Contributi on line (Bozza non corretta) Enrico Liverani1 LE ORGANIZZAZIONI E IL POTERE Dalla psicosociologia alle dinamiche quotidiane Autonomia è non nascondere a se stessi il giudizio sulla realtà Vittorio Foa, Cent’anni dopo Premessa Le dinamiche interne ed esterne di gestione del potere possono essere spunti di riflessione fondamentali per comprendere i ruoli dei soggetti di rappresentanza, nel nostro caso Organizzazioni, all’interno dei contesti sociali. È da questa prospettiva che si tenterà di analizzare alcuni percorsi interni ed esterni che possono, secondo l’opinione di chi scrive, leggere in modo innovativo l’assetto complessivo di un’ Organizzazione come la CGIL e ridefinirne il ruolo. Si tratta di un percorso che ha l’intento di inquadrare un ragionamento che offra spunti ad un dibattito che si vorrebbe sempre più ampio ed approfondito sia da parte di chi vive quotidianamente in un’Organizzazione sia da parte di chi l’incontra nel proprio percorso, aderente alla stessa e/o cittadino. L’approccio psicosociologico consente un approfondimento delle tematiche necessario per lo sviluppo di ogni ragionamento successivo, mentre la scelta di un approccio didascalico è funzionale alla migliore esplicazione possibile dei temi trattati. L’analisi di concetti quali l’individualismo, sono poi funzionali alla comprensione del quadro generale nel quale si ambienta l’analisi che si presenta in questo contributo. Cos’è un’organizzazione? Una definizione psicosociologica Il concetto di organizzazione necessita di un chiarimento linguistico - storico prima ancora che sociologico2. Il termine organizzazione, infatti, deriva da “organo”, che indica un mezzo, uno strumento. Per estensione è stato poi applicato a diverse parti del corpo umano considerate come degli strumenti (ad es. organi riproduttivi) e solo nel secolo XVIII ad un essere vivente provvisto di organi: l’organizzazione indicava, quindi, uno stato ben preciso quale quello dell’essere organizzato, ossia adatto alla vita. 1 Segretario della Funzione pubblica CGIL di Ravenna (Responsabile del comparto socio-assistenziale educativo) 2 Lévy A. “Organizzazione” in “Dizionario di psicosociologia” ed. Raffaello Cortina Editore, 2005 1 Solo con l’avvento della Rivoluzione francese il termine prende le distanze dalla biologia, dalla psicologia e dalla morale per allargarsi al campo istituzionale ed acquisire un significato politico: organizzare significa dotare un istituto o un’impresa di una struttura, di una Costituzione. Con l’inizio del XX secolo, col termine organizzazione si intenderà non solo lo stato di un organismo sociale, ma l’organismo sociale stesso, ossia le forme associative organizzate e l’insieme delle persone che ne fanno parte. L’organizzazione rinvia sempre necessariamente a un essere o ad un insieme vivente3. Essa non esiste in sé e per sé, trattandosi sempre dell’organizzazione di quell’insieme, di quel gruppo o di quell’individuo. Storicamente, è bene ricordarlo, il termine ha fatto la sua comparsa in sociologia e nelle scienze politiche a partire dalla Rivoluzione francese, cioè quando sono state create istituzioni umane dotate di strutture indipendenti da un principe. Sarà poi solo all’inizio del XX secolo che il concetto di organizzazione, usato fino allora solo per società o comunità sociali, viene utilizzato per “entità a dimensioni intermedie” (ad es. aziende, ospedali, scuole, amministrazioni pubbliche…) costituite da livelli gerarchici diversi, da personale di categorie diverse e da sistemi di comunicazione complessi (v. Taylor 4 e applicazione di tale concetto all’organizzazione del lavoro ed alla gestione). L’organizzazione è definita come un insieme di persone e gruppi che mettono in comune risorse e strumenti per realizzare obiettivi di produzione di beni o servizi o per perseguire finalità culturali. Questo modello ha acquisito sempre più importanza nelle nostre società, in virtù della complessità crescente che implica un specializzazione sempre più forte e che richiede strumentazioni tecniche, amministrative o finanziarie sempre più difficili da gestire. La specializzazione