Traduzione di parti selezionate del capitolo 3 di Alexander Miller Philosophy of language London, Routledge 1998 Traduzione di Elisa Paganini La traduzione che segue ha finalità didattiche. Chiunque riscontri errori, refusi, frasi poco comprensibili è invitato a fare le opportune segnalazioni alla traduttrice per e-mail. Le note contrassegnate con NdT sono della traduttrice. Capitolo 3 Senso e verificazionismo: il positivismo logico 3.1 Introduzione […] Il positivismo logico [o neopositivismo o empirismo logico] è stato una scuola filosofica che ha avuto sede a Vienna e che è stato riconosciuto istituzionalmente come ‘Circolo di Vienna’. La figura preminente nel circolo fu Moritz Schlick, e fra i filosofi che lo hanno sostenuto vanno annoverati Neurath, Waissman, Feigl, Gödel, Ayer, Carnap e Hahn. I filosofi che hanno maggiormente influenzato il circolo sono Hume, Berkeley, Frege, Russell e il Wittgenstein del Tractatus. La teoria del significato ha svolto un ruolo centrale fra gli interessi del circolo: la spiegazione è da trovarsi nella convinzione che la chiarezza sul concetto di significato avrebbe aiutato a chiarire lo scopo e l’ambito della stessa ricerca filosofica. Si sarebbe così rimediato almeno parzialmente al fatto che la filosofia, a differenza della scienza, sembrava fare progressi minimi o nulli sia nell’avanzamento delle ricerche sia nelle modalità con cui queste ricerche dovevano essere perseguite. I positivisti logici ritenevano indispensabile un resoconto di ciò in cui consiste la significatività e tentarono di fornire un tale resoconto attraverso un criterio del significato. Tale criterio fornirebbe un resoconto sistematico di ciò che va annoverato, o non va annoverato, come significante, o, alternativamente, come possessore di senso; se un enunciato soddisfa il criterio va considerato come sensato, mentre se non soddisfa il criterio va considerato letteralmente privo di significato. La scoperta di un tale criterio avrebbe grandemente aiutato il progresso della filosofia garantendo ai filosofi di non farsi irretire in speculazioni metafisiche letteralmente prive di significato: se il criterio del significato implica che enunciati che sembrano riguardare Dio, la natura dei fatti morali e estetici, o la natura che trascende il mondo dell’esperienza siano di fatto privi di senso, contrariamente alle apparenze, allora avremmo una chiara spiegazione del perché speculazioni riguardo alla verità di tali enunciati siano completamente inutili. Se un enunciato è letteralmente privo di significato, non può essere vero (o falso), e pertanto qualunque riflessione riguardo al suo valore di verità è semplicemente mal posta. Come Ayer e Hahn hanno scritto: L’originalità dei positivisti logici risiede nel far dipendere l’impossibilità della metafisica non dalla natura di ciò che potrebbe essere conosciuto ma dalla natura di ciò che potrebbe essere detto. Attaccano il metafisico perché infrange le regole che ogni asserto deve soddisfare affinché sia letteralmente significante.1 Non c’è modo di perforare il mondo sensibile riconoscibile tramite l’osservazione per arrivare a un “mondo del vero essere”: qualunque metafisica è impossibile! Impossibile, non perché il compito è troppo difficile per l’intelletto umano, ma perché è privo di significato, perché ogni tentativo di fare metafisica è un tentativo di parlare in un modo che contravviene all’accordo su come vogliamo parlare, paragonabile al tentativo di prendere la regina (in un gioco a scacchi) attraverso una mossa ortogonale dell’alfiere.2 1 2 A. J. Ayer, Logical positivism, p. 11. H. Hahn, “Logic, mathematics, and knowledge of nature”, p. 159. 2 In base al criterio suggerito dai positivisti logici, ci sono solo due modi in cui un enunciato può essere letteralmente significante: esprimendo un pensiero a posteriori, un pensiero che è empiricamente verificabile, o esprimendo un pensiero a priori, un pensiero che è vero semplicemente in virtù di fatti a proposito del significato (o senso). Il primo tipo di asserto è analizzato dai positivisti nei termini del principio di verificazione, che si propone di spiegare chiaramente quali condizioni un asserto deve soddisfare per qualificarsi come letteralmente significante o sensato in virtù della suscettibilità alla verifica empirica.3 Il secondo tipo di asserto è analizzato nei termini di verità a priori: le verità a priori sono analitiche nel senso che sono vere semplicemente in virtù del loro significato (o senso). Nelle sezioni 3.2 e 3.3 considereremo il tentativo di Ayer di rendere esplicito il principio di verificazione in Linguaggio, verità e logica, il suo testo classico che si proponeva di divulgare la dottrina del positivismo logico; nella sezione 3.4 indagheremo il resoconto positivista dell’a priori, attraverso una discussione del capitolo 4 di quel lavoro, e vedremo come Ayer cerca di trovare uno spazio per la stessa filosofia in quanto attività a priori. La dicotomia fra asserti significanti in virtù del fatto che sono empiricamente verificabili, e asserti che sono veri semplicemente in virtù del loro significato viene ulteriormente sviluppata dalla famosa distinzione di Rudolf Carnap fra domande interne e esterne: questa distinzione è l’oggetto della sezione 3.5. Nella sezione 3.6 considereremo brevemente l’impatto della teoria del significato proposta dal positivismo logico sul linguaggio etico. Alla fine, nella sezione 3.7, consideriamo alcuni ulteriori aspetti della concezione di Ayer sugli asserti empiricamente verificabili: questo pone le basi per l’attacco di Quine alla teoria del significato proposta dal positivismo logico che è l’argomento del nostro prossimo capitolo. 3.2 La formulazione del principio di verificazione Il principio di verificazione può essere riassunto dal famoso slogan di Schlick “Il significato di un asserto consiste nel metodo della sua verifica”. Gli asserti che si qualificano come letteralmente significanti per il fatto di essere associati ad un metodo di verifica empirica sono considerati possessori di un significato fattuale: ci sono asserti che possono essere letteralmente significanti senza possedere significato fattuale se sono a priori o analitici (tautologie, nella terminologia preferita da Ayer). Quest’ultimo tipo di asserto verrà analizzato nella sezione 3.4: la nostra attenzione in questa sezione sarà rivolta agli asserti che sono letteralmente significanti per l’avere a che fare con questioni di fatto. Ayer introduce per la prima volta il criterio del significato fattuale nel passaggio seguente: Il criterio da noi usato per mettere alla prova l’autenticità di quelle che si presentano come affermazioni di fatto è il criterio della verificabilità. Diciamo che un enunciato è significativo in senso fattuale per qualunque dato individuo, se e soltanto se quest’ultimo sa come verificare la proposizione che l’enunciato si propone di esprimere – cioè, se sa quali osservazioni lo condurrebbero, sotto certe condizioni, ad accettare la proposizione come vera o a rifiutarla come falsa. Quando, d’altro lato, assumere la verità o falsità semplicemente non è incompatibile con una qualunque assunzione, quale che sia, intorno alla natura della propria esperienza futura, allora, per quanto lo riguarda, la presunta proposizione sarà, se non una tautologia, una pura e semplice pseudo-proposizione.4 3 Per semplicità, parlerò talvolta solo di asserti, piuttosto che di enunciati che esprimono pensieri. Pertanto, per esempio, invece di parlare di “enunciati che sono letteralmente significanti in virtù del fatto che esprimono pensieri empiricamente verificabili”, parlerò di “asserti che sono letteralmente significanti in virtù del fatto che sono empiricamente verificabili”. 