1-12 ULTIMO - Ministero della Difesa

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GESTIONE DELLE RISORSE UMANE
STRUMENTI ED ORIENTAMENTI
U M A N E
R I S O R S E
D E L L E
G E S T I O N E
L
a nuova rivista “Gestione delle risorse umane: orientamenti e
strumenti” rappresenta un ulteriore contributo del Formez - Centro di
Formazione Studi -, come Agenzia istituzionale del Dipartimento della
Funzione Pubblica, a sostegno dei processi di modernizzazione della
Pubblica Amministrazione. Essa si inserisce nella tradizione delle
pubblicazioni “Quaderni regionali”, “Quaderni Formez”, ma più in
particolare delle riviste “Problemi di gestione”, “Problemi di
Amministrazione Pubblica”, “Europa e Mezzogiorno”. Queste pubblicazioni
hanno perseguito l’obiettivo di fornire gli strumenti interpretativi per
consentire al sistema amministrativo, e in particolare alle autonomie locali,
di attuare le innovazioni introdotte dalle leggi di riforma. D’altro canto, esse
sono state la sede di approfondimenti che hanno spesso anticipato le riforme
o hanno offerto spunti per migliorarle. In questa duplice ottica, il Formez, in
coerenza con il ruolo che il d.lgs 285/99 gli assegna, ha inteso rilanciare le
proprie attività editoriali, al fine di “promuovere l’innovazione
amministrativa, organizzativa e tecnologica della Pubblica Amministrazione
e favorire il ruolo e le competenze delle Regioni e degli enti locali”. Lo
sviluppo delle risorse umane è per le Amministrazioni una condizione
indispensabile per il successo dei processi di innovazione. Gli spunti per
modificare le modalità di gestione delle risorse umane sono molteplici con il
varo della c.d. privatizzazione del rapporto di lavoro e con l’attribuzione di
un più incisivo ruolo datoriale alle Amministrazioni e alla loro dirigenza.
Ciononostante il passaggio dalla mera amministrazione del personale alla
gestione delle risorse umane non è purtroppo un dato generalizzato. Infatti,
alla luce della copiosa normativa degli ultimi anni, uno dei principali
impegni delle direzioni del personale sarà la sperimentazione di strumenti
gestionali, la condivisione e lo scambio di esperienze, il consolidamento di
expertise e metodologie finalizzate a una gestione e valorizzazione delle
risorse umane coerente con una attività finalizzata al risultato. Per
accompagnare le Amministrazioni in questo difficile percorso di
innovazione, il Formez sta sviluppando da tempo, d’intesa con il
Dipartimento, iniziative di formazione ed assistenza per lo sviluppo di
strumenti di gestione delle risorse umane i cui risultati e prodotti sono
consultabili sul canale tematico “Lavoro Pubblico” del sito www.formez.it. La
rivista vuole essere un supporto per orientare la dirigenza nell’utilizzo dei
più innovativi istituti introdotti dalla normativa e dalla contrattazione
collettiva, alla luce delle interpretazioni giurisprudenziali. Il percorso verso
una effettiva privatizzazione del pubblico impiego è difficile, anche per la
presenza di una prassi gestionale e una cultura amministrativa vecchie
ormai di un secolo, ma la sensibilità che le Amministrazioni stanno
dimostrando negli ultimi anni ci rendono più fiduciosi sulla possibilità che,
anche con l’impegno del Formez e attraverso ausili come la rivista, questo
obiettivo possa essere raggiunto.
Carlo Flamment
Presidente Formez
In memoria di Ubaldo Poti
Formez
2
IL MOBBING
Direttore Responsabile
Giuseppe Iannicelli
Coordinatori Comitato Scientifico
Carlo D’Orta e Francesco Verbaro
Comitato Scientifico
Caterina Cordella, Bruno Cossu, Filippo Curcuruto, Donatella De Vincentiis,
Bartolo Gallitto, Franco Liso, Valentina Lostorto, Sandro Mainardi,
Antonio Martone, Paolo Matteini, Giancarlo Perone, Gianpiero Profeta,
Massimo Salvatorelli, Luca Soda, Paolo Sordi, Valerio Talamo,
Angelo Trovato, Vincenzo Veneziano
Direttore Editoriale
Anna Mura
Coordinatori di redazione
Donatella De Vincentiis,Vincenzo Veneziano
Redazione
Antonio Aurilio, Maria Branchi, Maria Elena Iaverone, Gaetana Micci,
Massimo Raffa, Genoveffa Vitale
Coordinamento organizzativo
Paola Pezzuto, Gaetana Micci
Premessa
7
Perché dedicare un volume al fenomeno del mobbing e, soprattutto,
cos’è il mobbing?
Si immagini un branco di animali incattiviti, che circondando e
aggredendo minacciosamente un membro del gruppo, ne provoca
l'allontanamento. Similmente i nostri colleghi di lavoro, componenti
di un team, rischiano di diventare vittime di processi di
emarginazione. Così può essere spiegata l’espressione “mobbing sui
luoghi di lavoro”, entrata nel dizionario corrente e da qualche anno
nei testi di diritto.
Il mobbing è “l'insieme di pratiche persecutorie, vessazioni e abusi
morali perpetrati sul posto di lavoro ai danni di una vittima
designata”.
Negli ultimi anni si sta assistendo ad una crescente attenzione ai
problemi della salute psichica e delle relazioni interumane
nell'ambiente di lavoro. Stress, burn-out, mobbing sono entrati,
oramai, nel linguaggio corrente. L’ambiente di lavoro non è solo un
luogo fisico, ma soprattutto un luogo emotivo perché in esso si
concentrano umori, sensibilità, culture differenti. Il benessere
psicofisico, la serenità psicologica nei luoghi di lavoro e gli aspetti
emotivi e motivazionali delle attività lavorative vengono sempre più
considerati come fattori strategici sia per l’organizzazione sia per la
gestione delle risorse umane.
Questo secondo numero della nostra rivista mira ad analizzare il
mobbing secondo varie prospettive: giuridica, socioeconomica (costo
sociale che si riflette sulla collettività in termini di costo per il
8
Servizio Sanitario Nazionale, risoluzione anticipata del rapporto di
lavoro, aumento del contenzioso del lavoro, riduzione della
produttività ecc.), medico-psichiatrica e di gestione organizzativa,
anche attraverso un’ottica comparata con esperienze straniere, quali
la francese e la svedese, nazioni in cui la “cultura della lotta” al
mobbing è assai più sviluppata.
Nell’attuale scenario italiano del mercato del lavoro e della sua
profonda trasformazione in termini di rapporti contrattuali flessibili e,
quindi, percepiti come “meno tutelati”, il fenomeno del mobbing
risulta in aumento.
Si è deciso di dedicare un intero volume a questo tema per consentire
una riflessione sul fenomeno e per permettere di affrontarlo con
maggiore consapevolezza e conoscenza.
Parlare di mobbing deve essere, sempre più, un modo di affrontare e
soprattutto contrastare i comportamenti negativi che, nell’ambiente di
lavoro, si traducono in attacchi alla dignità di chi lavora.
Giuseppe Iannicelli
INDICE
EDITORIALE
di Francesco Verbaro
E
E13
CAPITOLO1
Dottrina
Il mobbing nell'ambiente di lavoro
di Antonio Martone
19
Il fenomeno del mobbing e l'Unione europea
di Maria Gentile
23
Il lavoro e la salute psichica
di Michele Piccione
35
Il mobbing come patologia della relazione
di Paolo Pappone
41
Le condizioni di lavoro del pubblico
impiego in Italia
di Francesco Verbaro
49
La proposta della Commissione Piccione e i Centri
regionali per la diagnosi e la terapia dei disturbi
correlabili al mobbing
di Valentina Lostorto
55
Il mobbing e il sistema organizzativo
di Luca Soda
67
Le esperienze regionali
di Caterina Cordella
75
Le prime norme scritte sul mobbing nelle leggi
regionali e nei contratti collettivi
di Gianpiero Profeta
85
9
10
La proposta italiana e il quadro legislativo
francese in tema di mobbing
di Bartolo Gallitto
EDIIALE91
Gli spazi della contrattazione collettiva nella
disciplina del mobbing
di Valerio Talamo
97
Il mobbing nel CCNL del personale del Comparto
Ministeri 2002-2005
di Elvira Gentile
111
Bibliografia sul mobbing
119
CAPITOLO 2
Giurisprudenza
Massime
Tribunale di
Tribunale di
Tribunale di
Tribunale di
Tribunale di
Tribunale di
Tribunale di
Tribunale di
Tribunale di
Tribunale di
Tribunale di
Tribunale di
Tribunale di
Milano, 4 maggio 2001
Pisa, 10 aprile 2002
Torino, 18 dicembre 2002
Forlì, 6 febbraio 2003
Lecce, ord. 31 agosto 2001
Venezia, 15 gennaio 2003
Forlì, 15 marzo 2001
Forlì, 15 marzo 2001
Como, 22 maggio 2001
Milano, 11 febbraio 2002
Milano, 20 maggio 2000
Taranto, 7 marzo 2002
Venezia, 26 aprile 2001
Sentenze massimate con testo integrale
Corte di Cassazione, sezione lavoro,
22 febbraio 2003, n. 2763
Corte di Cassazione, sezione lavoro,
9 aprile 2003, n. 5539
Corte di Cassazione, sezione lavoro,
2 gennaio 2002, n. 10
Corte di Cassazione, sezione lavoro,
1 giugno 2002, n. 7967
Corte di Cassazione, sezione lavoro,
2 novembre 2001, n. 13580
Corte di Cassazione, sezione lavoro,
12 novembre 2002, n. 15868
127
128
129
129
130
131
132
132
132
133
133
134
134
135
142
148
160
168
174
Corte di Cassazione, sezione sesta penale,
12 marzo 2001, n. 10090
Corte di Cassazione, sezione lavoro,
19 gennaio 1999, n. 475
Tribunale di Roma, ord. 8 marzo 2002
Tribunale di Roma, ord. 4 luglio 2002
EDITRI181
186
196
199
CAPITOLO 3
Documentazione
11
Relazioni esplicative degli artt. 3, 5 e 6 della bozza
di legge contro il mobbing
207
Interventi per la prevenzione e tutela delle
lavoratrici e dei lavoratori da molestie morali e
psicologiche nei luoghi di lavoro (Consiglio
regionale del Veneto, progetto di legge n. 221)
214
L.R. 11 luglio 2002, n. 16. Disposizioni per prevenire e
contrastare il fenomeno del mobbing nei luoghi di
lavoro (Regione Lazio)
227
Contratto collettivo nazionale di lavoro relativo al
personale del Comparto Ministeri per il
quadriennio normativo 2002-2005 e biennio
economico 2002-2003 (estratto)
232
Direttiva 2002/73/CE del Parlamento europeo e
del Consiglio del 23 settembre 2002 che
modifica la direttiva 76/207/CEE del Consiglio
relativa all’attuazione del principio della parità di
trattamento tra gli uomini e le donne per quanto
riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e
alla promozione professionali e le condizioni di
lavoro
239
Risoluzione A5-0283/2001 del Parlamento europeo
del 20 settembre 2001 in tema di mobbing sul
posto di lavoro
252
Decreto legislativo n. 215/03 del 9 luglio 2003
recante attuazione della direttiva 2000/43/CE per
la parità di trattamento tra le persone
indipendentemente dalla razza e dall’origine
etnica
257
12
Relazione al decreto legislativo attuativo della
direttiva 2000/43/CE
263
Decreto legislativo n. 216/03 del 9 luglio 2003
recante attuazione della direttiva 2000/78/CE per
la parità di trattamento in materia di occupazione
e di condizioni di lavoro
269
Relazione al decreto legislativo attuativo della
direttiva 2000/78/CE
275
EDITORIALE
13
EDITORIALE
15
L’attenzione che le pubbliche amministrazioni stanno dedicando in
maniera crescente alla gestione delle risorse umane non può ormai trascurare
tutti quegli aspetti che attengono alla dimensione della salute fisica e
psichica del lavoratore. Il rapporto di lavoro con le pubbliche
amministrazioni è stato oggetto prevalentemente di riflessioni attinenti gli
aspetti giuridici ed economici, spesso in chiave autoreferenziale, ponendo
scarso rilievo agli aspetti relativi alla persona, alla motivazione e al benessere
fisico e psichico. Stranamente è sembrato che il lavoro nel “settore pubblico”
fosse di per sé gratificante e tale, per il basso impegno e la sicurezza del
rapporto, da poter sacrificare temi come, ad esempio, il mobbing o altre forme
di violenza e discriminazione.
Il numero di questa rivista affronta la questione sotto molteplici aspetti:
normativo, giurisprudenziale, sociologico, psicologico, amministrativo e
contrattuale.
Il fenomeno, richiamato sempre più frequentemente dagli organismi
internazionali quali l’OIL, l’OMS e l’UE, richiede infatti una riflessione
approfondita che prenda in considerazione, tra l’altro, le caratteristiche del
lavoro e dell’ambiente di lavoro nelle pubbliche amministrazioni.
La tutela alla salute del lavoratore emerge come diritto fondamentale in
tutte le sue componenti fondamentali, fisiche e psichiche, richiedendo una
serie di attenzioni e interventi ad ampio raggio che sono rilevanti,
contrariamente a quanto si possa pensare, anche dal punto di vista
dell’efficienza e dell’efficacia delle amministrazioni.
Affrontato in una logica di prevenzione, prima ancora che di sanzione, il
mobbing costringe a ripensare il modo di gestire il capitale umano, ad
eliminare i fattori di incertezza e di precariato nell’ambiente di lavoro, a
porre attenzione al benessere organizzativo in generale. Tutti elementi questi
EDITORIALE
16
che incidono sul benessere psichico del personale, ma anche sulla
motivazione e sulla produttività.
Non stiamo parlando di violenza psichica che, come vedremo in alcuni
interventi, trova già forme sufficienti di tutela, ma di condizioni ambientali,
come la mancanza di trasparenza e di motivazione nelle politiche del
personale o la scarsa attenzione, in termini di benessere organizzativo,
all’impatto sul personale delle riforme istituzionali.
Ciò che emerge con interesse è che proprio nel lavoro alle dipendenze delle
pubbliche amministrazioni, considerato stabile e sicuro, si registrano in Italia
i maggiori casi di mobbing, dato che ci porta a porre maggiore attenzione alle
ripercussioni delle riforme sul personale.
La riflessione sul tema, pertanto, si inserisce a pieno titolo nel filone di
ricerca, in cui questa rivista si colloca, che ha come obiettivo quello di
“ripensare il lavoro pubblico” non solo dal punto di vista normativo, ma,
come ci ha insegnato il maestro ed amico Ubaldo Poti, ponendo al centro di
ogni ragionamento, e quindi dell’amministrazione, il lavoratore e il suo
benessere.
Francesco Verbaro
Direttore dell’ufficio per il personale della P.A.
Dipartimento della Funzione Pubblica
CAPITOLO 1
DOTTRINA
17
DOTTRINA
Il mobbing nell’ambiente
di lavoro
di Antonio Martone*
19
1. In questi ultimi anni il fenomeno del mobbing, in particolare negli
ambienti di lavoro, richiama sempre più frequentemente l’attenzione della
pubblicistica (anche non specializzata), della dottrina giuridica e delle forze
sociali. Da ultimo, poi, non sono rari i casi in cui tale fenomeno viene posto
a fondamento di rivendicazioni di vario tipo avanzate in sede giurisdizionale.
L’eco di questa situazione si è avuta anche in sede parlamentare. Già nel
corso della passata legislatura erano state avanzate in materia diverse
proposte di legge. La difficoltà di elaborare una soddisfacente definizione
giuridica del fenomeno e quella di individuare adeguate forme di
prevenzione e di repressione avevano, peraltro, impedito di pervenire
all’approvazione definitiva di un testo unitario.
Non si può dire tuttavia che il dibattito svoltosi in quella sede sia stato
inutile: nei primi mesi della nuova legislatura sono state presentate, infatti,
numerose proposte di legge (v., in particolare, le n. 422, 870, al Senato e le n.
581, 1128, 2040, 2143 alla Camera, oltre la n. 596 incentrata però sulle
molestie sessuali), che, per molti aspetti ripropongono le soluzioni cui si era
pervenuti in occasione del precedente dibattito parlamentare.
In questo quadro, con la presente relazione, si tenterà di inquadrare il
fenomeno nel nostro sistema e di indicare le possibili soluzioni sul piano
normativo.
2. La definizione è uno dei problemi più delicati perché si tratta di
trasferire nei rapporti di lavoro, qualificandola giuridicamente, una nozione
elaborata in altri settori e con riferimento alle diverse collettività di cui
l’individuo, volontariamente o meno, entra a far parte (credo che ognuno di
noi possa rintracciare già tra i ricordi della propria infanzia diffusi
*Presidente della Commissione di Garanzia sul Diritto di Sciopero.
DOTTRINA
20
atteggiamenti lato sensu persecutori o comunque volti ad isolare un singolo
alunno nell’ambito della scuola).
Si deve considerare, inoltre, che, contrariamente ad altre fattispecie, il
mobbing non riguarda (o non riguarda soltanto) il rapporto tra datore di
lavoro e lavoratore, quanto piuttosto il modo e le forme d’inserimento di
quest’ultimo nella collettività di lavoro.
E se è vero che nell’organizzazione aziendale (anche non complessa) il c.d.
“superiore gerarchico” esercita nei confronti del sottordinato una frazione
del potere direttivo e di quello disciplinare che sono propri del datore di
lavoro, ciò non esclude che alla determinazione della situazione di
isolamento (con conseguente pregiudizio dell’autostima) possano concorrere
non soltanto “i superiori o i pari grado” ma, per la forza del collettivo, tutti i
componenti dell’organizzazione aziendale, anche se, è evidente che il
“sovraordinato” può incidere maggiormente (e, forse, anche, da solo) a
determinare il fenomeno in esame.
Sotto altro profilo, attesa la possibilità di ricorrenti contrasti
interindividuali nell’ambito di un gruppo, non ogni atteggiamento
persecutorio o di sopraffazione può determinare la fattispecie.
Alla luce di queste considerazioni sembra, pertanto, si possa concludere
individuando l’elemento qualificante della fattispecie nell’esistenza di una
situazione, derivante da una serie di atti e comportamenti ingiustificati degli
appartenenti alla comunità di lavoro, tale da incidere o poter incidere
negativamente sull’immagine che il lavoratore ha di sé e nei confronti della
collettività, con conseguenze anche sull’integrità psicofisica.
3. Quanto ora osservato rende agevole individuare il fondamento
normativo primario nel riconoscimento del diritto alla salute di cui all’art. 32
della Costituzione.
Non è un caso, d’altra parte, che la “vicenda del mobbing” si sia sviluppata
parallelamente al riconoscimento, essenzialmente ad opera della
giurisprudenza della Cassazione, accanto alla tradizionale distinzione tra
danno patrimoniale e danno morale, del danno biologico e, da ultimo, di
quello esistenziale che egualmente fanno riferimento al ricordato principio
costituzionale.
La particolare rilevanza che il mobbing assume poi nel rapporto di lavoro,
deriva dalla circostanza che, unico tra i rapporti obbligatori a contenuto
patrimoniale, tale rapporto coinvolge la persona stessa del lavoratore.
Ed è proprio per questa ragione che, ancor prima che alla Costituzione, può
farsi riferimento all’art. 2087 del cod. civ. nella parte in cui prescrive che
DOTTRINA
“l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure ...
necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di
lavoro”.
Nella sua formulazione letterale la norma non poteva non rispecchiare le
nozioni del tempo; ciò non esclude, peraltro, che lo schema logico, adottato
in ordine alla individuazione della responsabilità del datore di lavoro per la
situazione ambientale in cui il lavoratore è chiamato ad operare, possa
trovare puntuale applicazione anche al fenomeno in esame.
Così, come nel caso dell’infortunio causato da una negligente condotta del
collega di lavoro, il datore è chiamato a rispondere se non ha adottato, anche
in via preventiva, le adeguate misure di controllo e di prevenzione (fino a
sanzionare in sede disciplinare il lavoratore inadempiente). Ad analoga
conclusione si deve pervenire nel caso di condotte riconducibili al mobbing,
le cui conseguenze, in termini meno “moderni”, ben possono essere
qualificate come lesioni della “personalità morale” tutelata appunto dal
citato art. 2087.
Conferma di questo collegamento può trarsi anche dalla costatazione che
ormai si tende a ravvisare nelle conseguenze del mobbing una forma di
malattia professionale non tabellata, ma non per questo non riconducibile al
lavoro prestato, in presenza della rigorosa prova del relativo nesso causale.
4. II mobbing, come si è già osservato, costituisce la risultante di una serie
di atti e di comportamenti dei diversi componenti della collettività di lavoro
che, anche considerati isolatamente, possono rivelarsi illegittimi.
Ma il mobbing richiede al tempo stesso qualcosa in meno e qualcosa in più.
Una sanzione disciplinare o un trasferimento privi di giustificazione sono di
per sé annullabili e, se attuati con finalità discriminatorie ai sensi dell’art. 15
dello Statuto dei lavoratori, nulli, ma non sono sufficienti a integrare la
fattispecie in esame.
Al contrario, la serie di atti e comportamenti che determinano, secondo
quanto prima indicato, la situazione ambientale potenzialmente lesiva del
lavoratore nella quale si è individuato il mobbing, possono, isolatamente
considerati, non contrastare con singole disposizioni legislative (soprattutto
se provenienti da semplici colleghi di lavoro).
Ne deriva, sotto un primo aspetto, la rilevanza di una attività preventiva
volta ad assicurare “un sano ambiente di lavoro” per la realizzazione della
quale può rivelarsi indispensabile una partecipazione attiva delle
rappresentanze dei lavoratori (che, come nel caso delle molestie sessuali può
rivelarsi determinante sia per stimolare un corretto atteggiamento dei
21
DOTTRINA
22
colleghi di lavoro sia per evitare in caso di denuncia eventuali ritorsioni).
Più complesso è il problema della sanzionabilità dei singoli atti e
comportamenti non altrimenti vietati. In primo luogo perché si tratterebbe di
introdurre a livello legislativo una causa di annullabilità fondata su di un
non dichiarato motivo illecito di cui, da un lato, sarebbe estremamente
difficile fornire la prova e che, dall’altro, potrebbe essere strumentalmente
invocato per contestare ogni atto di gestione del rapporto di lavoro. Né ad
evitare fenomeni di questo tipo sembra idonea, perché difficilmente
praticabile, la previsione di una responsabilità disciplinare di chi abbia
denunciato, per trarne vantaggio, fatti e comportamenti inesistenti.
Probabilmente un richiamo ai doveri di correttezza e buona fede che
incombono su tutti i partecipanti alla comunità di lavoro, potrebbe rivelarsi
una soluzione più praticabile.
E ciò a prescindere dalla eventuale rilevanza penale sia della denuncia di
fatti inesistenti o non provati, che, per altro verso, del concorso nel
determinare una situazione che, in quanto lesiva della integrità fisica del
lavoratore, può integrare ipotesi di reato.
5. Le considerazioni ora sinteticamente svolte, dimostrano la difficoltà di
una analitica disciplina legislativa. C’è da chiedersi, pertanto, se, pur in
presenza della indubbia rilevanza sociale del fenomeno, la tutela, anche sotto
questo profilo, del lavoratore non possa essere affidata all’applicazione
giurisprudenziale di norme e istituti già esistenti nel nostro ordinamento.
DOTTRINA
Il fenomeno del mobbing e
l’Unione europea
di Maria Gentile*
23
1. L’interesse per il mobbing è nato in Svezia e, grazie ad un gruppo di
studiosi, coordinati e diretti dallo psicologo tedesco prof. Heinz Leymann, è
stato teorizzato un fenomeno di cui si avvertiva inconsapevolmente la
presenza nel mondo del lavoro.
Nei primi anni Ottanta, uno studio condotto sulle condizioni psicofisiche
di alcuni soggetti, in cura per problemi psicologici, e che avevano tutti
incontrato delle difficoltà sull’ambiente di lavoro, ha consentito, attraverso
un esame dei suoi effetti, di individuare le cause del fenomeno in questione.
Nel 1984 si è avuta la prima pubblicazione scientifica con la quale è stato
formalizzato l’uso del termine mobbing, quale forma di vessazione esercitata
nell’ambito lavorativo ed il cui risultato è l’estromissione della vittima dal
mondo del lavoro.
In tale occasione, la parola mobbing fu utilizzata per indicare quella forma
di “comunicazione ostile ed immorale diretta in maniera sistematica da uno
o più individui verso un altro individuo che si viene a trovare in una
posizione di mancata difesa” (Leymann).
In breve, tale nozione ha avuto modo di diffondersi in buona parte del
contesto europeo, in special modo in Germania, Francia e Regno Unito, Paesi
ad economia avanzata, ed ovviamente negli Stati Uniti ed in Australia,
parimenti con un sistema economico progredito, tutti Paesi dotati di una
legislazione sulla protezione dei lavoratori dipendenti.
Di contro, nel contesto italiano, il fenomeno ha cominciato ad assumere
rilevanza solo più tardi e soprattutto grazie agli studi condotti da Harald Ege.
L’utilizzo di un termine di derivazione anglosassone (to mob, significa
prendere d’assalto collettivamente qualcuno, ovvero assalirlo con violenza) è
sembrato il modo più opportuno per definire il processo in esame. Si tratta
*Docente presso la Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze.
DOTTRINA
24
di un termine di largo uso in etologia per descrivere il comportamento
aggressivo di un animale del branco nei confronti di un altro membro del
gruppo o capo isolato per allontanarlo. Il termine to mob deriva, a sua volta,
dall’espressione latina mobile vulgus, che indica il movimento della
gentaglia che aggredisce qualcuno. Nella sua sinteticità la locuzione inglese
è apparsa in grado di descrivere quelle particolari forme di degenerazione dei
rapporti interpersonali nell’ambito lavorativo, le quali si concretizzano in
una sorta di aggressione sistematica posta in essere nei confronti di un
soggetto, direttamente dal datore di lavoro o dai suoi preposti o anche da
colleghi della vittima medesima, che provocano un progressivo
disadattamento lavorativo di quest’ultima (Matto). Con tale fenomeno siamo
in presenza di una vera e propria forma di molestia morale realizzata nei
luoghi di lavoro, ovvero di un terrore psicologico sul posto di lavoro o,
ancora, di vittimizzazione psico-sociale sul lavoro – in Francia il fenomeno è
denominato harcelement moral.
La caratteristica comune alle sopradefinite condotte, nella stragrande
maggioranza dei casi, è quella di essere perpetrata con chiari intenti
discriminatori e persecutori, protesi ad emarginare progressivamente un
determinato lavoratore nell’ambiente di lavoro e a indurlo alle dimissioni,
per ragioni di concorrenza, gelosia, invidia o di altro comportamento o
sentimento socialmente deprecabile suscitato in un animo perverso dalla
convivenza nell’ambiente di lavoro od occasionato dallo svolgimento
dell’attività lavorativa (Meucci).
I mobbers, o soggetti agenti, possono essere i più vari: nel caso del c.d.
mobbing verticale, definito anche bossing, potrà trattarsi sia del soggetto
immediatamente sovraordinato al lavoratore che subisce l’aggressione –
quest’ultimo prende il nome di “mobbizzato”– , sia dello stesso datore di
lavoro o titolare dell’impresa. Nel caso del c. d. mobbing orizzontale, al
contrario, le condotte mobbizzanti sono tenute da colleghi pariordinati alla
vittima – non si esclude, tuttavia, la possibilità che la persecuzione in danno
di un lavoratore avvenga anche ad opera di un gruppo compatto di subalterni,
ossia soggetti che svolgono mansioni inferiori rispetto al mobbizzato – Tale
situazione viene da alcuni indicata come “mobbing ascendente”.
È noto come sia difficile fornire una definizione univoca di mobbing, a
causa soprattutto delle diverse finalità perseguite dalle varie scienze che si
sono finora accostate al fenomeno; d’altra parte, è incontrovertibile come
l’analisi di tale fenomeno imponga uno sforzo interdisciplinare.
Si diceva che il dibattito sul mobbing nel contesto internazionale ha preso
avvio già dai primi anni Ottanta; in primo luogo la Svezia, sin dal 1977,
DOTTRINA
sebbene il provvedimento sia entrato in vigore nel 1994, ha emanato
un’Ordinanza sull’ambiente di lavoro che precisa le misure da adottare
contro forme di violenza psicologica. I casi di mobbing nel tempo sono
sensibilmente cresciuti, in maniera direttamente proporzionale
all’espandersi delle organizzazioni di lavoro post-fordiste.
Il Parlamento europeo ha preso atto di tale fenomeno ed ha assunto, in data
20 settembre 2001, la Risoluzione A5-0283/2001 avente ad oggetto “Il
mobbing sul posto di lavoro”.
2. Al riguardo, in primo luogo, occorre precisare che le risoluzioni rientrano
nella categoria degli atti atipici emanati dalle istituzioni comunitarie, ossia
atti non vincolanti, che non rientrano tra quelli elencati nell’art. 249 del
Trattato CE, ma che sono sempre più frequentemente utilizzati dalle
istituzioni comunitarie. In particolare, le risoluzioni, più frequentemente
emanate dal Consiglio, contengono il punto di vista dell’istituzione emanante
su determinate questioni oggetto di intervento comunitario.
L’interesse comunitario per il fenomeno in argomento discende
direttamente dall’art. 2 del Trattato che costituisce la Comunità Europea,
modificato dal Trattato di Amsterdam del 1997 si ricorda che la CE è, quale
primo pilastro, una parte dell’Unione europea. Tale articolo recita: “La
Comunità [l’UE] ha il compito di promuovere nell’insieme della Comunità
(...) uno sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività
economiche, un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, la
parità tra uomini e donne, una crescita sostenibile e non inflazionistica, un
alto grado di competitività e di convergenza dei risultati economici, un
elevato livello di protezione dell’ambiente e il miglioramento della qualità di
quest’ultimo, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la
coesione economica e sociale e la solidarietà tra gli Stati membri”.
La politica sociale è responsabilità precipua degli Stati membri.
Conformemente al principio di sussidiarietà – previsto dall’art. 5 del Trattato
CE e secondo il quale la Comunità interviene in quei settori che non sono di
sua esclusiva competenza solo quando la sua azione è considerata più
efficace di quella intrapresa a livello nazionale, regionale o locale, senza
andare oltre quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi fissati
(c.d. principio di proporzionalità) –, l’Europa si occupa soltanto delle
questioni per le quali una soluzione a livello di UE appare più opportuna.
Sinora l’UE ha fissato soltanto standard minimi e diritti di minima. Gli Stati
membri possono quindi adottare norme e regolamenti che vanno al di là delle
disposizioni sociali europee.
25
DOTTRINA
26
I principali compiti della politica sociale europea sono descritti
nell’articolo 136 del Trattato CE: “La Comunità [l’UE] e gli Stati membri (...)
hanno come obiettivi la promozione dell’occupazione, il miglioramento delle
condizioni di vita e di lavoro che consenta la loro parificazione nel progresso,
una protezione sociale adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse
umane atto a consentire un livello occupazionale elevato e duraturo e la lotta
contro l’emarginazione”. Il Trattato di Amsterdam, che è stato concordato nel
1997 ed è entrato in vigore nel maggio 1999 ha costituito un’importante
svolta nella politica occupazionale e sociale dell’Europa. Esso ha introdotto
diversi nuovi compiti per la politica sociale europea. Ad esempio, l’UE può
ora intraprendere azioni per lottare contro la discriminazione o per aiutare le
persone emarginate a trovare il loro ruolo nella società, rispecchiando così
l’impegno di realizzare una società integrata. Il Trattato di Amsterdam ha,
inoltre, conferito alla politica occupazionale e sociale una dimensione
veramente europea. Nel corso degli anni Novanta la maggior parte delle
misure dell’UE in materia di politica sociale si basavano sull’accordo sulla
politica sociale allegato in forma di protocollo al Trattato dell’UE del 1992,
nonché sulla Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori
adottata dai capi di Stato e di governo nel 1989. I diritti fondamentali dei
lavoratori proclamati dai governi comprendevano la protezione della salute e
della sicurezza sul lavoro, la formazione, nonché la parità di trattamento tra
gli uomini e le donne. Mentre la Carta non era un documento legalmente
vincolante, l’accordo sulla politica sociale assicurava che l’UE fosse in grado
di intraprendere azioni negli ambiti sociali coperti dalla Carta. Tuttavia, il
Regno Unito non aveva sottoscritto né la Carta né l’Accordo sulla politica
sociale. Conseguentemente, parte della normativa dell’UE in campo sociale
era applicabile in soli 14 dei 15 Stati membri. Il Trattato di Amsterdam ha
posto fine a questa diversità nello sviluppo della politica sociale dell’UE.
L’accordo è ora parte integrante del Trattato e le sue disposizioni si
applicano senza distinzione a tutti gli Stati membri. Tutti i cittadini dell’UE
possono ora rifarsi alla normativa sociale adottata dall’UE negli anni Novanta
ed applicata retroattivamente anche al Regno Unito.
Riguardo alle politiche sociali occorre, infine, ricordare l’art. 3 del Trattato
CE che stabilisce: “L’azione della Comunità [dell’UE] (...) mira ad eliminare
le ineguaglianze, nonché a promuovere la parità, tra uomini e donne”,
nonché l’art. 13 dello stesso Trattato, secondo il quale l’UE può prendere
provvedimenti per “combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza
o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o
le tendenze sessuali”.
DOTTRINA
3. Passando ad esaminare il contenuto della Risoluzione del Parlamento di
Strasburgo del 20 settembre 2001, in primo luogo, è da dire che essa è stata
preceduta da una relazione del 24 ottobre 2000 dal titolo “Modernizzare
l’organizzazione del lavoro – Un atteggiamento positivo nei confronti dei
cambiamenti”, della Commissione congiunta sull’occupazione e dell’Agenda
per la politica sociale e dalla relazione della Commissione per l’occupazione
e gli affari sociali e dal parere della Commissione per i diritti della donna e
le pari opportunità.
I dati statistici sono stati raccolti dalla Fondazione di Dublino (Fondazione
europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro) sulla base
di un sondaggio tra 21.500 lavoratori nel corso di 12 mesi, che ha dato il
seguente risultato: l’8% dei lavoratori dell’Unione europea, pari a 12 milioni
di persone, è stato vittima di mobbing sul posto di lavoro. La Fondazione ha
ritenuto il dato notevolmente sottostimato. La relazione offre particolari
spunti di riflessione; i risultati della ricerca svolta presentano sensibili
variazioni tra gli Stati membri, ma ciò sarebbe dovuto “al fatto che in alcuni
Paesi soltanto pochi casi vengono dichiarati, che in altri la sensibilità verso
il fenomeno è maggiore e che esistono differenze tra i sistemi giuridici
nonché differenze culturali, che la precarietà dell’impiego costituisce una
delle cause principali dell’aumento della frequenza di suddetti fenomeni”.
Nella relazione si legge ancora: “la Fondazione di Dublino rileva che le
persone esposte al mobbing subiscono uno stress notevolmente più elevato
rispetto agli altri lavoratori in generale e che le molestie costituiscono dei
rischi potenziali per la salute che spesso sfociano in patologie associate allo
stress; che i dati nazionali sul mobbing nella vita professionale, disaggregati
per generi, non offrono, secondo l’Agenzia, un quadro uniforme della
situazione”.
Sempre secondo lo studio in esame, il fenomeno del mobbing è stato, negli
ultimi anni, favorito da una vita professionale sempre più competitiva ed in
presenza di ridotta sicurezza della conservazione del posto di lavoro. Tali
problemi sono ancor più evidenti in ambienti di lavoro scarsamente
organizzati, con carenze di informazione, che si traducono col tempo a
riversare le tensioni e la incapacità del gruppo a gestire l’attività su un
individuo ben determinato che diviene così il “capro espiatorio”. Tutto ciò si
risolve in situazioni gravi sia per il singolo dipendente che per l’impresa. La
Commissione pari opportunità rammenta ancora come l’ampliarsi di lavori
precari, contratti a termine, soprattutto tra le donne, crea un clima adatto al
proliferare di varie forme di molestie. Le conseguenze a cui giunge lo studio
e conseguentemente la risoluzione in esame sono quelle già rammentate:
27
DOTTRINA
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danni alla salute dei lavoratori e alle loro famiglie, disgregazione del tessuto
sociale, espulsione dei lavoratori dal contesto lavorativo e conseguente
emarginazione. Un’ulteriore riflessione è degna di essere menzionata:
secondo la Commissione, una forma di mobbing è anche la falsa denuncia di
mobbing, questo è significativo di quanto il fenomeno sia denso di
problematiche. Ciò premesso, il Parlamento europeo, al punto 2 della
Risoluzione, in primo luogo, richiama l’attenzione degli Stati membri
dell’Unione sul fatto che l’aumento dei contratti a termine e, più in generale,
della precarietà del lavoro, favorisce la pratica di diverse forme di molestia,
dando finalmente voce alle opinioni di diversi studiosi che ritengono che “la
flessibilità esasperata forse è uno strumento di efficienza economica, ma
probabilmente non costituisce un valore sul piano organizzativo ed è
sicuramente dannosa su quello esistenziale” (Viscomi).
In secondo luogo, nella Risoluzione si afferma che senz’altro concorre
notevolmente a creare un ambiente di lavoro, favorevole allo sviluppo del
mobbing, la estrema competitività tra i lavoratori, il cui interesse collettivo è
stato sempre più frammentato dalla volontà, o meglio dalla necessità, di
molti di loro di vedere “stabilizzato” il proprio rapporto di lavoro, a scapito
semmai di quello del collega di reparto o di ufficio. Tale competizione tra
dipendenti viene in parte imposta dalle moderne organizzazioni della
produzione, le quali hanno comportato una distribuzione orizzontale del
potere, in particolare di quello direttivo, attraverso la costituzione di gruppi
autonomi di lavoro e l’imposizione di sistemi di qualità totale. I
considerando E e F della Risoluzione sottolineano dunque l’esistenza di “un
chiaro nesso tra, da una parte, il fenomeno del mobbing nella vita
professionale e, dall’altra, lo stress o il lavoro ad elevato grado di tensione,
l’aumento della competizione, la riduzione della sicurezza dell’impiego
nonché l’incertezza dei compiti professionali [e] le carenze a livello di
organizzazione lavorativa, di informazione interna e di direzione”.
Del resto, una organizzazione “razionale” del lavoro ha interesse a che non
si verifichino fenomeni di mobbing al suo interno perché essi certamente
mettono a rischio il suo buon funzionamento. Possono però esistere delle
eccezioni a questa regola, perché in taluni contesti lavorativi il mobbing può
anche rappresentare una vera e propria strategia direttiva avente finalità o di
ridurre il personale senza dovere sottostare alle norme sui licenziamenti,
ovvero di governare l’azienda sedando con brutalità lo spirito critico dei
dipendenti, senza che questo peraltro comporti necessariamente anche
l’ulteriore intenzione di allontanare uno o più di essi, ma, al contrario, vi sia
quella di trattenerli, a condizione che accettino senza protestare ogni
DOTTRINA
richiesta proveniente dalla direzione dell’impresa.
Nella Risoluzione, il Parlamento manifesta l’impellente necessità di
intervenire per combattere il fenomeno del mobbing in ogni modo, evitando,
prima di tutto, che esso si manifesti e, perciò, operando principalmente nella
direzione della prevenzione. L’assoluta prevalenza della sensibilizzazione
sul tema della prevenzione, quando si tratta della salute dei lavoratori, non
può, infatti, essere messa in discussione. La prevenzione del mobbing può
essere attuata soprattutto attraverso la procedimentalizzazione dell’esercizio
dei poteri imprenditoriali; a tale considerazione bisogna aggiungere, come
sottolineato nel punto 21 della Risoluzione, che “il mobbing comporta altresì
conseguenze nefaste per i datori di lavoro per quanto riguarda la redditività
e l’efficienza economica dell’impresa a causa dell’assenteismo che esso
provoca, della riduzione della produttività dei lavoratori indotta dal loro
stato di confusione e di difficoltà di concentrazione”. Tale argomentazione
del Parlamento europeo, ovviamente, è utilizzata come un motivo aggiuntivo,
e non è certo la ragione principale, per voler sconfiggere un fenomeno
potenzialmente così grave per la salute dei lavoratori. L’esperienza passata ha
dimostrato come la procedimentalizzazione dei poteri sia sicuramente una
delle strade più efficaci per consentire di controllare il corretto esercizio di
essi. Ai fini della prevenzione dei fenomeni che possono causare problemi
alla salute dei lavoratori, la procedimentalizzazione può essere effettuata sia
per via legale (direttiva quadro per la salute e la sicurezza sul lavoro
89/391/CEE), sia per via contrattuale, soprattutto attraverso l’imposizione di
sistemi di controllo delle condizioni ambientali a carico di soggetti esterni,
sistemi che possono essere fissati e regolati, in special modo, dalla
contrattazione collettiva.
Per quanto riguarda la procedimentalizzazione per via legislativa, da più
parti, viene sentita l’esigenza di intervenire sul tema attraverso leggi
specifiche.
Tale necessità è avvertita in tutti i Paesi dell’Unione anche perché le
legislazioni in materia di prevenzione e repressione del mobbing sono scarse.
Nei punti 8 e 24 della Risoluzione il Parlamento europeo ha esortato la
Commissione, quale organo con funzione, in via esclusiva, di proposta,
nonché di iniziativa normativa, “(...) ad attribuire importanza a misure di
miglioramento dell’ambiente lavorativo che siano lungimiranti, sistematiche
e preventive, finalizzate tra l’altro a combattere il mobbing sul posto di lavoro
e a valutare l’esigenza di iniziative legislative in tal senso [e...] a presentare,
entro il marzo 2002, un libro verde recante un’analisi dettagliata della
situazione relativa al mobbing sul posto di lavoro in ogni Stato membro e,
29
DOTTRINA
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sulla base di detta analisi, a presentare successivamente, entro l’ottobre 2002,
un programma d’azione concernente le misure comunitarie contro il mobbing
sul posto di lavoro”. Al punto 12 della Risoluzione stessa, il Parlamento
europeo ha, inoltre, raccomandato “agli Stati membri di imporre alle
imprese, ai pubblici poteri nonché alle parti sociali l’attuazione di politiche
di prevenzione efficaci, l’introduzione di un sistema di scambio di
esperienze e l’individuazione di procedure atte a risolvere il problema per le
vittime e ad evitare sue recrudescenze; raccomanda, in tale contesto, la messa
a punto di un’informazione e di una formazione dei lavoratori dipendenti,
del personale di inquadramento, delle parti sociali e dei medici del lavoro,
sia nel settore privato che nel settore pubblico”.
Al riguardo si è sostenuto che, senza bisogno di attendere l’emanazione di
una normativa specifica, sia già possibile sviluppare una strategia di tipo
preventivo contro il mobbing, servendosi degli strumenti normativi già
presenti nel nostro ordinamento.
In particolare, ci si riferisce al d. lgs. n. 626 del 1994, che attuando le
numerose direttive comunitarie in materia costituisce la normativa quadro in
tema di sicurezza e di salute dei lavoratori sul luogo di lavoro. Ad esempio,
la figura del medico competente, di cui agli artt. 16 e seguenti, ai quali è
demandata la sorveglianza sanitaria in azienda nei casi previsti dalla
normativa vigente, potrebbe assumere un ruolo importante in una strategia
integrata di difesa contro il mobbing. Tra le misure generali di tutela deve
essere collocata pure la lett. f) del comma 1 dell’art. 3, a mente della quale il
datore di lavoro deve rispettare i principi ergonomici nella concezione dei
posti di lavoro, nella scelta delle attrezzature e nella definizione dei metodi
di lavoro e produzione, anche al fine di attenuare il lavoro monotono e
ripetitivo. Parimenti significativo è l’art. 4, commi 1 e 2, che pone in capo al
datore di valutare i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, redigendo
al riguardo un apposito documento nel quale indicare anche le idonee misure
di prevenzione. Considerando, infatti, che ai fattori di ordine psicologico,
sociale e organizzativo concernenti l’ambiente di lavoro va riconosciuta la
stessa importanza attribuita normalmente ai soli profili strettamente tecnici,
ci si potrebbe interrogare sulla possibilità di ricomprendere fra i rischi, che il
datore è tenuto a valutare e a prevenire, anche il mobbing, quale particolare
situazione di rischio legata al contesto lavorativo, che si affianca ai “pericoli”
classicamente intesi derivanti da macchine, impianti, agenti fisici, chimici e
biologici. In questa prospettiva potrebbero anche risultare funzionali gli artt.