è, infatti, uno dei tratti che sempre più caratterizza le organizzazioni. Esse si definiscono a partire da progetti di azione e non, come accade per le “comunità sociali” (ad es. famiglia), a progetti di vita5. La partecipazione dei loro membri, quindi, non è totale, ma in funzione alla parte che giocano nel funzionamento dell’organizzazione stessa, diversamente da quanto accade in una comunità, che per definizione non accetta la multiappartenenza. Le organizzazioni hanno senso, a differenza delle comunità, solo se in grado di realizzare i compiti loro attribuiti o che si sono date: per tali finalità in ogni organizzazione si creano divisioni interne, funzionali, orizzontali e gerarchiche. In tale contesto assumono grande importanza alcuni fattori, tra cui spiccano le “regole”, che definiscono comportamenti e relazioni e che, benché per loro natura arbitrarie e quindi umane, rappresentano la traduzione della volontà di alcune donne e uomini che liberamente scelgono di associarsi per vivere insieme, per lottare contro tutto ciò che minaccia la loro esistenza. Le organizzazioni, per esistere, hanno bisogno del senso, che si costruisce attraverso racconti, ossia discorsi di rappresentazioni, in cui i personaggi in carne ed ossa le facciano vivere, dando loro un volto e collegandole ad un passato: ciò che costituisce la storia dell’organizzazione è l’attività dello spirito, l’immaginario, i miti, i fondatori. Esse affermano la loro realtà e la loro esistenza solo in quanto assimilate ad una “divinità trascendentale”, di un ordine non umano, che nega il loro carattere precario e che consente di attribuire ai leaders una natura superiore, diversa dagli uomini comuni, che riesce cioè ad attribuire il senso, le finalità del gruppo, insomma la realtà a cui riferirsi. L’organizzazione è da intendersi come un sistema sociale, ossia un insieme di persone o gruppi che si sono riuniti per sviluppare e istituire tra loro rapporti di collaborazione (v. Mayo6) e, partendo da questa definizione si sono sviluppati (in discipline che vanno dalla etnografia, alla psicoanalisi, sociologia, psicologia…) importanti concetti quali: razionalità limitata, strutture di comunicazione formale ed informale, sistemi gerarchici, management partecipativo, per citare i più noti. Un filo rosso di caratteristiche comuni lega tutti questi concetti, che possono essere riassunti in: • coerenza tra i bisogni di coesione sociale e soddisfazione dei bisogni individuali; 3 ibidem Taylor F.W. “L’organizzazione scientifica del lavoro” ed. Etas Milano, 2004 5 v. supra 6 Mayo E. “I problemi umani e sociopolitici della società industriale” ed. UTET, 1969 4 2 • i conflitti sociali possono essere gestiti migliorando la comunicazione e attraverso la creazione di regolazioni e compromessi capaci di ridurre gli scarti tra rappresentazioni e attese divergenti; • gli stili di autorità e di comando democratici, fondati sulla partecipazione consentono risultati sul piano della performance rispetto agli stili di direzione autoritari. Si tratta, in sostanza di un’organizzazione da intendersi come un oggetto finito, esistente in sé e per sé, come un sistema chiuso relativamente indipendente dal contesto che assomma un insieme di funzioni sociali (integrazione, formazione, produzione di beni…), piuttosto che come un processo, un’azione realizzata da soggetti impegnati in cooperazione e aiuto reciproco, dotata di senso in quanto parte di una società più ampia. Si rovescia così il rapporto tra l’organizzazione intesa come oggetto ed i soggetti che la compongono, che le danno senso: essi diventano membri, quindi assoggettati alle regole, ai vincoli ed agli obiettivi7. Le organizzazioni, nelle nostre attuali società occidentali, costituiscono una risposta chiara alle tensioni che ne minacciano la coesione, contrastando l’affievolirsi dei legami sociali e tentando di attenuare le forti contraddizioni tra aspirazioni dei singoli all’autonomia e alla libertà e le costrizioni imposte dalla necessità della convivenza con altri. L’organizzazione, in sintesi, una forma di azione collettiva reiterata, basata su processi