digital magazine maggio 2011 N.79 Tune-Yards Cold Cave Geddes Papercuts Speciale Live Report musica come riccioli Wombats, James Pants Battles p. 4 Turn On Cold Cave, Geddes, Papercuts, p. 10 Tune IN Wombats, James Pants, Battles sentireascoltare.com p. 22 Drop Out Tune-Yards p. 30 Recensioni p. 86 Speciale Live Report . Rubriche p. 92 p. 94 p. 96 p. 100 p. 101 Gimme some inches Reboot China Files Campi Magnetici Classic Album SentireAscoltare online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Direttore responsabile: Antonello Comunale Provider NGI S.p.A. Copyright © 2009 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati.La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare Direttore: Edoardo Bridda Direttore Responsabile: Antonello Comunale Ufficio Stampa: Teresa Greco Coordinamento: Gaspare Caliri Progetto Grafico e Impaginazione: Nicolas Campagnari Redazione: Andrea Simonetto, Antonello Comunale, Edoardo Bridda, Gabriele Marino, Gaspare Caliri, Nicolas Campagnari, Stefano Pifferi, Stefano Solventi, Teresa Greco Staff: Marco Boscolo, Edoardo Bridda, , Luca Barachetti, Marco Braggion, Gabriele Marino, Stefano Pifferi, Stefano Solventi, Teresa Greco, Fabrizio Zampighi, Luca Barachetti, Andrea Napoli, Diego Ballani, Mauro Crocenzi, Fabrizio Zampighi, Giulia Cavaliere, Giancarlo Turra Copertina: Aucan (foto di Giordano Garosio) Guida spirituale: Adriano Trauber (1966-2004) Turn On Cold Cave —Goth pop orchestra— La cura del rigore ha dato i suoi frutti e ora l’electro minimale può lasciare spazio a grandiosi anthem post punk. I nuovi Cold Cave raccontati da Wesley Eisold È un Wesley Eisold diverso, più maturo (ma verrebbe da dire più sgamato), quello che abbiamo contattato in occasione dell’uscita del nuovo album Cherish The Light Years. Solo un paio di anni fa, il trentaduenne agitatore culturale della New York più underground, era un ex punk prestato all’elettronica DIY; con i Cold Cave si ispirava ai primi, minimali esperimenti synth pop, mentre la sua misantropia andava di pari passo ad un suono algido e alieno. Oggi i Cold Cave sembrano ben più di uno dei tanti progetti estemporanei. L’uscita dell’album ha coinciso con una voglia di assaporare il responso di nuove platee e di lasciarsi andare ai riti del pop, senza tuttavia tradire l’impronta artsy originaria. Mi sembra evidente che siano cambiate parecchie cose rispetto a Love Comes Close, in cui bassa fedeltà e minimalismo digitale rappresentavano i segni distintivi del vostro sound. Cos’è successo in questi due anni? Diciamo che gli aspetti che hai elencato per me erano importanti, ma il motivo era che non c’era altra scelta. Prima di allora non avevo mai scritto e registrato musica. Naturalmente apprezzo il minimalismo e penso che il lo-fi si adatti particolarmente a certe situazioni musicali. Le canzoni che ho scritto per quest’album, però, non avrebbero funzionato con quel tipo di sonorità; quando le ho scritte le immaginavo anthemiche e grandiose. La differenza è che il tempo è passato e non avevo intenzione di rimanere fermo al suono dell’album precedente. Dunque si è trattato di una naturale maturazione musicale? Beh, avendo preso confidenza con tutto il mio equipaggiamento, è stato naturale iniziare a scrivere canzoni più strutturate. Quello che volevo fare era un disco pop che però suonasse ancora chiaramente Cold Cave. Sono molto contento del risultato. Ci sono voluti due anni per realizzarlo e sicuramente viaggiare nei quartieri in cui sono nato ha contribuito a darmi l’ispirazione giusta. The Great Pan Is Dead , il singolo che ha anticipato l’album, ha un approccio rock molto potente. Mi pare che nella tua musica ora ci sia più fisicità e più partecipazione emotiva rispetto a prima. 4 È vero, anche se tutto sommato quella canzone è un’eccezione all’interno dell’album. Per come la vedo io, c’è sempre stata emotività nella mia musica ma forse ora è venuta allo scoperto. Volevo che quella canzone fungesse da cerniera fra quello che ho fatto in passato e quello che sta per accadere. Essendo poi il primo estratto dall’album, volevo che fosse chiaro che le cose sono cambiate rispetto al passato. Il tuo modo di cantare, in alcuni brani del disco mi ricorda quello di Phil Oakey degli Human League. Quanto sono state importanti per te band le electro pop band degli anni 80, come gli stessi League o i New Order? Certamente quelle band per me sono importanti, ma non più di altre. Da Gary Numan agli Absolute Body Control, fino ai Sisters Of Mercy, sono cresciuto con questa musica ed è quella che ascolto ancora oggi. Tornando al discorso della voce, la musica elettronica, soprattutto quella dalle sonorità più fredde, ha sempre avuto parti vocali impassibili. Bisogna però essere molto naturali per suonare credibili. Gli artisti che hai citato hanno portato una buona dose di sperimentazione nella pop music dell’epoca. Pensi che sia una cosa che può essere fatta anche oggi? In verità non sono interessato a qualcosa di simile. Sono più interessato a fare musica in cui credo, mantenendo una certa onestà intellettuale. Non so se ci sia spazio per questo. Personalmente sono attratto dagli aspetti più sperimentali della musica popolare. In fondo mi piace il conforto della familiarità ma adoro godere degli errori umani. Per essere un artista che fa un ampio utilizzo di tecnologia nuova e vintage, so che hai sempre avuto opinioni piuttosto negative sul modo in cui questa influenza l’uomo. Quello che penso è che facciamo affidamento sulla tecnologia per esprimere quello che non si può dire o che non ci sentiamo sicuri di dire con quelle cose apparentemente insignificanti che sono il nostro cuore e il nostro cervello. In musica, ad esempio, non potremo mai fare a meno di sintetizzatori e chitarre. I Cold Cave sono un frutto della scena DIY newyorkese. Hai mai sentito di avere qualcosa in comune con quegli artisti? A New York ci sono band interessanti ovunque, ma non sono sicuro di avere qualcosa in comune con qualcuna di esse. In generale non mi sento ispirato da band che hanno un suono simile al mio. Preferisco ispirarmi alla gente in cui credo, indipendentemente da quale sia il mezzo con cui scelgono di esprimersi. Per cui non ci sono artisti che ammiri o con cui ti piacerebbe collaborare? Si, ma in questo momento sono più attento ad altre forme di espressione artistica, come certo design d’avanguardia per l’abbigliamento. In particolare c’è un designer italiano a cui sono molto legato, si chiama Maurizio Amadei. So che avete un programma serrato di date per promuovere l’album, vi troverete anche di fronte alle grandi platee dei festival estivi. E’ corretto dire che le performance live stanno diventando importanti per voi? Si, è così. Saremo in tour dalla fine di Marzo fino, almeno, a Settembre. È un ottimo momento, dopo molto tempo mi sento pronto ad uscire da New York. Per me, poi, non è mai stato un problema di piccole o grandi platee. Ho avuto esperienze positive e negative in entrambe le situazioni. Immagino che sul palco, questa volta, ci sarà una vera e propria band. Alla luce di questo consideri sempre I Cold Cave come un tuo progetto solista? Continuo a scrivere e dirigere la band in prima persona. Poi, naturalmente, ci sono amici che suonano insieme a me, ma in generale l’input esterno è molto ridotto. L’intenzione, dal vivo, è di sembrare di più una band tradizionale. Fino all’anno scorso eravamo io, Dominick Fernow, Jennifer Clavin e un batterista. Ora abbiamo anche un chitarrista. L’aspetto visuale in realtà è cambiato molte volte da quando la band ha cominciato a suonare dal vivo. So che non ti occupi solo di musica, ci sono altri progetti in cui sei coinvolto al momento? Sto lavorando su alcuni libri ma i Cold Cave occupano la maggior parte del mio tempo. È la cosa che preferisco fare in questo momento. Questo significa che stanno diventando una specie di lavoro per te? Li considero più una scelta estetica, non un progetto o un lavoro. Meglio dire uno stile di vita. Cosa dobbiamo aspettarci dai Cold Cave nell’imminente futuro? Come dicevo saremo parecchio in tour nei prossimi mesi. Sto anche scrivendo e registrando nuovo materiale, in generale sto cercando di migliorare quello che ho fatto fino ad ora. Aspiro ad essere un esempio per le persone a cui è stato detto che non sono in grado di fare quello che desiderano. Il tempo che abbiamo è troppo prezioso per essere sprecato. Diego Ballani 5 Turn On Geddes —No Fit States— Intervista a Stuart Geddes per parlare di house londinese al di fuori dei circuiti mainstream... 6 U sciamo per un attimo dal continuum UK in compagnia di Stuart Geddes. L’uomo produce e suona house a Londra, organizza i party Mulletover nella migliore tradizione danzereccia della capitale. Il mese scorso ci ha allietato con una compilation per la sua etichetta murmur. L’abbiamo sentito per capire dova va il suono londinese al di fuori delle atmosfere fumose del dubstep, sempre e comunque underground. La chiacchierata in esclusiva per noi. Ciao! Ti puoi presentare al pubblico italiano? Ciao! Sono Geddes e vivo nell’East London, la parte più cool della città, dove girano le ragazze più carine. Sono il responsabile di due party underground (Mulletover e Nofitstate) che si svolgono in piccoli scantinati e in capannoni fuori dalla città. Ho iniziato sette anni fa a suonare al Mulletover, perché era impossibile entrare nel circuito dei club. Così ho proposto questa nuova serata tutta mia, per suonare quello che mi piaceva di più. Dopo anni di LP e tracce sparse, hai deciso di pubblicare una compilation. Cosa avevi in mente quando hai iniziato il progetto? L’ho registrata perché non ne avevo mai fatta una. Anche se il mercato non tira molto, la nostra nofitstate sta andando a ruba. Siamo molto contenti solo a livello di prevendite del disco. Prima registravo dei demo mix che regalavo alla gente che veniva al Mulletover. I ragazzi però non apprezzano molto i dischi gratuiti, e soprattutto non credono che un prodotto possa essere di buona qualità se non lo pagano, quindi ho deciso di passare al commerciale. Perché hai scelto Tom Demac per il secondo disco? Tom è l’artista che rispetto di più e in cui credo veramente. Ha molti pro e idee che sono diverse dalle mie. Anche se il suo stile è più vario la nostra matrice è comune. Nel CD hai usato tracce di Deniz Kurtel, Maceo Plex e altri artisti che suonano ‘soft’ house. Ti piace suonare calmo, senza sparare il solito basso four-onthe-floor? Dipende dalla serata. Qualche volta serve suonare soft, qualche volta serve spingere. Quando suono nelle location più piccole posso essere un po’ più creativo e raccontare una storia. Nel grandi club tutto ciò non è permesso. Negli ultimi mesi c’è stato un grosso hype intorno ai nomi di Wolf + Lamb e Nicolas Jaar. Ti piacciono pensi che stiano proponendo qualcosa di nuovo? Conosco molto bene il loro lavoro [W+L]. Penso che suonino freschi e nuovi. La stampa infatti si è buttata subito su di loro, ma non so quanto possano durare. Nicolas è diverso, suona con gente che non viene dai club. La sua musica sta inglobando nel suono house sonorità jazz e probabilmente potrebbe diventare la contemporanea per il 21-mo secolo. Pensi che questo cambiamento sposterà un po’ i gusti della gente che frequenta i club? La musica che propongono ha ancora un audience piccolo in confronto a quello dei club house. La loro proposta è molto interessante e funziona bene, ma credimi, se vuoi raggiungere le folle non puoi suonare a 120bpm... Suoni spesso in Inghilterra ma anche negli States. Pensi che si sia una differenza nei clubbers di questi due paesi? Puoi dirlo forte. Gli europei sono più cosmopoliti e sono aperti a sonorità e gusti nuovi. Gli States sono un po’ retrò, guardano di più al passato, non hanno la cultura musicale sufficiente per apprezzare le novità. Suoni anche in Italia? Conosci artisti italiani? Ho suonato solo una volta in Italia per la crew The Flame; mi ha invitato Luciano Esse. Penso che sia italiano, no? Ho visto che nella compilation hai usato una traccia di Marco Passarani. Lo conosci? Ti piace il suo lavoro? Conosco poco del lavoro di Marco. Le sue produzioni su Running Back è strana forte però! Quali sono i DJ che ti piacciono di più? Ricardo Villalobos, Danny Tenaglia, Jay Hannan, Craig Richards, Giles Smith. I tuoi prossimi progetti? Ho qualche traccia che esce a breve e qualche remix (Kruse & Nurenberg feat. Nathalie Claude ‘More and More’)... Cosa stai ascoltando ora? Il podcast di Roman Flugel su Beats In Space. Quali sono le prossime uscite su murmur? Un sampler in vinile con tracce esclusive di James What e un remix di Glimpse. Poi escono gli EP di Marc Ashken con un remix di Annoym, l’EP di Hugo Barritt feat Robert Owens and qualcosa Hamid che è resident all’Half Baked. Perché hai chiamato la compilation nofitstate? Alla fine delle serate siamo sempre in un ‘no fit state’ e poi il party si chiama proprio così. L’idea era di richiamare l’atmosfera notturna... Marco Braggion 7 —Loveless Parade— Sulla spiaggia del cosmic dream pop prende posto Jason Quever: Van Dyke Parks incontra il paradiso dei My Bloody Valentine 8 Turn On Papercuts L a scena è un po’ sempre la stessa: una spiaggia al tramonto e un setting sun che tutto dori e illumini di barbagli arancioni, sfumature tardo-adolescenziali assolute ma pudiche, nostalgia per un attimo che fugace ci ha riempito il cuore, l’anima e le orecchie, e poi se n’è andato per sempre, tuffandosi nell’oceano, infilandosi tra le stelle che stanno apparendo sulla volta celeste mentre il sole si accomiata. E’ un momento che sfiora più che toccare, come una brezza che annuncia l’estate: effimera muove appena i capelli impregnandoli di bittersweetness. Sarebbero sentimenti da noi che abbiamo scoperto Siddartha tra i banchi di scuola, di nascosto tra un Dante o un Boccaccio, che ci pareva avessero un odore troppo forte, e le equazioni di secondo grado o la trigonometria, che – invece – di odore sembravano proprio non averne alcuno. Ma sono invece alcuni dei colori che riempiono da qualche anno le tele musicali di alcuni act che si sono via via guadagnati rispetto e audience fuori dal ristretto giro delle camerette. E’ il suono dei Morning Benders dei vari Grizzly Bears e Beach House che hanno riempito le playlist delle ultime stagioni, e dove ritroviamo anche il (mezzo) nostrano Jonathan Clancy, sponda His Clancyness. Una scena, e una spiaggia, che sembrerebbe da tutto esaurito, e sulla quale, invece, trova posto Jason Quever con il suo progetto Papercuts, che con il quarto atto della sua discografia ufficiale, si iscrive definitivamente al club. Nato in una comune della West Coast, Jason Quever vive a San Francisco dove ha avuto l’occasione di sistemare un vecchio hangar per trasformarlo in uno studio di registrazione e chissà che la struttura industriale non abbia avuto un qualche ruolo nel fargli nascere un interesse per i riverberi e i delay. Da una parte all’altra della baia collabora, tra gli altri, con Cass McCombs, Vetiver, Casiotone for the Painfully Alone. Nei ritagli di tempi si dedica a un folk-pop solare che diventa materia dei primi due dischi, Mokingbird e Can’t Go Back. Già dal penultimo You Can Have What You Want, invece, si registra un cambio di rotta, che fa guardare Jason a quella spiaggia con occhi diversi. Non più quelli del folkster, ma quelli del drempopper. “Alcuni anni fa Spin Magazine definì la mia musica”, ci racconta, “come la perfetta colonna sonora per un giro in macchina senza meta lungo la Pacific Coast Highway. Sì, è vero, adoro guidare lungo quella strada e perdermi nel paesaggio, ma questo era il sound di Can’t Go Back, con un sacco di chitarre acustiche. Oggi il nostro suono è diverso, anche se non riesco a fare a meno di tornare – senza accorgermene – al sound dei Sixites”. Il nostro suono, già. Perché non solo Quever ha firmato per la Sub Pop, ma Papercuts è diventato un po’ più una band che ha suonato “per mettere giù almeno la metà delle canzoni che sono finite sul disco. Tutti insieme”. Con la compartecipazione della live band o meno, Fading Parade è il risultato di una ricerca iniziata molti anni fa e giunta a un primo passo importante e maturo. “Ogni volta che fai un disco dovresti sentirti come se stessi crescendo e migliorando. Questo ti permette di dire quello che vuoi in modo migliore. E’ una questione di esperienza che si accumula”. Nonostante questi discorsi da bambino grande, Jason Quever rimane un ragazzo che ha trovato il modo per far uscire le proprie canzoni dalla cameretta (letteralmente, visto che finora aveva fatto praticamente tutto da solo) e approdare a un’etichetta importante. “Lavorare con i ragazzi della Sub Pop è fantastico, perché hanno dimostrato un grande entusiasmo nei miei confronti e credo che questo si senta nel disco. Sono stati determinanti per permettere a me e alla band di poter fare esattamente il disco che volevamo”. Aiuto che deve essere arrivato anche dalla co-intestazione della produzione, che oltre al solito Quever, vede in console anche Thom Monahan, già al lavoro per Vetiver e Devendra Banhart. A proposito di produzione, già dalle note stampa, viene citato Phil Spector come uno dei fari a cui si è voluto guardare. L’accostamento è più che mai azzeccato se si presta attenzione agli strati di suono che sono stati depositati uno a uno sulle canzoni per dar loro un impatto quasi fisico, ma senza snaturare la natura eterea e dream delle composizioni. “Mi piacciono molto le produzioni di Spector, ma non posso dire di ascoltarle molto ultimamente”. Il punto è che, produzione importante o meno, è necessario che sia buona la materia di partenza. “Pensa alle Ronettes, una delle mie band preferite di sempre: loro sono state eccezionali, sicuramente anche grazie al lavoro di Spector, ma la qualità c’era già in partenza. Quando penso al concetto di wall of sound, però, non penso a Spector, ma ai My Bloody Valentine: una vera pietra miliare per me”. Ecco un altro illuminato sulla via di Loveless, del paradiso in terra e del sogno ad occhi aperti. Eppure, nonostante di noise qui ce ne sia poco, l’idea è sensata. E’ la band di Kevin Shields ad aver sparso sul pianeta una polvere angelica che ha aperto le porte del sogno per molti musicisti della generazione di Quever. La capacità di quest’ultimo, il suo vero talento, è quello di far convivere questa materia con Van Dyke Parks, i Beach Boys e gli Zombies in una macchina del tempo che li fa ritrovare tutti sulla stessa spiaggia. Ma oramai è scesa la notte ed è tempo di guardare le stelle mentre si accendono i falò e ci mettiamo una coperta sulla spalle. Marco Boscolo 9 Tune-In Il perché e il per come Let’s Dance To Joy Division, tre anni dopo, si è vestita di synth pop e non di grunge. Ne abbiamo parlato con il bassista Tord ØverlandKnudsen... Wombats —Party da ritardatari— S Testo: Simone Madrau 10 ono insospettabilmente dimessi, gli Wombats. Cortesi nei modi, sorridenti, parlano poco al di fuori delle interviste, forse un po’ spaesati, forse un po’ stanchi tra apparizioni promozionali e concerti. Una pacatezza che stride con il loro profilo di indie-band giovanile attesissima in UK per This Modern Glitch, un secondo album particolarmente difficile vista la rapidità con cui il mercato inglese di oggi mastica e rigetta giovani band e hit radiofoniche. E’ una frenesia in cui il gruppo sembra non sapersi inserire. Se il precedente A Guide To Love, Loss And Desperation si abbeverava dai primi anni ‘80 dopo che un intero filone di gruppi li aveva già abbondantemente riesumati, i nuovi brani subiscono le medesime conseguenze rispetto al ritorno del synth pop che ha dominato nella seconda metà degli ‘00. Revival per revival, un disco in odore di ‘90 come quello che il trio di Liverpool prospettava avrebbe potuto rappresentare a conti fatti una mossa più saggia. Ecco quindi che i retroscena su questa seconda release, svelati a tu per tu con il bassista, il norvegese Tord Øverland-Knudsen, finiscono con l’essere un trampolino per una serie di divagazioni in cui cerchiamo di capire come certi meccanismi musicali vengono percepiti da qualcuno che li vive sulla propria pelle. Iniziamo parlando del nuovo album. Quando e dove è stato registrato? Per lo più lo abbiamo registrato a Los Angeles, per tre mesi durante l’estate, facendo avanti e indietro da Liverpool. La prima session è stata prodotta da Jacknife Lee, con cui abbiamo registrato tre canzoni. Poi qualche settimana dopo con Eric Valentine abbiamo registrato altre due canzoni, e ancora siamo tornati per registrare il grosso dell’album con Rich Costey. E poi, siccome lui era impegnato per finire le ultime canzoni dell’album, siamo andati a Santa Monica per registrare le ultime due canzoni con Butch Walker. Quindi quattro produttori diversi. Avremmo voluto registrate tutto con Eric ma considerando che lui era molto impegnato e che noi avevamo già lavorato con Rich per l’album precedente, sapevamo di essere comunque in ottime mani. Non sorprende che Jacknife Lee sia tra i produttori. Perfect Disease è prodotto da lui? Perchè mi ha ricordato molto il sound del secondo Bloc Party. No, quella è prodotta da Rich Costey che comunque aveva mixato quel disco. Quindi diciamo che ci sei andato vicino. Il disco suona meno post-punk e più vicino al synth pop o alle cose più ballabili degli anni 80. Voi per primi lo dichiarate apertamente in Techno Fan dicendo ‘we are in the 1980s’. E’ una cosa voluta o è il tocco dei produttori che ha portato le cose verso questo risultato? Il fatto è che dopo aver passato tre anni a suonare le canzoni del nostro primo disco, eravamo talmente stufi che volevamo suonare in maniera ribelle, andando letteralmente contro quanto avevamo prodotto fino a quel momento. Pensa che il primo gruppo di canzoni nuove che avevamo registrato era praticamente roba grunge, molto heavy. Al punto che quando la nostra etichetta le ha sentite la reazione è stata tipo ‘what the fuck?!’. Andava bene cambiare, ma secondo loro quelli non erano gli Wombats, erano proprio un altro progetto. Così abbiamo deciso di riprovare sul versante opposto, mettendoci a sperimentare con l’elettronica. L’utilizzo dei synth non è quindi un’idea della produzione, siamo semplicemente noi che ci siamo messi a giocarci perchè quel piglio post-punk scanzonato sul primo album ci era venuto a noia. Avevamo voglia di spingerci il più lontano possibile da quello che avevamo fatto. In verità ti ho chiesto questa cosa perchè sto notando che molte band inglesi tra quelle uscite negli ultimi anni stanno prendendo questa direzione, meno basata sui riff di chitarra e più tesa a riscoprire certi suoni di matrice 80’s. In effetti hai ragione, per quanto percepisca ugualmente molte sfumature tra questi gruppi. Gli anni 80 11 sono un buon denominatore comune probabilmente, ma sarebbe semplicistico ridurre tutto a questo. Credo che ciò che descrivi tu dipenda da due fattori differenti: da una parte le possibilità che offre la tecnologia oggi rendono molto più facile evolvere e farsi influenzare da altre cose - forse anche troppe, devo dire - modificando il proprio suono nell’arco di poco tempo. Dall’altro lato le tendenze musicali di oggi cambiano in maniera molto più rapida, e così anche le esigenze di consumo e i gusti di chi consuma musica. La gente ascolta molta più musica, escono almeno quattro gruppi nuovi ogni giorno. Parlando di testi, vecchi e nuovi, penso che la parola ‘ironia’ sia la parola chiave dietro i vostri testi. La cosa era già esemplare ai tempi di Let’s Dance To Joy Division, dove dichiaravate che ballavate i Joy Division per celebrare l’ironia del fatto che tutto andava storto ma voi eravate felici. Una sindrome generazionale, si direbbe. Indubbiamente, e indubbiamente in questo disco siamo sempre noi da quel punto di vista. Ma come ti dicevo prima non abbiamo molto in simpatia quanto abbiamo prodotto in precedenza, compreso quel singolo. Considera che Tokyo (Vampires And Wolves) parla proprio di Let’s Dance To Joy Division. E ne parla come se fosse un qualcosa da abbattere. E’ una canzone sui meccanismi dell’industria musicale, su come sia facile finirne intrappolati con una sola canzone e sulla necessità di fuggire prima che sia troppo tardi. Bè, effettivamente Let’s Dance To Joy Division è stato un vero e proprio club anthem qualche anno fa. Ti confesso tuttavia che personalmente preferisco questa nuova Jump In The Fog: molto più matura in termini di composizione, magari meno melodica ma per molti versi sintomatica di una certa evoluzione. Penso in effetti che sia il brano che anche a livello di liriche suona come il più distante dal disco precedente. Poi certo ci sono cose che suonano più vicine ai Wombats che la gente conosce. Ma pure aperture folk ed esplosioni grunge. In passato avete già presentato alcuni brani di questo nuovo disco dal vivo. Come ha reagito la gente? Dipende. Nel caso di Tokyo hanno per lo più continuato a ballare, nonostante serpeggiasse una certa curiosità. Ma mentre eseguivamo Jump In The Fog, prima dello scorso Natale, ho visto la gente fermarsi e mettersi ad ascoltare con attenzione. Non è che non apprezzassero, anzi: sembravano sinceramente curiosi di capire cosa stessimo facendo, piuttosto che intenti a ballare come scalmanati. Smettono di saltare e ballare e si 12 mettono ad ascoltare: sarà banale dirlo, ma è un modo di reagire che mi piace davvero molto. Cosa succede nell’underground di Liverpool in questo momento? Tu vieni dalla Norvegia ma vivete tutti e tre lì, giusto? Il paradosso è che pur essendo io l’unico membro della band non originario di Liverpool, sono anche l’unico a vivere a Liverpool al momento. Matt vive a Londra e Dan si è trasferito a Parigi. Quanto alla scena di Liverpool, per essere onesti non la sto frequentando molto perchè tra il tour, le registrazioni del disco che come ti dicevo sono state piuttosto impegnative e la promozione, ho passato davvero poco tempo a casa. Quando ci sono, tendo ad andare a vedere i miei amici che suonano. Posso dirti che in questo momento c’è una discreta attività in ambito hardcore, soprattutto di stampo At The Drive In e Blood Brothers. Quel genere di cose. Non proprio la prima cosa che ci si aspetta quando si pensa a Liverpool. Già voi siete molto lontani da quell’immaginario, ma l’hardcore è praticamente opposto. Bè, se ti riferisci ai Beatles che io sappia gli unici nomi in città con un’attitudine simile sono i Coral e Miles Kane (ex The Rascals, metà dei Last Shadow Puppets e di prossima uscita con un album solista tra i cui ospiti figura Noel Gallagher, NdR). Ma sono cose abbastanza sorpassate, almeno per ora. Siamo a cavallo tra un decennio e l’altro. Qual è la tua band preferita degli anni 00? Bè, una sola è davvero difficile. Posso scegliere un disco in particolare? Certo, come meglio credi Allora ti dico Kid A dei Radiohead. Mi ha cambiato un sacco. Mi piacevano anche prima di allora ma quel disco è stato così di ispirazione: è musica elettronica ma è pieno di chitarre al tempo stesso. E’ stupefacente come sia riuscito ad aprirmi la mente. Dopo di loro ho iniziato ad ascoltare gli Air, per esempio, e altri gruppi simili che non avevo mai considerato. Guardando ai vostri esordi pensavo aveste un’estrazione post-punk Personalmente più che dal post-punk provengo dall’indie-rock degli anni 90. Conosci un gruppo genovese chiamato Motorpsycho? Certo... Ecco, quello è il gruppo che mi ha fatto desiderare di avere un gruppo. Avevo 13 o 14 anni. E gli altri due? Hanno gusti più giovanili? Non direi, anzi, anche loro vengono da ascolti come Smashing Pumpkins, Weezer, tutto il periodo post- grunge americano. E più recentemente si sono messi ad ascoltare folk. C’è qualcuno tra voi che ascolta davvero i Joy Division? Certo che sì, semplicemente non sono stati un ascolto così formativo come la gente immagina. Cosa ti aspetti invece degli anni ‘10, a livello di suoni e di musiche? Dieci anni fa la ruota è girata sensibilmente con gruppi come gli Strokes che hanno un po’ cambiato attitudini e profili visti fino a quel momento, una sensibilità che ha dominato poi su tutto il decennio. In realtà credo che queste siano percezioni amplificate da media tipo NME, che appunto portano alla ribalta un certo stile creando un mercato intorno. Per certo, però, qualcosa avverrà. Gli Strokes rappresentavano una sorta di ritorno agli anni 70, ora come abbiamo detto siamo dentro agli anni 80. E’ lecito quindi pensare a un ritorno degli anni 90. Non solo in ambito rock, ma anche in ambito di dance music. E poi, certo, una rinascita del grunge! Tornando agli Wombats cosa c’è invece nel vostro, di futuro? Abbiamo iniziato il tour lo scorso mese e lo porteremo avanti per tutto il prossimo anno, forse anche un anno e mezzo. Dipende da come saremo accolti in America. Non abbiamo speso molto tempo lì in occasione del primo album ma al contrario questo, come ti dicevo, ha comportato un sacco di lavoro da quelle parti. Siamo interessati a tornarci per registrare nuove cose con i produttori americani e chissà quindi che non ci scappi anche un tour di supporto per altre band. 13 Tune-In Chiacchierata d’obbligo con questo ragazzone schivo e strampalato che è un vero misconosciuto talento. Chiuso nel proprio guscio... James Pants J —I Live Inside an Egg— Testo: Gabriele Marino 14 ames Singleton, classe 1982, è un ragazzone dallo sguardo un po’ svagato e dai modi timidi, avvolto come da un alone di eccentricità naïf. James è James Pants, uno dei talenti meno noti del roster non-specificamente-hip hop di casa Stones Throw. Un artista che è prima di tutto un appassionato e che trova le ragioni di una umiltà, di una disponibilità e una simpatia davvero rare nell’aver cominciato come stagista negli uffici della casa discografica che lo ha poi pubblicato. Un musicista e un producer tuttofare a cui piace lavorare in solitudine e con tutta la calma del mondo, chiuso nel proprio studio e in quello stesso splendido paradossale guscio che è la tranquilla vita da provincia americana che ha partorito le stranezze, l’assurdo e il surreale di un David Lynch. E se sicuramente - lo sappiamo per certo - Pants conosce e ama Twin Peaks, allora è anche cresciuto a pane, burro d’arachidi e Residents e si dà la buona notte con i Pussy Galore di Jon Spencer e così via, riferimenti scontati e perfettamente assimilati dalla e nella sua musica. Pensiamo noi. Ma James dei primi conosce molto poco (“li devo approfondire”) e del secondo addirittura nulla. Mentre dichiara tutto il proprio sconfinato amore per il “più grande genio musicale della nostra epoca”: Gary Wilson. Ovviamente qualcosa non quadra e quindi quadra perfettamente tutto. Eccolo James, ennesimo splendido esponente di una weirdness tutta americana - ad un tempo casuale, artigianale, seriale, metodica, casinista; borghesissima e quindi davvero rivoluzionaria - che si nutre (oltre che delle fondamentali crostate di ciliegia messe a raffreddare sul davanzale) delle canzoni di Frankie Avalon, del soul della Motown e delle song di Tin Pan Alley, e che restituisce poi giocattolini deformi e grotteschi in forma di incubi pop. Sempre in bilico tra umorismo e umori sinistri, dopo la new-wave psichedelica, malata e maltrattata di Seven Seals, il terzo omonimo album di James - che è però il suo quinto long playing - sembra segnare una più decisa apertura al pop e al rock’n’roll. Declinati, ovviamente, sempre alla sua maniera. La nostra intervista. James, puoi raccontarci ancora – ma per il pubblico italiano sarà forse la prima volta – la tua incredibile storia, che fa tanto “Sogno Americano”? Mi sembra la migliore delle autopresentazioni possibili… Certo! Era il 1998-1999 e io ero un grande fan delle produzioni Stones Throw. I dischi che pubblicavano in quel periodo erano soprattutto di rap underground ed erano tra le cose migliori che si potessero trovare in giro. Cose come Homeliss Derelix, Peanut Butter Wolf, Lootpack [il gruppo rap di Madlib; ndr], Rasco. Venni a sapere che Peanut Butter Wolf aveva programmato un dj set a Austin, Texas (dove all’epoca vivevo). Volevo andarci a tutti i costi, ma era la sera del ballo del liceo e inoltre avevo un appuntamento con una ragazza (Cindy Huckabay). Così, da nulla, presi e mandai una mail a PBW in cui gli chiedevo se gli andava di andare a comprare dischi assieme a me. Ovviamente io non conoscevo l’indirizzo: ho provato a indovinare quello giusto (credo di avere provato un milione di combinazioni). Assurdamente, PBW mi rispose e soprattutto mi rispose che gli andava bene. Ero tesissimo, eccitato come un bambino. Così, dopo il ballo, portai la ragazza allo show di Peanut, che era già finito da un pezzo. Lo riconobbi, lo fermai, ci scambiammo i numeri di telefono e qualche giorno dopo andammo davvero per negozi di dischi. Era un sogno che diventava realtà. Abbiamo continuato a sentirci e io sono andato a trovarlo ad altri show nel corso degli anni. Una volta finita l’università, gli chiesi se potevo essere preso alla Stones Throw come stagista e, di nuovo, assurdamente, mi disse di sì. Così per un certo periodo mi sono trasferito a Los Angeles e ho lavorato negli uffici della ST. Non ricordo assolutamente quello che facevo, perché per me non era reale, era un sogno. Inoltre, non gli ho mai fatto sentire le mie cose. Credo che sia stato uno dei grafici con cui avevo fatto amicizia, e a cui avevo passato qualcosa, a parlargli delle mie registrazioni. Sta di fatto che circa un anno dopo la mia assunzione come stagista, mi propose di fare un disco. Fu il giorno più bello della mia vita. Il tuo immaginario è fatto di elementi pop grotteschi. La provincia americana, l’American lifestyle, la musica anni Cinquanta e la musica anni Ottanta (c’è qualcosa di Lynch-iano in questo miscuglio…), kitscherie, giocattoli, ecc. Unisci una sensibilità pop 15 a un gusto e a una ispirazione weird. Quali sono i tuoi interessi, le tue passioni extra-musicali? Grazie! Mi hai proprio inquadrato per bene (ride)! Allora… interessi al di là della musica… Vediamo… Mi piace molto andare in bici. Mi piace andare per negozi e comprare dischi. Mi piace molto cucinare (pensa che c’è stato un momento in cui ho pensato di mollare la musica e diventare cuoco). Sono un grande fan dei libri e dei film horror e thriller degli anni Sessanta. Che altro… Mi piace stare con mia moglie e con la mia bambina di 2 anni: le piace un sacco ballare, non importa se si tratta di un boogie anni Ottanta o di una filastrocca. Alla fine, principalmente, mi piace stare in giro senza fare niente di particolare. E bere caffè. Hai davvero letto l’Apocalisse di S. Giovanni per realizzare a Seven Seals? Assolutamente no! Ma tutta quella roba mi affascina molto. Mio padre è un ministro presbiteriano. Sia chiaro, non è assolutamente il tipo fissato con l’Apocalisse, il fuoco eterno, lo snake handiling [un rito praticato da alcune chiese pentecostali americane ultraconservatrici che prevede di maneggiare un vero serpente velenoso; ndr] e il mandare-i-tuoi-soldi-aGesù-Cristo. Anzi, è abbastanza fico. Ma ovviamente il lato “deviato” del Cristianesimo (e dell’Inferno) è decisamente molto più eccitante per l’immaginazione (e per i telegiornali) della semplice realtà di tutti i giorni. Puoi descriverci la tua formazione musicale, come musicista (e polistrumentista) e come ascoltatore di dischi? Quando e come hai cominciato; che roba ascoltavi; hai studiato musica? Sono sempre stato malato per la musica. Pensa che mio padre mi comprò un set di batteria, di quelli supercheap, tipo di cartone, quando avevo tre anni. Me ne stavo tutto il giorno a pestare sopra i dischi di Whitney Houston. Per un paio d’anni ho suonato la viola, ma poi sono ritornato alla batteria. Ho suonato la batteria in contesti jazz e in contesti orchestrali per tutto il periodo delle scuole. Ho anche fatto parte di una marching band. Allo stesso tempo, suonavo anche in gruppetti garage. Poi una volta, al liceo, ho visto suonare Dj QBert e ho subito deciso che sarei diventato un super-dj da battaglia [nel senso del turntablista virtuoso; ndr], come lui. Così ho messo per un po’ da parte la batteria. Ma non ero portato per essere un bravo battle dj. Poi ho scoperto il sampling e il beat making e questo mi ha portato a scoprire tutta la musica più pazza che si può trovare in giro. Alla fine il cerchio si è chiuso, perché sono tornato ai miei primi amori, il buon vecchio garage rock, il pop 16 e tutte quelle cose lì: molti dei dischi che mi facevano schifo quando ero un b-boy e un crate-digger [il producer che cerca vecchi vinili per cavarne fuori loop e beat; ndr] sono quelli che adesso mi piacciono di più. Dicci di più su questo cosiddetto “fresh beat”. Sembra una coloratissima miscela lo-fi di vecchi beat hip hop, dance anni Ottanta, influenze caraibiche, newwave malata… Io non faccio “fresh beat”. Mi sa che è stato qualche espertone di marketing a tirarlo fuori (ride). Io faccio semplicemente quello che mi va di fare in quel preciso momento, non mi importa se è new age, rap, jazz, soul, pop o altro. Facciamo un gioco. Io ti dico il nome di un artista o di un gruppo e tu mi dici quello che ti viene in testa, quello che pensi, quello che vuoi. Residents: Gli uomini talpa! Adoro The Making Of A Soul da Not Available. Il sax mi fa pensare a una qualche band exotica da incubo. E’ quello il sound che voglio. Suicide: Facile. L’esempio perfetto di come le canzone più semplici e più stupide sono le migliori. E’ come se Frankie Avalon uscisse fuori dagli anni Cinquanta e cantasse sopra una drum machine scassata e una bassline fatte di due note. Il mio pezzo preferito è I Surrender. Jon Spencer: Non l’ho mai ascoltato. Devo: Mi piacciono solo le loro primissime cose tipo Booji Boy e Are We Not Men… Half Japanese: Mai ascoltati. Animal Collective: Sopravvalutati. Quando uscì Sung Tongs mi piacque molto. Non c’era niente del genere in giro. Ma andando avanti, devo dire che hanno finito con l’annoiarmi. Sono comunque stati importantissimi, perché è stato davvero incoraggiante vedere che anche una band che suona una musica come la loro può vendere dischi. Sono ancora fichi, sicuro. Il disco di Panda Bear era fico [probabilmente si riferisce a Person Pitch; ndr]. Ween: Mi ricordo solo la loro Push The Little Daisies. Ho anche un sacco di amici che sono fan dei Ween… forse è arrivato il momento di approfondire la faccenda (ride). They Might Be Giants: Mai ascoltati. Frank Zappa: Per me è un po’… a come capita. Mi piacciono un sacco le sue prime cose tipo The Duke of Prunes e Help, I’m a Rock, ma alcune sue cose successive sono troppo “proggy” per me. Del resto, devo dire che mi piacciono anche alcune cose del suo repertorio prog, come Florentine Pogen. Insomma: la giuria deve ancora deliberare (ride). Gary Wilson: La più grande mente musicale della nostra epoca. Baron Zen: Il prof. di scienze delle medie più fico che conosco. Peanut Butter Wolf: La seconda più grande mente musicale della nostra epoca. Deve solo riuscire a fare un altro disco adesso (ride)! Dam-Funk: Un professionista al 100%. Gli ho visto fare una canzone dall’inizio alla fine – in cui suonava tutti gli strumenti in sequenza – in tipo 10 minuti: ed era bella! Inoltre, è una delle persone più carine che si possano incontrare nello showbusiness. Approfondiamo il discorso sui Residents. Secondo me nei tuo dischi si sente molto l’influenza dei loro suoni, delle loro voci deformate e, soprattutto, dell’atmosfera generale della loro musica. Soprattutto del loro capolavoro pop-grottesco Commercial Album (vedi anche formato e intenti del tuo All The Hits: brevi canzoni-schizzo simili a jingle pubblicitari). E’ vero? Cosa mi dici? Mah.. forse è vero. Anche se io possiedo due, forse tre dischi dei Residents. Sicuramente è una band che devo approfondire. Mi piace moltissimo il modo che hanno di trattare la materia musicale. Mentre non sempre mi piace il modo in cui effettano le voci. Dai l’impressione di essere un solitario, un autarchico, uno che suona, registra e produce tutto da solo. La voce femminile sul nuovo album è campionata oppure si tratta di un feat vero e proprio? E, soprattutto, hai una band con cui portare in giro dal vivo la tua musica? Esatto. Lavoro molto meglio da solo. Mi viene difficile collaborare con gli altri. Non so perché. Forse semplicemente perché con gli altri mi stresso e divento nervoso, mentre quando sono solo non ho nessuno stress e non sono in tensione. Sul nuovo disco c’è Lucrecia Dalt – che ho conosciuto alla Redbull Music Academy – che canta su un paio di canzoni. Tutte le voci femminili in sottofondo invece sono di mia moglie. Quanto alla band, ne ho una con cui suono regolarmente quando sono a Spokane, Washington. Sono eccezionali, tutti miei vecchi amici, e mi diverto un mondo con loro. In ogni caso, adesso io sono in tour in Germania, e ho trovato solo ragazzini di 13 anni da far suonare nella mia band (ride)... Ci sono artisti contemporanei che ti piacciono particolarmente? Non so, gente come Flying Lotus, Toro Y Moi, Tune-Yards? Certo! Mi piacciono molto Flying Lotus e Toro y Moi, e poi Sunn 0))), Mark Pritchard, Memoryhouse, Ariel Pink, Daedelus, Teen Inc, Broadcast, Bubonic Plague, le cose della Ghost Box [la fucina dell’hauntology Duemila; ndr], Ghostface, Build an Ark, Nissenenmondai, Anika, Beak, Lil B, Felix Kubin, Oneohtrix Point Never, Weedeater, Addison Groove, Kaval, Freddie Gibbs e mille altri. Hey, sto solo scorrendo il mio iTunes (ride)! 