19, 21 e 22 del decreto, che pongono in capo al datore di lavoro obblighi
informativi e formativi in favore dei propri dipendenti e dei rappresentanti
DOTTRINA
per la sicurezza in azienda; le informazioni e la formazione nei confronti dei
citati soggetti potrebbero concernere anche i rischi relativi al mobbing e le
corrispondenti misure di prevenzione; ciò consentirebbe di condurre
un’efficace attività di sensibilizzazione sul fenomeno nei luoghi di lavoro. In
un’ottica preventiva è stato auspicato anche l’intervento della contrattazione
collettiva; le parti sociali hanno preso atto di tale esigenza, tant’è che
nell’ipotesi di CCNL relativo al personale del comparto ministeri per il
quadriennio 2002-2005, già siglata ed attualmente all’esame della Corte dei
Conti, si prevede, nell’ambito delle forme di partecipazione (Capo II, art. 6),
l’istituzione di un Comitato paritetico sul fenomeno del mobbing presso
ciascuna amministrazione.
4. Il mobbing sul posto di lavoro è chiaramente collegato con la
discriminazione e le molestie sessuali sul lavoro, due settori in cui l’Unione
ha già intrapreso iniziative. La direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27
novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento
in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, c.d. direttiva sulla vita
lavorativa, indica cosa si intende rispettivamente per discriminazione diretta
e indiretta e molestie. Ai sensi della citata direttiva sussiste discriminazione
diretta quando, sulla base della religione o delle convinzioni personali, degli
handicap, dell’età o delle tendenze sessuali, una persona è trattata meno
favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una
situazione analoga. Sussiste, invece, discriminazione indiretta quando una
disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere
in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una
determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un
particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare
tendenza sessuale, rispetto ad altre persone. Sussistono alcune deroghe in
relazione a quanto sopra sulla discriminazione indiretta. Sempre in base alla
direttiva 2000/78, le molestie sono da considerarsi una discriminazione in
caso di comportamento indesiderato adottato sulla base della religione o
delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o delle tendenze
sessuali e avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di
creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo. In
questo contesto, il concetto di molestia può essere definito conformemente
alle leggi e prassi nazionali degli Stati membri. Al riguardo si osserva che il
23 settembre 2002 è stata adottata la direttiva 2002/73/CE, di modifica della
direttiva 76/207/CE, relativa all’attuazione del principio di parità di
trattamento tra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro,
31
DOTTRINA
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alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro.
Tale direttiva introduce rilevanti modifiche nel testo della direttiva
76/207/CEE; in particolare, introduce con il nuovo articolo 2 le definizioni di
“discriminazione diretta”, “discriminazione indiretta”, “molestie” e
“molestie sessuali”. La distinzione tra discriminazione diretta e indiretta,
appena accennata nella direttiva del 1976, viene mutuata dalle direttive
2000/43/CE, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone
indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, e dalla citata direttiva
2000/78/CE, le molestie e le molestie sessuali vengono considerate
discriminazioni fondate sul sesso e pertanto vietate. Nel nostro ordinamento
le due direttive da ultimo citate sono in corso di recepimento sulla base della
delega conferita dalla legge n. 39 del 2002, legge comunitaria 2001, mentre
l’art. 15 del ddl comunitaria 2003 (AC 3618) reca una delega al Governo per
1
il recepimento della più recente direttiva 2002/73/CE. .
Particolare rilievo assume lo schema di d. decreto legislativo che
recepisce la direttiva 2000/78/CE; infatti, l’art. 2 dello schema, rubricato
“Nozione di discriminazione”, al comma 3, introduce nell’ordinamento
nazionale la nozione di mobbing, individuata nell’attuazione di molestie o
di comportamenti indesiderati con lo scopo e l’effetto di violare la dignità
personale creando un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od
offensivo. Tale comportamento viene considerato discriminatorio e
pertanto suscettibile di tutela ai sensi dell’art. 4 dello stesso schema, che
disciplina la tutela giurisdizionale dei diritti, apportando una modifica
all’art. 15 della legge n. 300 del 1970, cd. Statuto dei lavoratori, in maniera
da rendere nulli anche gli atti e i patti diretti a discriminare il lavoratore
per motivi di handicap, di età, di tendenze sessuali o di convinzioni
personali (comma 1) e prevedendo, altresì, che la tutela giurisdizionale
avverso gli atti discriminatori si svolga “nelle forme previste dall’articolo
44 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286” – testo unico delle leggi
sull’immigrazione – (comma 2 dello schema). Devesi, tuttavia, aggiungere al
riguardo che, nel corso dell’esame dello schema in argomento da parte della
XI Commissione permanente della Camera dei D eputati, il relatore ha
richiamato l’attenzione sulla disposizione da ultimo citata, che introduce
nell’ordinamento italiano il concetto di mobbing, ritenendo che la
definizione sia in contraddizione con i criteri di delega contenuti nella legge
n. 39 del 2002 e nel disegno di legge comunitaria 2003 all’esame
1
Nella sezione dedicata alla Documentazione, pag. 269, è pubblicato il testo definitivo del
decreto legislativo di recepimento della direttiva 2000/78/CE
DOTTRINA
dell’Assemblea. Infatti, sostiene il parlamentare, in entrambi i casi, i criteri
di delega specificano che le molestie devono essere considerate
discriminazioni se vengono posti in essere comportamenti indesiderati che
persistono anche quando sono stati dichiarati inequivocabilmente dalla
persona che li subisce come offensivi e lesivi della dignità personale. Poiché
il termine “molestie” potrebbe far pensare a qualunque tipo di
comportamento non gradito al soggetto destinatario, ritiene il relatore
medesimo che un legislatore garantista dovrebbe riformulare la definizione
contenuta nel citato comma 3 dell’art. 2 dello schema.
33
DOTTRINA
Il lavoro e la salute psichica
di Michele Piccione*
35
1. Nella Costituzione della Repubblica Italiana si legge all’art. 1: “Principi
fondamentali: L’Italia è una Repubblica Democratica fondata sul Lavoro”.
Perché sul lavoro e non sulla libertà, eguaglianza e fraternità o sulla felicità
o su tanti altri valori non solo di principio, ma anche di fatto?
Perché il lavoro nella sua accezione sociale, pratica e psicologica le
comprende tutte. Non c’è infatti libertà, eguaglianza, fraternità, felicità se non
c’è lavoro.
Questo gigante esistenziale è l’alleato speciale di ogni cittadino, di ogni
piccolo uomo che da solo ed in comunione con gli altri è in grado di costruire
e distruggere, amare ed odiare, vivere e morire.
La vera grande differenza tra l’uomo e l’animale consiste nella capacità del
primo (l’uomo) di informare e proporre agli altri e ai suoi successori, le
proprie esperienze.
È questa l’essenza del lavoro, è questa l’essenza del progresso, è questa
l’essenza del divino nel mondano.
Questa è la metafora di Cristo, figlio di Dio che pur potendo nascere con un
padre putativo come Erode, ed evitare così una strage, viene affidato ad un
operaio che ragionevolmente siamo autorizzati a pensare che tutti i giorni
costruisse sedie, tavoli, porte e finestre.
Giuseppe non era un re, un filosofo, un pensatore, un riccone, un politico,
era un pover’uomo, niente di speciale, che ha allevato il senso della ascesa e
dell’ingresso dell’uomo nell’eterno per dimostrare che chiunque può esserlo
perché chiunque lo è.
È possibile derivare da questo i concetti di libertà, di creatività, di dignità,
di amore? Forse sì. Perché diversamente ci risulta quantomeno difficile, se
*Medico Psichiatra, Presidente della Commissione sul Mobbing, istituita presso il Dipartimento
della Funzione Pubblica.
DOTTRINA
36
non impossibile, giustificare l’esistenza di Michelangelo o Beethoven o Einstein.
La soddisfazione completa o parziale percentualizzata rappresenta il ponte
tra lavoro, salute psichica e felicità.
Nessuno può essere mentalmente sano o sembrare tale se e quando queste
esigenze sono alterate, sono squilibrate, sono violate.
“Volendo meglio precisare il significato etico del lavoro, si deve avere
davanti agli occhi prima di tutto questa verità. Il lavoro è un bene dell’uomo
– è un bene della sua umanità –, perché, mediante il lavoro, l’uomo non solo
trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se
stesso come uomo ed anzi, in un certo senso, diventa più uomo” (da Giovanni
Paolo II, Lettera Enciclica 14 settembe 1981 “Laborem Exercens”).
Senza questa considerazione non si può comprendere il significato della
virtù della laboriosità, più particolarmente non si può comprendere perché la
laboriosità dovrebbe essere una virtù: infatti la virtù, come attitudine morale,
è ciò per cui l’uomo diventa buono in quanto uomo. Questo fatto non cambia
per nulla la nostra giusta preoccupazione, affinché nel lavoro, mediante il
quale la materia viene nobilitata, l’uomo stesso non subisca una diminuzione
della propria dignità. È noto, ancora, che è possibile usare variamente il
lavoro contro l’uomo, che si può punire l’uomo col sistema del lavoro forzato
nel lager, che si può fare del lavoro un mezzo di oppressione dell’uomo, che
infine si può, in vari modi, sfruttare il lavoro umano, cioè l’uomo del lavoro.
Tutto ciò depone in favore dell’obbligo morale di unire la laboriosità come
virtù con l’ordine sociale del lavoro, che permetterà all’uomo di diventare
“più uomo” nel lavoro, e non già di degradarsi a causa del lavoro, logorando
non solo le forze fisiche (il che, almeno fino a un certo grado, è inevitabile),
ma soprattutto intaccando la dignità e soggettività, che gli sono proprie.
Il mobbing è uno dei tanti modi possibili per esercitare questa violenza.
La commissione, coordinata da chi scrive, non a caso ha formalizzato la
seguente definizione: “atti, atteggiamenti o comportamenti di violenza
morale o psichica in occasione di lavoro, ripetuti nel tempo in modo
sistematico o abituale, che portano ad un degrado delle condizioni di lavoro,
idoneo a compromettere la salute o la professionalità o la dignità del
lavoratore”, di per sé infatti il mobbing non si esprime come una malattia ma
come l’insieme di tutte le malattie possibili.
Non è una sindrome composta da vari sintomi perché è una condotta che
produce sintomi alterando equilibri psichici e fisici.
Dopo studi condotti ormai da alcuni anni, è interessante comunicare alcuni
dati in grado di definire le alterazioni della personalità del mobbizzato
oltreché, e per la prima volta in assoluto, anche quelle del mobber.
DOTTRINA
2. Il mobbizzato è un individuo che sin dal primo incontro risulta
sgradevole, è una persona la cui sofferenza non suscita empatia, è un malato
che non si è arreso, è un combattente che cerca consenso, ma non alleanza, è
totalmente privo della capacità di fidarsi e di affidarsi, disperato e cinico
lotta e vuole lottare senza regole, all’ultimo sangue e con l’unico obiettivo di
tenere per i capelli la testa decollata del suo nemico.
Attenzione, guai se non fosse così perché solo questo lo mantiene in vita,
diversamente sarebbe morto.
È l’unica ed ultima battaglia, dove è tutto giocato sugli estremi, è la perdita
del doppio binario dell’alternativa, è la solitudine del disperato a cui rimane
soltanto l’ultimo colpo.
I sentimenti per tutto e per tutti si sono compattati in un amalgama unico
in cui domina l’incomprensione e la violenza per la lotta, dove tutto è
finalizzato nello scopo unico di “vincere” senza il raggiungimento del quale
la persona è certa che non possono rinascere tutti gli altri sentimenti.
Si determina una vera e propria impotenza affettiva, un incistamento
emozionale, un distacco relazionale.
Nessuna esperienza personale e sociale, altra da quella e di qualunque
portata, può essere presa in considerazione perché considerata inferiore se
non inutile.
Si entra all’interno di quello stato psicopatologico che tecnicamente è
definito: ideazione monotematica.
All’esterno di questo vissuto sono tutti terzi, anche quelli che cercano di
dare aiuto, vige come unica legge: “con me o contro di me”.
Dallo studio di 77 mobbizzati, che hanno risolto la loro vertenza in via
extragiudiziale, si sono rilevati dei tratti comuni di personalità
Sovrapponibili, mutatis mutandis a quelli dei reduci e, più in particolare e
dopo un anno, caratterizzati dai seguenti elementi:
1. il 75% aveva smesso di lavorare per sempre;
2. il 25% non aveva trovato altro lavoro presso terzi e svolgeva una attività
in proprio;
3. nessuno accettava di parlare di buon grado di quanto gli era accaduto;
4. nessuno si sentiva soddisfatto dell’accordo economico neppure quando
considerato obiettivamente congruo;
5. nessuno pensava di se come “di colui che aveva dato una lezione al
sopraffattore”;
6. il 100% pensava di essere stata vittima e di “ considerarsi quello che
aveva perduto”.
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Alla domanda: perduto cosa tra
1. il lavoro
2. la salute
3. la dignità
3a) verso la famiglia
3b) verso i colleghi
3c) verso gli amici
il 100% degli intervistati ha risposto positivamente alla 1 e alla 2, alla 3 20%
verso la famiglia, nessuno verso i colleghi, il 15% verso gli amici.
Circa la patologia somatica denunziata, il 100% dichiarava di soffrirne
ancora. Di questi, il 50% in modo ridotto del 50%, il 25% come prima, il
rimanente 25% ridotta più del 75% a prescindere dell’organo o apparato
interessato.
Circa la patologia psichica denunziata: depressione – il 30% non
presentava più depressione, il rimanente 70% in forma lieve; ansia – nel
100% permaneva in forma lieve; idee persecutorie – il 15% manteneva idee
persecutorie, il rimanente 85% presentava un’ideazione in cui era dominante
una “eccessiva sospettosità e diffidenza”.
3. Dagli studi presenti in letteratura non si evince la personalità del
mobber. Da una statistica personale ed in verità esigua, sette i casi studiati per
motivi facilmente comprensibili, data la indisponibilità del mobber ad
accettare di essere sottoposto ad indagine psicologica, si è potuto evincere
che trattasi di individui con una struttura di personalità all’ MMPI,
caratterizzata da un alto indice di risposte non attendibili e con dei profili
orientati sul depressivo, con significativi tratti di tipo isterico, inquadrabili –
in modo clinico – all’interno delle personalità passive-aggressive.
Alla richiesta se il mobber, denunziato come tale, ha presentato dei sintomi
di natura somatica o psichica, tutti hanno negato sintomi somatici, mentre
tutti hanno ammesso alti livelli di ansia limitatamente e in occasione della
contestazione giudiziaria.
Nessuno ha accettato un colloquio per un esame catamnestico dopo un
anno dalla conclusione della vicenda.
Il 100% ha proseguito e mantenuto il posto di lavoro precedente, il 100%
si è autodichiarato di essere nel giusto.
In conclusione, il lavoro e la salute psichica cosi come quella fisica devono
essere coniugati all’interno di modelli che non possono non transitare sia
dalla considerazione del clima lavorativo, sia, e soprattutto, senza pensare a
una regolamentazione comportamentale in grado di differenziare il
DOTTRINA
lavoratore onesto e sano da quello disonesto e malato, sia che la vita lo abbia
collocato nel ruolo di datore di lavoro che in quello di dipendente.
Gli studi condotti dimostrano che la ferita da mobbing, non solo lascia il
segno, ma rimane spesso per sempre: il trauma per lo stress non è superabile
mai e nei casi osservati cambia la vita della persona in modo radicale e
significativo, mai in meglio.
L’azione mobbizzante può, senza ombra di dubbio alcuno, essere collocata
tra le condotte antisociali e chi la realizza dovrebbe essere chiamato a
risponderne.
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Il mobbing come patologia
della relazione
di Paolo Pappone*
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Da quando il problema del mobbing è stato portato all’attenzione del
pubblico, della magistratura e del legislatore, si è acceso un intenso dibattito
che verte, innanzitutto, sulla definizione del fenomeno.
Il termine mobbing, e tutte le conoscenze ad esso connesse, hanno da
sempre prodotto negli esperti delle diverse discipline un atteggiamento in
generale improntato alla diffidenza e allo scetticismo e sollevato un mare di
dubbi e di perplessità.
L’incertezza riguarda parimenti la natura del fenomeno “mobbing”, la sua
definizione e la sua capacità di produrre effetti devastanti sulla psiche delle
vittime.
Il dibattito che si è aperto in questa sede coglie la necessità del magistrato
e del legislatore di dare esatti confini ad una questione che comincia ad avere
un peso rilevante per un verso sulle vicende di contenzioso giuridico, per
l’altro, più importante aspetto, sulle politiche e le applicazioni delle
normative che tutelano la salute dei lavoratori privilegiando l’azione
preventiva.
In questo lavoro proponiamo una serie di considerazioni che derivano
dall’osservazione clinica svolta in circa tre anni su oltre 400 casi.
Utilizzando i punti di vista della psicologia relazionale e della psicologia
cognitiva discuteremo alcuni aspetti differenziali che consentono di definire
operativamente il fenomeno e di comprendere attraverso quali meccanismi
possa produrre danno.
1. La natura proteiforme delle azioni di mobbing è la principale fonte di
confusione e di scetticismo nei confronti del problema.
*Psichiatra, Responsabile dell’Ambulatorio Specializzato per il Mobbing e il Disadattamento
Lavorativo – ASL Napoli 1.
DOTTRINA
Una strategia di mobbing può esplicitarsi in una incredibile varietà di
azioni e di atteggiamenti che, se presi singolarmente, in genere appaiono fatti
ordinari e privi di significato particolare.
La tabella 1, tratta dal lavoro di Leymann è ampiamente rappresentativa di
questo aspetto del problema.
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Tabella 1. Classificazione generale delle attività mobbizzanti secondo
Heinz Leymann
Effetti sulle possibilità della vittima di
comunicare adeguatamente
la dirigenza non dà possibilità di comunicare, il
lavoratore viene zittito, si fanno attacchi verbali
riguardo le assegnazioni del lavoro, minacce verbali, espressioni verbali che respingono, ecc.
Effetti sulle possibilità della vittima di
mantenere contatti
sociali
i colleghi non comunicano più con il lavoratore o
la dirigenza proibisce esplicitamente di comunicare con loro, isolamento in una stanza lontano
dagli altri, ecc.
Effetti sulle possibilità della vittima di
mantenere la sua
reputazione personale
mettere in giro voci sul conto della vittima, azioni di messa in ridicolo, derisione circa eventuale
handicap o della appartenenza etnica o del modo
di muoversi o di comunicare, ecc.
Effetti sulla situazione professionale della
vittima
non viene assegnato alcun compito o solo dei
compiti insignificanti, ecc.
Effetti sulla salute
fisica della vittima
vengono assegnati incarichi pericolosi di lavoro,
oppure si fanno minacce di lesioni fisiche, molestie sessuali, ecc.
DOTTRINA
Proponiamo poi all’attenzione due definizioni “storiche” del mobbing, che
esprimono in modo sintetico due aspetti fondamentali del fenomeno:
a) Comunicazione ostile e contraria ai principi etici, perpetrata in modo
sistematico da una o più persone principalmente contro un singolo
individuo che viene per questo spinto in una posizione di impotenza e
impossibilità di difesa e qui costretto a restare da continue attività ostili
(Leymann, 1996).
b) Attacco continuato e persistente nei confronti dell’autostima e della
fiducia in sé della vittima. La ragione sottostante tale comportamento è
il desiderio di dominare, soggiogare, eliminare; la caratteristica
dell’aggressore è il totale rifiuto di farsi carico di ogni responsabilità per
le conseguenze delle sue azioni (Field, 1996).
Della definizione di Leymann sottolineiamo il termine “comunicazione”:
sta ad esprimere che le azioni di mobbing sono definibili in termini di
“significato” più che di effetti materiali e questo è l’elemento che deve essere
guida nella valutazione di quelle situazioni in cui l’effetto dannoso è
prodotto da una serie di atti privi di gravi effetti immediati e dall’apparenza
accidentale e innocente.
Della definizione di Field sottolineiamo la considerazione che considera le
azioni di mobbing prodotte dal “desiderio di dominare, soggiogare
eliminare”: la finalità è l’elemento caratterizzante dell’azione di mobbing.
2. Nelle comuni relazioni umane e, per quanto ci riguarda specificamente
in questo contesto, nelle reazioni lavorative, il conflitto è un elemento
fisiologico, se resta entro certi limiti. Il mobbing, pur se nasce spesso (ma non
sempre) sulla base di un conflitto, è di natura diversa.
Nella tabella 2 sono schematizzati le principali differenze tra una
situazione di mobbing e una situazione di conflitto.
Assumiamo dunque come finalità fondamentale e caratteristica dell’azione
di mobbing l’eliminazione dell’altro: questo ha spesso come esito
l’allontanamento della persona dal contesto lavorativo (trasferimento,
dimissioni, licenziamento). Ma l’eliminazione dell’altro si manifesta anche
in altri modi, che per certi aspetti possiamo definire meno concreti, ma che
risultano dal punto di vista psichico anche più devastanti.
43
DOTTRINA
Tabella 2. Elementi di differenza tra mobbing e conflitto (Pappone, 2003)
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Mobbing
Conflitto
Oggetto del
contrasto
La relazione
Un fatto
Modalità
Manipolativa
Oltre le regole
Esplicita
Secondo le regole
Finalità
Eliminare o soggiogare l’altro
Ottenere qualcosa
Danno per lo Dist. Post Traumatico da Stress
sconfitto
Frustrazione
3. Proviamo ora ad esaminare per gradi come si presenta questa condizione,
in modo sottile e simbolico.
Una delle immagini paradigmatiche del lavoratore mobbizzato è quella
della persona messa da sola in una stanza, isolata dal gruppo di lavoro, senza
strumenti di comunicazione, senza compiti, funzioni o incarichi di lavoro.
Questa condizione corrisponde ad una eliminazione funzionale della
persona. Il lavoratore è nominalmente presente nell’organico della azienda,
riceve la busta paga, marca il cartellino, ma non esiste più dal punto di vista
della produzione, delle relazioni di lavoro, delle prospettive di lavoro e di
carriera.
Un altro modo di manifestarsi del mobbing è il dimenticare: i compagni di
stanza dimenticano di invitarti al bar durante la pausa, ci si dimentica di
invitarti alla tal riunione, il direttore dimentica di farti pervenire una
circolare o un’informazione importante, qualcuno ti cancella dalla mailinglist, il capo dimentica di firmare la domanda di ferie, etc. Il lavoratore
percepisce di non esistere nella mente degli altri.
Un altro modo ancora è di non dare risposta o cambiare significato a quello
che il lavoratore chiede o fa (in generale questo accade quando il lavoratore
inizia a tutelarsi o a cercare di modificare una situazione che comincia a
DOTTRINA
sentire pericolosa). Ti lamenti che da due settimane non ti riparano il
computer, ti si risponde che sei un intollerante e non tieni conto delle
difficoltà degli altri; dopo numerose garbate richieste verbali metti per iscritto
una tua esigenza, ti si risponde che questo tipo di comunicazione in genere
non viene formalizzato e che quindi non hai capito lo spirito del gruppo di
lavoro. Quando la vittima comincia a capire che è in atto una manovra ostile
comincia a diventare puntigliosa, a pretendere che tutto venga formalizzato, si
radicalizza sull’applicazione di norme e regolamenti, le si attribuisce un
carattere difficile, “è un querulomane; manca di elasticità….” Il mobbizzato è
così spinto in uno “spazio” di incomprensibilità, di incomunicabilità, e
quindi di non esistenza soggettiva nella relazione.
Con questa progressione vogliamo esemplificare che la caratteristica
fondamentale del mobbing è una modalità di relazione (o di comunicazione
per riportarci alla definizione di Leymann) che è presente prima e a
prescindere da ogni effetto concreto, materiale, sulla condizione lavorativa.
Prima di essere eliminata fisicamente, la persona è eliminata come soggetto
relazionale nel gruppo di lavoro e nella realtà lavorativa.
Questo si compie attraverso una ampia e variegata serie di atti formali e
informali, comunicazioni personali verbali e non verbali, azioni ed omissioni
che sono organizzate dalla comune finalità espulsiva e assumono il
significato relazionale di negazione della esistenza soggettiva della vittima.
Questa modalità relazionale corrisponde nella sua generalità e nel suo
significato a quella modalità di rapporto interpersonale che i terapeuti di
indirizzo relazionale descrivono come disconferma.
Dal punto di vista psicologico essere costretti in una relazione
affettivamente significativa che prende questa forma è fortemente
destabilizzante e può comportare gravi sofferenze psicologiche.
4. L’effetto di siffatte modalità di relazione sulla struttura psichica delle
persone è stato affrontato e accuratamente analizzato e documentato da G.
Liotti (La dimensione interpersonale della coscienza, 1994).
Liotti, infatti, sostiene che: “La tendenza all’integrazione delle varie
strutture della conoscenza di sé in una realtà psichica coesa che possiamo
chiamare sé è dunque sostenuta da una precisa qualità di relazione meglio
che da qualunque altra: una relazione fra pari, definita tale da una comune
intenzionalità, in cui la comunicazione sia aperta e libera, la volontà di
piegare l’altro a un qualunque fine sia ridotta al minimo e la ricerca di una
condivisione o sintonia durante ogni atto comunicativo sia bilaterale e
continua”.
45
DOTTRINA
Nella tabella 3 sono per inverso schematizzate le caratteristiche della
relazione che, secondo lo stesso autore possono essere fonte di grave
patologia.
Tabella 3. Distorsioni della comunicazione che minacciano la coesione del
se (Liotti, 1994)
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• Occultamento de la verità relazionale
- Impedire all'altro di costruire un'adeguata rappresentazione della
relazione in atto
• Minacce di abbandono, colpevolizzazioni e paradossi
- Utilizzare i sentimenti dell'altro, attraverso manovre interpersonali
capaci di suscitare emozioni potenti, al fine di piegarlo ai nostri
desideri o di coartarne la libertà
• Perdita di sintonia nella comunicazione
È su questa linea di ragionamento che si basa la consapevolezza e la
dimostrazione del valore gravemente traumatico dell’esperienza del
mobbing. Il mobbizzato è obbligato in una relazione manipolativa, che
distorce profondamente la realtà della comunicazione interpersonale, che lo
costringe a rivedere le proprie strategie di coping, che gli nega contrattualità
sociale interpersonale, fino a negargli la stessa esistenza in quanto soggetto
comunicante.
Dal punto di vista soggettivo è l’equivalente di una grave minaccia
all’incolumità personale ed assimila l’esperienza del mobbing alle esperienze
traumatiche considerate all’origine della patologia inquadrata dalla
nosografia attuale come “Sindrome Post-Traumatica da Stress”.
Tabella. 4. Elementi traumatici nell’esperienza del mobbing
(Pappone, 2003)
•
•
•
•
Disconferma dell'identità lavorativa
Discontinuità nello sviluppo delle relazioni
Messa in crisi di un modello operativo interpersonale
Ridefinizione in senso negativo delle azioni appropriate di
risoluzione del conflitto
• Negazione della possibilità di contrattazione
DOTTRINA
5. Nel lavoro, e nelle relazioni interpersonali in generale, non si soffre solo
per il mobbing. Esistono molteplici forme di esperienze che inducono
frustrazione, sofferenza, un vissuto di ingiustizia, un radicale bisogno di
indennizzo.
Ai fini della comprensione psicopatologica, del risoluzione del contenzioso
giuridico e, soprattutto, ai fini della definizione di politiche di prevenzione,
è importante distinguere il mobbing da altre esperienze negative, più o meno
intenzionali, che sono definibili di volta in volta come discriminazione,
lesione di diritti, mancati riconoscimenti, ritmi e modalità di lavoro
stressanti, ed altre ancora.
Secondo il nostro punto di vista il termine mobbing può essere
appropriatamente adoperato solo tenendo conto del significato strutturale
dell’insieme di azioni che hanno indotto sofferenza: nel mobbing la vittima
viene costretta in una relazione asimmetrica la cui modalità fondamentale è
di tipo manipolativo, la finalità è la eliminazione dell’altro in quanto soggetto
della relazione (e questo comprende sia l’espulsione/esclusione vera e
propria, sia l’assoggettamento).
Questa condizione ha in sé un potenziale patogeno molto maggiore e più
radicale, comportando spesso lo sviluppo di una sindrome cronica
assimilabile alla “Sindrome Post-traumatica da Stress”.
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DOTTRINA
Le condizioni di lavoro del
pubblico impiego in Italia
di Francesco Verbaro*
49
Tempo fa è giunto un quesito presso l’Ufficio per il personale delle
pubbliche amministrazioni del Dipartimento della Funzione Pubblica, una
struttura che, in generale, fornisce delle risposte alla richiesta di pareri sul
trattamento giuridico-economico. La questione, un po’ particolare, era posta
da una ragazza che chiedeva: “Desidero sapere come posso tutelare mio
padre che, dal 4 luglio 2000, va in ufficio per non lavorare. C’è un rimedio
che può suggerirmi? La prego di fare in modo che non lo sappia mio padre”.
È una delle richieste di parere più difficili pervenute all’ufficio da me
diretto. E per rispondere alla quale è opportuno provare a fare un
ragionamento complesso, per cercare di capire quali siano questi atti, ripetuti
nel tempo, che non raggiungono di per sé il livello di illegittimità, ma che si
configurano come elementi di condizione del lavoro non confacenti alla
organizzazione del lavoro, che sono in contraddizione con le tre “e”
(efficienza, efficacia, economicità) e che, certamente, vanno eliminati in una
logica di prevenzione e di attenzione generale al clima e all’ambiente di
lavoro della pubblica amministrazione.
Riferisce, giustamente, la Risoluzione del Parlamento Europeo del
settembre 2001 che “la precarietà dell’impiego costituisce una delle cause
principali dell’aumento della frequenza dei suddetti fenomeni”. Eppure
l’impiego pubblico viene considerato come il lavoro più stabile, più sicuro, il
famoso “posto fisso”. Perché, allora, secondo l’ISPESL, il 71% del fenomeno
del mobbing avviene presso il settore pubblico?
Effettivamente, dal ’92 ad oggi, ci troviamo in una situazione di
trasformazione continua. Le amministrazioni pubbliche sono soggette ad un
forte processo di cambiamento: pensiamo alla riforma dei ministeri e degli
enti, alla riorganizzazione interna, al decentramento amministrativo, con
*Direttore dell’Ufficio per il personale delle P.A. presso il Dipartimento della Funzione Pubblica.
DOTTRINA
50
molte delle funzioni statali cedute alle Regioni e al conseguente
trasferimento del personale, seguito dal cambiamento di status e di funzioni.
Ancora oggi questo processo di decentramento è in fase di completamento.
Noi, ad esempio, abbiamo personale ancora di alcuni settori non trasferiti;
molti si autodenunciano alla Corte dei Conti in quanto non lavorano, dato
che non appartengono né alle competenze dello Stato né delle Regioni a cui
dovranno essere trasferiti. Abbiamo la questione aperta del Titolo V, il quale
modifica le competenze e l’assetto di tutte le amministrazioni, e abbiamo il
fenomeno dell’e-government.
L’impatto dell’informatizzazione, per esempio, non deve essere
sottovalutato, perché oggi ci sono generazioni di personale pubblico tagliate
fuori ed escluse a causa delle innovazioni introdotte dalle nuove tecnologie
e, a volte, all’interno degli uffici, in un rapporto di “tensione” con le giovani
generazioni che sono un po’ più vicine a questi nuovi meccanismi. L’egovernment è anche un modo nuovo di pensare l’amministrazione, cioè con
strutture più piccole dotate di alte professionalità, dove si coopera e dove il
rapporto gerarchico si attenua e diventa importante la relazione orizzontale,
la cooperazione tra soggetti, uffici, settori. E tutto questo può essere vissuto,
per alcune generazioni, più come un problema che un’opportunità, come un
meccanismo voluto di esclusione.
Un altro tema è il lavoro flessibile, utilizzato molto dalle amministrazioni
(art. 36 del d.lgs. 165/2001 e poi d.lgs. 368/2001), a cui occorre aggiungere
ammortizzatori sociali come l’impiego dei lavoratori socialmente utili (LSU).
Forme di rapporto di lavoro, che hanno dato vita a “stabilizzati a tempo
determinato”, prorogati da finanziaria a finanziaria, per ultimo con il comma
19 dell’art. 34 della finanziaria 2003. Tutto ciò ha creato un conflitto sociale,
anche all’interno degli uffici, dove c’è chi lavora a tempo indeterminato con
alcune garanzie e, alla scrivania di fronte, c’è chi lavora a tempo determinato
con garanzie minori. Come si vede, in questo disegno, ci sono elementi di
enorme incertezza rispetto a quella che poteva essere l’immagine stereotipata
dell’impiego pubblico come posto fisso.
A ciò si aggiungano anche i problemi finanziari, perché tutte le misure
avviate nei confronti di pubblici impiegati hanno avuto finalità di finanza
pubblica (abbiamo iniziato con la L. 537/93, la legge Cassese e così via) di
tipo restrittivo. Da un lato si ha il blocco delle assunzioni – con graduatorie
di vincitori che entrano dopo 5 o 6 anni rispetto alla domanda fatta per
partecipare al concorso – e dall’altro ingenti tagli sui fondi per la formazione
del personale, che le amministrazioni non sono in grado di programmare.
Un accenno va dedicato alla contrattazione integrativa: quella che doveva
DOTTRINA
essere lo strumento più innovativo e stimolante per organizzare il lavoro a
livello aziendale e che, di fatto, ha perso molte delle sue funzioni e
potenzialità.
Ma non possiamo dimenticare le privatizzazioni ed i relativi processi. Il
vincolo europeo del 3% di deficit sul PIL ha portato il Ministero
dell’Economia e delle Finanze e, poi, il Dipartimento della Funzione
Pubblica a dover gestire tutti i problemi che sono legati al passaggio dal
pubblico al privato, tra cui quello non facile della mobilità d’ufficio.
Non stiamo parlando, ovviamente, di mobbing, ma delle condizioni
generali in cui oggi si trova l’amministrazione pubblica ed è su queste che,
innanzitutto, dobbiamo intervenire per prevenire alcuni di quei problemi che
possono causare situazioni di mobbing. Teniamo conto, quindi, dell’impatto
che ha il cambiamento organizzativo sul personale, non soltanto attraverso la
formula “sentite le organizzazioni sindacali”.
Rispetto ad una prevista riduzione del personale, la gestione delle risorse
umane diventa ancora più difficile e complessa nelle amministrazioni
pubbliche, dove c’è una gestione abbastanza antiquata del settore, fondata su
un’amministrazione giuridica e contabile del personale. Gli uffici del
personale hanno competenze giuridiche, amministrative e contabili (e in
piccola parte sindacale) e, quindi, null’altro si conosce delle risorse umane
se non i dati riportati sul cedolino paga e quelli necessari per il passaggio di
qualifica.
Quindi, è chiaro che ci sono elementi legati ad una debolezza strutturale di
questi uffici del personale. Ecco perché ritengo che, al di là dei Comitati
Paritetici previsti nei vari contratti – come quello previsto dall’art. 3, comma
6, del CCNL Ministeri –, forse ciò su cui occorre lavorare è proprio l’Ufficio
del personale e la responsabilizzazione della dirigenza.
Tutti quegli elementi non monetari del rapporto di lavoro e del contratto
come la formazione, la comunicazione interna, i codici di comportamento, la
motivazione, sono parti che alla fine vengono citate (quando vengono citate)
molto superficialmente. Invece, si tratta di tematiche su cui dovrebbero
operare gli uffici del personale.
Questo è un problema culturale da superare sia dalla parte datoriale, cioè
dalla pubblica amministrazione che è purtroppo il peggiore datore di lavoro
possibile, sia dalla rappresentanza dei lavoratori, che spesso esprimono come
massima richiesta l’esigenza strettamente monetaria, dimenticando o
sottovalutando gli altri punti (formazione, qualificazione del lavoro, ecc). Ma
tutti questi problemi sono rilevanti e hanno un costo per la pubblica
amministrazione. Pensiamo ai tassi di assenteismo, alle malattie, a tutti i
51
DOTTRINA
52
permessi che vengono presi da quei soggetti che non trovano facile
collocazione, oppure pensiamo al discorso delle pause di lavoro. Questo è un
costo reale, anche se non viene quantificato. Ed allora cosa fare?
Certamente il ruolo dell’Ufficio del personale diventa importante. Queste
strutture andrebbero rafforzate in quanto hanno gli strumenti di tutela per
migliorare l’ambiente interno.
Poi c’è il fronte della responsabilità dirigenziale. Il vertice amministrativo
rappresenta senz’altro il primo datore di lavoro da individuare, perché su
questo punto bisogna fare in modo che, al di là delle plurimodifiche degli
artt. 19 e 28 del d.lgs. 165/2001, si rifletta bene sulla responsabilità
dirigenziale nei confronti del personale. Basti pensare che non ci sono ancora
dei meccanismi di valutazione della dirigenza che legano l’indennità di
risultato ad una valutazione su come è stato gestito il personale (i sistemi di
valutazione della P.A. sono stati introdotti da pochi anni e con un certo
generalismo).
Accanto ad una cultura del merito che deve essere introdotta, nonostante gli
ostacoli culturali presenti in ampie parti dell’amministrazione, occorre
introdurre sistemi trasparenti di decisione in grado di dare evidenza ai motivi
delle scelte organizzative e che offrano la possibilità di tenere conto delle
esigenze del personale. È chiaro che di fronte a sistemi non definiti e poco
trasparenti è più facile essere soggetti a quelle critiche per cui una scelta – che
è poi gestionale, organizzativa – può essere interpretata dal personale come
un’azione di mobbing.
Rispetto a questo, che fare? Senz’altro deve cominciare a pesare la cultura
dell’organizzazione, l’attenzione all’ambiente di lavoro. Occorre considerare
gli effetti e i danni del cosiddetto “malessere organizzativo”, eliminare la
cattiva gestione del personale e, quindi, dare tutela nei confronti del
mobbing.
Esistono già per questo delle norme di tutela giudiziaria. L’art. 2087 c.c. è
una norma di chiusura che tutela il lavoratore e che dà degli obblighi al
datore di lavoro. Questa norma può essere utilizzata come punto di
riferimento, ma ci sono anche degli obblighi per le amministrazioni
pubbliche legati all’efficienza ed all’efficacia dell’azione amministrativa.
Non si può pensare che tutto quello di cui abbiamo parlato non sia un costo
per l’amministrazione e che, pertanto, non vada valutato e quantificato.
Un altro obiettivo è riuscire ad attuare realmente il decreto legislativo
286/99, creando sistemi di valutazione efficienti e trasparenti, che leghino
l’indennità di risultato dei dirigenti a come viene gestito, valorizzato e
formato il personale. La chiave di volta è riuscire a gestire le risorse umane
DOTTRINA
al meglio e al di là dei contratti, spesso inattuati, aumentando la
responsabilità dei dirigenti sul personale assegnato. Questo è un obbligo che
il dirigente ha per il conferimento dell’incarico; è un obbligo morale e civile
da parte di una classe dirigente del Paese. Probabilmente bisognerà lavorare
con la formazione e mostrando anche i dati e i costi reali su cui si va ad
incidere. Esiste su questo un sommerso da far emergere.
È intervenendo su questi aspetti che si potrà allora dare una risposta a
quella richiesta di parere pervenuta alla Funzione Pubblica che diceva:
“come posso aiutare a far lavorare mio padre ogni giorno?”.
53
DOTTRINA
La proposta della Commissione
Piccione e i Centri regionali per la
diagnosi e la terapia dei disturbi
correlabili al mobbing
di Valentina Lostorto*
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La proposta di legge scaturita dai lavori della commissione – presieduta dal
prof. Piccione – sul mobbing istituita ad hoc presso il Dipartimento della
Funzione Pubblica, è il frutto di un lavoro interdisciplinare che ha tenuto
conto di una pluralità di specifiche esperienze professionali. Ogni tentativo
di individuare e disciplinare il fenomeno del mobbing, infatti, non può che
essere preceduto da uno studio completo e approfondito dello stesso in tutti
i suoi aspetti. Si entra così in contatto con una realtà che travalica i confini
delle aule di giustizia e che è conoscibile solo attraverso il contributo, tra gli
altri, di medici legali, psichiatri, psicologi, sociologi, sindacalisti, datori di
lavoro, dirigenti dell’amministrazione direttamente a contatto con il mondo
della gestione del personale.
Prima di partecipare ai lavori della Commissione, l’esperienza professionale
di chi scrive come giudice del lavoro ha portato a conoscere e studiare il
mobbing esclusivamente sotto il profilo della tutela accordabile e della
qualificazione e quantificazione del danno eventualmente conseguito al
comportamento datoriale denunciato. Va peraltro detto come, almeno presso il
Tribunale di Roma, la casistica, soprattutto in sede di merito, sul mobbing vero
e proprio (come qualificazione della causa pretendi) è stata fin ad ora alquanto
scarna, anche se non può non tenersi conto del fatto che, al di là della
qualificazione formale utilizzata, di mobbing può certamente parlarsi anche
nella maggior parte delle controversie concernenti un demansionamento.
Preliminarmente la Commissione si è preoccupata di esaminare e
raffrontare, istituto per istituto, le altre proposte di legge tuttora pendenti al
Senato o alla Camera per vedere come erano stati risolti punto per punto i
vari problemi (definizione, prevenzione, formazione, apparato sanzionatorio,
*Magistrato del lavoro e membro della Commissione sul Mobbing presso il Dipartimento della
Funzione Pubblica.
DOTTRINA
56
tutela, ecc.). Quindi, si è mossa su varie direttrici, attraverso le
sottocommissioni all’uopo costituite.
Il primo problema è stato quello di giungere ad una definizione del
fenomeno.
Ed infatti, le condotte munite di potenzialità lesiva che possono integrare
mobbing sono molteplici e non necessariamente illecite se prese
singolarmente; le stesse, in sintesi, possono essere distinte in tre categorie:
1. quelle aventi rilevanza penale, che costituiscono per se stesse reato,
prese in considerazione anche singolarmente (si pensi all’ingiuria di cui
sia fatto oggetto il lavoratore ad opera di un superiore);
2. quelle sfornite di rilievo penale ma perseguibili singolarmente, per la
loro illegittimità, dal giudice del lavoro (si pensi ad un trasferimento
illegittimo ad altra sede più disagiata del dipendente, al fine di fiaccarne
la volontà, o ad un illegittimo demansionamento, ovvero all’accanimento
disciplinare);
3. quelle pienamente legittime sotto il profilo civilistico, ma che, essendo
poste in essere con modalità lesive, unitariamente considerate, possono
costituire una grave offesa alla dignità del lavoratore (si pensi alle
reiterate visite fiscali di controllo in caso di malattia, o ai richiami ad
avere un abbigliamento consono indirizzati ad un solo dipendente
nonostante sussistano nel medesimo ambito lavorativo analoghe
situazioni, ovvero alla ripetuta sottoposizione a procedimenti
disciplinari poi archiviati, per cui manca uno specifico atto contro
cui chiedere tutela al giudice, ma esiste una pluralità di azioni che mette
il lavoratore in qualche modo in una posizione diversa e deteriore
rispetto agli altri).