4 A. J. Ayer, Linguaggio verità e logica, p. 13. Una pseudo-proposizione è qualcosa che sembra esprimere un pensiero genuino, ma di fatto non esprime alcun pensiero. 3 E’ molto interessante che, quasi subito dopo questo passaggio, Ayer sostenga che oltre alla sua applicazione alle presunte proposizioni, il principio di verificazione possa essere applicato anche a presunte domande: Per le domande il procedimento resta lo stesso. Ricerchiamo in ogni caso quali osservazioni ci condurrebbero a rispondere nell’un modo o nell’altro alla domanda; e quando non ne scopriamo nessuno, dobbiamo concludere che l’enunciato in esame, per quanto ci riguarda, non esprime una domanda autentica, quale che sia la forza impressavi dall’apparenza grammaticale per farci credere il contrario.5 Questa osservazione è interessante perché mostra che l’intenzione di Ayer, nel formulare il principio di verificazione, non è [solo] di fornire un criterio per tracciare una demarcazione all’interno degli enunciati dichiarativi, fra quelli che possiedono significato fattuale, con genuino contenuto fattuale, adatto ad essere vero o falso, e quelli che non lo possiedono contrariamente alla struttura grammaticale. Il principio di verificazione può essere applicato anche alla classe degli enunciati interrogativi, per distinguere gli interrogativi che esprimono autentiche domande da quelli che semplicemente sembrano farlo. E sembra che ci siano tutte le ragioni per aspettarsi che il principio possa essere ulteriormente ampliato fino ad includere [nel suo ambito di applicazione], per esempio, gli enunciati imperativi, espressioni di intenzione, espressioni di desiderio. Per quanto riguarda gli imperativi, il principio distinguerebbe fra gli enunciati che hanno l’aspetto grammaticale dei comandi, e che esprimono genuini comandi, e quegli enunciati con lo stesso aspetto grammaticale che non esprimono genuini comandi: un enunciato nella modalità dichiarativa esprimerebbe un comando genuino se ci fosse una serie di azioni osservabili che, quando compiute, costituirebbero l’esecuzione del comando. Similmente per le espressioni di intenzione: un enunciato che avesse l’aspetto grammaticale di un’espressione di intenzione esprimerebbe un’intenzione autentica solo se ci fosse una serie di azioni osservabili che, quando compiute, costituirebbero l’attuazione dell’intenzione. E similmente per le espressioni di desiderio: una presunta espressione di desiderio varrebbe come una genuina espressione di desiderio se ci fossero alcuni eventi osservabili il cui accadimento costituirebbe la soddisfazione del desiderio. 6 Questo mostra che l’applicazione da parte di Ayer del principio di verificazione è forse molto più ampia di quanto sia stato generalmente riconosciuto: il principio serve non solo a distinguere fra enunciati che hanno un contenuto fattuale e quelli che non ce l’hanno, ma anche a evidenziare gli enunciati genuini fra quelli che almeno inizialmente sono considerati non avere la funzione di dichiarare fatti. Il ruolo del principio di verificazione non è solo quello di distinguere fra enunciati che possiedono significato letterale e enunciati che non lo possiedono; ma è anche quello di distinguere fra enunciati che possiedono un qualche tipo di significato (sia esso un significato letterale, imperativo, conativo, ecc.) e enunciati che non possiedono alcun tipo di significato.7 […] 5 Ibid., p. 13. Qualcuno potrebbe replicare che queste generalizzazioni del principio di verificazione ai comandi, alle espressioni di intenzione, alle espressioni di desiderio e così via, sono troppo deboli giacché sembrano essere soddisfatte da comandi e espressioni di desiderio che riguardano l’assoluto. Per esempio, che cosa dire delle espressioni seguenti “Proferisci un enunciato sull’assoluto!” o “Io, in quanto metafisico, intendo scrivere un saggio sull’assoluto”? Se dico “L’assoluto si sta espandendo a velocità sempre maggiore”, o scrivo un saggio intitolato La natura dell’assoluto, non ho forse adempiuto al comando o assolto all’intenzione? E questo non mostra che questi enunciati di fatto soddisfano la versione generalizzata del principio di verificazione? La risposta è che non lo fanno: il positivista logico può rispondere che non sei riuscito ad obbedire al comando o ad assolvere all’intenzione. Piuttosto tu sei solo riuscito a proferire un enunciato, o scrivere un saggio, che contiene la parola “Assoluto”. 7 Questa versione generalizzata del principio di verificazione presumibilmente caratterizza molti argomenti filosofici a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo: per menzionarne due, l’argomento Wittgensteiniano contro la possibilità del linguaggio privato e gli argomenti antirealisti nello stile di Dummett. Forse questo aiuta a spiegare l’osservazione piuttosto caustica di Ayer nella sua autobiografia che “il principio di verificazione è spesso menzionato e quando è menzionato è spesso disprezzato. L’attitudine di molti filosofi al riguardo mi ricorda la relazione fra Pip e 6 4 Dopo che è stata chiarita la portata generale del principio di verificazione, ci concentreremo sugli enunciati dichiarativi, e su ciò che il principio ci deve dire riguardo al loro significato fattuale. Dopo il passaggio citato, prima Ayer continua distinguendo fra verificabilità pratica e verificabilità in linea di principio, e fra ciò che egli chiama i sensi “forte” e “debole” di verificabilità. In breve, un enunciato è praticamente verificabile per me se possiedo gli strumenti pratici per collocarmi in una situazione in cui io farei osservazioni sufficienti per verificare quell’enunciato; un asserto è verificabile in linea di principio se, sebbene io non possegga gli strumenti pratici per collocarmi in una tale