nostro corpo e di immagine sociale della maturità come non solo improduttiva e inattiva, ma anche senza sesso e in declino fisico, si pongono nuovamente due possibili alternative. Si può, non riuscendo ad elaborare adeguatamente il lutto per la precedente immagine corporea e a costruirne una nuova, conformarsi al modello sociale imperante che svaluta il corpo e la sessualità delle persone in età avanzata. In questo caso o si subisce inevitabilmente un trauma narcisistico con conseguente svalorizzazione di sé e vissuti depressivi (cfr. Hemingway), o si persegue l’illusione dell’eterna giovinezza negando il proprio corpo attuale, cercando di riportarlo al corpo della giovinezza (assunto come assoluto) con operazioni, lifting, interventi sul corpo di vario tipo (cfr. Faust di Goethe). In alternativa si può rifiutare questo modello e la sua identificazione dell’assoluto corporeo con la giovinezza, e accettare il nostro corpo come è. A fronte del diminuire del vigore, dell’esuberanza vitale, della forza, della prestanza fisica, si possono valorizzare le sue capacità residue e nuove, la maggiore consapevolezza che si ha di esso, dei suoi bisogni, dei suoi gusti, dei suoi piaceri. Si può dare valore alle nostre esperienze e a quanto ci hanno insegnato su di noi e sugli altri. In definitiva valorizzando il nostro corpo come corpo sensoriale, e non unicamente come corpo estetico, si può ritrovare, nella sua attuale forma relativa, il significato assoluto del “tono edonico” (cioè dello star bene nel proprio corpo) e del significato del corpo come strumento di comunicazione con gli altri. Anche qui esemplificativa è l’area della sessualità. Se certamente è un fatto oggettivo che con l’età si riducono le funzioni genitali, le reazioni agli stimoli sono più lente e più difficoltoso il raggiungimento dell’orgasmo, è altrettanto certo che la sessualità non si riduce all’aspetto genitale e al coito. Ci sono tante altre componenti e modalità della libido che vengono recuperate perché il fine della sessualità è, come diceva Freud, l’acquisizione del piacere, e non ha importanza la modalità con cui si raggiunge . Come nel bambino la sessualità torna ad essere “pervertita e polimorfa”. Inoltre la sessualità mantiene a pieno in questa fase di vita la sua funzione di comunicare, attraverso il corpo, sentimenti, emozioni e affetti. Perdendo o modificando il suo carattere di scarica di tensioni ormonali, diventa sempre di più un modo di avvicinarsi all’altro in forme più autentiche, riscoprendo il piacere di ricevere e di dare; e un modo per riaffermare il valore di sé (e dell’altro), del proprio corpo, delle sue funzioni (cfr. Goethe “E così vecchio gagliardo non lasciarti rattristare, nonostante i tuoi capelli bianchi, potrai ancora amare”). Aspetti essenziali della sessualità diventano soprattutto l’intimità, la sensibilità, l’empatia, il valore conferito alle carezze, il dare e ricevere attenzione, interesse e amore. In conclusione, come modalità di relazione in questa fase della vita la sessualità può non solo mantenere, ma anzi arricchire il valore simbolico della comunicazione non verbale della dimensione affettiva. Abbiamo visto come componenti fondamentali della nostra identità personale, e cioè il Sé sociale e il Sé corporeo, mutano profondamente durante la terza età, e come, tuttavia, si può ritrovare nella relatività delle nuove forme che essi assumono lo stesso significato assoluto della socialità e del riconoscimento e valorizzazione del proprio corpo. Ma l’aspetto che più di ogni altro mantiene anche in questa fase della vita la continuità e la coerenza di significato è quello che io chiamo il “nucleo del Sé”, cioè la radice profonda e centrale della propria identità, quello che ci fa dire, e riconoscere a se stessi “Io sono…”. Il nucleo del Sé equivale a quello che Hilmann (psicoanalista contemporaneo) chiama “carattere” e che così definisce: “ciò che si chiama così perché sono proprio io, con le abitudini contratte nella vita, le amicizie che ho frequentato, le peculiarità che mi sono dato, le ambizioni che ho seguito, gli amori che ho incontrato e che ho sognato, i figli che ho generato”. Il nucleo del Sé, il senso complessivo della propria identità personale, è quello che ci rende unici e diversi da ogni altra persona. Come ho detto all’inizio, la propria identità, il carattere matura nel tempo, attraverso i vari stadi evolutivi, delineando in modo sempre più specifico e originale quello che siamo, e culmina perciò proprio nella terza età con un Io altamente individuato in un “finale d’opera con una particolare ed unica configurazione di note”. Invecchiando si diventa quel qualcuno, diverso da ogni altro, nei propri pensieri e nei propri sentimenti, nelle caratteristiche personali, nelle sfumature, che ci identifica inconfondibilmente e per sempre in noi stessi. Ogni persona si delinea nella sua variabilità, che diventa sempre più specifica e originale; scopre e realizza la propria identità, costruisce la propria narrazione. Questo senso del Sé nella terza età diviene più pieno e consapevole anche perché la libertà dai vincoli e dai doveri dello status sociale ci rende più autentici, più indifferenti all’influenza dell’opinione pubblica e ci consente di poter essere finalmente e interamente noi stessi. Illustra bene questo aspetto il romanzo di Brecht ”La vecchia signora indegna”. La protagonista, una donna borghese di settantadue anni, rimasta vedova si sente libera dal ruolo che fino ad allora l’aveva pesantemente condizionata e, con scandalo e