Proprio con riferimento a quest’ultima ipotesi la giurisprudenza, attraverso
l’elaborazione dell’istituto, ha consentito, anche in assenza di leggi in
materia, di sanzionare, oltre che comportamenti di per sé illegittimi e già
sanzionabili in precedenza, anche l’insieme dei comportamenti ostativi
singolarmente non connotati da illiceità e/o illegittimità, ma che tali siano
diventati per le modalità, il contesto e le finalità vessatorie o lesive con cui
sono posti congiuntamente in essere e di fronte ai quali il dipendente era
sinora sfornito di qualunque protezione.
In secondo luogo, la Commissione ha cercato di enucleare una risposta
quanto più certa ed omogenea in ordine al problema dell’individuazione e
qualificazione delle malattie psichiche e somatiche che possono derivare al
lavoratore da un comportamento datoriale illecito e soprattutto in merito al
necessario nesso causale. Ed invero, la stessa giurisprudenza della Corte
DOTTRINA
Cassazione (cfr. sent. n. 5491/2000) testimonia le difficoltà che possono
sorgere proprio in relazione alla rilevazione in concreto di un pregiudizio per
il lavoratore che sia eziologicamente ricollegabile ad una situazione di
vessazione sul posto di lavoro. In particolare, proprio nella fattispecie
esaminata dalla S.C. nella sentenza sopra richiamata, pur affermandosi la
sussistenza di un diritto del lavoratore alla propria integrità psicofisica (nella
specie lesa da un reiterato abuso del potere disciplinare), tutelato dall’art.
2087 c.c., ha poi escluso che sussistesse il nesso causale tra le manifestazioni
esteriori della lamentata lesione psichica (crisi matrimoniale, perdita di
relazioni sociali ed amicali, ecc.), le denunciate somatizzazioni (nausea,
vomito, irritabilità ed altro), e l’accanimento disciplinare datoriale; la Corte,
infatti, anche in considerazione – citando testualmente – “delle incoerenze e
manchevolezze della consulenza”, ha affermato che le lamentate
ripercussioni sulla sfera affettiva del lavoratore erano esclusivamente da
ricollegarsi a scelte individuali autonome del lavoratore stesso.
È dunque evidente la assoluta necessità di fornire criteri oggettivi ed
omogenei non solo per la definizione oggettiva della condotta datoriale
integrante il c.d. mobbing, ma anche per la diagnosi delle eventuali lesioni
psichiche, affinché si tenga conto, in sede diagnostica, delle somatizzazioni
e del nesso causale che deve sussistere tra malattia psichica e malattia
somatica.
In mancanza di ogni indicazione circa la definizione e le modalità di
rilevazione di questo fenomeno sotto il profilo medico, non solo il lavoratore
che versi effettivamente in una situazione di malattia psichica da mobbing
avrà maggiori difficoltà ad ottenere la invocata tutela, ma anche il datore di
lavoro potrà essere maggiormente esposto a richieste e ricorsi. Né il compito
di regolamentare il mobbing può essere totalmente demandato alla
contrattazione collettiva, trattandosi in ogni caso di un intervento settoriale
per definizione e, quindi, non completo.
Infine, non è possibile lasciare alla buona volontà delle singole Regioni o
di singole ASL la costituzione di centri in cui si offrano strumenti diagnostici
o terapeutici ai lavoratori soggetti a mobbing; in mancanza di norme che, nel
rispetto dell’art. 117 Cost., dettino dei criteri omogenei di funzionamento di
tali servizi, potrebbe verificarsi la creazione di strutture che rilascino una
sorta di “patente” al mobbizzato senza alcun controllo. Rischio che assume
un rilievo ancor più grande laddove avanti al giudice del lavoro in sede di
urgenza – e cioè in una fase di accertamento giudiziale necessariamente
sommario – la certificazione da parte di un centro specializzato sul mobbing
potrebbe essere ritenuta sufficiente a dimostrare la verosimiglianza della
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DOTTRINA
58
lamentata patologia e, quindi, il fumus boni iuris. Basti qui menzionare
1
l’ordinanza 4.7.2002 del Tribunale di Roma , che ha accordato tutela in via
d’urgenza ad un lavoratore – accertata, ovviamente, l’irreparabilità del
pregiudizio e la verosimiglianza della lamentata situazione di
demansionamento – proprio sulla base del fatto che questi era in terapia
presso un centro specializzato (nella specie, il Centro mobbing della ASL
Roma E).
In relazione all’ordinanza cautelare citata, inoltre, non ci si può non
soffermare brevemente per illustrare il principio affermato dal Tribunale in
tema di accertamento del requisito del periculum in mora. Mentre il giudice
investito del ricorso ex art. 700 c.p.c. aveva negato la tutela cautelare
ritenendo carente il requisito del periculum in mora stante il lungo tempo
trascorso tra i fatti denunciati e l’esercizio dell’azione, il collegio in sede di
reclamo ha ritenuto che ai fini dell’individuazione del pregiudizio “non deve
aversi riguardo all’intervallo di tempo intercorrente tra il momento in cui il
danno (rectius, il comportamento lesivo) si sarebbe concretizzato e quello in
cui viene proposto il ricorso in via d’urgenza, bensì ... al tempo
presumibilmente occorrente per la definizione del giudizio di merito,
valutando la situazione in cui si trova l’interessato al momento in cui
propone il giudizio cautelare nella prospettiva di giungere ad una definizione
di merito. Proprio il trascorrere del tempo, invero, può far sì che una
situazione “pericolosa” in un certo momento, lo diventi per effetto del
protrarsi della condizione asseritamente lesiva venutasi a creare”.
Trattasi di impostazione certamente condivisibile. Se, infatti, è vero che la
concessione della tutela in via di urgenza è rigorosamente delimitata dagli
estremi dell’imminenza e dell’irreparabilità degli effetti pregiudizievoli che
possono derivare al ricorrente nel tempo necessario per ottenere ed attuare la
decisione di merito (con la conseguente esclusione dei danni suscettibili di
completo ristoro), è altrettanto vero che, se tali presupposti si siano verificati
in epoca successiva alla condotta pregiudizievole – purché eziologicamente
ad essa ricollegabili –, la tutela in via d’urgenza non può certamente essere
negata per il solo fatto del decorso del tempo dall’evento lesivo. Il requisito
dell’imminenza del pregiudizio, infatti, implica non già la necessità che la
richiesta di tutela debba essere immediata rispetto al fatto ritenuto lesivo,
bensì che l’evento dannoso paventato debba incombere con vicina
probabilità. Se, pertanto, nel caso in cui la condotta lesiva denunciata sia il
demansionamento, appare verosimile che un danno di carattere meramente
Il testo integrale della ordinanza citata è riportato in questa rivista, sezione Giurisprudenza,
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morale o comunque non patrimoniale – quale il c.d. attentato alla
professionalità – non possa che cominciarsi a manifestare nell’immediatezza
dell’allontanamento dal posto di lavoro, appare altrettanto verosimile che il
danno alla salute possa invece insorgere anche successivamente, – e cioè al
momento dell’esaurimento nel lavoratore del livello di tollerabilità
psicofisica della lamentata condotta datoriale mobbizzante e della
conseguente insorgenza di una vera e propria patologia.
Tornando ora ad esaminare più da vicino i problemi affrontati dalla
Commissione, i punti salienti possono essere sintetizzati come segue.
1. Già si è detto della varietà e molteplicità delle condotte che in astratto
possono integrare la condotta mobbizzante, soprattutto tenendo conto che
spesso si tratta di atti o omissioni che per se stessi possono non avere alcun
disvalore giuridico.
Per cercare di fornire una definizione il più ampia possibile, che non
restringesse l’area della tutela ai soli casi di persecuzione finalizzata
all’espulsione del lavoratore, la Commissione, all’esito anche di accesi
dibattiti interni, ha ritenuto di non introdurre, quale elemento psicologico
essenziale della fattispecie, il dolo. Il mobbing, infatti, può, di fatto, avere le
più svariate motivazioni (dalla vera e propria intenzione espulsiva, al
semplice gusto di prendere in giro un soggetto più debole) e può, inoltre,
essere posto in essere anche al di fuori della volontà e della consapevolezza
del datore di lavoro (si pensi ai casi di mobbing orizzontale collettivo), il
quale però deve vigilare anche sul comportamento dei propri dipendenti (e
ne è anche oggettivamente responsabile ai sensi dell’art. 2049 c.c.). Quello
che ad avviso della Commissione occorre, in sostanza, è che il
comportamento sia oggettivamente idoneo a ledere l’integrità psicofisica del
lavoratore, indipendentemente dall’enucleazione di specifiche finalità
persecutorie. Ovviamente, della sussistenza in concreto del dolo non potrà
che tenersene conto in relazione alla graduazione della responsabilità e,
quindi, in sede di quantificazione dell’eventuale risarcimento.
Quanto all’elemento temporale, premesso che il mobbing è per definizione
un fenomeno necessariamente caratterizzato dalla continuatività o
reiterazione della condotta vessatoria, la Commissione ha ritenuto che
introdurre una definizione precisa dell’arco minimo di tempo oltre il quale
un’attività persecutoria possa integrare la fattispecie di mobbing avrebbe
comportato un ingiustificato limite alla tutela, oltre che enormi difficoltà
oggettive in ordine all’individuazione del preciso momento temporale in cui
debba considerarsi iniziata la condotta mobbizzante. Attraverso
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l’utilizzazione dell’espressione “atti, atteggiamenti o comportamenti di
violenza morale o psichica in occasione di lavoro, ripetuti nel tempo in modo
sistematico o abituale” la Commissione ha invece voluto non solo porre
l’accento sulla necessità della reiterazione dei comportamenti, ma anche
sulla loro sistematicità, cioè il divenire la condotta lesiva una condizione per
così dire “normale” dell’ambiente lavorativo in cui si svolge la prestazione,
indipendentemente dal concreto lasso di tempo intercorso.
Infine, la Commissione ha affrontato il problema relativo al pregiudizio
quale elemento essenziale della fattispecie oggettiva del mobbing. In
particolare ci si è chiesti se per aversi mobbing occorresse per forza la
produzione di un pregiudizio alla salute, e, cioè, quella figura di patologia
medica che è lo stress da mobbing. A tale domanda la Commissione ha dato
una risposta negativa, ritenendo sufficiente una lesione della dignità
personale del lavoratore e della professionalità. Infatti, la proposta dice: “…a
compromettere la salute o la professionalità o la dignità del lavoratore”.
Ovviamente, come si vedrà, tale opzione non potrà che avere ripercussioni
anche sul versante risarcitorio: se si ammette il mobbing non solo come
pregiudizio alla salute, ma anche come pregiudizio professionale ed alla
personalità deve necessariamente introdursi un sistema di risarcimento che
vada oltre il danno biologico in senso stretto e si estenda al c.d. danno
esistenziale.
2. La proposta di legge si muove sulla falsa riga del d.lgs. n. 626/94,
utilizzandone gli strumenti essenziali (valutazione dei rischi, individuazione
dei soggetti responsabili, ruolo del medico competente, rappresentante per la
sicurezza) per garantire la sicurezza, la prevenzione e la formazione sul luogo
di lavoro, in quanto trattasi di schema già collaudato e conosciuto dai datori
di lavoro.
Ed infatti, essendo il d.lgs. n. 626/94 mirato a reprimere e prevenire
condizioni lavorative potenzialmente pericolose da un punto di vista
essenzialmente oggettivo (impianti, apparecchiature, ambiente di lavoro,
ecc…), lo stesso non avrebbe potuto essere applicato tout court al caso di
violenza morale e psichica in occasione di lavoro, vertendosi, come si è visto,
in ipotesi in cui le condotte lesive possono essere le più svariate – attive ma
anche omissive – e da sole anche legittime.
La Commissione quindi ha ritenuto utile fare riferimento a figure già
ampiamente collaudate nell’ambiente di lavoro, quali il medico competente,
il rappresentante dei lavoratori, ecc.; di strategica importanza potrebbe
rivelarsi il medico competente che, una volta ampliate la sue competenze
DOTTRINA
anche in tema di rilevazione di situazioni patologiche dovute a violenza
morale o psichica sul luogo di lavoro, potrebbe essere in grado di segnalare
ante tempus una situazione di particolare stress o disagio di un lavoratore e
quindi richiedere gli accertamenti specialistici ai sensi dell’art. 17, 2 comma,
d.lgs. 626/94; il compimento di una prima attività di screening tra situazioni
di vero e proprio mobbing e le situazioni di mero conflitto sul luogo di lavoro
(caratterizzato dalla reciprocità degli attacchi laddove invece il mobbizzato è
veramente solo vittima della situazione lavorativa) potrebbe, infine, non solo
limitare al massimo i danni da mobbing, ma anche fungere da filtro deflativo
al successivo eventuale contenzioso.
3. La Commissione, preso atto dell’attuale situazione di grande incertezza
in tema di criteri diagnostici – come si è sopra visto sicura fonte di equivoci
in ordine alla tutela accordabile – ha tentato di dettare alcuni basilari
principi, nell’ambito delle competenze legislative ridisegnate dal nuovo art.
117 Cost., al fine di garantire quanto più possibile al lavoratore soggetto a
mobbing una uniformità di trattamento sotto il profilo diagnostico e
terapeutico. In particolare, tenuto conto delle competenze regionali
riguardanti l’assistenza e la prevenzione in materia di salute e, quindi, la
diagnosi e la terapia dei disturbi correlati a violenza morale o psichica in
occasione di lavoro, si propone l’istituzione di appositi Centri Pubblici
(regionali specializzati o di Diritto Pubblico specializzati, Università etc.) al
fine di certificare la diagnosi (che può essere di: sindrome correlata,
sindrome non correlata o sindrome allo stato non sufficientemente
correlabile) ed impostare tutti quei provvedimenti terapeutici necessari per
la remissione della patologia.
La proposta, inoltre, prevede che tali Centri – che possono essere o
appositamente costituiti, ovvero possono essere già esistenti in varie forme
ed utilizzati all’uopo, in base alle determinazioni delle singole Regioni –
siano tra loro interconnessi a livello nazionale (anche al fine di evitare
“pellegrinaggi” dei lavoratori da una Regione all’altra e la conseguente
ripetizione delle attività testologiche che per definizione non possono essere
ripetute prima di un tempo minimo) e che operino utilizzando spazi e
personale specialisticamente formato ed esclusivamente dedicato; in
particolare la Commissione, al fine di garantire la qualità e l’uniformità delle
prestazioni dei centri, ha ritenuto necessario indicare le figure professionali
che necessariamente devono partecipare all’attività diagnostica, che non può
non essere frutto di una attività pluridisciplinare, rappresentata dal medico
legale, medico del lavoro, psichiatra o psichiatra forense, psicologo clinico o
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DOTTRINA
del lavoro. Viene, quindi, lasciata all’organizzazione interna dei Centri la
possibilità di utilizzare tutte le specialità mediche, con il modello della
consulenza, ma non della formulazione e formalizzazione della diagnosi
finale.
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4. Dopo una affermazione di principio in ordine alla nullità di tutti gli atti
riconducibili a violenza morale o psichica in occasione di lavoro, la
Commissione ha ritenuto di optare per l’introduzione di uno specifico
strumento di tutela in via d’urgenza al lavoratore che abbia subito un vero e
proprio mobbing, al fine di assicurare al lavoratore una tutela più immediata
ed efficace rispetto a quella ordinaria (anche in via d’urgenza), nei casi in cui
già sia intervenuto da parte dei Centri all’uopo deputati (come si è sopra
visto) un accertamento preliminare circa la sussistenza di un pregiudizio alla
salute del lavoratore e circa la correlabilità delle condizioni di salute alla
situazione lavorativa, in base a precisi e predeterminati parametri
diagnostici.
In questi casi, il lavoratore potrà ottenere dal giudice adito competente,
qualora ovviamente il giudice ravvisi la verosimiglianza del comportamento
datoriale denunciato e del pregiudizio lamentato, in termini ristrettissimi, un
decreto immediatamente esecutivo che, se non opposto (secondo il
meccanismo già collaudato con l’art. 28 della legge 20 maggio 1970 n. 300 in
tema di condotta antisindacale del datore di lavoro), diventerà definitivo
senza bisogno di successivi accertamenti giudiziali a cognizione piena, come
invece avviene in caso di tutela cautelare ai sensi dell’art. 700 c.p.c.
Ovviamente in tutti gli altri casi (in cui il lavoratore non si fosse rivolto ad
uno dei Centri di cui sopra o l’accertamento compiuto dal Centro non si fosse
concluso con una diagnosi di sindrome correlata) la tutela invocabile dal
lavoratore sarà sempre quella ordinaria (art. 700 c.p.c. e artt. 413 e ss. c.p.c.).
Sul punto si rinvia alla dettagliata relazione esplicativa allegata al testo
della proposta di legge.
Peraltro, mi sembra necessario soffermarsi brevemente in ordine alle
problematiche sulla legittimazione attiva e passiva in tale procedimento
speciale
Quanto alla legittimazione attiva, la Commissione non ha ritenuto di
estendere la legittimazione ad altri soggetti (rappresentante per la sicurezza o
organizzazioni sindacali) oltre che al lavoratore, stante la delicatezza della
materia, che coinvolge aspetti della personalità insuscettibili di valutazione
da parte di estranei.
Quanto alla legittimazione passiva, trattandosi di procedimento speciale
DOTTRINA
finalizzato ad una tutela immediata di situazioni pregiudizievoli, anche
rispetto alla salute del lavoratore, si è ritenuto, in ossequio all’impianto della
proposta di legge (che detta precisi obblighi in capo al datore di lavoro), di
limitarla al solo “datore di lavoro”. Per la concreta individuazione del
soggetto qualificabile come “datore di lavoro” ai fini che qui interessano,
occorre rifarsi alla definizione contenuta nel d.lgs. n. 626/94, in virtù
dell’esplicito rinvio contenuto nel comma 3 dell’art. 1 della presente bozza
di legge. Pertanto, alla stregua della definizione contenuta nell’art. 2, lett. B)
del d.lgs. n. 626/94, per “datore di lavoro” deve intendersi “il soggetto
titolare del rapporto di lavoro o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e
l’organizzazione dell’impresa, ha la responsabilità dell’impresa stessa ovvero
dell’unità produttiva, quale definita ai sensi della lettera i), in quanto titolare
di poteri decisionali e di spesa. Nelle pubbliche amministrazioni di cui
all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, per datore
di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero
il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui
quest’ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale”.
Tale disposizione legislativa, che individua nel dirigente (o nel funzionario
all’uopo preposto) il datore di lavoro per tutte le amministrazioni pubbliche
di cui all’art. 1, comma 2, T.U. n. 165/2001, sembra consentire il superameno
di ogni dubbio circa la insussistenza della legittimazione passiva in capo al
Ministro, anche in caso di rapporti di lavoro non privatizzati ai sensi dell’art.
3 T.U. n. 165/2001.
Quanto ai rapporti di lavoro pubblico soggetti alla c.d. privatizzazione,
valgono le nuove norme sulla legittimazione introdotte dall’art. 16, lettera f)
del T.U. 30 marzo 2001 n. 165, che attribuiscono al dirigente dell’ufficio
dirigenziale generale il potere di promuovere e resistere alle liti,
comportando il definitivo superamento del previgente regime di
legittimazione degli organi dello Stato, come delineato dall’art. 52 del T.U. 30
ottobre 1933 n. 1611, novellato dalla legge n. 260 del 1958.
Inoltre, essendo il presente procedimento speciale finalizzato alla inibitoria
dei comportamenti vessatori, è sembrato più efficace evocare in giudizio il
soggetto responsabile della organizzazione e della gestione dei rapporti di
lavoro, in quanto non solo ad esso è comunque riconducibile l’attività dei
propri dipendenti (che siano eventualmente gli esecutori materiali dei
comportamenti vessatori), ma anche perché il dirigente in questione è l’unico
soggetto titolare dei poteri necessari per poter attivare contromisure efficaci.
Non può, infine, non rilevarsi come il lavoratore sia comunque facilitato
nell’individuazione del soggetto da evocare in giudizio, soprattutto in quelle
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DOTTRINA
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situazioni di vessazioni collettive, purtroppo non infrequenti nelle situazioni
di c.d. mobbing.
Ovviamente tale limitazione della legittimazione passiva al solo datore di
lavoro è circoscritta al solo procedimento cautelare speciale in questione, ben
potendo il lavoratore evocare in giudizio gli esecutori materiali della
condotta persecutoria in una eventuale azione risarcitoria ordinaria.
Nelle ipotesi in cui la controversia attenga a rapporti di lavoro rimasti
sottoposti alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (ai sensi
dell’art. 63, comma 4 del T.U. n. 165/2001) si è invece previsto che un
procedimento analogo a quello di cui al primo comma possa essere instaurato
davanti al tribunale amministrativo regionale, riproponendo il medesimo
schema già utilizzato dal legislatore nella L. 146/90, che aveva inserito, così
codificando l’orientamento della giurisprudenza, due commi ulteriori all’art.
28 L. 300/70, nei quali si disciplinava il procedimento nei casi in cui il
comportamento antisindacale avesse anche leso il diritto di un dipendente
pubblico. Peraltro, essendo tali due commi stati abrogati (in virtù della
devoluzione al giudice ordinario delle controversie sul pubblico impiego)
dall’art. 4, L. 83/2000, si è posto il problema della sopravvivenza di tale
disciplina relativamente ai rapporti di lavoro non contrattualizzati, e quindi
rimasti sottoposti alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
A fronte di tali dubbi interpretativi, la Commissione ha ritenuto opportuno
reintrodurre espressamente nella norma che regola il procedimento speciale
in questione la possibilità, per il dipendente pubblico non privatizzato, di
proporre il ricorso d’urgenza avanti al tribunale amministrativo regionale, il
quale provvederà con procedura speciale analoga a quella seguita avanti al
giudice ordinario.
5. La Commissione, prevedendo che la liquidazione del danno debba
avvenire “ivi compresi il danno biologico e il danno esistenziale anche in
modo disgiunto” ha recepito le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza
e dalla dottrina in merito ai danni risarcibili ai lavoratori che abbiano subito
la lesione dei beni individuati dal combinato disposto di cui agli artt. 41, 2°
comma, Cost. e 2087 c.c. (salute, dignità, personalità morale).
Si osserva in particolare che viene recepita dalla proposta di legge l’idea del
danno esistenziale come categoria autonoma e distinta dal danno biologico,
inquadramento questo fatto proprio dalla Sezione Lavoro della Suprema
Corte (Cass., sez. lav., 3 luglio 2001, n. 9009) e da diversi giudici di merito
(cfr. ad esempio Trib. Pisa, sez. lav., 3 ottobre 2001; Trib. Forlì, sez. lav., 15
marzo 2001).
DOTTRINA
L’opportunità di una tale impostazione discende dall’esigenza di mantenere
disgiunte le due categorie di danno in questione, poiché, come anche rilevato
dalla Cassazione, esse si differenziano, oltre che per i rispettivi contenuti, in
relazione alla loro prova: da un lato per il danno biologico, come anche recita
l’art. 13 del decreto legislativo n. 38/2000, è necessaria la dimostrazione di
una lesione dell’integrità psicofisica suscettibile di valutazione medico legale;
dall’altro lato, il danno esistenziale, incardinandosi sulla lesione di beni quali
la personalità e la dignità del lavoratore non suscettibili di valutazione medico
legale, non richiede la prova di pregiudizi della salute, bensì la dimostrazione,
su un piano oggettivo, che la vittima abbia effettivamente sperimentato la
compromissione di detti beni attraverso la frustrazione della sua persona sul
luogo di lavoro.
Siffatta impostazione della norma non implica tuttavia che ogni evento che
rilevi ai fini della presente legge debba dare automaticamente luogo alla
liquidazione di due poste risarcitorie, né che si dia così luogo a indesiderabili
duplicazioni dei risarcimenti. Infatti la precisazione “anche disgiuntamente”,
unitamente al riferimento alla valutazione equitativa, è finalizzata proprio ad
evitare automatismi od inutili sovrapposizioni.
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Il mobbing e il sistema
organizzativo
di Luca Soda*
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Pensate a un uomo, per natura o sventura,
incline a una languida disperazione:
esiste un lavoro più adatto ad accentuarla
che maneggiare continuamente queste lettere morte
e metterle in ordine per darle alle fiamme?
Melville
Akakij Akaprokievic è un mobbizzato di lusso. Mobbizzato perché è un
impiegato zelante, ma con una personalità grigia, austera, mediocre che gli
cura la derisione e le angherie dei colleghi. Di lusso, perché è il protagonista
de Il cappotto il racconto originato dalla magistrale penna di Gogol che ne ha
fatto un mite eroe letterario. La vicenda di Bartleby lo scrivano, invece non
c’entra nulla col mobbing, e tuttavia suscita una suggestione di non
trascurabile rilevanza: il capolavoro di Melville ci ricorda che il luogo di
lavoro è un luogo emotivo, un’occasione di spendita dei tratti della propria
individualità anche se caratterizzata dagli imperscrutabili tratti della
complessità. Quel cortese “preferirei di no” ad un compito assegnatogli dal
capo rappresenta l’elogio alla relatività, alla molteplicità dei punti di vista, al
rispetto e alla rinuncia a voler capire sempre e comunque l’atteggiamento
degli altri, riducendolo a schemi intellettuali comunemente accettati ma non
necessariamente universali. Bartleby è colui che sceglie cosa fare secondo la
sua scala di valori: è proprio tale caratteristica, evidenziata da un’apparente
assurdità, a determinare la sua libertà, facendolo assurgere a prototipo
dell’uomo libero. Bartleby è la rappresentazione della sofferenza e della
liberazione dentro il quadro del lavoro, ma non di quello industriale dei
satanici opifici di Dickens, ma di quello delle carte e dei registri degli uffici,
*Ufficio Ruolo Unico, Dipartimento della Funzione Pubblica.
DOTTRINA
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sicuramente meno pesante per il fisico ma non per l’anima. Prima di lavorare
presso uno studio legale, dove si svolge la sua vicenda letteraria, Bartleby è
stato per anni un impiegato pubblico presso l’ufficio lettere smarrite di
Washington, poi licenziato a seguito di spoil system, dove catalogava e
ordinava le lettere non giunte al destinatario, destinate al rogo. Un lavoro
sulle “lettere morte” che (in questo modo Melville fa interrogare l’altro
protagonista del suo racconto), forse, ha cambiato profondamente il carattere
di Bartleby.
Bartleby lo scrivano appare come l’antesignano del moderno lavoratore dei
servizi e del terziario che, oltre a una sfera fisica ed intellettuale, coinvolge
la sfera emotiva nella produzione. È proprio la sfera emotiva che è interessata
dal mobbing, che poi produce effetti su quella fisica e psicologica. Non a caso
il concetto di mobbing evoca un’idea evoluta del luogo di lavoro, che non è
solo un luogo fisico ma soprattutto un luogo emotivo perché in esso si
concentrano umori, sensibilità, culture differenti. È spesso anche un luogo di
sofferenza, di disagio, di insoddisfazione, di conflitto, dove possono accadere
vicende simili a quelle di Bartleby lo scrivano: per queste ragioni i temi della
serenità psicologica e il benessere psicofisico dei luoghi di lavoro e gli aspetti
emotivi e motivazionali delle attività lavorative vengono sempre di più
considerati come strategici per l’organizzazione e la gestione delle risorse
umane. Da più parti è stato osservato come il mobbing produca una
molteplicità di effetti negativi. Innanzitutto, sulla salute del lavoratore, da
intendersi non solo come salute fisica. L’articolo 2087 del codice civile, al
quale si è quasi sempre ricorso a tutela e salvaguardia del lavoratore da tutte
quelle situazioni definibili come di mobbing, protegge infatti la sua
“personalità morale” oltre che la sua salute psico–fisica.
Il mobbing si riverbera, inoltre, sull’efficienza dell’amministrazione in
quanto genera una diminuzione della produttività nel lavoro e dunque viola
indirettamente il principio di buon andamento. Produce, inoltre, conflitto
organizzativo in quanto altera la serenità dell’ambiente di lavoro nel suo
complesso, produce effetti, cioè, anche sugli altri lavoratori. Genera, inoltre,
costi economici sul sistema sanitario legati alla cura degli effetti negativi
sulla salute del lavoratore mobbizzato e costi sociali relativi alla sfera privata
e familiare del lavoratore. È innegabilmente un fenomeno che lede principi
di rilevanza costituzionale: l’art. 2, dove si riconoscono e garantiscono i
diritti inviolabili dell’uomo, potendo il luogo di lavoro essere considerata
una delle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità; l’art. 3 che
sancisce il principio di uguaglianza e di pari dignità sociale; l’art. 4 che
prevede che ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie
DOTTRINA
possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al
progresso materiale o spirituale della società. Secondo l’impostazione
costituzionale, il lavoro si configura come un mezzo di svolgimento della
personalità di ciascun cittadino e, dunque, costituisce un vero e proprio
diritto soggettivo la pretesa del lavoratore di eseguire tranquillamente e
serenamente la prestazione lavorativa contrattualmente richiestagli.
Ma ciò che più preoccupa del fenomeno, non è solo l’effetto finale delle
pratiche di mobbing, ovvero, la sua manifestazione finale sul piano fisico e
psicologico del lavoratore, quanto piuttosto il meccanismo inquietante sulla
base del quale esso si sviluppa. Il problema è, infatti, la sottile, impalpabile
logica del mobbing che ne fa un fenomeno spesso e sinuoso, che si nasconde
tra le pieghe dei comportamenti rituali ma che come un torrente carsico resta
sotterraneo, lavora in silenzio, ed esplode improvvisamente con tutto il suo
carico di nichilismo distruttivo. È stato sottolineato che il fenomeno può
realizzarsi, infatti, attraverso atti che non sono necessariamente illegittimi,
ma lo diventano con la loro ripetitività e sistematicità, creando cioè quella
specie di trappola, di tela del ragno emotiva dalla quale risulta difficile
fuggire. Sulla base di queste premesse, il mobbing viene quindi classificato
come una fattispecie complessa a formazione progressiva, cioè composta da
una molteplicità di fatti logicamente e cronologicamente legati fra loro, tanto
che l’effetto-danno finale viene subordinato all’accadimento di tutti i fatti
previsti dalla fattispecie astratta.
La logica inquietante del mobbing è che colpisce la serenità del lavoratore,
non a caso la giurisprudenza ha considerato il danno derivante dalla lesione
alla personalità morale del lavoratore, come costruito dall’art. 2087 del c.c.,
come avente rilevanza autonoma rispetto al danno patrimoniale e al
cosiddetto danno biologico.
L’aspetto più interessante dell’antigiuridicità della condotta mobbizzante è
nel fatto che la molestia morale rileva in re ipsa, indipendentemente
dall’eventuale pregiudizio che possa altrimenti derivare per il lavoratore. Il
mobbing cioè può determinare una diversa lesione patrimoniale o alla vita di
relazione e così scemare la capacità reddituale o quella relazionale, ma può
anche esaurirsi in se stesso, provocando il solo disagio derivante dall’effetto
emotivo dell’ambiente di lavoro e dunque la compromissione oggettiva della
personalità del lavoratore, non a caso in materia di mobbing è stata ipotizzata
anche la fattispecie di quello che oggi la dottrina configura come danno
esistenziale. Ma una volta chiariti i margini dell’antigiuridicità del fenomeno
si apre un problema rilevante e cioè affrontare le possibili soluzioni di
coltura dei fenomeni mobbizzanti e prevenirli. Ancor più per le
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DOTTRINA
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amministrazioni pubbliche dove solo di recente si è osservato un interesse
per il fenomeno del mobbing anche a seguito delle recenti innovazioni che
hanno avvicinato il lavoro pubblico al lavoro privato dove, storicamente, il
fenomeno si è manifestato. Le stesse parti contrattuali che hanno sottoscritto
il CCNL personale Comparto Ministeri, quadriennio normativo 2002-2005 e
biennio economico 2002-2003, hanno preso atto “che nelle pubbliche
amministrazioni sta emergendo, sempre con maggiore frequenza, il fenomeno
del mobbing, inteso come forma di violenza morale o psichica in occasione
di lavoro – attuato dal datore di lavoro o da altri dipendenti – nei confronti
di un lavoratore” (art. 6).
Al di là dei casi strettamente connessi alle caratteristiche psicologiche
individuali legate al carattere dei lavoratori, a chi studia l’organizzazione
pubblica interessa l’analisi del sistema di funzionamento dei meccanismi
operativi della catena del comando e della decisione, dei rapporti con gli altri
lavoratori, del sistema organizzativo-funzionale. Cioè interessa chiedersi, al
di là degli aspetti meramente caratteriali degli individui, se e in quale punto
critico del sistema organizzativo possano svilupparsi più facilmente
situazioni in grado di generare mobbing. Al di là degli aspetti eminentemente
giuridici è infatti importante anche valutare se all’interno della
configurazione dei poteri di decisione e comando, nei meccanismi di
funzionamento dell’amministrazione, vi siano delle zone di criticità nei quali
possa svilupparsi il mobbing. Che il mobbing trovi spesso una sua origine in
situazioni connesse con il funzionamento del sistema organizzativo appare
pacifico, non a caso l’art. 6 del CCNL personale Comparto Ministeri,
quadriennio normativo 2002-2005 e biennio economico 2002-2003, ha
previsto che tra i compiti dei Comitati Paritetici sul fenomeno del mobbing,
da istituire presso ciascuna amministrazione, sia inclusa l’individuazione
delle possibili cause del fenomeno, con particolare riferimento “alla verifica
dell’esistenza di condizioni di lavoro o fattori organizzativi e gestionali che
possano determinare l’insorgere di situazioni persecutorie o di violenza
morale”.
Il fronte organizzativo e gestionale si candida, dunque, ad essere uno dei
terreni di osservazione privilegiata del fenomeno e dunque rappresenta uno
dei temi centrali nelle attività di monitoraggio e di studio del fenomeno.
In concreto i casi di mobbing orizzontale nelle amministrazioni pubbliche
appaiono prima facie ancora rari, ciò a causa di uno spirito molto
pronunciato di solidarietà tra dipendenti pubblici posti sullo stesso piano
gerarchico funzionale non intaccato da logiche competitive e premianti che
restano, a tutt’oggi, riservate all’area della dirigenza. La mancanza di
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meccanismi competitivi tra dipendenti delle aree azzera di fatto le possibili
frizioni e i conflitti organizzativi legati alla sfera dell’antagonismo tra
lavoratori che anzi si presentano come un blocco omogeneo alle funzioni
decisorie e gestorie della dirigenza. Appaiono invece più facilmente
concretizzabili i casi di mobbing verticale anche in ragione delle recenti
radicali innovazioni nelle logiche di funzionamento del sistema di decisione
e di comando che hanno coinvolto le amministrazioni e dell’introduzione di
logiche privatistiche nell’organizzazione e nel funzionamento delle
1
amministrazioni previste dal decreto legislativo n. 165 del 2001 . In
particolare, il mobbing verticale, cioè quello esercitabile nell’ambito del
rapporto di lavoro dipendente da chi si trova in una posizione di supremazia
gerarchica, può svilupparsi soprattutto in relazione alla nuova
configurazione delle funzioni e dei poteri della dirigenza pubblica. Essa,
infatti, svolge le sue attività in relazione ad obiettivi da raggiungere e di
conseguenza accentua le sue funzioni di autonomia nella gestione e
organizzazione del personale e di gestione dei rapporti di lavoro (art. 16,
comma 1, lettera h, del decreto legislativo n. 165 del 2001) rispetto alle quali
ha poteri e capacità simili a quelle del privato datore di lavoro (art. 5, comma
2, del decreto legislativo n. 165 del 2001). Sul punto però bisogna fare molta
attenzione: non si vuol sostenere che l’attuale configurazione dei poteri
dirigenziali è astrattamente in grado di determinare pratiche mobbizzanti, si
osserva, puramente e semplicemente, che tale sistema aumenta in modo
esponenziale l’idoneità a incidere con decisioni organizzative sulla sfera
individuale del lavoratore. Per questa ragione rappresenta un punto di
possibile criticità del sistema che merita attenzione. A ciò si aggiunge la fine
del mansionismo e delle rigidità strutturali ed organizzative delle
amministrazioni (che comportavano la conseguenza che il lavoratore venisse
preposto all’esercizio di specifiche mansioni difficilmente modificabili) e
l’attenuazione dei canoni della legalità nella gestione delle risorse a favore
del parametro del risultato, possono essere interpretati come cause strutturali
potenzialmente idonee a incrementare il mobbing. Su questo punto tuttavia
è necessario ribadire che non è ipotizzabile un rapporto diretto causa-effetto
tra l’introduzione di meccanismi di funzioni performance oriented e lo
sviluppo del mobbing nel lavoro pubblico. Anche nel sistema organizzativo
1
Sul punto è drastico Oricchio M., Il mobbing nel pubblico impiego, in Giust.It: "Dall'esame della
casistica fin qui emersa si può rilevare come nel publico impiego (privatizzato) la principale
causa di possibili atteggiamenti "mobbistici" è da ricercare nella testé richiamata deprecabile
tendenza legislativa in atto che ha affievolito il ruolo dei canoni della legittimità e della legalità
dell'agire amministrativo, sacrificandoli sull'"altare" di un malinteso efficientismo che certo non
è un principio antitetico ai primi (come testimonia l'art. 97 della Costituzione)".
71
DOTTRINA
72
burocratico-formale, fondato sulle norme, si sviluppano, come è stato
2
autorevolmente sostenuto, forme di autoritarismo . Quello che qui si vuole
sostenere è che occorre prestare attenzione sul modo in cui viene vissuta nel
sistema organizzativo pubblico, sia dal management che dai suoi
collaboratori, una trasformazione culturale che è destinata a mutare nel
profondo i meccanismi di funzionamento del sistema.
Un altro fronte interessante è quello relativo all’innovazione tecnologica.
Sono state proposte chiavi di lettura interessanti relativamente all’analisi del
fenomeno dal punto di vista delle sue correlazioni con la trasformazione
3
della prestazione lavorativa a seguito dell’introduzione di sistemi ICT .
Inoltre non può essere trascurato come fattore escludente il cultural gap di
cui soffre il lavoratore nei confronti delle innovazioni tecnologiche e
culturali in genere. Se è vero che in questi anni si sta riducendo il digital
divide all’interno del sistema pubblico, è tuttavia persistente il rischio che,
anche per ragioni differenti, un segmento di dipendenti resti escluso dal
processo di adeguamento dei processi lavorativi alla net culture e che tale
processo possa essere inevitabilmente destinato a produrre fenomeni di
marginalizzazione.
Il fronte delle flessibilità è un altro terreno “minato”. La flessibilità, termine
con il quale in genere si descrivono una gamma di istituti contrattuali che
riguardano le modalità della prestazione di lavoro diverse da quelle
tradizionali del lavoro a tempo pieno e indeterminato, è considerato uno dei
fattori strategici per la crescita e la modernizzazione del mercato del lavoro.
Nel sistema di regolamentazione dei rapporti di lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche sono, dunque, oramai presenti diverse forme
contrattuali flessibili come il lavoro interinale, i contratti formativi, i
contratti a termine, il lavoro a tempo parziale. Ad essa vengono ricondotti
effetti benefici sul costo del lavoro, sui programmi di sviluppo e di
riqualificazione della forza lavoro, sulla maggiore elasticità nell’offerta dei
servizi agli utenti e, conseguentemente, sulla qualità dell’organizzazione
amministrativa. Vi sono casi di denunce di esclusione e di marginalizzazione
Rugiadini A., Organizzazione aziendale, Milano.
Fagiani S., Il mobbing e l'information e comunication tecnology. "Essendo fuor di dubbio che le
nuove tecnologie hanno modificato profondamente il rapporto di lavoro, portando ad una
concentrazione della sfera professionale con la sfera personale di chi opera, costringendolo a
configurare la propria attività lavorativa come una obbligazione di risultato, sono divenute più
agevoli sia l'intrusione del superiore gerarchico nella sfera personale del lavoratore dipendente
con il pretesto del controllo dell'attività lavorativa, dei suoi contenuti, dei tempi impiegati, etc.,
sia la malevola intromissione, da parte dei suoi colleghi, nel lavoro del dipendente,
provocandogli preoccupazioni, stress e possibili lesioni alla sua integrità psicofisica". Sul punto
anche Gallitto B., Nuove prospettive di tutela. Riflessioni sul mobbing.
2
3
DOTTRINA
del lavoratore flessibile, per esempio, del lavoratore pubblico a tempo
determinato, rispetto al contesto in cui si trova a svolgere la sua prestazione
di lavoro, marginalizzazione che in questo caso può manifestarsi sia in senso
orizzontale che verticale. Questi, infatti, può essere considerato, sul fronte
dei rapporti orizzontali, un estraneo dalla struttura e dunque vivere in una
situazione di esclusione dalla comunità lavorativa; sul fronte del suo
rapporto con il sistema gerarchico, subire la pressione psicologica della
scadenza del contratto e, dunque, essere più vulnerabile ad abusi dei poteri
dirigenziali. Tuttavia anche in questo caso occorre la massima cautela per
evitare il rischio che si possa superficialmente dedurre una relazione di
causa effetto tra le forme di lavoro flessibili e le situazioni di mobbing.
Il tema della prevenzione del mobbing, dal punto di vista dell’analisi dei
punti di criticità del sistema organizzativo, meriterebbe un discorso più
ampio ed articolato. Accanto al fronte informativo sui luoghi di lavoro, ad
esempio, attraverso campagne di comunicazione, e a quello della formazione
sui temi dei risvolti emotivi connessi alla gestione delle risorse umane rivolto
alla dirigenza, sul terreno dell’organizzazione, ci sembra prioritaria la
trasformazione degli uffici del personale in uffici di gestione delle risorse
umane. Al di là del mero dato nominalistico, questa trasformazione reca con
sé il superamento della gestione giuridico-economica del personale verso la
gestione delle professionalità ed emotività. Il sistema organizzativo delle
amministrazioni pubbliche necessita di strutture che, se da un lato sono
finalizzate a sviluppare la crescita del potenziale innovativo dei dipendenti,
dall’altro siano in grado di agire sul luogo di lavoro come luogo di
esplicazione della personalità umana e dunque come luogo di realizzazione
e soddisfazione ma anche disagio e conflitto. Come infatti ci suggeriscono i
segnali che giungono dai settori più innovativi del sistema del lavoro privato,
per l’ottimale gestione delle professionalità sarà infatti sempre più strategico
il tema della serenità psicologica e il benessere psicofisico dei luoghi di
lavoro e gli aspetti emotivi e motivazionali delle attività lavorative.
73
DOTTRINA
Le esperienze regionali
di Caterina Cordella*
75
1. La modifica costituzionale operata dalla L. Cost. 3/2001 ha introdotto un
1
nuovo criterio di riparto delle competenze legislative fra Stato e Regioni .
Allo Stato non spetta più una generale potestà normativa, bensì un potere
legislativo esercibile in alcune materie tassativamente determinate e indicate
nell’art. 117, Cost., comma 2. In tutte le altre materie la competenza
legislativa delle Regioni è in concorrenza con il legislatore nazionale o è
esercitabile in via esclusiva.
Il nuovo art. 117 ha operato la seguente distinzione:
• potestà legislativa dello Stato, nelle materie espressamente indicate
opera una vera e propria preclusione per il legislatore regionale;
• potestà legislativa concorrente, si tratta di materie individuate nel
comma 3 e nelle quali vi è una suddivisione dei compiti tra lo Stato e le
Regioni: al primo spetta il compito di “determinare i principi
fondamentali” (leggi quadro o leggi cornice), mentre alle Regioni spetta
il compito di emanare la legislazione specifica di settore;
• potestà legislativa esclusiva delle Regioni, le materie che rientrano in
tale ambito non sono definite nel testo costituzionale, ma vanno ricavate
per esclusione sicché hanno un carattere indefinito.