17 Tune-In A colloquio con Ian Williams, chitarrista della band di New York, nuovamente sulle scene con Gloss Drop: uno degli album più attesi del 2011. Battles U —Back to the battle field— Testo: Simone Madrau 18 n’isterica fusione di math-rock ed elettronica glaciale, l’indie-rock passato al vaglio dell’IDM e quindi traslato nel futuro: era questa la formula alla base di Mirrored, fulminante biglietto da visita con cui quattro anni or sono Warp Records presentò quello che sarebbe poi divenuto uno degli acts più brillanti degli anni 00. Dietro ai misteriosi Battles si celava un supergruppo formato da math-rockers vecchio stampo diretti e coadiuvati da una mente tanto fresca quanto schizofrenica come quella di Tyondai Braxton. Poi, qualche mese fa, la separazione a sorpresa di quest’ultimo dal resto del gruppo; e poco dopo ecco i membri superstiti sul sito della Warp, a promettere un ritorno in una nuova veste. Un vero e proprio terremoto avvenuto nell’arco di pochissimi giorni, che minava in partenza le aspettative future di quanti, conquistati da Mirrored e dal successivo tour, credevano di aver trovato nei Battles una nuova band di riferimento. Alla prova del secondo disco, l’oggi trio di New York sembra effettivamente cambiato. Il nuovo Gloss Drop si muove in un colorato amalgama di math elettronico e variopinte influenze esterne: colonne sonore, dub, e molto altro. Gli esiti a nostro giudizio non sembrano all’altezza della prova precedente, ma siamo in ogni caso di fronte a un’uscita importante, che farà discutere e che non potevamo evitare di approfondire. Da parte sua Ian Williams, raggiunto al telefono, non vede l’ora di aprire il libro. Il tono di voce è quello di una persona alla mano, giunta al termine di un lavoro dichiaratamente realizzato con maggiore sicurezza, ma che pure non deve essere stato facile portare a compimento; e nondimeno, una fatica per cui l’ex Don Caballero vuole sentirsi ripagato, e di cui ci parla quindi con grande spontaneità. L’unico tasto dolente sembra proprio quello che riguarda Tyondai: per quanto Ian e compagni abbiano già girato pagina, trapela un po’ di amarezza nel guardarsi indietro. L’intervista. Quando Tyondai se ne è andato, avete dichiarato che i Battles sarebbero stati una band diversa. Ascoltando Gloss Drop direi che è proprio così Sapevamo che qualcosa sarebbe cambiato, un po’ perchè era inevitabile e un po’ perchè noi per primi desideravamo evolverci in qualche misura. Quindi abbia- mo fatto quella dichiarazione, ma non era niente più di una dichiarazione di intenti. Al punto in cui eravamo in quel momento non credo che nessuno avrebbe potuto prevedere cosa esattamente sarebbe cambiato. Senza contare che la registrazione di ogni brano di questo disco ci ha condotto a risultati spesso molto diversi: difficile quindi parlare di un cambiamento ben definito. Il nostro modo di comporre consiste semplicemente nel registrare i ritmi, le melodie, le dinamiche, e metterli insieme. Mi piace molto, in particolare, ritrovarmi ad ascoltare due tracce che suonano quasi in opposizione l’una con l’altra, inserirle nello stesso brano e ascoltarne l’effetto. La visione completa di ciò che hai creato, in ogni caso, arriva sempre per ultima: il sound di un determinato brano è qualcosa che crei inconsciamente, non qualcosa che puoi pianificare. O almeno, noi non ci riusciamo. Una linea comune tra i brani comunque la si ritrova: sembrate più positivi in questi nuovi brani, meno Warp nel senso elettronico-futuristico e molto più solari e divertiti Penso che questa sensazione di maggior positività in Gloss Drop sia dovuta al fatto che rispetto a Mirrored abbiamo preso ulteriormente confidenza con questo progetto, e non parlo solo di strumenti ma anche di interazione tra i membri del gruppo. Con questo disco ci siamo resi conto che non avevamo più paura di fare queste cose e di farle in questo modo. A parte questo abbiamo sempre avuto un certo senso dell’umorismo. Ho il sospetto che la gente in generale ci prenda troppo sul serio rispetto alle persone che siamo oltre la musica. Probabilmente questo è anche dovuto al tipo di immagine che avete reso con l’album precedente. Se ripensi al video di Atlas, devi ammettere che era davvero claustrofobico con questa specie di cubo trasparente immerso nel nulla. Tutt’altra cosa rispetto a un singolo come Ice Cream E’ vero, Ice Cream è una canzone molto stupida. Ma ha uno sfondo di serietà. Quando l’abbiamo registrata eravamo in studio a Providence, Rhodes Island, e c’erano questi video di Bollywood alla televisione: football, gente che ballava, ecc. Abbiamo pensato che quelle 19 sarebbero state le immagini giuste per Ice Cream: uno strano ascolto legato a un’atmosfera allegra, come se qualcuno ti dicesse che dietro quella felicità apparente tutto stava andando nel senso sbagliato: e abbiamo giocato su questo aspetto. L’apporto di Matias Aguayo nel brano è in equilibrio perfetto su tutto questo, concentrato sul modo in cui questa trappola omicida americana ti uccide mentre ci stai seduto davanti. Ha portato lo spirito giusto nel pezzo. Parlando in senso strettamente musicale, invece, ritieni che ci sia anche un po’ di influenza glo-psichedelica a rendere Ice Cream così ‘solare’ e ‘diversa’? Non saprei. Penso che in generale ciò che ci piace fare sia sovvertire determinati meccanismi, e non essere prevedibili nè tra un brano e un altro, nè all’interno dello stesso brano: penso ad esempio a White Electric, che procede ‘seria’ per poi esplodere in quel divertente finale con la tastiera. Credo che questo punto sia per certi versi la sintesi di ciò che vogliono essere i Battles: portare l’ascoltatore a credere che la nostra musica segua un determinato schema per poi di colpo stravolgere contesti e aspettative. Nel caso di Ice Cream l’intervento di un artista personale come Matias ha certamente giocato un ruolo decisivo nell’economia del brano. Dubito che la gente si aspettasse un singolo del genere dai Battles, e questa cosa ci conferma che il ragionamento di cui sopra ha senso. Ci sono brani come Africastle che hanno un’atmosfera cinematografica, in particolare nella seconda parte sembra di ascoltare la colonna sonora di qualche pulp-movie E’ vero, ci siamo fatti un po’ prendere la mano. Il fatto è che adoriamo le colonne sonore in generale, soprattutto quelle dei vecchi film. E’ una sorta di nostalgia verso un tempo antico che sembra impossibile riprodurre oggi: da un lato soffriamo questo aspetto, ma al tempo stesso questa impossibilità rende tutto molto romantico. Ci sono dischi, magari anche recenti, che vi hanno influenzato nella creazione di alcuni brani, anche solo sul piano degli arrangiamenti o di certe scelte di suono? Non saprei. Ascoltiamo musica di ogni genere ma non sapremmo dire cosa precisamente ci influenzi. Ci sono tanti gruppi che ci piacciono, a cominciare da quelli che abbiamo coinvolto nel nostro disco ma, per quanto possano piacerci, loro hanno il loro percorso e noi il nostro e non credo, al di là della reciproca stima, che ci influenzino più di quanto noi possiamo influenzare loro. A parte questo ci capita spesso di ritrovarci ad ascoltare cose molto distanti da noi, essenzialmente quelle che 20 passano per radio, come reggaeton e cose così: di base non ci dispiacerebbero, ma sono in larga parte di qualità scadente. Così quando ci ritroviamo in studio prendiamo in considerazione solo noi stessi, con la massima serietà, e cerchiamo di costruire da soli il nostro sfondo lasciando tutte le altre influenze contemporanee a ruotare intorno a noi, ispirandoci magari sul piano dei contenuti ma non su quello prettamente tecnico. Hai accennato agli ospiti del disco. Di Matias Aguayo abbiamo già parlato. Raccontaci qualcosa sugli altri, a partire da quella leggenda vivente che è Gary Numan Gary aveva una data del suo tour a Boston lo scorso autunno, e casualmente in quel momento noi eravamo a Providence a registrare il disco. Siccome siamo tutti suoi fans e siccome Boston dista solo 45 minuti da Providence, siamo andati a vederlo dal vivo. Siamo rimasti impressionati dal suo live e gli abbiamo chiesto di partecipare al disco. Lui ha accettato con grande entusiasmo. E’ venuto in studio e ha registrato il suo intervento in My Machines tra una data e l’altra, quindi un po’ di fretta, ma il risultato ci ha comunque convinto. Quando hai a che fare con un artista del genere non hai bisogno di tempi particolarmente lunghi per produrre qualcosa che ti soddisfi. Kazu Makino La sfida in questo caso era metterci alla prova con una voce femminile. Quella di Kazu è molto particolare, così pensavamo sarebbe stato ancora più difficile nel caso specifico. In realtà, invece, tutto è stato molto più facile del previsto perchè a dispetto della sua timbrica Kazu ha uno stile molto naturale, e suonare intorno alla sua voce è venuto spontaneo anche a noi. E per finire, Yamantaka Eye Non lo conoscevamo personalmente ma conoscevamo gente che lo conosce e che ci ha messo in contatto con lui. E’ una sorta di leggenda vivente, ci piacciono molto i Boredoms e ci piaceva ancora di più l’idea di avere una voce giapponese sul disco: un po’ perchè siamo stati in tour in Giappone e abbiamo ricevuto forse la miglior accoglienza di sempre in termini di pubblico, e un po’ perchè ci piaceva l’idea di avere un album ‘poliglotta’, con gli ospiti che cantano ciascuno nel proprio idioma. Non ci siamo propriamente riusciti, a dire il vero, ma ci abbiamo provato. Avete mai considerato la possibilità di trovare un sostituto per Tyondai, ovvero un nuovo cantante fisso? Sì, ci abbiamo pensato lì per lì ma poi abbiamo rinunciato. Tyondai era parte del gruppo fin dall’inizio e, a parte il fatto che non è facile sostituire un elemento così caratteristico, trovare un nuovo membro fisso per un progetto già avviato non era una cosa che ci allettava. Inoltre come ho detto prima era prioritario per noi guardarci in faccia e capire come potevamo portare le cose avanti rispetto al disco precedente. Ed era qualcosa che sentivamo di dover risolvere tra di noi. Cosa ti manca di più di Tyondai? (lungo silenzio, NdR) E’ un ottimo musicista. 21 Tune-Yards Drop Out —Musica come riccioli— Il DIY di saper cogliere tutte le opportunità dai propri mezzi. L’intervista a Merrill Garbus aka Tune-Yards Testo: Gaspare Caliri M usica come riccioli. Riassumiamo così un’indole: in essi c’è la natura – e la sua potenza – e l’elettricità – e la sua energia. Il talento è la caratteristica che più descrive le peculiarità di Tune-Yards, al secolo Merrill Garbus. Eppure il talento è nullo se non si trova di fronte all’occasione che trasforma. Trasformazione. Parola chiave imprescindibile. Merrill è un movimento continuo, sotto una molteplicità di punti di vista. Una giovane mamma che diventa musicista. La stanzetta che diventa studio. La voglia di esprimersi che diventa produzione sofisticata. La competenza, acquisita con il fare, dell’arte del layering che crea le condizioni di possibilità per applicarsi sulla musica di qualcun altro. E, quindi, l’esperienza della co-produzione in Thao & Mirah, con la folkster di K Recs e Thao Nguyen della Kill Rock Stars. E ancora, una esperienza “professionale” che non può che fare da 22 23 Oltre alla capacità e alla presenza scenica unica della voce, calda e soul ma anche venata di altri continenti, la prima evidenza che saltava agli occhi era il lo-fi, ma non quello perseguito come fine che si emancipa dallo status di mezzo. Altrettanto semplicemente, la “bassa fedeltà” dei cervelli-uccello era, come un ritorno alle origini, la conseguenza dell’economia dei mezzi. Momentanea eppure già stato dell’arte. Rimasero a bocca aperta anche gli scout della 4AD, che decisero all’istante di mettere il proprio marchio sul disco appena uscito e ripubblicarlo. Il mondo scoprì Merrill Garbus e tutti cercarono di andarla a vedere dal vivo. Quel sound di riciclaggio worldtuned si rivelò molto più sofisticato del previsto, fatto com’era – com’è – di sovrapposizioni di ragionamenti, toni, elementi di una composizione che trascende il mero effetto pop, pur non perdendolo di vista come outcome. O ccasioni anticamera per un rapporto amicale. Il tutto esemplificato, tangibilmente, dallo spostamento fisico e di contesto che è scelta di movimento completo. La provincia canadese, il New England, che diventa metropoli (Montreal) e poi California. Il tema del viaggio e della ricerca di mondi è un bagaglio che le iarde di toni condividono con tante altre esperienze. C’è tutta un’infanzia e un percorso formativo, nella Garbus, che parla di tradizione locale, di rotonde radici anglosassoni. Dato il presupposto, la voglia di sperimentare è risultante di una continua scoperta, che si ripercuote nell’ascoltatore. Le canzoni di Tune-Yards sono chiaramente il massimo indizio dei mondi toccati dall’autrice. Come si dice a volte, la filogenesi dei brani prospetta a volte l’ontogenesi della persona, delle note che dal cervello finiscono con l’essere incise. Per questo e altro, Merrill Garbus è personaggio che portiamo a esempio sempre più spesso, e sempre come best practice dei quartieri musicali che frequentiamo. Ci siamo entusiasmati quando nel 2009 uscì BirdBrains, inizialmente per la portlandina (guarda caso) Marriage Records. Lo chiamammo pop globale, ma inteso in un modo diverso rispetto alle manifestazioni di intenti e istanze di M.I.A., così come da universi di collage etnomusicologico. Ci sentimmo, semplicemente, il mondo chiuso in una stanza, e la quintessenza degli ’00. Un riassunto perfetto del glocal di fine millennio, scollegato da riverberi politico-economici. 24 mai mancate Certo la storia di Tune-Yards non nasce nel 2009, e oggi che la freschezza è più matura vi riconosciamo una collezione di esigenze che diventano scelte brillanti, altro modo per esprimere la formula “necessità che diventa virtù” saturata di creatività. Il primo passo della vicenda è piuttosto il trasloco dal nativo New England alla raggiante Montreal, dove la Garbus, figlia d’arte, entra nei Sister Suvi dell’amico Patrick Gregoire. Nascono occasioni di scambio ma anche piccole frustrazioni originate dalla disparità di investimento nel progetto. Merrill non ha ancora trovato quello che cerca. E non le serve molto tempo, a dire il vero, per accorgersi che il percorso migliore è quello personale: la rielaborazione di un cervello che contiene tradizioni vicine e lontane, insegnamenti famigliari e i frutti delle proprie indagini musicali. I primi passi sono “open mics” nei locali di Montreal, ma anche performance di strada. “La regola era, come sempre, cogli l’attenzione della gente, o muori. Fallo entro i primi cinque minuti, o meglio ancora entro i primi trenta secondi, oppure non avrai più orecchie che ti stanno a sentire”. “Sentiti parte del contesto, oppure vattene”, si diceva in quelle circostanze. Non è un caso. Già dietro a Bird-Brains c’erano tanto studio e tanta dedizione - verso le tecniche teatrali, ma soprattutto nei confronti della Madre Africa come origine della musica nera che sboccia in ogni angolo del mondo, leggi anche alla voce Giamaica. Merill conosce per frequentazione il Kenya, ma non solo. “Ho ascoltato molto la musica di Nairobi degli anni Settanta e Ottanta – quella roba che facevano con le chitarre ha influenzato moltissimo il modo in cui suono l’ukulele. Lì ci trovo tutto il mio lo-fi”, dichiarava un paio di anni fa. “Quando ascolti registrazioni di posti come quelli, dove non vai molto spesso, ti viene da pensare ‘Oh my God, thi is real music’. C’è qualcosa di profondo, che scava. Una performance di gruppo a cui mi sento estremamente vicina”. Imitando l’Africa Merrill, da autodidatta, impara a far deflagare la voce, e a credere nel flusso. La sua investigazione trova la massima sazietà quando scopre la musica di una tribù della Tanzania chiamata Wagogo. È come un fulmine sulla strada di Damasco. In quella tribù Tune-Yards si scopre come tale, capisce una volta per tutte la propria sensibilità musicale. Il travaso non è facile, quando le idee e le melodie non hanno una controparte tecnica che garantisca la corretta esternalizzazione. Uno dei tratti che più ci convince in Bird-Brains è la genialità estremamente talentuosa del tramutare una mancanza in motivo di progettazione musicale. Valgano da esempio quelle sofisticazioni che ovviarono alla mancanza di un basso con layer di percussioni da bedroom e pedale. Il DIY di Tune-Yards non è 25 scelta estetica ma nasce come messa a sistema di quello che si ha. “Non avevo un basso”, dichiara sorridendo Merrill, “letteralmente non ne possedevo uno, per l’appunto, e le percussioni dovevano essere poderose ed evidenti, per nasconderne l’assenza”. Un tratto distintivo come questo, un elemento così esplicito da poter diventare subito elemento caratteriale, cui aggrapparsi per garantire riconoscibilità a lungo termine, è stato superato quando si è ovviata alla mancanza. Quando si guarda oltre, con l’innocenza e la determinazione della curiosità, la penna supera le forme statiche. Il live, come si accennava, non è motivo di replica ma di “improvement”. Non appena giunti gli apprezzamenti per lo splendido esordio, Garbus inizia a girare il Nord America per mostrare i tunes effervescenti di cui è capace. Approda persino alla Music Hall di Williamsburg, come opener per i Dirty Projectors. Ad accompagnarla, un nuovo compagno di avventure, il bassista Nate Brenner, oggi di fatto altra colonna di Tune-Yards (forse una band, ormai?). La musica non può che assorbire gli effetti del nuovo ingresso in formazione, e così il secondo album, tagliato non a caso con riff post-punk in bella vista, frullati nel pentolone di loop ma pur sempre determinanti nel far cogliere un’evoluzione. Terza parola chiave. Variante del movimento e della capacità di quello stesso talento di proseguire la strada intrapresa con la giusta passione verso il nuovo. L ayer colorati Di questo e altro abbiamo parlato direttamente con Merrill Garbus, in una sequenza di domanda risposta che non ha deluso le nostre aspettative, così come il sophomore non ha fatto che accrescere la curiosità con cui rivolgeremo l’attenzione al prossimo album di Tune-Yards. Abbiamo trovato una persona inevitabilmente colorata, ma anche capace di mettere a 26 fuoco la direzione che sta percorrendo. Il focus delle energie che ha mette a disposizione si è dimostrato tutto teso a non perdere di vista la ricchezza della sovrapposizione di layer, meta-strumento che si perde per origine nei decenni passati, pur essendo materia da scommesse sicure anche per il futuro. Ancora una volta, Merrill si distingue per essere figura rappresentativa di un tempo specifico (il nostro) e produttrice di una qualità musicale che resisterà probabilmente al corso degli anni. Passando dal tempo (orizzontale) alla dinamica verticale, non si può non parlare, a proposito della Garbus, dell’efficienza trasversale di quello che propone. Basta cercare Tune-Yards sui motori di ricerca per rendersi conto della sfaccettatura di mondi che la citano, la guardano, la ascoltano. Non è il solo Pitchfork ad averla lanciata. O meglio, le riviste di settore hanno fatto il loro corso e hanno prodotto inviti come quello al Primavera Sound di quest’anno, arena di proclamazione ideale per l’autrice di Whokill. Eppure c’è tutto un altro sistema di mondi di diversa estrazione – in materia di cultura musicale – che si affezionano a Tune-Yards e a canzoni come Bizness o Hatari. Non sarà l’unico motivo, ma di certo la quotidianità ha contribuito alla fidelizzazione dell’ascoltatore “medio”, inteso come media di una sommatoria di target molto diversi tra loro. È Merrill che introduce sé stessa al principio di Whokill. È la sua bimba a intervenire per la madre nel primo brano di Bird-Brains. Testimonianze del privato che si confonde col pubblico. Altro elemento di ancoraggio trasversale è la comunicazione. 4AD è una grossa etichetta e conosce i tempi e i modi giusti per promuovere un prodotto. I videoclip dei brani di Bird-Brains funzionano, ma forse ancor più ha funzionato la finta tattica (in realtà componente di una strategia di promozione) di mostrare la Garbus al lavoro nel suo nuovo studio di registrazione californiano. Il volto dell’ex-lo-fi-er che si mette in gioco con un’apparecchiatura professionale. In questo caso, a cascarci sono tutti i fan e i curiosi del settore, che intravedono il segnale – ponderatissimo – di una svolta, senza tener presente la gradualità con cui Tune-Yards affronta la trasformazione, giorno per giorno. Tutti appigli intelligenti per tener lì attaccato il cervello, in attesa che sia l’orecchio il protagonista vero dell’esperienza. Anche questo è talento. Del resto, come Merrill stessa ci confessa, il mestiere della musica vuol dire saper fare un raccolto mirato in ettari di melodie che sarebbero a disposizione di tutti, se solo le sapessero riconoscere e cogliere. Se Tune-Yards le raccoglie e confeziona così bene, viene da dire, è meglio continuare a osservare e aspettare il risultato. Com’è nata la trasformazione da Merrill a Tune-Yards? È stato molto semplice. Ho iniziato suonando l’ukulele nella mia stanza da letto. Subito dopo ho sentito l’esigenza di avere del ritmo e mi sono fatta prestare da un amico un pedale per loop e ho iniziato a battere sull’ukulele per ottenere dei beat. Il tutto è stato testato grazie a open mics e performance nei caffè di Montreal. Bird-Brains è frutto del lavoro nella mia camera e del suo effetto in piccoli live. Se non sbaglio, sei figlia d’arte e hai avuto una formazione musicale… In effetti entrambi i miei genitori erano musicisti. Entrambi dediti al folk. Mia madre mi ha insegnato a suonare il pianoforte quanto avevo tredici anni. Mio padre suonava il banjo e il violino in molte band diverse, e mi insegnò a trattare con le melodie tipiche del fiddle (violino usato nella musica country, ndt.). Non ho mai avuto formalmente un’educazione musicale, 27 non almeno quella standard dei conservatori, ma la musica è sempre stata dentro e attorno a casa mia. Mi incuriosisce molto la tua maniera di comporre. Usi un metodo standard nel fare musica? In realtà no, o meglio, non succede mai nello stesso modo; in genere le canzoni nascono con frammenti di melodie o idee ritmiche. Il passo successivo è l’improvvisazione di looping pedal che rielabora quei primi elementi. È momento essenziale del mio approccio. Lì vengono fuori tante cose: giocare con loop e sovrapposizioni mi aiuta molto. Ora che ci penso è una pratica abbastanza assodata nel mio modo di fare musica: inizio con un beat improvvisato e poi vedo come funziona con sopra una linea di ukulele o una melodia vocale. In generale: la musica è una pratica o una mera espressione di sentimenti e delle proprie sensazioni? Decisamente una pratica. Le sensazioni vengono sempre fuori, ma è la pratica che dà loro una forma e una cittadinanza. Quando penso al nome Tune-Yards penso a una cascata di melodie soul che si sovrappongono. Come i “mattoni” delle composizioni minimaliste. Ti ci ritrovi? È più centrale una melodia o il layer di cui essa fa parte, nella tua musica? È una questione interessante. Ogni melodia è un frammento con la sua importanza. O meglio, è frammento ma in quanto melodia porta con sé una storia, la racconta, per così dire. Ma il mio obiettivo, ciò su cui mi concentro di più, è l’effetto complessivo del layering. È questo che mi appassiona, il risultato finale della sovrapposizione. Le “tune-yards”, per me, sono lande dove si possono trovare canzoni. È un pensiero che mi rilassa molto: quelle melodie, quelle canzoni, esistono già, basta trovarle, e il ruolo del musicista è propriamente il loro disvelamento, come una mietitura, un raccolto. Per realizzare Whokill hai avuto a disposizione uno studio vero. Cos’è cambiato? Ti ci sei sentita a tuo agio? Abbiamo avuto una piccola sala prove, più che uno studio, dove ho scritto la musica di Whokill, e poi uno studio di registrazione dove tutto ciò ha preso vita. La sala prove è come il mio ufficio. Funziona come un posto di lavoro normale. Ci sto tutto il giorno e mi causa pure stress, perché so che quando ci entro mi aspetta un sacco di lavoro! Lo studio è un po’ un’estensione della bedroom? Oppure un non-luogo che si anima a intermittenza? Per la mia esperienza, è difficile che uno studio di registrazione possa essere personale come un luogo privato. Eppure, i benefici che ti dà sono molti. Non solo: consente di passare ore gioiose, specie se lo condividi con persone con cui si lavora bene. Nel mio caso, questo è successo con Eli Crews, il nostro ingegnere del suono, che mi ha dato un grosso aiuto con Whokill… con lui abbiamo lavorato sodo, suonato moltissimo, ci siamo sentiti “creativi” e realizzati. In qualche modo quei momenti sono irripetibili, e credo che questo dà un’anima a un luogo. La più grossa sfida cui ho fatto fronte nello studio è stata liberarsi del “sound da studio”. Il rischio è sempre tangibile, quando si viene da contesti più informali e si ha a che fare con un posto così professionale. Ma io avevo l’obiettivo chiaro in mente: essere certa che le mie canzoni non finissero col suonare asciutte o statiche, ma sempre vitali, e capaci di rimbalzare sui muri. 28 Domanda secca: le differenze principali tra Bird-Brains e Whokill? Le due maggiori differenze a mio parere sono state, come detto, registrare in uno studio con un ingegnere di talento come Eli e aver suonato per un anno, subito prima, con un bassista vero, cioè Nate Brenner. Nate ha aggiunto elementi cruciali nella maggior parte delle canzoni, e la nostra esperienza di suonare di fronte a migliaia di persone ha avuto un impatto decisivo sul nostro modo di suonare, e ci ha fatto sentire una band. Oggi lavori anche come produttrice, alludo all’esperienza con il selftitled di Thao&Mirah. È stato meraviglioso approcciarsi a un progetto dall’esterno. Dal momento che non mi sentivo così emotivamente coinvolta dalle canzoni, le ho potute vedere e affrontare da un punto di vista squisitamente musicale. Il risultato? L’amicizia con Thao e Mirah, e tanto divertimento. Per tirare le somme: è evidente che ti piace lavorare con altre persone… Assolutamente sì. Whokill non ci sarebbe senza la collaborazione di Nate ed Eli. Tune-Yards non è mai stato un progetto che ho voluto tenere per me, ma la mia insicurezza ha sempre evitato che lo condividessi con altre persone, per paura che non capissero le mie esigenze. Con Nate ed Eli è andato tutto a meraviglia, e, al contrario, mi hanno aiutato a esprimermi. C’è chi dice che la relazione tra live e studio in Whokill sia più stretta. Abbiamo registrato molti live e poi li abbiamo riascoltati e trattati in studio. È inevitabile che un po’ di effetto dal vivo finisse nel nuovo disco. Ma il live show e un album sono due bestie differenti. Che musica ascolti? O cosa ti piace di più in questo periodo? La maggior parte delle cose che ascolto sono band di amici e parenti, come quella di mia sorella, Ruth Garbus. Oppure Chris e Kurt Weisman. Mi piacciono molto i Dirty Projectors, per esempio. Potrei fare mille nomi, ma forse la risposta più sensata è che apprezzo il silenzio, nei rari momenti in cui non sto creando musica. Cambiare città cos’ha comportato? Hai trovato una scena musicale accogliente? Mi sono trasferita a Oakland l’anno scorso, e questo ha avuto sicuramente una grande influenza sulla mia musica. Amo questa città. mi dà una fortissima energia creativa. C’è confronto, fibrillazione. E credo che questa energia si senta nelle nuove canzoni. Credi nell’arte? Certo che sì! Dopo tutto, le ho dedicato la mia vita! Cosa ci dobbiamo aspettare da Tune-Yards? Attualmente sto provando a lungo per i tour che sta per iniziare. Dal vivo saremo io, Nate al basso, Matt Nelson e Kasey Knudsen ai sassofoni. Suona già meravigliosamente, ma vi prometto che suonerà sempre meglio! 29 Recensioni 2562 - Fever (When In Doubt, Marzo 2011) Genere: Steps, Funk Cinque anni di carriera e una strada tutta in salita per Dave Huismans, music maker dal doppio alias, 2562 (Tectonic, 3024) e A Made Up Sound (Delsin, Clone), che si era avvicinato progressivamente al 4/4 e a una visione sempre più autarchica in sede di produzione. Lo scorso anno ben cinque delle sue produzioni risultavano self released: è quindi naturale oggi vederlo pubblicare per una label personale, la When In Doubt (per quest'ultima l’olandese ha già pubblicato alcuni 12’’ tra cui il buon Aquatic Family Affair). Ora è la volta dell’album lungo che risponde, almeno nelle intenzioni, a un concept. Tutti i sample infatti, dovrebbero provenire dalla disco music tra i Settanta e gli Ottanta con particolare attenzione al 1979, sua data di nascita. Condizionale più che mai d'obbligo perché nell’album non vi è traccia del tipico immaginario 70s se non in senso molto (ma molto) aleatorio. Huismans è sempre stato dominato dal tipico rigore 'arischio-freddezza' di tanti producer continental-step e Fever non fa eccezione se non per un decisivo arricchimento e bilanciamento della formula. Se disco dev'essere, Dave l'aggiorna intelligentemente con spezie UK Funk, rompendo gli schemi bidimensionali techno / dubstep (alle volte in triangolazione house) e aprendosi al (2 step) garage. Gli smalti dubstep (Flavour Park Jam), trance e techno (i già accarezzati ricordi belga di Brasil Deadwalker) ne risultano rinvigoriti e se anche quest'album si avvale del citazionismo primi 90s tipico di questi anni, Huismans è sicuramente il producer meno infatuato del retrò. Ed è soltanto un bene. (7.1/10) Edoardo Bridda 31Knots - Trump Harm (Polyvinyl Records, Maggio 2011) Genere: art-pop È una carriera lunga e purtroppo sottovalutata quella dei 31Knots. Giunti al settimo album, senza contare mini ed ep, i tre da Portland sembrano tutto tranne che appagati dal fare musica. Sia in termini generali (di successo e/o riconoscimento, oltre la nicchia, se ne è visto 30 — cd&lp poco) che personali, vista la verve con la quale affrontano ogni esperienza discografica. Cosa quest’ultima che li spinge avanti incoscienti e menefreghisti al punto da metter su l’ennesimo album strambo, spigoloso, coraggioso e, diciamolo, completamente “fuori moda”, se la definizione ha un senso. Cosa quest’ultima da considerarsi un grandissimo complimento poichè evita la standardizzazione della proposta e sta a significare che il chitarrista Joe Haege (sfaccettato leader visto ultimamente coi fantastici Tu Fawning, coi Menomena, autore di soundtrack e anche attore in film indipendenti), il bassista Jay Winebrenner e il batterista Jay Pellicci hanno un progetto ben chiaro in mente e sono pronti a seguirlo fino in fondo e a qualsiasi costo. Su pentagramma, ciò si traduce nei 10 brani di Trump Harm, dall’appeal avanguardisticamente pop per come sono sospesi tra sperimentazione “rock” e accondiscendenza popular. Roba in grado di solleticare i palati degli indie-kids meno dozzinali e attenti alle evoluzioni sperimentali del trittico rock chitarra-basso-batteria: che siano i cambi di tempo scavezzacollo dell’iniziale Onanist’s Vacation o l’indie-rock umorale di Middle Ages, le aperture teatrali post-wave di Egg On My Face o lo stranito e weird horror-show di Love In The Mean Of Heat, i 31Knots vanno costruendo un suono che è suggestione e originalità. Alla faccia del fuori moda. (7.2/10) Stefano Pifferi highlight Arrington De Dionyso - Suara Naga (K Records, Aprile 2011) Genere: eartherngarage Capita a volte che un album diventi tanto importante nella carriera di un musicista da diventare il moniker di un nuovo progetto. Non sempre i risultati pagano - vedi le alterne vicende del moniker Mount Eerie di Phil Elvrum. Proprio a proposito di Old Time Relijun, l’ex collega, la mistica e sanguigna voce che risponde al nome Arrington De Dionyso, sceglie una strada simile. Dopo Malaikat Dan Singa, album dove Arrington celebrava un felicissimo sposalizio tra l’indonesiano e il garage occidentale, oggi Suara Naga (“la voce del dragone”) esce a nome Arrington De Dionyso’s Malaikat Dan Singa (ovvero “gli angeli e i leoni di ADD”). Arrington è un virtuoso di quelli che vorremmo calcassero più strade possibili. Le virtù, per lui, sono sempre funzionali a un valore musicale, a una ricerca. Non accade mai viceversa. Da etnomusicologo, per analizzare la voce e l’anima ha inciso a fondo l’essenza delle proprie corde vocali, le ha portate alle estreme conseguenze; allo stesso modo, ha appreso l’indonesiano, da autodidatta, e ha iniettato il turbamento e l’assalto strumentale occidentale nella lingua di quell’estremo Oriente, rendendolo apocalittico, mischiando quell’incrocio di vitalità e esotismo erotico con le bruciature che vengono dal centro della terra (Iblis Atas Ibis). In realtà, non ha fatto altro che sviluppare un canovaccio, come nelle musiche popolari. Un modello di composizione, strumentazione ibrida, campanelli e riff, fiati paraindiani e gutturalismi. Questo non vuol dire che manchi accuratezza. Quel canovaccio è Arrigton stesso. Non rappresenta una cultura ma il sostrato del repertorio di De Dionyso portato in superficie, così com’è, e ripetuto in Malaikat Dan Singa quanto in Suara Niga. La voce, il modo di comporre, il mondo sanguigno e pronto a zoppicare come un appestato: c’è tutto Arrington, tanto nel boogie surreale di Madu Mahadahsyat quanto nel rock steady di Biangala. Il giudizio va all’uomo, al percorso di ricerca, più che alla veste effettiva dell’album. È vuole essere un incoraggiamento ad andare avanti così, senza fermarsi, complicando il canovaccio (verso l’Africa in Susu Naga) anziché asciugarlo al sole. (7.3/10) Gaspare Caliri AA. VV. - Let The Children Techno (Ed Banger Records, Febbraio 2011) Genere: french touch Monsieur Pedro Winter chiama a raccolta i purosangue della propria scuderia per una compilation che vuol far divertire più che scatenare, come l'artwork del disco lascia intendere. Tra i nominati, personaggi importanti di oggi e di ieri, come Mr. Oizo, Discodeine, Cassius, Siriusmo, persino Skream e Flying Lotus, ad offrire un affresco ad ampio raggio delle possibilità techno dell’etichetta francese più nota del pubblico mainstream (insieme solo a Kitsuné e alla barbarie de- gli innumerevoli Buddha Bar). A spiccare non è una tendenza in particolare, ma una generale sregolatezza che va dalle mosse più hardcore di Brodinski e Bobmo a quelle più french style di Breakbot. Tra gli additivi funk di Duke Dumont, la fidget dello stesso boss Busy P (Procrastinator), tech-step di lusso (Boat Party), glam-disco (Shades Of Black) e aperture pop/electro (Infinity Riser) la proposta si fa apprezzare tenendo lontana la noia. Per gli estimatori sarà solo una nuova conferma, ma chi non conoscesse l'offerta di casa Ed Banger è un'occasione d'oro per recuperare. Don't lose your time. (6.5/10) Carlo Affatigato 31 Adam Haworth Stephens - We Live On Cliffs (Saddle Creek, Aprile 2011) Genere: indie folk Metà dei Two Gallants, dopo che dal 2002 ad oggi il duo si è guadagnato la propria visibilità gettando litri di sudore sui palchi di mezzo mondo (e un pugno di buoni dischi, va detto), Adam Haworth Stephens fa il suo debutto solista con lo sguardo fisso sull'orizzonte del genere Americana, coniugandolo con un'aspirazione all'airplay. Non ci sarebbe nulla di male nel cercare di bucare anche nel mainstream se si tenta, per farlo, la strada della personalità, dell'originalità e della creatività declinandola in sussulti pop. Qui, invece, tutto suona un po' già sentito, come una versione minore della band maggiore, come un ripercorrere stereotipi country/folk/rock che vanno bene, quando sono ben riusciti, per fare da sottofondo a un viaggio in auto, quando va male ti spingono a cercare il tasto "skip". Succede così per Heights of Diamond che ti ricorda qualcosa di già sentito, e precisamente quella Second Mind ascoltata due tracce prima e che segnala un'ispirazione non proprio al suo massimo. Elderwoods è AOR indeciso tra l'uptempo e la ballad, Sounthern Lights un compitino folk senz'anima e il tentativo di premere il piede sull'acceleratore country-rock con Praises in Your Name non colpisce del tutto nel segno, soffocato com'è da troppi spigoli per poter scorrere fluidamente. (5.5/10) Marco Boscolo Africa Hitech - 93 Million Miles (Warp Records, Maggio 2011) Genere: ambient minimaltech Mark raffredda i bollori street, urban, tribal - in definitiva, ragga - che lo avevano spinto a dare vita al progetto, frena le pulsioni che avevano animato le sue cose migliori realizzate sotto questo moniker (a partire dal singolone d'assalto Out In The Streets), fa emergere il suo lato più cerebrale, calcolatore, scacchistico, freddo, ambient (e perde la partita a distanza con Kode9). Spacek relegato in un angolino, si impongono per quantità le produzioni dei brani strumentali, una vera goduria per i tecnicisti e gli specialisti, vero cuore senza cuore di un disco lavoratissimo ma tutto tranne che potente, laboratoriale ma non sperimentale, una sequenza di cesellatissimi esercizi ritmici e timbrici. Le diverse componenti di cui Pritch speravamo potesse fare sintesi vengono invece esposte in separata sede: ci sono i pezzi urban (pochissime cose, Out In The Streets, appunto, e il vocoder liquido ma denso come mercurio di Do U Wanna Fight) e c'è la sfaccettata anima ambient 32 del produttore, fatta di rigorosi giochetti minimaltechvideogame (Our Luv è un lunghissimo showcase di soluzioni mutuate dagli arcade di metà anni Ottanta) e di acquerelli che declinano l'africanismo della ragione sociale secondo modi e toni praticamente latin (non lontanissimi da certa ambient-house Cobblestone Jazz, solo che Mark parte dalla minimal e non dalla deep; Cyclic Sun è una superbo lounge-jazz suonato dal taglio cameristico e dal respiro epico). 93 Million Miles doveva viaggiare avanti anni luce, come prometteva sulla carta la formula del progetto e come promettevano all'ascolto le produzioni dell'EP 2010. Ma la componente afrofuturista è stata quasi del tutto diluita, messa tra parentesi anzi, a favore di un elegante esibizionismo produttivo di certo invidiabile ma che non riesce a scavalcare la supermaniera. (7/10) Gabriele Marino Aidan Moffat/Bill Wells - Everything's Getting Older (Chemikal Underground Records, Maggio 2011) Genere: Jazz-Pop Poetry Ok, Aidan lo conosciamo già, e pure bene: non ne perdiamo una mossa, dacché lui e Malcolm hanno imboccato strade separate, spezzando non pochi cuori svezzati a pane e Philophobia. Su Bill Wells, compagno della nuova tappa di un errabondo percorso solitario che finora ha portato il barbuto di Falkirk alla poesia porno (I Can Hear Your Heart) e al cantautorato folk-pop (How To Get To Heaven From Scotland, coi Best Ofs), val decisamente la pena di spendere due parole. Stiamo parlando di un signore che da diversi annetti è protagonista assoluto del sottobosco scozzese, che produce ma soprattutto suona (basso, chitarra, piano), che mastica jazz e avanguardia (con il suo Bill Wells Trio) ma non disdegna collaborazioni e contaminazioni varie e assortite (Isobel Campbell, Pastels, Telstar Ponies, BMX Bandits, Future Pilot A.K.A., Maher Shalal Hash Baz), che va da Gil Evans a Burt Bacharach passando per Mingus con una sensibilità che non è proprio da tutti. “A change is just a new routine” canta Moffat in Cages, ed è proprio questa l’idea su cui si regge Everything's Getting Older, appena venticinque minuti in cui la formula Arab Strap rivive di nuova linfa, diversa eppur ancora uguale, con quei versi sbilenchi in bilico tra canto e spoken word rovesciati (a mo’ di pinta sul bancone, ovviamente) su tappeti sonori mai prevedibili e scontati, pur nella loro matrice classica e jazzy. Ci sono voluti la bellezza di otto anni per completare queste poche tracce (l’avvicinamento tra i due è avvenuto all’epoca di Monday At The Hug And Pint, sui cui solchi Wells fece tintinnare il piano), ma davanti a piccole gemme di melodia come A Short Song To The Moon e il cinematico singolo (If You) Keep Me In Your Heart, il rap sordido a su base acid di Glasgow Jubilee o una Ballad Of The Bastard che echeggia addirittura Neil Young (quello coi tasti d’ebano e d’avorio, non con la sei corde), sembrerebbe sia trascorso proprio il tempo giusto, non un secondo in meno. Un disco di quelli in cui non ti imbatti tanto spesso, no. (7.1/10) Antonio Puglia Alain Johannes - Spark (Domino, Maggio 2011) Genere: post-grunge C'erano una volta gli Eleven, band di Los Angeles in cui militavano Alain Johannes, la di lui moglie Natasha Shneider ed il batterista Jack Irons, già apprezzato nei Red Hot Chili Peppers e in procinto di raggiungere i Pearl Jam. Non eclatante il successo, ma neanche trascurabile. Quanto al resto, se la passavano bene scambiandosi prestazioni sonore e amicizia con simpaticoni quali Queens Of The Stone Age, Mark Lanegan, No Doubt, Pearl Jam e Chris Cornell. Poi, la tragedia: il cancro si porta via la Shneider nel 2008, lasciando il marito comprensibilmente distrutto. Lo ricordiamo fiero e commosso al concerto-tributo organizzato da Homme, ospiti i QOTSA al completo più altri calibri come Jack Black (l'attore) e PJ Harvey. Una bella persona, Alain. Non si è arreso. Ha continuato a lavorare come ingegnere del suono per Gutter Twins e Arctic Monkeys, ad esempio, poi nell'ottobre dello scorso anno ha sfornato questo Sparks, commercializzato solo oggi dalle nostre parti. Tema dell'album, indovinate un po', l'adorata Natasha, ovvero anche un'occasione per riflettere sulla persistenza della memoria, sulla morte, sull'amore, sulla persistenza dell'amore malgrado la morte attraverso la memoria. Bene. Anzi, non troppo bene. Ok, male. Piuttosto male. Perché - fermo restando il rispetto per i sentimenti che hanno mosso l'operazione - questo disco è quasi inascoltabile. Pervaso del lirismo aulico e pettoruto del Cornell solista, saturo di misticismo muffoso Jimmy Page (Make God Jealous è praticamente un plagio di Black Mountain Side), costruisce un tabernacolo più tronfio che affranto, così ottusamente postgrunge, così impegnato a definire eterei barocchismi e tormentose profondità da sembrarne - ohibò - compiaciuto. In poche parole, è un ascolto imbarazzante. (4.8/10) Stefano Solventi Alexander - Alexander (Rough Trade, Marzo 2011) Genere: lo-fi folk In libera uscita dai due act più noti in cui è coinvolto (Edward Sharpe & the Magnetic Zeros e Ima Robot), Alexander Ebert si concentra su un cantautorato di matrice lo-fi che affonda le proprie radici nel folk. Per questo esordio tutto sommato relativo, e comunque per un'etichetta dal peso specifico non piccolo, Alexander abbandona il cognome e come in tutti i dischi eponimi ci si aspetta una specie di album-manifesto. Sul talento di comporre melodie degne di nota c'è poco da discutere, basti l'efficace folk-stomp col fischietto di Truth o il saliscendi in salsa country di In The Twilight. Il problema, semmai, è una certa in-finitezza. Nel senso proprio classico del termine di qualcosa di non finito. Che non riguarda l'estetica lo-fi complessiva, ma l'impressione generale che se Ebert avesse voluto avrebbe potuto levigare ulteriormente le sua composizioni e fare un esordio davvero coi fiocchi. Questo discorso vale per il mezzo sberleffo dylaniano di Let Make a Deal to Not Make a Deal che poteva essere asciugato nell'arrangiamento, per i cori eccessivi di Bad Bad Love e in generale per le indecisioni su cosa davvero si voglia dire. Ecco, tra un'allusione ai Fleet Foxes, una al Neil Young da corsa all'oro, forse Alexander non ha ancora del tutto chiaro cosa vuol fare da grande. Di certo sa cosa gli piace, ma una poetica personale è qualcosa di più del buon gusto. (6.4/10) Marco Boscolo Anne-James Chaton - Événements 09 (Raster Noton DE, Aprile 2011) Genere: poesia trance Associare techno e poesia non è da tutti. Chaton riesce nell'intento in modo apocalittico e diaristico, combinando in un patchwork folle e pesantissimo parole che apparentemente sono un frullato dada di scontrini, biglietti, numeri, titoli di giornali e altre diavolerie ipnotiche con gli avvenimenti che hanno colpito il suo personalissimo diario nel 2009: l'investitura di Barack Obama, la morte di Michael Jackson ('The king of pop is dead'), la morte della coreografa Pina Bausch e altre notizie più o meno popolari. L'intento ricorda in eco l'esperimento del nostro Lindo Ferretti (nell'album Co.Dex) con Eraldo Bernocchi, ma qui i tagli non ammiccano a nulla di ideologico o di storico, qui si esce direttamente dalla storia e con il solo ausilio della voce e di pochi editing e sovrapposizioni si crea un mostro sonico che per la sta bene in casa Ra33 ster Noton (dove aveva già collaborato con Alva Noto nel 2008 in Unitxt), ma che fluisce degnamente anche nella mente di qualsiasi post-raver in un trip apocalittico e straniante. Il 'poeta sonoro' di Besançon non pensa al successo, pensa a non dire nulla, quasi un ricordo del Godot di Beckett. La promessa di 'non dire' e di trasformare le tracce in un flusso technoide a bassa fedeltà che non spieghi nulla della storia, rivelano però molto di più di quello che un cantautorato di protesta o di testimonianza del presente potrebbe tentare di spiegare. La voce dell'uomo (quest'anno sentita anche in due belle collaborazioni con Andy Moor su Unsounds) è magnetica, e la serie di questi événements potrebbe essere ripetuta più spesso (il primo disco è del 99), per regalarci altri attimi di estasi sonico-ritmica indimenticabili. (7.5/10) Marco Braggion Atomic Bitchwax - The Local Fuzz (Tee Pee, Aprile 2011) Genere: stoner-psych Se siete orfani dei grandi riff che hanno caratterizzato la storia del rock, avete trovato di che placare la vostra sindrome d'abbandono. Si, perché l'unica traccia di questo The Local Fuzz altro non è che un'incessante serie di riff macinati a tutta velocità, uno dopo l'altro, per 40 minuti ininterrotti. A risaltare sopra a tutto è la bravura degli Atomic Bitchwax: un'abilità tecnica indiscutibile e una capacità di mutare a proprio piacimento melodie e tempi senza perdere mai le coordinate. I tre musicisti sono in grado di creare un turbinio di hard rock, stoner, psichedelia, heavy metal, blues e passare con disinvoltura disarmante dall'uno all'altro. Ciò che però in definitiva ribolle in questo calderone è più un divertissement che una pozione incendiaria. Un disco che fila via liscio e godibile, cosa che nonostante la natura del lavoro, non è così scontata, senza però risultare nulla di più che un divertente esercizio di stile. (6.3/10) Francesco Asti Babies (The) - The Babies (Shrimper, Aprile 2011) Genere: garage lo-fi Ne parlavamo in occasione di Share The Joy e ne abbiamo la conferma ora: le Vivian Girls, attuali e passate che siano, hanno più progetti paralleli che full length. Dopo Frankie Rose And The Outs dell’ex batterista Frankie Rose e i La Sera della bassista Katy Goodman, 34 è ora la volta dei The Babies, terzetto che vede Cassie Ramone affiancarsi a Kevin Morby (basso per i Woods) e Justin Sullivan (alle pelli per i Bossy, progetto minore condiviso proprio con la chitarrista). The Babies, uscito col celebre marchio lo-fi americano Shrimper e in concomitanza col nuovo lavoro della casa madre, è il vero e proprio debutto dopo un paio di cassette live e una manciata di 7” per etichette carbonare e non si discosta molto dalle lande usualmente toccate dalla Viviana. Undici pezzi in mezzora scarsa che in Voice Like Thunder, Meet Me In The City, Wild 2 e Personality si muovono tra indie-rock dei primordi vigoroso, power-pop zuccheroso, psichedelia docile e garage-rock in bassa fedeltà acceso e riottoso. Godibilissimo e catchy ma in definitiva roba che, pur evidenziando l’anima più aggressiva e rock del terzetto newyorchese (la chitarra della Ramone) e le capacità da frontman e compositore di Morby (non più solo un comprimario), non dice nulla più del già noto. (6.3/10) Stefano Pifferi Bass Drum Of Death - GB City (Fat Possum, Aprile 2011) Genere: Fuzz & noise I Bass Drum Of Death sono due tangheri del Mississipi, proprio i due buzzurri che vedete ritratti in copertina avvolti da una nube di fumo. Non fanno stoner, ma non di meno amano tormentare i propri strumenti (che sono, appunto, chitarra e batteria) senza preoccuparsi troppo: A) del volume a cui lo fanno B) della perizia tecnica che impiegano nel farlo. Mai come in questo caso quello che conta è cacare fuori dagli ampli il più selvaggio e purulento garage punk. Chiamatela urgenza o fregola distruttiva, quel che è certo è che nel loro caso si accompagna al gusto di sminuzzare blues e mersey beat gettandoli nel tritatutto elettrico, in ponte immaginario fra le due sponde dell'oceano che poi rappresenta la loro peculiare cifra stilistica. Mente (diciamo così) del progetto è John Barrett, quello spiritato sulla sinistra, ex impiegato alla Fat Possum, che ha registrato l'album contando solo su un microfono USB. GB City è un disco che esprime tre o quattro concetti in modo rozzo ma con una chiarezza che non ha rivali, proprio quello che ci si potrebbe aspettare da questi Jay e Silent Bob prestati alla musica. Ecco allora che Nerve Jammin parte con un riff saturo e arrembante che ricorda quello di New Rose dei Damned, prima di aprirsi in uno sgangherato coretto surf; la titletrack invece è puro 60s beat incrociato con grezzo highlight Art Department - The Drawing Board (Crosstown Rebels, Aprile 2011) Genere: deep house I canadesi Kenny Glasgow e Jonny White (patron della label No. 19) all’esordio in combo dopo il singolo bomba dello scorso anno Without You (qui incluso), tonnellate di progetti in solitaria e negli ultimi mesi una batteria di serate in accoppiata vincente dietro la consolle. Nel full length è inevitabile sentire tutta quell’influenza che Detroit ha portato e porta alle generazioni di cool’ house che viaggiano sulla sottile e spesso tagliente lama del successo. Basslines gonfiate al punto giusto, la voce imbronciata di Kenny che sa di club Novanta soul paradossalmente mescolata con echi à la Ian Curtis, qualche appunto con bonghi e tribal che a qualcuno potrebbero anche far venire in mente il nostro beneamato Daniele Baldelli. Pronti per partire con una lista della spesa da far gola ai più scafati producers: la lunghissima apertura epic-detroit di Much Too Much, il già citato singolo con degli echi che ricordano le cupe vampe di Chelonis R. Jones tagliato con dei synth primordiali 70; i featuring da panico di Osunlade e Soul Clap in We Call Love, e di Seth Troxler in Living The Life e Vampire Nightclub (stupendo crescendo mistico e sensuale per Seth) ci fanno capire che qualità di amicizie abbiano i due DJ di Toronto. Per finire poi delle chicche che spiegano come sia difficile raggiungere una coolness così misurata e al contempo piena di feeling: il ricordo Ottanta depechemodiano in Roberts Cry e la chiusa I C U che guarda alle baleari con tastierine solari. Deep al massimo grado che smuove l’anima, il corpo e che conferisce un senso al tracciato segnato dalla cricca del Marcy Hotel brooklyniano, aprendo a sonorità meno sperimentali, più squadrate ma non per questo meno profonde. Il soul di due personaggi che hanno aspettato troppo a mandare segnali di fumo al panorama house mondiale. (7.4/10) Marco Braggion e sferragliante rock'n'roll. Di certo non fanno difetto nel trovare la melodia azzeccata e ad avvolgerla