riprovazione di parenti e amici, si dedica finalmente ai propri piaceri (uscire, ballare, fare tardi la notte…) e stabilisce un nuovo rapporto con un uomo di una classe sociale molto più bassa, ma che la appaga. Come ultimo punto vorrei trattare, anzi accennare brevemente, perché il tempo e il contesto non consentono altro, alla tematica dell’assoluto e relativo di fronte al pensiero della morte. Ovviamente il vissuto esistenziale della morte è strettamente influenzato da come il contesto sociale vive questo evento: nelle società in cui la morte è ritualizzata o vissuta come passaggio a una nuova vita, la morte è meno temuta, e anzi può essere addirittura desiderata. Nella nostra società, invece, il pensiero della morte è collegato per lo più a paura della morte o a vera e propria angoscia. Nella terza età la morte è vissuta come un evento (negativo, almeno finché c’è attaccamento alla vita) prossimo e personale. È un evento pensato come prossimo anche perché in questa fase della vita cambia il rapporto con il tempo: il presente diventa accelerato, l’avvenire si accorcia e il futuro non è più vissuto come un tempo infinito e indefinito, ma limitato e prossimo alla fine (cfr. Ionesco “Mi trovo…nell’età in cui un’ora vale appena qualche minuto”). Come affrontare il pensiero della propria morte? Anche qui ci sono due alternative. Si può rifiutare la relatività della vita, cercando un assoluto che trascenda la finitezza, e che può essere ricercato in una religione, ma anche nel perseguire fini ed obiettivi che vanno oltre la propria morte. Alla base di questa modalità c’è una concezione del tempo rappresentato come un segmento di linea retta, dove ogni punto non ha valore di per se stesso, ma in base alla posizione che occupa nel segmento stesso. Così la fine della vita diventa il fine, e il tempo rimasto perde significato, perché non è più pensato come passibile di cambiamenti, progetti, scelte, e la persona, e la sua vita con lei, diventano quello che non è più modificabile. In questo modo si è davvero vecchi, non perché ci è piovuto addosso un certo numero di anni, ma perché si sono abbandonati i propri ideali e i propri investimenti e non si è più ricettivi ai messaggi della natura e degli altri. In alternativa si può rinunciare al miraggio dell’assoluto e questa rinuncia rende più liberi, più consapevoli, più autentici, più capaci di ritrovare degli scopi e dei rapporti non alienati e non mitizzati, ma comunque degni di investimento affettivo ed emotivo, anche se non sono il fine assoluto ( “…la vita è una lunga preparazione a qualcosa che non arriva mai; da vecchi si scopre che si è sempre creduto di camminare verso una meta, ma in realtà non si va da nessuna parte” Yeats). Si può vivere la nostra terza età come un “carpe diem”, con l’intensità del presente, con il godimento dell’uso e la ricerca del piacere, inteso come attività non condizionata dal dover produrre, o dai suoi risultati, ma fine a se stessa e al suo significato per noi (e per gli altri). Occorre riscoprire, di nuovo come nell’infanzia, il piacere del gioco, della fantasia, dell’immaginazione produttiva, il piacere di iniziative improntate alla creatività e alla condivisione, iniziative come appunto quelle di stasera e di questa estate (“Le cose che il bambino ama rimangono nel regno del cuore fino alla vecchiaia. La cosa più bella della vita è che la nostra anima rimanga ad aleggiare nei luoghi dove una volta giocavamo” Gibrain). Occorre accettare il relativo e riappropriarsi di aspetti quali il gioco e la creatività; un carpe diem vissuto con l’intensità del presente che ci riporta all’infanzia (liberi dai vincoli come il bambino), ma in modo responsabile (come l’adulto) nella capacità di accettare la rinuncia alle opportunità non colte e il proprio ciclo di vita. La concezione del tempo su cui si basa questa dimensione esistenziale è quella di un cerchio, dove inizio e fine si ricongiungono e dove ogni punto ha valore di per se stesso, per quello che può dare, quello che può significare, acquistando così, nella sua relatività, una valenza assoluta. Se in questa fase del ciclo vitale si è raggiunto l’integrità dell’Io questo consente di accettare la propria morte con una calma emotiva che deriva dalla consapevolezza che il viaggio è stato bello e gli obiettivi sono stati raggiunti. È così possibile vivere questo ultimo tempo senza rimpianti e senza rimorsi. Mi piace finire questa mia riflessione con una citazione di Garcia Marquez “…darei valore alle cose, non per ciò che valgono, ma per ciò che significano. Dormirei poco, sognerei di più, capirei che per ogni minuto che chiudiamo gli occhi perdiamo 100 secondi di luce. Andrei quando gli altri si fermano, mi sveglierei mentre gli altri dormono. Ascolterei mentre gli altri parlano, e come mi godrei un buon gelato al cioccolato…vestirei semplicemente, mi butterei disteso al sole, lasciando scoperto non solo il mio corpo, ma anche la mia anima…Annaffierei con le mie lacrime una rosa, per sentire il dolore delle sue spine, e con le labbra la carnosa sensazione dei suoi petali…Non lascerei passare un sol giorno senza dire alla gente a cui voglio bene che le voglio bene. Convincerei ogni uomo e ogni donna che essi sono i miei preferiti, e vivrei innamorato dell’amore. Agli uomini dimostrerei quanto si sbagliano col pensare che smettono di innamorarsi quando invecchiano, senza sapere che invecchiano quando smettono di innamorarsi…Ai vecchi insegnerei che la morte non arriva con la vecchiaia, ma con l’oblio”. Dott.ssa Mirta Bertoncini