situazione, posso tuttavia concepire teoricamente in quale tipo di posizione dovrei essere per verificare l’asserto. Pertanto, l’asserzione “Ho 5 euro in tasca” è verificabile in pratica, mentre “Ci sono cavalli su Alpha Centauri” è semplicemente verificabile in linea di principio. Un asserto è verificabile in modo forte se la sua verità potrebbe essere stabilita conclusivamente nell’esperienza, mentre si dice che un asserto è verificabile in modo debole se l’esperienza lo può rendere probabile. Ayer in ciascuno dei due casi sceglie la più liberale delle due nozioni – cioè, la verificabilità in linea di principio e la verificabilità in modo debole – per rendere esplicito che cosa si intenda col principio di verificazione. Richiediamo solo la verificabilità in linea di principio, per conservare il significato fattuale di asserti come “Ci sono cavalli su Alpha Centauri”; e pretendiamo solo la verificabilità in senso debole per evitare di escludere generalizzazioni scientifiche come “Un corpo tende a espandersi quando è riscaldato”. Data questa distinzione, la domanda che dobbiamo porci per stabilire se un certo enunciato dichiarativo possieda un genuino significato fattuale non è: “Una qualche osservazione possibile renderebbe la sua verità o falsità logicamente certa?”, ma piuttosto: “Una qualche osservazione possibile sarebbe rilevante per stabilire la sua verità o falsità?” Ma che cosa significa dire che un asserto è tale che ci sono osservazioni possibili che sono rilevanti per determinare se è vero o falso? Ayer cerca di renderlo esplicito come segue: Conveniamo di chiamare sperimentale la proposizione che registra un’osservazione effettiva o possibile. Allora possiamo dire che il contrassegno della proposizione fattuale autentica non è la sua equivalenza con una proposizione sperimentale o con un numero finito di proposizioni sperimentali, ma semplicemente il fatto che dalla sua congiunzione con certe altre premesse si possano dedurre alcune proposizioni sperimentali non deducibili dalle sole altre premesse.8 Questo implica che gli asserti sulle parti praticamente inaccessibili dello spazio e del tempo, le generalizzazioni scientifiche e gli asserti sulle leggi [di natura] hanno un contenuto fattuale genuino, così come desideriamo e ci aspettiamo che sia. 9 Ma implica anche che asserti come “il mondo dell’esperienza sensibile è irreale” siano privi di significato, assumendo che non siano analitici: “una qualunque osservazione o serie di osservazioni in grado di mostrare irreale il mondo empirico rivelatoci dall’esperienza è chiaramente inconcepibile.” 10 E, quando la tesi in questione è generalizzata, implica che una domanda come “la realtà è composta in ultima istanza di una sostanza o di molte?” (la tradizionale disputa metafisica fra monismo e pluralismo) non è una Magwitch in Grandi speranze di Dickens. Hanno campato col denaro, ma si vergognano di rivelare la sua origine.” (Part of my life, p. 156). 8 Ayer, Linguaggio verità e logica, pp. 18-19. 9 NdT - Un esempio di proposizione fattuale (per un neopositivista come Ayer) è “Ogni essere umano è mortale” (questa è una proposizione fattuale senza essere sperimentale, infatti non si può verificare direttamente che tutti gli esseri umani passati presenti e futuri sono mortali); per poter riconoscere che è una proposizione fattuale, occorre considerare che ad esempio insieme alla proposizione “Elisa Paganini è un essere umano” ci permette di dedurre “Elisa Paganini è mortale” che è una proposizione sperimentale (infatti ci sarà chi potrà verificare direttamente la mortalità di Elisa Paganini). 10 Ibid., p. 20 5 domanda genuina: nessuna osservazione possibile può fornire una base adeguata per rispondervi in un modo piuttosto che nell’altro.11 Tuttavia, come Ayer ammette nella lunga introduzione alla seconda edizione di Linguaggio, verità e logica, questa formulazione del principio di verificazione non raggiunge lo scopo. Si prenda una qualche proposizione sperimentale “O” (o “asserto di osservazione”, nella sua nuova terminologia) e un asserto “senza senso” “N”. Allora, poiché l’asserto di osservazione “O” può essere dedotto da “N” insieme a “se N allora O”, ma non dal solo “se N allora O”, “N” deve essere considerato come fattualmente significante in base a questa formulazione del principio di verificazione. Pertanto se noi assumiamo che “N” è “il nulla nullifica” e “O” è “questa cabina del telefono è rossa”, possiamo stabilire che “il nulla nullifica” è fattualmente significante. Questo mostra che la formulazione inizialmente proposta da Ayer del principio di verificazione implica che qualunque asserto dichiarativo possiede significato fattuale: in altre parole, che non fornisce alcun vincolo per l’attribuzione di significato fattuale. Per rispondere a questo problema, Ayer, nell’introduzione alla seconda edizione, suggerisce una versione più sofisticata del principio di verificazione. […] Tuttavia, sfortunatamente anche questa nuova e più sofisticata formulazione del principio di verificazione si è rivelata soggetta a controesempi. Alonzo Church ha ideato un esempio per mostrare che - come nel caso della prima formulazione nella prima edizione di Linguaggio verità e logica - anche la versione modificata ammette che qualunque asserto non-analitico (e quindi qualunque asserto “privo di senso”) sia fattualmente significante. […] Ovviamente il difensore del principio di verificazione potrebbe tentare di modificare ulteriormente il principio in modo da escludere i controesempi, e la letteratura sull’argomento è piena di tentativi di questo tipo. Ma qui non entreremo ulteriormente sulla questione della precisa formulazione del principio di verificazione. […] 3.4 L’a priori In base al positivismo logico, ci sono solo due modi in cui un asserto può essere qualificato come letteralmente sensato: in quanto possessore di significato fattuale, nel senso del significato fattuale definito dal principio di verificazione, o in quanto analitico. Ayer, nel capitolo 4 di Linguaggio verità e logica, definisce le nozioni di analitico e sintetico come segue: “diciamo analitica la proposizione quando la sua validità dipende esclusivamente dalle definizioni dei simboli che contiene, e la diciamo sintetica quando la sua validità è determinata dai fatti dell’esperienza.”12 Questa definizione è ripetuta nell’introduzione alla seconda edizione: “…una proposizione è analitica se è vera soltanto sulla base del significato dei suoi simboli costituenti.”13 La classe degli asserti letteralmente significanti contiene unicamente la classe degli asserti che in linea di principio ammettono verifica empirica e la classe degli asserti che sono veri o falsi solamente in virtù dei significati (o sensi) delle