All’ampliamento dell’autonomia legislativa regionale ha fatto seguito
anche la semplificazione dei sistemi di controllo che sono stati adeguati alla
nuova dignità costituzionale riconosciuta alle autonomie territoriali: il
controllo di conformità alla Costituzione, sia delle leggi regionali che delle
leggi statali, viene effettuato solo dopo che l’atto legislativo è entrato in
vigore ex art. 127 Cost.
Se si è certi che sull’effettiva portata della riforma sarà la giurisprudenza
*Segretario - Direttore Generale Enti locali, avvocato, esperta nella Gestione e Organizzazione
delle Risorse Umane.
1
L. Cost. 18 ottobre 2001, n.3.
DOTTRINA
76
della Corte Costituzionale a svolgere un ruolo importante, dal nuovo art. 117
Cost. emerge nitida la difficoltà di collocare la vasta materia della disciplina
del lavoro nell’ambito della tripartizione su delineata.
Non è di immediata comprensione come debba sul piano applicativo
ripartirsi tra Stato e Regioni la potestà normativa in materia.
Infatti, nel quadro costituzionale delineato, la materia del mobbing è solo
un aspetto della materia lavoristica. Tuttavia, l’apposita legge regionale del
Lazio e il ricorso per questione di legittimità costituzionale (per violazione
dell’art.117, comma secondo, lettera g), e 119, comma quarto) che l’ha
investita, inducono, prima di analizzare i contenuti della legge regionale e di
altre iniziative legislative proposte da altre regioni, a chiarire come si
configuri la potestà normativa in materia.
Che il fenomeno del mobbing, come “patologia sociale dilagante”, necessiti
di interventi normativi ad hoc tesi a prevenire e a combattere questa condotta
impropria che reca offesa alla personalità, alla dignità e all’integrità fisica o
psichica di una persona, appartiene al sentire comune come testimoniano i
numerosi disegni di legge in materia.
Analogamente, dopo la legge della Regione Lazio e il successivo ricorso alla
2
Corte Costituzionale è di cogente attualità la necessità individuare il
legislatore competente in materia.
3
Come è stato osservato , non è facile collocare nei “territori” indicati dal
nuovo art. 117 la vastissima materia della disciplina dei rapporti di lavoro in
generale; la norma, infatti, nella elencazione delle materie, utilizza termini
difficilmente traducibili in un linguaggio significativo per il giuslavorista:
“immigrazione”, “tutela della concorrenza”, “perequazione delle risorse
finanziarie”, “ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli
enti pubblici nazionali”; “giurisdizione e norme processuali”; “ordinamento
civile e penale”; “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili
e sociali”, “previdenza sociale”; “tutela e sicurezza del lavoro”; “istruzione e
formazione professionale”, etc. E sebbene l’art. 117, terzo comma, della
Costituzione demandi alla competenza concorrente Stato-Regioni la “tutela e
sicurezza del lavoro”, nonché la “previdenza complementare e integrativa” è
difficile ritenere che tali formule esauriscano l’intero ambito della competenza
legislativa in materia di “lavoro”, con la conseguenza che gli ambiti di
competenza esclusiva dello Stato necessitano di definizione.
Il ricorso per questione di legittimità costituzionale è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il
30-10-2002.
3
Zoppoli, La riforma del Titolo V della Costituzione e la regolazione del lavoro nelle pubbliche
amministrazioni: come ricomporre i “pezzi” di un difficile puzzle? In www.lavoro.unisannio.it
2
DOTTRINA
In merito, come peraltro sottolineato dalla sentenza n. 282/2002 della Corte
Costituzionale, corre l’obbligo “riempire di contenuto” le clausole generali e
le specifiche riserve di competenza legislativa esclusiva del legislatore statale
contenute nell’art. 117, secondo comma.
Per la materia del diritto del lavoro impongono una riflessione il
riferimento all’”ordinamento civile”; alle “determinazioni dei livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono
essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, contenute nell’articolo citato.
Se, dunque, la formula “tutela e sicurezza del lavoro”, come già osservato,
non può considerarsi esaustiva dell’intera materia giuslavoristica, con la
conseguente difficoltà di accedere alla tesi di una “regionalizzazione” della
regolazione dei rapporti di lavoro, non può peraltro non considerarsi la
4
copiosa giurisprudenza della Corte Costituzionale che ha sempre affermato
che l’ordinamento del diritto privato, ovvero la regolamentazione dei
rapporti interprivati deve essere disciplinata in via esclusiva dallo Stato
perché possa garantirsi un’effettiva uguaglianza formale tra i cittadini. Queste
considerazioni portano ad asserire il permanere di una competenza
legislativa esclusiva dello Stato per quanto concerne le linee ordinamentali
della disciplina dei rapporti di lavoro, quelli che possiamo definire gli aspetti
privatistici, in quanto parte della materia dell’ “ordinamento civile”. La
potestà legislativa concorrente delle regioni, invece, ed è questa la vera
novità della riforma del Titolo V della Costituzione, deve avere ad oggetto
quella che possiamo denominare la parte pubblicistica del diritto di lavoro:
il mercato del lavoro, il collocamento e i servizi per l’impiego, la previdenza
complementare e integrativa, l’igiene e la sicurezza del lavoro.
La competenza esclusiva delle regioni concernerebbe, de residuo,
l’istruzione e la formazione professionale e l’assistenza sociale.
Partendo dunque da tale sommaria ripartizione della potestà normativa
nella materia del diritto del lavoro, c’è da chiedersi: il mobbing attiene alla
disciplina dei rapporti di lavoro e quindi accede alla materia
dell’ordinamento civile, con la conseguente competenza legislativa esclusiva
dello Stato?
Oppure la tematica, poiché rientrante nella materia “dell’igiene e
sicurezza” rientra nella potestà normativa concorrente della Regione?
Per rispondere alla domanda è necessario riflettere sul mobbing per
inquadrare tale fenomeno sotto il profilo tecnico-giuridico, anche alla luce
Sul punto v. Corte Costituzionale sentenze n.154/1972, n. 691/1988, n. 35/1992, n. 307/1996,
n. 352/2001.
4
77
DOTTRINA
78
della recente giurisprudenza intervenuta in materia.
Il fenomeno del mobbing è complesso e può essere realizzato attraverso
svariate condotte vessatorie con effetti più o meno devastanti sull’equilibrio
psico-fisico del lavoratore; soffermiamoci, allora, sui diversi comportamenti
cui la giurisprudenza ha dato rilevanza giuridica nel senso di condurre ad
una affermazione di civile o penale responsabilità in mancanza di una
normativa specifica.
La giurisprudenza senza difficoltà ha prestato tutela giuridica per quei
comportamenti che possono essere ricondotti a norme giuridiche esistenti: si
pensi, ad esempio, alla dequalificazione professionale del lavoratore ex art.
2103 ovvero all’art. 594 c.p. per le ingiurie.
La questione è più problematica quando il mobbing si manifesta con
comportamenti atipici che non hanno alcuna regolamentazione giuridica
specifica; sono queste le ipotesi che necessitano di un intervento normativo.
Contro i comportamenti atipici, che nella loro reiterazione assurgono a
pratiche vessatorie del mobbing, in mancanza di una normativa ad hoc, la
giurisprudenza (ma anche la dottrina) hanno individuato quali forme di
5
6
tutela l’art. 2043 e l’art. 2087 c.c.
Il primo articolo ha introdotto nel nostro sistema il principio fondamentale
del neminem laedere che configurerebbe in capo al mobber una
responsabilità aquiliana o extracontrattuale con l’onere della prova in capo al
mobbizzato che, agendo giudizialmente ai fini del risarcimento del danno,
sarebbe tenuto a fornire la prova della condotta antigiuridica dell’agente, del
danno patito, del nesso di causalità tra danno e condotta, della
consapevolezza, sotto i profili del dolo o della colpa, del soggetto agente.
Il secondo contro le tutele vessatorie ha una importanza fondamentale
perché impone al datore di lavoro il divieto di compiere qualsiasi
comportamento lesivo dell’integrità fisica e della personalità morale del
dipendente, ma anche di prevenire e scoraggiare simili condotte nell’ambito
dello svolgimento dell’attività lavorativa. Dalla violazione di tale obbligo
scaturisce la responsabilità contrattuale del datore di lavoro. Sotto il profilo
probatorio, graverebbe in questo caso non già sulla vittima ma sul datore di
lavoro, ai fini della esclusione della responsabilità, la prova di aver adottato
tutte le cautele necessarie per tutelare l’integrità fisica e la personalità del
5
Art. 2043. Risarcimento per fatto illecito. Qualunque fatto doloso, o colposo, che cagiona ad altri
un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.
6
Art. 2087. Tutela delle condizioni di lavoro. L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio
dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono
necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori d’opera.
DOTTRINA
lavoratore. L’applicazione dell’art. 2087 c.c. ai casi di mobbing assicura così
una tutela forte alla vittima perché impone al datore di lavoro non soltanto
di astenersi da comportamenti vessatori e persecutori nei confronti dei
lavoratori, ma anche l’obbligo di vigilare che tali situazioni non si verifichino
per iniziativa di altri soggetti, dirigenti e colleghi, nei luoghi di lavoro
soggetti a controllo.
La ricostruzione giurisprudenziale del fenomeno induce a ritenere che una
tutela effettiva e concreta del fenomeno del mobbing debba necessariamente
passare per una qualificazione giuridica di quegli atti e comportamenti che
oggi solo lo sforzo interpretativo sistematico dei giudici consente di punire,
nonostante l’ampia letteratura medico-legale in materia sia giunta a
individuarli nell’ambito della strategia subdola posta in essere dal mobber
per annientare la vittima dalla organizzazione del lavoro, previa messa in
discussione dell’identità professionale, delle capacità professionali e
relazionali, della propria utilità sociale.
Un intervento legislativo in materia dovrebbe definire il fenomeno del
mobbing e individuare, in via esemplificativa, tutti quegli atti e
comportamenti che gli ampi studi in ambito medico condotti da sociologi e
psicologi del lavoro hanno individuato. In questo modo le critiche immotivate
e gli atteggiamenti ostili; la delegittimazione dell’immagine, anche di fronte ai
colleghi; l’impedimento sistematico ed immotivato all’accesso a notizie ed
informazioni inerenti l’ordinaria attività di lavoro dovrebbero, se sistematici
e duraturi, essere comportamenti espressamente puniti dal legislatore perché
rientranti nel mobbing. Così anche i mobbing-scettici si convincerebbero che
vi è nell’ambito del rapporto contrattuale di lavoro un valore che
l’ordinamento giuridico ha inteso tutelare: la dignità professionale.
Ma poiché il legislatore dovrebbe qualificare atti e comportamenti che
attengono il rapporto contrattuale di lavoro, materia attinente ai rapporti
civilistici e come tale, secondo quanto asserito precedentemente, rientrante
nell’ambito “dell’ordinamento civile”, “territorio” di competenza legislativa
esclusiva dello Stato ex art. 117 Cost., secondo comma, ne consegue che per
realizzare l’uguaglianza formale tra i lavoratori nel rapporto di lavoro, la
definizione di mobbing debba necessariamente rientrare nella potestà
normativa esclusiva dello Stato.
Logico corollario di tale impostazione è che in materia le Regioni avrebbero
solo una competenza concorrente per gli aspetti pubblicistici concernenti le
misure relative alla materia dell’igiene e della sicurezza per la quale
comunque resta ferma la necessità che lo Stato detti i principi fondamentali
in materia.
79
DOTTRINA
80
2. La L.R. Lazio 11-07-2002 n. 16 “Disposizioni per prevenire e contrastare
il fenomeno del mobbing nei luoghi di lavoro”, come già accennato, è stato il
primo intervento normativo in Italia in materia. Contro tale legge, animata
dalle migliori intenzioni, ideata per combattere il mobbing nelle aziende
pubbliche e private nelle more - sottolinea l’art.1 - dell’emanazione di una
disciplina organica dello Stato in materia, è stato prontamente promosso
dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri un contenzioso costituzionale.
Per supportare il ricorso costituzionale, l’Avvocatura di Stato,
correttamente, sottolinea che laddove nell’art. 2 della legge si cerca di
descrivere e qualificare alcuni atti e comportamenti posti in essere nei
confronti di (singoli) lavoratori dipendenti, pubblici e privati, da parte del
datore o da soggetti posti in posizione sovraordinata ovvero da altri colleghi
(non sovraordinati), questi, qualificati illeciti e da contrastare, incidono sulla
disciplina civilistica dei rapporti di lavoro subordinato regolati dal diritto
privato (sia il datore di lavoro un privato o una pubblica amministrazione) e
persino sulla disciplina pubblicistica dei (residui) rapporti di pubblico
impiego statale. Tali atti e comportamenti, che nel ricorso si afferma essere
“di difficile descrizione e delimitazione in astratto e di ancor più difficile
individuazione nel concreto” (interpretazione dalla quale si dissente
7
totalmente in considerazione della legislazione dei Paesi europei in materia
e di quanto elaborato dalla specifica letteratura), poiché attengono alla
materia dell’”ordinamento civile” secondo l’art. 117 Cost. secondo comma
lettera l) possono essere qualificati e individuati solo nell’ambito della
legislazione esclusiva dello Stato.
Inoltre, per il caso che il datore di lavoro sia una amministrazione statale,
il permanere di una legislazione esclusiva dello Stato si evince dal tenore
dell’art. 117 secondo comma lettera g) “ordinamento e organizzazione
amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali”.
Non solo, ma, dice l’Avvocatura, la legge dichiaratamente coinvolge anche
le materie della “tutela della salute” e della “tutela e sicurezza del lavoro” le
quali sono attribuite ex art. 117, terzo comma Cost. alla competenza
legislativa concorrente di Stato e Regioni.
Lo Stato, dunque, nella materia de qua deve fissare i principi fondamentali.
A tale riguardo, se stupisce che la Regione Lazio, nonostante il
riconoscimento nella stessa legge che spetti allo Stato definire ai fini
civilistici il mobbing e indicare i principi in tema di tutela della salute e del
7
Sulla legislazione europea in materia si rinvia alla tesi di specializzazione di Luisa Lerda
“Orientamenti di diritto europeo in tema di mobbing” pubblicata sul sito www.mobbingonline.it.
DOTTRINA
lavoro, abbia comunque legiferato, realizzando un intervento
sostanzialmente sostitutivo o anticipatorio del legislatore statale non previsto
dalla Costituzione, al contempo non è del tutto condivisibile quel passaggio
nel ricorso laddove in qualche modo si giustificano i tempi lunghi di
riflessione del Parlamento nazionale in materia con la “difficoltà di
disciplinare una molteplicità variegata di comportamenti umani di sovente
sfuggevole essenza e l’impatto sui rapporti interpersonali anche
extragiuridici”.
Sul punto, il legislatore regionale del Lazio, a differenza del Parlamento
nazionale, ha messo a punto una legge che, anche se “viziata” sotto il profilo
della potestà normativa, si dimostra innovativa giacché capace di recepire e
difendere le istanze di quei lavoratori, privati e pubblici, che nell’attuale
organizzazione del lavoro sempre più flessibile chiedono una legislazione
specifica contro la violenza psicologica in virtù del diritto di rimanere in uno
stato di benessere mentale nel proprio ambiente di lavoro.
La legge, inoltre, oltre ad uno sforzo definitorio nella individuazione degli
atti e comportamenti che realizzano il mobbing quale vera e propria forma di
persecuzione psicologica o di violenza morale, appare innovativa anche
laddove prevede disposizioni organizzative e strumentali come l’istituzione
di centri anti mobbing dislocati sul territorio promossi dalle ASL, il rinvio
alle iniziative specifiche degli enti locali e la nascita di un osservatorio
regionale sul mobbing.
Pertanto, al di là dei paventati conflitti di competenza, su cui è chiamata a
decidere la Corte Costituzionale, si auspica che la “solerzia” della Regione
Lazio induca lo Stato non solo a rivendicare la propria potestà normativa
esclusiva e concorrente ma a dimostrare tanto zelo anche nell’esercitarla. Le
8
numerose iniziative legislative fanno ben sperare .
3. In attesa di una legge statale che disciplini e qualifichi gli atti e i
comportamenti che costituiscono mobbing e i principi fondamentali
concernenti gli aspetti pubblicistici del fenomeno ovvero quelli attinenti
l’igiene e la sicurezza, alcune regioni hanno messo a punto disegni di legge
pronti a trasformarsi in legge, i cui iter legislativi però hanno segnato una
battuta d’arresto in considerazione della mannaia del ricorso costituzionale
che ha investito la legge della Regione Lazio. L’attivismo delle Regioni dà
comunque la misura di quanto alto sia l’interesse in materia.
Una disamina delle iniziative legislative più significative offre spunti di
V., al riguardo, il sito web www.pegacity.it/justice/impegno/link3.html.
8
81
DOTTRINA
82
riflessioni suggestivi sia sotto il profilo definitorio, sia sul piano della tutela.
Si segnala il progetto di legge n. 221 della Regione Veneto, il quale, dopo
aver segnalato che il mobbing è la causa del 15% dei suicidi nel nostro Paese
e che esso costituisce una condotta impropria che reca offesa alla personalità,
alla dignità e alla integrità psichica di una persona, con un approccio
pragmatico al problema, evidenzia, nella relazione di accompagnamento,
come esistano costi sociali e sanitari assolutamente considerevoli
conseguenze di azioni di mobbing.
Tali conseguenze, si aggiunge, ricadono sulla famiglia, sui suoi equilibri,
sull’azienda, sugli istituti di previdenza e sul sistema sanitario. Movendo
dalla considerazione che il Veneto è la seconda regione italiana per
produttività, ma anche quella con il più pesante disavanzo dei costi sanitari,
si ritiene che con una legge di tutela e prevenzione dei casi di effettivo
mobbing si possano quantificare i costi che questi generano nel corso della
loro evoluzione cosicché siano imputabili a chi li ha causati. L’obiettivo è un
recupero in attivo delle spese sanitarie. Nel progetto di legge vi è inoltre
l’equiparazione del mobbing ad una malattia professionale, correlata al
9
lavoro, malattia psicologica che da indagini europee risulta avere riflessi
eclatanti sul prodotto interno lordo. Sul versante della tutela il progetto di
legge si pone quale supporto e integrazione a quanto già contenuto nell’art.
2087 del c.c. e negli art. 437, 451, 582, 590, 660 del c.p., nonché nella L.
300/1970 e nel d.lgs. 626/94; inoltre, per il raggiungimento di una comune
cultura della prevenzione, si propone una fattiva collaborazione tra tutte le
parti coinvolte: aziende sanitarie locali, organizzazioni sindacali,
associazioni dei datori di lavoro, ispettorati di previdenza, associazioni dei
datori di lavoro e soprattutto i medici di base i primi, di solito investiti del
problema dei mobbizzati. Per il progetto di legge in esame, il datore di
lavoro ha poi l’obbligo di emanare un codice interno di corretto
comportamento che deve contenere il divieto di porre in essere atti e
comportamenti che, espressamente enucleati costituiscono il mobbing. La
violazione di tali obblighi determina l’applicazione di sanzioni
amministrative; questa rappresenta l’innovazione più significativa rispetto
agli strumenti per legge finora disponibili, in quanto introduce una
9
In Germania un lavoratore mobbizzato costa all’azienda 150 milioni di euro all’anno per perdite
dovute all’assenza o al minor rendimento. Il 50% dei lavoratori colpiti è in malattia 6 settimane
l’anno, il 31% è in malattia dal mese e mezzo a oltre tre mesi. L’assenteismo generale sale dal
23% al 34%. I riflessi sul prodotto interno lordo sono eclatanti: la municipalità di Ginevra ha
calcolato che per molestie morali le aziende pubbliche e private perdono 2.400 miliardi di euro
all’anno. In Inghilterra si perdono 80 milioni di giorni lavorativi e 6.000 miliardi di euro. Per
l’Italia si può considerare per difetto una perdita di 1.000 miliardi di euro all’anno.
DOTTRINA
fattispecie d’evento sin qui non tipizzata.
Sempre con l’intento di prevenire più che curare le vittime del mobbing,
interessante appare anche il disegno di legge n. 98 della Regione Sardegna
che per far fronte a questa nuova forma di “disagio sociale” intende affrontare
la tematica del mobbing con un approccio non solo giuslavoristico, tendente
essenzialmente a far emergere il danno biologico e a delineare il conseguente
aspetto sanzionatorio o risarcitorio. Nel disegno di legge si parla di “azioni
positive” perché le norme per non essere vane hanno bisogno di iniziative
specifiche attive.
Le azioni positive previste in favore dei lavoratori mobbizzati e delle loro
famiglie consistono nella:
• osservazione sistematica del fenomeno mobbing e delle sue
caratteristiche con la previsione di una sezione dell’osservatorio sul
mercato del lavoro;
• prevenzione, cura, riabilitazione psicofisica, sociale e professionale
delle vittime del mobbing attraverso specifiche terapie psicologiche;
• consulenza formativa, comportamentale e legale rivolta ai lavoratori con
incarichi decisionali e ai formatori all’interno delle aziende e degli enti
pubblici;
• attivazione di centri d’ascolto promossi dagli enti locali e dalle
associazioni non profit, per garantire alle vittime consulenza, assistenza
legale e psicologica.
In questo disegno di legge, la Sardegna punta su azioni positive per creare
la cultura del rispetto della dignità del lavoratore in una organizzazione del
lavoro sempre più spietata che addirittura in alcuni contesati lavorativi
sembra guardare con favore a quegli individui che per realizzarsi hanno
bisogno di umiliare gli altri o che per esistere hanno bisogno di distruggere
una persona, o semplicemente, fatto un elementare calcolo economico,
constatano che sia meno costoso eliminare un collaboratore, mobbizzandolo.
Sulla scorta di quanto la Corte Costituzionale deciderà sul riparto della
potestà normativa in materia, sarà importante seguire l’evoluzione normativa
in materia, anche perché si è sempre più persuasi del fatto che nessun
lavoratore può ritenersi estraneo al problema e, dunque, al riparo dal rischio
10
di un coivolgimento, diretto e personale, in un caso di mobbing.
Siti tematici di interesse: www.mobbingonline.it; www.antimobbing.it; www.unicam.it;
www.mobbing-web.de/; www.lejman.se; www.pegacity.it/justice/impegno/link3.html.
10
83
DOTTRINA
Le prime norme scritte sul mobbing
nelle leggi regionali e nei contratti
collettivi
di Gianpiero Profeta*
85
La Regione Lazio, il CCNL dei dipendenti dello Stato ed alcuni contratti
1
decentrati fanno da apripista nella previsione normativa sul mobbing.
Con la legge n. 16 del 11 luglio 2002 della Regione Lazio si affronta per la
prima volta ufficialmente il tema del “mobbing” introducendo, nell’ampio
dibattito in corso intorno a questo fenomeno, una definizione giuridica.
Il tentativo operato dalla Regione Lazio ha, però, incontrato la
disapprovazione del governo che ha proposto ricorso alla Corte
Costituzionale per illegittimità costituzionale della legge (violerebbe l’art.
2
117 per più motivi) .
3
Di questo argomento si occupa, in questo volume, altro contributo . Qui
esamineremo la normativa introdotta dalla legge senza tener conto degli
eventuali profili di illegittimità costituzionale, considerando il
provvedimento avulso da tale problema.
Lo scopo principale che si propone la legge regionale è quello di
individuare misure per prevenire e contrastare il fenomeno mobbing di cui
tanto si discute e nel cui nome, molto spesso, si tende a dare voce
indiscriminata a tutte le “sofferenze” causate al lavoratore dallo svolgimento
del rapporto di lavoro, siano esse provocate da comportamenti legittimi o
illegittimi quanto da situazioni di disagio soggettivo o da meri conflitti
personali tra colleghi di lavoro.
Per prima cosa il legislatore regionale si è cimentato nel tentativo di dare
una definizione del fenomeno.
L’art. 2, infatti, circoscrive il fenomeno mobbing a quegli “atti e
*Avvocato esperto in diritto del lavoro.
1
Regione Abruzzo, Comuni di Atri, Mosciano, Castellalto, Silvi e Isola.
2
Il testo è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 1° Serie Speciale n. 43 del 30/10/2002.
3
Confronta l’articolo di Caterina Cordella, pag. 75.
DOTTRINA
86
comportamenti discriminatori e vessatori protratti nel tempo che si
caratterizzano come una vera e propria forma di persecuzione psicologica o
di violenza morale”.
Pur apprezzando lo sforzo il risultato non può essere condiviso.
La definizione è limitativa perché è oramai dato acclarato, in dottrina e
giurisprudenza, altresì confermato dalla letteratura scientifica, che il
mobbing non si sostanzia necessariamente in comportamenti che
singolarmente considerati siano discriminatori o vessatori. L’azione del
mobber (o dei mobber in caso di mobbing orizzontale), infatti, si può
concretizzare anche attraverso comportamenti che appartengono ai normali
canali di comunicazione interpersonale ed a consueti atti di gestione del
rapporto che, di per sé, non sono né discriminatori né vessatori. Il mobbing
può riscontrarsi anche quando gli atti posti in essere dal mobber sono,
singolarmente analizzati, legittimi. Possono essere parte dello stesso processo
persecutorio sia atti legittimi che illegittimi.
Di norma solo se queste azioni vengono compiute di proposito,
frequentemente e per un lungo periodo di tempo (Leymann individua questo
lasso di tempo in sei mesi) si possono definire mobbing. La persecuzione,
come emerge dalla casistica elaborata, si può attuare ad esempio attraverso
l’invio ripetuto di visite di controllo domiciliare, attraverso l’assegnazione di
un carico di lavoro che il mobber sa comportare difficoltà per il mobbizzato,
attraverso la non assegnazione di un carico di lavoro, attraverso
l’apprezzamento negativo di un lavoro svolto, attraverso la simulazione di
errori nello svolgimento del lavoro o l’attribuzione di una postazione di
lavoro disagiata.
In questi casi il mobbing è ravvisabile nella sommatoria di questi ed altri
comportamenti che, insieme, procurano al mobbizzato la molestia psichica
e/o morale.
In virtù di quanto sin ora affermato non può condividersi la scelta operata
dal legislatore regionale nel secondo comma dell’art. 2, laddove elenca una
serie di fattispecie in cui “possono consistere” gli atti e i comportamenti
discriminatori e vessatori cui ha fatto riferimento nel dettare la definizione
del fenomeno.
Non è questa la strada giusta per individuare e quindi contrastare il
mobbing. Una elencazione di comportamenti può solo ingenerare confusione
e false aspettative sia in chi tali atti subisce sia in chi è chiamato ad
individuare in concreto l’esistenza del mobbing. I comportamenti elencati
sono tutti comportamenti illegittimi anche se considerati singolarmente e
possono quindi essere autonomamente contrastati indipendentemente
DOTTRINA
dall’accertamento del mobbing. Il nodo che la norma non scioglie e che, ad
avviso di chi scrive, non può essere risolto con la individuazione di una
situazione concreta, è quello di chiarire quando e in che combinazione tali
eventi possono costituire mobbing.
Ha giustamente affermato H. Ege che: “Il mobbing può conoscersi solo
attraverso un’analisi interdisciplinare dei fatti concreti che lo determinano.”
In altre parole non può erigersi a principio che il lavoratore, ingiustamente
trasferito, demansionato e marginalizzato, sia necessariamente colpito da
mobbing né, al contrario, che anche un solo atto come ad esempio
l’assegnazione di un obiettivo impossibile da conseguire possa scatenare una
catena di conseguenze che si concretizzano in vero e proprio mobbing.
4
Lo stesso H. Ege sul punto sostiene la teoria del c.d. “sasso nello stagno”
cioè del comportamento singolo che scatena una serie di conseguenze
negative per il personaggio che ne è colpito. In questi casi secondo l’autore
può parlarsi a tutti gli effetti di mobbing “…di una particolare strategia
mobbizzante che non segue una parabola in crescendo, bensì implica
un’unica grave azione che si esplica in modo simile a un sasso gettato in uno
stagno: originando, cioè, una serie di cerchi concentrici anche dopo che il
primo di essi è ormai scomparso sott’acqua”.
Nella valutazione saranno rilevanti la posizione del mobbizzato
nell’organizzazione aziendale, l’entità e la riconoscibilità del provvedimento
(ad esempio nel caso di demansionamento) come il significato che in quel
particolare tipo di azienda quel provvedimento può significare (si pensi al
caso di un direttore di filiale di banca trasferito presso l’ufficio
provveditorato in posizione subalterna ad un pari grado, l’intera platea dei
colleghi interpreterà il provvedimento come punizione per chissà quale
nefandezza egli abbia commesso).
Più ci si spinge avanti a considerare casi ed ipotesi, più ci si convince della
complessità del fenomeno e della parzialità dei tentativi di irreggimentarlo in
una definizione chiusa.
Da più parti, operatori del diritto, della sociologia e della psicologia, hanno
sapientemente evidenziato che il mobbing rappresenta un concetto
“contenitore” una categoria “aperta” una “cornice giuridica” che deve essere
riempita con lo sfruttamento simultaneo e sinergico delle esperienze
maturate da tutte le discipline scientifiche.
La corretta individuazione del fenomeno e, quindi, una efficace opera di
prevenzione e contrasto necessita, pertanto, di un confronto tra
Harald Ege, La valutazione peritale del danno da mobbing, pag. 54, Giuffrè Editore.
4
87
DOTTRINA
88
professionalità diverse che impedisca di cadere nell’equivoco “tutto è
mobbing – niente è mobbing”.
È giusto ribadire che i comportamenti esemplificati nel 2 comma dell’art. 2,
sono, in gran parte, illegittimi di per sé e possono essere sanzionati
indipendentemente dall’accertamento del mobbing. Essi sono, comunque,
produttivi di conseguenze dannose per il soggetto che li subisce sia nella
sfera professionale che morale. Possono determinare lesioni fisiche pur non
essendo mobbing, come possono far parte di una azione di mobbing a tutti gli
effetti e non produrre lesioni.
L’elemento discriminante che trasforma un provvedimento di
demansionamento o di trasferimento, o comunque un provvedimento
illegittimo e vessatorio in azione mobbizzante è “l’intento persecutorio” cioè
lo scopo negativo che ha l’aggressore nei confronti della sua vittima. Il
mobber compie le proprie azioni con un obiettivo preciso, ad esempio quello
di espellere dal lavoro la vittima, di emarginarla, di farla desistere
dall’ambire ad una promozione ecc.
Questo aspetto saliente del fenomeno mobbing non è affrontato con
sufficiente chiarezza ed efficacia nella legge in commento.
L’essenzialità dell’intento persecutorio nella individuazione del mobbing ed
il molteplice atteggiarsi di questo fanno decisamente propendere verso
l’adozione di una definizione aperta del mobbing, che si possa adattare alla
forma di azione ed alla strategia che il mobber, di volta in volta, pone in gioco.
La legge in commento va, invece, apprezzata perché si sforza di concepire
ed istituire organismi territoriali che possano fornire assistenza al lavoratore
che si trova in situazione di “disagio” con il precipuo compito di prevenire
il mobbing o, se il fenomeno fosse già in essere, di contrastarlo. In questa
attività la legge prevede l’impegno, appunto, di centri pluridisciplinari in cui
agiscano, in sinergia, un avvocato esperto in diritto del lavoro, un medico
specialista in igiene pubblica, un sociologo, uno psicologo o psicoterapeuta
ed un assistente sociale.
L’esperienza ed i risultati dell’attività di questi centri confluisce in un
Osservatorio regionale sul mobbing cui sono affidati compiti di consulenza,
di monitoraggio, di promozione di studi e ricerche, di informazione e
sensibilizzazioni sul fenomeno mobbing.
Sotto questo profilo, la via intrapresa sembra quella corretta e si sintonizza
anche con le prime previsioni sul mobbing contenute nei contratti collettivi,
tra cui, per l’ampiezza della platea cui si rivolge, assume particolare rilievo
quella contenuta nel CCNL dei Dipendenti dello Stato 2002-2005.
Il contratto citato (art. 6) prende atto che il fenomeno mobbing è emergente
DOTTRINA
anche nelle pubbliche amministrazioni ed approccia un tentativo di
definizione.
“Forma di violenza morale o psichica in occasione di lavoro – attuato dal
datore di lavoro o da altri dipendenti – nei confronti di un lavoratore. Esso è
caratterizzato da una serie di atti, atteggiamenti o comportamenti, diversi e
ripetuti nel tempo in modo sistematico ed abituale, aventi connotazioni
aggressive, denigratorie e vessatorie tali da comportare un degrado delle
condizioni di lavoro, idoneo a compromettere la salute o la professionalità o
la dignità del lavoratore stesso nell’ambito dell’ufficio di appartenenza o,
addirittura, tale da escluderlo dal contesto lavorativo di riferimento.”
Anche questa definizione non sembra sufficientemente completa.
L’azione del mobber, infatti, non tende a compromettere la professionalità
o la dignità del lavoratore come atto fine a se stesso, ma come tappa,
strumento per la realizzazione di un più ampio intento persecutorio. Il
mobber ha una serie di obbiettivi a corto raggio che si uniscono nell’azione
di mobbing per realizzare l’intento persecutorio.
I singoli comportamenti riportati nella definizione sono sanzionabili in
quanto tali, divengono mobbing quando tendono tutti allo stesso fine:
espellere il lavoratore, emarginarlo ecc.
È fondamentale, quindi, riuscire ad inquadrare l’intento, la finalità che il
mobber si ripropone.
Con questo non si vuole addossare al lavoratore l’onere di provare l’
animus nocendi ma di evidenziare l’esistenza, anche attraverso presunzioni,
di un disegno persecutorio. Sarà, invece il datore di lavoro a dover
dimostrare che i comportamenti adottati sono stati assunti nel legittimo
esercizio dei propri poteri, nel rispetto delle norme contrattuali e del
principio del neminem ledere.
In conclusione è preferibile stare alla larga da elencazioni incomplete di
comportamenti e da definizioni poco meditate che prescindono da una
visione interdisciplinare del fenomeno. La corsa che, da più parti, si sta
verificando alla chiusura del fenomeno mobbing in una definizione che ne
delimiti esaustivamente i confini, finisce per creare confusione e per mettere
chi deve contrastare il fenomeno di fronte a tanti “mobbing” diversi. La scelta
più opportuna che il legislatore nazionale dovrebbe operare è, secondo
l’esperienza maturata sul campo da chi scrive, quella di una definizione
aperta. Sul punto è condivisibile l’opinione espressa dal Prof. Michele
5
Miscione “Io credo che sul mobbing sia preferibile una norma elastica, come
Mobbing Norma Giurisprudenziale in Il Lavoro nella Giurisprudenza, n. 4/2003, Ipsoa Editore.
5
89
DOTTRINA
90
quelle, numerose, previste in materia sia di lavoro che penale 8 ad esempio
sul minimo esistenziale in base all’art. 36 Cost. o sulla nozione di atti osceni
in base all’art. 527 c.p.). Una norma elastica o indeterminata è preferibile per
due motivi, primo perché la nozione stessa di mobbing è di difficile, se non
impossibile delimitazione preventiva e secondo perché, come per tutte le
norme indeterminate, è preferibile non cristallizzare nel tempo e utilizzare
una tecnica di continua modernizzazione secondo la coscienza sociale.”
L’intervento del legislatore è, inoltre, necessario in merito agli strumenti
probatori utilizzabili per dimostrare il mobbing (quale valore ha la diagnosi
dello specialista) ed alla distribuzione dell’onere probatorio.
Per quanto concerne le azioni di prevenzione e contrasto, è fondamentale
insistere nell’affidare a soggetti multidisciplinari il compito di rivelare il
mobbing, di contrastarlo e di fare formazione. Le iniziative estemporanee non
faranno altro che creare altra confusione.
La norma del CCNL esaminata, ad esempio, è criticabile proprio perché
nella costituzione dei Comitati paritetici non stabilisce, quanto meno, la
necessità di affiancare ai Comitati specifiche figure professionali in grado di
esaminare e conoscere i vari aspetti del fenomeno. Se così non sarà fatto la
norma contrattuale rimarrà esclusivamente una elencazione di buoni
propositi con poche probabilità di produrre risultati tangibili.
Non ci resta che attendere fiduciosi l’emanazione di una legge dello Stato.
DOTTRINA
La proposta italiana e il quadro
legislativo francese in tema di
mobbing
di Bartolo Gallitto*
91
Nella motivazione del ricorso per questione di legittimità costituzionale
avverso la legge regionale del Lazio 11 luglio 2002 n. 16, al fine di giustificare
il ricorso, ma, in effetti, nel tentativo di giustificare la mancanza di una legge
nazionale sul fenomeno mobbing, fra l’altro, si fa riferimento alla lunghezza
dei tempi di riflessione del Parlamento Nazionale, “riflessione più che
opportuna considerate le difficoltà di disciplinare una molteplicità variegata
di comportamenti umani di sovente sfuggevole essenza, sia l’impatto sui
rapporti interpersonali anche extragiuridici”.
Al di là del merito del ricorso, della sua opportunità e fondatezza, le
espressioni succitate evidenziano, non solo il ritardo, ma la grande difficoltà
nel definire, con formula chiara, scientificamente valida, condivisibile, il
fenomeno mobbing, onde apprestare prevenzione e tutele, evidenziandosi,
altresì, l’impossibilità di accogliere l’invito contenuto nella Risoluzione del
Parlamento Europeo “a verificare e a caratterizzare in maniera unitaria, con
gli altri Stati membri, la definizione della fattispecie mobbing”, “fenomeno di
cui al momento non si conosce la reale entità”.
Certamente drammatica questa ultima affermazione, poiché l’entità del
risultato del sondaggio effettuato dalla Fondazione di Dublino potrebbe
essere superata da una realtà sconosciuta: quanti sono quelli che per timore
reverenziale, o paventando rappresaglie, o per altri motivi, umanamente
comprensibili, non denunziano il loro stato? E quanti sono coloro che,
malgrado ogni possibile impegno, non sono riusciti a procurarsi le prove ed
i riferimenti di azioni mobbizzanti messe in atto contro di loro o ad
individuarne gli autori? Per quanti non si è saputa accertare la correlazione
tra le azioni mobbizzanti e le sindromi di cui erano portatori?
L’esemplificazione potrebbe continuare, anche se, dalla dottrina alla
*Avvocato, membro del CSM.
DOTTRINA
92
produzione giurisprudenziale a quella normativa, pur non esprimendosi
progetti organici, dalla prevenzione alla formazione, dall’accertamento della
violenza mobbizzante all’accertamento delle sindromi correlate, dalla tutela
giudiziale al risarcimento del danno, si è formato un immenso patrimonio di
conoscenze che si arricchisce sempre più di approfondimenti e di
esperienze, non solo con riferimento all’Europa, dalla Ordinanza del 31/4/94
dell’Ente Nazionale Svedese per la sicurezza e la salute, alla legge 24/6/94
Norvegese, dalla Protection from Harasment act inglese del 21/3/97, allo art.
442 bis introdotto nel codice penale belga, alla francese legge di
Modernizzazione Sociale del 17/1/2002, ma, anche all’Italia, dove sono stati
fatti passi giganteschi.
Pur in mancanza di una qualificazione legislativa del fenomeno mobbing,
ed in mancanza, quindi, di consequenziali sanzioni e forme di tutela dirette,
gli approfondimenti dottrinari, la giurisprudenza, soprattutto quella di
merito, hanno avuto l’importante ruolo di identificare un esatto criterio di
identificazione del fenomeno, utilizzando, a seconda dei casi, gli strumenti
giuridici esistenti, dal codice civile a quello penale, con riferimento alla
Costituzione, alla legge 626/94 e successive modificazioni, alla legge 300/70,
assicurando, quindi, tutele e sanzioni.
Così come passi da gigante ha fatto la prevenzione: dalla legge regionale del
Lazio, il cui fine dichiarato è quello “di prevenire e contrastare l’insorgenza
e la diffusione del fenomeno mobbing nei luoghi di lavoro“, creando gli
organi paritetici previsti dall’art. 20 del d.lgs. n. 626/94, costituendo centri
anti-mobbing ed un Osservatorio regionale sul mobbing, alla Ipotesi di
Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro del Comparto Ministeri per il
quadriennio 2002-2005, che all’art. 6 prevede un Comitato Paritetico sul
fenomeno mobbing, i cui compiti, per le finalità partecipative del personale
dipendente, sono certamente rilevanti.
Così come un notevole contributo hanno apportato le numerose proposte di
legge giacenti in Parlamento, fra le quali talune certamente pregevoli: esse
affrontano i temi della prevenzione e delle iniziative da assumere nei posti di
lavoro, delle responsabilità e delle relative sanzioni, del coinvolgimento diretto
dei lavoratori e dei loro rappresentanti: ottimo risultato di approfondimenti di
precedenti esperienze normative, dottrinarie, giurisprudenziali, con
riferimento anche al vasto panorama europeo: purtroppo, però, esse non
offrono un progetto complessivo che possa utilmente essere recepito in una
proposta legislativa che colmi il vuoto, e trovi composizione in sede di
recepimento di una auspicabile normativa sul mobbing.
Particolare attenzione, però, merita la proposta di legge contro la violenza
DOTTRINA
morale o psichica in occasione di lavoro: la proposta ha il pregio di offrire un
progetto completo di lotta al mobbing, certamente valido a colmare il vuoto
legislativo che, purtroppo, ancora lamentiamo.
Nella proposta vengono recepiti i principi fondamentali validi per la tutela
dei lavoratori contro la violenza morale o psichica in occasione di lavoro,
precisandosi:
a) la definizione del mobbing e la conseguente individuazione delle
relative azioni mobbizzanti;
b) le modalità per diagnosticare le sindromi correlate alle azioni
mobbizzanti, diagnosi da effettuare in base ad un protocollo cui fare
riferimento e secondo le indicazioni dell’Organizzazione Mondiale
della Sanità;
c) che le diagnosi (e l’eventuale terapia) dei disturbi correlabili a
violenza morale o psichica, vengono effettuate in appositi centri o
istituti specializzati di diritto pubblico, interconnessi a livello
nazionale, operanti mercé il lavoro di figure professionali
specializzate, oltre ad un medico legale, uno psichiatra ed uno
psicologo clinico o del lavoro;
d) che all’esito degli accertamenti i centri certificano la esistenza di una
sindrome correlata, ed, ovviamente, o non correlata o non
sufficientemente correlabile;
e) che richiamando le disposizioni del d.lgs. 626/94 e successive
modifiche, si individuano le condizioni per l’attività di prevenzione
cui sono tenuti i datori di lavoro;
f) che viene ritenuta la nullità degli atti o patti riconducibili a violenza
morale o psichica in occasione di lavoro;
g) le azioni in giudizio (hanno il pregio di battere in rapidità e
pregnanza quelle della procedura prevista dall’art. 28 della legge 300)
innanzi al Tribunale in funzione di Giudice del lavoro, prevedendosi,
altresì, il ricorso al Giudice Amministrativo nei rapporti di lavoro di
cui all’art. 3 della legge 165/2001;
h) la previsione, infine, della liquidazione equitativa e della riparazione
del danno.
Indubbiamente, quindi, una proposta che offre la possibilità di realizzare
un progetto completo sul fenomeno mobbing, dalla prevenzione
all’accertamento, alle sanzioni, al ristoro del danno: una proposta che per la
sua completezza sembra unica ed avente anche il pregio di dare valide
risposte ai quesiti posti dalla Comunità Europea.