costantemente in una fitta nube di fuzz, proprio come nei Kinks scartavertrati di Young Pros, nella filastrocca '77 di High School Roaches. Nelle lente e allucinate trame di Spare Room e Leaves, emerge poi la loro anima detroitiana e l'effetto delle droghe inizia sentirsi pesantemente. E' con dischi come questo che la Fat Possum, dopo excursus nel pop con gente come Smith Westerns e Yuck, ritorna a giocare sul terreno che le è più congeniale: garage rock, blues e pattume assortito e che Dio l'abbia in gloria per questo. (7/10) Diego Ballani Battles (The) - Gloss Drop (Warp Records, Maggio 2011) Genere: Electro Math-Rock Avevamo lasciato i Battles in un momento delicato: appena finito di raccogliere i frutti di Mirrored, ad oggi una delle uscite più importanti degli anni 00, era arrivato come una doccia fredda l'annuncio della dipartita di quella che era considerata la mente del progetto, Tyondai Braxton. Il tutto alle porte delle registrazioni di Gloss Drop, che esce ora anticipato dal singolo Ice Cream con il feat. Matias Aguayo: mano sedata sul fronte febbrile (Atlas, Tonto) e passo indietro verso strutture tipicamente math. Il valore aggiunto è l'approccio giocoso e divertito: pur nel maggior rigore, tanto il suddetto singolo quanti altri momenti nel disco manifestano un colore e una vitalità che mancavano nel grigiore metropolitan-warpiano di Mirrored, concedendosi a tratti svisate soundtrack (Africastle), dub (la Sundome con Yamantaka Eye dei Boredoms) e sul finale anche prog (White Electric); si prova, in pratica, a mischiare le carte seguendo strutture più rigide e cercando comunque di non perdere la propulsione tipicamente battlesiana (volgarmente rock). Perso Tyondai, e quindi il lato melodicamente più schizzato del prisma, i Battles si trovano a riflettere nuova35 mente sul math e sulle traiettorie art-pop che proprio il wiz kid aveva cercato d'introdurre nell'ultima fase della line up originaria. Con i featuring la compensazione riesce soltanto a metà: aumentano le possibilità ma alla base il gruppo si scopre monolitico e non altrettanto capace di raggiungere una nuova e convincente cifra stilistica. L'effetto per certi versi è quello di un disco dei Chemical Brothers in salsa matematica. E Gloss Drop, passato un primo deludente impatto, si rivela essere un buon album di transizione. (6.8/10) Simone Madrau Beastie Boys (The) - Hot Sauce Committee Part Two (Capitol, Aprile 2011) Genere: hip-hop Tornano i ragazzi bestia con un degno seguito del precedente strumentale The Mix-Up (vincitore nel 2008 di un Grammy come Best Pop Instrumental Album). Dopo che Adam 'MCA' Yauch ha annunciato lo scorso luglio di soffrire di un cancro, i fan del gruppo non aspettavano un'uscita così ravvicinata di questa fantomatica 'seconda parte', dato che la prima non è ancora stata pubblicata (e forse non lo sarà mai). Invece eccoci qua ad ascoltare l'ottava fatica del trio newyorchese. In tre quarti d'ora e in sedici tracce viene delineato un ritorno alle origini, a quegli anni '80 da cui il verbo del white rap è germinato poi in tutto il mondo, a quel mix di mainstream blaxploitation (Make Some Noise, Multilateral Nuclear Disarmament) che ha fatto la fortuna della loro proposta musicale: una sensazione che avevamo già subodorato nel già citato disco strumentale, in qualche canzone più introspettiva di To The 5 Boroughs e se proprio vogliamo anche in Paul's Boutique, old-school anche quando non poteva -per definizione - esserlo. Anticipato sul loro canale youtube con un singolare streaming integrale al Madison Square Garden (stadio dei Knicks, squadra simbolo per molti rappers della grande mela) e con un cortometraggio di mezz'ora (Fight For Your Right Revisited), l'album amplifica, recupera e scherza parodisticamente sul sentimento di nostalgia di quegli anni che ovviamente non ci sono più, ma che per il trio americano col passare del tempo diventano sempre più importanti. Pochi i featuring con qualche leggera deviazione dal suono 'basic-Beastie' (il rockettino Run-DMC di Too Many Rappers con Nas, già nella Hot 100 di Billboard nel luglio 2009 e il bel reggae con Santigold in Don't Play No Game That I Can't Win), qualche effetto d'epoca (le voci robotiche in OK, gli 36 effetti lo-fi in Nonstop Disco Powerpack, gli slap robotici di Funky Donkey) e la solita eccellenza nel rhyming confermano come i (non più) ragazzi siano ancora in forma, anche se c'è un grosso ma. L'operazione di looking back per le star mainstream sembra attraversare infatti un periodo apicale: vedi ad esempio i ritorni alle vecchie abitudini di R.E.M. e di Foo Fighters (questi ultimi nel video di White Limo). Un'estetica passatista che non sconvolge, non propone singoli memorabili, ma che conferma. All'orizzonte non si vedono segnali di svolta, ma la calma piatta in cui questo ed altri dischi prodotti da vecchi lupi possono farci crogiolare in momenti di apprezzabile e professionale divertimento. Per le rivoluzioni c'è (?) tempo. (6.9/10) Marco Braggion Bon Homme - Bon Homme (Motor Entertainment GmbH, Ottobre 2010) Genere: electro pop Tomas Høffding, cantante e bassista dei Who Made Who, si presenta in veste solista sotto lo pseudonimo Bon Homme, con una voglia matta di esprimere la propria individualità, ora finalmente libera dai compromessi della vita da band. Fiero narcisista, ama parlare di sé e mostra una certa coscienza intellettuale nel fare musica, collocandosi stilisticamente in un'ipotetica squadra con Hot Chip e Kraftwerk. E soprattutto, tira fuori una nettissima componente electro, il vero oggetto di repressione nel suo percorso di carriera. Furbo, Bon Homme, concentra le mosse migliori alla partenza: se tutto l'album seguisse la scia della coppia d'apertura Ray Ban / The Battery Inside Your Arm, abili a coniugare classic electronica d'essai e modernità vicine a Junior Boys ed Alex Gopher, ci sarebbe da esaltarsi. Nemmeno la successiva Mother delude, approcciando il dance-pop con l'intenzione di sabotarlo. Non tutto però ha quei livelli di personalità: a prevalere è perlopiù una nu-disco ad alto tasso glam, tra infatuazioni vintage (gli Human League di Dare! in Heaviest Flower Of Europe) e orientamenti pop non troppo messi a fuoco (Cards Of Love, Needle e quel caratteristico falsetto in odore Scissor Sisters). Il tentativo di volersi distinguere è chiaro, ma riesce solo in parte. Il finale con Could Be Your Daughter, scartata dai Who Made Who durante le sessioni di registrazione di The Plot, rivela il fuoco di paglia. Attenti a non illudervi. (6.2/10) Carlo Affatigato highlight Burial - Street Halo (Hyperdub Records, Aprile 2011) Genere: tech-step Più che andare da qualche parte, il suono Burial sembra forgiato per rimanere e impregnare le teste di chi lo ascolta; come se “l’esiguità produttiva” del nostro volesse ricordarci l’effetto di una lenta somministrazione narcotica. Ogni release dopo Untrue è stata infatti dosata con il contagocce: una manciata di singoli e remix uniti a preziose collaborazioni (Four Tet) che hanno alterato il modo stesso di percepire le evoluzioni del suono dell'uomo più oscuro del dubstep dal 2005 ad oggi. Street Halo mostra innanzitutto la lenta virata Techno di William Bevan; con un andamento fin da subito meccanico e privo di fronzoli ritmici, la traccia scivola su territori Basic Channel e pulsa d'ossessioni industrial tipicamente sheffieldiane (Cabaret Voltaire). NYC, al contrario, mostra il Burial più classico, fatto di cazzeggio ritmico 2-step e morbidi pad suonati dentro una grotta. Qui e là, gli immancabili pitch vocal dal sapor mediorientale ribadiscono un continuum estetico tutto inglese fatto di esotismi e allucinogeni (Future Sound Of London e Banco De Gaia). Stolen Dog è il pezzo ibrido: cassa dritta di panna e piccole sincopi, il tutto affogato in un tenue arpeggio di scuola Aphex Twin. Non delude Burial e nell’attesa di un ipotetico seguito di Untrue possiamo di nuovo fermare il tempo dentro questi nuovi abissi di suono. (7.3/10) Dario Moroldo Box Codax - Hellabuster (Gomma, Maggio 2011) Genere: Indie Torna a far parlare di sé il progetto Box Codax, composto da Nick McCarthy, chitarrista dei Franz Ferdinand, la moglie Manuela Gernedel e il poeta tedesco Alex Ragnew. Hellabuster arriva a 5 anni di distanza dal primo Only An Orchard Away, un esordio controverso che risaltava per le forti sperimentazioni tra electro e lo-fi e nulla aveva a che vedere col sound della band di Glasgow. Il nuovo album sposta la faccenda su un piano diverso, proponendosi come concept sulle vicende private di un adolescente, tra patimenti d'amore, introspezioni e strani incontri. Da un lato dunque i contenuti aumentano di spessore, mentre in parallelo si riduce l'audacia del profilo compositivo. Le musiche diventano accompagnamenti ai temi esposti, con brani di sola voce e chitarra country per i momenti più malinconici, alternati ad un art rock vivace per le fasi più movimentate. Tanta carne al fuoco unita da un filo conduttore solo concettuale, ma un risultato di ascolto a maglie troppo larghe, che unisce sotto lo stesso tetto svago indie rock (Hellabuster, I Won't Come Back), morbido cantautora- to (Charade, Inanimate Inamorato) e teatralità à la Tom Waits (My Room). Tutto di buona fattura, sia chiaro, ma difficile da apprezzare come insieme: Hellabuster è la colonna sonora di un film che non c'è, e l'assenza del collante dà una netta sensazione di irrisolto. Bravo regista cercasi. (5.9/10) Carlo Affatigato Boy George - Ordinary Alien (Decode, Gennaio 2011) Genere: house Il 30 aprile del 2012 Boy George ha promesso di riunire i Culture Club, nel trentennale dall'esordio del gruppo con il singolo White Boy. Prima di rispolverare la memoria di quel mito pop Ottanta, il mutaforme vede bene di tornare su disco, proponendo una raccolta di tracce risalenti allo scorso decennio che erano stato abbozzate e mai finite, oggi mixate e prodotte dall'amico e collaboratore Kinky Roland - come è ben riportato dal sottotitolo: The Kinky Roland Files. Il lavoro attraversa un sentire pseudobalearico, con altalenante positività negli arrangiamenti e nella voce dello stesso George. Tra le tracce che spiccano c'è 37 l'omaggio a Barack Obama (Yes We Can è un singolo dance pop che va via leggero nella miglior tradizione pop UK), la mid-trance Novanta di Amazing Grace e il ricordo Ottanta in Time Machine. Nostalgie a parte, il disco scivola in seguito su una facile commerciabilità che distanzia il potenziale dell'ex Karma Chameleon dal buon risultato, sicuramente ottenibile. Un ritorno che non stupisce, confermando la presenza di un drago del suono pop di sempre declinato in centinaia di compilation, feste, remix, sballi, storie d'amore e lacrime. Attendiamo che trovi un manager in grado di fare emergere ancora una volta il suo stile, intriso di soul e coolness (Mark Ronson,ce la puoi fare). Alla prossima, George. (6/10) Marco Braggion Britney Spears - Femme Fatale (Sony BMG Music Entertainment, Marzo 2011) Genere: vocoder pop Settima pallottola della Spears. La reginetta (?) del pop torna in pista con una cosa che farà gola ai remixatori più smaliziati (le tracce sicuramente andranno in mano a gente che comanda gli stadi, sia per quella che una volta chiamavamo 'commerciale' oggi capitanata dalla Swedish House Mafia, sia per gli amici no problemo Crookers). Il disco ci va di autotune, vocoder, bassi ultrafidgettati e la solita vocina che ormai potrebbe anche venir fuori direttamente dallo speaker del portatile in quanto a inventiva e complessità. La Spears punta ovviamente al suo avatar, la femme fatale che non è (e probabilmente non sarà mai, cioè Madonna). Britney è ancorata ovviamente ai produttori, che in fondo qui non fanno nemmeno una brutta figura. Max Martin e Dr. Luke (Backstreet Boys, *NSYNC, Robyn, Katy Perry e altri) manovrano a loro piacimento il manichino, che ha già sbancato in America. Supersuccesso mondiale e sicuramente per mesi in classifica. L'ennesima dimostrazione del superpotere dei produttori. Le tracce si fanno ballare, ma Britney non è più il personaggio di qualche tempo fa. Oggi lo stile-al-passo-coi-tempi pop è tutto per Lady Gaga. Una bomba solo per i fan. Per gli altri è già musica-da-autoscontri. (5/10) Marco Braggion Carpacho! - La futura classe dirigente (Pippolamusic, Aprile 2011) Genere: indie, italiana Se siete amanti del pop, nella sua accezione più equi38 librata e colorata, di certo nel 2007 vi eravate un po' innamorati del lavoro di questi ragazzi romani, i Carpacho!, che esplodevano nel piccolo mondo indie italiano con La fuga dei cervelli. Si trattava di un disco autoprodotto eppure curatissimo, nei testi come nel sound: ironia, gusto, melodie scattanti e irresistibili, parole taglienti e acute. Da allora i Carpacho! sono un po' spariti dalla circolazione fatta eccezione per un EP, L'oracolo e il fardello (2009) che contiene quella che probabilmente è la loro canzone più riuscita: Il reale mi dà l'asma, mix dei Baustelle di una volta e intuizioni d'armonie lunari eccellenti. Esce oggi, per Pippola music - sempre capace di scegliersi artisti che le donano - La futura classe dirigente. Fughe dei cervelli e future classi dirigenti, formule descrittive comunemente usate e abusate stanno qua a designare il tentativo d'analisi sociopop costante nel lavoro della band. A questo giro però, occorre dirlo, siamo un po' sottotono e dopo svariati ascolti non è più possibile nascondersi dietro la scusa delle aspettative che erano certamente piuttosto alte. Un lavoro che non svetta mai, un sound tendente alla reiterazione della stessa formula melodica, quella in cui i Carpacho! sono in effetti fortissimi. Non basta, e si sente: brani che si rincorrono gli uni con gli altri in una costante ripetizione piuttosto stancante e senza particolari guizzi, nulla di più di quanto avevamo già ascoltato, con anzi un po' di problemi nei testi. Una cosa però va sottolineata: i Carpacho! stanno tra quella band italiane che scontano paradossalmente in termini di popolarità una capacità di costruire brani impeccabili dal punto di vista della forma canzone, della forma canzone pop. Insieme ai Numero 6 vanno annoverati tra quegli artisti per niente maudit con la volontà, anzi, di portare discorsi sociali e intimi quotidiani senza scontatezze in canzoni dove la melodia impera su tutto, seduce. Spiccano qua, in questi termini, brani come Niente che non va, Assassino seriale sensibile e La classe diligente, con consueti inserti elettronici, coretti, Baustelle imperanti nelle ritmiche. Senza infamia e senza lode, insomma, consci del fatto che qua di capacità ce ne sarebbero molte. (6.7/10) Giulia Cavaliere Christian Prommer/Alexander Barck Alex And The Grizzly (Derwin Recordings, Aprile 2011) Genere: nu-jazz, techno Che dall'incontro in studio di Christian Prommer e Alexander Barck potesse nascere qualcosa di impor- tante non v'erano dubbi. Il primo è l'autore delle acclamate Drumlessons, nonché protagonista lungo i due decenni passati dei progetti Fauna Flash, Trüby Trio, Voom:Voom e, più in generale, uno dei produttori più influenti del panorama elettronico odierno. Il secondo è fondatore del collettivo Jazzanova, nome imprescindibile del nu-jazz di oggi. I due guardano con affetto a quella glacialità scandinava anni '90 che, filtrando la chill-out di Orb e KLF con le lezioni Warp IDM, fece da culla per la successiva generazione Röyksopp. Una nostalgia che si rivela in brani come Picture Of The Sea, che poteva benissimo stare in Melody A.M., o Soweto Symphony in odore di Björk, ma anche in Submarine Bells, attraverso i ritmi da 'liquid music' dell'ultimo Caribou. Nello stesso tempo, però, è messa in gioco una netta attenzione verso forme dancey d'annata: se Journey riprende la house classica con inserti ambient e jazz, le Roland di The Barking Grizzle provengono invece dalla classic techno europea ed Everything, col suo incedere vellutato, nasconde comunque una natalità eurodance. Chill-ambient svagata e dance liberatoria, due dimensioni che si incrociano con grande naturalezza, tra i versi dei gabbiani e il calore da spiaggia balearica: i due la chiamano "earthboogie dance", come a voler sottolineare la voglia di ripristinare un legame con la natura, reso per certi versi anche dai diffusi inserimenti tribal (la danza propiziatoria di Dr. Jekyll And Mr. Hyde). Alex And The Grizzly è un disco costruito sapientemente intorno all'ascoltatore moderno, che risponde alle sue esigenze di evasione e riconciliazione col mondo. Tenere da parte per i propositi di fuga dal mondo occidentale. (7.1/10) Carlo Affatigato Circle - Infektio (Conspiracy Records, Aprile 2011) Genere: psych-jazz-metal Sin troppo facile perdersi nella sterminata discografia del collettivo finlandese Circle. Infektio - pur considerando soltanto album originali e live - dovrebbe essere grossomodo il full length numero 30 o giù di lì e mostra i finnici sempre più in palla, persi nel proprio mondo sonoro. Rispetto alle svisate hard&heavy di cui vanno fieri a tal punto da autodefinirsi “kings of the NWOFHM” (New Wave Of Finnish Heavy Metal, no?) e con cui si fecero notare agli albori della propria carriera, da molti album a questa parte i Circle prediligono forme ibride e percorsi magari meno rumorosi ma sicuramente più sconnessi ed interessanti. Ecco così che Infektio si prefigura come un disco corposo e sfaccettato, ma in cui il potenziale del sestetto si offre in versione più free, con contaminazioni jazzy, prog, addirittura afro-beat, che unite all’incedere psych-rock liberano i finnici da schemi e recinti. La musica acquisisce pertanto un respiro più ampio e libero, permettendo ai Circle di spaziare in un sentire musicale se non originale, per lo meno personale, fatto di rielaborazioni e commistioni altamente suggestive. Pisara, dall’incedere ipnotico e orientaleggiante, la psichedelia jazzy di Saarnaaja, il mega-trip Salvos - 15 minuti di bassi pulsanti e iridescenze post-kosmische dicono di una band persa completamente nel suo trip ma sempre totalmente godibile e allucinatoria. (7/10) Stefano Pifferi Cornershop - Cornershop & The Double O’ Groove Of (Ample Play, Aprile 2011) Genere: interracial pop E’ sempre difficile ricreare la magia. Il problema è che certi dischi riescono a cogliere il significato e lo spirito di un’epoca perché se ne fanno attraversare, poi li plasmano in un duplice atto di comunicazione. Al settimo album in carriera, Tjinder Singh e Ben Ayres provano a invertire la rotta guardando ai fulgidi Woman’s Gotta Have It e When I Was Born For The 7th Time, però in modo che sia l’India a permearsi di sonorità occidentali e non viceversa. Ce n’era bisogno? Fossero riusciti a dar corpo a una bella idea di cortocircuito culturale senza incappare in lungaggini e in una scrittura spesso senza guizzi, senz’altro sì. Va infatti benissimo consegnare il microfono alla cantante Bubbly Kaur e rifarsi alla storia della black per gli arrangiamenti, ma - poiché è un piano “pop” quello in cui ci si muove - occorrono canzoni che rimangano. Magari non delle novelle Brimful Of Asha, ma certo è che la trainante United Provinces Of India, l’ipnotica dolcezza di Topknot e il frizzante errebì tra Style Council e Pizzicato Five The Biro Pen un po’ si perdono tra troppa dignitosa monotonia e qualche scivolone kitsch (il fondo lo tocca il terrificante clavicembalo barocco di Double Decker Eyelashes). Più dell’occasione mancata, ne deriva un impantanarsi a metà strada che, date le premesse, comunque dispiace. (6.5/10) Giancarlo Turra 39 Current 93 - HoneySuckle AEons (Coptic Cat, Marzo 2011) Genere: gothic folk Aver a che fare con i Current 93, anche solo per lo spazio di una recensione, non è mai facile. Troppo il carisma di un personaggio come David Tibet per non lasciarsi sempre e comunque ammaliare, troppa l'attesa del nutrito nugolo di adepti al culto della sua personalissima chiesa, troppo - va sempre sottolineato - anche il talento per riuscire agilmente a imbrigliarlo in poche righe. Rispetto a episodi recenti che hanno fatto rialzare le sue quotazioni, come quando nel 2006 riuniva una pletora di amici e collaboratori per l'ottimo Black Ships Ate The Sky, qui il cantante e compositore inglese ha lavorato per sintesi, riducendo a poco più di mezz'ora la durata del disco e concentrando nell'aspetto gotico la vena creativa che pervade le sue ballate. Non hanno perso un grammo di forza la sua dizione ieratica e il canto evocativo, e l'atmosfera è cupa, cupissima, come già la copertina fa capire, con quelle idee di croce in campo nero. Il legame con il folk qui è sottolineato dalla presenza di Lisa Pizzighella alla marimba e da Eliot Bates all'oud e al bendir, mentre il theremin affidato Armen Ra non fa che moltiplicare i fantasmi che popolano il mondo sonoro che Mr. Tibet ha generato per questo disco. Oramai il sound dei Current 93, come quello di un progetto per certi versi parallelo come i Death In June, è oramai simile solamente a se stesso, quasi che Tibet, da buon compratore e venditore di anime morte, stia sardonicamente facendo mercimonio del suo brand. Questo non toglie assolutamente nulla a HoneySuckle AEons, che nonostante sia da inserire tra le opere minori è pur sempre un disco che mostra la stoffa di chi lo ha composto. Si potrebbe dire 'solo per completisti', salvo poi accorgersi che all'ennesimo ascolto la schiena viene ancora trapassata da un brivido. (6.8/10) Marco Boscolo Da Hand In The Middle - Shiver Animals Sensations (Autoprodotto, Aprile 2011) Genere: blues rock Un fantasma si aggira nelle dimenticate campagne del Belpaese, tra fragranze ed olezzi, nel dimenticato incontro tra il compiersi del ciclo naturale ed il lavoro (la vita) degli uomini. E' un fantasma turbolento e vivace, un burlone col ghigno storto e lo sguardo acidulo. Che ama impossessarsi ad esempio dei Da Hand In The Middle, sei mattacchioni da Montecchio (provincia di Terni) con l'aria da performer che amano mimetizzare 40 il talento dietro l'estro buffonesco. Forse perché hanno capito che la scena è lo spazio della creazione, e perciò se l'apparecchiano allestendo teatrini balzani e facinorosi come dei Moby Grape tarantolati (Sweet Oven), inventandosi un immaginario da giullari elettrificati, spiriti agresti che sferzano l'indole fricchettona che alberga in ognuno (di loro, di noi). Provate ad immaginarvi un Jon Spencer colto da raptus rurale (Bake Him A Cake), paludato di vampe di ottoni e gracidii d'organo, una convulsione blues per ogni raglio d'asino, visioni lancinanti e afrore di granaio, capace altresì di misurarsi con rumbe sardoniche (Joe Flies To El Limon) armato di campanacci e vecchi trattori. La mascherata è waitsiana e dylaniana finché i demoni sono quelli colti al crocicchio blues (Where's My Fuckin' Mule?), però altrove diventa mistero indolente Howe Gelb mischiato di fiabesca ebbrezza Panda Bear (The Redeemer), anche se dell'attuale freak folk giocano più che altro a sembrare i garruli antenati, mirando semmai a cogliere il fiore della sagace follia Country Joe And The Fish (Take Another Poor Gun) battuta ove occorre da garrule brezze swing (Sandy Room). Hanno abbastanza padronanza della materia da suonare come minimo divertenti. Se vorranno e sapranno affondare il coltello nella piaga, capacissimi di fare il botto. (7.2/10) highlight Cyclo - ID (Raster Noton DE, Marzo 2011) Genere: glitch Germania e Giappone. Motorico e precisione, macchina e origami. Presenza e assenza. Ryoji Ikeda e Carsten Nicolai nuovamente in combinata doppia per il bis del progetto Cyclo.: con l'omonima uscita del 2001 sdoganarono la glitch music al nuovo secolo, alleggerendone l’estetica con linguaggi più accessibili, che sbirciavano per qualche lungo istante alla techno. ID è un progetto visuale che - come il precedente - converte in suono gli input video dei due guru della sperimentazione cerebral-noise: cose che avevamo già visto fare nei live dei Pan Sonic e che oggi ritornano con una forza proiettata in futuri da costruire, magari per dire qualcosa che vada oltre la diaspora -step. Nell'attesa dell’imminente uscita visual (annunciata dalla Raster Noton), l'album parte dal suono e da lì esplode in una potenza che divora i confini del noise con i bassi di Ikeda (id#00) in dialogo con i rimasugli apocalitticodigitali (id#01) di Alva Noto. Oltre ai trip sperimentali (id#02), il disco scivola verso inquadrature di più facile messa a fuoco, che permettono di fruire il lavoro anche da un pubblico (osiamo!) clubbistico, tanto che proprio in questi giorni viene discusso su forum di sopravvissuti alle tonnellate di MDMA degli anni Novanta (fate un giro ad esempio su We are the music makers per sondare la temperatura della faccenda). Chi ama gli Autechre e le visioni più acide di Aphex Twin, potrà trovare qui un degno compagno di viaggio verso il prossimo rave (id#03, id#06 addirittura in sentore progressivo). La spocchia della cosiddetta ricerca si applica sul campo e il risultato fa intravedere una nuova via che amplifica la fruibilità del mix di suoni ad un primo ascolto ostici o per lo meno alieni da qualsiasi tipo di ripetitività, abilmente sottaciuta dal duo, ma in ultima analisi presente e oltremodo fondante. Un testo di looppismo spinto su cui meditare a lungo. (7.6/10) Marco Braggion Stefano Solventi Daniele Silvestri - S.C.O.T.C.H. (Sony BMG Music Entertainment, Marzo 2011) Genere: italiana, pop Daniele Silvestri ci aveva lasciato nel 2007 con Il latitante, album decisamente fuori forma, lavoro eterogeneo nel peggior senso del termine: incompiuto e, un po' come da titolo, latitante di contenuti. Il ritorno del cantautore romano era atteso da molti, curiosi soprattutto di capire se quel disco così poco riuscito fosse l'inizio della fine di una brillante carriera o solo un episodio morto e da dimenticare. S.C.O.T.C.H., uscito per Sony il 29 marzo scorso, non lascia dubbi: Silvestri è tornato in grande forma e ci regala uno dei momenti più brillanti della suo percorso artistico. Un album nato in poco tempo, da un'evidente esigenza di scrittura che lo rende ispirato e in grado di riallacciarsi ad alcuni canoni propri del suo autore pur slanciandosi, al tempo stesso, verso orizzonti fortemente contemporanei. Una storia d'amore finita non per tuo volere e un Paese sull'orlo del precipizio che sembra impossibile far tornare a splendere, queste le due facce del tema por- tante dell'LP, a riconferma di una passione per la narrazione parallela dell'intimo e del sociale che da sempre ha accompagnato Silvestri nella stesura dei suoi testi: Io e il Paese ma anche Io e te, Io e tutti gli altri Io. Emblematico e stupendo, in questo senso, il brano composto e realizzato a quattro mani - e due voci - con Niccolò Fabi, Sornione, nel quale si evidenziano le impossibilità d'affermazione della verità, quasi che questa venga rifiutata in ogni sua forma, dal legame tra amici o amanti a quello tra Stato e cittadino. L'impossibilità del dolore, la falsità dilagante a partire da tutti i "come stai?" pronunciati nelle nostre giornate e tutte quelle altre domande che implicitamente non aspettano risposte oneste e chiarificatrici, domande come quelle che avvolgono il caso Borsellino e che Silvestri mette superbamente in ska ne L'appello, citando non a caso Una storia disonesta di Stefano Rosso. Se pezzi come Precario il mondo, Questo paese, Monito(r) sono esplicite sottolineature della nostra condizione politica e sociale, di contro Le navi, la caposseliana In un'ora soltanto e una bellissima ghost track, sono spazi personali, struggenti di intimità che vuole tornare anch'essa a respirare bene e per farlo cerca ostinatamente un'ultima possibilità di cambiamento. Il cambiamento è infatti, in tutto e per tutto, l'altro tema intorno al quale l'album ruota, l'acqua che stagna/l'acqua che scorre e un singolo, Ma che discorsi, che si incentra tutto sul gusto di svoltare l'angolo per gustarsi, chissà, un'imprevista sorpresa. S.C.O.T.C.H. è un lavoro spiccatamente annodato ai riferimenti sonori che Silvestri ha sempre riproposto, dalla ballata a quel sound mediterraneo e radicalmente sudamericano che sta nel suo immaginario artistico fin dagli inizi. Ospiti d'eccezione Andrea Camilleri e Gino Paoli, il primo in una lettura il secondo in una rilettura de La gatta che per l'occasione diventa La chatta, prestandosi ai consueti giochi di parola e di senso che già Silvestri ci propose in passato - si veda 1000 euro al mese in Unò-duè. Menzione speciale va a una cover assolutamente riu41 scita di Io non mi sento italiano di Giorgio Gaber. Verrebbe da consigliare di dimenticarsi de Il latitante, di saltarlo a piè pari per ritrovarlo qua, in forma compiuta, risultato maturo di un cantautore italiano dallo spessore ancora sottovalutato da troppi. (7.3/10) Giulia Cavaliere Dark Dark Dark - Wild Go (Melodic UK, Marzo 2011) Genere: chamber folk Come già testimoniavano l'esordio del 2008, The Snow Magic, e il valido EP Bright Bright Bright (qui aggiungo come secondo dischetto per chi se lo fosse perso), il sound degli americani Dark Dark Dark assomiglia a una costellazione di molti astri, ma dei quali il centro è un vuoto, come se il focus della ricerca musicale dei due membri fondatori Nona Marie Invie e Marshall LaCount non fosse nelle singole parti, ma nei sottili rapporti che tra essi si vengono a creare. Tra le stelle di questo Wild Go, allora, ritroviamo tanto le musiche dell'est Europa, il jazz di New Orleans, il folk da camera e il minimalismo. Non v'è dubbio che sia spesso l'intensa e profonda voce della Invie, vicina per certi versi a quella di Fiona Apple, a creare da sola l'atmosfera rarefatta delle composizioni. Ecco allora l'organetto di Celebrate a creare un cortocircuito tra le praterie americane e la steppa ucraina, e che si fa ballabile marcetta punteggiata dai fiati; il pianoforte estremamente europeo di Nobody Knows che si declina in un intreccio vocale che fa tanto Fleet Foxes. Le cose vanno un po' meno bene quando il microfono principale passa a LaCount, sebbene Right Path abbia un'atmosfera haunting che sembra la colonna sonora di Lemony Snicket. Il ragazzo, di sicuro, funziona come paroliere, soprattutto quando nella titletrack mette in bocca alla sodale un'utopico ritorno ai nativi dell'isola di Manhattan, comperata dai colonizzatori olandesi a prezzo della libertà di una nazione. A chi sostiene che le canzoni di Wild Go tendano a sfumare l'una nell'altra, senza quasi soluzione di continuità, forse bisognerebbe far notare che potrebbe essere una scelta deliberata, di una soundtrack che cambia di sfumature, ma che sempre la stessa vita è chiamata a commentare. Certo, ci sono alti momenti di pop, come il singolo Daydreamer, e altri invece che non convincono. Ma anche le vite hanno i loro periodi no? (7/10) Marco Boscolo 42 Davila 666 - Tan Bajo (In The Red Records, Aprile 2011) Genere: garage-rock ispanico Brujerìa e spesse catene al collo, camicie sgargianti e dollari insanguinati, droghe e cattivo gusto a go-go. C’è tutto l’immaginario ispanico più trito e guasto nel garage-pop del sestetto portoricano, sia a livello estetico che di immagine. Per quel che riguarda i gusti musicali invece, i finti fratelli Davila si muovono sulla falsariga dell’esordio omonimo di un paio di anni fa. Con una mezcla di Stones meno bolliti e Jesus And Mary Chain più corposi e feedback oriented (il riff iniziale di Si Me Vez è preso pari pari dall’esordio dei fratelli Reid), garage-rock d’ovvia matrice In The Red meets Nuggets e vocalità sixties come ormai sembra essere d’ordinanza per certi suoni, i sei dimostrano di saper masticare referenti e riferimenti ad uso e consumo delle nuove generazioni di lo-fi addicted. Rispetto al citato Davila 666, però, la carica strumentale sembra più pacata, le atmosfere leggermente più oscure (ma forse è solo una questione di produzione) e i suoni più adagiati sul trend psych-sixties rock tanto di moda ultimamente. Cosa che sinceramente fa un po’ rimpiangere l’esordio, più genuino e raw rispetto a questo pur buon esempio di garage/lo-fi for dummies. (6.4/10) Stefano Pifferi Delicate Steve - Wondervisions (Luaka Bop, Aprile 2011) Genere: modern freak Quando dici famolo strano, è a gente come Steve Marion che pensi. Nel senso che il ventitreenne chitarrista del New Jersey vanta l’amicizia dei Dirty Projectors e l’aver supportato gli Yeasayer dal vivo, ma soprattutto simpatia e visionarietà in dosi non comuni. Dovrebbe tuttavia sforzarsi di capire cosa vuole per davvero: se tediare con pippe cosmiche e inutili siparietti rumoristi; oppure approfondire compositivamente una “follia con metodo” che, in un contesto privo di cantato, offre l’interessante The Ballad Of Speck And Pebble (qualcuno dirà Vampire Weekend: in realtà è - ma guarda che caso - il Paul Simon di Graceland a spasso con gli Xtc più bucolici), una Sugar Splash di simile e più contorta vena e apprezzabili bozzetti d’elettronica agreste - tra Brian Eno e Cluster - come Z Expression e Flyin’ High. Altrove Steve pasticcia fondendo low-fi e math rock e traccheggia con l’acustica: conseguenza ne è il rifugiarsi dentro una title-track sardonica e riassuntiva. Dal quale riemerge con la slanciata ironia di Don’t Get Stuck, così che i conti non tornano. Forse è solo questione di maturazione, e magari due chiacchiere col padrone di casa David Byrne potrebbero essergli d’aiuto. (6.2/10) Giancarlo Turra Donkeys (The) - Born With Stripes (Dead Oceans, Aprile 2011) Genere: SoCal pop Le strisce del titolo non sono - ovviamente - quelle della bandiera americana, ma quelle che decorano la pelle della psichedelica rana ritratta in copertina. Cover e provenienza geografica (San Diego) e sappiamo già che tipo di sound incontreremo infilato il cd nel lettore: southern California sound e reminiscenze Sixties dal vago profumo psych. Rispetto al precedente Living On The Other Side del 2008, qui ci sono meno Byrds e Grateful Dead, meno chitarre twang. Chissà che l'accoglienza così e così di quel disco non sia stata la molla che ha fatto scattare nei Donkeys la voglia di costruire una via che porti all'estetica slacker. I Pavement, i titolari assoluti dell'etichetta slacker, sono un riferimento ma qui c'è meno rock in senso stretto e si strizza di più l'occhiolino a ritornelli facil-pop che ricordano il college rock più pigro piuttosto che il melting pot musicale di Beck, al quale i Donkeys vorrebbero aspirare. Si prenda il midtempo I Like The Way You Walk. Il giro di chitarra è You Get What You Give dei New Radicals suonato al 40% della velocità e il cantato pop-rock da classifica tardi Novanta. Nelle atmosfere Seventies di Ceiling Tan si nota il sound di Living On The Other Side, e il compitino calligrafico si sgama per quello che è, con il missaggio del Pernice Brothers Tom Monahan a non convincere appieno, per non parlare del tentativo di contaminazione percussioni etno e synth Eighties di Oxblood che è semplicemente pacchiano. Malkmus e soci possono dormire sonni tranquilli: il loro primato slacker non è in discussione (e pure il Beck di Mutations può lasciare tranquillamente riposare il proprio spettro a Tijuana). (5.5/10) Marco Boscolo Elisa Luu - IPO // 24 (Ipologica, Gennaio 2011) Genere: ambient electronica Elisa Luu torna sullo stesso luogo dopo un anno esatto dalla svolta electro. Un altro EP su Ipologica per ribadire la sua presenza nell'arena electro-ambient italiana. Tre pezzi che confermano il suo savoir faire in ambito sintetico: Rode 3 è un crescendo che accumula echi del miglior Four Tet tagliati con ecumenismi pop-nordici degli anni zero, Docile Ostinatezza ripassa il bbreaking di scuola Ninja tagliando tutto con una chitarra in assolo svisato e straniante, mescolando opzioni già usate in casa Broadcast, 15-4 ricalca l'epopea trip-hop puntando su modulazioni avant che arricchiscono la palette e la voglia di sentire un lavoro più lungo. Elisa, ora ci vuole il full-length. (6.8/10) Marco Braggion Encode - Core (Ghost Records, Aprile 2011) Genere: post wave Tempi lunghi per i varesini Encode, che non solo fanno passare otto anni per dare un seguito a Singing Trough The Telescope (senza contare l'ep My Shadow Is Taller Than Me del 2006), ma sembrano meditare la loro proposta in una dimensione rallentata, indifferente al frenetico avvicendarsi degli stili che rende obsoleta oggi l'eccitazione di ieri. Dal post-rock con venature dark e psych dell'esordio non si registrano clamorosi spostamenti, ma un aggiustare il registro dell'inquietudine su frequenze vagamente etichettabili "emo", lemma di per sé abbastanza insulso per non dire equivoco, soprattutto se ci si prende la libertà di accoppiarlo ad un titolo allusivo come Core. Nulla o poco a che fare infatti con le scorribande modello Fugazi o Hüsker Dü, semmai nel ventaglio di fragranze esalate da queste nove tracce capita di avvertire molecole brumose For Carnation, inquietudini narcotizzate Red House Painters, afflizioni wave-industrial Depeche Mode e nevrosi sintetiche dEUS. Però non prendetele come coordinate attendibili, perché a dire il vero mancano appigli forti, è più un aggirarsi senza navigatore dove porta l'estro di una scrittura priva di particolari colpi di genio ma sufficientemente densa e intensa. Ne risulta un disco più che dignitoso, il classico sophomore che "conferma la bravura", lasciandoti però con la sensazione che un po' di coraggio sia rimasto in canna. Un lavoro più composto che appassionato, più di consolidamento che d'assalto, in ultima analisi piacevolmente interlocutorio: non proprio quel che ci si attende da una rock band che molto ancora deve dimostrare. Ok, nessun problema, però che peccato: l'irrequietezza androide di Ausfhart, le invenzioni soniche di Reset e il morbido turbamento di My Season Will Still Suck dimostrano che le potenzialità ci sono. Buone basi da cui spiccare, ci auguriamo, un balzo più deciso. (6.2/10) Stefano Solventi 43 highlight EMA - Past Life Martyred Saints (Souterrain Transmissions, Maggio 2011) Genere: spectral-folk Past Life Martyred Saints comincia col consueto countdown rock ma, sottoposto com’è ad un trattamento al ralenti quasi fosse sotto metadone, da la misura dell’universo dispiegato da Erika M. Anderson per questo suo esordio ufficiale. Un universo sfatto, umorale, struggente e a tratti dolorosamente disperato, esattamente come quello inscenato in una purtroppo breve parentesi dai Gowns, di cui la Anderson era mezzo cuore pulsante e dal quale, volenti o nolenti, essendo stato quello una concomitanza di amore e musica, prende le mosse questo suo ritorno. Quello a nome EMA è un disco meno arty e più intimista, personale e sofferto (si ascoltino attentamente i testi al proposito) rispetto alla breve e acclamata epopea di coppia, ma fa brillare l’astro della sua autrice nel firmamento delle migliori chanteuse underground di sempre. Disillusione e disperazione, aggressività e furore, distorsioni e chitarra acustica, strutture rock che spaziano dal grunge alle efferatezze da riot grrls passando per struggenti a-cappella (Coda) e ballate voce e chitarra da pelle d’oca (Breakfast), unite ad un senso di malinconia e un mood darkish che veleggiano sul tutto, fanno di Past Life Martyred Saints uno degli esordi dell’anno. La biondina del South Dakota ha bene in mente cosa fare e come farlo, riattivando il filo rosso che da Nico arriva a Cat Power, passando per Liz Phair e Elizabeth Frazer, lambendo l’aggressività di Carla Bozulich e le melodrammatiche aperture della nostra Nada in un unico pezzo (Red Star). Sì, perché EMA ha anche il grosso pregio di sapersi diversificare, cambiando pelle come un camaleonte da pezzo a pezzo; essendo al tempo stesso cantautrice folkish e rocker di prim’ordine, ragazzina riottosa e dark-lady emozionale, sperimentatrice dissonante e melodica ammaliatrice, spesso e volentieri in un unico pezzo. Si prenda ad esempio l’opener The Grey Ship: metà soffice nenia acoustic-rock, metà disperata e ossessiva marcia per animi infranti. Non poco per una che a malapena arriva ai 24 anni e che solo un anno fa era sul punto di abbandonare la musica e tornare a casa dei genitori. (7.7/10) Stefano Pifferi Explosions in the Sky - Take Care, Take Care, Take Care, (Bella Union, Aprile 2011) Genere: post-rock Per descrivere questo Take Care, Take Care, Take Care si potrebbero tranquillamente prendere le parole spese da Solventi per Hardcore Will Never Die, But You Will dei Mogwai tanto è palese il percorso parallelo del quartetto texano con gli ormai bolliti scozzesi. Oppure riproporsi i dubbi e le perplessità usate ormai quattro anni fa per All Of A Sudden, I Miss Everyone, visto che nulla sembra essere cambiato. Di nuovo in pieno post-rock chitarristico, di quello epico, con pezzi incredibilmente lunghi (6 pezzi per 50 minuti) e reiterati in dicotomica prospettiva pieno/vuoto, atmosfere drammatizzate al servizio degli indie-kids più sensibili, qualche accensione ritmica che mantiene ogni tot minuti desta l’attenzione e dozzinale romanticismo melodrammatico come se piovesse. 44 A differenza dei Mogwai però qui non c’è nessun tentativo di uscire dall’impasse di un genere che, codificato a tal punto qual è ora, non rischia più nemmeno di sembrare reazionario. Lo è, punto e basta. Agli Explosions In The Sky però sembra interessare poco la diatribe critica sul senso del post-rock. Vanno ormai per la loro strada e i fan sembrano dar loro ragione. Noi decisamente meno. (4.5/10) Stefano Pifferi Fabio Orsi - Stand Before Me, Oh My Soul (Preservation, Aprile 2011) Genere: avant-rock/drone Fabio Orsi ha saputo crearsi un territorio dai contorni ben definiti ma dall'orografia tutt'altro che uniforme. Il suo habitat sonoro ha permesso di intravedere all'orizzonte alcune piste meno battute a cui, vista la vitalità con ha girovagato e con cui continua a girovagare, sarebbe prima o poi giunto. Stand Before Me, Oh My Soul abbandona le atmosfere elettroacustiche che hanno caratterizzato la produzione solista del tarantino per deviare verso un approccio più rock. A dare il tono dell'album sono, infatti, la chitarra - che Orsi questa volta mette in primo piano rispetto ai field recordings e alle tastiere - e il supporto della batteria di Rich Baker. Ne esce un lavoro in grado di muoversi su più piani: passando per il rock in stasi di Naked Trance e la psichedelia spacey di Papa, Show Me Your Blues LPs, attraverso il trip krauto My Awesome Drugs Propaganda e l'ambient al rumor bianco di Please Could You Hide That Ghost, per far ritorno, infine, ai territori più conosciuti di Soon, I'll Be At Home. Un lavoro che riconferma il dinamismo di Fabio Orsi e la sua volontà di rimanere in movimento, contro qualunque staticità. Confermando, insomma, la bontà della sua produzione. (7/10) Francesco Asti Feelies (The) - Here Before (Bar None, Aprile 2011) Genere: pop rock Altra carrozza da aggiungere al treno delle reunion: tornano i The Feelies, a più di vent'anni dal loro ultimo disco e a più di trenta dall'imprescindibile Crazy Rhythms, pilastro della new wave in salsa pop. Ora, nonostante una buona dose di curiosità, le aspettative che questo genere di operazioni portano con sè sono già più o meno calibrate, e si riducono nell'auspicio di un buon ascolto, con brani in grado di reggere il confronto dei vecchi fasti, e poco altro. Il che è esattamente quello che troverete in questo Here Before, un disco pop-rock fedele al marchio Feelies, e che anzi ne rappresenta una piccola antologia. C'è la sezione ritmica uptempo, i brani giocati su pochi riff e brevi assoli di chitarra, i coretti melodici in background come nel caso della title track. Nel complesso si accentua la passione per il pop, con la chitarra acustica che trova più spazio e strappa applausi nella pregevole Blue Skies, che pare venir fuori direttamente dalla penna degli Yo La Tengo, o in Morning Comes, ballata dal gusto 90ties sul sentiero dei migliori Gomez. Il resto dell'album (dal gusto più ottantottino) serve a ribadire l'ottima capacità di scrittura dell'accoppiata Mercer-Million, che riesce a rinverdire lo spirito punk-wave degli esordi (Time Is Right), a interpretare con successo i binari power pop (Again Today), e a concedersi anche alla passione per i Velvet (On And On). Un disco che si insinua a tinte chiare e carico di un' aura positiva, rappresentando un più che gradito ritorno; certo è un po' monocorde e non riserva sorprese, ma d'altronde non è qui che bisogna cercare la luna. (6.8/10) Stefano Gaz Feeling Of Love (The) - Dissolve Me (Born Bad, Aprile 2011) Genere: Psych Garage Terzo album per i weird-punks più amati di Francia, secondi per fama solo ai parigini Cheveu. Se Ok Judge Revival aveva imposto una nuova sonorità a forte tinte Velvet Underground, Dissolve Me continua sulle medesime coordinate, ammorbidendo forse la tensione dei brani della precedente raccolta. Massici dosaggi di garage-rock imbevuto di psichedelia sixties e ciclicità kraut, in cui alle pesanti influenze del già citato gruppo di Reed/Cale (Cellophane Face, I Am The Road) si aggiungono spunti à la Neu!