parti che li costituiscono. Che cosa dire, allora, della presunta verità della logica e della matematica? I positivisti desiderano assicurare significato letterale agli asserti logici e matematici, come ad esempio il principio di non contraddizione, 14 il terzo escluso, 15 e 2+2=4. Ma la necessità di questi asserti impedisce di qualificarli come letteralmente significanti in quanto possessori di significato fattuale: Come dimostrò Hume in modo conclusivo, nessuna proposizione generale la cui validità sia soggetta alla prova dell’esperienza effettiva può mai essere logicamente certa. Non importa quanto spesso si verifichi nella pratica, sussiste ancor sempre la possibilità di una sua 11 Ovviamente, per accettare questa implicazione, dobbiamo assumere che i semplici fatti riguardo al significato non possono fornire una base adeguata per rispondere alla domanda in un modo piuttosto che nell’altro. Questo è l’analogo dell’assunzione, nel caso precedente, che l’asserto in questione non è vero analiticamente. 12 Ayer, Linguaggio verità e logica, p. 86. 13 Ayer, Language, truth and logic, p. 16 (l’introduzione alla seconda edizione non compare nell’edizione italiana). 14 NdT – In base al principio di non contraddizione, per qualunque proposizione P, è falso “P e non P”. 15 NdT – In base al principio del terzo escluso, per qualunque proposizione P, è vero “P o non P”. 6 confutazione in futuro. Che la legge sia stata confermata con tutta evidenza in un numero di casi n-1, non offre alcuna garanzia logica perché lo sia anche nell’ennesimo caso, per quanto grande si ponga il numero n. E ciò significa che nessuna proposizione generale riferentesi a dati di fatto si può mai dimostrare necessariamente e universalmente vera. Può trattarsi nel migliore dei casi di un’ipotesi probabile.16 O, come ha scritto Hahn poco prima di Ayer: L’osservazione mi dischiude solo il transitorio, non va al di là di ciò che è osservato; non c’è alcun legame che porterebbe da un fatto osservato ad un altro, che costringerebbe le osservazioni future ad avere lo stesso risultato di quelle passate ….Qualunque cosa conosco attraverso l’osservazione avrebbe potuto essere diversa.17 A partire da ciò, sembrano esserci tre opzioni disponibili: (1) assicurare significato fattuale agli asserti della logica e della matematica negando che sono necessariamente veri; (2) sostenere che sono analitici; o (3) rifiutarli come letteralmente privi di senso, come se non riuscissero ad avere significato letterale. Come ho osservato prima, Ayer non desidera abbracciare l’opzione (3), e ritiene che l’opzione (1), quella perseguita da Mill, sia “discordante da fatti logici di specifico rilievo”.18 Se consideriamo casi in cui, per esempio, una verità matematica come 2x5=10 sembra essere confutata dall’esperienza, saremo d’accordo che abbandonare l’asserto matematico rilevante non è mai un’opzione praticabile. Supponiamo che io guardi nell’armadio e osservi cinque paia di scarpe. Poi conto ciascuna scarpa e scopro che in totale ce ne sono solo nove. Ayer sostiene che non ci sono circostanze possibili in cui prenderemmo questo tipo di esempio per stabilire la falsità di 2x5=10: diremmo forse che la mia osservazione iniziale di cinque paia di scarpe era sbagliata, che una delle scarpe si è volatilizzata mentre contavo, che due scarpe si sono fuse in una, o che ho fatto un errore mentre contavo. Ma “l’unica spiegazione che non verrebbe mai adottata in nessuna circostanza è che non sempre dieci sia il prodotto di due e cinque.”19 Potremmo ben mettere in discussione questo argomento di Ayer. La considerazione rilevante non è certamente quale spiegazione adotteremmo o non adotteremmo nelle circostanze prese in esame, ma piuttosto quali spiegazioni sarebbero razionalmente disponibili. Ayer deve argomentare non solo che abbandonare l’asserto matematico che 2x5=10 è qualcosa che non faremmo mai in pratica, ma che è un’opzione che noi possiamo scegliere solo al costo di essere irrazionali. Se gli asserti matematici sono, come pretende, analitici, allora ne consegue che: nel rifiutare tali asserti staremmo violando una delle convenzioni che governa il nostro uso del linguaggio e, in questo senso, violeremmo una norma della razionalità. Ma non può assumere che gli asserti matematici siano analitici a questo stadio del suo ragionamento senza semplicemente mancare il bersaglio contro Mill e i difensori dell’opzione (1). Sia come sia, l’idea di Mill che gli asserti della logica e della matematica sono a posteriori e contingenti è largamente rifiutata, pertanto non la discuteremo qui. Invece cercheremo di stabilire la plausibilità della difesa di Ayer dell’opzione (2), la pretesa che gli asserti della logica e della matematica sono analitici. La difesa da parte di Ayer della tesi in base alla quale la matematica e la logica sono analitiche assume la forma seguente. Egli sostiene che se assumiamo tale tesi possiamo spiegare le caratteristiche principali – e storicamente problematiche – di entrambe queste discipline. La prima caratteristica è già stata menzionata: la necessità della matematica e della logica. Come possiamo combinare la pretesa che la matematica e la logica non possono essere confutate dall’esperienza con la credenza diffusa che noi possediamo la conoscenza delle verità logiche e matematiche? Per 16 Ayer, Linguaggio verità e logica, pp. 74-75. Hahn, “Logic, mathematics and knowledge of nature”, p. 148. 18 Ayer, Linguaggio verità e logica, p. 80. 19 Ibid., p. 81. 17 7 rispondere a questa domanda, Kant sostenne che nel caso della geometria, per esempio, “lo spazio è la forma dell’intuizione del nostro senso esterno, cioè la forma da noi imposta alla materia della sensazione.”20 Allo stesso modo per rendere conto della necessità dell’aritmetica, Kant assunse che “l’aritmetica riguarda la nostra intuizione pura del tempo, cioè la forma del nostro senso interno.”21 L’idea di Ayer è che possiamo spiegare la necessità della geometria, dell’aritmetica e della logica, senza invischiarsi nelle stravaganze metafisiche e epistemologiche dell’idealismo trascendentale di Kant. Le verità della matematica sono analitiche nel senso che “registrano [o rispecchiano] la nostra decisione di usare certe parole in una certa maniera.”22 Date queste premesse, è facile riconoscere perché sono necessarie e logicamente certe: Non possiamo negarle senza infrangere le convenzioni presupposte nel procedimento stesso del negare e senza cadere così in intrinseca contraddizione [o in un’auto-contraddizione]. E questo è l’unico fondamento della loro necessità. […] Non c’è nulla di misterioso nella certezza apodittica della logica e della matematica. Sappiamo che nessuna osservazione può mai confutare la proposizione “7+5=12,” ma questo nostro sapere si fonda semplicemente sul fatto che l’espressione simbolica “7+5” è sinonimo di “12”, proprio come il nostro sapere che ogni oculista è un medico degli occhi dipende dal fatto che il simbolo “medico degli occhi” è sinonimi di “oculista”. E la stessa spiegazione regge per ogni altra verità a priori.23 Le verità logiche e matematiche derivano dalle connessioni convenzionali fra le espressioni simboliche del nostro linguaggio. Nel negare tali verità neghiamo le stesse convenzioni che rendono possibile l’uso significante del linguaggio. La negazione di una verità analitica è in questo senso “auto-distruttiva”, e questo rende conto della necessità che gli asserti analitici posseggono. Ecco come la mette Hahn: La logica non si occupa affatto della totalità delle cose, non si occupa di cose, ma solo del nostro modo di parlare delle cose: la logica è generata dal linguaggio. La certezza e la validità universale, o meglio, l’irrefutabilità di una proposizione della logica deriva solo dal fatto che non dice alcunché di oggetti di qualunque tipo.24 Il fatto che sia impossibile trovare un oggetto che sia completamente rosso e completamente non rosso, per esempio, non deriva dal modo in cui la mente e il mondo noumenico cooperano nella costituzione trascendentale del mondo dell’esperienza, ma dalle convenzioni che sottendono il nostro uso del linguaggio. La legge di non-contraddizione non è una verità profonda della realtà, ma semplicemente una prescrizione riguardo al modo di parlare delle cose: esprime la convenzione che “la designazione ‘rosso’ deve essere applicata ad alcuni oggetti e la designazione ‘non-rosso’ a tutti gli altri oggetti.”25 Se Ayer ha ragione, la necessità degli asserti logici e matematici può pertanto essere spiegata. Ci occupiamo ora della seconda caratteristica che ha preoccupato filosofi della logica e della matematica: la loro utilità. Se la matematica e la logica “non dicono nulla di oggetti di alcun tipo”, o non hanno significato fattuale, ne segue che è un errore pensare che ci possano essere scoperte genuine in matematica e in logica? E che cosa dire dell’utilità di queste discipline a priori? Se gli asserti matematici semplicemente mostrano il modo in cui noi usiamo certi simboli, come potremmo mai fare qualunque scoperta interessante in matematica, e come possono queste “scoperte” avere una qualche utilità? Ayer e Hahn rispondono a questo problema come segue: 20 Ibid., p. 92. Ibid., p. 95. 22 Ibid., p. 96. 23 Ibid., pp. 96-97. 24 Hahn, “Logic, mathematics, and knowledge of nature”, p. 152. 25 Ibid., p. 153. 21 8 La capacità di sorprenderci propria della logica e della matematica dipende, come la loro utilità, dai limiti della nostra ragione. Un essere dall’intelletto onnipotente non proverebbe alcun interesse per la logica e la matematica. Infatti sarebbe in grado di vedere in un batter d’occhio tutto ciò che implicano le definizioni impiegate e, corrispondentemente, dall’inferenza logica non apprenderebbe mai nulla di cui non fosse già pienamente consapevole.26 Le proposizioni logiche, sebbene siano puramente tautologiche, e le deduzioni logiche, sebbene non siano altro che trasformazioni tautologiche, hanno significato per noi perché non siamo onniscienti. Il nostro linguaggio è costituito in modo tale che nell’asserire tali e tal’altre proposizioni implicitamente asseriamo tali e tal’altre proposizioni – ma non vediamo immediatamente tutto ciò che abbiamo implicitamente asserito in questo modo. È solo la deduzione che ce ne rende consapevoli.27 Prendiamo il tipo di esempio più semplice: se so che Jones non ha una rosa nell’occhiello della sua giacca e so inoltre che o Jones ha una rosa nell’occhiello della sua giacca o ha un garofano nell’occhiello della sua giacca, posso non essere consapevole che segue da queste conoscenze che Jones ha un garofano nell’occhiello della sua giacca. Mi può sfuggire una delle implicazioni della conoscenza fattuale che io attualmente possiedo. Ma la mia conoscenza della verità logica “se (nonP e (P o Q)) allora Q” mi permette di stabilire le conseguenze di ciò che già so: in questo caso che Jones ha un garofano nell’occhiello della sua giacca. In questo modo la logica mi permette – in quanto essere mortale e finito, non consapevole di tutte le implicazioni logiche della mia attuale conoscenza fattuale – di elaborare quelle implicazioni. Pertanto estende la mia conoscenza, e può servire come uno strumento di scoperta: e tali scoperte possono essere genuinamente interessanti e sorprendenti quando il procedimento per derivare queste conseguenze è molto intricato e complicato, come spesso è nella pratica logica e matematica. Detto questo, tuttavia occorre notare che c’è una restrizione nel modo in cui la logica e la matematica possono estendere la nostra conoscenza. Per come la mette Ayer, “vi è un senso in cui si può dire che queste proposizioni non aggiungono nulla al nostro sapere. Poiché ci raccontano solo quello che si può dire noi sappiamo già.”28 Pertanto, nel semplice caso precedente, se so che Jones non ha una rosa nell’occhiello della sua giacca e so inoltre che o Jones ha una rosa nell’occhiello della sua giacca o ha un garofano nell’occhiello della sua giacca, io so già o so implicitamente che Jones ha un garofano nell’occhiello della sua giacca. Ciò che fa la deduzione logica è di rendere esplicita questa conoscenza implicita. La logica pertanto non amplia mai l’estensione della mia conoscenza fattuale: serve semplicemente a rendere esplicita quella conoscenza fattuale che possedevo precedentemente solo implicitamente. Ma, come sostengono Ayer e Hahn, questo processo di rendere esplicita la conoscenza implicita è sufficiente ad assicurare l’utilità della matematica per esseri finiti come noi oltre che mostrare come ci possa essere una sorta di scoperta in queste discipline. Il resoconto del positivista logico sull’a priori sembra dunque attraente: rende conto della necessità e dell’utilità della logica e della matematica senza avere debiti metafisici ed epistemologici nei confronti delle concezioni rivali, come quella di Kant. Ma è plausibile? Vedremo fra poco che ci sono forti ragioni per pensare che, sebbene attraente, il resoconto del positivista logico sull’a priori è profondamente difettoso. Prima di ciò, tuttavia, può valer la pena di fermarsi un momento a riflettere sulle implicazioni della discussione fino ad ora condotta riguardo alla natura e alla pratica della stessa filosofia. La filosofia è un’attività a priori, pertanto dal resoconto del positivista logico sull’a priori segue che le proposizioni della filosofia sono esse stesse 26 Ayer, Linguaggio verità e logica, p. 98. Hahn, “Logic, mathematics, and knowledge of nature”, p. 157. 