Proposta, peraltro, che potrebbe anche recepire validi suggerimenti che
93
DOTTRINA
94
potrebbero pervenire facendo riferimento ad altre normative, segnatamente a
quella francese che è la più recente e la più avanzata: la legge 17/1/2002 “La
Modernizzazione Sociale” ha migliorato, infatti, notevolmente, la posizione
delle vittime del mobbing nell’assolvimento dell’onere della prova, poiché la
vittima deve solo affermare la veridicità dei fatti che denunzia, incombendo
alla parte convenuta l’onere di provare che la propria condotta non
costituisce molestia e che i comportamenti assunti sono supportati da
giustificazioni oggettive: praticamente l’inversione dell’onere della prova.
Orbene, considerando che all’art. 3, comma 3 della proposta, è previsto che
“all’esito degli accertamenti svolti, i centri di cui al comma 1 (va tenuto conto
che dovrebbe trattarsi di centri o istituti specializzati di diritto pubblico,
addirittura interconnessi a livello nazionale) comunicano al lavoratore
interessato una delle seguenti diagnosi: sindrome correlata, sindrome non
correlata o sindrome allo stato non sufficientemente correlabile”, e
considerando ancora che le certificazioni delle diagnosi dovrebbero essere
effettuate all’esito di accertamenti della cui obiettività sarebbe difficile
dubitare, poiché riferibili a precisi protocolli e giusta le indicazioni
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, c’è da supporre che la diagnosi di
sindrome correlata avrebbe, almeno, tutti i requisiti della obiettività, della
completezza e della valenza delle indagini che la supportano.
Se, quindi, la certificazione di sindrome correlata offrisse tutte le certezze
prima accennate, perché, integrando l’art. 5 della proposta (azioni in
giudizio), non prevedere che sia posto a carico del convenuto la
contestazione della fondatezza della certificazione?
L’ipotesi potrebbe significare un ulteriore rafforzamento della tutela del
mobbizzato ed una ulteriore remora, arricchendo la prevenzione dalle insidie
del mobbing e, certamente, sul piano processuale, avrebbe un effetto positivo
sulla celerità dell’azione in giudizio.
Ma la normativa francese, detta “Modernizzazione sociale”, sul piano della
esecuzione, va a raccordarsi con una ordinaria previsione dell’ordinamento
francese: l’astreinte, che assicura l’efficacia effettiva della pronuncia
giudiziale, attraverso un valido meccanismo di coazione indiretta1.
L’astreinte consiste, infatti, in una condanna pecuniaria emanata da parte
del Giudice onde costringere il debitore ad adempiere l’obbligazione (nella
specie il facere o il non facere infungibili) tratto ad oggetto della ordinanza
cautelare o della sentenza.
Considerato che tale condanna pecuniaria sarebbe determinata in misura
Luciano Tamburro, Mobbing e tutela cautelare. L’inadeguatezza degli attuali strumenti
normativi.
1
DOTTRINA
fissa, o giornaliera, o settimanale, o mensile, e sarebbe correlata al perdurare
dell’inadempimento, con sottile umorismo Tamburro può ancora affermare
di ritenere tale “misura afflittiva idonea a piegare la resistenza del
recalcitrante, soprattutto tenuto conto della particolare italica attenzione
verso la tasca”.
Condividendo il pensiero di Tamburro, è possibile ritenere che, anche
l’astrainte, se recepita nell’ordinamento italiano, essendo noti i tempi dei
giudizi in Italia, potrebbe rappresentare un ulteriore rafforzamento della
tutela del mobbizzato, arricchendo di un altro valido strumento la
prevenzione dalle insidie del mobbing.
95
DOTTRINA
Gli spazi della contrattazione
collettiva nella disciplina
del mobbing
di Valerio Talamo*
97
1. L’oggetto di questo breve scritto è costituito da una riflessione sugli spazi
negoziali riservabili al mobbing, o, più correttamente, sul ruolo possibile o
probabile della contrattazione collettiva nella disciplina dell’istituto con
riferimento all’assetto del lavoro pubblico. In questo specifico contesto è
pressoché inimmaginabile non estendere l’ambito della riflessione alla prima
disciplina del mobbing nel lavoro pubblico, determinata in forza di una
norma collettiva, prevista nell’ambito del contratto del comparto ministeri
relativo al quadriennio 2002-2005, sulla base di uno specifico indirizzo
impartito all’ARAN dal Governo. Si passerà, quindi, di seguito ad analizzare
i contenuti degli indirizzi governativi in materia e della sistemazione
negoziale fornita dalle parti collettive sulla base di quegli indirizzi.
2. Si inizierà con una domanda che potrebbe sembrare una provocazione, ma
che, invece, costituisce una buona premessa per questa noterella: ma siamo
proprio sicuri che il mobbing sia una materia che possa costituire oggetto di
una coerente regolamentazione contrattuale? O, detto diversamente, è
possibile che il contratto collettivo possa aggiungere alcunché rispetto a
quanto non sia già previsto dall’ordinamento per la tutela dal mobbing?
Generalmente le ipotesi di comportamento, in qualche modo riconducibili
a ciò che comunemente viene inteso come mobbing, o sono riconoscibili in
fattispecie cui l’ordinamento già connette sanzioni e tutele, ovvero possono
concretizzarsi in un contesto di azioni che intanto hanno un’incidenza
penalizzante sul lavoratore in quanto si collegano a situazioni e disfunzioni
di tipo organizzativo e, quindi, in quanto tali, o non sono illegittime o sono
estranee alla sfera del contrattabile (mobbing derivante da disfunzioni di tipo
organizzativo).
*Direttore Servizio contrattazione collettiva, Dipartimento della Funzione Pubblica.
DOTTRINA
98
Nel primo caso, per esempio, alcune ipotesi di mobbing potrebbero
riconoscersi in forme di esercizio illegittimo del c.d. ius variandi, già tutelato
ai sensi dell’art. 2013 c.c., ovvero in ipotesi di illegittime mancate
promozioni, da ascrivere alla categoria della perdita di chance.
So bene che in questa maniera il problema si sposta su uno dei dati che,
assiomaticamente, avevo dato per acquisito, cioè quello del fondamento
giuridico dell’istituto e della sua qualificazione, ovvero sul problema
dell’esatta individuazione della fattispecie giuridica del mobbing, sia dal
punto di vista della condotta oggettivamente considerata, sia sotto il profilo
dell’elemento soggettivo.
In effetti, il mobbing rappresenta un concetto “contenitore”, una categoria
“aperta”, che sociologi, psichiatri e psicologi hanno potuto ricostruire con gli
strumenti posti loro a disposizione dalle rispettive scienze, ma al quale i
giuristi con un certo grado di approssimazione hanno ricondotto una
1
pluralità di situazioni, talora del tutto eterogenee .
Tali situazioni eterogenee, in quanto si configurino come condotte illecite,
sembrano già trovare nell’ordinamento, vale a dire nelle norme civili e
penali, la propria disciplina.
Ancora, riprendendo l’elencazione: la dequalificazione o l’adozione di
sanzioni disciplinari illegittime sono già espressamente vietate dal legislatore
(anche nella forma dell’abuso del potere disciplinare). Altre condotte
rientrano nel più generale contesto della lesione della salute psico-fisica del
lavoratore, sanzionata dall’art. 2087 c.c. In altri casi, qualora il
comportamento del datore di lavoro sia censurabile in via generica, in quanto
concreti un’illegittima prevaricazione, sarebbe sufficiente invocare la
violazione delle clausole generali di correttezza e buona fede che si
costituiscono quali norme di chiusura, sussidiarie ed integrative di tutto il
2
sistema del lavoro alle dipendenze altrui (artt. 1175 e 1375 c.c.) .
La domanda da cui sono partito esige, quindi, che sia preliminarmente
affrontata un’ulteriore questione che si pone a monte: c’è davvero bisogno nel
nostro ordinamento di una nozione giuridica di mobbing cui connettere
tutele specifiche?
C. Zoli, Il mobbing: brevi osservazioni in tema di fattispecie ed effetti, dattiloscritto.
Cfr., ancora, tutte le ipotesi di “abuso di potere” (art. 7 legge n. 300 del 1970) e discriminatorie
(art. 15 della legge n. 300 del 1970) e quelle di molestie sessuali (legge n. 66 del 1996). V. anche
gli artt. 2043 cc. (responsabilità aquilana), che tutela il lavoratore in quanto individuo da “ogni
fatto ingiusto che cagioni un danno”; e 2087 (responsabilità contrattuale), che obbliga il datore
di lavoro a preservare il lavoratore sotto l’aspetto fisico e morale; nonché gli artt. 1175 e 1375
c.c. (dovere di correttezza e buona fede). Una specifica tutela delle condizioni di lavoro, sotto lo
specifico aspetto dell’igiene, salubrità e sicurezza, è contenuta nella legge n. 626 del 1994.
1
2
DOTTRINA
Solo se si risponde affermativamente a questa domanda, delimitando il
campo di analisi, potremo passare al quesito oggetto di indagine e relativo
alla definizione degli spazi negoziali.
Ed a questa domanda occorre fornire risposta positiva, perché il mobbing,
come viene comunemente inteso dalle scienze mediche, sociologiche e
giuridiche, non si esaurisce nella sommatoria di comportamenti già vietati
dalle norme, ma postula ed esige un elemento aggiuntivo, caratterizzato da
una connotazione complessiva che rende vietati comportamenti altrimenti
leciti, ed aggrava il significato giuridico e sociale di comportamenti già vietati
per i quali l’ordinamento già assicura tutela (ma si tratta di una tutela
indiretta attraverso le disposizioni appartenenti a contesti normativi fra loro
diversi e che tutelano forme specifiche di illecito).
Alla base del mobbing vi è, infatti, un elemento psicologico, una ratio
discriminatoria, che costituisce un quid pluris in grado di connotare una
tipologia di comportamenti di per se stessi non sempre illeciti, ma che, in
quanto convergenti verso un fine ultimo vessatorio, ed organizzati in sequela
(sono cioè reiterati e continuativi nel tempo), oltre ad arrecare un maggior
danno, divengono comportamenti concretanti mobbing, perché perseguono
un intento di degrado che il singolo atto non sarebbe altrimenti in grado di
conseguire. Penso al caso classico dello spostamento fisico reiterato del
dipendente o a particolari regimi di orario che potrebbero altrimenti
configurare anche un legittimo, razionale e coerente esercizio del potere
organizzativo da parte del datore di lavoro.
In questi ultimi casi, a ben vedere, è indispensabile riconoscere in concreto
la ratio discriminante dei comportamenti che, in se considerati, sarebbero
altrimenti del tutto legittimi, anche se magari giudicabili poco opportuni da
altre scienze o tecniche che non sono il diritto.
Una volta ammessa la necessità di una configurazione giuridica del
mobbing, la tipizzazione degli illeciti, dei comportamenti costituenti
mobbing, o, più precisamente, la costruzione degli indici sintomatici della
sussistenza di una situazione di mobbing in atto e la verifica dell’esistenza
della specifica intenzione vessatoria non può che essere un compito della
giurisprudenza, mentre al legislatore spetta definire normativamente la figura
3
tipica di reato da mobbing ed il relativo sistema delle sanzioni . Spetta cioè
3
Che il mobbing possa costituire già attualmente fattispecie di reato, anche se non autonoma e
tipica, in assenza di normativa specifica, non si può revocare in dubbio, attesa la protezione
penalistica per il reato di maltrattamenti (art. 572 cp.), quella di lesioni personali (art. 590 c.p.),
ingiuria (594 c.p.), diffamazione (595 c.p.), l’abuso di ufficio (323 c.p.) e la violenza privata, vera
norma di chiusura di tutto il sistema, generica e sussidiaria, cui il lavoratore può ricorrere in tutti
99
DOTTRINA
100
alla giurisprudenza verificare che il comportamento datoriale risponda a
logiche di razionalità e coerenza rispetto ai fini organizzativi perseguiti
ovvero se lo stesso sia espressione di un atteggiamento ostile o penalizzante
nei confronti del lavoratore eventualmente pretermesso in modo
ingiustificato, ovvero, ancora, se lo stesso comportamento sia inquadrabile
nell’ambito della normale conflittualità connaturata ad un luogo ad alta
densità emotiva quale è l’ambiente di lavoro.
In questi casi, il giudice dovrà verificare nell’ordine: se il comportamento
sia legittimo o meno alla luce dell’attuale quadro legale; se il comportamento
illegittimo sia sanzionabile in forza della tutela offerta dalle norme generali,
non essendo assimilabile a mobbing; se il comportamento di per sé legittimo
sia comunque inserito in una strategia mobbizzante e divenga per ciò stesso
sviato rispetto al fine cui è fisiologicamente preposto e, quindi, antigiuridico.
Qui c’è da indagare un animus, un aspetto soggettivo che però, in quanto
tale, per essere giuridicamente sanzionabile si deve concretare in una voluta
afflizione del lavoratore. Ma questo è, appunto, un compito della
giurisprudenza e non della contrattazione: di una giurisprudenza creativa
come quella che si è esercitata in questo settore fin dalle prime pronunce, che
hanno riconosciuto che oltre e sopra l’atto lesivo, in sé considerato, vi può
essere altro, cioè il mobbing come categoria unitaria, in cui si ricompongono
4
le molteplici condotte autonomamente sanzionabili .
Allora in questo contesto già giuridificato (o ancora da giuridificare in forza
di leggi che introducano il reato di mobbing), ed in cui alla giurisprudenza
spetta il compito più delicato, il ruolo della contrattazione sarà quello di
evidenziare e censire il fenomeno, mediare, diffondere conoscenze, formare
per promuovere culture di consapevolezza e solidarietà, molto più che quello
di predisporre tutele integrative.
3. Ma passiamo al secondo caso, quello che ho definito mobbing derivante da
disfunzioni organizzative (utilizzo solo per comodità di sintesi questa
definizione, colpevolmente inesatta, ma ambiguamente comoda).
In queste ipotesi, a ben vedere, il mobbing non c’entra per nulla sul piano
giuridico formale, perché l’animus o l’intento afflittivo è obiettivamente assente.
i casi di violazione della sua libertà di autodeterminazione (610 c.p.). Tutela penale indiretta
contro il mobbing è assicurata anche dalla legge contro i reati sessuali (legge n. 66 del 1996),
qualora i comportamenti mobbizzanti incidano sulla sfera sessuale del dipendente.
4
La prima sentenza in assoluto, che ha riconosciuto la risarcibilità del danno psichico da
mobbing, sussumendo la nozione del mobbing in azienda nel quadro delle circostanze
appartenenti al “fatto notorio”, è del Tribunale di Torino, 16 ottobre 1999, n. 5050.
DOTTRINA
Qualora il mobbing derivi da disfunzioni organizzative o da comportamenti
incolpevoli, esso condivide con il mobbing in senso proprio la caratteristica
afflittiva, ma è anche il riflesso – a volte inconsapevole – di una forma di
malessere organizzativo in senso lato. Allora occorre intervenire
sull’organizzazione e sulla sua cultura. Ma, come sappiamo, ogni intervento
sull’organizzazione amministrativa nel pubblico impiego, per la nota e
tradizionale riserva di atto unilaterale pubblicistico, è precluso alla
contrattazione collettiva che denuncia, quindi, ab inizio, la propria
incompetenza.
Più precisamente, per mobbing da disfunzioni organizzative, intendo
quella gamma di situazioni organizzative e personali nelle quali non è
riconoscibile alcun intento afflittivo né alcuna ratio discriminatoria: non si
tratta quindi di condotte antigiuridiche, ma l’effetto ultimo di tali situazioni
è pressoché analogo a quello che si verifica nei casi conclamati di mobbing,
con i connessi costi sociali ed umani spesso drammatici.
Tale malessere organizzativo può essere determinato da comportamenti
inconsapevoli del dirigente o del funzionario ovvero da situazioni strutturali
e organizzative rispetto alle quali il dirigente o il funzionario sono incapaci
di influire (nel senso che un intervento non è nella loro disponibilità).
Allora, occorre intervenire sulle strutture, sull’organizzazione, se il male è,
per così dire, strutturale, perché non è possibile assicurare un buon livello di
processualità organizzativa con certe strutture esistenti nella pubblica
amministrazione. Occorre, invece, intervenire sulla cultura del funzionario e
del dirigente pubblico se questi è inconsapevole.
Nel primo caso, il ruolo della contrattazione, laddove necessitino interventi
strutturali sull’organizzazione, quale è? Penso alle ipotesi, tutt’altro che
residuali, di eccessivi carichi di lavoro, dovuti ad un aggravio complessivo di
lavoro che ricade sulla struttura (senza che sia configurabile un
5
comportamento colpevole del datore di lavoro o di condizioni di lavoro non
idonee, per esempio ambienti non confortevoli, che pure non violino i limiti
previsti dalla legge 626/1994 ecc).
La funzione della contrattazione collettiva può essere solo quella di
stimolo, conoscenza e ricognizione, proposta, mediazione.
Nel secondo caso, qualora cioè il comportamento sia inconsapevole, il tema
si connette con quello della convivenza organizzativa.
La contrattazione collettiva può incentivare percorsi formativi per
promuovere cultura, solidarietà e consapevolezza, perché la convivenza fra
Cass, 5 febbraio 2000, n. 1307.
5
101
DOTTRINA
102
datore di lavoro e dipendente va gestita costantemente e costantemente
rinegoziata. Non è certo sufficiente disporre di un apparato gerarchico per
disciplinare la convivenza, perché la gerarchia, il comando, il controllo non
proteggono certo il lavoratore dall’alienazione dal contesto lavorativo di
riferimento, determinata spesso dalla mancanza di condivisione dei processi,
in cui lo stesso a fortiori viene immesso, né tantomeno insegnano al dirigente
a gestire e riconoscere il disagio e le sue cause.
Il rischio alto derivante dal disagio della convivenza è che, se protratto, si
strutturi, producendo danni, a volte, difficilmente eliminabili.
Evidentemente tutto è complicato dagli obiettivi dati che, comunque, il
dirigente è tenuto a raggiungere. In questo specifico contesto viene
pienamente in luce il doppio attrito che pesa sul dirigente pubblico, stretto
da un lato dai risultati che si impegna a raggiungere e da cui dipende la
riconferma nell’incarico ricoperto, ed i mezzi scarsi di cui dispone. Il rischio,
tutt’altro che teorico, è che lo stesso dirigente eserciti pressioni sulla struttura
la quale però, in quanto tale, è sostanzialmente indifferente rispetto al
conseguimento degli obiettivi dati.
In conclusione, anche quando non sono riconoscibili comportamenti
sanzionabili, possono determinarsi gli effetti del mobbing perché le
pubbliche amministrazioni, spesso, non dispongono di strutture sufficienti
per produrre benessere organizzativo. Ed il dirigente, stretto tra l’obiettivo da
raggiungere e la mancanza di strumenti sufficienti, deve necessariamente (nel
suo stesso interesse, o, meglio, nell’interesse del risultato che persegue)
essere o divenire un esperto di convivenza: e quest’ultima va continuamente
rinegoziata coi dipendenti, per ricostituire nel benessere l’ambiente
organizzativo. Deve stringere un patto che non può essere gestito con gli
strumenti del diritto, nell’ottica tradizionale della catena comando
(gerarchia) controllo (sanzione disciplinare); deve saper essere, prima ancora
che sapere e saper fare, perché la conoscenza è propedeutica all’abilità e
l’abilità è propedeutica all’essere manager.
Ma chi insegna al dirigente a percepire i disagi e chi lo educa a negoziare
la convivenza organizzativa (per esempio promovendo la condivisione e la
cultura del confronto, perché la mancanza di condivisione determina
naturalmente attriti, in quanto dirigenti e dipendenti possono divenire
portatori di esigenze in conflitto fra loro)?
Ecco, infine, il ruolo, ad adiuvandum, della contrattazione collettiva.
Questi obiettivi, connessi al benessere organizzativo, sono e devono essere
necessariamente frutto di una modifica culturale delle tecniche di gestione
su cui la contrattazione può influire attivando processi di conoscenza e di
DOTTRINA
formazione nell’interesse dell’organizzazione ancora prima che dei suoi
dipendenti.
4. Se questo è il quadro, potremmo convenire che la contrattazione, quanto
meno nelle P.A., ha competenze limitate e circoscritte e che spetta ad altre
scienze, nonché all’elaborazione legislativa, dottrinaria e giurisprudenziale,
costruire istituti e fattispecie. Ma è un dato di fatto che, proprio dalla
contrattazione collettiva del pubblico impiego relativa al quadriennio 200205, è scaturita una prima regolamentazione preordinata alla tutela dal
mobbing che non ha precedenti significativi nemmeno nell’impiego privato
6
nel nostro Paese (tranne qualche accordo di clima o codice di condotta ). Si
tratta di una serie di norme contenute nel contratto collettivo relativo al
quadriennio 2002-2005 per i dipendenti non dirigenti del Comparto
Ministeri, introdotte sulla base di uno specifico indirizzo emanato dal
competente comitato di settore che, per il comparto in questione, è costituito
dal Governo (e ciò rende ancora più significativa la regolamentazione
contrattuale raggiunta sulla base di quell’indirizzo).
Più precisamente, l’intero sesto paragrafo dell’atto di indirizzo per il
rinnovo contrattuale di categoria, inviato all’ARAN il 5 agosto 2002, è
dedicato alla tutela contro il mobbing. E pare interessante esaminarlo, perché
gli atti di indirizzo, più che documentazione “grigia”, costituiscono
documentazione riservata, almeno fino alla stipulazione del contratto
collettivo, in quanto fondano lo specifico mandato per la missione negoziale
pubblica (per definizione precluso alla conoscenza diffusa). Ma ora il
contratto è definitivamente chiuso avendo esaurito, con la certificazione
7
della Corte dei Conti e la definitiva sottoscrizione, l’iter procedimentale .
L’atto di indirizzo definisce il mobbing come quella “forma di violenza
morale e di persecuzione psicologica reiterata nel tempo, posta in essere dal
datore di lavoro o da altri colleghi nei confronti del lavoratore, secondo una
serie di comportamenti diversi e di difficile catalogazione, tutti accomunati
dalla modalità aggressiva e vessatoria e dalla finalità di esclusione della
vittima dal contesto lavorativo di riferimento”.
Si tratta più precisamente di un atteggiamento ostile e non etico, posto in
essere in forma sistematica e non occasionale o episodica, che determina nel
6
Cfr., il Codice di condotta per la tutela e la dignità delle lavoratrici e dei lavoratori del Comune
di Palermo; il Regolamento anti mobbing della Provincia di Ragusa; il codice di condotta della
Azienda USL 10 di Firenze; l’Accordo di clima dell’Azienda torinese mobilità.
7
Il CCNL è stato sottoscritto in via definitiva il 12 giugno 2003.
103
DOTTRINA
104
soggetto interessato una condizione indifesa, mentre l’alta frequenza del
comportamento ostile può determinare considerevoli sofferenze morali,
8
psicosomatiche e sociali” .
Per il verificarsi della fattispecie si richiede quindi la reiterazione nel
tempo dei comportamenti (nella duplice accezione di frequenza e di
continuità, ché, altrimenti, il mobbing non sarebbe diverso da un qualunque
conflitto temporaneo ed occasionale sul lavoro, che non postula in quanto
tale necessariamente condotte antigiuridiche). Tali comportamenti “violenti”
a loro volta non debbono essere fini a se stessi, ma finalizzati alla progressiva
emarginazione del mobbed dal contesto lavorativo. Accentuando il carattere
dell’“animus” sembrano rimanere fuori da questa definizione tutte le ipotesi
di mobbing da disfunzione organizzativa, che sono tuttavia contemplate
successivamente dallo stesso atto di indirizzo e che trovano, infine,
rappresentazione nelle norme del contratto collettivo stipulato.
Viene successivamente riconosciuta l’antisocialità del mobbing ed i costi
organizzativi connessi al verificarsi della fattispecie, diffusa anche nel
pubblico impiego dove, il fenomeno anzi, data la traslazione spesso
meccanica di metodologie, logiche e filosofie organizzative e gestionali
privatistiche, senza attenzione per il contesto di riferimento, si manifesta in
9
crescita .
Viene quindi riconosciuto che un problema esiste e va interessando
progressivamente anche la P.A., che tale fenomeno è particolarmente odioso
ed ha gravi conseguenze individuali e sociali, che non è tutelato in modo
univoco ed esige, quindi, un particolare livello di attenzione, attesa l’assenza
di una normativa generale e di concrete prese di posizione in sede
contrattuale. Si riconosce più precisamente che, allo stato, la tutela del
lavoratore si risolve nell’utilizzo di norme e principi appartenenti a
eterogenei rami del diritto, segnatamente quello penale e quello civile,
attraverso l’azione civile da responsabilità ed il risarcimento, sempre più di
frequente riconosciuto in giurisprudenza, del danno da mobbing.
Nella consapevolezza che la risposta a queste condotte illecite non può
essere delegata allo strumento negoziale, l’atto di indirizzo disegna un
preciso ruolo della contrattazione collettiva, che appare più di supporto che
sostitutivo di una legge che non c’è. Più precisamente, le azioni da parte
8
La definizione riprende l’elaborazione concettuale dello psicologo e ricercatore tedesco Heinz
Leymann, pioniere della ricerca in materia di mobbing, ma anche talune definizioni accolte in
sede di progettazione legislativa statale e regionale, come lo stesso atto si premura di avvertire.
9
Si fa anzi riferimento al cosiddetto “doppio mobbing”, che è quello che si verifica, di riflesso,
nell’ambito familiare.
DOTTRINA
dell’autonomia collettiva dovrebbero collocarsi “in un’ottica di
informazione, di prevenzione e di emersione attiva delle situazioni illecite”.
Si chiama, quindi, a soccorso l’autonomia collettiva, ipotizzando interventi
specifici e mirati. In primo luogo per approntare quegli strumenti di tipo
culturale, funzionali alla promozione della cultura del benessere, che non si
esaurisce, pur comprendendola, nella tutela dal mobbing in senso proprio. A
tale fine, alla contrattazione collettiva spetterebbe promuovere, “anche a livello
di contrattazione integrativa, l’attività di formazione ed aggiornamento del
personale in materia, con particolare riferimento al management di
amministrazione”. In secondo luogo si suggerisce l’“istituzione, anche a livello
integrativo, di organismi paritetici con il compito di raccogliere dati sul
mobbing nelle amministrazioni del comparto … e di formulare proposte in
ordine alla prevenzione e alla repressione del fenomeno”. Viene, quindi,
compiutamente in rilievo il secondo ruolo della contrattazione collettiva: quello
di attivare strutture critiche di conoscenza, con funzione di ricognizione, studio,
stimolo propositivo, nella dimensione anche della mediazione organizzativa.
In terzo luogo, compito della contrattazione collettiva, secondo l’indirizzo
governativo, è quello della creazione di sportelli o centri di ascolto, a
gestione bilaterale, per l’accoglienza, l’assistenza e la consulenza psicologica
e giuridica di cui il mobbed necessita, anche al fine di “consentire al
dipendente il discernimento degli atti di legittimo esercizio del potere
datoriale, da quelli di abuso”. Tutto ciò nella logica della prevenzione,
dell’assistenza e della diffusione della cultura organizzativa.
Nulla si aggiunge sul piano giuridico e sanzionatorio, ferma restando
ovviamente la competenza in materia di sanzioni disciplinari del contratto
collettivo.
In ultima analisi, la convinzione del mandante governativo è che il ruolo
della mediazione sindacale può rivelarsi decisivo, considerata l’istituzionale
possibilità di intervenire nel rapporto di lavoro e in talune dinamiche
organizzative e gestionali.
5. Sulla base dell’invito a contrattare, effettuato dall’atto di indirizzo
all’ARAN del 5 agosto 2002, il CCNL relativo al quadriennio normativo 20022005 ed al primo biennio economico 2002-2003 ha provato a dettare una
Si rinvia sul punto più diffusamente alle osservazioni contenute nel saggio di Elvira Gentile, in
questo stesso volume.
11
Il mobbing per il CCNL va inteso quale “forma di violenza morale o psichica in occasione di
lavoro - attuato dal datore di lavoro o da altri dipendenti - nei confronti di un lavoratore”.
12
Posto in essere dal superiore gerarchico (cd. bossing).
10
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DOTTRINA
106
logica regolamentazione della materia.
10
In estrema sintesi , il contratto riconosce la rilevanza sociale del mobbing,
11
ne tenta una definizione in coerenza con l’atto di indirizzo , accorpando in
12
un'unica fattispecie le ipotesi di mobbing verticale , e quelle di mobbing
13
orizzontale , e prova a tipizzare i comportamenti tipici che concretano
mobbing, consistenti in una “serie di atti, atteggiamenti o comportamenti,
diversi e ripetuti nel tempo in modo sistematico ed abituale, aventi
connotazioni aggressive, denigratorie e vessatorie tali da comportare un
degrado delle condizioni di lavoro, idonei a compromettere la salute o la
professionalità o la dignità del lavoratore stesso nell'ambito dell'ufficio di
appartenenza o, addirittura, tali da escluderlo dal contesto lavorativo di
riferimento”.
Dunque per il CCNL il mobbing è quello in cui è riconoscibile una strategia
denigratoria (la serie di atti o comportamenti ripetuti nel tempo), cui è
14
comune l’effetto lesivo (con il quale anzi deve sussistere un nesso causale ,
ma anche l’intenzione e soprattutto la non episodicità od occasionalità del
comportamento.
Dopo la presa d’atto dell’esistenza, anche nelle P.A. del fenomeno, il
contratto avverte circa la necessità di intervenire attraverso idonee iniziative
“al fine di contrastare la diffusione di tali situazioni, che assumono rilevanza
sociale, nonché di prevenire il verificarsi di possibili conseguenze pericolose
per la salute fisica e mentale del lavoratore interessato e, più in generale,
migliorare la qualità e la sicurezza dell'ambiente di lavoro”.
L’intervento, dunque, non è solo repressivo ma anche e più correttamente
preventivo, in quanto una volta verificatesi le fattispecie concretanti
mobbing, l’intervento repressivo si pone perlopiù nella logica del
risarcimento del danno (patrimoniale, biologico, morale, esistenziale).
Gli strumenti previsti sono gli specifici comitati a paritetici, da istituire
entro 60 giorni dall'entrata in vigore dello stesso contratto, presso ciascuna
15
amministrazione , con diversi compiti che rispondono a diverse finalità:
Posto in essere da dipendenti del medesimo livello gerarchico.
Cfr. tutta la giurisprudenza in tema di mobbing, a partire a Tribunale di Torino,16 novembre
1999, n. 5050.
15
Il Comitato è composto da un componente designato da ciascuna delle organizzazioni sindacali
di comparto firmatarie del CCNL e da un pari numero di rappresentanti dell'amministrazione. Il
Presidente del Comitato viene designato tra i rappresentanti dell'amministrazione ed il
vicepresidente dai componenti di parte sindacale. Di essi fa parte anche un rappresentante del
Comitato per le pari opportunità appositamente designato da quest'ultimo. I Comitati rimangono
in carica per un quadriennio con prorogatio fino ai successivi rinnovi e, comunque, fino alla
costituzione dei nuovi Comitati. I componenti dei Comitati possono essere rinnovati
nell'incarico per un solo mandato.
13
14
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a) la raccolta dei dati relativi all'aspetto quantitativo e qualitativo del
fenomeno del mobbing (funzione di ricognizione);
b) l’individuazione delle possibili cause del fenomeno, con particolare
riferimento alla verifica dell'esistenza di condizioni di lavoro o ai fattori
organizzativi e gestionali che possano determinare l'insorgere di
situazioni persecutorie o di violenza morale. Evidentemente questa
funzione è connessa e presupposta dalla prima (ricognizione dei dati) e
consiste nell’approfondimento degli elementi di conoscenza assunti
attraverso la raccolta dei dati significativi, i quali vanno elaborati al fine
di permettere l’individuazione delle diverse cause che possono dare
luogo a mobbing, spesso determinate da fattori di tipo organizzativo. Il
disagio psichico determinato dal mobbing, infatti, come meglio si è
evidenziato prima, può essere causato anche da situazioni non illecite ma
derivanti da condizioni di lavoro o fattori organizzativi e gestionali che
incidono sul clima organizzativo ( mobbing da derivante da disfunzioni
organizzative);
c) la formulazione di proposte di azioni positive in ordine alla prevenzione
e alla repressione delle situazioni di criticità, anche al fine di realizzare
misure di tutela del dipendente interessato. Viene, quindi, pienamente in
luce il carattere di mediazione sindacale dei Comitati ex art. 6, ma anche
l’analogia con le funzione dei Comitati di parità della legge n. 125 del 1991,
sul cui modello i primi sono costituiti;
d) la formulazione di proposte per la definizione dei codici di condotta. Si
lascia quindi uno spazio significativo per la giuridificazione dei
comportamenti configurabili come vessatori, censurabili in sede di codice
di comportamento che, a norma dell’art. 55 del d.lgs n. 165 del 2001
definisce i doveri dei dipendenti pubblici (rectius gli obblighi), con facoltà
per i CCNL di stabilire la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni
(anzi, viene data espressa indicazione all’ARAN affinché il codice sia
recepito nei contratti ed i suoi principi vengano coordinati con le
previsioni sulla responsabilità disciplinare). E, anzi, già lo stesso contratto
collettivo, nelle norme disciplinari, sanziona in maniera significativa
talune ipotesi di mobbing orizzontale, che possono determinare anche il
Cfr. l’art. 13, commi 3, lett. j; 4, lett. e e 5, lett. f. Il mobbing orizzontale, consistente in
“sistematici atti o comportamenti aggressivi, ostili o denigratori che assumano forme di violenza
morale o persecuzione psicologica nei confronti di altro dipendente” è sanzionato con la
sospensione dal servizio e la privazione della retribuzione fino ad un massimo di dieci giorni,
protraibili fino a 6 mesi qualora la stessa condotta sia mirante “a procurare un danno in ambito
lavorativo o addirittura di escludere (il mobbizzato) dal contesto lavorativo”. Nei casi di recidiva
(anche nei confronti di persona diversa) è possibile il licenziamento con preavviso.
16
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16
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licenziamento del dipendente mobbers ;
e) la redazione di una relazione annuale sull'attività svolta, in modo da
permettere la diffusione e l’implementazione delle esperienze, nonché
l’adattamento dei comportamenti organizzativi;
f) l’attuazione, nell'ambito dei piani generali per la formazione, di idonei
interventi formativi e di aggiornamento del personale. Gli spazi della
formazione possono essere finalizzati, tra l'altro, all’affermazione di una
cultura organizzativa che comporti una maggiore consapevolezza della
gravità del fenomeno e delle sue conseguenze individuali e sociali ed allo
sviluppo della coesione e della solidarietà dei dipendenti, attraverso una
più specifica conoscenza dei ruoli e delle dinamiche interpersonali
all'interno degli uffici, anche al fine di incentivare il recupero della
motivazione e dell'affezione all'ambiente lavorativo da parte del personale.
Viene, quindi, finalmente in luce il ruolo della formazione nella
prevenzione del fenomeno ed il ruolo di mediazione fra i conflitti
organizzativi, per prevenire e per promuovere il benessere organizzativo,
poiché la cultura del benessere organizzativo non può che passare
attraverso un’idonea attività di formazione.
Inoltre il CCNL immagina una procedimentalizzazione preordinata
all’implementazione delle proposte dei comitati e vincola (parte dispositiva
del CCNL) le P.A. ad alcuni adempimenti. Così le proposte formulate dai
comitati devono sempre essere presentate alle amministrazioni per i
conseguenti adempimenti, alcuni dei quali sono obbligatori (costituzione e
17
funzionamento di sportelli di ascolto nell'ambito delle strutture esistenti );
istituzione della figura del consigliere/consigliera di fiducia; definizione dei
codici, sentite le organizzazioni sindacali firmatarie). Si tratta,
evidentemente, di obblighi la cui violazione concreterebbe un vero e proprio
inadempimento contrattuale.
Sulla P.A. ricade, inoltre, il generico obbligo di favorire l’operatività dei
comitati, in particolare valorizzando e pubblicizzando con ogni mezzo,
nell'ambito lavorativo, i risultati del lavoro svolto dagli stessi.
Rimane da spiegare più correttamente l’accostamento (esplicito), previsto
La costituzione ed il funzionamento di sportelli di ascolto deve avvenire nell'ambito delle
strutture esistenti, in quanto il funzionamento dell’istituto deve essere a costo “0” (il contratto
non stanzia all’uopo risorse). Si tratta di un “vizio genetico” del contratto in oggetto, che ha
destinato le risorse contrattuali al recupero dell’inflazione maturata nel precedente biennio
(2000-01) ed all’anticipazione dell’inflazione programmata del biennio contrattuale 2002-03, ciò
secondo le scadenze previste dall’Accordo del Luglio 1993, nonché alla doppia strategia:
recupero della produttività/incentivazione, da contrattare in sede integrativa, ed anticipo “in
conto recupero” di parte dell’inflazione reale (e non solo programmata), maturata nell’anno 2002.
17
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dal CCNL, fra Commissione pari opportunità e Comitati per la prevenzione e
la repressione del mobbing. Perché questo accostamento? Esso è dovuto alla
speranza che si verifichi un’azione sinergica, atteso che spesso il mobbing si
associa ad ipotesi di molestie sessuali? Ovvero si vuole favorire una
disseminazione ed un travaso di esperienze, anche organizzative, fra il primo
organismo, ormai radicato nelle prassi amministrative, ed il secondo, che
deve ancora imporsi nel variegato humus organizzativo delle P.A.? O, ancora,
si vuole evidenziare il carattere non specificamente sindacale, ma generale,
nell’interesse anche e soprattutto delle P.A., del costituendo organismo?
In realtà il CCNL fa riferimento alle finalità di raccordo tra le attività dei
due comitati, finalità che sembrano sublimare, ricomprendendoli, tutti gli
scopi prima descritti.
6. Le linee di intervento ipotizzate dal CCNL per la tutela dal mobbing sono
modulari ed integrate: dalla conoscenza del fenomeno, allo studio delle
cause ed alla disseminazione delle conoscenze; dalla formazione mirata, alla
proposta di azioni positive per prevenire e reprimere; infine all’assistenza
psicologico-giuridica. Se esiste un problema, occorre, evidentemente,
conoscerlo in tutte le sue sfumature, misurarne le proporzioni, costruire
strategie integrate di intervento, educare tutti gli attori delle P.A. ad
ammetterlo ed identificarlo.
L’approccio è modulare perché mirante a promuovere conoscenze, culture
organizzative ed a diffonderle in modo integrato; le norme sono miti ed
hanno un impatto mite, perché attente a non eccitare nuovi conflitti
organizzativi. Le norme contrattuali si limitano alla proposta per eliminare le
disfunzioni, promovendo, nel contempo, la trasformazione culturale che è
elemento imprescindibile per la rimozione degli elementi di patologia dei
sistemi organizzativi, anche se una prima ipotesi di tutela viene avanzata
nelle ipotesi di mobbing orizzontale fra dipendenti attraverso la previsione di
sanzioni disciplinari (cfr. l’art. 13, commi 3, lett.j e 4, lett.e).
La contrattazione ha, in definitiva, il ruolo di fiancheggiare le tutele, locate
In altri Paesi sono, invece, molto avanti. La Svezia si è dotata di una legge ad hoc già dal 1993,
la Francia nel 2002. In Germania la regolamentazione è perlopiù di origine negoziale. Nel nostro
Paese ha legiferato, invece, la Regione Lazio, con la legge n.16 del 11 luglio 2002, suscitando più
di un interrogativo in relazione al nuovo sistema di riparto di competenze fra Stato e Regioni,
così come determinato a seguito della modifica del Titolo V, parte II della Costituzione. La legge
in esame coinvolge infatti materie che potrebbero alternativamente ritenersi ricomprese nell’
“ordinamento civile” (di competenza esclusiva dello Stato) ovvero nell’ambito della “tutela della
salute” e “della tutela e sicurezza sul lavoro” (attribuite dalla nuova formulazione dell’art. 117
Cost alla competenza concorrente di Stato e Regioni). Nell’assenza di norme di principio in tali
materie, ed attesa la competenza esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile (nonché
18
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però al di fuori della contrattazione, per creare l’humus organizzativo e
promuovere le culture, le consapevolezze e le solidarietà, e ciò nell’attesa che
si giunga alla definizione di quella legge generale sul mobbing che manca nel
18
nostro ordinamento , ma per la quale i tempi sembrano essere ormai
19
sufficientemente maturi , anche per l’esplicita sussunzione della
20
problematica nella sede comunitaria .
Non si tratta però di un ruolo minore. Si tratta invece della certezza che del
mobbing – fenomeno tipico della società industriale post-fordista, che, con le
necessità della produzione competitiva ed il massiccio ricorso a tecnologie,
rischia di dimenticare la figura del lavoratore, dissolvendone l’identità e
relegandolo nuovamente ad entità “economica” – bisogna innanzitutto
parlarne. Secondo una nota affermazione, individuare i problemi esistenti
significa aver semplificato anche i problemi stessi: nel caso del mobbing
riconoscerne l’esistenza significa già un po’ sconfiggerlo, perché esso si cala
nelle inconsapevolezze e, a volte, nell’interesse a nasconderlo sotto la
parvenza di comportamenti legittimi assunti nel superiore interesse
organizzativo.
Attualmente la patologia sociale del mobbing sembra essere stata esportata
anche nel settore pubblico. Agiscono qui le logiche di immedesimazione con
il settore privato, spesso acritiche ed irrazionali, le nuove necessità del
servizio pubblico competitivo e concorrenziale, ma, soprattutto, le
dinamiche istaurate dall’introduzione di nuovi modelli manageriali.
Il nuovo management pubblico risponde del raggiungimento degli obiettivi
dati, nella logica del coinvolgimento con i risultati attesi dalla comunità e del
rapporto fiduciario con l’organo politico, ora competente alla sua nomina,
rimozione, mancata conferma. Quest’effetto di precarizzazione, oltre a
fungere da fattore potenzialmente mobbizzante per lo stesso dirigente
pubblico, lo spinge fatalmente a pressioni sulla struttura che dirige, in un
circuito che rischia di divenire vizioso, non solo per la divergenza degli
interessi in campo (fra dirigente proteso al risultato e dipendente che ne è
potenzialmente indifferente), ma, anche, per l’incompetenza organizzativa
dello stesso manager pubblico, addestrato spesso al diritto ma non alla
gestione delle risorse umane ed alla convivenza organizzativa.
del coinvolgimento, tramite la legge sub iudice, di datori di lavoro operanti in strutture
amministrative dello Stato, non facenti parte degli apparati regionali, ma nei confronti dei quali
si eserciterebbe il potere coercitivo discendente dall’attuazione dei procedimenti previsti dalla
medesima legge), il Governo ha sollevato questione di costituzionalità (su tale tematica vedi
Caterina Cordella, in questo volume, pag. 75).
19
Solo nella XIV legislatura sono stati presentati complessivamente 14 progetti di legge.
20
Cfr. la Risoluzione del Parlamento europeo del 20 settembre 2001.
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Il mobbing nel CCNL del personale
del Comparto Ministeri 2002-2005
di Elvira Gentile*
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1. Negli ultimi anni si è registrata un’ampia diffusione delle situazioni di
mobbing anche nelle pubbliche amministrazioni, per cui da più parti è
emersa l’esigenza di una definizione normativa di misure idonee ad evitare
l’estensione del fenomeno ed a garantire la tutela dei dipendenti interessati.