di differenziazione (divisione di compiti) ed integrazione (unità d’intenti), stabili ed intenzionali, oltre che su ruoli che specificano chi fa che cosa, in modo interdipendente. Cos’è il potere? Un’altra definizione sociopsicologica Il concetto di potere, come ben si può capire, ha un numero svariato di accezioni e molti sono i sinonimi che si usano per indicarne varie dimensioni (ad es. autorità, dominio, influenza…). Il potere 8 si afferma sempre rispetto a un’inerzia o una resistenza presunta e presuppone un’opposizione tra le due polarità, caratterizzata da un’asimmetria, ovvero dal fatto che chi ha potere lo ha sempre alle spese di un altro. Si tratta, quindi, di un’energia applicata a elementi da sottomettere, in cui non deve confondersi l’energia necessaria con la forza, che è, insieme alla persuasione, alla legge, alla seduzione, al costume, un mezzo impiegato dal potere. Al di là, comunque, dei mezzi che impiega, il potere è essenzialmente un potenziale di interventi efficace sugli altri. Foucault9 definisce il potere come un “gioco di forze”, una dinamica relativamente instabile, in cui l’insubordinazione latente degli uni cerca di essere prevenuta attraverso un’affermazione di intangibilità in nome della quale il potere fa ricorso, oltre ad altri mezzi, alla manipolazione istituzionale ed alla sacralizzazione. L’instabilità che caratterizza il potere fa sì che sia sempre da conquistare, elargire o conservare, per assicurarsi almeno “qualche zona di tranquillità”, per citare Crozier10. Detenere il potere significa esaltare il narcisismo ed esso procura privilegi e vantaggi psicologici ben oltre la necessità funzionale: è naturale tentare di conservarlo con ogni mezzo. Occorre comunque sottolineare la differenza tra “avere potere” (potere potenziale) ed “esercitare potere” (potere attuale), dove la prima è una capacità, mentre la seconda un’azione: questo consente di dire che per l’esercizio del potere sono egualmente indispensabili possesso di risorse e abilità di sfruttare tali risorse (v. Ryle11). Nella storia della società, poi, l’idea del potere è sempre stata caratterizzata da legami con la dimensione religiosa, con l’idea del sacro (cfr. con concetto espresso nel paragrafo precedente in merito alla trascendenza dell’organizzazione). Il potere è comunque una necessità legata alla prassi: non è concepibile alcuna cooperazione, immaginare un’azione collettiva, senza stabilire priorità, divisioni del lavoro, ossia compiti subordinati gli uni agli altri secondo un ordine non indifferente. 7 v. supra Barus – Michel J. e Enriquez M. “Potere” in Dizionario di psicosociologia ed. Raffaello Cortina Editore, 2005 9 Foucault M. “La volontà di sapere” ed. Feltrinelli, 1978 10 Crozier M. “Il fenomeno burocratico” ed. Etas Kompass, 1969 11 Ryle G. “Lo spirito come comportamento” ed. Einaudi, 1955 8 3 Il potere è necessario all’azione collettiva ed essa genera a sua volta potere. In senso più generale si può affermare che le relazioni tra individui sono attraversate dal potere, che può avere una dimensione religiosa, politica, ma anche economica (v. Marx12). Qualunque sia la sua natura, la consistenza reale degli effetti del potere non deve mascherare la sua dimensione immaginaria: il potere, in un certo senso, si basa sulla fede13 e, nello specifico, è quella di coloro che si sottomettono perché credono che i loro rappresentanti “tengano le chiavi della loro sicurezza e della loro felicità”. In realtà, essi non si accorgono che è l’intensità delle loro attese che costituisce la forza di un potere che spesso non è che “un simulacro agitato davanti ai loro occhi”. Ci si chiede14, inoltre, quanto spesso il potere non sia altro che la rivendicazione della fiducia, in quanto convincimenti alimentati da discorsi, individuando in questi ultimi, i discorsi appunto, i principali strumenti del potere. Il discorso, infatti, serve a nutrire l’immaginario ed esaltare le speranze, a fissare il senso, a indicare ciò che deve essere acquisito di un sapere, che si suppone sia posseduto da chi detiene il potere: il sapere è potere, anche se “sapere supposto”. E’ evidente che esiste un lato immaginario del potere, che acquista quindi una evidente dimensione psicologica, potendo affermare con tranquillità che il potere stesso è iscritto nello psichismo fin dalla nascita: non si intende approfondire tale aspetto, benché fondamentale, ma si rimanda agli studi di Lacan15 e Mendel16 al riguardo. Per l’argomento che si tratta in questo contributo è importante anche segnalare i rapporti tra potere e legge e tra potere e capo. Nel primo caso si deve tenere in considerazione il concetto di “distanza”: il potere si confonde con la legge e si cade nell’arbitrio e nel dispotismo, oppure il potere si appella alla legge e l’amministra, sottomettendovisi esso stesso, creando così l’autorità legittima. Anche nel caso della relazione tra potere e capo è possibile avere le medesime ambiguità sopra segnalate: il capo è un’incarnazione del potere, ma ne è anche l’emanazione (il potere è attributo della sua persona o del suo lignaggio), il rappresentante designato, è portavoce, possiamo dire, del popolo che è vero detentore del potere? Freud17 attribuisce il legame sociale che riunisce gli individui della massa, organizzata o meno, e li porta a un’azione comune all’esistenza di una guida o di un capo. Questo capo ama tutti di un amore uguale come un padre ama i suoi figli e loro per compiacerlo si uniscono e sostengono tra loro, mettendo in lui il loro ideale dell’Io, che, re-introiettato, li rende tutti uguali. Questo ragionamento si basa su una situazione tipica del “potere carismatico”, cui si attribuiscono doti eccezionali, che collocano il suo potere su un piano molto affettivo, quasi religioso. L’esperienza, benché esistano vari tipi di potere che possono essere assunti, insegna che si ha come la necessità di una “vera incarnazione” del potere, ossia di un personaggio visibile, che convoglia su di sé, al di là delle opinioni, affetti forti, positivi o negativi che siano. Ciò che accade nelle società, si ritrova nei gruppi e nelle organizzazioni, con questioni ben specifiche da affrontare. In merito ai gruppi vale la pena ricordare i fondamentali studi svolti da Lewin18 sulla leadership ed i vari tipi di leader (autoritario, democratico, laissez – faire), che hanno dimostrato come “vincente” la gestione democratica della leadership stessa. Il potere trova nelle organizzazioni e nelle istituzioni ambiti privilegiati per la sua esistenza. Non possono essere istituite, svilupparsi e socializzare i propri membri senza riferirsi ad una “parola superiore” che offra loro legittimità. Ogni istituzione è la faccia invisibile dell’organizzazione, poiché le fornisce un senso. L’istituzione che si fonda su un potere teorizzato, considerato indiscutibile, con forza di legge, deve essere interiorizzata nei comportamenti concreti quotidiani. 12 Marx K. “Il Capitale” ed. Editori Riuniti, 1970 Barus – Michel J. e Enriquez M. “Potere” in Dizionario di psicosociologia ed. Raffaello Cortina Editore, 2005 14 v. supra 15 Lacan J. “Scritti” ed. Einaudi, 1974 16 Mendel G. “La société n’est pas une famille” ed. La Découverte, 1992 17 Freud S. “Psicologia delle masse e analisi dell’Io” ed. OSF. Vol.9 18 Lewin K. “Teoria dinamica della personalità” ed. Giunti, 1968 13 4 Max Weber19, per primo, ha tentato di stabilire una tipologia del potere nelle organizzazioni ed ha descritto le forme del potere carismatico e burocratico, che per esaustività così decliniamo: • potere carismatico: nell’ambito dell’organizzazione prende l’aspetto di un potere relazionale, dove vi sono uomini devoti al capo, fedeli a lui come persona. Il potere è incondizionato ed il capo si circonda di subordinati simili a lui. Questo capo ha un alto concetto di se stesso, è un “uomo di convinzioni”, che non mette in discussione le proprie certezze e che mantenuto in una sfera sacrale. • potere burocratico: quando la realtà diventa più complessa, l’organizzazione ha bisogno di tecnici, benché meno forti come personalità rispetto al capo carismatico. Si ha così il passaggio dal potere “del fascino” al potere degli uffici che legiferano, ordinano ed emanano regole. Che devono essere rispettate