/Spacemen 3 (le conclusive Numboy e White Smoke Rising), senza che venga meno quella freneticità stramboide che è poi il vero marchio di fabbrica del trio di Metz (la titletrack, Funk Police e I Am Right You Are Wrong). E tra una cavalcata elettrificata dal fuzz e una ballata sbilenca c’è anche tempo per una bella cover di Serge Gainsbourg (Là-bas C'est Naturel), da sempre nume tutelare della band, in cui i Feeling Of Love sembrano giocare con gli umori hypna-tropicali tanto in voga di questi tempi. E proprio questo sembra essere il messaggio di Dissolve Me: mentre il sotto-mondo out va dietro alle sempre più cangianti sensazioni del momento, i ragazzi di Francia tirano dritto per la loro strada confezionando un disco in perfetto equilibrio tra tributo alle glorie passate e ricerca di un sound che sia al contempo classico e personale. (7.2/10) Andrea Napoli Filo Q - Il bordo del Buio (Micropop, Aprile 2011) Genere: italiana, acustica Filo Q è Filippo Quaglia, genovese, da sempre diviso tra acustico, elettronico, brani da remixare e progetti massonici londinesi. Una figura eclettica con alle spalle collaborazioni con Numero 6, Casino Royale, Almamegretta, Meganoidi, Perturbazione, Ex-Otago e oggi i nuovi Magellano. Il terzo album, Il bordo del buio pubblicato con Micropop dopo Le proprietà elastiche del vetro (registrato e mixato da Paolo Benvegnù nel 2007), è un 45 highlight Foo Fighters - Wasting Light (RCA, Aprile 2011) Genere: Heavy Rock Gablé - Cute Horse Cut (LoAF, Aprile 2011) Genere: Art-Pop Con Cute Horse Cut i francesi Gablè si giocano la carta dell'espansione oltre i propri confini e la bella notizia è che hanno i numeri per farcela, seppure all'interno della loro nicchia. Per chiarire di cosa si tratta bisognerebbe tirare in ballo etichette come art-pop o avant-pop, ma è un peccato circoscrivere quando si ha a che fare un gruppo dall'approccio così estremamente libero, informale e divertito. Per giunta il presente lavoro, già il terzo, condensa in una quarantina di minuti la bellezza di venti brani: un minutaggio da disco punk per un'attitudine tutto sommato similare, evidenziata anche da testi come: 'I know a trick, all you need is a brick and a window: throw the brick through the open window and let it land on my hand', cui seguono dei soddisfatti: 'I love broken fingers, let's do it again'. La canzone si chiama Brick Trick ed è il biglietto da visita collocato a tre minuti dall'avvio del disco, tanto per mettere in chiaro come eclettismo e pazzia vadano di pari passo in questo progetto. Suona facile il paragone con i campioni del momento, The Chap, o anche con i classici Stereolab nei momenti di relativo intimismo, ma qui tutto è portato a livelli di schizofrenia più elevati e lo spettro di influenze contemplato si direbbe, se possibile, ancora più ampio: sospensioni elettroniche e microbeats di eredità Morr Music (Cyanure e Bunch), gospel ridicoli (Haunted), finti tropicalismi che sfociano in irruenti crescendo di chitarra elettrica (Ouac); e ancora: folktronica esangue (Ghost Host, quasi un singolo), incisi vocali al limite del naif (in Day il titolo del brano viene declamato insistentemente tra i denti a simulare un riff di chitarra), campionamenti di posate che sfregano (Eezy Peezy), tutta una serie di trovate tecnicamente ridicole ma del tutto efficaci. L'album gira così veloce e concentra così tante cose diverse all'interno di ogni traccia da rendere quasi impercettibili le distinzioni tra queste ultime: è difficile trovare quindi melodie incisive, ma pure sarebbe sciocco cercarne; piuttosto è apprezzabile il modo in cui tutto questo frenetico ed esuberante sfoggio di capacità riesca a suonare coerente. L'impressione è che il gruppo sia riuscito nell'impresa, se non di fare un vero passo avanti nell'ambito di questo non-genere, quantomeno di fornirne un'interpretazione suggestiva e unica, al punto da imporsi come possibile nome di riferimento. Va da sè che chi intende il pop come canzoni strofa-ritornello farà bene a tenersi alla larga, ma per tutti gli altri qui c'è una delle cose più fresche e bizzarre successe alla musica di inizio decennio. (7.5/10) Simone Madrau lavoro ricco di sonorità, quasi tutte acustiche seppur filtrate, talvolta, dall'uso del campionatore. Un disco musicalmente piuttosto maturo, saldamente aggrappato alla tradizione cantautorale italiana, con qualche momento altamente contemporaneo in uno dei brani migliori del disco, La memoria, dove si sente piuttosto marcata l'influenza di Vasco Brondi a far da contraltare alla delicatezza vocale vicina a quella del primo Francesco De Gregori, presente in tutto l'album. Un album dalla struttura classica che però pecca nei testi, decisamente non al livello dei suoni. Lo scarto tra le due componenti è netto ma Filo Q fa del buon cantautorato pop, vicino per certi aspetti a quello di due 46 amici che militano in veste di chitarristi nel disco: Roberto Angelini e Giuliano Dottori. Menzione speciale per Rendermi presentale che svetta, in chiusura, sull'omogeneità dell'album con l'inconsuetudine di una melodia perfetta, malinconica e davvero ben riuscita. C'è un po' del Niccolò Fabi che fu in questo lavoro che ci auguriamo essere il principio di una maturazione ancora più completa. (6.5/10) Giulia Cavaliere E' sempre increscioso recensire l'album di una band che reputi estremamente sopravvalutata. Soprattutto se si tratta di un lavoro che tutti, tranne te, sembrano attendere con impazienza. Magari è colpa del sottoscritto, che non si è mai lasciato blandire da quel post grunge annacquato, tagliato su misura per Mtv, con cui Dave Grohl ha dissipato il credito accumulato in anni di militanza con Scream e Nirvana. Ma tant'è, le strade artistiche di Mr. Grohl, se non infinite si sono certamente disperse in molteplici rivoli. A tre anni e mezzo dall'ultimo Echoes, Silence, Patience & Grace, il nuovo Wasting Light, registrato interamente in analogico nel garage del buon Dave, promette un rilancio in grande stile per la band, grazie a connubi artistici nuovi (Bob Mould) e ad altri antichi e rodatissimi (Butch Vig, Pat Smear e Krist Novoselic). Pertanto non mi resta che pormi diligentemente all'ascolto. Si parte con una Bridge Burning tesa e affilata come una pugnalata al petto. Appartiene a quel rock totale, squadrato e finemente prodotto, perfezionato Queens Of The Stone Age, esperienza che non ha mancato di lasciare il segno sul patrimonio artistico del baffuto leader. Stessa cosa può dirsi della seconda e già nota Rope, la quale può vantare un groove deciso e qualche boccaccia metal in più. Dal progetto Probot all'apparizione in Tenacious D And The Pick Of Destiny, sono anni che Grohl non manca di ricordarci la sua antica infatuazione per il metal degli 80s. Ecco allora che traccia dopo traccia, la chiave di lettura dell'album diventa sempre più chiara. Wasting Light è la logica conseguenza dei Probot. Raggiunti gli "anta", forte di un successo che il giovane batterista degli Scream non avrebbe mai neanche potuto auspicare, Grohl si abbandona alle passioni di una vita, dimostrando finalmente di infischiarsene di vendite e passaggi televisivi (che comunque arriveranno). Spaziando attraverso tutte le fogge del rock più duro ed anthemco a cavallo fra 70-80, l'album suona vario, compatto e per nulla scontato, soprattutto se paragonato alle produzioni odierne. Così White Limo ha la foga trita ossa dei thrash della Bay Area. Dear Rosemary ha la melodia e la potenza un pò sguaiata delle migliori hair metal band. Ma soprattutto, in brani come Miss The Misery e Arlandria, c'è la vena innodica e quella produzione luminosa del class rock firmato Desmond Child. Curiosamente tutte cose che i Nirvana, con i quattro minuti e mezzo di Smells Like Teen Spirits, avevano reso di colpo obsolete. Vent'anni dopo, un Grohl finalmente pacificato, sembra dirci che forse abbiamo sbagliato a buttare il bambino con l'acqua sporca. (6.7/10) Diego Ballani Forty Winks - Bow wow (Unhip Records, Marzo 2011) Genere: Power pop A sei anni dal precedente e omonimo album, ecco il lavoro che porta a compimento la maturazione della band emiliana, tanto che in Bow Wow non c'è quasi più traccia del pop punk degli esordi. I Forty Winks del 2011 prendono il meglio del moderno rock a stelle e strisce e lo fanno flirtare con coloratissime melodie di stampo britannico. Bow Wow è un disco squisitamente power pop: termine logoro che nel loro caso si usa senza temere alcuna improprietà di linguaggio. Come definire altrimenti curiosi ed avvincenti ibridi di rock stralunato come Mannequins (i Foo Fighters finiti come per incanto nella Swinging London) e Beneth Her Feet (i Supergrass andati a lezione da Josh Homme)? Se Way Out ha un tiro prepotente, nel più canonico stile Queens Of The Stone Age (ma con un inserti elettronici dai colori vivaci e cangianti), Meet You At The Bar ha come termine di paragone il brit pop riletto dai 'mmeregani' di un gruppo come gli OkGo. Difficile scegliere il brano migliore di album così ricco, tuttavia vale la pena segnalare la bella I Feel Dead, un patchwork sixties dai cori irresistibili, tiro garage e una coda che ricorda i Beatles psichedelici di I Want You (She's So Heavy). One Last Round, infine, tira fuori i fiati ed un incedere Northern Soul che la dice lunga su come alla band le definizioni vadano ormai strette. I Forty Winks sono ormai un gruppo pop tout court e vista la concretezza e la freschezza di questo nuovo lavoro, non c'è che da rallegrarsene. (7/10) Diego Ballani Friendly Fires - Pala (XL, Maggio 2011) Genere: post-nu-rave Secondo album per il trio formato da Edward Gibson, Edward Macfarlane e Jack Savidge. Dopo l'omonimo debutto del 2008, la band ha continuato a crescere e a partecipare a progetti che hanno contribuito a portare avanti il verbo nu-rave anche dopo lo scioglimento degli LCD Soundsystem e la decadenza di Rapture & Co. 47 Registrato fra uno studio della campagna francese (ma quanto va di moda oggi?), la cintura urbana londinese e New York, il disco è co-prodotto da Paul Epworth, il produttore inglese che ha lavorato fra gli altri con Adele, Florence And The Machine, Bloc Party, Primal Scream e, guardacaso, Rapture. Anche se influenzate dalla mano del pluripremiato smanettone di consolle, le tracce cercano di smarcarsi dagli stereotipi delle band con l'articolo 'The' davanti al nome e si ritagliano una cantabilità pop che fa l'occhiolino ai Cut Copy (Running Away), riprende riff dei Daft Punk (l'incipit di Blue Cassette è la riscrittura velocizzata di One More Time, i filtri di Hurting sono old-school french touch anche se c'è di mezzo l'Harlem Gospel Choir), e inevitabilmente ricalca la lezione dei maestri newyorchesi aggiungedo echi '80 (Running Away e True Love con il featuring di Alex Frankel degli Holy Ghost!). Il risultato non è però così scontato e banale, dato che si aggiunge varietà smarcandosi su territori tropicalsincopati à la Paul Simon (Pull Me Back To Earth), soul sdolcinati-loungey (nella titletrack), funkettini sciccosi (Helpless) e in generale su una coesione che si toglie di dosso l'aura malinconica del rock dela grande mela post-9/11, per tuffarsi in una coloratissima e a tratti spensierata passeggiata pop. L'invocazione del romanzo utopico di Aldous Huxley del 1962 (Pala è il nome dell'isola di Island, appunto) ci fa sperare in una maturità in arrivo. Per ora ci sono ancora troppi elementi di plagio e di nostalgia dei primi anni zero che rendono il disco nient'altro che un buon passatempo. (6.6/10) Marco Braggion Frivolous - Meteorology (Cadenza Records, Febbraio 2011) Genere: deep, tech-house Tornano ad evolversi le invenzioni visionarie di Daniel Gardner, in arte Frivolous, il produttore canadese ormai da anni residente a Berlino. Rispetto al precedente Midnight Black Indulgence l'orizzonte si allarga ulteriormente, ciò è frutto delle circostanze nelle quali nasce il nuovo album: un periodo di isolamento sia artistico che personale, durato alcuni mesi, in un'isoletta nell'oceano Pacifico. L'eclettismo per cui Gardner è noto non tradisce nemmeno stavolta. Meteorology riflette a tratti le atmosfere tropicali da cui proviene, e la cosa non si evidenzia solo nella scelta di certe sonorità tribali in brani come One Final Solstice, ma soprattutto in una generale ricchezza melodica solitamente estranea alla tech-house, con pezzi come Serenade Des Excentriques e Wasting Time a 48 rendere l'ascolto più caldo e arioso. Il temporaneo allontanamento dalla scena berlinese si traduce in una migliore messa a fuoco del background musicale che gli appartiene: l'album ha uno spiccato carattere dancey, sul quale si sviluppano iniziative ambient prossime a John Roberts (Allen Town Jail), vivacità funky che strizzano l'occhio al fermento UK (Red Tide), corde dal sapore orientale (Back Into The Deep) e addirittura passi di valzer trasformati in groove da club (Cinemascopique). Nelle architetture di Frivolous protagoniste son sempre le sfumature, e Meteorology non fa eccezione: le partenze lente sapientemente studiate per creare attesa, i bassi avvolgenti che danno il tempo, gli abili incastri con la cassa in quattro, son tutte espressioni del suo personalissimo stile, che dà vita a creature sempre più indefinite. Originale lo è sempre stato, stavolta è anche lunatico e inquieto. Ma non azzardatevi a fermarlo. (7.3/10) Carlo Affatigato Gang Gang Dance - Eye Contact (4AD, Maggio 2011) Genere: tribal dance Davvero poco da dire sul percorso artistico dei Gang Gang Dance. Gente che si è reinventata ad ogni disco con una verve creativa che sa di sperimentazione molto più di qualunque nerd ripiegato sugli effetti. Considerato il fondamentale turning point del precedente Saint Dymphna i newyorkesi erano attesi al varco del quinto disco per testimoniarne lo status di culto. Il passaggio a 4AD aiuta non tanto in quella direzione, quanto sotto il lato distributivo e del marketing, perché di fatto vendere questi GGD qui diventa una questione sostanzialmente diversa da quella che si poteva dare anche solo con l’ultimo lavoro (i precedenti sono davvero tutta un’altra faccenda ). Il cambio di pelle cominciato con l’ep RAWWAR e proseguito con Saint Dymphna si completa definitivamente con Eye Contact che si incarica di inquadrare la band newyorkese sotto una lente che piega le venature psych e dub degli esordi sotto una spessa nervatura fatta di umori etno, venature world, con il piglio dance mai così pronunciato, finendo col diventare una sorta di strana fusione kitch tra M.I.A. e le vecchie suggestioni etno di gente come Loop Guru e Transglobal Underground. Effetto finale? Un maelstrom stordente e ridondante, eccessivo e ricolmo di cattivo gusto anni ’80 che a sentire il primo singolo Mindkilla, i Crystal Castels in confronto sembrano i profeti della nuova era. Il martorio costante a base di synth e ritmica sostenuta impasta tutto il disco in una sorta di continuum da cui diventa difficile estrapolare singoli momenti cardine. Saint Dymphna ragionava maggiormente sui brani, qui tutto tende alla contemplazione dell’affresco nella sua interezza. I momenti migliori sono quelli dove ancora dimostrano di saper disegnare jam psichedeliche potenti e visionarie: Glass Jar e Adult Goth. Ma non tutto sul disco viaggia su questi livelli. Su Chinese High ascoltiamo Lizzi Bougatsos che si trasforma in una sorta di strano ibrido tra Natacha Atlas e Shakira e forse è meglio stendere un velo pietoso sui goffi tentativi soul di Romance Layers. Suggestive le ipotesi di etnica garbage e postmoderna di Thru And Thru con il refrain new wave ad innestarsi sulla base mediorientale, come se i Depeche Mode di Violator fossero cresciuti a Damasco o in qualche sperduto villaggio siriano. Certo, con i GGD non ci si annoia mai, ma stavolta l’impressione è che abbiano esagerato e il risultato è un disco molto più caotico e meno a fuoco del precedente che già faceva della sua non risolutezza la sua ragion d’essere. (6.5/10) Antonello Comunale Gangpol & Mit - The 1000 Softcore Tourist People Club (Ipecac Recordings, Marzo 2011) Genere: 8bit pop Gangpol & Mit sono Sylvain Quément e Guillaume Castagnè, duo musicale/grafico nato a Bordeaux a metà degli anni zero che approda ora su Ipecac con questo The 1000 Softcore Tourist People Club, vale a dire 14 tracce 8bit-pop un po' weird, un po' naif impregnate in un'estetica da cartone animato nello stile di un Amiga o un Atari. Nella sostanza i nostri cercano di trovare una via a metà strada tra le pazzie di Mike Patton (The 1000 People Band (Part 1)), il barocchismo di Momus (The Enemy I Never Met), e l'austerità degli Yello (The Softcore Tourist). Come dire, il problema qui non è tanto la sintesi degli elementi, perché il lavoro ha tutto sommato una fisionomia omogenea, quanto più semplicemente che il disco è scialbo. Il giocattolino pop made in Japan di Otsuki Sama non graffia, From Your House To The Universe è una siglettina cartoon che senza controparte visuale risulta un nonsense, ed anche le schegge sonore di trenta secondi come The Burial e Skillful Fingers sembrano più riempitivi che espressione di stile. Qualche buono spunto, la dance di The Softcore People Club e l'orientaleggiante downtempo di Browse At Night, rimane troppo annacquato per giustificare qualcosa che vada oltre il semplice ascolto. (5.5/10) Stefano Gaz Gavin Friday - Catholic (Rubyworks, Maggio 2011) Genere: wave pop Sedici anni ci ha messo Gavin Friday per dare un seguito all'opera terza da solista Shag Tobacco. Non che l'ex-leader dei Virgin Prunes sia stato nel frattempo con le mani in mano: ha infatti architettato spettacoli teatrali e composto colonne sonore (per Jim Sheridan e Neil Jordan tra gli altri), prestandosi ogni tanto anche alla recitazione. Quindi, bontà sua, ha sentito il bisogno di tornare all'antico amore propinandoci un album tutto intero, il qui presente Catholic. Ovvero una dimostrazione del proverbio che la classe non è acqua, ok, però si può annacquare eccome. Prodotte da Ken Thomas (già al lavoro con Cocteau Twins e Sigur Ros), le undici tracce in programma costituiscono cinquanta minuti abbondanti di pelosa melensaggine decadente. Tema portante il crepuscolo della vita e una riflessione spirituale sul "dopo", argomento che accettiamo ben volentieri se ad affrontarlo è uno dei fautori del cosiddetto goth-rock. Peccato però che venga ricondotto a forme appiccicosette da nostalgico dei Roxy Music (con risultati accettabili in Able, discreti nella vagamente lennoniana It’s All Ahead Of You, pessimi in quella The Only One che semmai rimanda a certe ignominie Cock Robin), bazzicando al bisogno kitsch vaporoso (come nella sfacciatamente sigurossiana Lord I'm Coming o in A Song That Hurts, ove sfoggia un falsetto à la Bono tra evanescenze sintetiche come bignami Ultravox-Brian Eno) e croonerismo torbido (i Lambchop narcotizzati Cousteau nel folk jazzy di Blame, la caricatura Depeche Mode-Scott Walker di Where’d Ya Go? Gone). Melodicamente insulso, interpretato con vellutata rigidità, sorretto da un'idea sonora da ex wave-rockers convertito alla pantofola, è un disco da brividi. Ma perlopiù di raccapriccio. (4.7/10) Stefano Solventi Gentlemen's Agreement (The) - Carcarà (Materia Principale, Marzo 2011) Genere: tropical fusion Se è vero che la premessa di ogni buon disco è un luogo emotivo in cui accadere, lo spazio definito da Carcarà - secondo lavoro lungo per i The Gentlemen's Agreement - fa anche di più: apparecchia una dimensione in cui perdersi, esotismo magico che polverizza le coordinate terrene, cuce i balcani coi tropici, scompiglia e mescola resine mediterranee, brume jazzy e aromi tex-mex. Già amato oltralpe, il quintetto partenopeo 49 allarga quindi considerevolmente lo spettro sonoro rispetto all'esordio Let Me Be A Child conducendo l'ascoltatore in un viaggio fiabesco attraverso le peripezie d'un ragazzo vittima di pene amorose, alla cui consolazione provvedono i pesci del mare, impetositi dai suoi lamenti. Il mare diventa così un vasto, accogliente, immaginifico ventre nel quale immergersi per assorbirne la mutevole fluidità e rinascere rinnovati nello sguardo e nel cuore. Mille le fragranze come i timbri dei molti strumenti, armamentario acustico ubriacante per orditi multicefali come potrebbero tramarli dei mariachi cresciuti tra le ombre ed il sole del Vesuvio, dei gitani alle prese con miraggi morriconiani (Mama Oceano), dei sambeiri scissi tra estro Bacharach (The Path Of Life) e fregole swing. Colto il fiore del tropicalismo, spesa la doverosa devozione a Caetano Veloso (e alla di lui sorella Maria Bethania), il quid poetico di questa band si distingue per l'entusiastico sincretismo, il festoso frugale caleidoscopio di segni, sogni e culture. Alla cui riuscita contribuiscono il senso teatrale (non a caso il tour diverrà uno spettacolo vero e proprio) e la voce solista (di Raffaele Giglio) lirica e acidula come un Devendra Banhart meno fricchettone che solare. (7.4/10) Stefano Solventi HatchbacK - Zeus & Apollo (Lo Recordings, Marzo 2011) Genere: new age / cosmica Sam Grawe è affezionatissimo al suono cosmico che guarda alla new age. Non essendone un agiografo, però, non fa troppa distinzione tra le eccellenze (Popol Vuh ricorsi ma classicamente mai raggiunti in Orinoco Waltz) e gli ascolti evitabili. Dimenticata la fase deep house e pure quella spacedisco, il progetto Hatchback, di cui è titolare, alla seconda uscita per Lo, sceglie di fare una lunga dedica all’ambient acquatico che evita picchi emotivi e in definitiva anche la qualità creativa. La differenza tra l’esserci e il farci, specie per il sound delle lande dei mondi e dello spirito, non è da poco. C’è chi non ama la new age, ma nessuno può evitare di accettare il percorso che il genere ha proposto, le strade che ha aperto. Una strada ha però una carreggiata e un limite, per quanto possa essere disegnato o sfaccettato. Gli ambienti rilassati di Zeus & Apollo soffrono come un libro che non si fa leggere dopo l’exergo. Detto in altro modo, il problema sopraggiunge nelle intersezioni che musica come quella prodotta da Hatchback incrocia. L’easy-listening è sempre dietro l’angolo (già 50 nella title-track), la muzak sotto, e anche attorno, a creare una bolla d’aria che abbassa la capacità del nostro orecchio di concentrarsi ed effettuare uno spostamento cognitivo. E l’iperuranio si allontana. (5.5/10) Gaspare Caliri Holly Golightly - No Help Coming (Transdreamer, Aprile 2011) Genere: americana Difficile che la dolce Holly possa avvicinarsi ai livelli di Billy Childish dal punto di vista quantitativo. Nel senso che questa londinese trapiantata in Georgia, è giunta alla trentina di uscite in un paio di decenni: bazzecole, se prendiamo come metro l’iperattivo Billy col quale ha più di un punto di contatto. Non è dei dischi usciti in coppia che parliamo, né della militanza della stessa nelle Headcoatees. La questione ha a che vedere con affinità elettive, con la pervicace riscrittura di canoni di rock n’ roll e folk, di country e blues con piglio vigoroso e mano sicura, ma con meno garage e low-fi per il progetto Brokeoffs in combutta con l’americano Lawyer Dave a chitarra, batteria e voce. La “solita” ricetta, insomma, devota a un approccio asciutto alle radici e ispirata a Wanda Jackson e Johnny Cash, nondimeno sapendo bene che nel frattempo sono passati Violent Femmes (che la title-track immagina alle prese con una novella Folsom Prison Blues e Burn Oh Junk Pile, Burn associa a Tom Waits) e White Stripes (più che altrove nel tormentato soul-blues The Rest Of Your Life). Gusti ruvidi, genuini e duraturi se chi li propone ha i mezzi per consegnarne un’idea credibile, alternando una frase sguaiata (Get Out My House) con una riflessione (la splendida River Of Tears, una traslucidaThe Whole Day Long) e mettendoci sempre tutta l’anima e il cuore, la classe e il feeling possibili. Oltre ai brani succitati, li certificano belle riletture di uno ieri oscuro - l’attitudine, mutatis mutandis, ricorda i Cramps - come un’accorata Lord Knows We’re Drinking, l’errebì anni ’50 Here Lies My Love e il country n’ roll L.S.D. Made A Wreck Of Me. Americana, che per la quarta volta di fila, associa tradizione e personalità in un vigoroso paradosso. (7.2/10) Giancarlo Turra Horrible Present - Endless Summer / Winter Shows Up (Autoprodotto, Marzo 2011) Genere: electro-shoegaze highlight Grouper - A | A - Alien Observer / Dream Loss (yellowelectric, Aprile 2011) Genere: dream drone Liz Harris, Grouper, è già da tempo oggetto di culto per le aste di ebay dove i suoi dischi in vinile finiscono sempre per essere battuti a cifre irragionevoli e si può stare certi che lo stesso avverrà con le poche copie esistenti del doppio vinile A | A. Due dischi singoli, Alien Observer e Dream Loss, riuniti sotto un’unica etichetta tanto metaforica quanto sostanziale. Si era già visto con l’ultimo split con Roy Montgomery quanto la scrittura della musicista di Portland si fosse raffinata con il tempo. A | A per compiutezza e disegno generale è destinato a fare da capo d’opera per la sua autrice, dribblando abilmente la pericolosa risacca del post - Dragging A Dead Deer Up A Hill, il disco che nel 2003 le diede più visibilità forte di un songwriting più pulito e una distribuzione firmata Type. Oggi, tutto torna in autonomia. Produzione autarchica e distribuzione fai da te (con l’aiuto di Mississippi Records che vale come minimo a garanzia di qualità ) sono gli architravi per un doppio sogno sonoro che sulle prime annichilisce per l’integralismo e la coloritura monocromatica, e ai passaggi successivi tende ad accogliere sempre di più in un caldo intimo abbraccio. A | A salta di netto il profilo pop folk di Dragging A Dead Deer Up A Hill, facendo da trait d’union tra le ultime composizioni apparse sull’ultimo ep Vessel e dischi precedenti come Wide e Cover The Windows And The Walls, probabilmente i suoi lavori più enigmatici e fascinosi. Dei due, Alien Observer contiene le tracce più recenti. La title track è tra le cose più vicine a David Lynch apparse di recente, ma è lo stile stesso di Grouper ad andare verso quella direzione: nebbia brumosa di feedback, canto lunare e ultraterreno, malinconia oltre il livello di guardia. In heaven everything is fine. L’ostinato profilo lo-fi che pure fa storcere qualche integralista del microfono buono non fa altro che aggiungere fascino ad una musica che se prima era soprattutto scenografia e (r)umore, ore è anche architettura e forma. L’iniziale Moon is Sharp potrebbe essere tranquillamente un brano dei Cocteau Twins di mezzo, se non fosse per la polvere nebulosa della chitarra effettata e per gli eco riverberati fino all’eccesso. Che il taglio generale dell’operazione sia quello dell’ultima figlia dello shoegaze è quasi ovvio. Se l’idea dei My Bloody Valentine, di abbozzare delle canzoni e ricrearle nel missaggio sfasato delle tracce ha dato vita ad una folla di scialbi imitatori, Liz Harris dimostra di aver appreso la lezione con una maestria tutta sua. Arrivano da qui brani come Vapor Trails e She Loves Me That Way, sempre sul punto di sfaldarsi in un non meglio definito noise di sottofondo. Come dire che lo status di bozza può diventare un regno di possibilità espressive. Dream Loss contiene le tracce più datate. L’atmosfera del primo disco, già sospesa e rarefatta, subisce qui un ulteriore regressione verso l’onirismo e l’oblio. Dragging the streets, nella sua diafana psichedelia liturgica è a due passi dai This Mortal Coil di It’ll Ends In Tears e c’è qualcosa di profondamente piacevole nel modo in cui il brano si stempera nella distorsione di I Saw A Ray e ci troviamo di colpo in territori drogati alla Flying Saucers Attack. Per non dire delle successive e impenetrabili No Other e Wind Return, degradate nella forma dal missaggio e irrefrenabili nella loro malinconia folk che sembra di ascoltare un nastro di Sibille Bayer sopravvissuto all’ultima delle catastrofi. E infine il canto della Harris, costantemente ottenebrato da qualche intervento tecnico, sia esso un riverbero, una doppia voce, una distorsione, eppure immediatamente riconoscibile nella sua eco triste. Un trademark non da poco. Grouper, in fase di press release, ha tenuto a dire che sottili e sotterranee correnti tramano da un disco all’altro, finendo di fatto per identificarli come unità, sebbene siano godibili anche presi singolarmente. Di sicuro un doppio del genere farà la gioia degli estimatori dell’epoca dream pop / shoegaze o dei “nostalgici” della prima Kranky e dell’altra Bristol, anche se forte com’è di un songwriting di altissimo livello è destinato a raccogliere consensi un po’ ovunque. (7.7/10) Antonello Comunale L'impressione è che Horrible Present sia un po' la zona 51 franca del The Calorifer Is Very Hot - ora solo Calorifero, come da nuova ragione sociale - Nicola Donà. Un playground in cui ampliare le fascinazioni lo-fi che da sempre animano il progetto condiviso con Nazareno Realdini e Samuele Palazzi verso scenari meno battuti e forse anche più avventurosi. Come dimostra l'elettro-wave della title track o lo shoegaze in sbornia Spacemen 3 di Floating Mess, primi passi di un trip volenteroso ma per ora ancora controllato (Later On e Those Days Those places non sono poi così distanti dalla produzione del Calorifero) che ha soprattutto lo scopo di ragionare sui suoni, provandone di nuovi. Senza la responsabilità di una band sulle spalle a frenare le irrequietezze creative e col timone ben puntato verso un mood più scuro ma nient'affatto radicale. Cambi di atmosfera, intuizioni solitarie, convivenze possibili ma non definitive: quelle che una Everything's Already Done analizza appiccicandosi a un pop psichedelico che flirta con l'elettronica o una Primordial Noise avvicina a certe cadenze dei Deerhunter. Un bighellonare consapevole e basato sull’istinto che porta il padrone di casa a mescolare coolness e vecchie abitudini in un disco intrigante e in download gratuito all'indirizzo http://soundcloud.com/horrible-present. (6.8/10) Fabrizio Zampighi Ibrido_XN - Non ingerire (Black Fading / Action Directe, Dicembre 2010) Genere: dark-wave Considerare ibrido o meltin' pot (come da note stampa) un disco che si rifà semplicemente alla new wave e al dark aggiungendo qualche solida base elettronica, ci sembra una forzatura: sono almeno quindici anni che escono produzioni sul genere e questa non ci pare più borderline o sperimentale di altre. E infatti a curare il suono degli Ibrido_XN non viene chiamata una figura trasversale, ma un guru del settore come Cristiano Santini (ex Disciplinatha). Detto questo, proprio il suono è la parte migliore del disco. Patinato, ma alla fine capace di blindare la musica della band laziale in uno streaming evocativo e credibile fatto di chitarre elettriche vicine al metal e tastiere. Con qualche colpo di genio (gli archi di L'odio), ruvidezze particolarmente riuscite (All'apice) e in generale una taratura degli equilibri tra rumore e melodia quasi perfetta. Il problema di Non ingerire, semmai, sono i brani: passino le analogie con i Subsonica che si respirano un po' ovunque nel cantato, restano testi per lo meno discutibili per un combo che si fa portatore di una «canzone d'autore moderna e graffiante». Niente di 52 tutto questo. Al massimo un tentativo apprezzabile (La giostra) ma al tempo stesso confusionario di innovare un linguaggio dai codici ben noti. (5/10) Fabrizio Zampighi Instra mental - Resolution 653 (NonPlus, Aprile 2011) Genere: IDM, Techno Cresciuti a Rave Culture e Warp Records all’inizio dei Novanta, folgorati dal discorso contaminato e intelligent operato da Photek alla drum’n’bass, i londinesi Alex Green & Damon Kirkham ovvero Instra:mental avevano esordito nell’anno peggiore per la cassa rullante. La scena aveva chiuso i ranghi e pure le produzioni più sperimentali, tipo il tech-step, erano arrivate a un punto morto. Tra 2000 e 2001, i due facevano una comparsata su Demonic con tracce d’n’b scure a bpm rallentati (130 circa) tra cui l’anthem ragga Boomer, le cinematiche noir di Channel Zero e una splendida Pimp star (blim caraibico di chitarrina campionata e retrogusto jazz al basso, percussioni tribali) che dava da internere più di quanto, evidentemente, non si potesse fare. Poi cinque anni di hiatus e il ritorno in consapevolezza con mosse calibrate e una produzione ancora più lenta e dark. Per Darkestral escono tre 12’’ a mettere in chiaro lo scarto dal d’n’b mentre le lezioni electro e techno (Autechre) si fanno sentire e così pure l’interesse per i film di Carpenter e il Blade Runner di Vangelis, le claustrofobie di Detroit, certe freddure Pan Sonic intersecate con casse che assomigliano sempre di più ai codici Morse (ancora Autechre e il lato hip hop della faccenda). Nel 2009, i conti con il passato vengono definitivamente saldati: Watching You - un gioiello di fusioni 2 step, idm e house - dice la parola fine alla cassa rullante, anzi, la relega a uno degli stili in oggetto del revisionismo a nome Club Automaton, moniker per il quale, assieme a Darren White / Dbridge, escono una serie di podcast gratuiti che presto rappresentano download di culto e infine anche un’omonima label gestita da quest’ultimo. Contemporaneamente il singolone esce per un’etichetta personale, la Nonsplus. Gli Instra:mental, cresciuti in termini di amicizie e contatti, suonano all’impazzata tra Berlino, Londra e il mondo, pubblicano singoli di Actress e della star dubstep Skream la cui specialità è naturalmente parte del menù del FabricLive, che a sua volta è una sorta di best dei Podcast. A completamento abbiamo l’album lungo, ovvero la nuova pelle del dopo Photek. La lezione Rave e Warp, cyber Autechre e tunnel vision AFX ritorna ancora ma questa volta la dichiarazione d’appartenenza all’UK Bass proviene da una camera iperbarica tutta electro e rigore. Resolution653 è uno di quei lavori zen sul continuum che sottopone l’autismo dei mancuniami a visioni detroitiane Gerald Donald / Drexciya (Arc, la kraftwerchiana Plok), dove il Plastikman ai tempi della Plus8 (8) si mescola alla braindance e all’acid più involuta della Rephlex (Aggro Acid, Love Arp), dove la toponomastica dubstep in scifi Planet Mu (Rift Zone), trova l’ambient house (Talkin’ Mono) tra sincopi, circuiti e letteratura cyber. Un disco di luce nera al confine tra cuffia e dancefloor. Nessuna bomba vera ma una produzione che raggiunge picchi incalcolabili. (7.2/10) Edoardo Bridda Jaki Liebezeit/Burnt Friedman - Secret Rhythms 4 (Nonplace, Aprile 2011) Genere: Tribal funk In tanti se non tutti conoscono la storia di Secret Rhythms. Burnt Friedman e Jaki Liebezeit decidono di trattare in studio un loro concerto alla Triennale di Colonia del 2000. E il tutto, anziché rimanere un episodio isolato, diventa l’inizio di un percorso, o meglio, di un processo di analisi oggi arrivato alla puntata numero quattro. Ovunque ci sia lo zampino di Jaki, la lavorazione del ritmo non può essere elementare. È lui stesso ad aborrire i tempi che il rock tradizionalmente si è scelto. L’impero dei quattro quarti, per il leggendario batterista dei Can, è quanto di più noioso si possa concepire, specie per uno che ha colto da giovanissimo le potenzialità di spostamento di immaginario della “musica leggera”, pur provenendo da studi ben più altolocati. Si sentono le delizie ritmiche di Future Days, in Secret Rhythms Vol. 4, che dal retrobottega emergono sempre o quasi in primissimo piano (182-11; ma è responsabilità del missaggio di Burnt), comunque le maggiori responsabili del mood creato dall’album. Certo, il ritmo non è solo fatto di percussioni, ma di sponde di sample create da Friedman (131-7, forse il migliore intarsio che risulta della formula), e contrappunti e ritagli di chitarra (grazie a Joseph Suchy), fiati (Hayden Chisholm), basso (Daniel Schroeter). La complessità del ritmo, come chi è appassionato di Africa saprà già, non significa però affaticamento per l’orecchio occidentale. Al contrario, è un invito a entrare nel flusso, a non limitarsi a battere il piede ma seguire le decine di input a battuta con tutto il corpo. Secondo questa logica, i brani sono infiniti o brevi, senza che la sostanza cambi; e in questo senso il Vol. 4 si inserisce nella sequenza iniziata dal primo capitolo senza una vera soluzione di continuità. Basta cogliere la complessità interna a ogni passaggio, per capire la natura dell’intera operazione, e non aspettarsi niente di più che una serie di esempi di alto livello dello stesso metodo. (6.7/10) Gaspare Caliri James Ferraro - Night Dolls With Hairspray (Olde English Spelling Bee, Aprile 2011) Genere: hypnagogic pop Chi avrebbe mai pensato che James Ferraro avrebbe fatto un disco pop. Uno che ha tirato fuori le più nefande e nauseabonde cose ascoltate negli anni '00 in compagnia di Spencer Clark con gli Skaters, i padrini del drone noise più lercio e ignobile. Uno che ha perseguito imperterrito nella sua opera solista (in cui gli pseudonimi non si contano) l'inquinamento delle nostre orecchie suonando la psichedelia ambientale di una discarica. Uno così come può fare un disco “commerciale”? Ascoltando Night Dolls With Hairspray si comprende immediatamente che a cambiare non sono certo i lemmi fondanti del linguaggio ferrariano (che rimangono sozzura, bassa fedeltà e approccio luddista), ma il frame di riferimento che diventa quello del bubblegum pop, in pratica un popular ottenuto dal rigurgito del pubblico, rimasticato e riconfezionato secondo i suoi stessi standard, un prodotto di massa guastato e infettato fino al midollo e reso così spazzatura della spazzatura. Ferraro lavora anche con il video ed è proprio dallo pseudo film in Vhs Rapture Adrenaline (un cut up dei peggior horror movie e telefilm degli anni '80/'90, collage di video di Mtv e traposizioni cinematografiche di videogame tipo Mortal Kombat, purulento mix di cultura trash degno della mente di un produttore di Videodrome) che è cominciato il rinnovamento che questo Night Dolls With Hairspray porta a compimento e completamento, anzi, a saturazione. L'ex Skaters infetta telefilm adolescenziali stile Saved by the Bell (Bayside School in Italia) con splatter d'ambientazione scolastica a là Jolly Killer (Leater High School), inscena demenziali filastrocche da sigla di Beverly Hills 90210 (Buffy Honkerburg's Answering Machine, Roses And Mystery) fino a intonare power pop mongoloidi (Runaway, Dollhouse Frotteur) e pastiche di frequenze Am (Radio Cherubs). 53 highlight Implodes - Black Earth (Kranky, Maggio 2011) Genere: Heavy drone buzz Esordio potente e visionario per le nuove stelline di Kranky Records. Gli Implodes arrivano da Chicago, con una classica lineup a quattro costruita intorno ai chitarristi Matt Jencik e Ken Camden, con quest’ultimo già fattosi notare l’anno scorso proprio su Kranky, con il disco solista intitolato Lethargy & Repercussions. Le coordinate su cui si muoveva Camden in proprio, ovvero krautrock classico e dronemusic tra le più estatiche trova soltanto parzialmente una sua eco tra le spire spesse e metalliche degli Implodes che al contrario piegano ogni cosa sotto uno spesso umore di tenebra. Black Earth è un disco dotato di un fascino scuro ed arcano che poggia le sue fondamenta su un mix molto abile e furbo. Da un lato, più che fare bieco citazionismo, prende in prestito in toto la lezione black metal con il taglio metallico e acido delle chitarre e le voci ridotte al rango di rantoli riverberati. I brani rimangono sempre sufficientemente melodici per non superare mai davvero la linea di confine, ma tutto questo aggiunto al piglio tribaloide delle ritmiche e alle incursioni insistenti su una drone music apocalittica e nerissima traghettano la musica in un terrirorio che sembra stato battutto già milioni di volte eppure mai con questa efficacia. Qui dentro c’è del post rock mischiato Current 93/Death In June (i mormorii sinistri e tenebrosi su Screech Owl, Song for Fucking Damon II, Hands on the Rail); acid folk da apocalisse (l’iniziale Open The Door, Oxblood, Experiential Report); metal-grunge (la micidiale Marker o la malinconica Meadowslands); dark ambient virata kraut (White Window, Wendy, Down Time). Tutto concorre alla descrizione meticolosa di questa terrifica terra di mezzo del nero. Non sarà un viaggio indolore, ma finalmente i teenagers del 2011 che non si arrendono all’emo hanno trovato una colonna sonora adeguata ai loro tempi. (7.5/10) Antonello Comunale Un collage impetuoso, capace di sferrare la sua fatality e con una sua forza scatologica. Del genio vi abita senza dubbio, ma attenzione alla scadenza e al compiacimento. Il Pit Fall è vicino... (7.4/10) Francesco Asti Jamie Woon - Mirrorwriting (Polydor, Aprile 2011) Genere: nu-soul popstep Uno degli album più attesi dalla cricca di gente che viaggia con la playlist su coordinate nu-soul e dubstep: per intenderci, quelli che hanno esaurito dopo pochi istanti i posti per il concerto di James Blake o che si sono esaltati ascoltando il disco dei Darkstar. L’esordio di Jamie Woon, già anticipato dal singolo Night Air coprodotto da Burial, si riporta su binari popstep influenzati dal blues e dal soul, come va di moda oggi. Il ragazzo ventottenne non è però un novellino. Ami54 co di Ramadanman (che ha chiamato in suo onore una delle sue tracce The Woon), in tour come spalla di Amy Winehouse, vari remix per lui da parte anche di Hudson Mohawke e Royce Wood (Lady Luck), un featuring in compagnia di Om’Mas Keith per il singolo Solidify di Subeena su Planet Mu, coinquilino del Portico Quartet nell’East End londinese, segnalato come New Band Of The Day dal Guardian, al quarto posto nell’influentissimo sondaggio BBC Sounds of 2011 (dietro a Jessie J, James Blake e The Vaccines): insomma, uno che si dà da fare. Tre anni per concludere il disco, registrato tra Londra e un cottage della Cornovaglia, dove il gossip dice che abbia registrato i suoni dell’argenteria e delle pietre del torrente per trasformarli in percussioni da aggiungere all’album. Un’attesa che gli ha portato fama, riconoscimenti e probabilmente esperienza. Il ragazzo londinese - dalla voce che somiglia tanto a quella dell’omonimo Jamie Lidell - parte con un full denso di riferimenti agli Ottanta e ai Novanta (ad esempio al pop raffinato degli Everything But The Girl), al soul e alle derive post-step che oggi si incanalano nei binari del pop. Street è una cosetta da niente che ti prende subito, un ritmino eighties che non ti togli di dosso, il singolo con Burial (Night Air) riprende la fase electro dei Depeche Mode e gli aggiunge la voce cristallina che va su e che ti cuoce l’anima, Lady Luck si fa contaminare dal soul pacchiano da classifica (ma ha un suo mood che esula dal peggior Timberlake, per intenderci) e che sicuramente sarà amata da migliaia di ragazze, Shoulda è il richiamo alle canzoni da studio 80 (dice bene il NME quando cita In The Air Tonight di Phil Collins), Echoes ci va di falsetto retrò con qualche puntatina step, e poi la seconda metà del disco si rilassa in qualcosa che potrebbe essere benissimo usato in qualche compilation chill-ambient di classe (Spiral, Secondbreath) e che fa scendere le vibrazioni dei picchi raggiunti in precedenza. Il dubstep è diventato ancora una volta pop. Woon lo testimonia con un album che potenzialmente può essere ascoltato da chiunque (sì, dalla casalinga che ha l’autografo di Julio Iglesias incorniciato alla parete alla ragazza che ama i Dari), a prescindere che si conoscano o meno i trascorsi oscuri del genere. Il rischio però (da metà tracklist in poi le tracce lo testimoniano) è quello di perdersi in una patina che rasenta il trash di molte delle più infauste boy band anni Novanta. Il ragazzo ha una bella voce, sdogana il soul nella pasta popstep, ma deve stare attento a non infognarsi nel tunnel di una commercialità che non ha nulla a che vedere con le ricerche proficue di Blake & Co. Marketing e tattiche commerciali intaccano l'underground londinese, come già presentivamo nella bufala Magnetic Man. (6.9/10) Marco Braggion Jason Forrest - The Everything (Staatsakt, Aprile 2011) Genere: plunder-mash-up Ci ha messo sei anni Forrest a dare un seguito al precedente Shamelessly Exciting. Il producer e artista (noto anche con il moniker di Donna Summer) non è stato però con le mani in mano in questo lasco temporale. Ha curato ben due etichette (la Cock Rock Disco per la musica sperimentale e la Nightshifters per i suoni clubbistici), ha fondato il festival Wasted con DJ Pure ed il club Transmediale di Berlino per dare visibilità alla scena breakcore (genere di cui è uno dei personaggi di spicco) e all'inizio di quest'anno ha lanciato pure il canale TV/sito/magazine Network Awesome. L'album riprende le idee dei suoi lavori mid-noughties proponendo una lista di tracce massimaliste che assemblano a puntino sample per costruire stanze funk (New Religion), visioni filmiche loungey tagliate con breaking e krauterie varie (Italian Lessons), reminiscenze break-acid-core à la Kid 606 (la traccia che dà il nome alla raccolta), americana bluesy proto-Beck (Raunchy), organetti per Luke Vibert (The Exquisite Organs), truzzismi in ghetto lo-fi (Roger Dean Landscape), porno lounge Settanta (Keys To The Door starebbe bene in un live di Frank Zappa) e per chiudere pure la notevole meditazione slo-mo pianistica (Isolation, Too). Jason è un uomo che non sta mai fermo, e che con le sue migliaia di idee in pochi attimi fa attraversare mondi lontanissimi. Per chi segue l'elettronica da qualche anno, la proposta si situa su un solco tracciato dallo stesso Forrest in compagnia del già citato Kid 606, di Duran Duran Duran, DJ Rupture e Spooky fra gli altri. Nulla di nuovo insomma, ma il prodotto ha una coesione e una capacità di arrangiare i materiali notevoli. Per questo, dopo anni dall'esordio, Forrest sta sempre sopra la media. Keep it going, Jas. (7/10) Marco Braggion Jolaurlo - Meccanica e natura (Irma Group, Marzo 2011) Genere: synth wave rock L’eredità dei Novanta dei gruppi italiani si disperde oggi in centinaia di proposte, che alle volte sottolineano come quel laboratorio - che fra gli altri ha visto lavorare gli Üstmamò, i Disciplinatha, i Subsonica, la Bisca e (sì, pure loro) i CSI - avesse idee e propositi ben al di sopra dello zeitgeist, confinato spesso in fanatismi spiccioli ed effimeri. Gli Jolaurlo di Marzia Stano (frontgirl e vocalist del combo pugliese) partono sull’ultima canzone di questo terzo album da una connessione con il famoso Consorzio: Annarella (registrata dal vivo) è il cordone ombelicale che ricollega l’ultima fase delle molteplici creature di Ferretti all’oggi post-tutto. Questo link azzardato, ma non troppo peregrino, ci permette di accostare il gruppo per affinità strumental-vocali alle derive electro del gruppo della Redeghieri (amica di Giovanni Lindo) in un sentiero che è anche - ovviamente - influenzato dal presente. Il lag temporale che intercorre dall’ultimo lavoro della band dell’appennino reggiano viene rimpolpato con riferimenti ai Prozac+ (Polistirolo), ai Subsonica più dancey (Il Buio) e in certi episodi anche agli Ottanta più sintetici di OMD, Soft Cell e Ultravox, oggi in sommo rispolvero (Chiaroscuro, Banale). Prodotto dall’impareggiabile Casasonica di Torino (Ale Bavo il mastermind dietro le quinte) il disco suona ot55 timamente, ha una buona carica e si configura come un prodotto dal sicuro potenziale radio-pop. Se questi fossero stati gli obiettivi di Marzia e dei suoi colleghi, il bersaglio è stato centrato in pieno. Beninteso: lo iato con i padri nobili è tutt’altro che colmato e se il combo volesse alzare il tiro contro l'erosione temporale, è proprio sui testi e sulla poetica che dovrebbero lavorare. C’è ancora molta strada, ma l’impegno e le 'good vibrations' di Meccanica e natura meritano il