28 Ayer, Linguaggio verità e logica, p. 88. 27 9 analitiche. La filosofia non è un corpo di conoscenza fattuale, ma piuttosto un’attività di analisi, come le due citazioni seguenti di Russell e Carnap chiariscono: “Positivismo logico” è il nome di un metodo, non di un certo tipo di risultato. Un filosofo è un positivista logico se sostiene che non c’è un modo speciale di conoscere ciò che è peculiare alla filosofia, ma che le questioni di fatto possono solo essere decise dai metodi empirici della scienza, mentre le questioni che possono essere decise senza fare appello all’esperienza sono o matematiche o linguistiche.29 Non c’è qualcosa come una filosofia speculativa, un sistema di enunciati con uno speciale oggetto d’indagine al pari con quelli delle scienze. Perseguire la filosofia può consistere solo nel chiarire i concetti e gli enunciati della scienza attraverso l’analisi logica.30 Così come la natura analitica della logica e della matematica è compatibile con la loro utilità e il loro interesse, lo è anche la natura analitica della filosofia. Ayer cita la teoria di Russell delle descrizioni definite come un buon esempio dell’utilità dell’analisi filosofica: l’analisi corretta degli asserti che coinvolgono espressioni descrittive ci permette di non perderci nel sottobosco della giungla meinonghiana. Ci sarebbe molto da dire su questa concezione estremamente influente della natura della filosofia, ma dobbiamo ora occuparci della plausibilità del resoconto positivista sullo stesso a priori. La principale obiezione all’idea che le verità a priori siano vere in virtù delle convenzioni che governano il nostro uso del linguaggio è dovuta a Quine [che l’ha esposta] in un lavoro del 1936 [“Truth by convention” apparso per la prima volta in Otis H. Lee (ed), Philosophical Essays for A. N. Whitehead, New York, Longman, ristampato in Benacerraf e Putnam (eds), The Philosophy of Mathematics, Cambridge, Cambridge University Press, 1964]: Nell’adottare le convenzioni su cui è fondata la logica stessa, rimane tuttavia da affrontare una difficoltà generale. Ciascuna di queste convenzioni è generale, nel senso che stipula la verità di ciascuno di un’infinità di asserti che si conformano a una certa descrizione; la derivazione della verità di ciascun asserto specifico dalla convenzione generale richiede pertanto un’inferenza logica, e questo ci coinvolge in un regresso all’infinito.31 Questa osservazione è un po’ criptica, ma l’idea di Quine può essere facilmente chiarita. Si prenda una verità logica come (1) Se (Jones è inglese e (se Jones è inglese allora Jones è britannico)) allora Jones è britannico Secondo il positivismo logico questa verità logica è vera per convenzione. Ma quale convenzione? Abbiamo una convenzione specifica per (1) che stipula che (1) deve essere considerata vera qualunque cosa accada? Non abbiamo chiaramente una tale convenzione, giacché ci sono infinite verità logiche (per esempio possiamo generare per sostituzione un numero infinito di esempi a partire da (1) come “Se (Jacques è francese e (se Jacques è francese allora Jacques è europeo)) allora Jacques è europeo” e così via all’infinito), e si può difficilmente attribuirci la capacità di istituire un numero infinito di convenzioni, una per ciascuna verità individuale della logica. Pertanto la convenzione che governa (1) deve essere una convenzione generale della logica, da cui la convenzione che governa (1) è derivabile. Ma che cosa potrebbe essere questa convenzione? Si consideri 29 Russell, “Logical positivism”, p. 367. Carnap, “The old and the new logic”, p. 145. 31 Quine, “Truth by convention”, p. 351 (seconda edizione, p. 342) 30 10 (2) Se (P e (se P allora Q)) allora Q Poi possiamo esprimere la convenzione che rende conto di (1) come segue: (3) Se (1) è ottenuto da (2) attraverso sostituzione uniforme di P e Q, allora (1) deve essere considerato vero qualunque cosa accada. Dato (3) e (A) (1) è ottenuto da (2) attraverso sostituzione uniforme di P e Q Possiamo derivare la convenzione che regola specificatamente (1): (4) (1) deve essere considerato vero qualunque cosa accada Pertanto, sulla base di una convenzione generale, abbiamo generato una convenzione che regola specificatamente (1). Ma nel derivare (4) da questa convenzione più generale abbiamo fatto affidamento sulla logica stessa! Nel derivare (4) da (3) e (A) abbiamo fatto affidamento su (5) Se ((1) è ottenuto da (2) attraverso sostituzione uniforme di P e Q e (se (1) è ottenuto da (2) attraverso sostituzione uniforme di P e Q, allora (1) deve essere considerato vero qualunque cosa accada)) allora (1) deve essere considerato vero qualunque cosa accada. Ma (5) è della stessa forma logica di (1)! Per stabilire il suo stato di verità in virtù della convenzione avremmo bisogno di (6) Se (5) è ottenuto da (2) attraverso sostituzione uniforma di P e Q, allora (5) deve essere considerato vero qualunque cosa accada. Dato inoltre (B) (5) è ottenuto da (2) attraverso sostituzione uniforme di P e Q possiamo allora derivare (7) (5) deve essere considerato vero qualunque cosa accada. Tuttavia nel derivare (7) abbiamo fatto affidamento ancora sulla logica! Nella sua derivazione noi abbiamo fatto affidamento su (8) Se ((5) è ottenuto da (2) attraverso sostituzione uniforme di P e Q e (se (5) è ottenuto da (2) attraverso sostituzione uniforme di P e Q, allora (5) deve essere considerato vero qualunque cosa accada)) allora (5) deve essere considerato vero qualunque cosa accada. Ma ancora una volta abbiamo a che fare con un asserto (cioè (8)) che ha la stessa forma logica di (1), pertanto per assicurare il suo statuto di verità di convenzione, avremmo bisogno di (9) Se (8) è ottenuto da (2) attraverso sostituzione uniforma di P e Q, allora (8) deve essere considerato vero qualunque cosa accada. 11 E così ci troviamo in un regresso all’infinito: per derivare che (9) deve essere considerato vero qualunque cosa accada avremo bisogno di una verità logica, e così via all’infinito. Il dilemma che abbiamo affrontato è pertanto il seguente. O supponiamo che (5) sia vera in virtù di una convenzione, nel qual caso il nostro resoconto ci fa incorrere in un regresso all’infinito, perché dobbiamo presupporre la logica stessa per derivare la convenzione rilevante. O, d’altra parte, supponiamo che (5) non è vero in virtù di una convenzione, nel qual caso conveniamo che il resoconto neopositivista non riesce a rendere conto di (5) (e di conseguenza, neanche di (1)). In qualunque caso, il resoconto è destinato ad arrestarsi. Quine riassume la situazione così: “la difficoltà è che se la logica deve essere derivata attraverso una mediazione dalle convenzioni, la logica stessa è necessaria per inferire la logica a partire dalle convenzioni”.32 Il resoconto neopositivista dell’a priori appare nella migliore delle ipotesi una posizione molto instabile.33 La nozione di convenzione è riemersa più recentemente in filosofia del linguaggio nel lavoro di David Lewis, ma non possiamo discutere qui il resoconto della convenzione di Lewis. Nella prossima sezione, ci allontaniamo dalla distinzione di Ayer fra asserti empiricamente verificabili e asserti analitici e prendiamo in considerazione un altro influente punto di vista al riguardo, la famosa distinzione di Carnap fra domande “interne” e domande “esterne”. 