da tutti. All’arbitrio si sostituisce la regola, alla genialità la competenza e l’organizzazione si struttura: il capo è egli stesso un ingranaggio della macchina che guida, in una divisione chiara del lavoro. A queste devono essere aggiunte altre tre forme di potere: • potere cooperativo (cfr. teoria della mobilitazione dei centri di potere), in cui si ha una leadership condivisa, in cui il capo stringe rapporti di confidenza coi suoi uomini ed in cui si ha un processo decisionale collettivo; • potere tecnocratico, in cui il capo è fortemente specializzato in una disciplina moderna ( finanza, informatica…) ed ha un conoscenza parziale di altre discipline, che utilizza per guidare altri specialisti. A differenza del burocrate, il tecnocrate appare più umano, perché lavora in gruppo ed il suo scopo è il benessere degli altri; • potere strategico, sempre più diffusa nel mondo attuale, perché occorre dare prova di flessibilità, di agilità, di strategie. Per essere stratega non è necessario essere parte di un’élite, ma conoscere le motivazioni, i sentimenti dei propri collaboratori, coordinare le attività di ciascuno, attraverso un’affidabilità che è in realtà superficiale. Weber20 ha poi distinto il potere in: • potere economico, cui corrisponde come unità collettiva la “classe”, fondato sul possesso di certi beni necessari e scarsi, per indurre coloro che non li hanno a tenere una certa condotta, in particolare a fornire una prestazione lavorativa; • potere ideologico, cui corrisponde come unità collettiva il “ceto”, che comprende idee, conoscenze, modi di pensare, per influenzare il comportamento altrui; • potere politico, cui corrisponde come unità collettiva il “partito”, che concerne il possesso degli strumenti mediante i quali si esercita la violenza fisica, ossia armi ed organizzazioni militari. Queste tipologie di potere “si ritrovano nella maggior parte delle teorie sociali contemporanee, nelle quali il sistema sociale nel suo complesso compare direttamente o indirettamente articolato in tre sottosistemi principali: organizzazione delle forze produttive, organizzazione del consenso e organizzazione del consenso […]”21. Organizzazioni, potere ed individualismo: il filo rosso. Il ragionamento, ora, deve calarsi sempre più nel concreto e, partendo da quanto affermato nei paragrafi precedenti, aiutarci a comprendere le dinamiche che spesso viziano comportamenti all’interno delle Organizzazioni. L’idea che intendo supportare è, infatti, quella non tanto che non vi sia un ruolo attivo del potere, ma che vi sia ancora chi teme questo concetto o non vuole applicarlo alle Organizzazioni come la CGIL, temendo di viziarne la natura. Intendo dire che è ancora piuttosto inusuale utilizzare termini che si vuole appartengano solo alla descrizione di processi organizzativi aziendali, quasi che si possa avere una sua organizzazione che prescinda dal fatto di essere un’Organizzazione! La difficoltà che evidenzio non è di poco conto se si tiene presene quanto affermato in precedenza, ossia che non può esistere un’Organizzazione che sia “acefala” cioè senza qualcuno che ha un ruolo di decisore finale, riconosciuto come tale. 19 Weber M. “Economia e società” ed. Comunità, 1974 ibidem 21 Bobbio N. “Teoria generale della politica” ed . Einaudi, 1999 20 5 E’ naturale, verrebbe da dire, che in un’Organizzazione come CGIL gli aspetti che devono prevalere sono altri, primo tra tutti il senso di appartenenza e la consonanza con i principi fondamentali, ma se ragionassimo solo in questo modo limiteremmo le reali potenzialità organizzative. Lo spirito, insomma, deve essere quello di una accettazione che la struttura necessita di un’organizzazione complessa, coerente e istituzionalizzata, nel senso di stabile. Quando parliamo di un’Organizzazione, abbiamo spesso la tendenza a percepirla come una “comunità”, ossia un “luogo caldo, intimo e confortevole”, secondo la definizione di Zygmunt Bauman22 , piuttosto che uno strumento sociale costituito da persone e con una struttura definita costituita da ruoli, funzioni, relazioni e poteri formali. Il sistema che ne risulta è, come