dovuto riconoscimento. (7/10) Marco Braggion Jookabox - The Eyes Of The Fly (Asthmatic Kitty Records, Aprile 2011) Genere: lo-fi hip-hop Che il quattro venga da sé lo dice uno dei proverbi più affidabili sulla piazza. Il cinque invece è notoriamente più precario. Quello scellerato mattacchione di Moose Adamson deve pensarla più o meno così, dal momento che ha accompagnato l'annuncio del quarto album dei suoi Jookabox con la notizia del loro scioglimento. Canto del cigno inatteso dunque, ma assolutamente degno dei predecessori, tanto spasmodico e vitale da compensare il rammarico con qualche fondata speranza nel nuovo progetto solista di Adamson dietro moniker DMA. Dieci tracce per una mezz'ora tra le più schizoidi sulla piazza, questo The Eyes Of The Fly. Titolo attinente, non tanto per le ossessioni kafkiane che riverbera quanto per il senso di frammentazione visiva, di sguardo che scassa, fracassa, disarticola e ricompone con l'ingegno gioioso e selvatico d'un bimbo che si crede un freak (e viceversa). Regressione sonora consapevole, più beffarda che dissacrante, liberatoria perché reclama libertà espressiva - appunto - a partire dalle radici folk e blues su cui poggia, per poi scodinzolare spedita tra imponderabili ipotesi hip-hop, psuedo-tribali e lofi. Obiettivo? Sparigliare le tessere del puzzle per comporre un'immagine paranoica del sensibile quotidiano, alla ricerca genialoide e un po' disperata della combinazione inaudita, quella cioè capace di perturbare le certezze, scuotere i sedimenti, oppure solo di operare una chirurgica distrazione dal consueto (dal reale). Viene sì da pensare alle farse alienate di David Thomas, alle stravaganze acute del primo Beck, all'estrosità goliardica dei Camper Van Beethoven, al dadaismo insidioso dei Residents, così come al post-black eterogeneo dei Tv On The Radio e all'estrosità burrascosa di Jon Spencer: in ogni caso, qui tutto accade entro un'aura da b-movie fumettistico e cazzone, con 56 l'obiettivo d'un divertimento sì delirante e fors'anche malsano, ma tutto sommato abbastanza piacionesco, tipo dei Gorillaz meno fighetti e più facinorosi. La filastrocca ipnotica di Cold Solution ed il piglio febbrile di FF rappresentano un po' gli estremi stilistici del discorso, il cui apice coincide col formidabile pasticcio della title track, visionaria stratificazione di surf, countryfolk, hip-hop e psych in un brodo di trafelata frenesia. (7.1/10) Stefano Solventi Katy B - On a Mission (Rinse, Aprile 2011) Genere: Uk dance pop Sulla virata mainstream di alcuni culti dubstep vi abbiamo già detto: prima è arrivato Roska, poi il super trio Magnetic Man formato da Benga, Artwork e Skream, dunque la prova solista di quest’ultimo e infine naturalmente, James Blake, il primo astro di una bolla speculativa nu soul a base dubstep che ora esplode con Jamie Woon (il nuovo Craig David?). Kathleen Brien, classe ’89, protetta Rinse.fm, allieva della BRIT School (la fucina di personaggi nuovi che ha dato alle stampe i lavori di Adele, lo stesso Woon, Amy Winehouse e altre star nascenti UK), già all’attivo con un paio di hit in proprio (Katy On A Mission e la grimey Lights On con Ms Dynamite) e la famosa Perfect Stranger dei Magnetic Man (qui ri-compresa), arriva all'album su Columbia prodotto prorpio dall'afro warrior dubstep Benga. Dubstep, drum’n’bass, 80s, remember ’92, e house. Tutto addomesticato al pop r'n'b da classifica come si era già notato in Katy On A Mission, quinto posto negli UK lo scorso luglio, ottimo riff hard step del producer e una parte melodica piatta come poche. Oggi si replica male con tentativi wave pseudo-La Roux (Witches Brew) e fastidiosi euro-disco (Broken Record), ma l’album, indubbiamente, si regge discretamente su terreni nu soul à la Janelle Monáe e affini. A segno, anche se non proprio originali, i colpi house, disco o breakbeat nelle rispettive Why You Always Here, Movement e Disappear e quasi sempre ottime le soluzioni confezionate da Benga (una base su tutte Go Away, una postdrum’n’bass liofilizzata). In definitiva, un disco spesso scontato e non sempre all’altezza in termini di personalità. Qui non è certo questione di songwriting, ma di non essere il clone del clone di qualcuno, tanto più che Katy partiva con il culo straparato, da amici e controamici. Perché non osare giusto un po' di più? (6/10) Edoardo Bridda King Creosote/Jon Hopkins - Diamond Mine (Domino, Marzo 2011) Genere: Folk E' un'accoppiata delle più improbabili quella che sigla questo Diamond Mine. Uno è King Creosote, folkster scozzese, profilo coerentemente indie e una serie di album mai decisivi ma di buon valore. L'altro è Jon Hopkins, la cui ambient, a dispetto di molte illustri collaborazioni (da 'papà' Brian Eno fino a Massive Attack e Coldplay) non si è finora distinta particolarmente nell'opera a suo nome. La somma delle parti comunque non compromette nè l'una nè l'altra, anzi, si direbbe che le migliori entrambe. Hopkins si sbarazza delle superflue sbavature dubstep che rendevano prescindibile il suo ultimo disco per tornare alla materia che padroneggia meglio; mentre King Creosote prende un po' le distanze dai suoi modelli più classici (Paul McCartney in primis) per aggiornare il proprio registro e sfogare quella voglia di 'modernità' che già trapelava qua e là nei suoi album. Nonostante l'intro strumentale sono le canzoni a fare la parte del leone, ma l'apparato elettronico, per quanto contenuto, si rivela comunque cruciale nell'economia dei brani, particolarmente decisivo nell'avvicinare delicatamente ciò che sarebbe un buon disco folk a nomi più imponenti. Sia Bats In The Attic che Your Own Spell, ad esempio, percorrono le vie bucolico-siderali dei Sigur Ròs; se Your Young Voice riecheggia distintamente Tim Buckley, Running On Fumes aggiorna la lezione di quest'ultimo a quella dei Radiohead più epici e dilatati; mentre l'altra faccia della band di Thom Yorke, quella elettronica, è la base della commovente Bubble che, complice l'inserimento del banjo, fa l'occhiolino anche ai Notwist di Neon Golden. La mancanza di una forte personalità era un difetto che già condizionava le rispettive opere in solitaria del duo, e qui non si può che rimarcarlo con maggiore severità, considerato l'alto numero di paragoni possibili e, viceversa, la quantità di opzioni che due mondi musicali così distanti metterebbero a disposizione. Ma a quanto sembra la prospettiva di osare non interessava i nostri, che più verosimilmente hanno solo pensato a dare la forma migliore a una serie di brani in cui credevano: con ragione, perchè l'ispirazione che governa questi ultimi è tale da rendere l'esperimento riuscito. (7.2/10) Simone Madrau cora caratterizzata da quel misto di post-rock ed elettroniche che lì caratterizzò nei Novanta, ai tempi della 'neue deutsche welle' del kraut rock assieme a To Rococo Rot, Tarwater e Mapstation. E quanto scritto recentemente per 2014 vale sostanzialmente anche per Tank con l'importante eccezione che questo è probabilmente il miglior album della ditta. I Kreidler trovano finalmente la quadratura in un lavoro solido, vario e affascinante, che non deve nulla a nessuno, fa la propria cosa e la fa con il solito misto di freddezza, gusto per le timbriche e pennate d’elettronica sempre misuratissima. Confezionano una breve manciata di tracce dove il rock dialoga con una techno primordiale a braccetto con Vangelis, dove una costante dark, che rimanda a tutta una classica cinematografia (Blade Runner, Essi Vivono ecc.) scambia fluidi con il lato più umbratile del post-punk che va dai Savage Republic ai Piano Magic. E ancora il con kraut a base di motorik Neu!, lo sci-fi ereditato dai Kraftwerk. Le triangolazioni di terra, metafisica e cielo. Anche se il mondo guarda altrove e queste sonorità, si dirà, hanno fatto il loro tempo, non commettete l'errore di farvi scappare un album come questo. (7.3/10) Edoardo Bridda La metralli - Del mondo che vi lascio (A Buzz Supreme, Aprile 2011) Genere: jazz / cantautorato I La metralli sono il tipico progetto “alto” che parte dal jazz e sfocia in una canzone d'autore caposseliana (Sull'ultima vertebra) mista ad atmofere folk popolari. Tanto che il risultato alla fine è una musica contestualizzata, finanche prevedibile nello svolgimento, ma nonostante tutto ben fatta. Chitarra, fisarmonica, contrabbasso, kazoo, qualche batteria sparsa e la voce di Meike Clarelli a immalinconire tra valzer e blues sfilacciati (Un niente di felicità), jazz e qualche altrove imprevedibile (il Tim Buckley di Anchora). Con un parco strumenti virtuoso e arrangiamenti che alla fine si mantengono piuttosto minimali. Del mondo che vi lascio è un bel disco, forse fin troppo uniforme, nonostante qualche aroma balcanico diffuso (Balkan Graffiti) e un approccio ai “classici” che diverte senza snaturare la tradizione. (6.5/10) Fabrizio Zampighi Kreidler - Tank (Bureau-b, Aprile 2011) Genere: Kraut Salvo un tocco appena più wave, la loro formula è an57 La Nevicata Dell'85 - La nevicata dell'85 (Fumaio, Marzo 2011) Genere: post psych Ogni nuovo epigono è un attestato di merito per chi - come Massimo Volume e in parte CCCP/CSI - ha dettato le coordinate del "read'n'rock" in italiano. Ai cari Offlaga Disco Pax, agli ottimi Bachi Da Pietra e dopo l'eccellente conferma dei Bancale, possiamo aggiungere al novero anche i bergamaschi La Nevicata Dell'85, un trio che di specifico ci mette una meditazione sonica ad alto tasso scenografico, quasi a definire in ogni canzone lo sfondo d'una pieces emotivamente sostenuta, spinta vicino al limite eppure assolta da un raziocinio che sa organizzare i tumulti in una narrazione stratificata, assieme complessa e focosa (vedi il sapiente intreccio di veemenza hard, vampe gotiche e aromi latini della stupenda Settembre). Ne esce un apprezzabile equilibrio tra liriche, interpretazione e musica, quest'ultima impegnata a definirsi come narrazione parallela, frutto d'estro espressionista che sa dosare pennellate evocative (come gli aciduli miraggi psych di Io sono Jean-Baptiste) o impetuose (vedi il clangore industrial-motoristico nella furibonda Delenda). Altri segnali di libertà, o se preferite di mancanza di preclusioni stilistiche, sono le fiabesche escandescenze desert-noise di Il disguido di Gringo e quella Polvere cantata con facinoroso languore che riverbera lirismi incrociati post-rock, stoner e progressive. Un debutto notevole. (7.2/10) Stefano Solventi Ladytron - Best Of 00-10 (Nettwerk Music Group, Aprile 2011) Genere: Synth Pop, Electro Un equilibrio instabile tra forma e sostanza, tra indietrend ed effettive capacità, revivalismo e presente effettivo; e nondimeno, un nome di cui tenere conto nell'interpretazione di dove vanno (andavano?) i gusti di un certo pubblico. Non si direbbe in apparenza ma i Ladytron negli anni si sono evoluti, in una maniera che magari ha allontanato le simpatie di chi viene da gruppi come i Broadcast ma che in compenso ha avvicinato quelli che con certi anni 80 (Depeche Mode in testa) ci sono cresciuti. La presente raccolta mette in fila i 17 brani che hanno segnato il successo del gruppo, evitando l'ordine cronologico e studiando invece una tracklist più strategica, che cala subito l'asso Destroy Everything You Touch, ad oggi probabilmente singolo più popolare, e poi procede alternando atmosfere tenui e beat danza58 bili, mescolando l'elettronica suadente e carillonesca dei primi lavori (Playgirl) con le imponenti architetture synth-pop degli ultimi lavori (Ghosts). L'ascolto nel complesso è godibile, complice l'assenza quasi totale di quei momenti morti che hanno sempre inficiato la bontà complessiva degli album veri e propri. Per chi già ha questi ultimi, la mancanza di brani inediti dovrebbe togliere la tentazione di un eventuale acquisto. Per gli altri, questa è una cartina al tornasole di uno degli electro-pop acts più rappresentativi dell'ultimo decennio. (6.9/10) Simone Madrau Lake - Giving & Receiving (K Records, Aprile 2011) Genere: psych-pop Un album dei Lake presenta ingredienti sicuri: canzoni “corrette”, delicate, lievemente psichedeliche, condotte con naturalezza. Il collettivo non rinuncia, neanche nel terzo album per la K Recs, ai retaggi Sixties e al tocco che ha sempre distinto band di Eriksson, Moore e compagnia. Si sentono molto i Dub Narcotic Studios, dove il combo ha registrato durante i mesi caldi del 2010, e dove ha messo a punto un’infilata di brani con inventiva ma senza picchi - dove l’eccesso è bandito, ma, qui sta la bravura, non è sostituito con la banalità. Si sente anche Karl Blau filtrato Paul Simon (Within/Without), deus ex machina e mentore stilistico di chi passa da Olympia - così come Calvin Johnson. Entrambi mettono la propria firma sull’uscita, chi - Karl - al mixing e all’ingegnerizzazione, chi - Calvin - solo a quest’ultima fase. Ciò che piace è che le canzoni dei Lake ci attraversano senza sembrare mai davvero nuove, quasi fossero un easylistening automatizzato. Eppure, cosa quanto mai rara date le premesse, le creature dei Lake non perdono mai in personalità (tra i picchi c’è Mother Nature’s Promise, piena della tipica flemma del gruppo, ma anche di verve e di trovate strumentali). Avrà influito il lavoro di Ben Hargett, che ha trattato il tutto con il suo laptop (esatto, proprio un computer), oppure meglio, e più in generale, sarà che naturalezza qui non vuol dire approssimazione, ma costruzione leggiadra e minuziosa che al lato pratico - leggi l’ascolto - scompare, lasciando il piacere delle melodie e degli arrangiamenti. E un gusto di lavoro collettivo, di macchina molto umana e molto oleata. Non ci aspettavamo e non ci aspetteremo altro. Né ci stuferemo di ascoltarli. (7.1/10) Gaspare Caliri highlight James Pants - James Pants (Stones Throw, Maggio 2011) Genere: weird pop Sensibilità pop maturata in anni di ascolti onnivori e disordinati iniettata nel corpo di un nerd della musica con un innato istinto weird. Ecco la formula semplice semplice che spiega il talento di James Pants. Un piccolo maverick della suburbia americana che con un paio di mosse giuste a livello di immagine e di comunicazione (magari con la spinta di un hype-setter come Pitchfork) potrebbe benissimo fare sfracelli nel mondo indie/alt/lo-fi eccetera. Innamorato tanto della Motown e del doo-wop quanto della dance solarizzata anni Ottanta e della new-wave più malata, James produce beat, compone, suona e canta praticamente in solitaria; ogni suo disco è una generosa girandola di idee, di invenzioni, di riferimenti, di sovrapposizioni e parallelismi (per cui, per dire, diresti che la notte dorma abbracciato al bulbo di uno degli zii Residents, ma non è mica vero). Questo suo omonimo disco, il terzo propriamente concepito come album, è probabilmente il suo lavoro più compiuto finora, sicuramente il cosiddetto disco della maturità. James prende il power pop e lo infila stropicciato nella buca delle lettere dei Pussy Galore (Beta); si mette a giocare serissimo col soul e trasfigura Sometimes I Don't Know What To Feel (Every Night I Dream); sembra fare il verso agli acusticismi delicati dei Kings Of Convenience (mettendoci sopra la voce glo-izzata di Lucrecia Dalt; Clouds Over Pacific); prende Gates of Steel dei Devo, la rallenta e la ricopre di melma, poi la mette in trasparenza con una baracconata alla Gary Wilson, poi ancora - netta cesura mette in primo piano basso, batteria e uno sfarfallare di synth in un rockettino anni Cinquanta virato lo-fi (A Little Bit Closer). E via così, con la magia pop a base di umide tastiere Ottanta e carezze grottesche alla Residents di Kathleen (è il nome della moglie), con lo strano western di Body On Elevator, i mesh appunto - Cinquanta/Ottanta di Darlin' e Alone e il synth sognante, il basso pulsante e scuro e la voce femminile bianca come la luna (sempre la moglie) dello squacio romantico Dreamboat. Nel vostro scaffale 2011, da mettere tra Driver&Driver e Tune-Yards. (7.5/10) Gabriele Marino Le Rose - Le Rose (Pippolamusic, Settembre 2010) Genere: synthpop, italiana Fiori colorati, lievi, morbidi e pungenti: ecco quel che abbiamo davanti. Le Rose sono il progetto a due voci di Flavio Scutti e Andrea Noce, due che probabilmente, dopo essersi incontrati come da Annales, ai piedi del Colosseo, hanno cominciato a parlare di Gianni Togni e di Diana Est decidendo poi di mettersi a suonarli contemporaneamente. Nei '90 band come La sintesi, Bluvertigo, Subsonica e, su tutti, Soerba, erano riuscite a riportare in vita un sound sepolto dalla flanella dimostrandoci come tutto in termini di pop dovesse, sensatamente, ripartire soprattutto da lì, oggi i due romani ne proseguono più che degnamente il discorso sorvolando sulle passate indagini colte dell'elettronica (testi post dogmatici, volontà mistico-intellettuale) e calcando su un pop puro, semplice e nella più complessa delle accezioni (se la già citata Diana, in Tenax, cantava versi di Seneca a tutto spiano, parlare di Schumann non sarà certo un problema). Nove brani uno più singolo dell'altro che vanno dal candore cinematografico di Meteo al romanticismo epicoerotico di Hotel Como e Mi dice sì, fino all'electro sfrontato di Monica Vitti (un contraltare perfetto al più scivoloso Pop porno nazionale). Il risultato? Matia Bazar da disco omonimo e Aristocratica con tanto, tanto Garbo e Italodisco, tutto suonato impeccabilmente. Un altro coupe non da poco della nostra Pippola music. (7/10) Giulia Cavaliere 59 Left Lane Cruiser - Junkyard Speed Ball (Alive Naturalsound Records, Marzo 2011) Genere: garage-blues Tirate fuori dal cesto delle cose sporche la vostra camicia più stracciata, lasciate crescere i peli sulla vostra faccia, coricatevi per terra e rotolate nella polvere. In Junkyard Speed Ball di pulizia, e di quella che un tempo si definiva vita borghese, non ne troverete traccia. Se vi eravate fermati tra il radicalismo chic dei White Stripes o tra le venature soul dei Black Keys (anche loro della scuderia Alive Natural Sound), il terzo album del duo dell'Indiana arriverà fastidioso come l'umidità del Mississipi a ricordarvi di cosa è fatto il blues: sporcizia e sangue, passione, emozioni e istinto, pochi fronzoli e tanta sostanza. Rozzi come solo dei redneck sanno esserlo, i Left Lane Cruiser si lanciano con impeto sui loro strumenti dando sfogo a tutte le energie in un passaggio diretto tra viscere, braccia e voce. Le abilità tecniche e le sperimentazione, infatti, meglio lasciarle ad altri: le qualità che conquistano dal primo ascolto sono l'immediatezza e l'impatto sonoro. Basta passare per l'apertura di Lost My Mind o la ballata Giving Tree per accorgersi di come i motivi entrino con facilità sorprendente nelle orecchie. Pieni di urgenza espressiva e carichi di una sana e sacrosanta ignoranza, il duo barbuto si candida a rinverdire i fasti del rock sudista e, perchè no, anche ad entrare nel cuore dei fan di mr. Jon Spencer e la sua Blues Explosion. (7/10) Francesco Asti Lento - Icon (Denovali, Aprile 2011) Genere: heavy-doom Supera in parte i cliché del genere l’atteso comeback dei romani Lento. Se già Earthen - e prima ancora il lavoro collaborativo Supernaturals Record One condiviso con gli Ufomammut - aveva messo in luce le possibilità elusive del quintetto, ora Icon disperde ancor di più referenti e riferimenti. L’accordatura ribassata delle tre chitarre, classica quando si traffica con pesantezze del genere, induce alla cupezza strumentale ma non influisce sul potenziale evolutivo della band. Passaggi quasi sinfonici e disarmonie post-prog, stacchi in levare e parentesi statiche diluiscono il solito rifferama monolitico d’estrazione post-metal e decostruiscono l’assetto delle composizioni dei Lento. Perché è questo il grosso pregio del comeback: fondere e destrutturare l’approccio monodimensionale del genere di riferimento in un pulvisco60 lo di suoni, sensazioni e suggestioni che esulano dal solito e iper-abusato contesto vuoto/pieno. L’horror vacui di Icon, le parentesi simil-prog-metal disseminate nel maelstrom di Hymn, le stasi sinfonico-celestiali che aprono e chiudono circolarmente l’album (Then e Admission), il rumorismo ambientale che inaugura Limb non sono che esempi di un procedere che allunga le radici sino ad Earthen e promette sviluppi notevoli se i romani avranno ancor più voglia di sperimentare sulle fondamenta del proprio suono. Per ora accontentiamoci di Icon, un album che getta sicuramente nuova linfa in un ambito a volte troppo chiuso nel suo recinto. (7.2/10) Stefano Pifferi Little Scream - The Golden Record (Secretly Canadian, Aprile 2011) Genere: folk psych Laurel Sprengelmeyer, opportunamente ribattezzatasi Little Scream, esordisce per Secretly Canadian con un parterre di tutto rispetto, ovvero coadiuvata da membri di The National (Aaron Dessner), Silver Mt. Zion (Becky Foon) e Arcade Fire (Sarah Neufield e Richard Reed Parry, quest'ultimo anche produttore). La polistrumentista dell'Iowa gioca una partita versicolore, estrosa e misterica, mischia le carte e cala mani stordenti lasciando trapelare una evidente strategia sensazionalistica. Con quella voce tra velcro e velluto guarda al folk revival asperso di misticismo psych, ammicca certe trepidazioni allibite ai margini del post, rincula verso un rock acido scomodando vaghi fantasmi Jefferson Airplane e Patti Smith, bazzica stravisioni bucoliche contemporanee (gli Animal Collective via Polyphonic Spree) e via discorrendo in un ampio progetto da "famolo strano" purché arty. Muggiti elettrici, vapori cameristici e rugiade acustiche sono i colori base di quadretti suggestivi perché bramosi d'esserlo, e che proprio in cotanta tensione superficiale esauriscono il principale motivo d'interesse, lasciandoci molti e fondati dubbi riguardo la sostanza. Si lasciano sì apprezzare episodi quali The Heron And The Fox (Nick Drake sognato da Laura Marling), i barocchismi catchy di Cannons, l'impeto rurale PJ Harvey di Red Hunting Jacket, quella People Is Place che ricalca certe trepidazioni diafane Sigur Ros, ma non c'è continuità né profondità melodica. Disco ben confezionato, certo, ma più espedienti che cuore. Come potrebbe una freak col cuore da nerd. (6/10) Stefano Solventi Lone - Echolocations EP (R & S Records, Aprile 2011) Genere: techno idm Ritorna sulla media distanza Matt Cutler. Dopo 4 album e una manciata di singoli e rmx (su tutti, quello per All The Flowers di Bibio), Lone riappare in grande stile con Echolocations, EP firmato per la mitologica R&S records. La label belga legata indissolubilmente alla storia della techno europea, sta operando negli ultimi tempi un ricambio generazionale e stilistico del proprio roster. Questo svecchiamento (basti pensare alle release di James Blake) ricorda per certi versi quello che è successo alla Warp una decina d'anni fa, anche se in questo caso persiste una consolidata dimensione di culto underground. Tornando a noi, finora Lone ci aveva abituato ad un percorso sonoro fatto di morbide atmosfere glo-fi e digressioni cinematiche che da un lato richiamavano ingombrantemente l'immaginario warpiano dei Boards Of Canada e dall'altro una specie di fake-negritudine wonderiana perfetta per sonorizzazioni porno vintage. Per impacchettare il tutto nella contemporaneità Cutler si è poi adoperato nel trattamento della propria materia sonora secondo gli standard produttivi sfocati e impressionistici della chillwave. Rispetto a tutto ciò, la novità più consistente di Echolocations è l'avventurarsi nei territori della Detroit Techno e dell'house Chicagoana. Per essere precisi, oltre a misurarsi con il materiale originale, in questi 6 pezzi c'è anche il tentatvo ulteriore di filtrare il tutto con la lente dell'acid house inglese dei primi Novanta, quel suono che proprio sull'asse Chicago-Detroit ha plasmato tutta la rave culture inglese. Explorers è una sequenza di sinuisoidi alla Orbital, Coreshine Vodoo e Blossom Quarter il ripescaggio del Mark Bell degli esordi con gli L.F.O.; il resto è un vero e proprio tributo all'estetica House di Chicago con l'estasi techno stabbistica di Rapid Racer o la gigioneria-Larry Heard di Approaching Rainbow e Dolphin. Dietro le quinte, immancabile e forse ancor di più che in passato, c'è sempre e comunque lo spettro dei BOC, quasi un accorato appello a ritornare sulla scena da parte di un fan. Al di là della palpabile aria di revival che ci regala un immaginario amarcord '90, l'EP, dopo ripetuti ascolti lascia un pò l'amaro in boccca: non tanto per l'evidente citazionismo, ma piuttosto per la dicotomia tra la bassa fedeltà del linguaggio chillwave e la complessa stimolazione sensoriale a cui ci ha abituato la techno più 'intelligente'. Uno dei punti di forza del linguaggio IDM è appunto l'impulso a cercare una stratificazione del suono sempre più avanguardistica e sofisticata. L'idea di com- primere tutta la varietà timbrica di questi mondi sonori in un patchwork di natura squisitamente estetica non rende giustizia alla scrittura e alla composizione delle tracce. Ci piacerebbe sentire Echolocations in chiave hifi. Chissà se sarebbe un passo avanti o un passo indietro? Per la musica tutta o solo per Matt Cutler? (6.8/10) Dario Moroldo Love Inks - E.S.P. (Hell Yes!, Maggio 2011) Genere: Indie Freschi di esordio sull'italiana Hell, Yes!, i texani Love Inks propongono una ricetta in cui l'indie-pop degli anni 00 si mescola con le ultime seduzioni glo. In quasi ogni traccia il gioco di paragoni si spreca. La Sera in alta fedeltà (Blackeye)? Dum Dum Girls un po' meno sporche e ridotte all'osso (Too Wild, Rock On)? Beach House sottovoce (Leather Glove)? Xx con l'acceleratore (Skeleton Key)? L'accostamento con questi ultimi potrebbe sembrare il più azzardato in termini di contesto e profilo, siccome i Love Inks non hanno certamente niente a che fare con certe atmosfere notturno-metropolitane; eppure la somiglianza è forte in termini attitudinali, considerando l'approccio estremamente misurato, nonchè il fatto di utilizzare poche note dritte al punto. Laddove però la premiata coppia Jamie & Romy farciva il proprio esordio di melodie già importanti, qui quel tipo di impatto sembra tenuto a freno: è vero che tutto sembra messo al servizio della canzone, quasi a cercare estensioni verso platee numerose, ma se è davvero questo l'obiettivo ci sono delle carte che potevano essere giocate meglio. Un crescendo come quello su cui culmina la bella Can't Be Wrong, ad esempio, avrebbe dovuto sfociare in qualcosa, non spegnersi sul più bello. E anche altrove si riscontra quella sensazione un po' fastidiosa di qualcuno che prova, vorrebbe e avrebbe anche i numeri, eppure non colpisce quando è il momento. Per l'ascoltatore disinteressato a certe dinamiche, E.S.P. rimane comunque un buon disco: non un lavoro decisivo ma già promettente, reso ancora migliore dalle intriganti pieghe vocali della brava Sherry LeBlanc, timbro tutt'altro che caratteristico ma competenza rara nell'utilizzarlo. Forse ancora troppo 'di genere', e per giunta di un genere inflazionato: ma, in quel genere, un'uscita di discreto valore. (6.9/10) Simone Madrau 61 Mark McGuire - A Young Person’s Guide (Editions Mego, Aprile 2011) Genere: chitarrismo emeralds A Young Person’s Guide, ovvero il Mark McGuire pensiero spiegato ai poveri di spirito. In realtà, sarebbe più giusto dire “ai distratti”, visto che questo doppio album compila tracce sparse dal chitarrista degli Emeralds nella sua elefantiaca produzione in solo. Per lo più cd-r e cassette in tirature limitatissime e edizioni casalinghe affidate alla propria Wagon, alla Pizza Night o ad altre micro-label sparse per il mondo in cui McGuire ha affinato quell’arte chitarristica che ha visto, nel recente Living With Yourself su Mego, il suo picco più alto. Collezionate qui trovate insomma le tracce sparpagliate (e sparigliate) della weltanschauung del giovane chitarrista: l’ala più elettrica e quella acustica (l’estatica reiterazione di Radio Flyer o la malinconica Icy Windows), il versante più droning oriented (Dream Team) e quello intimista e personale. Non sarà dunque difficile rintracciare lo spirito kosmische, certe tendenze alla stratificazione o quella sottile vena di malinconia tipiche della discografia della casa madre. Ma soprattutto si avrà modo di osservare da vicino il chitarrismo - magari non così originale, ma indubbiamente riconoscibile al primo ascolto - del prolifico McGuire, spesso intento a giocare di sponda con loops e layering. A Young Person’s Guide finisce dunque con l’essere non solo una introduzione per i neofiti, quanto un condensato - ottimamente selezionato da mr. Mego Peter Rehberg - capace di intrigare i fan della prima ora. (7/10) Stefano Pifferi Massimiliano Pagliara - Focus For Infinity (Live At Robert Johnson, Maggio 2011) Genere: cosmic disco 80 Torna di prepotenza la cosmic italo nell’esordio di Pagliara, ragazzo pugliese con un passato da coreografo a Milano, emigrato ormai da molti anni a Berlino. Qui ha iniziato a fare il DJ nei localini per poi passare ai club più blasonati. Ha poi stretto una connessione con cricca Discodromo, l’act formato da Giacomo Garavelloni e Giovanni Turco, che promuove il suono progressivo al Berghain al party Cocktail d’Amore e viaggia da poco sulla label di Prins Thomas (altro nume prog contemporaneo). Dopo l’esordio sulla Balihu Records dell’amico Daniel Wang (Transmissions Florales è del 2008), qualche altro singolo su Rush Hour, Needwant e Meakusma - con Alessandro Tartari e Jules Etienne, nel gruppo synth-pop [sic!] -, Massimiliano remixa pezzi di Hard Ton, Mock & 62 Toof e altri personaggi. Nel 2009 il nostro approda finalmente con il mini Toxic Love su Live At Robert Johnson. Tripudio di ricordi Ottanta, romanticismo, tastierine vintage e slow-motion. Questi gli ingredienti che rimangono anche su questo nuovo Focus For Infinity. Se del ritorno del progressive si era già detto molto con la bomba del 2008 di Lindstrøm Where You Go I Go To, oggi con personaggi come Bjørn Torske assistiamo ad un ripescaggio ulteriore del passato remoto di Daniele Baldelli, nume tutelare di generazioni di DJ e dancers, che nei Settanta ha fondato la sua estetica sempre e comunque attualizzabile. Nel full di Pagliara ci si riattacca a questa tradizione e si ripescano i suoni chic pure disco’ (Feel So Real), bassi in stomp moroderiani (After), slo-mo loungey nordica tagliata con vocioni pseudoblack (I’ll Never Be), tensioni che richiamano la località di provenienza (senti Berlino e il motorico nell’intro squadrata di As The Night Breathes) e che virano verso lidi donnasumeriani per chiudere in punte techno-glo in ricordo nerdy 8-bit (In Order Of more Depth). Un disco d’esordio importante per un ragazzo che vuole (e riesce) a far sentire la sua voce da una delle etichette più interessanti degli ultimi mesi. Più di un’ora che si assesta su un sound storicizzato, ma non per questo privo di vita. Da qui Pagliara può decollare con una navicella verso pianeti lontani. Speriamo che non bruci subito tutto il carburante. (7.1/10) Marco Braggion Michele Bombatomica - The Crooked Debut Of... (Tannen , Maggio 2011) Genere: folk blues Ad ascoltarlo mi viene in mente un'immagine truculenta, tipo un frontale tra due furgoni guidati da Pogues e Vinicio Capossela. Tra le vittime ahinoi anche molti passeggeri, più o meno tumefatti e riconoscibili quali Gun Club, Black Heart Procession, Calexico, Goran Bregovic, Noir Desìr, Micah P. Hinson, più altra fauna di frontiera in corso d'identificazione. Nella realtà, il responsabile del misfatto è tale Michele Darrel Bertoldi, altrimenti noto come Michele Bombatomica, autore di scorribande smaniose a capo della Cheap Orchestra, ovvero quattro facinorosi che lo spalleggiano brandendo tromba e fisarmonica, chitarre aspre e contrabbasso, lap steel e flauto, organo e basso tuba. La miscela è impetuosa e ubriacante com un vin brulé corretto al cherosene, prima un bailamme trafelato nella gola poi nel corpo un languore febbrile. La scaletta si compie tra carrellate da road movie col morto (Shot You Down), palpitazioni lisergiche (Flower Song highlight Kuniyuki Takahashi - Dancing In The Naked City (Mule Musiq, Aprile 2011) Genere: Deep, jazz Sound designer e producer di stanza a Sapporo, in Giappone, Kuniyuki Takahashi professa i verbi deep e future jazz da più di dieci anni. Attivo discograficamente su Mule Musiq dal 2002, dove ha pubblicato anche il qui presente Dancing In The Naked City, si è fatto apprezzare per una jazz-latin house morbida e avvolgente che trova nei fasti del Paradise Garage le sue radici ideali. Larry Heard, Ian Obrien, Dj Cosmo, Dego dei 4 Hero ma soprattutto guru della grande mela come Joe Claussell e idoli internazionali come François Kevorkian lo hanno tenuto d'occhio fin dai primi Duemila e, assieme a loro, anche nuove leve deep hanno dimostrato interesse nelle sue svariate produzioni a nome Koss. Tra loro troviamo Henrik Schwarz, vocal guest dal precedente Walking In The Naked City trasformato oggi cambiando l’incipit in Dancing e consegnando al pubblico un remake che valorizza i punti di forza del precedente. Takahashi non stravolge la jazz House organica delle tracce originali, ma ne approfondisce gli aspetti deep e dub senza dimenticare il feeling live. I flauti andini à la Future Sound Of London perfettamente innestati nei bassi di Night Forest, la latin house jam Come With Us ma soprattutto l'altro grande discorso dub che è Set Me Free potrebbero già bastare come testimonianze del percorso finora svolto dal produer; in aggiunta c'è il lato propriamente black con le lezioni di Herbie Hancock (il lato piano bar newyorchese tributato nel mix di piano, chitarra, e singing di Schwarz in Once Again) e soprattutto Miles Davis (le percussioni live afro e la calda tromba di Flying Music) a innestarsi perfettamente in un'idea di viaggio ritmico composto ma non per questo incapace di immergere e coinvolgere, anzi. Dancing In The Naked City è più di un remix album: è il miglior biglietto da visita di un producer generoso, capace inoltre di suonarti una seducente song in remember 90s con vocal molto Everything But the Girl (Kristiina Tuomi in Deliverance), angolarti IDM-jazz e spalmarti Knuckles (Storm) con l'ambient, la deep con i Liquid Liquid visti da dentro un acquario (Bamboo City). Un grande producer che merita tutta l'attenzione del mondo, specie in questo periodo di rallentamenti e sguardi latini (Nicolas Jaar). (7.3/10) Edoardo Bridda For Barefoot Dancers), marcette nevrasteniche (Nonsense Song To Sing Along), trepidazione da mariachi in acido (Never Return), cha cha cha da guitti letterari (Liar) e valzer da bettola triste (Bar). Nulla di nuovo sotto questo sole tendente al grigio, nessun lampo inaudito che spezzi la monotonia dell'orizzonte, ma una commedia dark recitata fino all'ultima stilla di sudore, aggrappandosi alla linea di confine tra stereotipo e vita, dove la finzione (musica, cinema, letteratura, di nuovo musica) è innanzitutto una verità mascherata. Nel caso in questione, tra crederci e non crederci val bene concedere il beneficio del dubbio. Te ne viene in cambio un ascolto appagante. (6.9/10) Stefano Solventi Minio Indelebile - Minio Indelebile (Autoprodotto, Aprile 2011) Genere: crossover 90s “Suono e attitudine a torso nudo”, dicono in sede di presentazione. Ma anche, aggiungiamo noi, un passatismo che colpisce emotivamente chi quegli anni li ha vissuti in prima persona. Quali anni? Beh, quelli del boom della musica alternativa e del crossover di stili: i primi anni ’90, insomma. Proprio quelli in cui i Minio Indelebile mossero i primi passi e di cui portano le stimmate sanguinanti a tutt’oggi. Tra suoni hard, commistioni tra generi, cantato enfatico e sopra le righe, crossover energico e impatto frontale tra il socio-politico e l’esistenzialismo, Minio Indelebile porta con sé tutti i cliché dell’epoca e tutta la polvere 63 che nel frattempo vi si è posata sopra, senza riuscire a smarcarsi da una forma mentis troppo retrò. Certo, il fatto che alcune delle composizioni risalgano al periodo dello scioglimento (1995, un’era geologica fa in fatto di musica) aiuta a comprendere di più le musiche del quartetto (Max "Delpo" Del Pozzo, Beppe Facchetti, Luca Vanenti e Roberto Fenaroli), ma non ad alzare l’asticella. (5/10) Stefano Pifferi Moon Duo - Mazes (Souterrain Transmissions, Marzo 2011) Genere: Kraut Pop Secondo full-length per il duo composto da Ripley Johnson dei Wooden Shjips e Sanae Yamada, questa volta per Souterrain Transmissions in Europa e Sacred Bones negli States. Chi si aspettava una mera replica del debutto Escape (uscito su Woodsist esattamente un anno fa) avrà qui di che ricredersi e rimanere stranito. Se l’opener Seer sembra vergata dal Kurt Vile più lisergico, il giro surf della title-track chiarisce subito come Mazes intenda indagare una nuova declinazione dell’astrattismo sonoro della coppia di San Francisco. Impressione che viene confermata dai riff grattugiati in stile Monks/Trio di Run Around, In The Sun e Goners che sembrano sottratti alla più minimalista delle garage band dei ’60 o - meglio ancora - degli ’80 e su cui i nostri applicano nuovamente il tappeto di divagazioni psych/kraut di scuola Neu!/Spacemen 3 che li ha caratterizzati fin dai primi EP. Un album più solare dunque, più diretto e in ultima analisi più pop/rock, in cui il Duo tenta, con successo, di svecchiare le influenze più sperimentali in favore di un garage-surf psichedelico. Scelta che, se lascerà basiti i fan più integralisti del cosmic sound, farà breccia nella voglia di estate del pubblico indie che non mancherà di presenziare alle imminenti date del tour europeo. (7/10) Andrea Napoli Nada - Vamp (Edel, Marzo 2011) Genere: italiana, pop Se hai esordito a Sanremo, nel 1969, quindicenne, e a distanza di esattamente quarantadue anni te ne esci con un nuovo disco, i casi sono due: o sei molto libera, o non la sei affatto. Nada Malanima, per noi tutti semplicemente Nada, risponde al primo caso. Se c'è una cosa che la splendida cantautrice livornese non ha mai fatto è presentarsi al pubblico con qualcosa di costret64 to, non del tutto desiderato, amato. Vamp, uscito il 28 marzo a distanza di quattro anni dal precedente Luna in piena, porta con sé tutte le novità e le esigenze del caso. Interamente scritto da Nada, il disco è stato mixato negli storici studi di Abbey road a Londra avvalendosi del prezioso aiuto, in fase produttiva, di Manu "Max Stiner" Fusaroli, famoso per aver messo mano agli album di esordio de Il teatro degli orrori e Le luci della centrale elettrica. Il risultato è un lavoro curioso, vario, ricco di stratificazione sonora, dal pop all'elettronica, e capace di guardare ad esempi più nuovi che datati. Lele Battista risuona tra le note di Raccogliti e in generale questo disco pare essere l'evoluzione del ramo cantautorale di alcune produzioni elettropoprock 90s, vedi i Bluvertigo e, ancor di più, il Battiato di Gommalacca (Chiodi). Al disco partecipano Appino e Karim Qqro degli Zen Circus, ai quali Nada aveva prestato la voce per Vuoti a perdere in Andate tutti affanculo, anch'esso prodotto da Manu Fusaroli. Non mancanco altre collaborazioni, come quella riuscitissima con Fabiano Marcucci, Ludovica Valori e Marco Gasbarro degli eccezionali Ardecore. Vamp è un album di qualità eccellente dovuta non solo a una produzione impeccabile ma alla scrittura di un'autrice ancora ricca di guizzi, idee, intuizioni mai banalizzanti. La varietà del suono è sorprendente, la riuscita dei brani, se non totale, è sicuramente molto ampia. Pezzi come Il comandante perfetto, assai politicizzato, o la splendida Sarebbe una serenata, sono vere perle e Nada non smette di ricordarci che sobrietà e attenzione alla sostanza portano sempre a ottimi risultati. (7/10) Giulia Cavaliere Okkervil River - I Am Very Far (Jagjaguwar, Maggio 2011) Genere: Indie-Rock Ci sono gruppi che con i cambiamenti e le svolte costruiscono carriere, altri invece che sarebbe meglio non cambiassero mai, tanta è genuina e vincente la loro proposta. Gli Okkervil River fanno parte di quest'ultima schiera: e se mai ci fossero stati dubbi, questo I Am Very Far chiarisce in maniera inequivocabile. Ma lo fa nella maniera peggiore, ovvero provando inutilmente ad arricchire quello scarno amalgama di indie-rock e folk urlato che aveva procurato al gruppo molte attenzioni nella prima metà dei 00s. Non si tratta di uno snaturamento radicale e, del resto, già nel precedente The Stand Ins, si avvertiva questa voglia di riempire i vuoti della loro musica; qui però siamo oltre, quasi che tutta la pienezza di suoni e ar- rangiamenti espressa equivalesse a una sorta di consacrazione, una sorta di proclama "mondo, consideraci!". Ci sono già degli Wilco in giro, e un disco (quello sì) di svolta come Yankee Hotel Foxtrot gli Okkervil non lo possono bissare e nemmeno raggiungere. In I Am Very Far non mancano alcune buone canzoni (Show Yourself, l'apertura corale e promettente di The Valley), ma è indubbio che l'arricchimento si trasforma troppo spesso in episodi tronfi e pomposi (Wake And Be Fine) o in brani (Mermaid) che funzionano davvero soltanto in detonazione. Avrebbero dovuto incidere un disco semplice come sapevano fare, con la voce in primo piano, la chitarra, e l'ukulele, come facevano - e bene - ai tempi di Don't Fall In Love With Everyone You See. Un autentico passo falso. (5.7/10) Simone Madrau Old Calf - Borrowed A Horse (No Quarter, Aprile 2011) Genere: americana Bel problema avere dei fratelli “titolati”, ma non ditelo a Dave Davies né a Ned Oldham. Col cognome che si ritrova e il fatto di aver accompagnato il più bravo Will, costui può dirsi comunque soddisfatto della propria carriera. Sinora alle prese con i discreti Anomoanon, si imbarca in una nuova formazione col fisarmonicista Marty Metcalfe per offrire - da un garage della Virginia, aiutato da tali Michael Clem (basso, mandolino) e Brian Caputo (percussioni) - una trama di folk e bluegrass antica ma non troppo. Già sentito, eh? Eppure fareste bene a mettere da parte scetticismo e supponenza, poiché questo artigianato fiero e ricco di feeling funziona eccome. Preso atto che il timbro vocale è simile a quello del Principino Billy e nulla vi si può fare, apprezzi che i versi siano tratti da fonti popolari e siano un guardare nel passato per cavarne il sostegno all’oggi. Più che eloquenti Bonny Cuckoo (versione britannica del semiomonimo, noto traditional) e la Henry Was A Worthy King che guardano - rispettivamente, tramite le sorelle Dolly e Shirley Collins e i Fairport Covention - alle radici del folk albionico e il commovente valzer d’Irlanda Follow My Bangalorey Man. Laddove a distillare americana pura ci pensano il caracollare country di Stool-ball e il Neil Young di A Gift, A Ghost/Monday Alone, la traslucida When I Was Taken e l’afflato alla John Wesley Harding di I Saw A Peacock With A Fiery Tale. Autentici lampi di genio, infine, le venature psichedeliche delle splendide Far From Home - non a caso, l’assolo è dell’ospite Dave Heumann, ovvero Ar- bouretum - e What Did I Dream, così come i cambi di passo in There Are Men In The Village Of Erith. Ci ripensi e tutto quadra, siccome buon sangue non mente. (7.2/10) Giancarlo Turra Oracles (The) - Have A Nice Trip (Nexus, Aprile 2011) Genere: rock'n'roll Una mezzora giù a rotta di collo tra garage-rock e brit-sound, grunge e rock’n’roll dei primordi: questo il mega-trip affidato dagli Oracles al proprio album di debutto. Ampli al rosso, voce ruvida ed eclettica il giusto, passaggi strumentali in grado di oscillare in tutta tranquillità dall’accessibilità dei primi Oasis alle ruvidezze pre-grunge alla Mudhoney, oscillando indietro nel tempo fino a Yardbirds da una parte e Kinks e compagnia danzante dall’altra, così come riattualizzando il sound Sub Pop - misto melodia vocale e rumore chitarristico sporco ma non troppo - senza scadere nel revival puro e duro. The Lior Kneazir alla voce, Federico Mengoz e Antonio Uras alle chitarre, Marco Sacilotto al basso e Paolo Calderan dietro le pelli mostrano passione e capacità di coinvolgimento oltre che una innegabile abilità tecnica e una voglia di rock che trasuda da ogni nota. Ne esce un percorso, il trip del titolo, nella tradizione rock-rumorosa cui si sono formati i cinque friulani, ma che non riesce ad eludere i vari cliché di genere e a far scivolare nel dejà-vu sonoro. Un pizzico di personalità in più avrebbe aiutato. (6/10) Stefano Pifferi Orange (ITA) - Rock Your Moccasins (Gpees Productions, Marzo 2011) Genere: rock Personalmente non ho mai apprezzato le comparsate del “nongio” Francesco Mandelli su MTV né l'immaginario da loser à la page che da sempre propaganda. Una professionalità giocata tutta su una comicità triviale e ammiccante, fantozziana ma in fondo immanicata, evidentemente tagliata su certe fasce di pubblico giovanili ben ricettive. A sua parziale discolpa, il fatto che il popolare network musicale per cui lavora certe scelte di immagine le ha spesso accondiscese, se non auspicate. Oltre alla probabile consapevolezza di non poter/voler aspirare a un “concettualismo” sul modello di un Massimo Coppola. Detto questo è anche vero che nel caso di Francesco Mandelli televisione e musica suonata sembrano esse65 highlight Leisure Society (The) - Into the Murky Water (Full Time Hobby, Maggio 2011) Genere: Folk pop orchestrale Che roba, quei Mumford & Sons. Ragazzotti più inglesi che mai che riescono a conquistare critica e pubblico di mezzo mondo imbastendo quella che sostanzialmente è una mascherata, ovvero camuffandosi - benissimo - da folkster yankee. Segno dei tempi, certo, ma c’è un’altra via. C’è un modo in cui in UK oggi si può suonare folk genuinamente - ovvero mantenendo le proprie radici, inserendosi peraltro in una più che nobile discendenza pop che parte dalle vignette dei Kinks e arriva dritta alle meraviglie orchestrali targate Divine Comedy. Chi ha sentito il debutto targato The Leisure Society, The Sleeper (“un piccolo miracolo di equilibrio e intensità”, nelle parole del nostro Stefano Solventi), sa di cosa stiamo parlando; non a caso è stato oggetto di un culto crescente in patria, con il patrocinio di fan d’eccezione come Elbow e Brian Eno e le nomination all’Ivor Novello Award per il songwriter Nick Hemming. A sentirne il seguito, Into The Murky Water, verrebbe da dire che il sestetto di Brighton è riuscito persino a superarsi: il tiro di arrangiamenti e di scrittura si alza