In tale scenario di forte attenzione al problema espresso non solo dalle
istituzioni europee e governative, ma anche dalle parti sociali, il rinnovo del
contratto collettivo nazionale di lavoro per la tornata contrattuale 2002-2005
del Comparto Ministeri ha costituito l’occasione per un intervento della fonte
negoziale pubblica sulla materia e, sotto tale profilo, l’attuazione della
specifica disciplina contrattuale costituisce il segnale più evidente della
sensibilità espressa al riguardo anche da parte di tutti i soggetti coinvolti nel
complesso sistema di contrattazione collettiva pubblica. In particolare,
l’esigenza di affrontare la tematica è stata rappresentata sia dalle
organizzazioni sindacali, mediante l’inserimento di una specifica richiesta
nelle loro piattaforme, sia anche dalle amministrazioni del Comparto, che,
attraverso il relativo Comitato di settore, hanno manifestato il loro
intendimento di assumere delle iniziative al riguardo. In proposito, va del
resto precisato che i Comitati di settore, nella loro qualità di organismi
rappresentativi delle istanze associative delle P.A., esercitano il potere di
inviare atti di indirizzo all’Agenzia negoziale, al fine di fornire indicazioni
circa i contenuti del contratto, pur nel pieno rispetto dell’autonomia collettiva.
Ed è proprio nell’atto di indirizzo per il Comparto dei Ministeri del 5 agosto
2002 che si segnala la necessità di affrontare il tema della tutela dei
dipendenti contro il mobbing, ritenendo decisivo, in mancanza di una
organica disciplina legislativa, l’approccio contrattuale, al fine di creare uno
spazio di mediazione sindacale alla materia.
*Responsabile Comparto Ministeri dell’ARAN.
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2. Nel quadro di tale ampia convergenza di interessi, quindi l’ARAN e le
organizzazioni sindacali hanno affrontato il delicato compito di tradurre in
termini normativi le numerose istanze di intervento sulla materia,
individuandone le relative soluzioni tecniche nell’ambito delle competenze
conferite dalla legge alla fonte negoziale.
Il progetto è stato fin dall’inizio quello di indirizzare la disciplina
contrattuale verso un duplice obiettivo: da una parte, definire modalità per
favorire una più generale sensibilizzazione personale circa l’esistenza del
fenomeno nell’ottica di prevenirne l’estensione, dall’altra individuare forme
più incisive di controllo delle situazioni di mobbing, anche attraverso la
predisposizione di appositi meccanismi, per così dire, di repressione.
Nell’ottica del perseguimento di tali finalità, però, le parti hanno dovuto
anche tener conto della peculiarità della tematica in esame che, da un lato,
investe aspetti comportamentali e direttamente attinenti alla sfera personale
dei lavoratori e dall’altro, invece, incide su elementi legati all’ambiente di
lavoro, con la conseguente necessità di operare anche interventi di tipo
organizzativo e gestionale, che esulano dalle competenze della contrattazione
per investire più direttamente i poteri di organizzazione dell’amministrazione.
Va pertanto chiarito che, in base alle vigenti disposizioni del d. lgs. n. 165
del 2001, il contratto si configura come la fonte di regolazione di tutte le
materie del rapporto di lavoro e delle relazioni sindacali, mentre non è nella
disponibilità delle parti l’assunzione di iniziative di tipo organizzativo, che
spettano alle amministrazioni o alla legge.
Si è trattato pertanto di costruire un sistema che, pur rimanendo
nell’ambito delle competenze proprie dello strumento negoziale, consentisse,
in una prospettiva di lungo termine, di recuperare le indicazioni anche di
tipo organizzativo e gestionale derivanti dalla risoluzione del Parlamento
europeo o dai lavori della Commissione governativa.
Sotto tale profilo il modello negoziale delineato è riuscito nell’intento di
contemperare le diverse esigenze, predisponendo, in modo efficace, una
articolata serie di soluzioni.
3. Innanzitutto l’art. 6 del CCNL si apre con una definizione delle
connotazioni salienti del fenomeno, che viene individuato come forma di
violenza morale o psichica attuata nei confronti di un lavoratore dal datore
di lavoro o da altri dipendenti e caratterizzata da una serie di atti,
atteggiamenti o comportamenti, diversi e ripetuti nel tempo in modo
sistematico ed abituale, aventi connotazioni aggressive, denigratorie e
vessatorie tali da comportare un degrado delle condizioni di lavoro,
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compromettere la salute, la professionalità o la dignità del lavoratore stesso
nell’ambito dell’ufficio di appartenenza oppure, addirittura, escluderlo dal
contesto lavorativo.
Entrando, poi, nel merito della disciplina, il testo contrattuale, nel seguire
lo schema prevenzione/repressione, riporta soluzioni tipologicamente
differenziate sotto il profilo applicativo, in relazione alla finalità perseguita:
infatti, per quanto attiene alla prevenzione, è stato privilegiato il ruolo di
mediazione del sindacato attraverso l’istituzione di un Comitato paritetico ad
hoc con compiti di analisi e propositivi, mentre, sotto il profilo della
repressione, si è optato per la scelta, indubbiamente più operativa, di
prevedere, nell’ambito del codice disciplinare, specifiche sanzioni per i
dipendenti responsabili di atti di mobbing.
L’elemento centrale del progetto negoziale è costituito, senza dubbio, dal
Comitato Paritetico, che è sembrato, del resto, non solo coerente con l’attuale
assetto contrattuale, fortemente partecipativo, ma anche particolarmente
opportuna dal punto di vista operativo, in quanto individua uno spazio di
confronto con le organizzazioni sindacali, che consente di pervenire
all’elaborazione congiunta, e pertanto condivisa, di eventuali proposte.
In altri termini, il Comitato si configura come momento di verifica delle
posizioni del sindacato e delle amministrazioni, al fine di pervenire ad un
punto di equilibrio tra le stesse per la predisposizione di iniziative comuni,
che in quanto tali assumono maggiore peso anche ai fini di una successiva e
concreta attuazione da parte dell’amministrazione.
Del resto, l’attenzione manifestata dalle parti per una soluzione partecipata,
risulta essere anche conforme allo spirito della riforma del pubblico impiego,
avviata con il d. lgs. n. 29 del 1993 e proseguita con i successivi decreti di
modifica, ora accorpati nel d. lgs. n. 165 del 2001, che ha individuato uno dei
suoi cardini nella definizione di un articolato e moderno sistema di relazioni
sindacali, che lungi dal ripristinare elementi di cogestione, ormai
definitivamente superati, costituisse un forte supporto al cambiamento, sulla
base del principio che il processo di trasformazione e, quindi, di
privatizzazione del rapporto di lavoro potesse essere attuato in tempi rapidi
e con esito positivo, solo se condiviso anche dai lavoratori, piuttosto che
imposto in modo unilaterale.
4. Sotto il profilo giuridico, tale Comitato trova il suo fondamento nell’art.
44 del d. lgs. n. 165 del 2001, che prevede specifiche forme e procedure di
partecipazione sindacale all’organizzazione del lavoro, la cui disciplina
viene demandata alla disponibilità collettiva.
113
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114
I Comitati sono privi di funzioni negoziali, ma con precise competenze
preordinate alla raccolta di dati e alla formulazione di proposte su specifiche
tematiche riguardanti l’organizzazione del lavoro, nel pieno rispetto delle
prerogative dell’amministrazione.
Nell’ambito della generale disciplina pattizia di tali organismi, che si
colloca nella parte del CCNL dedicata alle relazioni sindacali, si distingue,
sicuramente per la specifica regolamentazione contrattuale, il Comitato per le
pari opportunità, già operativo da tempo nelle amministrazioni pubbliche.
Anche per il Comitato sul mobbing il CCNL individua una disciplina
dettagliata che ne definisce con precisione i compiti, la composizione ed il
funzionamento.
Un aspetto interessante dell’attività dei Comitati è costituito, senza dubbio,
dalla possibilità di effettuare l’analisi dell’entità e della diffusione del
fenomeno, attraverso l’acquisizione e l’elaborazione di tutti i dati informativi.
Il CCNL si preoccupa anche di orientare l’indagine conoscitiva verso
l’individuazione delle possibili cause, con particolare riferimento alla
verifica dell’esistenza di condizioni di lavoro o di fattori organizzativi e
gestionali che possano determinare l’insorgere di situazioni persecutorie o di
violenza morale.
Sul versante della funzione propositiva del Comitato, la norma contrattuale
offre una serie di indicazioni che tendono a riproporre talune iniziative di
tipo organizzativo, già presenti nei documenti di altre istituzioni, europee,
governative o parlamentari, come già sopra precisato, con particolare
riferimento alla costituzione e al funzionamento di sportelli di ascolto,
all’istituzione della figura del consigliere/consigliera, nonché alla
definizione di eventuali codici di comportamento.
È evidente che la norma contrattuale tende a dare ampio rilievo al ruolo
propulsivo del Comitato, la cui efficacia si misura proprio nella capacità
degli stessi di stimolare le amministrazioni, pur nel rispetto della loro
autonomia e la responsabilità, a far proprie alcune iniziative di tipo
organizzativo e gestionale, che costituiscono i fattori operativi della tutela dei
dipendenti da eventuali azioni di mobbing.
5. Nel quadro delle misure volte a prevenire il verificarsi del fenomeno del
mobbing, il CCNL attribuisce un ruolo rilevante alla formazione che viene
esplicitamente individuata come elemento di indubbie potenzialità nel
quadro delle iniziative per la prevenzione del fenomeno.
Il tema generale della formazione, per quanto attiene alle linee
fondamentali, già costituisce materia di confronto con le organizzazioni
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sindacali nell’ambito della contrattazione integrativa, ma la previsione di un
intervento propositivo del Comitato paritetico si fonda sull’opportunità,
condivisa dalle parti, di attivare per il mobbing un tipo di formazione
specialistica, diretta a fornire gli opportuni elementi informativi teorici e
pratici sul fenomeno, che consenta al personale di distinguerne le peculiari
connotazioni persecutorie.
Gli obiettivi di tale attività didattica sono orientati, altresì, a favorire
l’apprendimento del corretto svolgimento dei rapporti interpersonali
all’interno dell’ambiente di lavoro, soprattutto in relazione all’acquisizione
della piena consapevolezza delle proprie competenze e delle proprie
responsabilità.
Una formazione mirata agli aspetti relazionali e comportamentali
potrebbe, del resto, avere effetti positivi anche nella prospettiva della
realizzazione di un maggiore coinvolgimento del personale nell’ambiente
lavorativo e di una maggiore coesione all’interno degli uffici, tutti
elementi che si configurano come presupposti indispensabili per evitare il
diffondersi delle situazioni di mobbing.
6. Al fine di dare maggiore incisività al progetto contrattuale, viene
stabilito, per l’istituzione dei Comitati paritetici, il termine di sessanta giorni
dal momento dell’entrata in vigore del CCNL. Essi sono costituiti da un
componente designato da ciascuna delle organizzazioni sindacali di
comparto firmatarie del presente CCNL e da un pari numero di
rappresentanti dell’amministrazione.
Il Presidente del Comitato, per ovvi motivi di organizzativi e logistici, viene
designato tra i rappresentanti dell’amministrazione ed il vicepresidente dai
componenti di parte sindacale. Per ogni componente effettivo è previsto un
componente supplente.
Pur confermando la composizione paritetica dei Comitati, la norma
contrattuale prevede che di essi faccia parte anche un rappresentante del
Comitato per le pari opportunità, appositamente designato da quest’ultimo,
allo scopo di garantire il raccordo tra le attività dei due organismi. Tale
collegamento è diretto a favorire un’auspicabile sinergia di azioni positive,
anche al fine di garantire l’omogeneità delle proposte e dei comportamenti.
Per quanto attiene alla durata, i Comitati rimangono in carica per un
quadriennio e, comunque, fino alla costituzione dei nuovi. I componenti dei
Comitati possono essere rinnovati nell’incarico per un solo mandato.
Con riferimento agli aspetti logistici, viene inoltre previsto un adeguato
supporto all’attività dei Comitati da parte delle Amministrazioni, che sono
115
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116
tenute a favorire l’operatività degli stessi e a garantire tutti gli strumenti
idonei al loro funzionamento.
Al fine di fornire tutti i presupposti per la più ampia diffusione dei risultati
dell’attività dei Comitati nell’ambito lavorativo, il CCNL prevede, da parte
dell’amministrazione interessata, una idonea attività di valorizzazione e di
pubblicizzazione della loro attività, che risulta indispensabile per perseguire
quegli obiettivi di sensibilizzazione e di denuncia dell’esistenza del
fenomeno e delle conseguenze negative della sua diffusione, su cui si fonda
la scelta contrattuale di istituire i Comitati. I Comitati stessi sono, del resto,
tenuti a svolgere una relazione annuale sull’attività svolta.
7. Come già accennato, oltre all’aspetto della prevenzione delle situazioni
di mobbing, CCNL ha voluto dare un segnale forte anche per quanto attiene
alle iniziative di “repressione” dei comportamenti illeciti e, riprendendo
alcune proposte presentate nei disegni di legge presentati al Parlamento,
individua, all’art. 13, nell’ambito del codice disciplinare alcune specifiche
sanzioni per quei dipendenti che si rendono responsabili di atti di mobbing.
Come è ovvio, la materia disciplinare è di diretta pertinenza dell’autonomia
negoziale e quindi è stato possibile mettere a punto interventi
immediatamente operativi.
Nel quadro di una revisione del sistema delle sanzioni, determinato dalla
necessità di adeguare la precedente regolamentazione alle recenti
disposizioni legislative intervenute sulla materia, l’elencazione delle
infrazioni è stata integrata con il riferimento alle situazioni di mobbing, per
le quali vengono previste, anche il relazione alla gravità delle azioni
commesse, delle sanzioni ad esse proporzionali.
Pertanto, coerentemente con quanto previsto per tutto il codice
disciplinare, anche per i casi in esame è stato riaffermato il principio della
gradualità e proporzionalità delle misure disciplinari, che sono classificate a
seconda della gravità dei comportamenti. In particolare, in considerazione
delle conseguenze negative che le situazioni di mobbing determinano, sia
sull’andamento dell’ufficio che sulla personalità del lavoratore interessato, si
è ritenuto di non prevedere misure disciplinari di lieve entità, come il
rimprovero o la multa, ma solo sanzioni di maggior spessore, che vengono
articolate dalla sospensione dal servizio per 10 giorni al licenziamento,
tenendo anche conto delle possibili recidive.
8. Si ritiene che in mancanza di un riferimento legislativo che presuppone
un più ampio ed organico intervento sulla materia, la contrattazione non
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poteva fare di più, anche in considerazione degli ambiti di competenza che
le sono conferiti, come sopra rappresentato: in una prospettiva futura, il
modello attuato potrà essere rivisto e completato. In tale ottica sarebbe
auspicabile un’analisi più precisa delle connotazioni che va assumendo tale
fenomeno nelle pubbliche amministrazioni, che potrebbe costituire un
interessante presupposto conoscitivo per orientare gli eventuali sviluppi
negoziali sulla materia.
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DOTTRINA
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Santaniello, M., Molestie sessuali nei luoghi di lavoro, Franco Angeli/SelfHelp, Milano, 1998.
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Schmidt, E., Comunicazione nelle organizzazioni, Edizione Unicopli,
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Weick K. E., Senso e significato nell’organizzazione, Raffaello Cortina,
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Zipoli S., Paolillo V., Santoro M.A., Bonelli. L, Un caso di mobbing ante
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CAPITOLO 2
GIURISPRUDENZA
125
GIURISPRUDENZA
Massime
127
Tribunale di Milano, 4 maggio 2001
(Est. Martello)
Riferimenti normativi: art. 2103 c.c.; art. 115 c.p.c.
Rapporto di lavoro - mansioni e qualifiche - adibizione a mansioni inferiori dequalificazione - sussistenza - danno alla professionalità - oneri probatori ricorso all’art. 115 c.p.c. (“fatto notorio”) - ammissibilità - valutazione del
danno in via equitativa - criteri - danno da perdita di chances - esclusione in
presenza di promozioni non automatiche.
Nell’ambito del rapporto di lavoro l’assegnazione del lavoratore a
mansioni in concreto inferiori comporta un’illegittima dequalificazione che
non è esclusa dall’identità del livello di inquadramento professionale né dal
mantenimento del trattamento economico di base; in tal caso, il danno al
patrimonio professionale causato dall’impossibilità per il lavoratore di
svolgere le precedenti mansioni costituisce “fatto notorio” che il giudice, in
base all’art. 115 c.p.c., può porre a fondamento della decisione senza bisogno
di prova (fattispecie in cui il giudice ha riconosciuto il demansionamento di
un dipendente T.I.M., con obbligo di risarcire il connesso danno alla
professionalità).
In caso di demansionamento e di conseguente danno alla professionalità,
la determinazione dello stesso va compiuta in via equitativa con riferimento
alla quota della retribuzione complessiva nel periodo di demansionamento
corrispondente alla parte di retribuzione che compensa la capacità
professionale del lavoratore. Tra l’altro, l’assegnazione a mansioni diverse e
inferiori non produce danno da perdita di chances quando la promozione a
un livello superiore a quello attribuito prima del demansionamento non sia
GIURISPRUDENZA
automatica (nel caso di specie è stato riconosciuto solo il danno alla
professionalità nella misura pari al 72% della retribuzione mensile per ogni
mese di demansionamento).
Tribunale di Pisa, 10 aprile 2002
(Est. Nisticò)
128
Riferimenti normativi: art. 2087 c.c.
Rapporto di lavoro - mobbing - art. 2087 c.c. - tutela della personalità morale del
lavoratore - sussistenza - rilevanza autonoma rispetto ad altri potenziali effetti
negativi del mobbing (lesioni patrimoniali, cd. danno biologico, danno morale).
Nell’ambito del rapporto di lavoro il danno derivante dalla lesione alla
personalità morale del lavoratore, come costruito dall’art. 2087 c.c., ha
rilevanza autonoma rispetto al danno patrimoniale ed al c.d. danno
biologico (ed anche rispetto al danno morale). La disposizione in esame,
infatti, vieta ex se la molestia morale, indipendentemente dall’eventuale (e
concorrente) pregiudizio che possa altrimenti derivare per il lavoratore (sia
alla sua dimensione patrimoniale che a quella riferibile alla vita di
relazione), per configurare un obbligo risarcitorio determinato dal
comportamento tipizzato che non presuppone alcuna lesione comportante
una deminutio materiale o psicologica.
Il mobbing può anche cagionare una diversa lesione patrimoniale 0 alla
vita di relazione e così scemare la capacità reddituale o quella relazionale,
ma può anche esaurirsi in sé stesso, provocando, come nel caso di specie, il
solo disagio derivante dalla “pressione” (indebita) del datore di lavoro e
dunque la compromissione oggettiva della personalità del lavoratore. La
legge, infatti, non tutela (solo) l’integrità psicologica del lavoratore, ma la sua
personalità morale, che è cosa diversa e di diversi contenuti; ed il mancato
rispetto di tale obbligo di tutela, dunque, comporta il risarcimento del danno
al solo verificarsi della fattispecie vietata. Danno che in questo caso si
configura come danno esistenziale la cui valutazione sarà stimata
equitativamente dal giudice (nella fattispecie è stato riconosciuto il
risarcimento del danno ex art. 2087 c.c.).
GIURISPRUDENZA
Tribunale di Torino, 18 dicembre 2002
(Est. Sanlorenzo)
Rapporto di lavoro - mobbing - distinzione tra mobbing verticale (o bossing)
e orizzontale - criteri - art. 2103 c.c. - demansionamento cd. quantitativo definizione - danno alla professionalità - sussiste in re ipsa.
129
Il mobbing è una serie ripetuta e coerente di atti e comportamenti materiali
che trovano una ratio unificatrice nell’intento di isolare, di emarginare, e
fors’anche di espellere, la vittima dall’ambiente di lavoro. Si suddivide tra il
mobbing cd. “verticale”, quando esso viene attuato da un capo verso i
sottoposti, e quando è l’intera azienda che mette in atto una strategia diretta o
indiretta per rendere impossibile la vita a un dipendente sgradito in modo da
costringerlo a licenziarlo (il fenomeno in questione viene anche denominato, da
certi studiosi, come bossing), opposto al mobbing cd. “orizzontale”, che si
verifica quando un certo numero di colleghi emarginano qualcuno che, per
qualche motivo, il gruppo non vuole (nel caso di specie il giudice non ha
ravvisato la sussistenza di un situazione di mobbing nei confronti della
dipendente ritenendo, tra l’altro, consone al suo livello d’inquadramento le
mansioni assegnatele e, più in generale, gli episodi elencati frutto di una visione
parziale e prevenuta nei confronti dell’ambiente di lavoro).
Sussiste demansionamento cd. quantitativo se al dipendente viene
sottratta buona parte dei compiti lavorativi svolti fino a quel momento,
anche se non vi è in capo al datore di lavoro l’animus nocendi; in tali casi il
danno alla professionalità sussiste in re ipsa con una quantificazione che
tenga conto della effettiva presenza in azienda.
Tribunale di Forlì, 6 febbraio 2003
(Est. Sorgi)
Riferimenti normativi: artt. 2, 35 e 97 Cost.; artt. 2043 e 2087 c.c.
Rapporto di lavoro - mobbing - necessità di condotte illecite - esclusione condotta di per sé lecita posta in essere da un collega - responsabilità
contrattuale in capo al collega mobbizzante - sussistenza - responsabilità
extracontrattuale in capo alla P.A. datrice di lavoro - sussistenza - presupposti.
Il mobbing si configura anche quando, pur operando con condotte di per sé
GIURISPRUDENZA
130
lecite, il mobber realizza comunque, complessivamente, le condizioni per un
ambiente mobbizzante.
Quando la condotta mobbizzante si realizza tra colleghi – nella specie
medico specializzato e primario – il mobber risponde a titolo di
responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., essendo la responsabilità
contrattuale ex art. 2087 c.c. configurabile solo in capo al datore di lavoro.
Ai sensi degli artt. 2087 c.c., 2-35-97 Cost., sussiste in capo alla P.A. datrice
di lavoro l’obbligo giuridico di tutelare la dignità professionale e umana dei
propri dipendenti anche attraverso la risoluzione di situazioni di
conflittualità tra colleghi. Tale obbligo, se non adempiuto, può determinare
l’insorgere di un danno esistenziale nel soggetto “ferito” nella propria
professionalità, risarcibile in via equitativa.
Tribunale di Lecce, ord. 31 agosto 2001
(Pres. Invitto - Rel. Buffa)
Riferimenti normativi: artt. 1228, 2049 e 2087 c.c.
Rapporto di lavoro - mobbing - comportamento vessatorio ed illecito da parte
di un dirigente sovraordinato (cd. bossing) - diritto del lavoratore a non
essere dequalificato - sussistenza - obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c.
gravante sulla P.A. datrice di lavoro - conseguente dovere per la P.A. di
impedire comportamenti vessatori di alcuni lavoratori su altri - sussistenza.
Quando non si è in presenza di una mera dequalificazione, bensì di un
comportamento vessatorio ed illecito nei confronti del dipendente, vittima di
vero e proprio bossing aziendale ad opera di un dirigente a lui sovraordinato,
la legge tutela il diritto del lavoratore a non essere dequalificato e a svolgere
effettivamente le mansioni formalmente spettatigli.
La P.A. datrice di lavoro, in quanto titolare dell’obbligo di sicurezza ex art.
2087 c.c. nei confronti dei dipendenti nonché responsabile, come tale, anche
del comportamento vessatorio ed illecito dei suoi dipendenti nei confronti di
altri (artt. 1228 e 2049 c.c.), ha il preciso dovere di intervenire per rimuovere
una situazione non più tollerabile all’interno dell’ufficio e di evitare
un’ulteriore lesione della personalità fisica e morale del lavoratore.
Correttamente, dunque, l’azione cautelare è incardinata solo nei confronti
della P.A.; per converso il dipendente autore delle condotte vessatorie ed
illecite non è litisconsorte necessario del rapporto dedotto in giudizio,
GIURISPRUDENZA
potendosi verso quest’ultimo azionare altri rimedi civilistici.
Non sussiste il difetto di giurisdizione del g.o. relativamente ai provvedimenti
incidenti sull’organizzazione della P.A.: infatti, nell’assetto normativo
disegnato dal d. lgs. n. 29/93 (come modificato dal d. lgs. n. 80/98 e 387/98) la
P.A. agisce “con i poteri e le capacità del privato datore di lavoro” e il giudice
ordinario “può adottare nei confronti dell’amministrazione tutti i
provvedimenti richiesti dalla natura del diritto tutelato”.
Tribunale di Venezia, 15 gennaio 2003
(Est. Ferretti)
Riferimenti normativi: artt. 2087 e 2935 c.c.
Rapporto di lavoro - mobbing attuato da un dipendente sovraordinatodefinizione - diritto al risarcimento danni (sub specie di lesione
patrimoniale, lesione alla personalità morale, danno biologico, perdita di
chance) - sussistenza - prescrizione - decorrenza - momento in cui la condotta
mobbizzante è cessata.
Il comportamento adottato dal superiore nei confronti del dipendente a
lui sotto-ordinato può essere qualificato come mobbing in relazione alla
durata del fenomeno e alla pluralità di atti e provvedimenti tendenti ad
indurre nel destinatario situazioni di disagio, difficoltà e disistima verso se
stesso; sono tali: la privazione di poteri normalmente conferiti alla
posizione professionale, il trasferimento “punitivo” e la dequalificazione
professionale, la vigilanza eccessiva, il demansionamento, gli
atteggiamenti umilianti.
Il dies a quo di decorrenza della prescrizione ex art. 2935 del diritto al
risarcimento dei danni conseguenti al comportamento mobbizzante e
immediatamente prodottisi nella sfera giuridica del mobbizzato in termini
di danno patrimoniale, di lesione della sua personalità morale, di danno
biologico per le malattie verificatesi, di perdita di chances, coincide con il
momento in cui la condotta mobbizzante è cessata.
131
GIURISPRUDENZA
Tribunale di Forlì, 15 marzo 2001
Riferimenti normativi: artt. 2043 e 2087 c.c.
Rapporto di lavoro - mobbing - onere della prova - ripartizione.
132
Allorquando, in caso di mobbing, sul datore di lavoro sussista sia
responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c. sia responsabilità
extracontrattuale ex art. 2043 c.c., l’onere della prova deve essere ripartito
nel modo più favorevole al dipendente, quindi adottando il regime
contrattuale, in base al quale incombe sul datore di lavoro l’onere di
dimostrare di aver posto in essere tutte le misure necessarie alla tutela
dell’integrità psicofisica del dipendente, mentre incombe sul lavoratore
l’onere di dimostrare l’esistenza del nesso di causalità tra comportamento
del datore di lavoro ed evento lesivo.
Tribunale di Forlì, 15 marzo 2001
Rapporto di lavoro - mobbing - definizione - danno esistenziale - presupposti valutazione equitativa - criteri.
Integrano un’ipotesi di mobbing, in particolare di cd. bullyng, comportamenti
posti in essere da un lavoratore sovra-ordinato quali l’ingiustificato
trasferimento, il demansionamento, il difetto di confronto con i superiori,
l’eliminazione di particolari “status”, il sistematico disconoscimento datoriale.
Questi comportamenti vessatori possono provocare lesioni psico-somatiche,
pregiudicando le condizioni si salute della vittima: se non sia possibile altra
qualificazione risarcitoria, dovrà parlarsi di danno esistenziale, quantificabile,
nell’ambito di una valutazione equitativa del danno o della sofferenza patita, in
base ai parametri del tempo e della retribuzione.
Tribunale di Como, 22 maggio 2001
Riferimenti normativi: artt. 32 e 41 cost.; artt. 1226, 2056 e 2087 c.c.
Rapporto di lavoro - mobbing - definizione - danno esistenziale - presupposti
- valutazione equitativa - criteri.
GIURISPRUDENZA
L’individuazione in concreto dei comportamenti che integrano il mobbing,
in quanto volti a respingere dal contesto lavorativo il soggetto mobbizzato (il
quale può riportare anche conseguenze negative di ordine fisico), deve essere
compiuta in base ai risultati della psicologia del lavoro internazionale e
nazionale. Questo fenomeno può causare un danno esistenziale o danno alla
vita di relazione, di natura sia contrattuale che extracontrattuale,
ogniqualvolta l’aggressione alla sfera della dignità del lavoratore non possa
ricevere una diversa qualificazione risarcitoria: in tal caso, il danno potrà
essere liquidato in via equitativa, ex artt. 1226 e 2056 c.c., in base ai
parametri del tempo e della retribuzione.
Tribunale di Milano, 11 febbraio 2002
Riferimenti normativi: art. 2087 c.c.
Rapporto di lavoro - mobbing - definizione.
Costituisce mobbing una serie di fatti e comportamenti posti in essere dal
datore di lavoro al fine di vessare il lavoratore, rendendone penosa la
prestazione. Va escluso, quindi, che ricorra mobbing nel caso di
comportamenti del datore di lavoro comunque giustificabili, ad esempio alla
luce di oggettive situazioni aziendali di dissesto, ovvero di gravi
inadempimenti contrattuali del dipendente.
Tribunale di Milano, 20 maggio 2000
Riferimenti normativi: art. 1225 c.c.
Rapporto di lavoro - mobbing - onere di provare l’esistenza e la potenzialità
lesiva del fatto - sussistenza.
Sul lavoratore che invochi il risarcimento del danno derivante da mobbing,
incombe l’onere di provare l’esistenza del fatto e la sua potenzialità lesiva.
(Nella specie il tribunale ha riformato la decisione di primo grado, ritenendo
che l’assenza di sistematicità e la scarsità degli episodi lamentati, nonché la
loro oggettiva attinenza alla vita di tutti i giorni all’interno di un contesto
produttivo – che come tale è anche luogo di contatto e di scontro umano –
esclude che i comportamenti lamentati possano integrare il mobbing).
133
GIURISPRUDENZA
Tribunale di Taranto, 7 marzo 2002
Riferimenti normativi: artt. 56 e 610 c.p.
Rapporto di lavoro - mobbing - configurabilità del reato di violenza privata ammissibilità - limiti.
134
È configurabile il reato di tentata violenza privata, ex art. 610 c.p., in
ipotesi di c.d. mobbing, quando la costante pressione di una minaccia
determina nella vittima una condizione patologica caratterizzata da una
sensazione di timore, associata a segni somatici indicativi di iperattività del
sistema nervoso autonomo, tale da sfociare poi in una sindrome
postraumatica da stress, quando l’esposizione all’evento traumatico dura
oltre sei mesi.
Tribunale di Venezia, 26 aprile 2001
Rapporto di lavoro - mobbing - richiesta risarcimento danni da dequalificazione
professionale - prescrizione - decorrenza.
Non essendo rinvenibile nell’ordinamento una fattispecie legale di
mobbing, più domande di risarcimento per i danni da dequalificazione
professionale non possono essere unificate, poiché non riconducibili a un
illecito contrattuale permanente consistente in comportamenti persecutori
sistematici. La prescrizione delle richieste di risarcimento dei danni da
dequalificazione professionale, quindi, decorre dalla manifestazione di ogni
singolo evento dannoso.
GIURISPRUDENZA
Sentenze massimate
con testo integrale
135
Corte di Cassazione, sezione lavoro, 22 febbraio 2003, n. 2763
(Pres. ed Est. Dell’Anno)
Riferimenti normativi: art. 2103 c.c.
Rapporto di lavoro - mansioni e qualifiche - art. 2103 c.c. - diritto del
lavoratore allo svolgimento effettivo della propria prestazione - sussistenzaconseguenze - diritto al risarcimento del danno professionale causato dalla
negazione o dall’impedimento allo svolgimento delle mansioni.
L’art. 2103 attribuisce al lavoratore nei confronti del datore di lavoro il
diritto all’effettivo svolgimento della propria prestazione professionale, con
la conseguenza che la lesione di tale diritto da parte del datore di lavoro
costituisce inadempimento contrattuale e determina, oltre a quello di
corrispondere le retribuzioni dovute, l’obbligo di risarcire il danno da
dequalificazione professionale. Tale danno (detto anche danno
professionale) può assumere aspetti diversi, essendo configurabile sia quale
danno patrimoniale derivante dall’impoverimento della capacità
professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una
maggiore capacità, sia quale pregiudizio subito per perdita di chance ossia
di ulteriori possibilità di guadagno sia, infine, in una lesione del diritto del
lavoratore all’integrità fisica o, più in generale, alla salute ovvero
all’immagine o alla vita di relazione. In particolare, la negazione o
l’impedimento allo svolgimento delle mansioni, al pari del
demansionamento professionale, ridondano in lesione del diritto
fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore anche
nel luogo di lavoro, determinando un pregiudizio che incide sulla vita
GIURISPRUDENZA
136
professionale e di relazione dell’interessato, con una indubbia dimensione
patrimoniale che rende il pregiudizio medesimo suscettibile di risarcimento
e di valutazione anche in via equitativa. (Nel caso di specie, in applicazione
degli accennati principi, la Corte ha cassato la sentenza di merito che, pur
avendo accertato la circostanza della “scarsissima attività o totale inattività”
da parte del lavoratore, aveva tuttavia ritenuto che tale circostanza non
poteva legittimare una condanna al risarcimento di danni da
dequalificazione, non avendo comportato una decurtazione della
retribuzione né una diminuzione delle attitudini lavorative del soggetto).
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso al tribunale di Milano del 22 dicembre 1998, Z. S. espose che:
a) la società B. I., alle dipendenze della quale prestava attività lavorativa
quale dirigente, avendo costituito la società B. S. per la realizzazione di un
programma di investimenti nelle regioni meridionali italiane, gli aveva
proposto di assumere in questa le funzioni di vice direttore generale e che
tale proposta era stata da lui accettazione venendogli assicurato il rientro in
posizione adeguata; b) dopo un iniziale periodo, emerse un graduale
disimpegno della società B. I. nei confronti della attività della seconda e, a
partire dal 1° giugno 1994, si operò una progressiva sua dequalificazione
tanto che, pur essendo stato nominato direttore generale, di fatto venne
escluso dallo svolgimento delle mansioni primarie proprie di tale figura; c)
con lettera del 22 febbraio 1995, gli venne comunicato dal Consiglio di
amministrazione della società che era stata abolita la posizione di direttore
generale e con altra del giorno successivo, la B. I. gli aveva proposto il rientro
presso essa con le funzioni di responsabile del personale della direzione
della assistenza tecnica; d) aveva svolto, a partire dal 1° aprile 1995, le
inferiori mansioni fino a tutto l’anno successivo, restando inattivo per il
periodo successivo fino alla data del 30 aprile 1998, in cui accettò la proposta
di una risoluzione consensuale del rapporto di lavoro. Ciò premesso, lo Z.
convenne in giudizio la società B. I., chiedendone la condanna al
risarcimento del danno morale, di immagine e biologico conseguente alla
dequalificazione, all’indennità sostitutiva del preavviso e a quella
supplementare con riferimento alle dimissioni – da qualificarsi come
licenziamento – con successiva riassunzione, al risarcimento dei danni per
mancata corresponsione degli incentivi e per la unilaterale riduzione delle
ferie dall’anno 1996 in poi. Costituitosi il contraddittorio, il tribunale, in
composizione monocratica, rigettò la domanda con pronuncia del 12
GIURISPRUDENZA
novembre 1999. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di Appello di
Milano ha ritenuto infondata l’impugnazione dello Z., rilevando che:
1. la pretesa di qualificare come licenziamento la risoluzione del rapporto
con la società B. S. era ingiustificata, essendo incontestabilmente risultato che
essa era conseguita a un concorde atto di volontà delle parti che manifestarono
il loro reciproco consenso su tutti gli aspetti della questione, ivi compresi
quelli di natura economica venendo riconosciute al dipendente particolari e
cospicue indennità, a nulla rilevando che la relativa lettera non fosse stata
formalmente sottoscritta dallo Z. ed essendo rimaste totalmente indimostrate
le affermazioni dello stesso circa una violenza morale su lui esercitata,
smentite del resto dalla condizione del rientro presso la società capo-gruppo
all’atto della accettatone della proposta del passaggio alla società controllata;
2. era da escludersi la sussistenza della asserita dequalificazione per il
periodo trascorso presso la società B. S., mai essendo stato utilizzato lo Z. in
mansioni non proprie di un dirigente;
3. il nuovo rapporto con la società B. I. trovava la sua origine non nel
contratto con la società B. S., ma nell’atto di assunzione del 27 marzo 1995
da parte della prima nel quale erano assenti specifiche pattuizioni, dovendo
la società esclusivamente rispettare l’impegno di “assicurare allo Z. (come
dallo stesso, del resto, sostenuto) una posizione adeguata al background
professionale maturato”, il che significava solo che dovesse essere assunto
con qualifica dirigenziale, come era avvenuto, e non per ricoprire la stessa
posizione precedente;
4. se era vero che per l’ultimo periodo di sedici mesi il dipendente restò
privo di mansioni e quindi inattivo, tuttavia il fatto, pur avendo potuto
provocare un certo disagio e disadattamento, non poteva essere configurato
come presupposto per una condanna al risarcimento di danni da
dequalificazione, non avendo comportato una decurtazione della
retribuzione né una diminuzione delle attitudini lavorative del soggetto, non
essendo neanche stato prospettato che, per effetto di ciò, allo stesso si rese
impossibile un avanzamento di carriera nella azienda o che si fossero
ricercate altre scelte di inserimento professionale che vennero ostacolate da
una presunta intervenuta diminuzione della attività lavorativa;
5. quanto agli incentivi, era risultata provata la loro natura eventuale e
discrezionale, mentre, con riferimento alla indennità sostitutiva di ferie non
godute, essa non può ritenersi dovuta a un dirigente che, per sua stessa scelta
– come nella specie – rinunci al riposo annuale. Della decisione viene chiesta
la cassazione dallo Z. con ricorso sostenuto da tre motivi e illustrato con
memoria. La società intimata resiste con controricorso.
137
GIURISPRUDENZA
MOTIVI DELLA DECISIONE
138
Con il primo motivo – denunciando violazione e falsa applicazione degli
articoli 2118, 2119, 2697 e 1362 del codice civile, omessa, insufficiente, e
contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia – il
ricorrente deduce che erroneamente la Corte di Appello di Milano ha
ritenuto che non dovesse qualificarsi come licenziamento l’allontanamento
dello Z. dalla società B. S., limitandosi a osservare che, formalmente, dalla
lettera del 27 marzo 1995 (non sottoscritta dal dipendente), con la quale si
comunicava la risoluzione del rapporto, si evinceva che questa era dovuta a
una concorde volontà delle parti, e ciò in contrasto con la tesi difensiva di un
recesso unilaterale da parte dell’impresa, non confortata da alcun elemento
probatorio. Secondo il ricorrente, il giudice di merito avrebbe totalmente
trascurato di valutare le circostanze, non contestate dalla controparte, che in
senso opposto inequivocabilmente deponevano, in quanto dimostravano che
il protrarsi della sua presenza presso la società costituiva un ostacolo al
realizzarsi dell’intendimento dei responsabili della capo-gruppo
all’affidamento delle responsabilità della conduzione della azienda ad altre
persone di maggiore gradimento e che l’adesione alla proposta, di una
risoluzione consensuale era stata imposta – e necessitatamente subita – quale
unica alternativa al licenziamento. In una tale situazione, avendo lo Z.
fornito la prova della sua estromissione dal rapporto, incombeva sul datore
di lavoro l’onere di dimostrare che questa non era dovuta all’allegato
licenziamento ma era stata la conseguenza di una consensuale risoluzione
dello stesso.
La censura è infondata. E invero, la Corte di Appello, con argomentazioni
logicamente e giuridicamente corrette, ha fornito ragione del perché dovesse
ritenersi per provato che nella specie la cessazione del rapporto tra lo Z. e la
società B. S. si pose come fatto terminale, e ampiamente previsto, di un
complesso regolamento negoziale che ebbe il suo avvio sin nel momento in
cui il primo accettò di transitare nella seconda alla condizione di un suo
rientro presso la B. I., il che puntualmente si verifica contestualmente alla
sua uscita dalla B. S., venendo concordato il riconoscimento di “particolari e
cospicue indennità”. D’altra parte, a fronte delle prove documentali attestanti
una consensuale risoluzione del rapporto, il ricorrente si limita ad opporre
una diversa ricostruzione della vicenda affidata esclusivamente ad
affermazioni svolte in maniera totalmente assertoria.
Con il secondo e articolato motivo, lo Z. lamenta violazione e falsa
applicazione degli articoli 2103, 1218, 1226 e 2043 del codice civile nonché
GIURISPRUDENZA
vizi della motivazione nelle parti in cui il giudice del merito ha ritenuto che
non potesse trovare accoglimento la domanda, di risarcimento dei danni
causatigli dal demansionamento delle funzioni di dirigente pervicacemente
operato a suo carico nel corso della attività prestata sia presso la B. S. che
presso la B. I. nel periodo successivo al suo rientro in questa, nel corso del
quale restò totalmente inattivo per tutti i sedici mesi antecedenti alle
dimissioni finali.
La censura è fondata con riferimento solo a quest’ultima parte per la quale
le ragioni, che hanno indotto la Corte di Appello di Milano al rigetto della
richiesta di risarcimento dei danni subiti dallo Z. a causa della mancanza di
attività alla quale il datore di lavoro avrebbe dovuto assegnarlo, appaiono
insufficienti dal punto di vista sia logico che giuridico. Va infatti osservato
che il giudice di merito, pur avendo dato atto che la circostanza della
“scarsissima attività o totale inattività” da parte dello Z. per l’intero periodo
di cui sopra era rimasta non solo incontestabilmente provata ma anche
“lealmente ammessa” dalla stessa società, ha tuttavia ritenuto che essa, pur
avendo potuto provocare un certo disagio e disadattamento, non poteva
legittimare una condanna al risarcimento di danni da dequalificazione, non
avendo comportato una decurtazione della retribuzione né una diminuzione
delle attitudini lavorative del soggetto, per non essere risultato che, per
effetto di ciò, allo stesso si rese impossibile un avanzamento di carriera nella
azienda o che altre scelte di un diverso inserimento professionale fossero
state ostacolate da una intervenuta diminuzione delle attitudini lavorative.
Così argomentando, il giudice del merito ha ignorato i principi
costantemente affermati da questa Corte, che ha ripetutamente avuto modo di
sottolineare che dall’articolo 2103 del codice civile si desume che sussiste il
diritto del lavoratore all’effettivo svolgimento della propria prestazione
professionale e che la lesione di tale diritto da parte del datore di lavoro
costituisce inadempimento contrattuale e determina, oltre all’obbligo di
corrispondere le retribuzioni dovute, l’obbligo del risarcimento del danno da
dequalificazione professionale, che può assumere aspetti diversi in quanto
può consistere non solo nel danno patrimoniale derivante dall’
impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla
mancata acquisizione di una maggiore capacità o nel pregiudizio subito per
perdita di chance ossia di ulteriori possibilità di guadagno, ma anche – e tali
aspetti, nella specie, sono stati completamente trascurati – in una lesione del
diritto del lavoratore alla integrità fisica o, più in generale, alla salute ovvero
alla immagine o alla vita di relazione (per tutte, Cass., 14 novembre 2001, n.
14199). Più in particolare ancora, occorre ribadire che la negazione o
139
GIURISPRUDENZA
140
l’impedimento allo svolgimento delle mansioni, al pari del
demansionamento professionale, ridondano in lesione del diritto
fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore anche
nel luogo di lavoro, determinando un pregiudizio che incide sulla vita
professionale e di relazione dell’interessato, con una indubbia dimensione
patrimoniale che rende il pregiudizio medesimo suscettibile di risarcimento
e di valutazione anche in via equitativa (Cass. 2 gennaio 2002, n. 10).
Entro questi limiti il motivo di ricorso appare fondato, sicché si impone un
nuovo esame della questione, nel rispetto dei principi sopra enunciati, da
parte del giudice di rinvio che accerterà anche se l’infarto subito dallo Z.
debba porsi in relazione causale con l’inadempimento contrattuale del datore
di lavoro, ampiamente dimostrato.