vuole la definizione, un insieme di elementi, reazioni e processi legati tra loro, in modo che dipendano l’uno dall’altro. È in questa dipendenza reciproca che si ravvisa la struttura del sistema, che è una rete che contiene le dinamiche interne dell’Organizzazione e che ne fa una struttura riconosciuta come tale. Ma cosa ne sarebbe di tale struttura se non vi fosse la possibilità di “creare” decisioni, ossia azioni concrete che si declinano in modo oggettivo dopo una elaborazione speculativa? Le risorse infatti dell’Organizzazione, che sono umane, economiche e materiali devono servire come “base” (i cosiddetti “INPUT”), che elaborati ed elaboranti, creano appunto la realizzazione di ciò che è deciso (gli “OUTPUT”), che sono il prodotto/servizio, l’elaborato. Non deve apparire strano l’utilizzo di questa chiave di lettura che di solito viene utilizzata per studiare i processi aziendali anche per la CGIL, poiché le dinamiche che si evolvono ed i processi che portano all’elaborazione di azioni che devono tradursi in atti concreti per chi si rappresenta sono assimilabili a quelli studiati per valutare i processi aziendali. La struttura organizzativa è infatti, in entrambi i casi, l’insieme delle specifiche modalità con cui ciascuna organizzazione gestisce i processi di differenziazione e d’integrazione (v. paragrafo 1). La mia critica a tale atteggiamento nasce dal fatto che ancora oggi le Organizzazioni siano percepita come “qualcosa di diverso” rispetto a tutte le altre istituzioni esistenti, portando come principio quello secondo cui i valori che lo fondano prevalgono rispetto alla struttura stessa. Poiché, come ricorda Aristotele, il tutto è più della somma delle sue parti, l’approccio che propongo serve, in primis, a ridefinire i rapporti che devono esserci nel momento in cui si assumono delle decisioni. Come sottolinea Amartya Sen23 “un forte sentimento di appartenenza ad un gruppo può portare con sé la percezione di distanza da altri gruppi […]”, per cui fare parte di un’Organizzazione deve essere solo il primo passo per ottenere miglioramenti per tutti. La “miniaturizzazione degli individui”24 rende sempre più difficile rappresentare bisogni collettivi, poiché la fuga verso la necessità di soddisfare il bisogno individuale prevale sulla condivisione dei percorsi rivendicativi. In questo contesto deve essere ancora più chiaro il ruolo di gestione del potere all’interno di un’ Organizzazione che rappresenta, per sua natura, gli interessi di molte persone allo stesso momento, ed a più livelli (si pensi al concetto di “tridimensionalità” della CGIL, in quanto Organizzazione che interviene sul settore lavorativo, sulle politiche territoriali e sui servizi per le tutele) tentando di mantenere fermo il concetto che le istanze rivendicate in modo collettivo sono più forti da supportare. Quando non si ha la certezza della gestione del potere, la sua coerente concretizzazione ed il passaggio da elaborazione a fatto, allora possono trovare spazio fattori destabilizzanti, quali ad esempio la crescita della richiesta di “soddisfazione di sé”, prescindendo dal simile che vive la stessa condizione. E’ questo principio di individualizzazione, che non vogliamo accettare come processo naturale immodificabile, che ci deve indirizzare attraverso il ragionamento che stiamo evolvendo. Ulrich Beck25 riesce a rappresentare perfettamente questa “individualizzazione delle forme di vita”, che nasce da una spinta globale all’abbandono delle certezze, per correre verso il benessere nella definizione imperante e tipicamente occidentale, che ha come contrappeso la perdita delle 22 Z. Bauman “Voglia di comunità” ed. Editori Laterza,2005 A. Sen, Identità e violenza, ed. Editori Laterza, 2006 24 ibidem 25 U. Beck, I rischi della libertà, ed Il Mulino, 2003 23 6 certezze, delle sicurezze costruite faticosamente per buona parte del secolo scorso (una fra tutte l’ideale del posto fisso!) per abbracciare un individualismo che è caratterizzato da dissoluzione di forme di vita sociale precostituite (ad esempio ruoli legati alla famiglia, al vicinato o al genere…), di “biografie normali” e