vistosamente, ma tutto suona tanto naturale e immediato che quasi non ci si accorge di quanta ambizione ci sia in questo lavoro. È d’altronde questa la classe autentica, no? Provate pure a farvi un giro dalle parti delle evoluzioni melodiche e emotive di The Hungry Years, degli inserti classici di I Shall Forever Remain An Amateur, o della giga festosa This Phantom Life, o ancora dell’ariosità della title track - ma invero ogni traccia fa storia a sé - e capirete di cosa stiamo parlando: un’architettura sonora complessa eppur lievissima, al servizio di una penna (e di una voce) felice almeno tanto quanto quella della recente rivelazione Villagers, in una varietà di stili e di toni in grado di soddisfare un po’ tutti i palati. Se la vivacità, l’ironia e la profondità rimandano inevitabilmente ai citati Ray Davies e Neil Hannon, per versatilità, gusto ed efficienza vengono in mente macchine perfette come Belle And Sebastian, New Pornographers e Delgados; ma il combo di Hemmings e Christian Hardy ha tutte le carte in regola per scrivere nuove, eccellenti pagine di quel bel libro iniziato tanti, tanti anni fa. Senza necessità di buttar l’occhio sui quaderni dei compagni d’oltreoceano. Vi pare poco? (7.3/10) Antonio Puglia re due dimensioni separate e ingiusto sarebbe deprecare l'una soltanto per i (plausibili) torti dell'altra. Anche perché dal secondo disco degli Orange, progetto che il chitarrista/cantante condivide con il batterista Enrico Buttafuoco, emerge quantomeno un passato di ascolti attenti e da onesti cultori. Sintetizzato da una musica che ben rielabora - anche se in maniera fin troppo fedele - la lezione di Kills, White Stripes, Strokes, Libertines, Stooges, replicando più o meno il rock spigoloso che caratterizzava già l'esordio Certosa. Coolness di riflesso e immaginario sopra a tutto, insomma, ma anche un pugno di brani meno scontati di quel che si sarebbe potuto pensare. Volutamente lontani da quel brand televisivo discutibile ma potenzialmente fruttuoso e inseriti in un progetto autarchico che ha tutto l'aspetto di un sentito omaggio ai pronipoti e ai 66 padri del rock. Di più non è lecito attendersi. (6/10) Fabrizio Zampighi Orange Lem - David Is A Narcoleptic Man (Bulbartworks, Febbraio 2011) Genere: wave pop I testi degli Orange Lem pullulano di riferimenti a registi (Fellini, David Lynch), attori (Mastroianni), scrittori (Jonathan Coe), artisti come Andy Warhol e fenomeni sospesi tra costume e Storia come Jackie Kennedy. Pesi massimi insomma dell'immaginario collettivo trattati con la leggerezza delle fantasie da cameretta, come modelli di ipotetiche prospettive tramate nella cerchia degli amici più fidati. Un metodo preso in prestito - diciamo così - ai primi Belle And Sebastian, simile il senso di dimensione precaria però illuminata, come se nell'epoca delle comunicazione pervadente la periferia rappresentasse un punto di vista sempre più raro e quindi prezioso. Questo è a spanne lo sfondo poetico sul quale opera il linguaggio del quartetto pesarese, indie-wave piuttosto nostalgica e sbilanciata british, polpa frugale ravvisabile attraverso le evidenti propensioni sintetiche che li portano ad omaggiare i Visage (di cui rileggono con sagace morbidezza Fade To Grey) e più in filigrana Giorgio Moroder (nella conclusiva Cinematronics). La loro non è una proposta eclatante, del resto neanche sembrano interessati a stupirci con dispositivi sonici inauditi. Tuttavia, con quella pronuncia un po' scolastica, con le congetture abbastanza prevedibili degli arrangiamenti, con quell'applicarsi puntuale alla luce di un disarmante contro-virtuosismo, si dimostrano capaci di snocciolare canzoni ben scritte, piantate su solide fondamenta e ravvivate da intuizioni non trascendentali ma sempre opportune. Vedi su tutte il pop-wave screziato psych di The House Of Sleep (ugge The Sound e intrighi Stranglers), le palpitazioni di Toast To A Butterfly (da qualche parte tra Chameleons e Notwist) o ancora i Wire allampanati Xtc di Geometric Woman. Come esordio è davvero niente male. Quanto ai colpi di genio, restiamo sintonizzati. (6.9/10) Stefano Solventi Paolo Spaccamonti - Buone Notizie (Bosco Rec, Aprile 2011) Genere: cinematic Ancor più intimista e criptico, Paolo Spaccamonti, sin dall’artwork. Buone Notizie riprende il discorso ben avviato da Undici Pezzi Facili due anni fa e gioca di sponde ironiche tra titolo e copertina all black per addensare ancor più nero sulle atmosfere cinematiche oscure ed evocative che il chitarrista torinese dimostra di gestire con sapiente abilità. Lo stuolo di preziosi guest la dice lunga sulla credibilità di Spaccamonti - l’uomo dal cognome più “dronico” del mondo, secondo il Twitter della Temporary Residence - così come dell’ampio spettro di sfaccettature in cui l’animo dell’autore riesce a riverberarsi nello spazio di un solo disco: Julia Kent e Fabrizio Modonese Palumbo (Larsen, Blind Cave Salamander) come testimonianza del retroterra sperimentale e darkish; Daniele Brusaschetto a sottolineare la forza della ricerca in solo e di un cantautorato off che qui addirittura fa a meno delle parole; Ezra (Casino Royale, No.Mad) e Davide Compagnoni (Stearica, Namb) come legame con una città, Torino, musicalmente unica sul panorama italiano. Questi sono soltanto alcuni tra i tanti artisti e amici che aggiungono qualcosa alle composizioni originali di Spaccamonti. Perché, sia chiaro, questo è totalmente un disco del torinese, la cui creatività smuove montagne a colpi di decadente solipsismo post-romanticismo (Buone Notizie, L’Ultimo Vestito Non Ha Tasche) o avant-blues dal beat possente e ipnotico (Guitar Heroin), post-rock jazzato (Tartarughe, Niente Per Bocca), accese lande desert-jazz-rock (Claude) o soundtrack music evocativa e algida (Ossamiche) o trasognata e soffice (Specchi). Non è il particolare, comunque, a fare la differenza. A restare impressa, ancor più che in Undici Pezzi Facili, è la netta e contrastante creatività di Spaccamonti, compositore insieme umorale e visionario, melanconico e anticonvenzionale, narrativo e strumentale. (7.3/10) Stefano Pifferi Paul Simon - So Beautiful Or So What (Concord, Aprile 2011) Genere: folk pop Tra i reduci dei sixties ancora in attività, il quasi settantenne Paul Simon è forse quello invecchiato meglio. Lascia quasi increduli infatti la freschezza di questo So Beautiful Or So Wath, dodicesimo album del piccolo grande cantautore del New Jersey, ad un lustro dal buon Surprise e in attesa che le corde vocali del sempiterno compagno di palcoscenico Art Garfunkel tornino in forma per riavviare l'Old Friends Tour. Dieci pezzi per poco meno di quaranta minuti nei quali il consueto mix di perizia, dinamismo e sensibilità sboccia con rinnovata immediatezza. Non è difficile prestar fede a quanto dichiarato dallo stesso Simon, d'aver cioè ripreso gusto a comporre sulla chitarra, mettendoci più cuore e meno raziocinio. Non per questo viene meno quel senso di dominio assoluto sulla materia, evidente tanto nei risoluti struggimenti (la pensosa Questions For The Angels, la delicatezza indolenzita di Love And Hard Times, in entrambe vaghi retrogusti Paul McCartney) quanto nei vividi sussulti (le vibrazioni errebì della title track e della tirata Love Is Eternal Sacred Light). Il bello anzi il cuore della cosa sta però nella levigata ricchezza degli arrangiamenti, concepiti con la complicità dell'antico collaboratore Phil Ramone e sapientemente aspersi d'elettronica grazie alla supervisione di Chris Bear (batterista dei Grizzly Bear). Ogni traccia è come un bassorilievo da indagare attraverso "sguardi" successivi, manufatti 67 che diresti tanto artigianali quanto sintetici ottenuti stratificando particelle bluegrass, doo wop, folk, gospel e world. Se spesso si finisce col pensare al capolavoro Graceland (si prendano le fragranti pulsazioni di The Afterlife e le aromatiche nuances di Dazzing Blue), è vero però che gli africanismi non oltrepassano la soglia di una suggestione - per così dire - organica, come l'impronta di un dialetto metabolizzato che ormai fa parte dell'intercalare e che caratterizza l'invenzione sonora anche quando sembra guardare altrove (l'oriente flamencato di Rewrite, le amniotiche freakerie appalachi di Love And Blessings, il folk-rock radiante dell'iniziale Getting Ready For Christmas Day). Davvero una bella raccolta, assieme malinconica e suadente, lirica e festosa. Ad avercene di dischi senili di tal fatta. (7.3/10) Stefano Solventi Peluqueria Hernandez - Amaresque (Audiar, Marzo 2011) Genere: jazz-blues-mex Sembra di vederli quelli della Peluqueria, sganasciarsi dalle risate mentre noi poveri scribacchini ci si inventa un termine per descrivere la loro musica. E di fantasia ce ne vuole, visto che da che mondo è mondo i Nostri mescolano stili e maniere con una semplicità disarmante. Prendete ad esempio una Katunga in cui il Duke Ellington più afro si fa adottare da Quentin Tarantino o una Cuoraccione di Melone rubata alle balere caposseliane, una O' Mariaccio Nnammurato tra Messico e Ry Cooder o una Procopio che abbraccia il post-rock. Immaginari malinconici che si intersecano, sagre paesane e cover sudamericane (una La Martiniana di Andrès Henestrosa solcata da un sax da liscio e a cui partecipa Umberto Palazzo) che convivono, valzer e frontiera che vanno amabilmente a braccetto. In un suono naturale, immediato, quasi istintivo. Il secondo disco del gruppo veronese ha indirettamente lo stesso spessore che poteva avere l'opera prima degli Ardecore. Quel dividersi tra dimensione popolare - qui ribadita anche dal dialetto della Valnure declamato da Lilith in X o Dos / Struggente Dream, oltre che dai vari riferimenti musicali - e trame raffinatissime che finisce per mostrare la pregnanza semantica ed emotiva del blues. (7.1/10) Fabrizio Zampighi 68 Pierre LX - Out 1 (Initial Cuts, Aprile 2011) Genere: deep, UK bass La nuova realtà emergente da quel ribollire perpetuo della scena londinese è Pierre LX, un 25enne francese cresciuto in Brasile e stabilitosi nel Regno Unito nel 2003. Un'impegnata gavetta dietro i piatti, un paio di release con l'etichetta francese Initial Cuts, e poi un seguito sempre più corposo fino ad arrivare al Fabric, dove oggi è resident dj. E da dove oggi si propone nei panni di artista a tutto tondo, nella consueta prova cruciale del primo album in studio. Out1 apre non a caso con la techno-ambient di Winter Light, apertamente ispirata al primo Matias Aguayo, che Pierre indica come una tappa decisiva del suo percorso artistico. Ma è solo una parentesi: l'eleganza del disco sta nell'inserirsi nel continuum UK bass senza sprofondarci del tutto, rivisitandolo con uno spirito costruttivo di matrice detroitiana che tende ad arricchire il risultato con ritmiche multistrato e inserti classic electro. L'aria che si respira non è tenebrosa o cupa (effetto che da tempo si tende ad allontanare) ma golosamente deep. Se da un lato brani come Gerry o L.A. Dreams si tengono con una certa aristocrazia lontani dalle piste e fedeli ad un rigore dub, dall'altro non mancano momenti dall'appeal tipicamente house, ora più raffinato (Quadrivium farà fischiare le orecchie a John Roberts, anche per le affinità nel percorso personale), ora più decisamente dance (Olympia accede alla hall via Sei A). Il quadro offerto da Pierre LX svaria con destrezza lungo l'intero spettro di stili britannico, sfoggiando sicurezza e completezza artistica. Doveroso lasciarli crescere in libertà, sia il disco che l'autore. (6.9/10) Carlo Affatigato Planningtorock - W (DFA, Maggio 2011) Genere: elettro opera Janine Roston, già collaboratrice dei The Knife e artefice in proprio di uno strambo quanto complicato mix tra opera multimediale e artrock sperimentale produce per DFA il secondo disco come Planningtorock aggiornando opportunamente la formula coniata all’altezza del debutto per Chicks On Speeds con il disco del 2006, Have It All. Il senso di operazioni come questa lascia sempre leggermente interdetti se posti esclusivamente di fronte alle tracce musicali. E’ fin troppo ovvio e si avverte ovunque in un lavoro come W che il supporto dello spettacolo multimediale non è un corredo cosmetico, ma gran parte della sostanza. La proposta della Roston costruita su forme macchiettistiche, bizzarre e contorte, a suon di acquerelli pop highlight Meat Puppets - Lollipop (Megaforce, Marzo 2011) Genere: new-roots Sono persone come i fratelli Kirkwood a rendere ancora degno scrivere di musica, e ancor prima ascoltarla come si deve e cioè dedicandole tempo, devozione e impegno. Tra gli evanescenti trend che durano una settimana, il ritorno dall’al di là di chi aveva consegnato dischi splendidi suscita un piacere che travalica la circostanza. Di tutto e per niente bello, infatti, quanto accaduto a Curt e Chris sino a prima del 2007: un contratto major stracciato e una sequela di storiacce di droga e cronaca nera finalmente alle spalle. Del resto, sono uomini come chiunque. Anzi, no: perché chi è stato capace di capolavori come Huveos, Mirage e II fondendo hardcore punk e psichedelia, blues e folk, nella categoria della gente comune sta stretto. Argomenti sonori che tornano nel terzo atto della rinascita - cui partecipa alla batteria Shandon Sahm, figlio del leggendario Doug: buon sangue non mente - assecondando una vena “roots” poco più accentuata mentre penna ed esecuzione rimangono prossime all’epoca d’oro. La visionarietà anche, come spiegano il tono vocale indolente e le chitarre che scintillano lussureggianti, azzeccate stramberie come i Love indecisi tra Arabia e hard di The Way That It Are, la country-skadelica (!) Shave It, o come l’Elvis Costello oppiaceo - accompagnato da una mista Los Lobos e Grateful Dead - di Incomplete e Baby Don’t. Materia da applausi, come del resto quanto guarda al glorioso passato senza soccombervi e poggiando sulla saggezza acquisita ritornando dall’inferno. Da una scaletta compatta e a lento rilascio, peschiamo inoltre l’oriente gagliardo di Hour Of The Idiot e gli arpeggi desertici (hola! Calexico ) di Lantern, il folkrock celtico traslocato nel Mojave Town e la policroma filastrocca Amazing. Quanto basta e avanza a rendere Lollipop pieno di idee e vita, vibrante e commovente. (7.3/10) Giancarlo Turra elettro s'aggiorna sul supporto di un uso più pronunciato del violino e di un elettronica più ammicante. Se per metà disco viene in mente Laurie Anderson (Doorway, The One, Going Wrong, The Breaks), per l’altra metà accantona le pretese artsy e si concede alla pista di ballo con le cadenze più sostenute di ballate disco dall’umore retrò (Manifesto, I Am Your Man, Living It Out). Il risultato preso di per sé suona troppo freddo e intellettuale per suscitare un interesse reale che vada oltre la forma. Eppure basta il supporto delle immagini del video di Doorway, dove la Roston, dismessi gli abiti elisabettiani dell’esordio, si traveste in un novello mostro androgino (evocato per gran parte del disco dalle metodiche interferenze sulle timbriche vocali, si vedano Milky Blu e Jam) per dare una nuova sostanza all’insieme. Un disco del genere andrebbe distribuito su supporto dvd con corredo di apparato visuale, mentre Planningtorock si conferma un’esperienza da vivere soprattutto dal vivo, piuttosto che su disco. (7/10) Antonello Comunale Polar For The Masses - Silence (Black Nutria, Marzo 2011) Genere: wave Siamo già al terzo lavoro per i Polar For The Masses, e già i precedenti Let Be Me Here e Blended (licenziati quattro e due anni fa) ci avevano fatto valutare positivamente il peso specifico di questo trio vicentino. Che nel qui presente Silence dà fondo e forma all'attitudine chitarristica in bilico tra piglio wave e fregola post punk, tipo un'irrequietezza robotica Wire a sparagliare impeto P.I.L. (Dismembered), lasciandosi margine di manovra per copule punk-funk variamente devolute (Ignorance, The Last Man), struggimenti grunge-noise (una Sailing Away che sta nel guado tra Mark Lanegan e i R.E.M. di Monster) e rigurgiti d'emotività accesa non distante dai primi Radiohead (Guilty sembra un po' la nipotina facinorosa di Ripcord). Ma la caratteristica comune alle otto tracce è l'accattivante semplicità della scrittura, quasi a voler perseguire un'idea pop sì mutante ma pur sempre empatica, come una radio che irradia vibrazioni carezzevoli per 69 lenire il delizioso disastro quotidiano, forse per questo finendo un po' col rammentare il teatrino sardonico degli U2 tra Zooropa e Pop (Consequences). Disco conciso (poco più di mezz'ora) ma tenace, che compensa un eccesso di devozione per i modelli di riferimento con la disinvoltura di chi ha ben metabolizzato la lezione. Non a caso pare che dal vivo ci sappiano fare parecchio (il circuito Keep On li ha indicati tra i dieci migliori live act dello scorso marzo). Ergo: tenerli d'occhio. (7/10) Stefano Solventi Pollyester - Earthly Powers (Permanent Vacation, Maggio 2011) Genere: Nu-disco, krautrock Il primo album in studio è l'occasione per farsi un'idea più chiara di quale direzione stia puntando la "strana coppia" Pollyester. Negli EP prodotti prima di Earthly Powers, i coniugi Polly e Yossarian hanno toccato new wave, krautrock ed electro con un carattere d'avanguardia che gli era valso l'accostamento ai Can e alla no-wave newyorkese. Un quadro ribelle e fuori da ogni schema, che lasciava intendere una naturale evoluzione verso soluzioni possibilmente più semplici. Eppure, invece che rilassarsi, i due rendono le cose ancora più complicate. Lo stile è se possibile ancora più sghembo di prima, e a quanto già detto aggiunge anche accenni di neo-psichedelia di recente ispirazione Not Not Fun (Voices, Predetermined Breaking Point), movenze tipicamente disco (Pikant) e colate di synth con Düsseldorf sempre vicina (Oyster's Casino, El Silbo Gomero). La stravaganza fa da testa d'ariete stimolando il primo l'interesse, ma col tempo emerge un certo equilibrio di base, che non vuole forzare troppo la mano: non è nerdismo autocompiaciuto e difficile da accogliere, ma estro ingegnoso che sa far presa, soprattutto grazie a certe simpatie funk (Conciérge d'Amour) ed electro-pop (Round Clocks). Al prossimo appuntamento dovranno per forza far un passo indietro, o finiranno per strafare. Ma nel frattempo, il merito è quello di aver eretto una solida colonna con del materiale instabile. Beata incoscienza. (6.9/10) Carlo Affatigato Poly Styrene - Generation Indigo (Future Noise, Marzo 2011) Genere: Power Mesh Pop Tra il seminale Germ Free Adolescents delle sue X-Ray Spex e l'odierno Generation Indigo c'è di mezzo un'intera generazione. Anche se deve convivere con un 70 tumore da poco diagnosticato, Poly Styrene sembra comunque intenzionata a riprendersi un po’ di vita sui palchi dopo la reunion della sua storica band. Ripulitasi dalla sporcizia punk già dall'album solista Translucence del 1980, l'icona si presenta oggi con 53 primavere alle spalle e Martin Youth’ Glover in cabina di regia. Il personaggione - per gli smemorati - ha collaborato praticamente con tutto il gotha della musica elettronica e rock: Killing Joke (dove suonava il basso), Paul McCartney, Verve (ha co-prodotto Urban Hymns), remix per Primal Scream e per una lunga batteria di band anni 80, che qui prepotentemente tornano remiscelate al punk: Yazoo, Duran Duran, Bananarama, Art Of Noise, Depeche Mode e molti altri. Non da ultimo, l’uomo è una parte importante degli Orb. L’estetica di Generation Indigo va a ripescare dei suonini di tanto tempo fa, scontrandosi con la moda del giro mesh di M.I.A. (No Rockefeller) e del power now-pop di La Roux, Beth Ditto e delle altre ragazze che oggi riportano in auge le incazzature del punk conciate però con creste e cravattine da figlie di papà. Che il disco non sia un capolavoro è un dato di fatto. Suona comunque decente in alcuni pezzi dal tiro rock (White Gold), power (L.U.V.), blues acustico (Electric Blue Monsoon) e reggae (la mano del dub di Youth ci sta tutta in Code Pink Dub). Niente di esplosivo, ma qualche ascolto se lo merita, consegnando singoli che potrebbero suonare molto bene in radio. Un antidoto che speriamo dia la carica a Poly per uscire dalla malattia e per tornare a farci sognare. (6/10) Marco Braggion, Carlo Affatigato Prefuse 73 - The Only She Chapters (Warp Records, Aprile 2011) Genere: chamber esoterica Pioniere dell'hip hop strumentale e del cut-up estremo come arte, quando si parlava di glitch-hop e non ancora di wonky, Guillermo/Prefuse ci presenta un album che vuole essere uno spartiacque all'interno della sua produzione. Influenzato dalle collaborazioni con Daniel Lopatin (Oneohtrix Point Never), Neon Indian e la polacca Ausko Orchestra (che ne ha reinterpretato alcuni materiali in chiave suonata e classico-contemporanea), Guillermo mette da parte il beat, costruito o decostruito che sia, e si immerge in una dimensione a metà tra ambient, elettroacustica, concreta e avantgarde alla John Zorn, una dimensione fluttuante fatta di canzoni diluite in una nebulosa electro organica, con mille particelle in sospensione. Il concept è nebuloso tanto quanto i suoni, quel che è certo è che si tratta highlight Pat Jordache - Future Songs (Constellation Records, Marzo 2011) Genere: art noise Già bagnato da una pioggia di consenso alternativo militando nei Sister Suvi, il canadese Pat Jordache ha esordito lo scorso anno come solista nel formato minimal-retrò dell'audiocassetta, oggi ristampata sul più massificato e massificante (ancorché obsolescente) cd dalla benemerita Constellation. S'intitola Future Songs e ci costringe a spendere due pensieri circa un domani musicale all'insegna di cotanto do it yourself, un lo-fi fisiologico se vogliamo, stante l'ipotetica - e tutto sommato non improbabile - estinzione dell'industria con relativa polverizzazione del circuito produttivo e promozionale. I più bravi sapranno fare di necessità virtù. I previdenti già lo fanno, chioserebbe Pat. Il quale, tanto per tranquillizzare chi teme la scomparsa dell'invenzione sonora assieme al dileguarsi dei capitali, ha confezionato otto tracce sature d'insondabile mistero a bassa fedeltà. Ovvero, di noise wave popadelica e radiante, sfrangiata e vaporosa, cupa e frugale, bucolica e androide. Congetture allucinate e febbrili come i Joy division disegnati male di Salt On The Fields, tese e indolenti come lo Scott Walker strattonato Julian Cope di The 2-Step, insidiose e suadenti come la trepidazione Can di Phantom Limb. Echi da un'altra dimensione, dove il croonerismo è un miraggio lattiginoso e febbrile, dove il tempo e lo spazio sono il miraggio accartocciato d'un formidabile cazzone, come i Beach Boys sognati da Syd Barrett (con l'amorevole assistenza d'un Wayne Coyne prima maniera) di Song 4 Arthur, o i TV On The Radio prima intrisi di resina dub in Radio Generation e poi caramellati Mercury Rev nella conclusiva ukUUU. Pietruzza preziosa perché scabra, salda nel suo malfermo, scostante, sbandato splendore. (7.4/10) Stefano Solventi di un omaggio pagano e neo-primitivista all'eterno femmineo (e anche qui torna il parallelo con i modi zorniani), incarnato dalle voci - tra le altre - delle muse Zola Jesus, Shara Worden dei My Brightest Diamond e della compianta Trish Keenan dei Broadcast. Le cesure tra un pezzo e l'altro ci sono, ma l'effetto stream of consciousness è inevitabile e comunque ricercato, nel bene e nel male. Inutile quindi stare a dire dovesuccede-cosa: in una atmosfera ritualistica ed esoterica, ma tutt'altro che minacciosa (a tratti anzi proprio solare, carica di energie positive), troviamo fiati elegiaci che avvicinano addirittura il romanticismo agrodolce di Sakamoto, flussi - perché influssi - oneohtrixiani, un harpsichord lontano e sfocato, sporcature industrial/ noize e arpeggini acustici. Il tutto equamente distribuito tra belle canzoni alla Zola (che stingono le mollagini glo in una nebbia dark; oltre a quelle con le artiste già citate, quella con Niki Randa), quadretti di sognante psichedelia folk (Nico Turner, Adron), toppe ambient/ avant con quel po' di fuffa che è distintiva del genere/ dell'approccio e un paio di intermezzi glitch/wonk sul finale (come a dire: se ci avessi messo il beat sarebbe venuto fuori così). Giusto prima di presentare un condensato/frullato super-caotico di tutto il disco in un'unica soluzione (The Only Repeat; come a dire: per me sperimentare è innanzitutto giocare). Non è la solita pappetta pseudo-avant, forse perché avant Guillermo lo è stato davvero e in un ambito in cui non si può rinunciare facilmente alla concretezza della soddisfazione dell'ascolto. A tratti ripetitivo, questo sì, quindi leggermente noioso; ma a tratti molto molto fascinoso. (7.2/10) Gabriele Marino Psychedelic Horseshit - Laced (Fat Cat, Maggio 2011) Genere: hypnanoisepop La cronaca underground li conosce per aver coniato il termine shitgaze. Discutibile anziché no, certamente non esente da un certo grado di efficienza. La svolta oggi è l’approdo a una label come Fat Cat, e quindi, in qualche modo, l’emancipazione dal circuito Siltbreeze, Woodsist, ecc. degli Psychedelic Horseshit. Non che 71 l’uscita dal giro sia evento in sé positivo, né probabilmente gli psichedelici ne avevano bisogno, a un lustro abbondante dalle prime produzioni; ma di certo è un fatto interessante, che apre a interrogativi e interpretazioni. Una chiave di lettura è allora l’adattamento della formula a un pubblico più consistente, e a un mondo che non mangia pane e feedback stercorari. L’elemento “pop” e vetero-rock si trasforma da ossimoro - o contrappasso - a caratteristica in primo piano, in Laced. Una freschezza quasi spendbile, una stratificazione anche piuttosto elaborata (echeggia la scuola Black Dice, quelli più giocosi) e un piglio che non è poi così lontano da quei Flaming Lips che sempre più spesso ci troviamo a citare. Ironia uber alles, specie se si ha a che fare con una parodia di Highway 61 Revisited (Another Side). Non glielo diremo mai abbastanza, che è meglio che si scrollino di dosso la nomenclatura di genere che non accennano ad abbandonare. Ma forse è compito nostro fargliela dimenticare, producendo confronti, allargando gli orizzonti della musica di Psychedelic Horseshit anzitutto nei risultati che produce. Un esempio: I Hate The Beach è uno scherzo che procrastina un riddim raggamuffin fino a raggiungere strutture di cui maestri conclamati sono i Ruby Suns - come tramite i soliti Animal Collective. Un bel tuffo nell’ipnagogico che di certo non stupisce, ma, ancora una volta, semmai denota un percorrere i tempi, al di là di militanze e scelte oltranziste. La conferma arriva con la velvettiana Dead On Arrival (con ospitata di Beth Murphy di Times New Viking). Rimane un gusto per la sporcizia - passata nel travaglio New Tribal America - traghettato verso nuovi lidi, metà americani, metà inglesi. La buena onda (Revolution Wavers) è pronta a essere cavalcata. (7/10) Gaspare Caliri Raveonettes (The) - Raven In The Grave (Vice Records, Aprile 2011) Genere: Pop wave Tagliano il traguardo del quinto album i due Danesi, da anni impegnati in una personale esplorazione di tutte le varianti del rumore applicato al pop. Partiti come una versione noir dei Jesus And Mary Chain, sono andati via via acquistando maggiore sicurezza dei propri mezzi e, va da sè, una maggiore personalità. Ora sono dalle parti di un pop diafano e minimale, sorta di incrocio fra le trame eteree dei Cocteau Twins e l'asciutto esistenzialismo dei primi Cure. Quanto mai essenziale negli arrangiamenti, fatti quasi 72 sempre di semplici linee chitarristiche e generosi tappeti di synth su cui le voci di Sune e Sharin possono dispiegarsi fragili e ammalianti, Raven In The Grave testimonia la maturazione di una peculiare concezione del pop: austera ed immediata, sempre in bilico fra leggerezza e malinconia. Alla prima vanno ascritti i temi spectoriani in chiave 80s di Forget That You're Young e la lullaby narcolettica di Summer Moon; War In Heaven e Apparitions, al contrario, sono melodie umbratili e limpide come specchi d'acqua di montagna, appena increspati da gentili tocchi di chitarra. La ritmica, del tutto assente nella maggior parte dei brani, prende invece il sopravvento nella batteria dritta del surf wave Ignite e nella melodia circolare e negli accordi graffianti di Recharge & Revolt, lungo ed accorato mantra pop senza ritornello, che ad orecchie smaliziate ha subito assunto la statura del classico. Il fatto che i Raveonettes lo abbiano scelto come primo singolo la dice lunga sulla libertà espressiva conquistata in dieci anni di onorata carriera e di come, lasciata da parte la coperta di Linus fatta di feedback, si sentano liberi di svelarsi in tutta la loro grazia. (7/10) Diego Ballani highlight Retina.it - Randomicon (Flatmate, Aprile 2011) Genere: electronica Torna il duo napoletano formato da Lino Monaco e Nicola Buono. La loro carriera - che spazia dalla wave, al dub e all'elettronica d'avanguardia - li ha portati a collaborare con i nostrani 99 Posse e Marco Messina e negli ultimi tempi con personaggi dell'elettronica mondiale nelle maglie della chicagoana Hefty (che ha pubblicato tra gli altri Telefon Tel Aviv, L'altra e Savath & Savalas). In questo nuovo lavoro esplorano le sonorità dei sytnh modulari costruiti dallo stesso Nicola Buono. Un modo di approcciarsi alla materia elettronica 'dal basso', senza mediazioni di software o di preset standardizzanti. Il suono ovviamente risente di questa ricerca, proponendo soluzioni che si possono accostare al sentire squadrato della Raster Noton, con pulizie e tenaglie al laser che ricordano la minimal di Richie Hawtin (Spherically Symmetric) sezionata con le visioni di fino dei Dopplereffekt (Equation For U) per approdare infine alla lezione robotica dei primi Autechre (Gamma Repeater). Non solo: in questi 50 minuti si scorge anche qualche ammiccamento al bbreaking (These Attractors (Toten)) e all'ambience gloomy (Gravitational Collapse) con rifiniture di field recordings che ricordano pure l'industrial (A Model For Nonspherical Collapse). Un disco stampato in sole 500 copie che manifesta la maturata consapevolezza compositiva di Lino e Nicola, ormai sdoganati a livello internazionale (vedi ad esempio la loro partecipazione al Sonar nel 2006). Un isolamento proficuo il loro, che dovrebbe essere riconosciuto e promosso anche in patria, data la loro capacità di spaziare tra mondi e stili diversi. Non solo per nerd. (7.3/10) Marco Braggion Robert Miles - Th1rth3en (S:alt Records, Febbraio 2011) Genere: prog ambient aor Sì proprio il Miles di Children. Il suo ritorno dopo un po' di anni di silenzio discografico, passati a scrivere colonne sonore a L.A., sorprende l'ascoltatore che non ha seguito il percorso artistico dell'uomo. Già da molto collabora infatti con numerosi artisti che non hanno molto a che vedere con i suoi trascorsi 'dream house' (memorabile è ad esempio il duo con il guru della tabla Trilok Gurtu del 2004). Fra i collaboratori di questo nuovo full sono presenti Robert Fripp, Mike Patton e John Thorne (Lamb), quindi la tracklist risulta influenzata dal rock progressivo del chitarrista dei King Krimson, da qualche break e da eterogeneità miscelate a dovere. Inaspettato il sincretismo che il produttore internazionale riesce ad operare con voci così divergenti, tanto che a tratti ricorda pure la deriva ambient di Aphex Twin (i pianoforti di The Wolf affini ad alcuni momenti dei Selected Ambient Works) e le atmosfere choir-ambient di Morricone (Voices From A Submerged Sea). Il disco - che resta a cavallo tra molti generi, ma che potrebbe essere bollato con la vecchia etichetta di 'adult oriented rock' - ci riporta a quella tranquillità mentale e compositiva che avevamo sentito nel Tom Middleton di Lifetracks, citando a dovere pure Vangelis (Orchid Miracle) e i Pink Floyd (Afterglow). Una visione tagliata con l'esperienza del successo mondiale, che rimescola le carte di un uomo e di una mente ancora propositiva. Carriera ancora in salita per Robert. Bentornato! (7/10) Marco Braggion Ryan Driver - Who's Breathing (Fire Records, Giugno 2011) Genere: Alt.country/jazz Il canadese (dell'Ontario) Ryan Driver giunge al secondo album solista, seguito di Feeler Of Pure Joy del 2009, senza tralasciare mai la sua attività intensissima con il suo jazz-quartet The Ryan Driver Quartet, con la root band The Silt (sempre in casa Fire Records) e chissà quante altre collaborazioni. Vista gli interessi bifronti, non stupisce che Who's Breathing sia un progetto diviso a metà tra il Constellation sound della prima parte e la canzone jazz della seconda. Fino alla splendida Blues Skies Don't Care, Ryan Driver centra la sua scrittura sulla chitarra e i tipici stilemi del nuovo country di Uncle Tupelo/Wilco. Ma con It's Tulip Season, la sesta traccia, a prendere il centro della scena è il pianoforte. La forza della prima parte, con quel modo tutto particolare di ficcare più parole di quante si pensi sia lecito in un verso, sta tutta nella serenità agrodolce che la voce e le armonizzazioni infondono alle composizioni. Nei panni del jazz-singer, Driver si abbandona, invece, alle atmosfere notturne da ballata sofferta ma elegante. Il problema di Who's Breathing sta forse tutto in questa indecisione di essere l'una o l'altra cosa: un album country o una collezione di canzoni classiche? Perché nulla, ad eccezion forse di una leggera monotonia della seconda parte, è fuori fuoco: tutto suona meravigliosamente. Ed è evidente che Driver si sente a proprio agio in entrambe le incarnazioni. La sensazione, però, è che non si accontenti nessuno dei due potenziali pubblici. (6.5/10) Marco Boscolo 73 highlight Susana Baca - Afrodiaspora (Luaka Bop, Aprile 2011) Genere: etnica Ne ha fatta di strada dal suo Peru, Susana Baca. Senza fretta ma con costanza, si è imposta a fianco di Cesaria Evora e Omara Portuondo nell’alveo delle “dive” di quella che per comodità noi occidentali seguitiamo a chiamare world music. Dimenticando che, in fondo, è una questione di prospettiva, di processi storici che non ci fa onore ricordare ma che si devono tenere ben presenti, più che mai in questi anni di massicce migrazioni “moderne”. Un tassello di pregio e passione lo sistema nel dibattito Afrodiaspora, per il quale la Baca si è immersa nelle diverse tradizioni del suo continente sconfinando fino a Cuba, allo scopo di tracciare una mappa sonora che le ricongiungesse alla comune origine. Al forzato abbandono dal continente africano esplicitato nel titolo e nel rifarsi alla musica sparsa per il continente americano dagli schiavi; che, trapiantata altrove, ha assunto nel tempo forme diverse ma simili. Che siano la sensuale cumbia Detras De La Puerta o una Que Bonito Tu Vestido con tanto di gustosa citazione de La Bamba, l’omaggio a Celia Cruz Baho Kende/Palo Mayimbe o la tesa però lieve Reina de Africa, il significato ultimo è nel senso di malinconico riscatto “a posteriori” che affiora in un’ora scarsa, i cui estremi stanno nelle corde tristi di Bendìceme e nel piroettare di Plena Y Bomba e il culmine nella ripresa di Hey Pocky Way. Prelevata dalle leggende funk Meters e gemma di quella New Orleans che resta tuttora un esempio di melting pot. Sofferto e sofferente da suggerire che, a un certo punto, non sia più questione di musica, ma di vita. (7.4/10) del Mr. Oizo di Moustache (Half A Scissor), rintracciabile qui nei momenti più eccentrici e destrutturati come Feed My Meatmachine, Red Knob e la stessa titletrack. La ricca scaletta - 17 tracce - raccoglie diverse frontiere di sperimentazione affrontate dal producer berlinese, svariando tra il serio e il faceto: nella prima metà si alternano sferragliate acieed (Sirimande), intrecci folli tra hip-hop e breakbeat (Bad Idea) e spigolosità taglienti ereditate dai compagni di merende Modeselektor (123, Feromonikon); dopo il giro di boa emerge invece il lato più giocoso del disco, tra svaghi à la Justice (Einmal In Der Woche Schreien) e riconoscibili affinità french-house che richiamano tanto il pioniere Etienne De Crécy (Nights Off) quanto gli ultimi arrivati Bot'Ox (Idiologie). Nonostante suoni tanto inventivo da essere inclassificabile, dietro al mosaico di Siriusmo non c'è nessun proposito intellettuale, nessuna specifica volontà di inventare qualcosa. Ci sono però entusiasmo, euforia ed un'irriverenza sempre volta a rompere lo schema. Techno-divertissement per la cyborg generation: all'evoluzione della specie penseranno altri. (7.1/10) Carlo Affatigato Giancarlo Turra Santo Barbaro - Lorna (Ribéss Records, Dicembre 2010) Genere: canzone d'autore Arriviamo colpevolmente in ritardo con i Santo Barbaro e ce ne scusiamo. Del resto tralasciare un disco come Lorna non sarebbe stato possibile, dal momento che il secondo episodio della formazione romagnola è opera intensa, eterea, poetica, come se ne ascoltano di rado. Il centro di gravità del gruppo rimane la parola di Pieralberto Valli, tagliata e rimodellata su una narrazione che poco ha a che vedere con la forma canzone e molto con un fluire evocativo e personale. E in cui la musica di Franco Naddei, Diego Sapignoli e dello stesso Valli si innesta deformandosi a richiesta per seguire il ritmo del testo e sottolinearne i passaggi più evocativi. Sembra di ascoltare Adriano Modica, ma dove il musicista calabrese spinge sul pedale della psichedelia, i Santo Barbaro preferiscono le mezze luci, le morbidezze soffuse, lo streaming emotivo senza facili punti di riferimento. Magari su uno xilofono e una batteria (Nudi Dorsi) o in un crescendo elettrico vicino al post-rock (Naufragio), avvinghiati a un'elettronica che sarebbe piaciuta a Daniele Brusaschetto (Il vuoto) o colti a ci74 Sloan - The Double Cross (Yep Roc, Maggio 2011) Genere: pop-rock tare l'ultimo Giancarlo Onorato (Scia di polvere). Eleganza, estrema varietà nei colori (da applausi il dub etnico di Finisterre), qualche parentesi rugginosa (la title-track): Lorna è disco di spazi e nuvole, inquietudini e rese. Ennesimo esempio di una canzone d'autore che non si stanca di auto-rigenerarsi riafferrando con stile il presente. (7.2/10) Fabrizio Zampighi Siriusmo - Mosaik (Monkeytown Records, Marzo 2011) Genere: Avant-techno Oltre dieci anni passati a sfornare singoli, EP e remix per nomi blasonati (Simian Mobile Disco, Chromeo, Digitalism, Gossip per citarne solo alcuni) sono un biglietto da visita che non tutti possono permettersi. Circondato da alte aspettative sul suo primo vero album in studio, Moritz Friedrich aka Siriusmo risponde con un lavoro complesso che, alternando brani inediti a materiale già noto, copre efficacemente lo spettro electro-techy che lo caratterizza. Il punto di partenza di Mosaik rimane l'old-school Non molto noti da questa parte dell'oceano Atlantico, i canadesi Sloan continuano da vent'anni a predicare la loro formula di pop rock a base di classici e riferimenti Ninenties nel continente nordamericano, con apici notevoli (Between The Bridges del 1999) e qualche caduta di tono (le trenta tracce di Never Heard The End Of It del 2006), ma senza mai scendere sotto un livello medio tutt'altro che basso. The Double Cross è il decimo della lista ed esce il giorno del ventesimo anniversario del primo show. Il dato che si consolida con queste dodici tracce è la notevole classe del combo canadese, composto da quattro polistrumentisti che si avvicendano alla scrittura e alla voce principale senza perdere la coesione. Dal loro incrocio di rock Seventies, pop e armonie vocali Sixties non ci si aspetta sicuramente nulla di innovativo, ma l'intrattenimento che delle vecchie volpi dell'indie sono in grado di regalare. E ascoltando The Double Cross stupisce il tasso di divertimento che i quattro sembrano ancora trovare nello scrivere e suonare insieme. Si veda, da questo punto di vista il gioco delle citazioni interne, di cui vi segnaliamo la reprise del tema della quarta traccia, Shadow of Love, nella de- cima, Beverly Terrace, mentre vi lasciamo il piacere di scoprire autonomamente le altre. Il programma si svolge tra maschio rock Seventies come Bobbie Gilliespie pagherebbe per riuscire a scrivere (Follow The Leader e Unkind), turbamenti power pop con sfumature surf (You're Daddy Will Do), schegge Stooges (It's Plain to See), ballad da FM (Loving So Low) e il pianoforte suonato con il polso bloccato di (The Answer Was You). In piena forma, si meritano l'etichetta di 'classici'. (7/10) Marco Boscolo Sonny And The Sunsets - Hit After Hit (Fat Possum, Aprile 2011) Genere: Lo-fi pop L'unico modo in cui questi pezzi potrebbero diventare delle hit, sarebbe che Sonny Smith e suoi Sunsets si imbarcassero su una Delorean diretta verso il 1955 e andassero ad eseguire le loro canzoni al ballo Incanto Sotto il Mare. O forse no, troppo debosciato e minimale il loro garage rock, troppo indolente e sfigato per un posto e un luogo (l'america dei 50s) in cui l'ottimismo e il perfezionismo la facevano da padrone. Eppure il songwriting di Sonny si nutre proprio di questo: sunshine pop, frat rock, surf e doo wop, ma nella loro versione più negletta. E' l'alba dei teen sound passata attraverso le slackness e il punk dei 90s. Solo che qui di punk non c'è neppure l'ombra. Di slackness invece si, eccome! L'opener, She Plays YoYo With My Mind, per dire, è un jug blues narcolettico, appena smosso da un tamburello e lievi twang chitarristici, su cui la voce nasale di Smith accenna a grottesche vicende amorose. I Wanna Do It è un pop da girl group che procede per inerzia. Qualche flebile slancio urlato a mezza voce si ha nel ritornello dello psycho garage Teen Age Thugs, ma per il resto il sound si mantiene fra lo scheletrico, il posticcio e il dannatamente accattivante. Perché naturalmente, in tutta la sua indolenza Sonny è uno che sforna pop song con la facilità con cui gli altri si grattano il naso. Basti pensare che i brani di Hit After Hit nascono dalle sessioni del suo progetto più ambizioso: quello di realizzare 100 singoli (con relative b-side, per un totale dunque di 200 canzoni) per 100 band immaginarie. Un'ispirazione pantagruelica seconda solo al Robert Pollard dei tempi d'oro. Se a quanto detto aggiungiamo che i Sunsets sono costituiti da membri di The Oh Sees e Fresh & Onlys, capirete bene che ci troviamo 75 di fronte all'ennesimo curioso organico della scena lo-fi pop californiana. Un pozzo di cui ancora non si vede il fondo. (6.8/10) Diego Ballani Susanne Sundfør - The Brothel (Gronland Records, Aprile 2011) Genere: elettro-pop Dura un paio di ascolti la sbornia per questa norvegese dalla voce austera e cristallina. Poi si affievolisce, trasformandosi in un hangover piacevole ma con qualche punto interrogativo. Si fa per dire, ché di cose buone in The Brothel ce ne sono molte. Eppure, nonostante uno stile vocale virtuoso in bilico tra Bjork, Anna Calvi, Joan Baez e un lavoro di produzione sopraffino che mescola classica, ambient ed elettronica (nel disco c'è lo zampino del Jaga Jazzist Lars Horntveth), qualcosa non torna. I dubbi in realtà nascono dall'impressione che le aspirazioni della Sundfør vadano nella direzione di un pop quanto più possibile ad ampio spettro, più che esplorare coraggiosamente quel terreno di confine che il crossover di suoni alla base dei dieci episodi vorrebbe suggerire. Un tentativo di raccogliere consensi riuscendo a mantenere una certa integrità di fondo, per un disco da interpretare ma nello stesso tempo non troppo selettivo. Sembra di ascoltare una Enya rivisitata e decisamente indie, a cui si affiancano scenari nordici evocativi (la title-track) e drum'n'bass eterea (Lilith), ambient sognante (Black Widow) e catarsi ai limiti della musica sacra (Father Father), batterie marziali (O Master) e partiture complesse in bilico tra sintetico e archi (Turkish Delight). In un misto di arte, virtù e lungimiranza che ha portato il disco ai piani alti delle classifiche di vendita norvegesi. (6.9/10) Fabrizio Zampighi Thao Nguyen/Mirah - Thao & Mirah (Kill Rock Stars, Maggio 2011) Genere: indie pop L’una (la portlandina Mirah) puledro folk di scuderia K Recs, l’altra (Thao Nguyen) astro assodato della Kill Rock Stars. In mezzo, o forse sopra le parti, la compartecipazione nella stanza dei controlli dell’esuberante Merrill Garbus (aka Tune-Yards). C’è una sommatoria degna di nota, nell’uscita self-titled di Thao&Mirah. L’output è leggero ma sofisticato. Sono certosini i tocchi che danno forma e sostanza ai tanti piccoli scrigni indie-pop (Folks), sono tradizionali - e forse meno im76 prescindibili - i richiami alla tradizione del cantautorato indie femminile, da Cat Power a PJ Harvey (Space Out Orbit). Si sentono anche gli ultimi due lustri di elettropop alla The Blow (Eleven, How dare You). Ciò su cui le due eccellono è la variazione/variabilità espressa nelle potenzialità esecutive, specie su temi percussivi. Una molteplicità che convince quando l’arrangiamento attraversa i generi fino a diventare mutante, in pieno stile NYC, in Rubies And Rocks. A uno sguardo d’insieme, l’approccio è abbastanza chiaro: si parte con una linea melodica e un arpeggio, che poi è scomposta, aggiungendo movimento e anima collettiva 00, sempre e comunque all’interno di un universo pop (Little Cup). Non c’è - o non si vede - un discorso sulla coesione, una mission, per così dire, ossia ciò che generalmente sta dietro alla nascita di una band. Thao & Mirah è oggi niente più che un “progetto” - fra l’altro, commercialmente parlando, giustificato da una motivazione di raccolta fondi a sostegno di Air Traffic Control, organizzazione a supporto di musicisti indie. Così accogliamo Thao & Mirah tra i nostri dischi. Senza eccessivo entusiasmo ma neanche con noia indotta. Di certo c’è intesa, complementarietà (anche corale: niente male l’operazione di sottrazione, ripetizione e cacofonia di Likeable Man) senza accenno di un conflitto tra comprimarie. E quindi la porta al sophomore rimane aperta. (6.8/10) Gaspare Caliri The Cruels - Infesto Ep (Clinical Archives, Aprile 2011) Genere: Industrial punk Se il buon giorno si vede dal mattino, quello che si prospetta per i Cruels sarà davvero radioso. Il trio lucchese, attivo dal 2008 e costituito da giovani di appena vent'anni, è autore di una avvincente miscela di rock dal tiro punk e dalla pesantezza industriale. I due brani centrali di questo breve ed intenso ep d'esordio (sei brani per un totale di appena quindici minuti), fondono una furente vena hardcore con il sound post apocalittico dei Killing Joke. Un'idea, in un certo senso vicina a quella che i Therapy? inaugurarono all'epoca dei loro primi lavori. Si sente infatti l'influenza di certo alternative meno velleitario, soprattutto nell'incedere lento e disturbante di I'm A Big Machine. Negli ultimi due brani in programma (Nola e Infesto), la virulenza delle chitarre si trasfigura in una psichedelia urbana, una sorta di shoegaze metropolitano di un grigiore metallico. Peccato per una produzione che non sempre valorizza la lucentezza del loro sound. Una volta messo a punto questo aspetto potremmo trovarci di fronte a qualcosa di veremente importante e originale. (6.7/10) rossa degli Archer in jazz, un portale che potrebbe anticipare nuove prolifiche dimensioni e innesti inattesi. Per ora accontentiamoci di questo bel lavoro. (7.1/10) Edoardo Bridda Diego Ballani Tied & Tickled Trio - La Place Demon (Morr Music, Aprile 2011) Genere: Jazz Si sa che The Notwist, 13 & God e Tied & Tickled Trio sono le facce principali dell'Archer pensiero in musica, tre lati di una magmatica sonora fatta di parentesi, mosse di lato e piroette all'indietro, tre progetti che coabitano senza scadenze temporali precise e s'attivano al manifestarsi delle giuste occasioni. Quest'anno la compagine ha già sfornato Own your ghost, la solita operazione di indie-hop made in Anticon a nome 13 & God, e oggi approda a questo affascinante La Place Demon. Dopo il lavoro di elettronica minimale di due anni orsono(quell'Aelita commissionato dal festival di Hausmusik a Monaco ispirato ai sogni dei fantascenziati del Novecento), ritroviamo il combo in piena fregola jazz con il solito quartetto base (con Casper Brandner e Andreas Gerth), un contorno di 11 musicisti (tra cui Johannes Enders e Carl Oesterhelt) e un batterista d'eccezione, Billy Hart. Hart, settanta primavere appena compiute, più di seicento album incisi (e collaborazioni di lungo corso con Herbie Hancock e Stan Getz), è ça va sans dire lo starter della nuova esperienza: cofirmatario delle tracce e dell'album, il lavoro è stato disegnato attorno all'uomo, la scusa ideale per unire svariate generazioni attorno a un prisma jazz senza barriere di stili e contaminazioni. Il batterista è pure la ragione del ritorno al paradigma dell'esperimento dentro l'esperimento di Observing Systems, album dei TTT del 2004 il cui approccio ritorna con i suoi riferimenti (Gil Evans, Sam Rivers, John Coltrane, Freddie Hubbard, Herbie Hancock, Miles Davis, Ronald Kirk e Sun Ra), periodi storici prediletti (l'incrocio 60s e 70s) e strategie d'inserto elettronico (in particolare per gli strumenti a fiato). Eccessiva calligrafia e devozione sono i classici difetti di operazioni del genere ed il progetto non ne è mai stato immune, eppure quando in Le Place Demon il drumming scuro di Hart si dilegua nella cosmo-delia firmata Sun Ra (The End Is The Same As The Beginning), il combo è potente e visionario come deve e il viatico tra sci-fi e vecchie maniere, magari diviso tra l'amore per la Ballroom music ante guerra mescolata con un poco di Coltrane (The Three Doors (Part 1)), è senz'altro la sottile linea Timber Timbre - Creep On Creepin' On (Full Time Hobby, Aprile 2011) Genere: Retrò Pop Con l’omonimo album di due anni fa, il combo canadese Timber Timbre aveva coniato un personale cantautorato che scavava nella tradizione folk blues americana da un’angolazione estetizzante e cinematica. La voce nasale di Taylor Kirk, in convergenza parallela sia con quella di un Stuart Staples (Tindersticks) ma anche con quella di Mark Sandman (Morphine), e gli arrangiamenti, un misto di soundtrack music avvicendata su un impianto tipicamente folk-pop, erano stati in grado di creare un immaginario d’eleganza lunare, un portale sonico verso una realtà parallela dove i neri diventavano bianchi e viceversa, dove un senso di classicità pop da coscienza collettiva era costantemente strattonato da un bisogno di catarsi timbrico narrativa. Spooky e creepy - gli aggettivi più utilizzati dalla stampa brit - la musica dei Timber Timbre prendeva la lezione dei The Good, the Bad & the Queen per portarla nel terreno degli Elvis Presley e dei James Brown dei 50s. Non a caso una strategia è quella di inscenare infinite varianti al classico Men’s Men’s Men’s World il cui picchiettio di piano (e contorno di significanti e significati) diventa un’autentica fissazione in questo nuovo lavoro fin dall’iniziale Bad Ritual e finisce poi per trasformarsi nel tema portante dell'album e dalla traccia che nome all’album, Creep On Creepin’ On, titolo emblematico che traduciamo, a questo punto in una resa definitiva allo “strisciare sinuosi nella classicità in crooning black’n’white”, al guardare con gli occhi di un rockabilly in retroguardia o di un honky tonk venuto da marte. Consapevolmente prigioniero di sé stesso, decadentemente specchiato nel mondo che ha così abilmente evocato e ricreato, il trio esercita ancor’ora un enorme fascino, soltanto che, rispetto al self titled del 2009 vincitore del Polaris Music Prize, la sensazione è di un colpo non completamente a segno. Si tratta di separare l’ottimo dal molto buono però: ascoltate l’intelligenza dei siparietti thriller come Swamp Music (tra legni e archi in pura soundtrack music), l’efficacia dei fiati gangster in Woman, gli ottimi tagli country folk-rock di Too Old To Die Young, gli smalti quasi lynciani del lavoro sulla classica ballad Lonesome Hunter, oppure la bellissima fanfara con tocchi cosmic 77 psych e jazz che è Do I Have Power. Pettine e camicia aperta davanti allo specchio. Tutto nero baby. (7.2/10) Edoardo Bridda Tommy Guerrero - Lifeboats And Follies (Galaxia, Marzo 2011) Genere: jazz latin rock Personaggio sui generis, questo Tommy Guerrero. Californiano di San Francisco classe '66, un passato da skateboarder professionista, saltuariamente attore e infine musicista attorno alla cui produzione - un pugno di uscite dall'inizio del nuovo millennio - è germogliato un piccolo culto. Lifeboats And Follies è il quinto album a suo nome, come i precedenti deve il suo fascino alla capacità di crearsi una dimensione sonora particolare, una specie di bozzolo cinematico, esotico, onirico ma irriducibilmente concreto. Congetture jazz, ebbrezza latin rock, blues strascicato, funk soul letargico, aura stropicciata house, sottigliezze psych: la mistura è rilassata, suadente, a tratti pure festosa, eppure attraversata da vibrazioni irrequiete, come se tutto accadesse in una zona franca in mezzo all'inferno della quotidianità. Ipotesi meditabonde (The Same Confusion And Hope), percussività agile e impressionista (Nomadic Static), crossover estatico (The Last Maverick), exotica acidula e stropicciata (Cut The Reins) e spersi miraggi di frontiera (On The West) punteggiano un programma godibilissimo e inquietante.