3.5 Carnap sulle domande interne e esterne Rudolf Carnap è stato uno dei membri più influenti del Circolo di Vienna, che abbiamo brevemente menzionato nella sezione 3.1. Un approfondimento del suo lavoro è molto importante, non solo per ricostruire il positivismo logico, ma anche per comprendere molti degli sviluppi successivi della filosofia analitica. In questa sezione noi considereremo solo un aspetto della filosofia di Carnap, la distinzione fra quelle che egli denominò domande “interne” e quelle che denominò domande “esterne”. Nel suo “Empirismo, semantica e ontologia” Carnap riflette su alcune delle dispute metafisiche che hanno tradizionalmente occupato i filosofi. Per esempio, c’è la disputa fra nominalisti e platonisti riguardo allo statuto ontologico delle entità astratte, come numeri, insiemi e proposizioni. Tradizionalmente, i platonisti sulla matematica, ad esempio, ritengono che la verità di asserti come “5 è un numero primo” implichino l’esistenza di entità astratte, i numeri, che non esistono nello spazio e nel tempo e sono completamente al di fuori dell’ordine causale delle entità concrete. I nominalisti, che ritengono i platonisti ontologicamente ridondanti ed epistemologicamente inaffidabili, assumono una diversa posizione: si propongono di analizzare asserti come “5 è un numero primo” in modo tale che la loro verità non implichi l’esistenza di entità astratte. Carnap introduce una distinzione che intende tirare via il tappeto da sotto i piedi di entrambi i contendenti in questo tradizionale dibattito. Per spiegare questa distinzione, dobbiamo prima spiegare la nozione carnapiana di struttura linguistica. Molto grossolanamente, una struttura linguistica consiste di un vocabolario con un insieme di regole e convenzioni che governano l’uso di quel vocabolario. Consideriamo il caso dell’aritmetica. Nell’aritmetica una struttura linguistica consisterebbe di un vocabolario costituito da numerali (“3”, “4”, “5” e così via), variabili (“x”, “y”, “z”), termini generali (“è un numero primo”, “è un intero”), e diverse convenzioni (“…è un numero” è vero quando un qualunque numerale viene sostituito ai puntini; “…è un numero primo” è vero quando e solo quando il numerale sostituito ai puntini è divisibile solo per 1 e per se stesso; e così via). Questo è un esempio di ciò che Carnap chiama una “struttura logica” (vedremo fra poco perché). Ma possiamo avere anche una “struttura fattuale”. Per esempio possiamo avere una struttura costituita da termini-massa (“zucchero”, “sale”, “birra”), termini generali (“dolce”, “speziato”, “analcolico”) e convenzioni 32 Ibid., p. 352 (seconda stampa p. 343) Si noti che finché l’obiezione di Quine è rivolta contro il convenzionalismo in logica, può tuttavia lasciare spazio per una forma di convenzionalismo in matematica. Noi potremmo dover usare la logica per derivare le verità matematiche dalle convenzioni generali rilevanti, ma questo non sarebbe circolare come nel caso della logica. 33 12 linguistiche (“…è solubile” è falso se il termine massa che sostituisce i puntini denota una sostanza che non si scioglie in acqua a temperatura e pressione normale). Utilizzando questa nozione di struttura linguistica Carnap distingue fra domande interne e esterne: E’ innanzitutto necessario riconoscere una fondamentale distinzione fra due generi di questioni che riguardano l’esistenza o la realtà delle entità. Se qualcuno desidera parlare nel proprio linguaggio di un nuovo tipo di entità, deve introdurre un sistema di nuovi modi di parlare, sottoposto a nuove regole; chiameremo tale procedimento costruzione di una struttura linguistica per le nuove entità in questione. E ora dobbiamo distinguere due generi di questioni di esistenza: in primo luogo, questioni di esistenza di certe entità del nuovo genere entro la struttura; le chiamiamo questioni interne; e, in secondo luogo, questioni riguardanti l’esistenza o la realtà del sistema di entità nel suo complesso, chiamate questioni esterne.34 Così, nell’esempio aritmetico, “C’è un numero primo fra 5 e 9?” è una domanda interna. Data la struttura linguistica costituita da numerali ecc., possiamo rispondere applicando i metodi logici dell’aritmetica. Per esempio, il calcolo rivela che i soli divisori di 7 sono se stesso e 1, pertanto, in base alla convenzione che regola “numero primo”, 7 è un numero primo, cosicché c’è un numero primo fra 5 e 9. Possiamo vedere ora perché Carnap considera questa struttura una struttura logica: perché per rispondere alle domande interne che sono formulabili in quella struttura occorre solo un calcolo a priori insieme alle applicazioni delle convenzioni rilevanti. In altre parole, la struttura è una struttura logica perché le risposte alle domande interne rilevanti sono analitiche. Le questioni stanno diversamente nel caso della seconda struttura linguistica che abbiamo introdotto. Si consideri una domanda interna come “Il piombo è solubile?” In questo caso, per rispondere alla domanda, oltre all’applicazione della convenzione rilevante, occorre fare appello all’evidenza empirica e all’osservazione. Dobbiamo fare le osservazioni rilevanti per stabilire se il piombo si scioglie nell’acqua a temperatura e pressione normale. Alcune delle domande interne a cui si può rispondere assumendo questa struttura dipendono quindi da questioni a posteriori, e questo spiega perché Carnap chiamerebbe questa struttura fattuale. Molto grossolanamente, quindi, una struttura linguistica è una struttura logica se tutte le domande interne formulabili nella struttura stessa ammettono risposte analitiche, ma è una struttura fattuale se almeno alcune delle domande interne formulabili nella struttura stessa ammettono risposte non analitiche. Possiamo pertanto constatare, utilizzando la terminologia delle sezioni precedenti, che le risposte alle domande interne sono letteralmente significanti, giacché sono o analitiche o richiedono metodi empirici. Che cosa dire allora delle domande esterne? Un esempio di una domanda esterna nel caso dell’aritmetica sarebbe “Ci sono numeri?” o “I numeri esistono?” Questo è il tipo di domanda su cui discutono platonisti e nominalisti: il platonista pretende che esistano di fatto i numeri, intesi come oggetti astratti al di fuori dello spazio e del tempo, mentre il nominalista lo nega. Carnap sviluppa un ingegnoso dilemma che fa piazza pulita di entrambi i contendenti nel dibattito. Entrambi i contendenti si considerano in disaccordo riguardo a questioni di fatto sostanziali: l’esistenza di entità astratte. Ma la domanda su cui si dividono può essere intesa come una domanda interna o come una domanda esterna. Se la domanda è interna, il dibattito non è sostanziale, giacché l’esistenza dei numeri segue banalmente e analiticamente dalla struttura linguistica. “5 è un numero” è vero per la prima convenzione asserita quando si introduce la struttura e “c’è un x tale che x è un numero” segue immediatamente da questa per il tramite della logica elementare. Questo non è ovviamente ciò su cui nominalisti e platonisti discutono: 34 Carnap, “Empirismo, semantica e ontologia” in Filosofia del linguaggio, Milano, Cortina, p. 89. 