da nuove costrizioni e nuovi controlli (per far valere il proprio diritto si deve dimostrare di possedere requisiti specifici: v. ad es. diritto alla pensione, imposte…). Questi aspetti hanno come conseguenza quella di chiedere alle persone di condurre una vita propria, costruendosi le proprie direttive, attraverso l’azione. Sempre in Beck26 troviamo la conferma a quanto enunciato, nel momento in cui esplicita il fatto che mentre nelle società tradizionali si nasceva con determinati vantaggi, per ottenere i nuovi vantaggi occorre fare qualcosa, impegnarsi attivamente, “passare da una biografia normale ad una del fai da te”. “L’individualizzazione è una dinamica sociale che non si basa su una libera decisione degli individui, poiché è un dovere, un dovere paradossale di creare, di progettare, di mettere in scena la propria biografia, ma anche i suoi legami e le sue reti di relazioni, in un continuo processo di armonizzazione con gli altri e con gli imperativi del mercato del lavoro, del sistema formativo, dello stato assistenziale,etc..” 27. Tutto quanto prima veniva definito in ambito familiare, in comunità, oggi deve essere intrapreso dai singoli, per cui anche le conseguenze si trasferiscono sui singoli, che, di fronte alla complessità delle dinamiche sociali, molto spesso non sono in grado di prendere decisioni. L’individuo è “oberato” e risponde alle domande sul proprio agire e sulle proprie volontà in modo autonomo, senza riferimenti che provengono da una tradizione o che si collocano in un quadro di riferimento con una memoria certa. E’ facile, a questo punto, scambiare l’individualizzazione, che in questa sede analizziamo in “chiave negativa”, con l’autonomia e l’emancipazione, che possono diventare, come accade spesso, “anomia”, intesa come “assenza di limiti”, “straripamento dei desideri dalle barriere sociali”28. E’ interessante, anche se non è possibile approfondirlo qui come si dovrebbe, fare un passaggio in merito all’integrazione sui valori, che oggi, con buona pace di Durkheime e Parsons, è contrapposta dal moltiplicarsi di percezioni culturali e legami autoproducentisi, che logorano le comunanze di valori. In più, ed è una teoria assai in voga, si ritiene che quando vengono meno i valori comuni, essi vengono sostituiti, nelle società individualizzate, dalla partecipazione al benessere. E’ quella che viene definita “integrazione proiettiva”29 che può consentire di reinventare una nuova società. Dare coesione a società individualizzate, infatti, è possibile solo mobilitando le persone rispetto alle sfide che si trovano al centro della loro vita: disoccupazione, ecologia… . König30, in modo lungimirante, ritiene che l’integrazione sia da conquistarsi sul terreno del pensiero, nella ricerca di nuovi presupposti dell’esistenza. Nelle società post – tradizionali, infatti, l’integrazione è possibile solo nella sperimentazione di un’interpretazione, di un’osservazione, di un’apertura, di un’invenzione di loro stesse da parte di queste medesime società. E’ evidente ancora più di prima, che con questo quadro di riferimento, le funzioni delle Organizzazioni sono dirimenti e non subordinabili. E’ la loro capacità di rappresentazione (non rappresentanza e non rappresentatività!) delle idee che accomunano che è messa in discussione, non tanto come possibilità, quanto come realizzazione. La difficoltà è accomunare le persone nell’idea che la propria istanza può essere raggiunta prima e meglio se contemporaneamente si chiede la soluzione anche di un problema altrui, che magari non si pensa neppure tale. E’ in questo gioco di specchi che deve inserirsi il ruolo del “potere” , come strumento per la gestione delle rappresentazioni che ogni persona apporta alla discussione comune. 