(7.1/10) Stefano Solventi Tronco - Primo Annuale E Mezzo Resoconto (Sincope, Aprile 2011) Genere: noise-core Noise a scartamento ridotto, musica tronca come binari di treni interrotti o come parole mozzate e urlate senza remore. Questo il senso ultimo dell’ennesimo progetto uscito dalla Sincope: non paga di aver co-firmato uno dei lavori meglio riusciti d’inizio anno - il Fragranze Silenzio di Daniele Brusaschetto e aver prodotto del buon noise-harsh (Fecalove su tutti) - la label diy laziale replica col primo resoconto annuale (e mezzo) del duo Tronco. Truculentboy - deus-ex-machina della label e metà Compoundead - alla chitarra/voce e Francesco a batteria/voce mettono fuori un dischetto di improvvisazioni rielaborate che, pur ispirato almeno nel titolo dalle crudezze industrial di matrice Throbbing Gristle, ripiega più su un noise-(core)-rock scartavetrato e scheletrico pronto a schiantarsi su minimali lande wave/ post-punk chitarristiche. 78 L’uso dell’italiano avvicina il progetto a territori da acre stil post, per usare il titolo di un nostro articolo in cui indagavamo l’uso della lingua di Dante in Massimo Volume e Bachi da Pietra, Starfuckers, Altro e CCCP. Proprio questi ultimi due sembrano essere i punti di riferimento più prossimi per i Tronco, abili a mostrarsi in sintonia coi cut-up degli Altro e con le pastoie linguistiche di un Lindo Ferretti ancora non anestetizzato. A dimostrare il legame e la contiguità prendono a prestito la lenta Noia e la riducono ad un colabrodo noise-punk-core non disprezzabile. Coesione e forza d’urto unite a una idea di base piuttosto chiara ci fanno ben sperare per un album compiuto. (6.9/10) Stefano Pifferi TV Ghost - Mass Dream (In The Red Records, Aprile 2011) Genere: Post Punk Che dire di questo secondo album (se non si considera anche il primo 12 pollici su dieStasi) dei TV Ghost? I ragazzi del mid-west sperduto si sono accasati già dal precedente Cold Fish presso la leggendaria In The Red e oggi rilanciano una nuova portata fedele alla ricetta originale. Chi ha già avuto modo di esperire le frenesie elettriche del quartetto di Lafayette sa bene cosa aspettarsi. Riff crudi e urticanti di chitarre in odore di Gang Of Four usate come fendenti acuminati, ritmiche tribali, sconnesse e scomposte a creare un senso di panico basato sull’alternarsi di vuoto e pieno, urla belluine e lamentosi gorghi vocali, synth dirottati e pronti a deragliare contro un muro di allucinazioni. Unica, piccola novità sembrano essere le tonalità particolarmente scure della voce, vagamente più goth del solito, ma il limite del gruppo sta nel puntare troppo sull’isterismo ipnotico in cui sono maestri e troppo poco sulla struttura e l’individualità dei pezzi, alla lunga un po’ troppo simili a se stessi. La carica esecutiva e la consapevolezza dei propri punti forti di certo non mancano, ma dire se Mass Dream sia migliore o peggiore delle altre pubblicazioni del Fantasma Televisivo è compito che lasciamo volentieri a qualcun altro. (6.8/10) Andrea Napoli Tv On The Radio - Nine Types Of Light (Interscope Records, Aprile 2011) Genere: pop wave soul Impattare la primavera col nuovo album - il quarto - dei highlight Vinicio Capossela - Marinai, profeti e balene (Warner Music Group, Aprile 2011) Genere: cantautorato Vinicio Capossela è tornato dopo aver bevuto il mare. Dopo il manierismo ostentato - e soprattutto sfocato - di Da Solo, il cantautore indeciso di allora diventa oggi, ora, paesaggio liquido, dipinto a strati, acquoso negli arrangiamenti. Il nuovo Marinai, profeti e balene ritrova un Capossela complesso, circolare, denso, messa da parte la pomposità della forma canzone, ci si affida alla corporeità del suono, alla sua manipolabilità, uno sguardo ridimensionato eppure esploso dai ricordi sonori. Lo scanzonare di Pryntil, puro stile sirenese, una nenia disneyana mescolata al contorto e così tanto deflorato Louis Ferdinand Cèline, un Capossela raramente così ispirato nel suo strabordare storie onnivore lanciate in mezzo ai mari. Oppure Billy Budd, così tesa nei ricami avant western del fido e claudicante Marc Ribot, così terrea nelle parole, quasi un reading cadenzato di Non si muore tutte le mattine, piccole suggestioni rassegnate, come impossessate di Tom Waits. Una Polpo d’amor svestita rispetto alla versione con i Calexico, un dondolarsi liquido tra lettere in profondità e danze tra gli abissi, piccola storia di perdite, un ritrovarsi tra echi di John Surman e scenografie alla Crialese - vedi il lasciarsi alle spalle il mondo di Respiro - che ritorno alle ostilità delle vite nostre. Il destino malinconico de Le Sirene, un leggero capitombolo tra le trovate mancate dell’ultimo caposseliano, il mai tanto deludente Da Solo, alla lunga annoiata e ripetitiva, questa Le Sirene, ovvietà e mancanza d’ispirazione rimbombano sottovoce. Più riuscita La Madonna delle Conchiglie, innocua ninna nanna sputata dal mare. Un sussulto avvolge l’ascoltatore colpito dalle trovate ariose di Lord Jim, divertissement curato fino allo spasmo, una circolarità da brividi, un manifesto della sconfitta, “credevi di esser saldo, ora sai chi sei, ora che sta a te, ora hai mancato il colpo”. Fuochi Fatui è discesa agli inferi, fuoco che sopravvive al mare, delirio geniale che comprende il mondo tra urli insensati e aperture melodiche da post tempesta, da post Sanremo, l’apocalisse tanto annunciata si riduce alla normalità del vivere quotidiano: parafrasando lo stesso Vinicio, il cantautore vomita su di noi l’ultimo respiro. La Lancia del Pelide dismessa la maschera di marcia funeraria, grazie a un passaggio della linea invisibile e sinuoso, si reinventa come sospiro affaticato, un’apoteosi colma di tutti gli elementi visibili del mondo, qualcosa che riconduce alla vita, alle origini delle sensazioni. Capossela ci restituisce la conoscenza e la coscienza dell’essere sommersi: una vita sorge in mezzo al mare dove i momenti ridicoli quasi spariscono al cospetto della terra. Marinai, profeti e balene ci riconduce all’amore per l’indistinto, per l’inafferrabile, e inevitabilmente, per il cantore di tali docili storielle. Qualcosa di simile a correre sommersi dal mare. (7.4/10) Federico Pevere TV On The Radio è una gran bella storia. Se già il precedente Dear Science, ammiccava un piacionismo in cui s'andava deliziosamente ad impantanare la spinta esploratrice, oggi quel residuo movimento è diventato una languida stasi. Sedata la fregola dell'ibridazione, esaudita la smania di cercarsi, i cinque si sono accoccolati nel proprio sound come piselli nel baccello. Condizione ideale per comporre, e infatti hanno sfornato squisitezze d'alto bordo. Una melodia via l'altra - carezzevoli, concitate, polpose, sgargianti - su dieci tracce una buona metà sono hit potenziali. Ad esempio quando fanno i cugini setosi dei Gnarls Barkley (Forgotten, Second Song), la Beta Band morsa dalla tarantola Talking Heads (No Future Shock), i Wire ipnotizzati Gorillaz (Repetition) o ancora il Peter Gabriel più etereo circonfuso d'organi amniotici Traffic (Killer Crane). Predomina un senso di relax turgido nel quale la negritudine va a stemperarsi perfettamente tra le congetture wave-pop, producendo sentimento espanso tra vibrazioni spacey e afrori black, intrighi elettrici e sin79 copi androidi sotto lo sciroppo della superficie. Il quid sonico ne esce tanto duttile quanto robusto, capace d'imbastire con disinvoltura funky fuzzante (la nervosa New Cannonball Blues) e soul cinematico (una Will Do sul punto di ridondare trip-hop), di chiamare in causa con disarmante naturalezza vampe Beastie Boys (Caffeinated Consciousness) oppure l'epica evanescente U2Eno altezza Zooropa (Keep Your Heart). Nine Types Of Light è un lavoro pungente, radioso, per nulla banale. Nella sua affabilità cela un'affascinante ipotesi di sincretismo sonoro per il presente. Quanto al futuro, per il momento può attendere. (7.3/10) Stefano Solventi Uv Race - Homo (In The Red Records, Aprile 2011) Genere: garage/post-punk Tornano gli australiani UV Race dopo l’esordio omonimo di un paio di anni addietro e una costante presenza nel mondo dei pezzi piccoli in vinile e delle cassettine. Ora Homo, pur non tagliando i ponti con l’underground più oltranzista (esce anche in versione tape su Aarght!), si fregia del marchio In The Red a testimoniare una doppia crescita per questi proto-punk from down under. Di interesse innanzitutto, ma anche nello sviluppo di una cifra musicale più messa a fuoco rispetto anche al citato debutto. Il sestetto misto mette in scena un universo proto-punk in cui le evidenti influenze aussie - Scientists e Saints su tutti, ma si parla dell’ovvio - sconfinano verso gli states rovinati della Detroit stoogesiana o verso la Manchester di Mr. Fall Mark E. Smith. Non fossilizzatevi però sui nomi, perché gli UV Race si muovono in indipendenza attraverso post-punk scartavetrato (il sax che deturpa la falliana Burn That Cat) e melodie diafane da B-52s a testa in giù (Lost My Way), visioni velvet-garagiste (Girl In My Head) e paranoie semiacustiche (la freakeria autistica di Always Late), divertissment rock’n’roll (la cantilena al femminile di Low) e stranite aperture psicotiche. Una buona conferma per il gruppo che tira le fila di un intero universo seminascosto - da Super Wild Horses a Total Control, passando per Eddy Current Suppression Ring, Witch Hats, Slug Guts, Circle Pit e molti altri - pronto ad essere scoperto. (7/10) Stefano Pifferi 80 Vasco Rossi - Vivere o niente (EMI, Marzo 2011) Genere: pop rock Fanno quasi trent'anni che, adolescente, m'invaghii di Vasco Rossi. Non era difficile volergli bene, anzi: quell'adulto fuggito alla maturità, sorta di Peter Pan tanto arguto quanto balordo, lucido e sensibilissimo sotto la buccia dello scazzo perenne, diventò il contrappeso ideale alla sempre più pressante adultificazione. In qualche modo, mi sembrava un cuginastro più grande e scellerato che ha capito la lezione di Lucignolo cavandosela tutto sommato alla grande. Più avanti, quell'immaginario di marachelle tossiche, frustrazioni esistenzial/sentimentali, balbettii allusivi e filosofia spicciola avrebbe rivelato tutti i suoi limiti, la sua velleitaria baldanza - appunto - adolescenziale. Ben presto il rock mise in chiaro di poter dare molto altro e di più, d'essere una faccenda - in ultima analisi - adulta. Ultimi scampoli di simpatia per Liberi liberi, anno 1989, poi tanti saluti al Blasco e alle sue vicissitudini di sedicente perseguitato, almeno per quanto mi riguarda. Eppure, come sappiamo, con quella strategia da outsider beffardo ma innocuo, con quella tenerezza stropicciata da alcolista mai pentito e lo sguardo da ragazzino in un corpo sempre più bolso, s'è costruito una mitologia nazional-popolare che perdura, riaffermata periodicamente dal rito ciclopico nelle grandi chiese-stadio. Oggi, alla soglia dei sessant'anni, Vasco ed il vaschismo sembrano approdare ad un livello di consapevolezza nuovo, che permette al signor Rossi di gettare la maschera - dopo gli atroci look da supergiovane - sulla mezza età terminale. Questo Vivere o niente, sedicesimo album in repertorio, è infatti una specie di concept sulla "maturità matura", sulla persistenza tra le cose vive, sull'esserci ancora nonostante tutto in compagnia dei soliti vizi e vezzi. Biascicando cioè i ben noti turbamenti esistenziali, balbettando le stesse beffarde allusioni, dipingendosi come un sempre più improbabile outsider, ma con una differenza sostanziale: d'un tratto Vasco è diventato un anziano signore. Non a caso nel video di Eh... già lui, il Komandante, colui che dicono essere l'unica rock star italiana, sembra il gemello di Vitellozzo, un vecio sul punto di andare al bar per la partitina a carte e un bicchiere di vino. Uno che può quindi permettersi di confessar burlando la crisi spirituale (Manifesto futurista della nuova umanità) e lo scetticismo riguardo al progresso tecnologico (L'aquilone), per poi prodigare consigli paterni disseminandoli di strisciante pessimismo (Prendi la strada). Su questa falsariga c'erano le premesse per sfornare un disco al- meno dignitoso, nobilitato per così dire dalla sopravvenuta devastante disillusione che finalmente consentiva all'uomo di prevalere sul personaggio. E invece, macché: c'era da riempire la scaletta, blandire il target, tenere in piedi l'avatar. Allora avanti coi rockacci tragicomici in overdose da viagra (Sei pazza di me, Non sei quella che eri), con le scialberie sentimentali (la quanto mai uggiosa Stammi vicino), con l'innodia impettita (quella sorta di prequel 883 di Dici che) e con la vacua inquietudine masticata dalla title track. Il tutto confezionato con la consueta mega produzione bidimensionale (circa venticinque i musicisti coinvolti, diretti dal sodale Guido Elmi) perseguendo un'idea sonica disarmante, cristallizzata più o meno a fine anni Ottanta e senza neanche uno straccio d'alibi po-mo (che poi forse è anche meglio). Non è il caso tuttavia di eccedere col biasimo: in tempi di diffusa regressione adolescenziale, coi gadget (e spesso l'imitazione di essi) elevati al rango di valori, un linguaggio del genere può ben dirsi emblematico. E passi se ha l'impudenza di spacciarsi rock. (4.5/10) Stefano Solventi Vivian Girls - Share The Joy (Polyvinyl Records, Aprile 2011) Genere: sixties-pop Traslocate dalla garage-oriented In The Red ad una stilisticamente più varia Polyvinyl, persa per strada anche la batterista Ali Koehler (dopo la fondatrice Frankie Rose migrata verso Frankie Rose And The Outs) e disseminati progetti laterali a destra e a manca (The Babies e La Sera gli ultimi in ordine di tempo), “Kickball” Katy Goodman e Cassie “Ramone” Grzymkowski reclutano Fiona Campbell dietro le pelli e se ne escono con l’ennesimo disco di godibile garage-pop virato psych-sixties. Novità e sorprese però sembrano purtroppo finire qui, relegate nel limbo del gossip rock’n’roll, nonostante Share The Joy cerchi di dare una sferzata al sound del terzetto, impostandolo su varianti e differenze strutturali. L’acceso dinamismo della new entry, soprattutto, fa da asse portante a pezzi come Lake House, un punk’n’roll vertiginoso, Vanishing Of Time o la tribaloide Trying To Pretend. Nello stesso tempo sembra aver reso più grintoso il sound delle Vivians, come testimonia l’atmosfera da riot-grrrl ingentilite meets americana di Sixteen Ways o la lunga, conclusiva Light In Your Eyes, in cui si respirano umori vagamente velvettiani. Resta però un senso di amaro in bocca per come le tre si siano assestate su una formula rodata e che, pur non mostrando la corda, le relega ad una aurea mediocri- tas. Chiaro che ipotizzare una qualsivoglia via di fuga è alquanto arduo (diluire il respiro? spingere sulla psichedelia? darsi al twee-pop tout-court?) ma forse sembra l’unico modo per sfuggire al rapido oblio. Insomma, quello che si supponeva (o sperava) potesse essere il disco della definitiva consacrazione, è invece quello dell’assestamento e della standardizzazione in un limbo da istantanea noise-pop. (6.8/10) Stefano Pifferi Volkwerk Folletto - Volkwerk Folletto (I Dischi del Folletto, Maggio 2011) Genere: kraut Prima pagina: dedica di apprezzamento di Hans Joachim Roedelius. Già dice molto, se la si incontra appena si apre il sofisticato libretto interno di Volkwerk Folletto. Sembrerà retorico sottolinearlo, ma raramente il packaging è stato così determinante nel giudicare un disco. Non per scelta del recensore, ma per strategia di visibilità neanche troppo celata. Il CD di Volkwerk Folletto è incernierato su un sacchetto da aspirapolvere. Il progetto di Andrea Renzini e Gian Luca Patini è una sorta di détorunement, un lavoro dialettico. Ce lo ricorda, dopo la frase di Roedelius, un breve saggio di Toni Negri, personaggio quanto mai inserito in una militanza che lega la propria comprensibilità al passato. Per la proprietà transitiva, Volkwerk Folletto è un incrocio di immaginari, di culture. Un aspirapolvere italiano che sottrae linfa residuale da un quartiere operaio tedesco. La metafora si arricchisce, se consideriamo la duplice meccanicità operosa che ha permesso il krautrock di raggiungere picchi così alti. Da un lato, il sound. Il motorik come espressione musicale di una catena di montaggio. Dall’altro, la collettività al lavoro. La coincidenza di tante teste eccellenti tutte dedicate a costruire una pratica estetica. E chi la ama ne seguirà i paesaggi nel lavoro di Renzini. È un disco per chi si scioglie sempre quando ascolta un motorik filologicamente ragionato - quindi non squisitamente compilativo, ma esplicitamente derivato, con passaggi logici abbastanza evidenti. Cal Neva Lodge è da manuale Neu! virata in down tempo; Gilera è da manuale Neu! e basta. Lyndon Grinch è invece un thriller sottocutaneo. Un modo di esprimere l’inquietudine Klaus Schulzeiana, synth-etica e “analogetica”, ovvero basata sulla pratica dell’analogico come scelta quasi deontologica. Un lavoro di ricerca, potremmo dire, prima che di espressione. L’obiettivo è concentrare in un sacco di carta tutta la polvere cosmica di cui si è capaci (anche la meno cru81 highlight Yuck - Yuck (Fat Possum, Febbraio 2011) Genere: 90s indie Dopo il revival Eighties che ha contraddistinto l'ultimo periodo, era ora che un pugno di poco più che ventenni spostasse l'asse del tempo alla decade successiva, andando a spolverare il catalogo di Dinosaur Jr., Sonic Youth e compagnia. Daniel Blumberg (chitarra e voce), Max Bloom (chitarra e voce), Mariko Doi (basso) e Johnny Rogoff (batteria) sviluppano una nostalgia per quel sound senza aver vissuto in diretta il periodo a cui fa riferimento. Il loro è un mondo costruito nelle camerette, spulciando last.fm, discogs e compagnia web 2.0. Questa costruzione di un immaginario e di un mondo così preciso, trova corrispondenza nella sospensione dei confini, nei trattati di Schengen della musica via Internet per cui puoi suonare americanissimo anche se vieni dal nord di Londra. Aprendo con Get Away che sembra cantata da J Mascis, proseguendo per Shook Down che sembra un'outtake di Grand Prix dei Teenage Fanclub, passando per Operation che sembra venire fuori da Teenage Riot dei sonici newyorkesi, una Georgia che brilla di meravigliose sfumature twee, toccando financo la slaker-attitude nella sua coda di chitarre "grasse" di Rubber, l'atto compositivo dei quattro rimane lontano dal semplice esercizio calligrafico. Perché il grande pregio di Yuck è di farti pensare costantemente "Ehi dove ho già sentito questo arrangiamento? E questo suono di chitarra? E questo modo di cantare?", ma incastonandolo in dodici piccole perle di pop declinato lo-fi e shoegaze che non è facile trovare in giro. Per ora queste gemme luccicano di luce riflessa, ma non è detto che non prendano presto a rifulgere autonomamente. Alla voce "yuck" il Cambridge Dictionary recita "esclamazione che sta per espressione di disgusto". Aggiungete una nuova definizione, grazie. (7.2/10) Marco Boscolo da, in falò). Volkwerk Folletto dimostra di non voler seguire il consiglio di Toni Negri: “svuotate la poubelle dell’aspirapolvere”. E noi consigliamo a tutto il progetto di scrollarsi di dosso le giustificazioni intellettuali. Come quando si usa un elettrodomestico. (7/10) Gaspare Caliri Waines - STO (3Waines.Org, Aprile 2011) Genere: blues Arrivati al secondo album STO i palermitani Waines si confermano una delle novità più fresche e apprezzabili provenienti dall’estremo sud italiano. Avevamo qui già plaudito a suo tempo l’adrenalinico esordio tra blues e pop, STU, di un paio di anni fa; ora, forte di un missaggio oltreoceano (ad opera di Mario J. McNulty che ha lavorato per David Bowie, NIN, Laurie Anderson tra gli altri) il trio ritorna con un album compatto che fa del blues il suo credo assoluto. Due chitarre e una batteria per un suono potente, ve82 loce e adrenalinico che non conosce battute di arresto; siamo dalle parti di Led Zeppelin, Allman Brothers, AC/ DC, White Stripes, il Beck più sporco, ma anche il glamrock di T-Rex e le melodicità dei Beatles, oltre al blues del Delta di riferimento. Il tutto rivisitato alla maniera Waines, con tocchi pop e non solo, si vedano le pennellate glam, la onnipresente melodia sempre marchio di fabbrica del gruppo siciliano e i tocchi psych che rendono STO album godibilissimo e dal respiro europeo; la band ha avuto infatti un buon seguito oltralpe con il precedente lavoro. Una gradita riconferma per un gruppo ormai adulto. (7.3/10) Teresa Greco Who Made Who - Knee Deep (Kompakt, Aprile 2011) Genere: electro pop Lo senti che c’è un qualcosa di strano nell’ultimo disco dei tre danesi. Come una patina di sconforto, di darkness che quasi quasi la associ (molto lontanamente) a certi echi Doors (Every Minute Alone e la citazione testuale in Nothing Has Changed di People Are Strange). Il motivo è presto detto: scazzi con le major (passano da Gomma a Kompakt), problemi matrimoniali e pure case incendiate per qualche membro del gruppo. Visto però che gli LCD Soundsystem non li possiamo più ascoltare (se non altro per overdose), questo midlength è un promettente sostituto: una cosa che tira in ballo l’eredità di Murphy, coniugandola con Bowie (All That I Am), Hercules And Love Affair (Nothing Has Changed ispiratissima) e la New York del nightclubbing; come aveva qualche tempo fa anticipato il cantante Bon Homme in un suo progetto solista, qui si guarda molto a se stessi e il narcisismo alle volte può risultare fruttuoso. Rinchiusi in un hotel di Copenhagen, i tre hanno passato l’inverno 2010 a scrivere canzoni. Il set più riflessivo ce l’abbiamo sottomano, l’altra selezione - di cui non è stato pubblicizzato alcunché e che probabilmente verrà considerata il vero e proprio album uscirà entro la fine di quest’anno. I riferimenti alle poetiche di Talking Heads, Jimmy Somerville e Depeche Mode (tre pilastri su cui si basa da sempre il suono del gruppo) non scompaiono, ma vengono usati in maniera cosciente, selezionando citazioni sporadiche, puntando su una consapevolezza e maturità sonora che al terzo lavoro finalmente esce fuori e soprattutto sta in piedi. Connessioni dichiarate alla stampa con 'le produzioni psichedeliche dei 60' (We’re Alive, It’s A Miracle), progressività pop (555), il bel remix di Michael Mayer per Every Minute Alone e un sentire più pop (There’s An Answer con le vocals in quoting di Anthony) che smussa la direzione smascellata dell’etichetta di Cologna, sono tutti ingredienti che contribuiscono a rendere Knee Deep un lavoro pregevole. Da ascoltare in loop prima del full. (7/10) Marco Braggion Wild Beasts - Smother (Domino, Maggio 2011) Genere: art pop Chi pensava - non senza qualche buon motivo - che i Wild Beasts fossero l'ennesima effimera stellina nel firmamento del pop-rock d'Albione, deve ricredersi, almeno per il momento. Col terzo album Smother i quattro ragazzi di Kendal consolidano la posizione di prestigio guadagnata col buon sophomore Two Dancers. Ci riescono confezionando un programma che al solito intrattiene stemperando languore, dinamismo, melodramma, astrazione e giusto quel pizzico d'inquie- tudine ad insaporire. C'è molto soul ma come dire omeopatico, reso avatar di se stesso da un processo di ibridazione post-wave, di decantazione tra struggimenti art-pop e intellighenzia danzereccia, di trasfigurazione sulla spuma di ben meditate fantasmagorie androidi. Non è eccellente la scrittura, non sorprendono gli arrangiamenti, ma convincono le situazioni ed il loro susseguirsi piano, con morbide svolte stilistiche e d'umore, come un mantra lenitivo. L'alternarsi delle voci (quella tenorile - pomposa e soave - di Hayden Thorpe, quella baritonale di Tom Fleming) è il dualismo più evidente di un disco che gioca a far coesistere calligrafie così lontane così vicine, un carosello d'incontri utopici per combinazioni poco probabili eppure fruttuosi tipo Antony e Brian Eno, Tindersticks e Morrissey, David Byrne e Horace Andy, Mark Hollis ed Hercules And Love Affair. Tutto ciò accade con una levità sciropposa che finisce col suonare convincente traccia dopo traccia: l'ipnotica Loop The Loop, la svenevole Albatross, la palpitante Reach A Bit Further e la post-tribale Bed Of Nails su tutte. (6.9/10) Stefano Solventi Wolfram - Wolfram (Permanent Vacation, Marzo 2011) Genere: eurodance revival Che Wolfram Eckert fosse un pieno estimatore della dance anni '90 era già noto a tutti, a partire dalle prime uscite a nome Diskokaine e marfloW. Stupisce lo stesso constatare che il suo primo album metta in scena una plateale operazione di revival eurodance, con tanto di protagonisti del passato (tra le collaborazioni troviamo il Paul Parker di Right On Target e l'Haddaway (!) di What Is Love). Se il rispolvero di un'estetica ormai storicizzata può facilmente condurre a risultati poco apprezzabili, l'esperienza ci insegna che nel farlo si può altresì destare nuovo interesse: lo dimostrano in questi stessi giorni gente come Mirrors o Holy Ghost! in territori affini. Qui però è la fittissima girandola di collaborazioni a buttare troppo fumo negli occhi (quasi ogni traccia è un featuring). A nebbia diradata ciò che emerge è una sostanziale aderenza al classico tale-e-quale, con un piglio tanto fedele che alla fine si accartoccia su se stesso. A distinguersi rimangono i soliti Hercules And Love Affair in Fireworks (una bomba nu-disco degna di Blind), e Patrick Pulsinger, con l'electro house di Teamgeist in stile Shit Robot. C'è anche spazio per un paio di riuscite atmosfere ambient-electro (Roshi e So Fine All The Time con il krautismo vocoderato del buon Legowelt), ma il 83 resto è frutto di un innamoramento cieco verso sonorità che hanno più di qualche dito di polvere. E di cui, ci scuseranno i qui presenti Sally Shapiro, Sebastian Muravchik e lo stesso Wolfram, oggi si può fare volentieri a meno. (5.5/10) Carlo Affatigato Wombats (The) - This Modern Glitch (14th Floor, Aprile 2011) Genere: Indie-Pop Quando A Guide To Love, Loss And Desperation uscì, a fine 2007, gli Wombats parvero i fanalini di coda di un'ondata wave ridotta a puro biz per indie-kids da club londinese. Let's Dance To Joy Division ne fu una più o meno consapevole autoparodia e soprattutto un grande successo in un panorama pop inglese che, di fatto, aveva già lo sguardo altrove. This Modern Glitch ripete lo stesso canvaccio in fuori synch: episodi gradevoli - Jump Into The Fog e Tokyo (Vampires & Wolves) - altri trascurabili (Techno Fan), altri ancora evitabili (Walking Disasters) ma niente che sfondi o colpisca le radio. E così i difetti risaltano e il ritardo con i quale i ragazzi si presentano all'appuntamento con le synth wave è ancora più evidente. Ciliegina: il ricorso a certi 90s di Anti-D - archi scopiazzati da Verve o Oasis - che sembra la nuova Wonderwall senza avere i crismi nè i numeri per esserlo. Il prossimo disco degli Wombats sarà sicuramente un disco grunge. E arriverà in ritardo... (5.5/10) Zwischenwelt - Paranormale Aktivitat (Rephlex, Marzo 2011) Genere: dark electro Annunciato già da un anno, vede finalmente la luce il progetto di Heinrich Mueller, ovvero il moniker deutsch di Gerald Donald, già noto alla Rephlex per le produzioni a nome Arpanet e ovviamente Drexciya. L’album ispirato alle immagini e alle idee di una dimensione parallela nasce dalla collaborazione tra il detroitiano e un trittico di gelide donne electro, la DJ newyorchese Susana Correia, la producer spagnola Penelope Lopez e la vocalist tedesca Beta Evers. I quattro esplorano quella tabula rasa elettrificata che dalla centrale elettrica di Kraftwerk-iana memoria porta alle morbosità pre-Techno dei Throbbing Gristle di 20 Jazzfunk Greats (Enigmata), il tutto dominato dalle classiche fisse di Donald: atmosfere da dopobomba carpenteriano, coolness da deserto urbano, cold wave con allusioni fetish e para nazi. Lo scavo nel pre-techno 80s della Rephlex continua dunque con un lavoro affascinante, senza compromessi e destinato agli ultra puristi. Una sola traccia (Telemetric) in cassa quattro, il resto però evidenzia anche la mancanza di una presenza vocale di carattere e esperienza. (6.5/10) Edoardo Bridda Simone Madrau 84 85 Speciale no col ritmo, con la tranquillità di chi pare non stia facendo la minima fatica ad alternarsi tra chitarra, tastiere e parco giochi d’effetti portatosi da casa. Dave Konopka è forse il componente del gruppo che fa un vero salto di qualità dopo il divorzio da Tyondai. Dimostra di saper straziare le corde del suo basso come mai prima d’ora potendosi permettere soli ed assoli e reclamando spazio per loop e distorsioni capaci di durare minuti e minuti. Infine John Stainer, già da definirsi mostruoso, ora va oltre. Batteria che conclude il trasloco al centro del palco, acquistando più spazio e ancor più importanza nell’economia del live. Sinceramente non ho contato quante camicie abbia sudato e cambiato o quante bottigliette d’acqua abbia scolato, ciò che fa semplicemente impressione è quanto pesti duro e con quanta precisione riesca comunque ad “assestare” ogni colpo. La dipartita di Tyondai Braxton, però, non solo ha lasciato i colleghi senza il quarto per il poker, ma li ha pure privati della voce. E perso il vocalist cosa accade? Chi non avesse ancora ascoltato i singoli reperibili in rete avrà 3 sorprese, come successo al pubblico del Parenti quando, alle spalle di Jon Stainer, due pannelli fino a quel momento semplici elementi della scenografia, s’illuminano e sulle note di Sweetie & shag mostrano il faccino di Kazu Makino (voce dei Blonde Redhead) diffondendone la voce. Live Report Ice creamche gode della partecipazione di Matias Aguayo e My machines con ospite Gary Numan seguono il medesimo colpo di scena. Trovata che lascia un po’ straniti: chi si era abituato a Tyondai, si ricorderà e reclamerà sempre la sua singolarità, la sua voce posseduta, sostituirlo con playback in 2d non convince del tutto, nonostante l’effetto sorpresa. Anche Gloss drop sembra muoversi su binari diversi dal precedente e ormai consumato (dopo 4 anni di ribalta) Mirrored. I brani presentati, non fosse per la devastante batteria, lasciano da parte la metodica distruzione che era marchio di fabbrica Battles, per guadagnare melodie e ritmi da electro-pop. Ma allora vuoi vedere che chi s’è presentato alla cassa semplicemente per ballare, non aveva sbagliato luogo ne gruppo. Marco Canepari Architecture in Helsinki 26 Aprile / Magnolia / Milano Mi ci ero appassionato a loro, vittima del tanto carino quanto, in fin dei conti, inoffensivo passato. Mi ci ero appassionato al punto di non credere a quanti mi descrivevano la loro deriva disco pop anni ‘80. Che il pop degli Architecture in Helsinki era una cosa, il pop plasticone di trent’anni fa un’altra. Purtroppo era invece tutto vero. Ascoltato il disco, visto il concerto che lo presen- Architecture in Helsinki Battles Battles (The) 17 Aprile / Teatro F. Parenti / Milano No, Atlas non l’hanno fatta. Spiace deludere subito, così senza introduzioni ne mezze misure, ma dato che sembrava l’unica domanda le bocche presenti al teatro Parenti pronunciassero, meglio mettere le cose in chiaro. Ed essendo Atlas l’unico brano che (e non esagero) l’80% delle bocche al teatro Parenti conoscessero, in un certo senso è stata una goduria. Anche se, confesso, un concerto dei Battles senza poter gustarsi il loro singolo di maggior successo, lascia un po’ affamati. Con quella sensazione da “manca qualcosa”... Basta saperlo per le prossime volte. Il pericolo di chiamare gruppi così “estremi” per concerti così popolari (prezzo ottimo e teatro stracolmo di conseguenza, senza il minimo spazio per ballare, muoversi, respirare) è sempre il solito: quasi la totalità del pubblico non sa a cosa sta andando incontro. Se poi, 86 nella scheda di presentazione, oltre ad Atlas, si richiama solo al singolo dato in pasto ai vampiri d’Eclipse, si può immaginare chi si sia presentato all’ingresso del teatro. Gente che pensava ad un nuovo fenomeno dark, altri esaltati per poter finalmente ballare Atlas, altri ancora che “i Battles ci piacciono, li hanno passati anche su radiodj!” Il solito spreco in fin dei conti, perché la serata milanese è davvero particolare per il trio: presentazione ufficiale del prossimo nascituro di casa Warp e una delle ultime prove generali prima di portare in giro il carrozzone del tour. Qualche domanda sulla resa di un gruppo che poco più di 6 mesi prima ha perso il suo, se è concesso scrivere, frontman è obbligatoria. Ma la risposta, se un minimo li conoscete, è anch’essa inevitabile: i 3 rimasti si fanno un culo doppio. Ian Williams sul palco sembra tornare bambino, espressioni goduriose ogni volta che libera un sample, mani lunghe che si muovo87 tava... deriva è anche termine simpatico: qui s’affonda lentamente. Hai voglia a presentare un regalo avvolto in carta sbarluscichenta, mille pailettes e glitterato da testa a piedi: lo specchio per allodole può funzionare la prima mezz’ora, alla lunga però il trucco si squaglia, cola e mostra zampe di gallina, rughe e occhiaie. Peccato perché il Magnolia s’era addobbato a festa: strobo e led che sembrava il polline degli alberi del parco dell’Idroscalo avesse invaso anche il locale, pienone (anche se ormai a Milano non sai più quando ci sia vero pienone o quando le autorità abbiano intimato di non far più entrare gente) e sfilata di costumi da parte del pubblico, che Arlecchino veste sobrio a confronto. Ma doveva essere il tripudio del “pensapositivo” e il gruppo di Melbourne la sua voce, quindi niente in contrario. Il parere però cambia quando comprendi che dal “pensapositivo” si sia passati a uno sconsolante “non pensare che fai prima”. E ancora più sconsolante vedere il pubblico seguire alla lettera l’indicazione. Balli sincopati su basi da Ricchi e Poveri; maschere da fan della prima ora, poi però, appena partono le note di Do the whirlwind, tutti a chiedersi che canzone fosse mai quella; sorrisi di ricambio a 32 denti quando Cameron Bird si mette a discorrere del più e del meno salvo poi impallidire al primo sintetizzatore che comincia a fare il suo compito. Dire che il gruppo non faccia il suo dovere sarebbe però un crimine: gli Architecture in Helsinki suonano e suonano bene assieme. Cameron Bird e Kellie Sunderland si distribuiscono sapientemente le parti vocali, dandosi cambi che neanche perfetti staffettisti. Chitarre e tastiere (3 tastiere) van d’amore e d’accordo ricreando atmosfere da Duran Duran dei tempi migliori (se ce ne sono mai stati). Resa dei brani dell’ultimo album curata nei minimi dettagli e si nota. Sembra quasi un concerto in playback tanto tutto è perfetto, troppo perfetto, quasi di plastica. E te ne accorgi quando vengono riproposte vecchie conoscenze: la già nominata Do the whirlwind, Wishbone. Altro livello, l’imprevedibilità, la gioia di un arrangiamento un filo differente. Da parenti stretti degli Of Montreal a brutte copie degli I’m from Barcelona. Marco Canepari Thousands 06 Aprile / Grand Social / Dublino Il Grand Social è un locale affascinante sito nel centro di Dublino, a metà strada tra il classico pub, caldo ed accogliente, e una sala da ballo campagnola, con teli colorati attaccati al soffitto illuminati a tratti da file di 88 lampadine. Questa è la location del debutto irlandese dei Thousands. I Thousands, duo squisitamente folk di Seattle, al secolo Kristian Garrard e Luke Bergman, sono da poco usciti con il loro primo album, The Sound of Everything, un lavoro basato su un solido finger picking e intricate melodie vocali, semplice e diretto all’ascolto, che è la perfetta premessa per un concerto tranquillo, velato qua e là da un po’ di malinconia. Dopo l’esibizione di un folksinger locale in apertura, Owensie, ecco i ragazzi salire sul palco: due chitarre acustiche e due microfoni sono tutto quello che serve, oltre a poche parole un po’ impacciate di ringraziamento. Poi un’ora e mezza di musica suadente e affascinante, un’incantata parentesi atemporale, lontana anni luce dal caos di Temple Bar e dei suoi pub affollati di turisti. I pezzi di The Sound of Everything scivolano via uno dopo l’altro, senza incertezze né intoppi, nonostante la complessità di alcuni passaggi. Sembra di essere a un house concert vista l’intimità della serata e l’ambiente relativamente ristretto. Il pubblico tiene il fiato sospeso per non fare rumore, creando un silenzio ovattato in cui è possibile distinguere ogni più piccola sfumatura della musica. Pezzi come Sun Cuz, Love Won’t Come, Red Seagullis, On and On, Mtses III, già piacevoli nella versione dell’album, sembrano addirittura più convincenti dal vivo. Garrard e Bergman, come due novelli Simon & Garfunkel, stregano gli ascoltatori con le loro note cristalline, aggiungendo alla scaletta anche un paio di inediti. Certo, sulla presenza scenica c’è forse ancora un po’ da lavorare, ma sull’impatto che le canzoni dei Thousands hanno sul pubblico non c’è niente da ridire: o le ami per la loro semplicità, o le odi per il medesimo motivo, e il pubblico della Grand Social le ha sicuramente amate. Francesca Ferrari James Blake 21 Aprile / Magazzini Generali / Milano Spostato all’ultimo minuto dall’oscura location a Lambrate ai rodatissimi Magazzini Generali (con un pubblico a occhio e croce raddoppiato rispetto alle selezioni fatte via Facebook), il primo e - pare - unico concerto italiano di James Blake per il 2011 è certamente un evento. Ci sono i musicisti (senza troppo sporgere il collo intravediamo tra la folla gli Aucan e - ci dicono - i Crookers; becchiamo anche un paio di amici produttori wonkytaliani), ci sono gli addetti ai lavori, ci sono i dubsteppiani di lungo corso, ma soprattutto i newbie infatuati di questo dubstep arty tagliato con il bisturi per piacere agli indie cresciuti con i Radiohead prima e Burial poi. chiassoso sui pezzi più slow e più soft). James insomma alla fine non delude, anche perché, oltre i feticismi produttivi e timbrici, i pezzi sono quelli e sono belle canzoni, punto, basta una buona interpretazione, intensa, sentita, per esaltarle. Resta però l’idea che per quello che propone, soprattutto in questa vesta suonata (questo trio stripped down voce/tastiere, chitarra/effetti e batteria/pad), James dovrebbe fare concerti alle tre di notte in club per massimo cinquanta persone. Piccola curiosità: vediamo James sfrecciare tra il pubblico prima del concerto almeno un paio di volte, altissimo, efebico, inglesissimo nella sua camicia di raso bleu, ma nessuno pare riconoscerlo. Gabriele Marino Belle And Sebastian 14 Aprile / Alcatraz / Milano james blake Dopo un gruppo spalla non meglio identificato (un duo abbastanza ectoplasmico che suona post-rock ambient), James parte - in strategico ritardo - con Unluck. E parte abbastanza moscio. Gli ci vogliono un paio di pezzi per scaldarsi ed entrare in serata. Si accende con il mantra di I Never Learned To Share e con una Lindisfarne che si scopre molto folkie con quell’arpeggino di chitarra. Il pubblico va un po’ a pilota automatico, applaude tutto con convinto entusiasmo, ma già da subito a metà sala si parla come si fosse al pub, e per svegliarlo dall’automatismo - e metterlo in riga - ci vuole un lungo pezzo di dubstep burialiano da dancefloor, che finisce con la cassa pestata in quattro. Ottima mossa. Il set è breve come previsto, un’oretta scarsa, con la tracklist dell’album passata quasi tutta in rassegna e il cuore di tutto, ovviamente, in una Limit To Your Love che ormai è cosa da accendini. Amplificazione che tutto sommato regge, nonostante i superbassi ogni tanto ronzino, ma è proprio la proposta di James ad essere messa alla prova, e ad uscire provata, dal passaggio sul palco, con tutti quei dettagli e quelle specificità che rendono speciale il disco che finiscono fuori fuoco e stingono. Eravamo preparati dai molti video visti sul Tubo (in location non sempre azzeccate, tipo mega-festival all’aperto sotto il sole del primo pomeriggio), con uno scenario non troppo diverso da quello dei Magazzini (ivi compreso il pubblico “Quindi...t’è piaciuto?” “Ma si dai, anche se rimpiango un po’ le atmosfere da cameretta” Al termine di un’ora e mezza di concerto, il succo è tutto in queste battute rubate all’uscita dell’Alcatraz. Un gruppo che cresce e invecchia (bene). Che compie 15 anni di carriera, che dai Pastels passa alle matite colorate sino ai pennarelli di più largo consumo. E viene accolto da un seconda generazione di fan, giovani giovani, che, come nota Stuart dal palco, “questa canzone è del ‘97, forse molti di voi qui sotto son troppo giovani per conoscerla”. È un Alcatraz tutto esaurito che accoglie i Belle & Sebastian: biglietteria chiusa due ore prima del concerti, tagliandi esauriti e bagarini, concetto incompatibile col gruppo scozzese, a pasteggiare sulle finanze di chi cerca d’entrare comunque. Ed essendo la loro unica data italiana, tutto previsto dato il successo di Write about love. Il resto è pop. Ma un pop che comincia ad avere qualche difficoltà a definirsi ancora indie. Un pop che, come anticipato, trasloca dalla cameretta e viene collocato in salone, davanti a tutti, lucidato a puntino. I Belle & Sebastian, dal vivo in particolare, tendono alla perfezione. Arrangiamenti che cambiano di poco gli equilibri ma li puntualizzano, accompagnamenti d’archi che non vogliono innalzarsi a vette liriche ma semplicemente completare i vuoti e un impeto e un ardore che vanno sbiadendo concerto dopo concerto. Inevitabile notarlo. Ma in fondo non è fiacchezza di motivazioni, è scoprirsi e riscoprirsi pacati. Perché di questo si parla comprando un biglietto per vederli in carne, ossa chitarre e archi. Se ricerchi tranquillità, pace, sai che le troverai: marchio di fabbrica. L’atteggiamento della band non è mutato nel tempo, non 89 cercano di trascinarti sul palco (nonostante a due fortunate sia capitato nel corso della serata); t’accolgono, ti abbracciano, scambiano parole e confidenze (per gli amanti di gossip Stuart è sposato con una catanese), ma ti lasciano in platea a bearti nei tuoi pensieri più morbidi. Ciò per cui li benedici tutti, uno a uno, da Stuart Murdoch a Sarah Martin è l’offerta di spunti. Ogni volta che la discografia s’arricchisce di un capitolo, sai che troverai pane per i tuoi sentimenti. Le eccezioni son state rare. E così via, un’ora e mezza di note per rivedersi lungo 15 anni. Si comincia da dove dovevano I don’t see it coming (primo brano dell’ultimo album) e si conclude con Me and the major (anno di grazia 1997). Nel mezzo passa di tutto: passano 7 album, 2 ep, predilezione per Dear catastrophe waitress ma anche chicche con un decennio abbondante sulle spalle come I’m waking up on us, Legal man o una certa My wandering days are over, tuffo al cuore da “c’eravamo tanto amati”. Passa e viene metabolizzata senza rigetti l’opera ultima, con l’esecuzione di I’m not living in the real world con coro in falsetto del pubblico tutto, “aizzato” da Stevie Jackson, come uno dei momenti più alti della serata. Sarà poi che solo 4 brani dei 22 suonati siano stati presi da Write about love, sarà che la seconda generazione di fan, appiccicati alla transenna sotto il palco, è comunque educata (musicalmente) bene, sarà che Sleep the clock around l’hai ormai “consumata”... Però, in fondo, non ti senti più in dovere di preservarli dalla massa. La massa li ha ormai raggiunti: inevitabile, quindi, che in cameretta non sia rimasto più spazio. Marco Canepari Live Footage 13 Aprile / Jesce Sole / Viterbo La resistenza passa anche per l’appropriazione di spazi o la creazione di eventi dove l’asfittico panorama sembra essere appena stato attraversato da Attila. Questo in definitiva ciò che i ragazzi di Allimprovviso – gente del giro Winter Beach Disco e della netlabel SubTerra – stanno facendo da un po’ di tempo a questa parte nella depressa e “pidiellizzata” Viterbo con concerti, letture, spettacoli tra situazionismo di provincia e azione diretta in luoghi non canonici (negozi di thè, cantine, vicoli del quartiere medievale) ma altamente affascinanti. In questa serie di iniziative si colloca anche il live dei Live Footage, cinematico duo newyorchese in questi giorni in pieno tour europeo, già apprezzato col fulllength Willow Be qualche mese fa. La formula minimal(classical)-electro di Mike Theis e Topu Lyo da vivo acquisisce però sfumature ulteriori facendosi apprezzare per coinvolgimento e grado di evocazione. 