Lo stesso motivo è invece manifestamente infondato per quanto attiene alle
censura nei confronti della motivazione della sentenza per la parte nella
quale il giudice di merito ha ritenuto che dovesse escludersi il denunciato
demansionamento durante il periodo in cui la attività lavorativa venne
prestata. E invero, a questo proposito sembra sufficiente osservare che lo
stesso ricorrente non lamenta che in punto di fatto egli sarebbe state adibito
a mansioni non dirigenziali e diverse da quelle appartenenti a un dirigente
dal ruolo formalmente attribuitogli negli organigrammi aziendali,
esaurendosi invece a dolersi del fatto che non tutte tali funzioni sarebbero
state da lui esplicate essendo state talune di esse assegnate ad altre persone,
nel che peraltro, con tutta evidenza, non può, in punto di fatto, configurarsi
ipotesi di demansionamento, appartenendo alla discrezione dell’imprenditore
la possibilità di assegnare a più preposti le responsabilità che pure, nella
prassi, sono affidate a un unico incaricato.
Con il terzo motivo, vengono denunciate violazione e falsa applicazione
dell’articolo 2897 del codice civile, nonché omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia per la
parte in cui si è rigettata la domanda alla indennità sostitutiva delle ferie non
godute.
Il rilievo è fondato, dovendo rilevarsi che – se è vero che, come si legge
nella sentenza impugnata, il dirigente, che, per propria libera scelta, rinunci
autonomamente a giovare dei giorni previsti contrattualmente per il riposo,
non ha diritto a corrispettivi economici sostitutivi – pur tuttavia la indennità
in questione spetta anche al dirigente che fornisca la prova che furono
obiettive necessità aziendali a ostare alla fruizione delle ferie (Cass. 27 agosto
1996, n, 7883). Orbene, a tale fine sarebbe stato necessario esaminare se,
almeno per il periodo cui fa riferimento la lettera del 9 marzo 1994 a firma di
GIURISPRUDENZA
tale Baggiani, che nel motivo è trascritta, l’eventuale (circostanza da
accertarsi in punto di fatto) mancato godimento di giorni di ferie dipese non
da scelta dello Z. ma da necessità di adeguarsi alle direttive dell’imprenditore.
Limitatamente quindi ai due punti sopra indicati (domanda di risarcimento
dei danni da inattività forzata e di indennità sostitutiva delle ferie per il
periodo interessato dal documento citato) si impone la cassazione della
sentenza impugnata con rinvio ad altro giudice che si designa, nella Corte di
appello di Brescia, alla quale si demanda di provvedere sulle spese
dell’intero processo.
P. Q. M.
la Corte rigetta il primo motivo del ricorso e accoglie, per quanto di ragione,
il secondo e il terzo; cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure
accolte e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Appello di Brescia.
141
GIURISPRUDENZA
Corte di Cassazione, sezione lavoro, 9 aprile 2003, n. 5539
(Pres. Sciarelli; Rel. Vidiri)
Riferimenti normativi: artt. 2043 c.c.; artt. 40 e 41 c.p.
142
Responsabilità civile - causalità (nesso di) - condizioni ambientali e fattori
naturali - sufficienza nella causazione del danno - responsabilità dell’agente
- esclusione - fondamento - concorso tra una causa naturale e una causa
umana imputabile- diminuzione percentuale della responsabilità - esclusione - fondamento- fattispecie.
In materia di rapporto di causalità nella responsabilità extracontrattuale, in
base ai principi di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., qualora le condizioni
ambientali od i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide
il comportamento imputabile dell'uomo siano sufficienti a determinare
l’evento di danno indipendentemente dal comportamento medesimo, l’autore
dell’azione o della omissione resta sollevato per intero da ogni responsabilità
dell’evento, non avendo posto in essere alcun antecedente dotato in concreto
di efficienza causale; qualora invece quelle condizioni non possano dar luogo,
senza l’apporto umano, all’evento di danno, l’autore del comportamento
imputabile è responsabile per intero di tutte le conseguenza da esso scaturenti
secondo normalità, atteso che in tal caso non può operarsi una riduzione
proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, in quanto una
comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può
instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma
non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non
imputabile. (Nella specie la S.C. ha cassato la sentenza d’appello che, avendo
accertato che gli illegittimi provvedimenti del datore di lavoro erano
responsabili, sul piano eziologico, del 50% del danno biologico riscontrato nel
lavoratore essendo esso ascrivibile per l’altro 50% ad una predisposizione
fisica e a infermità pregresse - aveva posto a carico del datore di lavoro non la
totalità dei danni subiti dal lavoratore, bensì solo il 50% di essi).
(massima e sommario ufficiali)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
R. M. con un primo ricorso depositato in data 20 maggio 1995 adiva il
GIURISPRUDENZA
Pretore di Genova lamentando che la (omissis), dalla quale era stato
formalmente assunto, pur avendo di fatto prestato attività lavorativa per la
(omissis), gli aveva attribuito mansioni inferiori rispetto a quelle svolte e
contenute nella stessa lettera di assunzione, con un illegittimo
provvedimento di dequalificazione (lettera del 14 febbraio 1995).
Rivendicava, quindi, la qualifica di primo o, in subordine, di secondo livello
in base al c.c.n.l. per il personale dipendente delle imprese di spedizione.
Le due società si costituivano negando la debenza e, reciprocamente, la
propria legittimazione.
Con successivo ricorso depositato in data 7 novembre 1995, il M. adiva
nuovamente il Pretore di Genova esponendo, questa volta, che, a causa del
demansionamento sofferto, era caduto in grave crisi depressiva che lo aveva
costretto ad una pesantissima terapia farmacologica e che durante lo stato di
malattia era stato licenziato con lettere inviategli sia dalla (omissis), (25
settembre 1995) sia dalla (omissis), (29 settembre 1995), da lui impugnate con
comunicazione del 4 ottobre 1995, contenente anche richiesta dei motivi. In
tale secondo ricorso instava per l’accertamento della illegittimità e/o
inefficacia del licenziamento, con ogni conseguenza di legge nonchè per il
risarcimento del danno biologico sofferto a causa dei comportamenti
illegittimi posti in essere dalla parte datoriale.
Il Pretore di Genova con sentenza non definitiva del 29 luglio 1996,
ritenuto esistente un rapporto di lavoro subordinato tra le due società e il M.,
condannava le suddette società al pagamento delle differenze retributive,
riconoscendo al lavoratore il secondo livello e, dichiarata l’inefficacia del
licenziamento comunicato dalla (omissis), e l’illegittimità di quello intimato
dalla (omissis), condannava sempre le due società a reintegrare il lavoratore
nel posto di lavoro, disponendo la prosecuzione del giudizio con riguardo
alla domanda di risarcimento del danno biologico. Le società convenute
formulavano riserva di appello.
Con sentenza definitiva del 9 febbraio 1998, il Pretore accoglieva anche la
domanda di risarcimento del danno biologico e condannava le società
convenute in solido a risarcire il danno alla salute da accertare in separato
giudizio.
Avverso tali decisioni proponevano appello la (omissis), e la (omissis)
ribadendo tutte le argomentazioni spiegate in primo grado, soffermandosi in
particolare sulla pretesa infondatezza della decisione in punto di danno
biologico.
In sede di appello il Tribunale di Genova con sentenza parziale del 23
ottobre 1998 respingeva il gravame delle società, con riguardo al
143
GIURISPRUDENZA
144
demansionamento ed alla dichiarata illegittimità del licenziamento,
disponendo la prosecuzione del giudizio in ordine alla domanda di danno
biologico in relazione al quale disponeva nuova consulenza d’ufficio.
All’esito dell’istruttoria il Tribunale con sentenza definitiva dell’11 dicembre
2000, in accoglimento della domanda di risarcimento del danno biologico ed
in conformità della espletata consulenza, riteneva che il M. fosse affetto da
sindrome ansiosa depressiva e da obesità, con conseguente danno alla salute
quantificato nella misura del 50% di invalidità, di cui il 25% attribuito a
causa lavorativa ed in particolare all’intimato licenziamento del 1995. Il
suddetto danno era quantificabile in complessive lire 174.250.000 (lire
8.500.000 quale valore di ciascun punto di invalidità moltiplicare per 50, il
totale dei punti di invalidità, moltiplicando ancora il risultato per 0,820
quale coefficiente per l’età il M. aveva all’epoca del licenziamento 37 anni e
dividendo il risultato per due), somma sulla quale andava computata la
rivalutazione dal 18 settembre 1998 (data alla quale si riferivano le tabelle
utilizzate) e sulla quale decorrevano gli interessi legali dal 1 ottobre 1995,
così come indicato in dispositivo.
Avverso tale sentenza R. M. propone ricorso per cassazione, affidato ad un
unico motivo. Resiste la (omissis), con controricorso, nel quale riferisce che
la (omissis),. e la (omissis), in data 18 dicembre 1998, con atto per notar dott.
G.B. del 18 dicembre 1998 rep. n. 699243 avevano conferito i propri
complessi aziendali nella (omissis), e che quest’ultima era di diritto titolare
dei rapporti di cui al presente giudizio.
R. M. ha depositato memoria difensiva ex art. 378 c.p.c.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il ricorso R. M. deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2043
c.c., 2055 c.c., 1227 c.c. nonché dell’art. 40 e 41 c.p. in ordine alla incidenza
sull’ammontare del danno risarcibile del concorso tra causa umana e causa
naturale. In particolare sostiene che il Tribunale di Genova ha errato nel dare
rilevanza alla concausa naturale nella determinazione del danno risarcibile,
disattendendo sul punto l’indirizzo giurisprudenziale dei giudici di
legittimità secondo cui non deve essere posto a carico del danneggiato una
parte del danno quando la sua verificazione non sia a lui imputabile. Nel caso
di specie doveva, pertanto, prescindersi dal fatto che il modo di essere di esso
ricorrente (la “predisposizione fisica”) avesse avuto una efficacia eziologica,
dal punto di vista oggettivo, nella determinazione dell’evento dannoso. In
conclusione, sostiene il ricorrente che anche dalla lettera dell’art. 1227 c.c. e
GIURISPRUDENZA
del 2055 c.c. si evince che l’evento della predisposizione fisica del soggetto
rispetto alla patologia insorta per effetto del comportamento illegittimo ed
illecito di altro soggetto (datore di lavoro) pur costituendo un antecedente
condizionante o concausa naturale nella produzione dell’evento dannoso,
non incide però sulla responsabilità risarcitoria del danneggiante non
valendo a ridurla proporzionalmente talché il danneggiante stesso (datore di
lavoro) è tenuto a risarcire il danno nel suo intero ammontare.
Il ricorso è fondato e, pertanto, va accolto.
Questa Corte ha più volte affermato che in materia di rapporto di causalità
nella responsabilità extracontrattuale, in base ai principi di cui agli artt. 40 e
41 cod. pen., qualora le condizioni ambientali od i fattori naturali che
caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento imputabile
dell’uomo siano sufficienti a determinare l’evento di danno
indipendentemente dal comportamento medesimo, l’autore dell’azione o
della omissione resta sollevato, per intero, da ogni responsabilità dell’evento,
non avendo posto in essere alcun antecedente dotato in concreto di efficienza
causale; qualora, invece, quelle condizioni non possano dar luogo, senza
l’apporto umano, all’evento di danno, l’autore del comportamento
imputabile è responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso
scaturenti secondo normalità. In tal caso, infatti, non può operarsi una
riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, in
quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause
concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti
umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa
naturale non imputabile (cfr. in tali sensi: Cass. 16 febbraio 2001 n. 2335;
Cass. 27 maggio 1995 n. 5924; Cass. 1 febbraio 1991 n. 981).
La valutazione di una situazione di concorso tra cause naturali non
imputabili e cause umane imputabili può sfociare, così, alternativamente, o
in giudizio di responsabilità totale per l’autore della causa umana, o in un
giudizio di totale assolvimento da ogni sua responsabilità, a seconda che il
giudice ritenga essere rimasto operante, nel primo caso (ai sensi del primo
comma dell’art. 41 c.p.) oppure essere venuto meno nel secondo caso (ai
sensi del secondo comma dell’art. 41 c.p.) il nesso di causalità tra detta causa
umana imputabile e l’evento (cfr. in motivazione in tali sensi: Cass. 1 febbraio
1991 n. 981 cit.).
In altri termini solo nel caso in cui sia stato accertata l’effettiva operatività
del nesso causale tra comportamento imputabile del danneggiante e
pregiudizio arrecato rimane esclusa ogni possibilità di graduare in termini
percentuali con riferimento alla concausa naturale la responsabilità
145
GIURISPRUDENZA
146
dell’autore della condotta colposa, essendo quest’ultimo responsabile per
l’intero dei danni cagionati.
Un siffatto indirizzo che trova sicuro fondamento normativo sia nel
disposto degli artt. 1227 e dell’art. 2056 c.c. (da cui si evince che in caso di
concorso di cause è consentita una riduzione del risarcimento solo in
presenza di condotta colposa del creditore) che in quello dell’art. 2055 c.c.
(da cui si evince che la graduazione e riduzione della responsabilità non è
concepibile neppure in presenza di cause umane, azioni od omissioni
imputabili a soggetti diversi dal danneggiato e diversi tra loro, stante il
principio della responsabilità solidale il quale non opera soltanto in sede di
regresso; cfr. così: Cass. 16 febbraio 2001 n. 2335 cit.; Cass. 1 febbraio 1991 n.
981 cit.) viene condiviso da autorevole dottrina, la quale precisa che, come
per una concausa naturale, anche in presenza del fatto non colposo del
danneggiato, prevale l’esigenza che il danneggiato sia integralmente risarcito
del danno che egli non avrebbe comunque subito senza l’inadempimento o
l’illecito. In questa ottica ricostruttiva la dottrina aggiunge anche che il
danneggiato che “danneggia o concorre a danneggiare se stesso” non compie
alcun illecito e non può essere sanzionato alla stregua dell’autore del danno
ingiusto.
Nessuna incertezza può permanere sull’applicabilità degli suddetti
principi in materia giuslavoristica nella quale ogni pure infondata riserva
sulla loro validità è destinata a disvelare la propria inconsistenza solo che si
considerino gli obblighi a tutela della salute dei propri dipendenti facenti
capo sull’imprenditore di cui è significativa espressione il disposto dell’art.
2087 c.c. e solo che si tenga anche conto della ormai acquisita generale
consapevolezza della possibilità di pregiudizievoli ricadute sulla salute dei
lavoratori, specialmente se non dotati di piena integrità psico fisica,
scaturenti da illegittimi provvedimenti datoriali di demansionamento o di
recesso dal rapporto lavorativo.
Corollario di quanto sinora detto è che il Tribunale, dopo avere
correttamente riconosciuto, sulla base delle risultanze della consulenza in
atti, che gli illegittimi provvedimenti societari (ed in particolar modo il
licenziamento) erano responsabili sul piano eziologico della misura del 50%
del danno biologico riscontrato nel M., non ha da tale situazione fatto
scaturire le dovute conseguenze. Ed invero il giudice d’appello, in violazione
dei principi innanzi enunciati, ha liquidato i danni da corrispondere al
lavoratore, escludendo da detto risarcimento la percentuale cinquanta per
cento di quelli che per la consulenza medico legali erano eziologicamente
ricollegabili ad una “predisposizione fisica” del M. ed a sue infermità
GIURISPRUDENZA
pregresse. Il Tribunale di Genova, sempre alla stregua di quanto innanzi
detto, avrebbe dovuto, invece, porre a carico delle società la totalità dei danni
cagionati al lavoratore in ragione dell’accertato concorso nella fattispecie in
esame tra causa imputabile, appunto, a dette società (provvedimenti di
illegittima dequalificazione e, soprattutto, di illegittimo licenziamento) e
causa (predisposizione organica e infermità pregresse) non imputabile al
lavoratore, destinata come ogni causa naturale a non concorrere nella
determinazione dei danni, da addossare nella loro totalità all’autore della
condotta imputabile.
Alla stregua di quanto sinora detto il ricorso va accolto e la sentenza
impugnata va cassata. Ai sensi dell’art. 384 c. p. c., non essendo necessari
ulteriori accertamenti di fatto, la causa va decisa nel merito, con la condanna
della (omissis), (che, come va ribadito, in controricorso ha affermato senza
alcuna contestazione in tutti gli atti difensivi di controparte di essere di
diritto titolare dei rapporti di cui al presente giudizio per conferimento dei
propri complessi aziendali da parte della (omissis) e (omissis), al pagamento
a favore di R. M. di euro 179.985,22 (equivalenti a lire 174.250.000 x 2, stante
la responsabilità della società anche per la percentuale,quantificata nel 50%
dei danni ricollegabili alle pregresse condizioni psicofisiche del M.), oltre
interessi e rivalutazione monetaria determinati giusta i criteri già fissati dal
Tribunale di Genova.
In relazione alle spese dell’intero processo mentre deve rimanere ferma la
statuizione per quelle dei giudizi di merito, in relazione a quelle di questo
grado va, invece, disposta la condanna della (omissis), a corrispondere a
favore di R. M. le spese di questo giudizio di cassazione, liquidate
unitamente agli onorari difensivi come in dispositivo.
P. Q. M.
la Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e decidendo nel
merito condanna la (omissis), a corrispondere a R. M. la complessiva somma
di euro 179.985,22 (centosettantanovemilanovecentoottantacinque/22), oltre
interessi e rivalutazione monetaria determinati giusta i criteri fissati dal
Tribunale di Genova. Mantiene ferma la statuizione sulle spese dei giudici di
merito e condanna la società controricorrente al pagamento a favore del M.
delle spese di questo giudizio di cassazione, che liquida in euro 10,00 oltre
euro 4.000,00 (quattromila/00) per onorari difensivi.
147
GIURISPRUDENZA
Corte di Cassazione, sezione lavoro, 2 gennaio 2002, n. 10
(Pres. Mercurio; Rel. Coletti)
Riferimenti normativi: artt. 2043, 2103 c.c.
148
Lavoro - lavoro subordinato - categorie e qualifiche dei prestatori di lavoro mansioni - diverse da quelle dell’assunzione - negazione o impedimento delle
mansioni - lesione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera
esplicazione della sua personalità anche nel luogo di lavoro - sussistenza conseguente diritto al risarcimento del danno - configurabilità - liquidazione in
via equitativa - ammissibilità.
La negazione o l’impedimento allo svolgimento delle mansioni, al pari del
demansionamento professionale, ridondano in lesione del diritto
fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore anche
nel luogo di lavoro, determinando un pregiudizio che incide sulla vita
professionale e di relazione dell’interessato, con una indubbia dimensione
patrimoniale che rende il pregiudizio medesimo suscettibile di risarcimento
e di valutazione anche in via equitativa. (Nella specie, alla stregua del
principio enunciato in massima, la S.C. ha confermato la decisione del
Tribunale che aveva accolto la domanda di risarcimento avanzata nei
confronti della RAI da un soggetto che, dopo essere stato assunto dal
predetto ente per lo svolgimento delle mansioni di attore di terza categoria,
regolarmente svolte per i primi tre anni, nei successivi sedici anni, pur
continuando a ricevere la retribuzione, non era stato impiegato in alcuna
attività).
(massima e sommario ufficiali)
(omissis)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso al pretore di Roma D. P. esponeva che dal 1970 al 1973 aveva
lavorato come attore alle dipendenze della Rai Spa; che dal 1973 al 1989 la
Rai, pur retribuendolo, non lo aveva fatto più lavorare sicché era responsabile
dei danni derivanti: da inattività protrattasi per sedici anni; da perdita
dell’equo compenso ex articolo 80 della legge sul diritto d’autore; da mancata
GIURISPRUDENZA
conclusione di contratti artistici con terzi; da mancata percezione degli
aumenti di merito di cui all’articolo 8 del regolamento contrattuale; da
lesione del diritto alla notorietà.
Nel contraddittorio con la Rai, il pretore, con sentenza non definitiva del
15 luglio 1992, dichiarava il diritto del P. ad essere utilizzato sia nella
produzione radiofonica che televisiva e rimetteva la causa sul ruolo per la
determinazione delle inadempienze della Rai e per la quantificazione
dell’eventuale danno. Quindi, con sentenza definitiva del 22 aprile 1994
condannava la società datrice di lavoro a pagare al P. la somma di lire 100
milioni a titolo di risarcimento del danno per inattività.
Contro le due sentenze proponevano appello entrambe le parti
evidenziandone l’erroneità sotto più profili.
Disposta la riunione dei giudizi, con sentenza del 7 settembre 1998, il
Tribunale di Roma ha accolto parzialmente l’appello del P. (precisamente, in
punto di liquidazione delle spese di lite e di correzione di errore materiale
della sentenza non definitiva del 15 luglio 1992) e ha respinto quello della Rai.
In motivazione il giudice del gravame ha osservato che infondate erano le
eccezioni (litispendenza, nullità dell’appello del P., mancata sospensione del
giudizio sul quantum in attesa della definizione di quello sull’an) sollevate
dalla Rai. Nel merito, ha accertato che il P. era stato assunto dalla Rai nel
1970 per lo svolgimento di mansioni di attore di terza categoria e che, in base
al contratto intervenuto tra le parti, era tenuto a rendere una prestazione
giornaliera di cinque ore per la produzione di programmi radiofonici, ovvero
di sei ore e trenta per i programmi televisivi, per sei giorni la settimana. Ha
quindi affermato che la sostanziale inattività del P. nell’arco di sedici anni, a
partire dal 1973, era un dato provato in giudizio come imputabile alla Rai e
integrava violazione dell’art. 2103 c.c., nonché del fondamentale diritto al
lavoro, inteso quale mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun
cittadino. Ha proseguito osservando che la violazione, protratta per anni, di
quel diritto fondamentale, aveva certamente leso la professionalità e
l’immagine del P., cioè il bene definito in ricorso come “notorietà”,
producendogli per ciò stesso un danno che correttamente era stato
quantificato nella somma indicata in via equitativa dal pretore utilizzando
come parametro la retribuzione percepita dal lavoratore mese per mese nel
periodo di demansionamento.
Quanto poi alla asserita (dalla Rai) non imputabilità dell’inadempimento,
il Tribunale ha affermato che l’assunto appariva del tutto inadeguato a fronte
di un’attività disimpegnabile dal dipendente in produzioni, radiofoniche e
televisive, nelle quali la società era impegnata giornalmente per 24 ore e su
149
GIURISPRUDENZA
150
più reti; e comunque era rimasto del tutto indimostrato con riferimento ad
entrambi i profili dedotti a giustificazione del comportamento datoriale, non
essendo state avanzate né reiterate sul punto richieste istruttorie.
Ha disatteso, inoltre, la doglianza della Rai relativa all’aggravamento del
danno professionale per comportamento colposo del dipendente, e passando
ad esaminare le (altre) voci di danno pretese dal P. (equo compenso, mancata
conclusione di contratti, aumenti di merito) ha evidenziato: quanto alla
prima, che mancava del tutto la prova del fatto costitutivo del vantato diritto;
quanto alla seconda, che la stessa era del pari sfornita di prova e comunque
contraddetta dalle deduzioni di cui al punto 8) del ricorso introduttivo;
quanto alla terza, che gli aumenti di merito erano rimessi alla discrezionalità
del datore di lavoro e non potevano ritenersi perciò conseguenza normale e
diretta dell’inadempimento.
Il P. chiede la cassazione di questa sentenza con ricorso fondato su cinque
motivi. La società Rai, nel controricorso, propone, a sua volta, ricorso
incidentale affidato a tre motivi, ai quali resiste il P. Le parti hanno depositato
memoria ex art. 378 c.p.c.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso principale e quello incidentale devono essere riuniti ai sensi
dell’articolo 335 c.p.c. perché proposti contro la stessa sentenza.
Con il primo motivo del ricorso principale D. P. censura la sentenza
impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c., degli artt.
1362 e seguenti c.c., nonché per vizio di omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione, con riferimento alla interpretazione del
contratto di lavoro (art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.).
Sostiene che il Tribunale non ha considerato la intenzione delle parti di
stipulare un contratto di scrittura artistica, contratto che si qualifica per
l’interesse dell’artista interprete ad eseguire le attività concordate, in quanto
il suo lavoro – e quindi la sua “notorietà” – si arricchiscono sempre più con
l’interpretazione e con i conseguenti riconoscimenti di critica e di pubblico.
Conseguentemente il danno provocato dalla esclusione di esso ricorrente da
qualsiasi parte, doveva essere risarcito in modo consono alla sua personalità,
alla sua fama e alle sue immense possibilità di impiego come attore, ossia con
una determinazione “qualificata”. Non corretta, pertanto, sarebbe la
quantificazione del danno operata con il semplice calcolo dell’aumento del
50% (rectius 29%) delle retribuzioni percepite, in quanto il giudice del
merito, visto il gravissimo inadempimento del datore di lavoro, avrebbe
GIURISPRUDENZA
dovuto considerare e valutare sia gli elementi specifici del contratto in essere
tra le parti, sia i programmi in cui il P. avrebbe dovuto e/o potuto essere
impiegato come attore (anche con riferimento alle prove richieste sul punto)
e quantificare, seppure in via equitativa ma tenendo conto comunque di
questi specifici elementi, il danno da risarcire.
Con il secondo motivo e con denuncia di vizio di omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione (articolo 360 numero 5 c.p.c.) assume il
ricorrente che il Tribunale ha omesso di pronunciarsi sulla sua richiesta di
mezzi istruttori, che gli avrebbero consentito di quantificare il danno subito
tenendo in doveroso conto le proprie capacità artistiche e professionali e le
“parti” che avrebbe potuto e dovuto effettuare come attore se la Rai non si
fosse resa inadempiente agli obblighi contrattuali. Il Tribunale, a tal fine,
avrebbe dovuto:
a) ammettere le prove testimoniali richieste con l’atto introduttivo;
b) disporre la esibizione dei palinsesti Rai dal 1973 al 1989;
c) disporre la esibizione degli orari di lavoro di esso ricorrente dal 1973 al 1989;
d) disporre Ctu al fine di accertare in quali e quante programmazioni il P.
poteva essere impiegato;
e) disporre che la Rai esibisse l’elenco degli attori a tempo indeterminato e
gli spettacoli delle reti televisive e radiofoniche in cui erano stati
impegnati, nonché una panoramica di tutti gli spettacoli e produzioni,
dal 1973 al 1989, in cui il P. doveva essere impiegato in forza
dell’articolo 11 del contratto artistico di lavoro;
f) disporre la esibizione di tutti gli appalti artistici delle reti televisive e
radiofoniche concessi a ditte esterne con la indicazione dei compensi
versati agli attori non Rai.
Con il terzo motivo e sempre con denuncia di vizio di motivazione omessa
insufficiente e contraddittoria (art. 360 n. 5 c.p.c.) il P. sostiene che
l’affermazione, secondo la quale il danno era stato liquidato in misura pari al
50% della retribuzione da lui percepita nel periodo di cui è causa, è
contraddetta dal fatto che la Rai, in tale periodo, ebbe a corrispondergli la
somma di lire 309 milioni ed il 50% di tale somma ammonta evidentemente
a 154 milioni e non a 100 milioni come liquidato dai giudici a quo. In
sostanza il Tribunale ha commesso un errore causato da una inesatta
determinazione dei presupposti numerici di un’operazione che si risolve in
un vizio logico di motivazione della impugnata sentenza.
Con il quarto motivo, lamentando violazione e falsa applicazione degli art.
2120 e 2115 c.c. e delle leggi in materia pensionistica, in relazione agli artt.
1226 c.c e 432 c.p.c., nonché vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria
151
GIURISPRUDENZA
152
motivazione (art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.), assume il ricorrente il Tribunale, pur
avendo accertato la sussistenza del suo diritto all’aumento retributivo, non
ha poi provveduto a determinare le somme a lui spettanti per l’incidenza di
tale aumento nel trattamento di fine rapporto e a dichiarare, altresì, il suo
diritto alle “spettanze pensionistiche” corrispondenti alle maggiori
retribuzioni dovutegli.
Con il quinto motivo e con denuncia di violazione e falsa applicazione
dell’art. 80 L.d.a, degli articoli 1175 e 1375 c.c. nonché di vizio di omessa,
insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo (art. 360 n. 3 e
5 c.p.c.), lamenta il ricorrente che il Tribunale abbia omesso di valutare il
comportamento inadempiente della Rai alla stregua delle regole di
correttezza e buona fede nel decidere sulla domanda di risarcimento dei
danni per la perdita del diritto all’equo compenso di cui all’articolo 80 della
legge sul diritto d’autore e per la mancata corresponsione degli aumenti di
merito. Il P., infatti, avrebbe potuto recitare nelle numerosissime opere e
programmi realizzati dalla società e godere dei diritti nascenti dalla
diffusione delle recitazioni eseguite (tra i quali, quello a percepire l’equo
compenso). Sul punto, sin dal primo grado, erano stati richiesti numerosi
mezzi istruttori, sicché il Tribunale ha errato a ritenere non provato il fatto
costitutivo delle asserite perdite o possibilità di guadagno. Quanto poi agli
aumenti di merito, assume che, ove il contratto preveda (come, nel caso, il
regolamento Rai all’articolo 8) la loro attribuzione come elemento costitutivo
della retribuzione, gli stessi possono essere considerati come semplice
liberalità, ma assumono valore di corrispettivo, soggetto, quindi, al controllo
del giudice che deve verificare la discrezionalità del datore di lavoro secondo
i principi di correttezza e buona fede.
Con il primo motivo del proprio ricorso incidentale la società Rai censura
la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 2103,
1223, 1226 e 1227 c.c., dell’art. 112 c.p.c., nonché per omessa insufficiente e
contraddittoria motivazione (art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.), per avere il Tribunale
ritenuto la sussistenza di un danno risarcibile in conseguenza della lesione
della professionalità e dell’immagine del P. sulla base di sole presunzioni,
benché (contraddittoriamente) giudicate inidonee a sopperire al mancato
assolvimento dell’onere probatorio. Inoltre, il giudice a quo avrebbe violato
l’art. 112 c.p.c. con l’affermare che l’inadempimento della Rai avrebbe “leso
la professionalità e l’immagine del ricorrente” perché il P. aveva domandato
unicamente il risarcimento del danno per la lesione del “diritto di notorietà”.
La motivazione della sentenza d’appello sarebbe, altresì, contraddittoria
nella parte in cui, da un lato, riconosce la esistenza del danno e, per altro
GIURISPRUDENZA
verso, osserva che il P. aveva ricevuto alcune importanti proposte di lavoro,
da lui rifiutate in ossequio al contratto che lo legava alla Rai; la circostanza,
invero, dimostrerebbe che, comunque, nessun effetto pregiudizievole aveva
prodotto l’asserita inattività. Censura, infine, le considerazioni con le quali il
giudice di appello ha escluso la rilevanza del comportamento del P.
nell’aggravamento del danno professionale, osservando che in due sole
occasioni (non già “più volte”) il lavoratore aveva chiesto di essere utilizzato,
e che l’aver proposto l’azione giudiziaria dopo più di quindici anni
dall’inizio dell’inattività integrava una condotta acquiescente e omissiva che
non poteva essere negata con la mera argomentazione che “la decisione di
agire in giudizio … necessita di adeguata meditazione”.
Con il secondo motivo e con deduzione di violazione e falsa applicazione
dell’art. 2118 c.c. (recte 1218 c.c.), nonché del vizio di omessa, insufficiente
e contraddittoria motivazione (art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.) la sentenza del
Tribunale è censurata per aver ritenuto del tutto indimostrato l’assunto della
Rai circa la non imputabilità dell’inadempimento, disattendendo gli elementi
acquisiti al processo e ignorando che il pretore, nella sentenza non definitiva,
aveva ravvisato la indispensabilità di un’indagine approfondita circa la
gravità dell’inadempimento (a tal fine rimettendo la causa sul ruolo) e
prospettato la indispensabilità di disporre una Ctu per stabilire un quadro
delle opere in cui il P. era validamente collocabile.
Con il terzo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione
dell’articolo 414 numero 4 c.p.c. in relazione all’art. 434 c.p.c., nonché del
vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 n. 3 e 5
c.p.c.), la ricorrente assume che erroneamente il Tribunale ha escluso la
nullità dell’atto di appello proposto dal P., posto che lo stesso mancava del
requisito della esposizione dei fatti, non recano menzione dello svolgimento
del processo, del contenuto degli atti di parte né dei fatti che sarebbero stati
a fondamento del ricorso, così da non consentire la individuazione certa dei
termini della controversia.
Il ricorso incidentale della società Rai va esaminato per primo prospettando
questioni logicamente preliminari a quelle poste con il ricorso principale, e
la verifica della fondatezza del terzo dei tre motivi di impugnazione precede
la valutazione degli altri, dal momento che le censure ivi proposte investono
la stessa validità dell’appello del P.
Tali censure sono, peraltro, infondate.
La Corte ha, infatti, più volte chiarito (vedi, in particolare, Cass. 6312/99,
1156/95, 11971/95, 9316/94), che il requisito della “sommaria esposizione
dei fatti” richiesto dall’articolo 342 c.p.c. (e, nel rito del lavoro, dall’art. 434
153
GIURISPRUDENZA
154
c.p.c.) è funzionale alla individuazione delle censure mosse dall’appellante
e, in quanto tale, non esige una parte espositiva formalmente autonoma e
unitaria, ma può emergere indirettamente dalle argomentazioni svolte a
sostegno dei motivi di appello, ove questi forniscano gli elementi idonei a
consentire l’individuazione dell’oggetto della controversia e delle ragioni del
gravame. Il giudizio da rendere al riguardo deve essere, quindi, formulato sulla
base del contenuto complessivo dell’atto, con apprezzamento del giudice del
merito sindacabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione.
Vizi che, nel caso, non sussistono, apparendo in tutto coerente con il ricordato
principio la valutazione del Tribunale che ha escluso la nullità osservando che
il ricorso in appello del P. presentava tutti i requisiti di legge necessari per il
raggiungimento dello scopo cui l’atto è preordinato e conteneva, in particolare,
una esaustiva esposizione dei fatti e delle ragioni di diritto.
Ma infondati sono anche il primo e il secondo motivo del ricorso incidentale.
Quanto al primo motivo, osserva la corte che il Tribunale, una volta
accertato che il P. era stato lasciato in condizione di inattività per
lunghissimo tempo, a fronte dell’obbligo assunto della Rai di farlo lavorare
ogni giorno per cinque o sei ore (a seconda del tipo di prestazione,
radiofonica o televisiva), ha ritenuto che il comportamento datoriale non solo
violava la norma di cui all’art. 2103 c.c., ma era al tempo stesso lesivo del
fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di
estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell’immagine
e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal
mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza.
In sostanza con tale affermazione il giudice di appello ha enunciato un
concetto di lesione di un bene immateriale per eccellenza, qual è la dignità
professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la
propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo, e ha ritenuto che
tale lesione produca automaticamente un danno (non economico ma
comunque) rilevante sul piano patrimoniale (per la sua attinenza agli
interessi personali del lavoratore), anche se determinabile necessariamente
solo in via equitativa.
La corte non ritiene censurabile la statuizione, che è conforme alla
ricostruzione del danno da demansionamento professionale data dalla
giurisprudenza di legittimità nella sua più recente evoluzione. In diverse,
significative, pronunce questo giudice ha, infatti, rilevato che la modifica in
peius (ovvero la negazione o l’impedimento) delle mansioni dà luogo ad una
pluralità di pregiudizi, solo in parte incidenti sulla potenzialità economica
del lavoratore. Infatti il demansionamento non solo viola lo specifico divieto
GIURISPRUDENZA
di cui all’articolo 2103 c.c., ma ridonda in lesione del diritto fondamentale
alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro,
determinando un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di
relazione dell’interessato, con una indubbia dimensione patrimoniale che lo
rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche in via equitativa
(Cass. 11727/99, 14443/00).
L’affermazione di un valore superiore della professionalità, direttamente
collegato a un diritto fondamentale del lavoratore e costituente
sostanzialmente un bene a carattere immateriale, in qualche modo supera e
integra la precedente affermazione che la mortificazione della professionalità
del lavoratore potesse dar luogo a risarcimento solo ove venisse fornita la
prova dell’effettiva sussistenza di un danno patrimoniale (cfr. le sentenze
7905/98, 1026/97, 3686/96 e 8835/91). Prova, viceversa, che, secondo le
ricordate pronunce, rimane necessaria per quanto riguarda l’eventuale danno
materiale, il pregiudizio economico cioè subito dal lavoratore anche in
termini di guadagno non conseguito per effetto della perdita di concreti
vantaggi necessariamente legati allo svolgimento delle mansioni negate.
Con ciò, rimangono in ogni caso superate (limitandosi la Corte a correggere
la motivazione nell’esercizio dei poteri di cui all’art. 384, comma 1, c.p.c.) le
contraddizioni che si dicono esistenti nel ragionamento svolto dal giudice
del merito in punto di prova della sussistenza di un danno risarcibile.
Non sussiste, inoltre, la denunciata violazione dell’art. 112 c.p.c., posto che
parlando di lesione della professionalità e della immagine del lavoratore il
Tribunale ha ben spiegato che, con tale espressione, intendeva dare
contenuto al bene definito nel ricorso introduttivo come “notorietà”.
Neppure è censurabile la motivazione con la quale è stata negata rilevanza
al comportamento del P. nell’aggravamento del danno professionale, non
riscontrandosi illogicità e contraddizioni nelle valutazioni in fatto operate
dal giudice del merito, laddove i rilievi svolti dalla società ricorrente, senza
evidenziare il mancato esame di elementi e circostanza decisivi, appaiono
intesi a sollecitare un nuovo apprezzamento di merito che, secondo i
principi, è inammissibile in sede di legittimità.
Quanto, infine, al secondo motivo di ricorso incidentale, è sufficiente
osservare, per ritenerne la infondatezza, che la società ricorrente non
specifica quali fossero gli elementi probatori acquisiti a dimostrazione del
suo assunto e che sarebbero stati trascurati dal Tribunale; il che impedisce
alla corte di verificarne la decisività, l’idoneità cioè a comportare con
ragionevole certezza una decisione diversa da quella adottata (esigenza cui
l’art. 360 n. 5 c.p.c. allude col riferimento al “punto decisivo”) e di ritenere,
155
GIURISPRUDENZA
156
perciò, sussistenti i denunciati vizi di motivazione. Il riferimento, poi, alla
sentenza non definitiva del pretore è inconsistente, essendo la stessa
superata dalla sentenza definitiva che, avendo condannato la Rai al
risarcimento del danno da inadempimento contrattuale, ne aveva, con tutta
evidenza, presupposto la imputabilità.
Passando quindi all’esame del primo motivo del ricorso principale, osserva
la corte che, diversamente da quanto nello stesso si sostiene, il giudice di
appello, nel procedere alla liquidazione, in via equitativa, del danno
correlato alla lesione della personalità del lavoratore, ha doverosamente
tenuto conto della specificità e delle caratteristiche della prestazione
lavorativa oggetto del contratto di scrittura artistica intervenuto tra le parti –
ponendo in evidenza come la stessa potesse arricchirsi di riconoscimenti e
consensi solo con il suo esercizio costante – nonché del dimostrato, notevole
grado di notorietà acquisito dal P. negli anni immediatamente precedenti
l’accantonamento illegittimamente impostogli dal datore di lavoro.
Neppure arbitrario ed illogico appare il ricorso in via parametrica alla
retribuzione (anche) per una quantificazione “qualificata” del danno alla
professionalità del lavoratore, non potendo negarsi che la retribuzione
costituisce espressione (per qualità e quantità, ai sensi dell’articolo 36 della
Costituzione) anche del contenuto professionale della prestazione, nel caso
in esame concretamente non accettata dalla Rai (e tuttavia ugualmente
retribuita come se fosse stata eseguita).
Quanto alle censure di cui al secondo motivo si osserva che è principio
costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità quello secondo
cui il mancato esame di una istanza istruttoria integra un vizio della sentenza
impugnata, idoneo a determinarne la cassazione, solo se e in quanto le
circostanze che costituivano oggetto della richiesta di parte siano decisive,
siano tali cioè che, se valutate ed esaminate correttamente avrebbero potuto
condurre ad una decisione di merito diversa da quella in concreto adottata.
Peraltro, il controllo sulla ricorrenza del detto requisito della “decisività”
non può essere esercitato autonomamente dalla Corte di cassazione
attraverso il diretto esame degli atti e degli scritti difensivi dei precedenti
gradi di giudizio, ma, per il principio di autosufficienza del ricorso per
cassazione, deve poter essere compiuto sulla sola base delle deduzioni
contenute nel ricorso stesso, alle cui lacune non è consentito sopperire con
indagini integrative.
Costituisce, dunque, un preciso onere della parte indicare specificamente
nel ricorso – se del caso mediante la loro integrale trascrizione – le circostanze
che intendeva dimostrare con la deduzione probatoria della quale lamenta la
GIURISPRUDENZA
omessa considerazione (vedi, tra tante, Cass. 1203/00, 3494/96, 381/95).
Nel caso, l’onere suddetto è rimasto inadempiuto perché il ricorrente ha
omesso di indicare le circostanze che costituivano oggetto della richiesta
prova testimoniale, essendosi limitato a fare un mero e del tutto generico
riferimento al fatto che la stessa avrebbe chiarito le modalità di
quantificazione del danno.
Ma neppure la sentenza impugnata può costituire oggetto di censura per
non avere il giudice del merito ordinato la esibizione della documentazione
in possesso del datore di lavoro, ovvero per non aver disposto la richiesta
consulenza tecnica di ufficio.
Noto è infatti il principio, espresso dalla del tutto prevalente
giurisprudenza di questa corte (vedi Cass. 1092/95, 2019/95, 9715/95,
6769/98, 15983/00) che l’ordine di esibizione di documenti, ex art. 210 c.p.c.,
costituisce una facoltà discrezionale rimessa al prudente apprezzamento del
giudice del merito, che non è tenuto a specificare le ragioni per le quali
ritiene di non avvalersene. Ne consegue che il mancato esercizio della
suddetta facoltà non è sindacabile in sede di legittimità, neppure sotto il
profilo del difetto di motivazione.
Del pari, fermo restando che la consulenza tecnica non costituisce un
mezzo di prova (come sembra sostenere il ricorrente) ma uno strumento per
la valutazione della prova acquisita (a parte il caso in cui si risolva
nell’accertamento di fatti rilevabili unicamente con l’ausilio di specifiche
cognizioni o strumentazioni tecniche, il che, nella specie, non è dedotto), va
considerato che rientra nel potere discrezionale del giudice la decisione di
ricorrere o meno all’assistenza di un consulente tecnico, salvo il dovere di
motivare adeguatamente il rigetto della istanza di ammissione proveniente da
una delle parti, quando in essa siano state indicate le ragioni della
indispensabilità delle indagini tecniche ai fini della decisione (Cass.
14979/00).
Nel caso concreto, peraltro, il ricorrente non spiega in che cosa
consistessero tali ragioni, né fa cenno al fatto di averle adeguatamente
rappresentata al giudice a quo, la cui mancata pronuncia sulla istanza in
questione non può, conseguentemente, costituire ragione di cassazione della
impugnata sentenza sotto il profilo del vizio di motivazione.
Anche il secondo motivo, dunque, è privo di giuridico fondamento.
Con riferimento, poi, ai rilievi svolti nel terzo motivo, è sufficiente osservare,
per ritenerne la totale infondatezza, che il Tribunale (pagina 30 della sentenza)
afferma testualmente che “la liquidazione effettuata in via equitativa dal
pretore appare corretta, corrispondendo quasi integralmente a metà della
157
GIURISPRUDENZA
158
retribuzione”; dove è evidente che parlare di liquidazione corrispondente
“quasi integralmente a metà della retribuzione” non equivale a dire che si
tratta di liquidazione corrispondente “a metà (ossia al 50%) della
retribuzione”.
Oltretutto la circostanza che la Rai avrebbe corrisposto al P. la somma di lire
309 milioni, quali effettive e totali retribuzioni del periodo controverso, appare
dedotta inammissibilmente per la prima volta in questa sede, in quanto nel
ricorso non si fa cenno a un’avvenuta allegazione della stessa in sede di merito.