26 v. supra v. supra 28 E. Durkheim, Il suicidio, trad. it. Torino, 1969 29 U. Beck, ibidem 30 König, Geselleschaftliches Bewußteisein und Sociologie, 1945 27 7 E’ compito, a mio avviso, delle Organizzazioni fare da contenitore e da guida delle istanze individuali affinché divengano collettive. Occorre riappropriarsi della capacità di “fare sistema”, nel senso classico del termine, senza temere di non rappresentare ciascuno, ma trovando l’equilibrio per rappresentare tutti. E’ nel confronto, nella parola, che si trova il vero potere, così come è nell’azione collettiva che si trova il percorso per un futuro meno individuale, ma più comunitario. La paura, che spesse volte accomuna le persone, non può essere il collante, perché così facendo si alimenta il ruolo della “potenza” di chi guida le Organizzazioni e non la funzione positiva del “potere”, come noi fino ad ora l’abbiamo descritta. Anche se le singole persone aderiscono alle Organizzazioni, nella maggior parte dei casi, mossi da bisogni individuali, è necessario che queste, forti della loro strutturazione e dei meccanismi condivisi dai partecipanti che le regolano, indirizzino, anche rischiando di perdere consensi nell’immediato in termini di adesione, le azioni. Il “potere di fare insieme” supera la “potenza del fare subito”, mentre le Organizzazioni, la CGIL, devono mantenere alta la capacità di leggere le idee, i contenuti meno visibili delle richieste, per indirizzare le soluzioni nell’immediato,ma per risolvere in prospettiva. Usare il potere in prospettiva significa non cedere all’ansia del consenso, ma alla premura di costruire un futuro, che spesso è tale proprio perché ci si limita a decidere per il qui e ora. E’ compito di chi ha potere e responsabilità saper individuare ciò che deve essere risolto nell’immediato e attraverso una risposta singola, da ciò che merita un’elaborazione più complessa, più politica. E’ positivo creare un precedente partendo da questioni singole, ma è ancor meglio inserire questi fatti in una dinamica di prese in carico, affinché l’azione si rappresenti come collettiva. Non è decisionismo quindi, ma scelta, il vero potere, nel senso che scegliere un percorso piuttosto che un altro, una priorità, un principio piuttosto che un altro è ciò che differenzia che fa proprie le istanze altrui ma inserendole in un quadro più complesso e chi cavalca qualunque richiesta pur di dimostrare di avere potere, o meglio di avere il potere dell’esserci. E’ in questo modello che deve esservi un uso, come lo abbiamo definito, positivo del potere, nel senso di strumento di chi ha responsabilità chiare nell’ambito dell’Organizzazione, di cui risponde all’interno ed all’esterno, ma che sceglie e decide in base a quanto raccoglie da chi fa parte dell’Organizzazione stessa. E’, infine, politico il potere positivo, perché fa uscire dalle case di ciascuno le questioni, per esporle all’esterno, nella piazza, nella polis, affinché tutti si prendano in carico tutti, in un’azione collettiva, che parte dal dialogo e dai confronti e che la storia ci ha insegnato essere possibili. Hannah Arendt ha ancora ragione! 31 Conclusioni E’ nella ricerca di senso del ruolo del potere che ci si è mossi in questo breve contributo. Non sulla sua utilità o sulla necessità che esista o meno, ma sul senso che deve avere per essere strumento utile all’esistenza ed alla evoluzione delle Organizzazioni, che sono in se stesse caratterizzate da un’idea di potere sui generis. La ricerca di definizioni scientifiche ha orientato l’intero ragionamento, soprattutto per trovare le fonti necessarie affinché quanto veniva esposto trovasse una collocazione culturale chiara. Sono consapevole che molto altro si sarebbe potuto scrivere e che di certo non si sono toccati tutti i punti necessari, ma credo anche che fosse comunque necessario, anche alla luce della complessa fase storico – sociale che stiamo passando in Italia, ma più complessivamente nell’Occidente tutto direi, mettere in luce il ruolo ancora moderno e necessario delle Organizzazioni collettive, che oggi oltre alle sfide che provengono dalla società devono imparare anche a rispondere alle sfide che la loro stessa natura di rappresentanze impone, per non essere strumenti di tutela tradizionalisti, ma fautori di cambiamenti, di scelte, attivi e non solo difensivi, sapendo individuare i bisogni, sondarli e assumendosi la responsabilità di dire ciò che deve accadere e, infine, farlo accadere. 31 Arendt H. (1994), Vita Activa, ed. Bompiani 8