90 Elegantemente fasciati in sobri vestiti giacca & cravatta, l’uno (Theis) a batteria, tastiere e live-processing, l’altro (Lyo) a violoncello, loops e effettistica varia, i newyorchesi si calano perfettamente nel mood dello scantinato medievale che li ospita e tirano giù un set di un’ora e mezza in cui atmosfere lounge e sperimentazione strumentale, delicatezze dreaming e visionarietà cinematografica, post-rock concreto e umorale jazz in bassa battuta si mescolano in un flusso sonoro visionario ed evocativo. Musicisti altamente preparati e appassionati, capaci di conquistare un pubblico attento e curioso anche con rendition “neo-classiche” e credibili di pezzi pop (Janet Jackson e Rhianna). L’ennesima dimostrazione che la buona musica non passa per nomi altisonanti o grossi investimenti, ma solo per passione e creatività. Quella che i Live Footage e i ragazzi di Allimprovviso non hanno fatto mancare stasera. Stefano Pifferi Anna Calvi 10 A prile / B ronson / R avenna Inizia alle 23 e dura solo quarantacinque minuti l’attesissimo concerto di Anna Calvi al Bronson di Ravenna. E’ questa l’unica pecca di un live intenso come ci si sarebbe potuti aspettare e perfettamente rappresentativo di un omonimo esordio che spedisce di diritto la cantante inglese nell’empireo dei potenziali “big”. Glaciale, irresistibile, raffinata come una ballerina di tango con camicia rossa e capelli imbrillantinati, la Calvi sembra quasi un replicante. Un Roy Batty dai sorrisi tenui e talvolta dovuti che non sai bene se stia li a recitare, soffra di una timidezza cronica – ma è difficile pensarlo sentendola cantare – o ci creda talmente da riuscire a estraniarsi al pari di una Josephine Foster. A dare una mano una chitarra supplementare, la batteria di Daniel Maiden Wood ma soprattutto una Mally Harpaz metronomica e fascinosa all’armonium e alle percussioni. Pochi colori ma fondamentali nell’ottica di un suono che nonostante l’ampio ventaglio di riferimenti – per tutti i dubbi del caso c’è la recensione di Stefano Solventi – si impone confini da rispettare legati all’essenzialità del blues e del crooning più umorale. Come dimostra una iniziale Rider To The Sea da deserto morriconiano in cui spiccano anche le doti tecniche della Calvi alla chitarra o la cover della Surrender di Elvis Presley impegnata a svelare insospettabili - ma plausibili - legami di parentela. Se Suzanne And I è Shirley Bassey traviata dai Calexico, Desire si rivela il previsto “riempipista” del gruppo, con quei crescendo à la Arcade Fire fin troppo esposti che il pubblico pressato di un Bronson al limite del sold-out dimostra di apprezzare. Già, il pubblico. La Calvi piace e a tutte le latitudini: dall’indie-boy sul pezzo con la maglia a righe e il ciuffo stiloso all’ascoltatore di RDS, dalla femminista alla femme fatale sofisticata, dal rocker attempato con l’ormone nervoso al giornalista meno inserito. Per l’eleganza ricercata – e calcolata - misto di avvenenza e inquietudine, ma soprattutto per una voce impeccabile capace di tracciare un trait d’union esemplare tra tradizione americana, canzone europea e quella sensibilità legata al “bel canto” che alla fine è soprattutto roba nostra. Alle volte basta un cognome familiare su un profilo nordico a farcela ricordare. Fabrizio Zampighi Massimo Volume 09 Aprile / Covo / Bologna L’aura dei Massimo Volume necessitava di una doppia serata celebrativa, un weekend tributo organizzato da uno dei locali storici della loro Bologna, e dunque l’asfissiante Covo di un aprile già troppo sudato. E così è stato. Il venerdì ha visto compiere quel tanto lieve incrociarsi tra i mai così lisergici Bachi da Pietra e i padri fondatori Massimo Volume: un intrecciarsi mai così gradito, degna conclusione di un tour condiviso a dir poco entusiasmante e di uno split delizioso tra scambi di cover e inediti che è già classico. Il sabato vede invecei fan come illustri protagonisti, Mimì Clementi e compagnia declamante a fare da jukebox: un modo per ripercorrere i “giochi d’ombra e gli altari di luce viva” dei Nostri. La consueta passeggiata tra la folla cui sono – grazie a Dio – costrette le band al Covo, introduce l’ipnotico giro di basso di Atto Definitivo, storia di stenti e precarietà, la voce di Clementi trema sommersa dalla marzialità carveriana del cantato. Una partenza quasi delicata, volutamente intimista, ben testimoniata dal racconto di puttane e tradimenti di Senza un posto dove dormire; uno scandire lento ed efficace come fosse una condanna a morte, una feroce litania che ben riassume la poetica dei Massimo Volume: l’ineluttabilità delle nostre esistenze, la voce ancora incatenata di Clementi che deve fare ancora i conti con cose di cui ha una conoscenza solo vaga, “la solitudine ad esempio”. Il rinnovato manifesto di questi anni Dieci, Le nostre ore contate, restituisce i versi definitivi, “io non ti cerco non ti aspetto ma non ti dimentico”, quasi a voler ristagnare nelle cattive abitudini cui ci hanno costretto: l’impossibilità delle parole si sciolgono nel primo sorriso della band, finalmente pronti a farsi celebrare. Egle Sommacal – sempre perfettamente assistito dall’allievo Stefano Pilia – dà vita all’urlo scheletrico di Meglio di uno specchio, nessuna pausa, pochi respiri e Il primo dio sconvolge e si riflette nel grido sold out del Covo, una frustata, quasi un obbligo a urlare nella pioggia. La recente – e già inno – Litio vede realmente Clementi declamare come fosse un De Niro allucinato (ma molto più violento), Pilia si contorce sui ritmi di Vittoria Burattini, la precisione fatta donna, Sommacal sostiene il tutto travestendosi da rumorista. Coney Island è un respiro iniziale nella sua aria così trasognata, deflagrante e incestuosa – vedi l’intreccio di chitarre – nella sua coda improvvisa e infinita, il suono fatto circolarità, un fantasma prende finalmente forma dai ricami chitarristici, Clementi regala sguardi come macigni alle prime file. Dall’innocuo Club Privè viene scelta solo la sontuosa e criptica Seychelles ’81, la distonia travolge ed è come essere in una chiesa colorata eppure alcolica, le poche luci intasano le menti. Poi succede l’imprevisto, viene sbattuta in faccia al pubblico una commovente Fuoco Fatuo, nelle prime file un uomo - senza capelli solo basette - s’appoggia al muro e piange, una ragazza lo consola, “è questo che siamo?”. Mimì Clementi lo chiama presentandolo come, “Leo, il protagonista delle mie storie”. Leo sale sul palco e ringrazia tutti, dice che i Massimo Volume sono macchina vitale e necessaria, cita Karol Wojtyla parlando di scopate, tutti ridono. Il protagonista di quasi tutte le storie della serata ha un volto, manca solo Rigoni e il suo inveire contro il mondo. L’acustica Stagioni incanta così delicata e rasserenata laddove Ororo è purezza primordiale, perfetta conclusione, qualcosa di simile alla caduta degli Dei: c’è chi salta, chi si commuove, chi si rannicchia, nessuno si guarda indietro. I live dei Massimo Volume stanno diventando qualcosa di necessario, visti i tempi apatici, qualcosa di irrinunciabile, perché a differenza di tutte le altre band italiane restituisce solo poesia ed essenzialità, poche cose di cui tutti i presenti sembravano aver bisogno. Federico Pevere 91 Gimme Some Inches #16 Questo mese a Gimmes 7 e 12 pollici direttamente da Buzz Aldrin e Movie Star Junkies, Vulturum e EMA, Naked On The Vague e Fresh & Onlys and many, many more. Che il giradischi sia con voi... Torna alla grande la Hell Yes! di Marco Rapisarda dopo che quest’ultimo si è divertito con i Crocodiles prima e con gli Smart Cops poi. E se altrove leggete del primo vinile lungo (E.S.P. dei Love Inks, a cui faceva da intro il 7” Blackeye) la specialità della casa resta sempre il 7”, spesso e volentieri in versione single-sided. Non sfuggono perciò alla regola di casa HY gli ultimi due nati. Cover The Sky, il 7” delle promesse Reading Rainbow – Robbie Garcia e Sarah Everton da Philadelphia – è uno zuccherino psych-rock ruvido e umorale quanto basta con la Everton a impreziosire il tutto con la sua nenia da fata in cui rievoca slanci emotivamente shoegaze (“Clouds at night, they cover the sky. But I still know the stars are behind”). L’altro 7”, in uscita proprio in questi giorni, è invece appannaggio di un nome molto caldo: EMA, il moniker dietro cui si cela l’ex Gowns Erika Anderson. E per confermare ciò che si dice della bionda chitar92 rista americana, e cioè che sia la più dark tra le nuove chanteuse in solo, ecco l’ennesima cover che nessuno si aspetterebbe. Il lato A del singolo vede infatti EMA cimentarsi nella rilettura di un pezzo di Danzig, Soul On Fire dal debutto omonimo dell’ex Misfits. E la biondina non sfigura affatto al confronto: con la sua voce oscillante tra profondità baritonali e slanci da rocker provetta e una produzione cavernosa rende al massimo quella che è un vero e proprio omaggio, oltre che un gustoso anticipo dell’upcoming Past Life Martyred Saints. Passando a distanze più ampie è la volta di una nuova puntata extra-confine per progetti collaterali italiani. Stavolta sono i Buzz Aldrin a gemmare un duo accasato presso la londinese Robot Elephant: nome in codice, Husband; personale ridotto al minimo (Gianlorenzo e Chiara). Musica? Beh, qualcosa di vagamente vicino alla casa madre è rintracciabile: soprattutto l’acce- so versante ritmico che impreziosisce i due pezzi che danno titolo al 12” Love Song/Slow Motion. Uscito in splendida edizione limitata “marbled green” per il Record Store Day e previsto per la metà di maggio il 12” (anche in versione digital con 4 prescindibili remix tra italodisco, hypna-pop e altro, opera di Soft Metals, Mascara, Sifaka Kong e Wolther Goes Stranger) sciorina due pezzi mozzafiato. La nenia post-tribal psych di Love Song e la tempesta ritmica di Slow Motion in cui sembrano dei Liars insieme invasati e indolenti, dicono di un progetto che non può non produrre un full-length. È il mondo a richiederlo a gran voce, ma nell’attesa ci si può gustare il 7” split Buzz Aldrin/Movie Star Junkies appena rilasciato dalla sarda Here I Stay. I primi in A Monster Gun Into The Lover’s Mouth triturano il r’n’r per come potevano intenderlo gli Stooges alla maniera dei Suicide se il duo Vega/Rev invece del blues avesse preso il punkrock come materia prima. Ossessivi, ipnotici e luridi, con tanto di organo. Rispondono con Branches From My Arms i torinesi alla loro maniera: con un delirio post-caveiano urlato e sgraziato, eppure fottutamente intrigante. Un altro 12” meritorio dell’attenzione generale è il ritorno dei tre Vulturum (Alessio Leone, Luca Battaglia e Nicola Ferloni). Vivi Di Luce Riflessa, 12” gemello di Vineta e pubblicato da Sangue dischi e Trips Und Traume, mostra il consueto psychedelic slow-core tra spasmi atmosferici e nuove, affascinanti visioni. Se la lunga title track è un trip malvagio tra post-core e lentezze semi-doom, Voraussage è, nelle loro parole, “una previsione, una profezia, una versione alternativa di qualcosa di là da venire” che si snoda tra chitarre acustiche, sintetizzatori e oniriche visioni. Bel passo avanti. Voliamo ora verso il cuore dell’underground statunitense, ovvero la Grande Mela da cui arrivano un paio di EP pubblicati di fresco, neanche a dirlo, dall’inesauribile Sacred Bones. Il primo vede il ritorno su media lunghezza degli australiani Naked On The Vague che continuano nella direzione presa con l’ultimo full-length Heaps Of Nothing su Siltbreeze. Twelve Dark Noons offre sei brani di postpunk a tinte scure, vagamente onirico e arabeggiante, in cui le voci di Lucy Cliché e Matthew Hopkins si alternano e si susseguono lungo i sottili tappeti dei riff dell’elettrica e i ritmi spezzati della batteria sullo sfondo. Il secondo mini rilasciato dalla label di Brooklyn è invece appannaggio di quei Fresh & Onlys il cui Play It Strange tanto ci era piaciuto. E proprio dall’album edito da In The Red lo scorso autunno riparte Secret Walls, ma fin da subito la title-track ci svela una nuova declinazione del sound della band: arrangiamenti pop quasi barocchi, melodiche cavalcate mid-tempo, nessuna concessione alla frenesia garage. Un interessante punto di svolta per future evoluzioni, anche se doppiare il sopra-citato LP non sarà facile. In patria invece ci attende la cosmopolita Shit Music For Shit People che rilascia Sliding Deck, nuovo singolo dei Love Boat in cui gli isolani più amati dello Stivale snocciolano quattro pezzi dal tipico tiro garage-folk solare e spigliato che ha già avuto modo di fare la felicità dei rockers di mezza Europa grazie all’album pubblicato su Alien Snatch! un paio di anni fa. Ma anche la label romana raddoppia, questa volta con la tape di debutto di un nuovo progetto tutto al femminile. Corpus Christi è infatti il frutto della nuovissima joint venture tra Cristina dei Capputini ‘i Lignu e Tina degli Intellectuals, al debutto in speciale combutta con l’americano Sam Crawford, qui ospite al banjo. Sì perché le ragazze di Roma rivisitano in versione casereccia (è il caso di dirlo) una bella manciata di classici country, partendo dalla Carter Family e approdando a Johnny Cash, passando ovviamente per Hank Williams. Per chi ha nelle orecchie, e nel cuore, l’immortale sound degli Appalacchi, Charity And Chastity è un ottimo modo per rispolverare vecchi amori mai sopiti. Stefano Pifferi, Andrea Napoli 93 Re-Boot #15 Un mese di ascolti emergenti italiani Nostalgie wave, un pizzico di cantautorato destabilizzante e tanta voglia di psichedelia: la consueta immersione mensile nelle acque pescose e irrequiete del rock emergente italico. Siamo tra la Sicilia e Roma, con il mondo immaginifico di El Senor Pablo dalla provincia di Agrigento; un EP omonimo (El Senor Pablo 1,autoprodotto, 6.9/10) di 5 pezzi in cui cantautorato psichedelico e ironico fa mostra di sé in modo arguto. Echi Barrett-iani e Beatles psych a volontà, tra elefanti rosa, scarafaggi su strisce pedonali, scarabei, boschi di bambù e quant’altro, in un elenco snocciolato con molto divertimento. Una buona verve compositiva e una ispirazione fervida a livello di testi fanno di questo EP un discreto biglietto da visita. Bravo. Ci spostiamo nel trevisano con Lullabier, alias Andrea Vascellari, titolare della neonata netlabel, specializzata in musica cantata in italiano, che pubblica il suo album Mai nulla di troppo (ViVeriVive, 6.9/10). Siamo in territori di psichedelia ’90 tanto cari a Galaxie 500, Low, Red House Painters e 94 compagnia slow folk. Atmosfere sognanti e mantriche, con slowcore e shoegaze a farla da padrone; il cantato si adatta perfettamente alle melodie ipnotiche, e anche dove talvolta prevale venendo fuori dalla musica con più decisione, il risultato è godibile. Chi ha ragione non ha bisogno di gridare, come recita la filosofia dietro al progetto Lullabier. l quintetto bresciano The Churchill Outfit è in pista da poco più di un anno ma possiede già un sound ben smerigliato, stringendo le coordinate sul rock psichedelico della cuspide Sessanta/Settanta con un intreccio ben acido di chitarre e tastiere. Nell’ep di esordio In Dark Times (Produzioni Dada, 6.8/10) l’attitudine per una visionarietà calda, più atmosferica che trafelata, li porta a tratteggiare intensi bozzetti a metà strada tra Al Stewart e Pink Floyd (The Circus In Town), a riesumare certe sbri- gliatezze Vanilla Fudge con tentazioni prog (Dark Times) per poi dimostrarsi capaci di sciorinare contemporaneità indie nella conclusiva Mr. Gavin, qualcosa tipo i dEUS colti da languore Stephen Malkmus. Se terranno a bada le fregole nostalgiche potranno fare buone cose. Tornano a distanza di pochi mesi i Poptones, stavolta con un album tutto intero ancorché stringato, quasi un ep lungo a dire il vero. Ma tant’è: questo The Major Man (Miacameretta/Musica per organi Caldi, 7.1/10) ribadisce il piglio indie dei tre frusinati aggiungendo una più ficcante e disinvolta fregola wave/psych. Dietro il bailamme acido e le manipolazioni sintetiche s’intravede sempre un ghigno tra il beffardo e l’insidioso, l’arguzia facinorosa e un po’ invasata di chi risale alla spinta primordiale del garage conscio delle strategie destabilizzanti messe a punto da tipi poco raccomandabili quali P.I.L., Stranglers, Clean, Jon Spencer e Clinic. Una High Rise tanto rutilante quanto catchy ed il patema surf trasfigurato di Baby sono forse i momenti migliori d’una scaletta tutta sinapsi e fulmicotone. Bravi. Fin troppo radiofonico nei suoni, ma col timone decisamente orientato verso l’America che ci piace. Alla voce di questo Wild Days (autoproduzione, 6.0/10) sembra di sentire Eddie Vedder e invece c’è Davide “Dave” Marella, uno che sulla discografia dei Pearl Jam deve essersi fatto ben più che le ossa. Anche se il disco, tra il già citato gruppo di Seattle (The Deepest Feeling), i R.e.m. (Let You Go) e il Bruce Springsteen periodo E-street Band (Waiting For The Wind To Come) si auto-parcheggia su un classicismo stentoreo e poco propenso ai salti nel vuoto. Entro i limiti formali del caso, comunque, tutto funziona a dovere, anche se alla fine si tratta più di materia di studio appassionato che di effettiva reinterpretazione dei canoni. I Karate Lessons arrivano da Cagliari e trovano il modo di mediare tra programming in odore di glitch/dubstep, post rock e wave britannica. Quattro i brani dell’EP Will Improve My Self Confidence (autoproduzione, 6.5/10), con una Snake Rat strumentale che s’imparenta di diritto con la produzione dei Joy Division, una Gulliver Weight circolare che richiama i Radiohead di un paio di ere fa, una Old Grudge rubata alle chitarre di Egle Sommacal dei Massimo Volume e vicina all’ambient. Si paga pegno solo in chiusura, con una cover di Decades meno efficacie dell’originale ma coerente con le aspirazioni del disco. Copertina e art work sensazionali per i Yellow School Bus Factory, band valdostana che esce con il primo Lp , Antistatic (autoprodotto, 7.1/10), mixato nientemeno che da Marco Fasolo dei Jennifer Gentle. Si tratta di un lavoro pieno di spunti, fra garage, surf e psichedelia: dodici brani in cui sembra di rivivere al meglio la stagione del pop anni Sessanta, le chitarre ritmiche, la voce riverberata, le code rumoristiche, ma mai fuori luogo. Un disco nostalgico, che riproduce bene l’atmosfera di Who, Beatles e Byrds, ma sa be- nissimo spaziare anche altrove, nel revival surf-rock dei giorni d’oggi, ad esempio. Da non perdere. Un lungo sorso di tequila accompagna invece le nove delicatissime tracce di Berlino, New York, Città del Messico (Controrecords, 7.1/10), nuovo lavoro del cantautore torinese Stefano Amen. Il suo sound è soffice, ma al contempo ironico e beffardo; è un soffio intimo, fatto di piccoli arpeggi e voci sospirate sulla scia di quanto insegnato dal maestro Vinicio Capossela. Ma non solo: nelle liriche di Amen c’è tutto un mondo, una visione politica del capitalismo perduto, dell’italietta del qualunquismo, dell’ignavia, il tutto all’ombra di un mood da sedia a dondolo nel bel mezzo del deserto americano, fra un banjo e una armonica a bocca. Stefano Solventi 95 L’ avvento Yan Ruisheng del comunismo e il controllo sulle arti Ombre cinesi China underground#6 Un’introduzione al cinema cinese dalle origini ai nostri giorni C’erano una volta le ombre cinesi. Intrecciavano storie per il pubblico seduto al di là dello schermo, con figure incise su pelle d’asino e riflesse da una potente fonte di luce. Un proiettore, delle immagini riflesse e uno schermo. Ecco perché quando il cinema arrivò in Cina, alla fine dell’Ottocento, gli fu dato il nome di “giochi d’ombra occidentali” (xīfāng yĭngxì). Il cinema era allora un qualcosa di completamente sconosciuto, uno di quei prodigi tecnici che l’arretrato dragone mirava con sospetto e stupore. In Cina nessuno sapeva fare cinema. Le prime proiezioni furono solo di film stranieri e la nascita dell’industria cinematografica cinese fu imprescindibile dagli insegnamenti, dall’assistenza di tecnici e dagli investimenti di avventurieri d’oltreoceano. All’inizio del Ventesimo secolo, in un periodo di crisi sistematica e fermenti riformisti-rivoluzionari, i cinematografi erano uno svago per tanti: gente in cerca di intrattenimento, o incuriosita dalla fedeltà di imma96 gini in grado di riprodurre scene di vita così simili alla realtà. O anche al passo con le ultime mode, desiderosa di esotico, aperta all’Occidente e al mondano. In pochi anni i cinema spuntarono a centinaia, spesso con vita breve, per mano di improvvisati impresari attratti dai margini di guadagno e incuranti dei rischi. Si racconta persino che la celebre imperatrice vedova, Cixi, per il suo settantesimo compleanno ricevette in regalo dal Consolato inglese un proiettore e delle tracce di film. Peccato che alla prima proiezione il generatore non resse e scoppiò, provocando un’ondata di panico e, in virtù del cattivo presagio, un rigido veto alla trasmissione di film dentro il perimetro della Città proibita. Il primo film cinese Yan Ruisheng, il primo lungometraggio cinese, uscì nel 1921. Girato da Ren Pengnian, si trattava di una storia ispirata a un fatto di cronaca che aveva fatto scalpore nella Shanghai di primo Novecento, l’omicidio della Zhang Yuan, Jia Zhangke, Lou Ye “regina di fiori” Wang Lianyang - tra le più note concubine dei quartieri di piacere - per mano di un uomo, Yan Ruisheng. La sceneggiatura era un riadattamento di un testo teatrale di Zheng Zhengqiu, uno dei padri fondatori del cinema cinese, nonché regista e critico teatrale. Yan Ruisheng era un racconto dotato di intenti realisti (la produzione chiese ad un buon amico di Yan di recitare la parte dell’omicida e anche la vittima fu interpretata da una exprostituta), faceva leva su una storia avvincente, con al centro un omicidio e la fuga dell’assassino, mentre la triste storia di Wang Lianyang dava voce alla critica dell’ipocrisia di una società viziosa e maschilista, malcelata dietro le apparenze del perbenismo. In quegli anni Shanghai recitava la parte della New York cinese. Una società urbana sulla via della modernità e antitetica al mondo tradizionale, contadino e patriarcale. La donna assurgeva a una sublimazione senza precedenti, ma anche piena di rischi. Le attrici erano tra i simboli di un immaginario di sedu- zione, un oggetto di desiderio sessuale la cui immagine si confondeva a tratti con quella delle concubine e a tratti con quella delle femmes fatale che popolavano i quartieri di piacere, incarnando le ambiguità morali della vita cittadina. La società urbana cinese degli anni Venti e Trenta era una realtà viva e in movimento, che culturalmente manifestava una forte volontà di rinnovamento, spesso radicale, iconoclasta. Il cinema, nato come genere di intrattenimento, ne rimase in parte ai margini, almeno fino agli anni Trenta, quando prese forma il cinema di sinistra, che andava ad affiancarsi a una serie di film maggiormente disimpegnati, impregnati di miti, leggende e storie di cappa e spada. Il cinema di sinistra si fece strada con il consolidamento di valori socialisti, contro la corruzione politica del partito nazionalista, rappresentata nelle ingiustizie sociali e nell’eleva- zione di ideali riformisti. In questo contesto le attrici erano costrette in un modello di virtù senza appello, difensore di quei valori nobili e progressisti elevati nei film. Le vite libertine delle star, vere o presunte, ispiravano le prime forme di gossip; il loro comportamento era esempio morale per la società, al punto che la vita privata arrivava ad influenzare un eventuale ingaggio. La donna si imponeva come un nuovo modello, sincero e virtuoso a cui non erano date alternative. Fu in questa commistione di fervore, idealismo, mondanità e ipocrisia che emersero le prime eroine tragiche del cinema cinese. Come Ruan Lingyu, una delle attrici più espressive nella storia del cinema cinese, morta suicida nel 1935 nel clamore pubblico, prigioniera di una condotta privata troppo esposta al giudizio mediatico e ferita nella sua dignità. Oggi il cinema cinese ha mantenuto la sua funzione artistico-sociale, nonostante lo stravolgimento del contesto ideologico in cui si trova ad operare. L’occupazione giapponese (1931-1945), la salita al potere dei comunisti (1949) e l’ascesa maoista (1949-1976) diedero vita a un nuovo ordine, da cui il cinema cinese uscì con un’identità completamente rinnovata - se non stravolta - e dettata dal potere centralizzato del Partito comunista. Il rapporto con gli ambienti cinematografici si tinse dei colori foschi della critica, della censura e dell’interdizione. Tutto quello che rimane oggi di quell’epoca, in una Cina mille miglia lontana dalla povertà e dal fervore di massa degli anni Sessanta, sono dei poster dall’estetica socialista, o le locandine ispirate agli “otto modelli di opera rivoluzionaria”, a cui i film dovevano ispirarsi all’epoca della Rivoluzione culturale (19661976). Si tratta di oggetti divenuti il marchio di fabbrica di una forma di pop art in salsa cinese, in cui le immagini della propaganda sull’edificazione socialista delle masse, sul patriottismo anti-imperialista o sulla liberazione delle minoranze etniche dalla povertà si impongono come oggetti di un nuovo culto, icone appassite e svuotate delle loro reali implicazioni storiche sulla vita degli individui. In realtà l’eredità del maoismo e del radicalismo ideologico sul cinema cinese contemporaneo è stata ben più pesante, lasciando in vita gli spettri di una dicotomia tra arte e regime. Ci sono poi da considerare gli effetti della trasformazione. In Cina i passaggi dalla tolleranza liberale al controllo ideologico furono rapidi ed estremi, al punto da creare delle crisi di identità sociale che non 97 potevano non essere fotografate dal cinema e dalle arti in generale. I registi che emersero con il clima liberale istaurato da Deng Xiaoping dalla fine degli anni Settanta rappresentarono a tutti gli effetti una svolta nella storia del cinema cinese, affiancando alla produzione ufficiale di propaganda e a una serie di film più propriamente commerciali (miti, leggende, combattimenti e arti marziali firmati Hong Kong e Taiwan) una forma di cinema di qualità e stilisticamente connotato, sensibile a problematiche socio-politiche e dotata di orientamenti intellettuali alternativi a quelli della dirigenza. Wu Tianming (Old Well), Xie Fei (A Girl from Hunan, Black Snow), Tian Zhuangzhuang (Horse Thief, Blue Kite), Chen Kaige (Yellow Earth, Farewell My Concubine, Temptress Moon), Zhang Yimou (Red Sorghum, Raise the Red Lantern), Zhang Yuan (Beijing Bastards, East Palace West Palace) e Wang Xiaoshuai (Frozen, Beijing Bycicle, Shanghai Dreams) sono registi che con la loro produzione hanno introdotto uno spirito critico verso la tradizione cinese e le contraddizioni sociali emerse nelle realtà urbane in seguito all’ingresso della Cina nel mercato. Il valore del nuovo cinema d’autore cinese non tardò ad avere riscontri nelle sale occidentali, ottenendo riconoscimenti nei maggiori festival internazionali, a Cannes (Chen Kaige nel 1993), Venezia (Zhang Yimou nel 1992) e Berlino (Zhang Yimou nel 1988 e Xie Fei nel 1993). Contemporaneamente, però, la consacrazione e il successo internazionale sembrano avere inaridito il valore artistico di alcuni tra questi registi. C’è chi è stato criticato per essersi gradualmente avvicinato alle esigenze di una platea intellettuale occidentale a prescindere dal pubblico cinese. Altri registi sono stati reintegrati nella macchina di 98 stato, ottenendo così grandi finanziamenti e attenzione mediatica in Cina e portando in cambio ventate di nazionalismo. Emblema di quest’ultima tendenza è l’epica maestosa del kolossal con caratteristiche cinesi Hero, giunto anche nelle sale italiane nel 2002 e girato dal regista cinese probabilmente più popolare in Occidente, Zhang Yimou. Il cinema indipendente di nuova generazione In questo contesto, l’eredità del cinema d’autore è stata presa in carico dalla cosiddetta sesta generazione di registi cinesi, la prima del tragico post-Tiān’ān mén. I simboli manifesto di questo gruppo di registi molto variegato al suo interno sono Zhang Yuan e Wang Xiaoshuai. I loro primi film colpiscono per il coraggio nel denunciare problemi sociali di diversa estrazione, l’emarginazione giovanile, l’alienazione sociale degli artisti, l’omosessualità, all’interno di quello stesso contesto urbano che la retorica ufficiale sullo sviluppo e sulla liberalizzazione economica dipingeva con tinte brillanti. Questo tipo di film ridiede vita alla censura del Partito, che nel 1994 avrebbe interdetto per diversi anni Zhang Yuan, Wang Xiaoshuai, Tian Zhuangzhuang, la regista Ning Dai (moglie di Zhang Yuan) e altre personalità di primo piano, come He Jianjun (The Postman) e il documentarista Wu Wenguang (Bumming in Beijing: the Last Dreamers). Alle loro spalle muovevano però altri artisti, capaci di aggirare - almeno in parte - la mano della censura e di realizzare allo stesso tempo importanti fotografie della società cinese presa da angolazioni inconsuete. È questa l’epoca d’oro del cinema indipendente cinese, un tipo di cinema che trova nel valore di alcune personalità, nell’onestà intellettuale e nella carenza di mezzi e sponso- rizzazioni i suoi tratti essenziali. Nel 1997 usciva Xiao Wu ad opera di Jia Zhangke, in seguito insignito del Leone d’Oro a Venezia con Still Life. Influenzato dai maestri del neorealismo italiano e dal realismo socialista sovietico, Jia Zhangke ha saputo dare forma a una estetica a metà tra l’autobiografico, la creazione artistica e il documentarismo vero e proprio. Cornice dei suoi primi film (Xiao Wu, Platform e Unknown Pleasure) era la realtà urbana della provincia cinese, che si affacciava sul libero mercato lasciando sul campo una certa gioventù incapace di approfittare realmente della liberalizzazione. Lo scenario dei suoi film era la provincia dello Shanxi, la stessa che aveva offerto i natali al regista. I film erano girati in uno stato di semi-clandestinità, con camere digitali e approfittando della conoscenza dei luoghi e della realtà dove venivano effettuate le riprese per non dare troppo nell’occhio. Altri registi che hanno ottenuto riconoscimenti all’estero sono Wang Quan’an (The Tuya’s Marriage, Apart Together, Weawing Girl), autore di film che spesso ritagliano un ruolo centrale alla condizione femminile in ambientazioni nella Cina rurale e non, e Lou Ye (Suzhou River, The Summer Palace, Spring River), il cui lirismo introspettivo è in grado di offrire angolazioni del tutto fuori dal comune, tanto su eventi storici dall’alto valore simbolico (i disordini di Piazza Tiān’ān mén) quanto sui maggiori simboli socio-economici della nuova Cina (la città di Shanghai). Lou Ye è come in costante esplorazione del vissuto dei suoi personaggi, immersi in storie individuali e mai direttamente coinvolti in una relazione attiva con il contesto in cui agiscono. Ma nei loro profili resta un riflesso naturale e continuo dello scenario storicosociale esterno, a cui restano ine- luttabilmente legati nel percorso di trasformazione delle proprie storie di vita. Di Zhang Yang (Quitting, Shower) si segnala invece la sensibilità nel sapere descrivere le sottigliezze di relazioni familiari all’interno di un contesto sociale che tiene come riferimento costante la Pechino degli ultimi due decenni. In Quitting, presentato a Venezia nel 2001, Zhang Yang è riuscito a mettere in scena l’egocentrico senso di alienazione generazionale di una certa gioventù pechinese degli anni Novanta, attraverso il racconto della reale storia di dipendenza dell’attore Jia Hongsheng (morto suicida nel 2010), in un esperimento cinematografico che non è né documentario né finzione, bensì pura recitazione di un dramma familiare ad opera dei suoi stessi protagonisti, che nel film interpretano se stessi. A conti fatti, al di là dei suoi esponenti più rinomati, la cosiddetta sesta generazione di registi sembra avere raggiunto una maturità stilistica in grado di dare al cinema cinese un’identità insieme composita e dalla forte personalità, grazie ad una ampia e variegata compagine di autori. Il decennio appena trascorso ha consacrato figure chiave del cinema cinese, come Jiang Wen (The Devils on the Doorstep, Let the Bullets Fly), regista e attore autentica icona del cinema cinese, in grado di armonizzare critica, pubblico colto e successo commerciale in un unico coro di apprezzamenti. Ma hanno visto la luce anche personalità di pari valore, malgrado il minore successo all’estero e in Cina. Come il regista Li Yang (Blind Shaft, Blind Mountain), autore di fortissime denunce sociali che non trovano voce nei media ufficiali, o il documentarista Wang Bing (He Fengming, The Dish), promotore di vere e proprie inchieste cinematografiche sui lati oscuri della Cina comunista, nonché detentore di un record notevole, con le nove ore di documentario racchiuse tutte in un’opera sola, l’acclamato West of the Tracks. La lista sarebbe ancora più lunga chiamando in causa registi ancora più di nicchia o gli autori di ultimissima generazione - la cosiddetta dGeneration - moltiplicatisi con l’avvento delle tecnologie digitale, ma una ultima segnalazione va riconosciuta soprattutto al “Nuovo cinema del reale”, un filone che riunisce una serie di documentaristi e ha in Wu Wenguang l’indiscusso capostipite. Il documentario cinese, anche in questo caso in tutto e per tutto indipendente dai percorsi ufficiali di produzione, elegge a scenario prediletto le ambientazioni me- tropolitane post-moderne e postsocialiste, di cui coglie l’essenza come reale in continuo movimento e trasformazione nell’asfissiante processo di distruzione-costruzione che affligge le città cinesi. Sospeso tra la pura e semplice riproduzione del vero - senza voci fuori campo né spiegazioni - e l’intervento nella realtà rappresentata - attraverso il risveglio di un senso di responsabilità civile - il documentario cinese è caratterizzato tanto da una estetica artistica ben definita quanto da un attivismo sociale di fondo, volto al salvataggio o, quantomeno, alla documentazione della scomparsa della Cine tradizionale, nel bene e nel male. Mauro Crocenzi 99 CAMPI MAGNETICI #4 classic album rev Mauro Pelosi Suede Mauro Pelosi (Polydor, Giugno 1977) Suede (Nude Records, Maggio 1993) Mauro Pelosi è uno di quei cantautori rimasti vittima delle etichette del proprio tempo - si pensi similmente a Lolli o Sorrenti, due che difficilmente sono stati valutati artisticamente al di fuori del loro preciso raggio di genere. Pelosi rimane, in chi ne ha memoria, un cantautore prog, un autore romano degli anni ‘70 che scriveva canzoni e che, essendo lontano dalla cerchia del folk-studio e dell’impegno politico strettamente inteso, naturalmente non poteva che essere esponente dell’altra faccia di quel decennio. Nulla di più sbagliato, perchè se è vero che Pelosi dagli anni ‘70 non è mai uscito, vero è anche che i suoi quattro album, sapientemente distribuiti tra il 1972 (La stagione per morire) e il 1979 (Il signore dei gatti) sono espressione di una forma autorale più profonda, strutturalmente legata in modo massiccio alla classicità del cantautorato italiano, più vicina al Venditti di L’orso bruno che al Banco del mutuo soccorso di Darwin. Nel ‘77 esce con Polydor il suo disco omonimo, il terzo: destinato a diventare il più completo, intimo e rappresentativo della discografia di Pelosi: musicalmente stratificato, orchestrato e pop mentre nei testi più che mai urgente di quella scrittura psicoanalitica rivolta ugualmente al personale e al sociale. Dopo un disco d’esordio quasi concept sul suicidio, e un secondo lavoro di non distante respiro, un album omonimo non può che consacrare le venature tristi di una scrittura che è drammatico emblema di forme di solitudine differenti. Con una raffinatezza descrittiva e una perizia evocativa rare vengono così a galla le storie di Claudio & Francesco, una coppia di omosessuali alle prese con il difficile quotidiano (“abbiamo portato Freud dallo sfasciacarrozze e ora viviamo insieme”) o quella dei bombaroli di Alle 4 di mattina, a presentare un tema che nello stesso anno De André affronterà nel suo Storia di un impiegato. Protagonista è, su tutto, Pelosi stesso, a sottolineare con decisione l’omonimia tra autore e LP: al centro c’è il simbolo, l’oggetto che nasconde il concetto, il feno100 meno che ha in sé il noumeno. La bottiglia ma soprattutto La lecca lecca d’oro, anche primo 7’’, che dietro alla facciata pop completamente riuscita nasconde la rappresentazione dell’amore perfetto finalmente trovato che non sopravvive però al dolore della perdita di un legame imperfetto ma sincero. Pelosi è a tutti gli effetti quello che l’inconografia culturale del ‘900 definirebbe prima come Maudit e poi, a specchio dei tempi, come Loser, a sottolinearlo sono i due pezzi attorno a cui il disco pare ruotare: Una casa piena di stracci e Ho fatto la cacca, accomunati da una coda di certa derivazione prog non distante da alcuni brani degli Osanna. Due pezzi di nichilismo disperato, meno velato nel primo e sottolineato dal sarcasmo del secondo. Arrangiato in modo magistrale da Pinuccio Pierazzoli, l’album vede la partecipazione di Edoardo Bennato all’armonica a bocca in L’investimento e di Ricky Belloni (New Trolls) alle chitarre. Un disco che naturalmente vendette ben poco, per un artista che oggi è su cd solo per metà, in cofanetti che raccolgono classici dell’italian prog. In epoca di rivalutazioni sarebbe bello cercare di andare oltre, uscire dai generi e riscoprire il valore di un autore dalla penna e dal sound tanto connotati quanto incisivi e dai caratteri compositivi non difficili da ritrovare in alcuni progetti d’oggi (ManzOni, Iosonouncane...). (7.7/10) Giulia Cavaliere Che i Suede fossero destinati a guardare tutti dall’alto fu chiaro da subito, se è vero che pure l’ex Smiths Mike Joyce, si presentò ai provini per diventarne il batterista. A decretarne la grandezza di fronte ad un pubblico alla forsennata ricerca dei nuovi Morrissey & Marr, fu l’alchimia creatasi tra teatralità decadente di Anderson e il chitarrismo fluente e straripante di Bernard Butler, una sorta di erede spirituale di Mick Ronson, nonchè un musicista che al riff ha sempre prediletto l’intarsio elettrico, il cesello minuzioso e irregolare. Il ‘92 fu il loro anno. Prima ancora che il singolo d’esordio toccasse gli scaffali, il Melody Maker dedicava loro la copertina. The Drowners, che avrebbe visto la luce a maggio, aveva un passo marziale e altero di una diva della rivista. Bastò tanto perché l’Inghilterra tutta si genuflettesse. Pochi mesi dopo Metal Mickey ne ripeteva il canovaccio con maggiore incisività, muovendosi al ritmo sculettante del singer, con un Butler intento ad assestare possenti sculacciate e un chorus che fungeva da inno da stadio per giovani in crisi d’identità sessuale. Nel frattempo si era fatto il ‘93 e mentre sulle riviste un Anderson atillatissimo chiudeva i conti con le felpe sformate e pantaloni baggy della generazione rave, Animal Nitrate anticipava l’album con un campionario di tentazioni che sfiorava pericolosamente temi tabù. A rubare le scena, però, era ancora il riff stridulo e psichedelico che durante il breve solo, stritolava la melodia come un boa di struzzo. Fu a quel punto che anche i più smaliziati caddero trafitti al cospetto dei londinesi. Personalmente giurai loro eterna fedeltà appena dopo aver ascoltato l’arpeggio adamantino e il singhiozzo di Brett nell’intro di So Young, brano che apre il loro primo e inestimabile album. Era come se il glam, che fino a quel momento sembrava una cosa lontana e polverosa, rialzasse la testa per mangiarsi in un boccone tutto l’understatement delle star dimesse d’oltreoceano. Fu un breve e travolgente momento di follia, in cui Anderson poteva permettersi di recitare versi come “Let’s chase the dragon”, senza rischiare di apparire ridicolo. Suede è un album che ancor oggi, che le sue polveri purpuree si sono depositate e il suo odore acre si è disperso nell’aria, mostra tutto lo spessore a livello di composizione, esecuzione e fantasia degli arrangiamenti. Fieramente controverso a partire dalla cover, con i due esseri asessuati intenti a scambiarsi effusioni, è un viaggio al termine della notte delle virtù umane; un rito iniziatico ai piaceri proibiti, con le sue impervie accelerazioni, i suoi momenti catartici e le sue epifanie. Su tutte quella di Pantomime Horse, ballad maestosa come una cattedrale barocca, cantata da una specie di Marlene Dietrich in acido e resa classica da un riff funereo di Butler che la suggella come una lapide. E’ il pinnacolo di un album che vive della dicotomia fra i momenti soffusi di Sleeping Pills e She’s Not Dead, in cui Anderson pare lisciarsi malinconicamente le piume, e gli scatti da diva di Hollywood in astinenza da barbiturici di Moving e Animal Lovers. Un tour de force fra temi rischiosi come tossicodipendenza e suicidio, su cui la band seppe muoversi felpata, determinando il clima al tempo stesso inebriante e gravido di decadenza che pervade ogni singola traccia. Se ne esce vagheggiando su una vita dopo l’ineluttabile fine. “See you in your next life” cantava Anderson, nella prima di una serie di delicate closing song eseguite al pianoforte, pur sapendo che quello che sarebbe venuto dopo, per forza di cose, non avrebbe mai potuto essere eccitante come quello a cui avevamo assistito fin qui. Diego Ballani 101 si con e m i i t t u azine tal mag il digi in pdf nto è t e m a t n L’appu orni su i .com rofondimenti g i e i r t t a u t l et o sc a t, app e s r i e t t n n o c e www.osncerti, recensioni, News, c tis ra tutto g click n u i d ata e a port anche su