13 Se domandassimo loro “Vi state chiedendo se, una volta accettato il sistema dei numeri, questo risulterebbe vuoto o no?”, probabilmente risponderebbero: “Niente affatto; intendiamo riferirci a una questione che viene prima dell’accettazione della nuova struttura”.35 Pertanto la domanda deve essere esterna. E questo ci porta al secondo corno del dilemma proposto da Carnap. Infatti, per Carnap, le domande esterne non sono letteralmente significanti. Le domande esterne riguardano decisioni che dobbiamo prendere sull’adozione delle stesse strutture linguistiche sulla base di considerazioni pragmatiche che riguardano la capacità della struttura ad aiutarci ad organizzare il nostro pensiero o a predire e spiegare il corso dell’esperienza futura: L’accettazione [di una nuova struttura] non può essere giudicata vera o falsa perché non è un’affermazione. Può solo essere giudicata più o meno comoda, feconda, corrispondente agli scopi per cui il linguaggio viene usato. […] L’accettazione o il rifiuto di forme linguistiche astratte, così come l’accettazione o il rifiuto di qualunque altra forma linguistica in qualunque ramo della scienza, dipenderanno in definitiva dalla loro efficienza come strumenti, dal rapporto fra i risultati ottenuti e la quantità e la complessità degli sforzi richiesti.36 Ci possono essere domande sostanziali riguardo a quale struttura soddisfa meglio i criteri pragmatici rilevanti. Ma le stesse domande esterne non riguardano alcuna questione di verità o falsità, solo decisioni basate su considerazioni puramente pragmatiche del tipo menzionato. Il dibattito metafisico tradizionale è di fatto solo uno pseudo-dibattito, e le domande che solleva sono pseudo-domande. Carnap dice che non ci sono domande sostanziali e metafisiche riguardo a problemi di impegno ontologico: siamo solo ingannati nel credere che ci siano tali domande perché confondiamo le domande interne con le domande esterne. Carnap pertanto si propone di dissolvere le tradizionali dispute metafisiche riguardo all’esistenza delle entità astratte, e fa intendere che altre dispute tradizionali possano essere dissolte nello stesso modo (per esempio il dibattito fra realisti e idealisti sugli oggetti fisici). Le affinità di questa posizione con quella di Ayer sono chiare. […] Riprenderemo in considerazione Carnap quando prenderemo in considerazione gli argomenti di Quine nel capitolo che segue. Prima di ciò tuttavia, ritorneremo a considerare brevemente Ayer. 3.7 Olismo moderato Che cosa possiamo dire del processo di verificazione di enunciati che possiedono significato fattuale genuino, che sono di fatto ipotesi empiriche genuine? Ayer è un olista moderato riguardo a tali enunciati: pensa che le ipotesi empiriche non sono mai soggette individualmente al test dell’esperienza, ma piuttosto si confrontano con l’esperienza in blocco. Egli scrive “Quando si parla di ipotesi verificate nell’esperienza, è importante tenere a mente che non è mai una singola ipotesi che viene confermata o rifiutata dall’esperienza, ma sempre un sistema di ipotesi.”37 Ayer adotta l’esempio di un esperimento pensato per mettere alla prova una particolare generalizzazione scientifica. Supponiamo che la generalizzazione affermi che “Nelle condizioni C, tutti gli A sono B”. Supponiamo anche di osservare, in quelle che sembrano essere le circostanze C, un A che non è B. Allora, sostiene Ayer, non siamo obbligati ad abbandonare la nostra generalizzazione scientifica: possiamo anche abbandonare la pretesa che la nostra osservazione di un A che non è B sia veridica; possiamo abbandonare la pretesa che le circostanze fossero effettivamente di tipo C; e così via. Ciascuna di queste opzioni richiederà aggiustamenti di compensazione nella nostra teoria globale, ma “finché ci diamo da fare per mantenere il nostro sistema di ipotesi privo di contraddizione, possiamo adottare qualunque spiegazione scegliamo.”38 In pratica sceglieremo la spiegazione che 35 Ibid., p. 92. Ibid., p. 98 e p. 105. 37 Ayer, Language, truth and logic, p. 94. 38 Ibid., p. 95. 36 14 meglio ci aiuta ad anticipare il corso delle nostre sensazioni, e sebbene “queste considerazioni abbiano l’effetto di limitare la nostra libertà nel preservare o rifiutare le ipotesi”, tuttavia “dal punto di vista logico la nostra libertà è illimitata”. Ayer riassume il punto così: I “fatti dell’esperienza” non possono mai costringerci ad abbandonare un’ipotesi. Un uomo può sempre sostenere le sue convinzioni pur di fronte ad un’evidenza apparentemente ostile se è pronto a fare le necessarie assunzioni ad hoc. Ma sebbene si possa sempre spiegare in qualche modo ogni particolare situazione che sembra confutare un’ipotesi che abbiamo a cuore, deve sempre rimanere la possibilità che l’ipotesi verrà alla fine abbandonata. Altrimenti non è un’ipotesi genuina.39 Ma l’olismo di Ayer è moderato: si applica solo al sottoinsieme degli enunciati letteralmente significanti che si qualifica come tale perché possiede significato fattuale. Gli altri enunciati letteralmente significanti, gli enunciati analitici, sono esenti dalla concezione olistica: “Una proposizione che siamo disposti ad ammettere come valida di fronte a qualunque esperienza non è un’ipotesi affatto, ma una definizione. In altre parole non è una proposizione sintetica, ma una proposizione analitica.”40 Nel prossimo capitolo prenderemo in esame il tentativo di Quine di generalizzare l’olismo moderato di Ayer fino ad includervi anche quegli enunciati che sono stati tradizionalmente considerati analitici. Come vedremo questo olismo illimitato ha conseguenze drastiche, non solo per la concezione neopositivista del significato, ma anche per le nozioni di significato e analiticità in generale. 39 40 Ibid. Ibid.