Il quarto motivo, a sua volta, è per certo privo di fondamento sol che si
consideri che il diritto del lavoratore accertato in sede di merito non è quello
all’attribuzione di maggiori retribuzioni, ma al risarcimento del danno
derivante dalla violazione, da parte del datore di lavoro, di precisi obblighi
contrattuali, un diritto cioè che trova titolo nella riconosciuta sussistenza di
un’obbligazione risarcitoria, in tutto estranea al sinallagma lavoro-retribuzione.
Né il ricorrente sostiene di aver proposto (anche) una domanda di condanna
del datore di lavoro alla corresponsione di emolumenti non percepiti, e
neppure afferma che il giudice dl merito avrebbe mancato di esaminarla (la
violazione dell’art. 112 c.p.c. non è dedotta); si tratta, quindi di questioni
prospettate per la prima volta in questa sede e che, in quanto modificano il
tema di indagine e di decisione proprio del giudizio di merito, involgendo
altresì la necessità di accertamenti di fatto, sono da considerare inammissibili
(giurisprudenza costante: per tutte, Cass. 1496/98, 4900/98, 9711/98).
Esaminando, infine, il quinto motivo, non può non riaffermare la Corte
quanto più sopra considerato a proposito della necessità, per il lavoratore che
domandi, come nel caso di specie, il risarcimento del danno consistente nel
mancato conseguimento di un trattamento economico dipendente, in via
eventuale, dallo svolgimento delle prestazioni negate, di allegare i fatti
attraverso i quali il risultato economico preteso si sarebbe realizzato, nonché
il rapporto di necessità tra gli stessi fatti e il demansionamento, e di fornire,
altresì, la prova della ricorrenza in concreto di quei fatti e di quella necessità
attraverso la combinazione dei quali solamente può dirsi venuto in essere il
diritto fatto valere.
Questo significa, in relazione al mancato conseguimento dell’equo
compenso, previsto dall’articolo 80 della legge 633/41 sul diritto di autore a
favore dell’artista-attore per il caso di ulteriore utilizzazione dell’opera, che
il ricorrente doveva dimostrare che, ove non fosse rimasto inattivo a causa
dell’inadempimento del datore di lavoro, per certo avrebbe acquisito il diritto
a quel guadagno e, a tal fine, avrebbe dovuto fornire indicazione e prova delle
singole opere e trasmissioni (radiofoniche e televisive) in concreto realizzate
GIURISPRUDENZA
dalla Rai, nelle quali sicuramente avrebbe potuto e dovuto essere impiegato,
evidenziando, altresì, le ragioni per le quali tale impiego si sarebbe verificato.
Sul punto il Tribunale ha affermato che mancava del tutto la prova del fatto
costitutivo di questa pretesa voce di danno, non avendo il ricorrente
formulato al riguardo alcuna richiesta istruttoria.
Il P. assume oggi, che sin dal primo grado del giudizio, erano stati richiesti
numerosi mezzi istruttori, senza peraltro chiarire in che cosa consistessero,
né quali fossero i fatti e le circostanze che gli stessi tendevano a dimostrare.
Se poi, come sembra, tali mezzi istruttori erano quelli cui fanno riferimento
le censure svolte nel secondo motivo di ricorso, valgono le considerazioni
che la corte ha al riguardo già espresso per ritenerne la inammissibilità e
comunque la infondatezza.
Da ultimo, non appare in nulla censurabile la decisione del giudice del
merito di negare al P. gli aumenti di merito, anch’essi richiesti dal ricorrente
quale ulteriore voce di danno. Una volta, infatti, che il Tribunale ha accertato
che la corresponsione di tali emolumenti era rimessa alla discrezionalità del
datore di lavoro, la loro mancata attribuzione non può, per certo, essere
configurata quale pregiudizio economico conseguente all’inadempimento. A
sua volta, la deduzione secondo cui quell’accertamento sarebbe errato,
perché la disciplina negoziale del rapporto (contenuta nell’articolo 8 del
regolamento Rai) configurerebbe gli aumenti suddetti come elemento
costitutivo della retribuzione, è priva di rilievo, in quanto il ricorso non
contiene alcuna specifica denuncia di violazione delle regole legali di
ermeneutica di cui agli articoli 1362 c.c., né lascia comprendere in quali vizi
di motivazione sarebbe incorsa la impugnata sentenza nel trarre dalla
interpretazione di quella disciplina negoziale le diverse conclusioni cui è
pervenuta.
In conclusione, sia il ricorso principale che quello incidentale devono
essere rigettati.
Le spese del presente giudizio di cassazione sono compensate tra le parti.
P. Q. M.
la Corte riunisce i ricorsi e li rigetta; compensa tra le parti le spese del
presente giudizio.
159
GIURISPRUDENZA
Corte di Cassazione, sezione lavoro, 1 giugno 2002, n. 7967
(Pres. Sciarelli; Rel. De Matteis)
Riferimenti normativi: artt. 2103, 2043, 1226 e 2697 c.c.; art. 360 c.p.c.
160
Lavoro - lavoro subordinato - categorie e qualifiche dei prestatori di lavoro mansioni - diverse da quelle dell’assunzione - demansionamento
professionale del lavoratore - conseguente diritto al risarcimento danni liquidazione - determinazione equitativa - riferimento all’entità della
retribuzione - ammissibilità.
In caso di demansionamento professionale del lavoratore in violazione
dell’art. 2103 c.c. (nella specie, per rilevante riduzione quantitativa delle
mansioni), la determinazione del danno patrimoniale giudizialmente
accertato (alla quale il giudice è tenuto, in presenza di una specifica
domanda di risarcimento da parte dello stesso lavoratore) può avvenire
anche in via equitativa, eventualmente con riferimento all’entità della
retribuzione risultante dalle buste paga prodotte in giudizio.
(massima e sommari ufficiali)
(omissis)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso al Pretore di Roma, giudice del lavoro, in data 6 maggio 1990,
P. R. L., dirigente della s.p.a. S., ora A. s.p.a. in liquidazione, ha impugnato
l’ordine di servizio 16 maggio 1990, con il quale egli veniva destinato a nuove
mansioni deducendo la preordinazione del provvedimento ad incidere sulle
sue funzioni sindacali e la sua oggettiva portata dequalificante.
Si costituiva la S. resistendo alla domanda.
Espletato interrogatorio libero delle parti, avendo il R. L. rinunziato alla
domanda concernente la pretesa antisindacalità del provvedimento, il
Pretore accoglieva la tesi di merito dichiarando la natura dequalificante
dell’incarico assegnatogli: condannava la S. alla reintegrazione del R. L. nelle
mansioni precedenti e rinviava a separato giudizio la liquidazione del danno
conseguente.
Contro questa sentenza proponeva appello principale la S., contestando la
GIURISPRUDENZA
sussistenza della dequalificazione, nonché la scissione della decisione sul
quantum della pretesa risarcitoria in mancanza di richiesta espressa
dell’attore e comunque la carenza di prova del pregiudizio subito. Il R. L.
spiegava appello incidentale, chiedendo la liquidazione in via equitativa dei
danni; evidenziava la cessazione della materia del contendere sulla domanda
di reintegra nelle mansioni a causa del suo sopravvenuto licenziamento.
Il Tribunale confermava la pretesa natura dequalificante dell’incarico;
dichiarava cessata la materia del contendere sulla domanda di
reintegrazione, e rigettava la domanda di risarcimento danni, perché, pur
ritenendo provata la dequalificazione, il ricorrente non avrebbe fornito gli
elementi necessari per la valutazione equitativa del danno. Avverso tale
sentenza ha proposto ricorso per Cassazione il R. L., con due motivi.
La intimata sì è costituita con controricorso, resistendo; ha proposto ricorso
incidentale, contestando la sussistenza della dequalificazione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Vanno preliminarmente riuniti il ricorso principale ed il ricorso incidentale
proposti avverso la stessa sentenza, ai sensi dell’art. 335 c.p.c.
Vanno esaminati per primi, in ordinato iter logico i due motivi del ricorso
incidentale, con i quali la A., deducendo violazione e falsa applicazione degli
artt. 1226, 2103 e 2697 c.c., omessa e insufficiente motivazione su punto
decisivo della controversia (art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c.), censura la sentenza
impugnata nella parte in cui ha confermato la dequalificazione del dirigente
in ragione della affermata pochezza degli incarichi speciali dopo il 1 giugno
1990. Rileva che, non avendo il ricorrente contestato la natura dirigenziale
degli incarichi speciali affidatigli, la differenza, meramente quantitativa e
non qualitativa di questi, non poteva integrare dequalificazione
professionale. Si duole inoltre che il Tribunale abbia dedotto la pochezza
degli incarichi dal tempo trascorso fra l’ordine di servizio 1.6.1990 n. 1182
impugnato e la presentazione del ricorso nel settembre del 1991,
erroneamente ritenendo che i tre incarichi speciali riferiti dal direttore
generale nel suo libero interrogatorio fossero gli unici assegnati al R., ed
imputa a questi di non avere provato di avere avuto altri incarichi.
I due motivi, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, non
sono fondati.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, l’art. 2103 c.c.
fonda un diritto del lavoratore all’effettivo svolgimento della propria
prestazione di lavoro (Cass. 15 giugno 1983 n. 4106; Cass. 6 giugno 1995 n.
161
GIURISPRUDENZA
162
3372; Cass. 10 febbraio 1988 n. 1437; Cass. 13 agosto 1991 n. 8835; Cass. 13
novembre 1991 n. 12098; Cass. 15 luglio 1995 n. 7709; Cass. 4 ottobre 1995
n. 10405; Cass. 14 novembre 2001 n. 14199); e motiva tale suo convincimento
sia con il tenore testuale della norma citata, la quale dispone che il prestatore
di. lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, sia
con la funzione del lavoro, che costituisce non solo un mezzo di
sostentamento e di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della
personalità del lavoratore, ai sensi degli artt. 2, 1° comma, 4, 1° comma, e 35,
1° comma, Cost. La lesione di tale interesse della persona, che assurge a
diritto soggettivo con la stipulazìone del contratto di lavoro prevedente una
determinata prestazione, costituisce un inadempimento contrattuale da parte
del datore di lavoro e determina, oltre all’obbligo di corrispondere la
retribuzioni dovute, l’obbligo del risarcimento del danno da dequalificazione
professionale.
Tale principio di diritto, benché non condiviso da una parte della dottrina,
deve essere qui ribadito, perché esso trova sicuro fondamento giuridico in
molteplici valutazioni giuridiche: il carattere del rapporto di lavoro
subordinato, che non è puramente di scambio, ai sensi degli artt. 1174 e 1321
c.c., coinvolgendo la persona del lavoratore; e che costituisce altresì un
contratto di organizzazione (art. 2094 c.c.), sicché la disciplina degli aspetti
patrimoniali e la collaborazione nell’impresa devono necessariamente
coniugarsi con i precetti costituzionali di tutela della persona dell’uomo che
lavora; il principio di esecuzione in buona fede del contratto di assunzione
(art. 1375 c.c.); infine l’attuale evoluzione del mercato del lavoro, che,
enfatizzando la formazione continua come essenziale caratteristica
dell’attuale momento storico-economico valorizza la funzione della
prestazione lavorativa in tal senso.
Da quanto precede deriva che, diversamente da quanto opina la ricorrente
incidentale, non solo una riduzione qualitativa, ma anche quantitativa delle
mansioni, in una misura significativa il cui apprezzamento è rimesso al
giudice del merito, può comportare dequalificazione.
È evidente poi che ove il lavoratore deduca una dequalificazione per
rilevante riduzione quantitativa delle mansioni, l’onere processuale di
dedurre e provare lo svolgimento di mansioni significative di mancata
dequalificazione compete al convenuto datore di lavoro, che l’eccepisce, in
base all’art. 2697, 2° comma c.c., del quale erroneamente la ricorrente
incidentale deduce violazione.
Quanto ai pretesi vizi di motivazione si deve rilevare che il Tribunale ha
fondato il proprio convincimento, confermativo di quello del primo giudice,
GIURISPRUDENZA
sulla prova testimoniale, la cui valutazione è rimessa al giudice del merito e
che la ricorrente non censura specificamente, attestante la pochezza e brevità
degli incarichi (tipicamente di “ricerche di marcato”), giungendo alla
conclusione che il R. è rimasto praticamente inattivo per quasi un anno.
Peraltro il Tribunale ha altresì rilevato la novità, perché proposta per la prima
volta in appello, e quindi in modo inammissibile, della deduzione datoriale
secondo cui il R. avrebbe tenuto un comportamento inattivo e negligente
nell’espletamento degli incarichi speciali, il che spiegherebbe il breve tempo
impiegato nel loro espletamento. Il ricorso incidentale va quindi rigettato.
Con il primo motivo il ricorrente principale, deducendo violazione e falsa
applicazione degli artt. 2697 e 1226 c.c.; 432, 115, 2° comma, 112 c.p.c.;
omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della
controversia (art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c.) censura la sentenza impugnata perché,
pur avendo ribadito l’esistenza della dequalificazione accertata dal Pretore,
ha negato la liquidazione del relativo danno, sull’erroneo presupposto che
non risultavano provati in causa elementi di valutazione e parametri di
liquidazione omogenei ed utilizzabili in una generalità di casi analoghi
Sostiene che gli artt. 1226 c.c. e 432 c.p.c., che costituisce una specificazione
del primo precetto nel processo del lavoro, richiedono ai fini della loro
applicazione, che risulti provata l’esistenza del danno e che la sua entità non
sia obiettivamente provabile, o sia di rilevante difficoltà probatoria.
Contesta che le norme invocate richiedano, come affermato dal Tribunale,
che la parte fornisca anche la prova di elementi di valutazione e parametri di
liquidazione omogenei ed utilizzabili in una generalità di casi analoghi, utili
per l’esercizio del potere-dovere della liquidazione equitativa del danno da
parte del giudice.
Con il secondo motivo il ricorrente principale, deducendo violazione e
falsa applicazione degli artt. 2697 c.c. e 437, 2° comma, c.p.c., (art. 360, n. 3
c.p.c.) censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto preclusa
la possibilità di produrre in grado di appello due buste paga, che il ricorrente
intendeva fare valere come parametro per la valutazione equitativa.
I due motivi, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, sono
fondati.
La sentenza impugnata ha ritenuto provato in causa il danno da
dequalificazione, inteso come danno al patrimonio professionale in senso stretto.
Essa così si è espressa: “…Orbene ove si consideri che in ipotesi di
dequalificazione professionale la sussistenza del danno discende
direttamente dallo stesso fatto del depauperamento, in quanto lesivo di beni
primari della persona del lavoratore, rappresentandone una logica ed
163
GIURISPRUDENZA
164
ineluttabile conseguenza, sicché suole parlarsi di danno in re ipsa per la cui
esistenza non occorre fornire alcuna prova, o che comunque lo stesso può
desumersi presuntivamente dalle modalità del fatto attesa la evidente natura
diabolica di una rigorosa prova, risulta all’evidenza che nella fattispecie si
era raggiunta la prova della esistenza del danno, anche se non della sua
determinazione quantitativa…nell’ambito generico del danno alla
professionalità da demansionamento si è distinto il danno al patrimonio
professionale in senso stretto, in quanto effetto inevitabile e in re ipsa di un
significativo demansionamento, il danno alla personalità e alla dignità del
lavoratore, quando la dequalificazione assume anche modalità lesive di tali
beni e danno alla vita di relazione ed eventuale danno biologico, quando i
comportamenti lesivi siano tali da creare pregiudizio a tali sfere della
persona. Con riferimento al primo di essi o ai primi due, anche a non
condividere la tesi del danno in re ipsa, se è pur vero che la sussistenza e
l’entità di tale danno varia in relazione alla delicatezza, complessità delle
mansioni svolte e al grado di responsabilità, e alla loro obsolescibilità, in
relazione alla concreta situazione strutturale, risultando maggiormente
apprezzabile nelle mansioni di più elevata qualificazione professionale in
realtà dinamiche di maggiore evoluzione tecnologica, non può negarsi la
sussistenza dello stesso in relazione alla c.d. carenza di prova della effettiva
esistenza del danno, attesa la natura a volte diabolica della medesima e la sua
rilevabilità e accertabilità, viceversa, presuntivamente soprattutto in
relazione al tipo di lesione e conseguentemente al maggiore o minor divario
tra le mansioni precedenti e le nuove nell’ambito dei valori di riferimento
diffusi nel contesto contrattuale nel quale si svolge il rapporto. E nel caso di
specie tale danno emerge presuntivamente dal raffronto tra le
funzioni/mansioni svolte dal R. L. e lo stato di totale inattività che
impoverisce, con modalità ingravescenti con il passare del tempo, la sua
professionalità non solo sotto il profilo del mancato esercizio e del mancato
aggiornamento ma anche sotto il profilo di ulteriore sviluppo professionale e
di possibilità di collocamento nel mercato…”.
Ciò posto sul piano sostanziale della natura e della prova del danno, il
Tribunale ha poi affermato, sul piano processuale, che il Pretore ha errato
nell’emettere sentenza di condanna generica, rinviando la liquidazione del
danno a separato giudizio, perché tale sdoppiamento del processo non è
consentito nei casi in cui, come il presente, la parte aveva richiesto una
condanna specifica con valutazione equitativa del danno; ma ha concluso
che la domanda doveva essere rigettata in toto, perché la parte che richieda
una valutazione equitativa del danno deve fornire gli elementi di riscontro,
GIURISPRUDENZA
quale ad es. l’ammontare della retribuzione, che il giudice possa impiegare
per applicare i parametri di liquidazione omogenei e utilizzabili in una
generalità di casi analoghi.
Dallo stesso tenore testuale della motivazione sopra riportata risalta la
contraddizione tra premesse, corrette, e conclusioni, errate.
È corretto, e corrispondente alla giurisprudenza di questa Corte, che il
danno da dequalificazione professionale può assumere aspetti diversi, in
quanto può consistere sia nel danno patrimoniale derivante
dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e
dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, sia nel pregiudizio
subito per perdita di chance ossia di ulteriori possibilità di guadagno, sia in
una lesione del diritto del lavoratore all’integrità fisica o, più in generale, alla
salute ovvero all’immagine o alla vita di relazione (Cass. 14.11.2001 n. 14199;
Cass. 6.11.2000 n. 14443; Cass. 18.10.1999 n. 11727). Non è dubbio che la
prova di tali aspetti di danno debba essere data dal lavoratore (Cass.
11.8.1998, n. 7905; Cass. 19.4.1996 n. 3696), e possa essere articolata in
relazione al tipo di danno preteso, e quindi data anche mediante la prova
presuntiva (Cass. 2.11.2001 n. 13580), sufficiente di per sé sola a sorreggere
la decisione (Cass. 18.1.2000 n. 491: Cass. 3.2.1999 n. 914). Così, se per il
danno biologico è necessaria la prova della lesione dell’integrità psicofisica,
nella quale si sostanzia il danno (Corte Cost. sent. 372/1994; Cass. 11.1.2001
n. 333), per la perdita della capacità concorrenziale sul mercato del lavoro
può essere sufficiente la allegazione e la prova di circostanze di fatto gravi,
precise e concordanti (art. 2729 c.c.) dalle quali il giudice del merito possa
dedurre l’esistenza di tale danno patrimoniale.
Nel caso di specie il Tribunale, con motivazione articolata e rispondente ai
principi di diritto sopra cennati, e che per tale motivo supera il vaglio di
legittimità, ha statuito che la lunghezza dell’inattività (circa un anno), la
elevata qualità professionale delle mansioni, le caratteristiche concorrenziali
del mercato del lavoro, siano indizi sufficienti per dedurre l’esistenza di un
danno professionale.
La sentenza impugnata ha quindi ben risolto il primo quesito che la causa
gli poneva, e cioè di come si provi il danno da dequalificazione.
Una volta provata l’esistenza del danno, che costituisce il necessario
presupposto per la valutazione equitativa, il giudice che abbia accertato, in
relazione alle particolarità della fattispecie, l’impossibilità o la rilevante
difficoltà di provare il danno nel suo preciso ammontare non può sottrarsi
dall’obbligo della sua valutazione equitativa, ed incorre in violazione dell’art.
1226 c.c. ed in vizio logico di motivazione la sentenza che respinga la
165
GIURISPRUDENZA
166
domanda sul mero rilievo che le prove fornite non sono sufficientemente
precise (Cass. 10.3.2000 n. 2796).
Il Tribunale ha rigettato la domanda ritenendo che sia onere della parte,
una volta provata l’esistenza del danno fornire gli elementi di riscontro, quali
l’ammontare della retribuzione, perché il giudice possa utilizzare parametri
di valutazione omogenei ed impiegabili in una generalità di casi analoghi, ma
non ha consentito la produzione delle buste paga in appello, ritenendoli
documenti nuovi.
L’elaborazione di parametri di valutazione omogenei ed impiegabili in una
generalità di casi analoghi per la determinazione del danno in via equitativa
è compito della giurisprudenza (con l’ausilio della dottrina). Così, ad es., ove
la parte richieda il risarcimento del danno biologico oggettivo, ella dovrà
provare la lesione della integrità psico fisica e la sua gravità mediante
appropriata certificazione medica, eventualmente verificabile con
consulenza tecnica d’ufficio medico legale; sarà poi il giudice del merito ad
elaborare i criteri omogenei per la sua valutazione equitativa (ex plurimis
Cass. 8.5.2001 n. 6396); ove poi chieda il danno biologico soggettivo, dovrà
provare altresì quelle particolari abitudini di vita che la lesione ha inciso
peggiorando la qualità della vita stessa.
Poiché nella presente causa è chiesto il danno da dequalificazione
professionale che comprende anche una componente patrimoniale, il
Tribunale non poteva negare al ricorrente la possibilità processuale, ove
ritualmente esercitata, di offrire un elemento di riscontro (la retribuzione),
per la valutazione equitativa di tale danno. La giurisprudenza di questa corte
si è consolidata nel ritenere che nel rito del lavoro, la disciplina restrittiva
sull’ammissione delle nuove prove non si applica alla produzione di nuovi
documenti, che può avvenire senza necessità di una preventiva valutazione,
ad opera del collegio, della loro indispensabilità, sempre che essi siano
specificamente indicati nel ricorso dell’appellante o nella memoria difensiva
dell’appellato e depositati contestualmente a tali atti e comunque prima
dell’udienza di discussione, e senza che sia influente la circostanza che la
parti avrebbero potuto o dovuto esibirli nel primo grado di giudizio (ex
plurimis: Cass. 5.6.2000 n. 10335).
Poiché nella specie non è mai stato affermato che la produzione dei
documenti nuovi in appello sia stata effettuata al di fuori delle condizioni
richieste dalla giurisprudenza di legittimità citata, il ricorso principale va
accolto, la sentenza impugnata cassata, e gli atti rimessi al giudice del rinvio,
che si designa nella Corte d’Appello di Firenze, la quale deciderà la
controversia attenendosi al seguente principio di diritto: “Ove la parte abbia
GIURISPRUDENZA
chiesto, con domanda di condanna specifica, la liquidazione del danno da
dequalificazione, il giudice del merito che abbia accertato, anche tramite la
prova presuntiva, l’esistenza di un danno patrimoniale da dequalificazione
(nella specie per significativa riduzione quantitativa della mansioni), non
può sottrarsi all’obbligo di una sua determinazione, anche in via equitativa,
per la quale può costituire utile elemento di riferimento l’entità della
retribuzione, che la parte stessa abbia ritualmente chiesto di provare
mediante produzione di buste paga”.
Il giudice del rinvio provvederà altresì alle spese del presente giudizio.
P. Q. M.
accoglie il ricorso principale per quanto di ragione, rigetta l’incidentale,
cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di
Appello di Firenze.
167
GIURISPRUDENZA
Corte di Cassazione, sezione lavoro, 2 novembre 2001, n. 13580
(Pres. Saggio; Rel. De Matteis)
Riferimenti normativi: artt. 2103, 2043, 1226 e 2697 c.c.; art. 360 c.p.c.
168
Lavoro - lavoro subordinato - categorie e qualifiche dei prestatori di lavoro mansioni - diverse da quelle dell’assunzione - demansionamento
professionale del lavoratore - conseguente diritto al risarcimento danni prova del danno - accertamento del giudice di merito - incensurabilità in
cassazione - limiti - liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c. - ammissibilità.
In caso di accertato demansionamento professionale del lavoratore in
violazione dell’art. 2103 c.c., il giudice del merito, con apprezzamento di
fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere
l’esistenza del relativo danno, determinandone anche l’entità in via
equitativa, con processo logico-giuridico attinente alla formazione della
prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla durata
della qualificazione e alle altre circostanze del caso concreto.
(Massima e sommari ufficiali)
(omissis)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso in opposizione ex art. 209 L.F. depositato il 12.9.1995 l’ing. P.
A. ha convenuto in giudizio, innanzi al Tribunale di Roma Sezione
Fallimentare, la B. P. e C. s.p.a. in liquidazione coatta amministrativa,
chiedendo che venisse riconosciuto il suo diritto all’ammissione al passivo,
in via privilegiata, di L. 501.785.718, per i seguenti crediti di lavoro:
- indennità c.d. supplementare (prevista dal contratto dei dirigenti di
azienda), pari al corrispettivo del preavviso + n. 2 mensilità aggiuntive
L. 149.928.482;
- idem: aumento in funzione dell’età L. 42.836.748;
- risarcimento del danno per dequalificazione (18 mensilità) L. 257.020.488;
- differenza gratifica contrattuale L. 52.000.000, oltre rivalutazione
monetaria ed interessi legali.
Con sentenza 2-23 luglio 1997 n. 14560 il Tribunale di Roma ha dichiarato
GIURISPRUDENZA
il diritto dello stesso all’ammissione, in via privilegiata, nello stato passivo
della società B. P. e C. in liquidazione coatta amministrativa per la somma di
L. 128.660.000, di cui 98 milioni per risarcimento del danno alla
professionalità, cosi quantificato in via equitativa, e L. 30.660.000 per
gratifica di bilancio, oltre interessi e rivalutazione, i primi sino alla
liquidazione dell’attivo, la seconda sino al deposito dello stato passivo; ha
respinto la richiesta di indennità supplementare; ha compensato per metà le
spese processuali.
Avverso detta sentenza hanno proposto appello principale il P., dolendosi
del mancato riconoscimento dell’indennità supplementare, ed appello
incidentale la B., per ottenere la dichiarazione di insussistenza del diritto del
P. al risarcimento del danno alla professionalità e all’ammissione allo stato
passivo della somma di L. 128.600.000.
Con sentenza 1-19 luglio 1999 n. 2325 la Corte d’Appello di Roma ha
respinto entrambi gli appelli, compensando le spese del grado.
Avverso tale sentenza, depositata il 19.7.1999 e non notificata, ha proposto
ricorso per Cassazione la B. P. e C. s.p.a. in liquidazione coatta
amministrativa, notificato il 18 luglio 2000, con due motivi.
L’intimato si è costituito con controricorso, resistendo, e proponendo
ricorso incidentale per il riconoscimento della indennità supplementare,
sotto due profili.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Vanno preliminarmente riuniti il ricorso principale ed il ricorso incidentale
proposti avverso la stessa sentenza, ai sensi dell’art. 335 c.p.c.
Con il primo motivo la ricorrente principale si duole del riconoscimento
del danno alla professionalità in totale carenza di prova, anche nell’entità;
deduce omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto
decisivo della controversia (art. 360, nn. 5 c.p.c.).
Assume che il danno alla professionalità presuppone la dequalificazione,
ma è una entità distinta ed ulteriore rispetto alla prima. Lamenta che il
giudice di appello abbia riconosciuto il danno senza motivare sul punto.
Il motivo non è fondato.
Nella giurisprudenza di questa Corte convivono due orientamenti sul punto,
uno più antico, per il quale “Il prestatore di lavoro che chieda la condanna del
datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale
componente di danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico)
169
GIURISPRUDENZA
170
subito a causa della lesione del- proprio diritto di eseguire la prestazione
lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, lesione idonea a
determinare una dequalificazione del dipendente stesso, deve fornire la prova
dell’esistenza di tale danno, la quale costituisce presupposto indispensabile
per una sua valutazione equitativa. Tale danno non si pone infatti quale
conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella
sopraindicata categoria, onde non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità
lesiva della condotta datoriale, facendo carico al lavoratore che denunzi il
danno subito fornirne la prova in base alla regola generale dell’art. 2697 c.c.
(Cass. 11 agosto 1998 n. 7905; Cass. 18 aprile 1996 n. 3686).
L’altro, più recente, secondo il quale il demansionamento professionale di
un lavoratore non solo viola lo specifico divieto di cui all’art. 2103 c.c. ma
ridonda in lesione del diritto fondamentale, da riconoscere al lavoratore
anche in quanto cittadino, alla libera esplicazione della sua personalità nel
luogo di lavoro con la conseguenza che il pregiudizio correlato a siffatta
lesione, spiegandosi nella vita professionale e di relazione dell’interessato,
ha una indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di
risarcimento e di valutazione anche equitativa, secondo quanto previsto
dall’art. 1226 c.c. (Cass. 18 ottobre 1999 n. 11727, che ha cassato la sentenza
impugnata la quale aveva respinto la domanda di risarcimento del danno
proposta dal lavoratore demansionato sull’assunto del mancato
assolvimento, da parte dello stesso, dell’onere probatorio relativo alla
sussistenza di un danno patrimoniale in qualche modo risarcibile; Cass, 6
novembre 2000 n. 14443).
Nel caso di specie la B. aveva censurato con l’appello incidentale la
sentenza del Tribunale perché avrebbe arbitrariamente statuito l’obbligo di
risarcire i danni al P. per la presunta forzata inattività e inoperosità cui era
stato costretto, laddove il medesimo dal gennaio 1994 non era stato inattivo
e non aveva pertanto subito alcun danno alla professionalità.
Il giudice di appello ha replicato che le risultanze testimoniali sono
favorevoli alla sussistenza dei presupposti per il risarcimento per la
riduzione dei poteri di dirigente e non sono smentite dalla documentazione
prodotta in grado di appello.
Il giudice del merito, con accertamento in fatto a lui demandato, ha quindi
statuito che, in relazione alla durata della inoperosità, ed alle altre
circostanze di fatto relative, sussistono i presupposti per il risarcimento del
danno, così superando la problematica dualistica posta dalla ricorrente.
Infatti il giudice del merito, accertata l’esistenza di una dequalificazione,
può desumere l’esistenza del relativo danno, determinandone anche l’entità
GIURISPRUDENZA
in via equitativa, con processo logico giuridico attinente alla formazione della
prova, anche presuntiva (sufficiente di per sé sola a sorreggere la decisione:
Cass. 18 gennaio 2000 n. 491), in base agli elementi di fatto relativi alla durata
della dequalificazione, e alle altre circostanze relative al caso concreto.
In tali termini la sentenza impugnata non appare censurabile.
Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente, deducendo insufficiente e
contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia (art. 360,
nn. 5 c.p.c.) censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha riconosciuto
la gratifica di bilancio senza motivare sul punto.
Il motivo è inammissibile.
La sentenza impugnata ha rigettato l’appello incidentale della B., odierna
ricorrente principale, la quale censurava il riconoscimento delle differenze
sulla gratifica natalizia obiettando che la gratifica era annuale, proporzionata
al periodo lavorato, e condizionata all’approvazione dei bilanci che negli
anni 1993 e 1994 non erano stati approvati.
Il giudice d’appello ha ritenuto adeguata la motivazione del Tribunale, che
ha riconosciuto le gratifiche di bilancio complessivamente in L. 36.660.000,
di cui 12.000.000 relativamente all’anno 1993 e L. 18.660.000 per il periodo
di lavoro nell’anno 1994, quali anticipi da conguagliare al momento della
definitiva liquidazione, “secondo quanto previsto dall’allegato alla lettera di
assunzione del 26 giugno 1991”.
A fronte di tale motivazione che dà conto, concisamente come richiesto
dall’art. 132 c.p.c. dei motivi dell’impugnazione e di quelli della decisione, era
onere della ricorrente, a pena di ammissibilità dell’ impugnazione, contestare
la ragione della decisione tratta dalla clausola del contratto di assunzione.
Con il primo motivo il ricorrente incidentale, deducendo omessa
motivazione su punto decisivo della controversia (art. 360, n. 5 c.p.c.),
censura la sentenza impugnata nella parte in cui non ha riconosciuto la
indennità supplementare.
Egli pretende di averne diritto in base alla teoria della c.d. efficacia reale
del preavviso, secondo la quale nel contratto di lavoro a tempo indeterminato
la dichiarazione di recesso ha efficacia non nel momento in cui viene emessa
ma nel momento in cui viene a scadere il termine del preavviso, che nella
specie sarebbe scaduto 8 mesi dopo il 31 luglio 1994, quando era già entrato
in vigore il comma 2bis L. 27 dicembre 1994, n. 738 (conversione in legge,
con modificazioni, del D.L. 22 novembre 1994, n. 643, recante norme di
:interpretazione e di modificazione del D.L. 19 dicembre 1992, n. 487,
convertito, con modificazioni, dalla L. 17 febbraio 1993, n. 33 e successive
integrazioni, concernente la soppressione dell’EFIM) il quale consente ai
171
GIURISPRUDENZA
172
dirigenti delle società finanziarie caposettore, delle società di servizi e delle
società di servizi finanziari, controllate dall’EFIM, di usufruire dei
trattamenti indicati nell’articolo 3, comma 2 quater, del decreto-legge 19
dicembre 1992, n. 487, convertito, con modi-ficazioni, dalla legge 3-7
febbraio 1993, n. 33, come previsto per i dirigenti EFIM.
Il Tribunale di Roma ha affermato che il rapporto di lavoro è cessato il 31
luglio 1994, quando la B. ha disposto il licenziamento del P. con effetto
immediato, con dispensa dal lavoro per il periodo di preavviso, pagandogli
contestualmente la relativa indennità sostitutiva del preavviso.
Il P. ha censurato tale affermazione davanti al giudice d’appello, deducendo
di avere impugnato tempestivamente la quietanza liberatoria.
Il giudice d’appello ha rilevato che il P. con la lettera inviata alla B. il 17
ottobre 1994, dando atto di aver ricevuto le indennità di fine rapporto e
l’indennità sostitutiva del preavviso e dichiarando di impugnare la quietanza
liberatoria sottoscritta in occasione del pagamento con la quale aveva
affermato di non aver nulla a pretendere, rivolse solo l’istanza per ottenere il
riconoscimento dell’indennità supplementare e del risarcimento danni, ma
non impugnò la risoluzione del rapporto né la durata dello stesso cosicché la
percezione dell’indennità sostitutiva del preavviso ha determinato
l’interruzione del rapporto di lavoro al 31 luglio 1994.
Il ricorrente incidentale contesta di avere ricevuto la indennità sostitutiva
del preavviso al momento del recesso, e dichiara di avere impugnato con
lettera 17.10.1994 la quietanza liberatoria del pagamento del trattamento di
fine rapporto e del preavviso, avvenuta successivamente al recesso.
Il motivo non è fondato.
Il preavviso di licenziamento comporta la prosecuzione del rapporto di
lavoro e di tutte le connesse obbligazioni fino alla scadenza del termine di
preavviso solo nell’ipotesi in cui il lavoratore continui nella prestazione
della sua attività, mentre si verifica l’immediata interruzione del rapporto
quando intervenga fra le parti un accordo in proposito, anche manifestato per
fatti concludenti, come nell’ipotesi di accettazione senza riserve da parte del
lavoratore dell’indennità sostitutiva del preavviso (Cass. 29 luglio 1999 n.
8256).
L’esistenza del consenso tramite l’accettazione della indennità sostitutiva
del preavviso costituisce accertamento di fatto, che il giudice di appello, con
motivazione immune da vizi logici, ha compiuto distinguendo tra
contestazione della somma ricevuta e mancata contestazione della cessazione
immediata della prestazione lavorativa.
Con il secondo motivo di ricorso incidentale il P. deduce che in ogni caso,
GIURISPRUDENZA
la indennità supplementare gli è dovuta perché direttamente prevista dal
contratto collettivo per dirigenti industriali (la cui applicazione al rapporto
di lavoro del ricorrente è richiamata nella lettera di assunzione), per il caso
di cessazione del rapporto del dirigente a seguito di “ristrutturazione,
riorganizzazione, riconversione, ovvero crisi settoriale o aziendale”, ipotesi
per la quale è stata motivata la cessazione del rapporto di lavoro con il
ricorrente, come si evince dalla lettera di licenziamento datata 28.7.94, che
cosi si esprime: “... Tale situazione ha determinato una inevitabile riduzione
e riorganizzazione delle attività societarie con conseguente
ridimensionamento e soppressione di alcune posizioni. Nell’ambito di detto
piano rientra anche la funzione da Lei occupata...”.
Il ricorrente deduce che il licenziamento non è stato determinato dalla
cessazione della attività della B. C. e P. (come sostenuto dalla convenuta), ma
proprio nell’ambito di quella ristrutturazione alla quale il Ccnl ricollega il
pagamento della indennità supplementare.
Anche questo ultimo motivo è infondato.
Come riferito dal ricorrente e non contestato da controparte, il contratto
collettivo per i dirigenti industriali prevede a loro favore una indennità
supplementare per il caso di cessazione dei rapporto del dirigente nelle
distinte ipotesi di “ristrutturazione, riorganizzazione, riconversione, ovvero
crisi settoriale o aziendale”.
Il giudice di appello, con statuizione non censurata, ha escluso che nel caso
in esame ricorresse l’ipotesi di crisi aziendale.
Il ricorrente appunta le sue censure sull’ipotesi di riorganizzazione delle
attività societarie, rientrante nella previsione contrattuale, e con la quale è
stato motivato il suo licenziamento.
Ma anche questa ipotesi è stata esclusa dal giudice di merito, con
accertamento in fatto a lui demandato, secondo il quale la liquidazione coatta
amministrativa non ha implicato di per sé i processi previsti dalla norma
contrattuale invocata.
In conclusione il Collegio ritiene che il giudice del merito abbia risolto con
equilibrata decisione il conflitto tra le contrapposte pretese, nel che risiede la
funzione giudiziaria, nel rispetto delle norme legali e contrattuali applicabili;
il che costituisce altresì motivo per la totale compensazione delle spese
processuali del presente giudizio.
P .Q. M.
riunisce i ricorsi e li rigetta. Spese del presente giudizio compensate.
173
GIURISPRUDENZA
Corte di Cassazione, sezione lavoro, 12 novembre 2002, n. 15868
(Pres. Ciciretti; Rel. Prestipino)
Riferimenti normativi: artt. 1226, 2103 e 2043 c.c.
174
Lavoro - lavoro subordinato - categorie e qualifiche dei prestatori di lavoro mansioni - diverse da quelle dell’assunzione - provvedimento di
assegnazione a mansioni inferiori - illegittimità - conseguenze - diritto del
dipendente al risarcimento del danno - sussistenza
Risarcimento del danno - valutazione e liquidazione - criteri equitativi fattispecie in tema di demansionamento - allegazione di specifici elementi di
prova - necessità - esclusione - elementi presuntivi acquisiti al giudizio sufficienza.
Dalla illegittima attribuzione ad un lavoratore di mansioni inferiori rispetto
a quelle assegnategli al momento della assunzione in servizio può derivare
non solo la violazione dell’art. 2103 cod. civ., ma anche la violazione del
diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua
personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 1 e 2 della Costituzione,
da cui consegue il diritto dell’interessato al risarcimento del danno.
In materia di risarcimento del danno per attribuzione al lavoratore di
mansioni inferiori rispetto a quelle in relazione alle quali era stato assunto,
l’ammontare di tale risarcimento può essere determinato dal giudice facendo
ricorso ad una valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 cod. civ., anche
in mancanza di uno specifico elemento di prova da parte del danneggiato, in
quanto la liquidazione può essere operata in base all’apprezzamento degli
elementi presuntivi acquisiti al giudizio e relativi alla natura, all’entità e alla
durata del demansionamento, nonché alle altre circostanze del caso concreto.
(massime e sommari ufficiali)
(omissis)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso del 16 maggio 1991 G. P. conveniva davanti al Pretore del
GIURISPRUDENZA
lavoro di Milano la s.p.a. P. T. M., della quale era dipendente, ed esponeva
che con sentenza emessa dal medesimo Pretore di Milano il 6 aprile 1990 e
passata in giudicato era stato accertato che nel periodo dal 1° febbraio 1988
al 30 maggio 1990, durante il quale era stato disposto prima il suo
trasferimento da Milano a Bologna e, poi, da Bologna a Lucernate di Rho, la
società lo aveva adibito a mansioni inferiori a quelle per le quali lo aveva
assunto (quale corrispondente di lingua greca) e, inoltre, che analogo
demansionamento gli era stato imposto anche nel periodo successivo, vale a
dire dal 1° giugno 1990 in poi. Il ricorrente chiedeva, quindi, che la
convenuta, previa declaratoria dell’illegittimo comportamento dalla stessa
posto in essere anche nel secondo periodo, fosse condannata a risarcirgli i
danni da lui subiti in entrambi i periodi.
Instauratosi il contraddittorio, il Pretore con sentenza del 30 ottobre 1991
accoglieva il ricorso e condannava la società P. a pagare al P., a titolo di
risarcimento dei danni, la complessiva somma di L. 20.000.000.
Questa pronuncia, impugnata dalla società P., veniva riformata dal
Tribunale di Milano con sentenza del 20 ottobre 1993, con la quale veniva
rigetta la domanda proposta dal P.
A seguito di ricorso proposto da quest’ultimo, questa Corte con sentenza n.
10196 del 18 ottobre 1997 cassava la decisione impugnata e rinviava la causa
al Tribunale di Lodi.
Riassunto il giudizio dal P., il giudice del rinvio, con sentenza del 29 marzo
1999, in riforma della pronuncia resa nel giudizio di primo grado dal Pretore di
Milano, rigettava la domanda di risarcimento dei danni proposta dal lavoratore
e condannava lo stesso a restituire alla società P. la somma di danaro erogatagli
in esecuzione della sentenza appellata, oltre agli interessi al tasso legale.
Il Tribunale di Lodi osservava riguardo al primo periodo - in relazione al
quale il demansionamento subito dal lavoratore era stato oggetto di
accertamento con sentenza passata in giudicato - che, non avendo il P.
dimostrato in concreto il danno subito, non poteva essere accolta la domanda
di risarcimento, dato che, nella ricorrenza di “una assoluta carenza
probatoria”, non poteva essere condiviso “l’automatismo operato in prime
cure” mediante la disposta liquidazione equitativa; e, quanto al secondo
periodo, che dalle deposizioni testimoniali erano risultate smentite le
allegazioni del P. circa lo svolgimento di mansioni inferiori a quelle
assegnategli al momento dell’assunzione in servizio.
Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione il P. in base a
due motivi.
La società P. ha resistito con controricorso.
175
GIURISPRUDENZA
MOTIVI DELLA DECISIONE
176
Con il primo motivo del ricorso il P. denuncia la violazione e la falsa
applicazione degli artt. 2909, 2103, 1226 c.c. e il vizio di omessa,
insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della
controversia, in relazione all’art. 360, primo comma n. 3 e 5, c.p.c. e sostiene
che il Tribunale non avrebbe applicato i principi di diritto più volte enunciati
dalla giurisprudenza di legittimità in tema di risarcimento del danno
conseguente al demansionamento subito dal lavoratore, giacché, una volta
definitivamente accertato – con efficacia di giudicato, come aveva rilevato la
Corte di Cassazione nella sentenza n. 10196 del 1997 – che nel periodo dal
1° febbraio 1988 al 30 maggio 1990 gli erano state attribuite mansioni
inferiori a quelle per le quali era stato assunto, occorreva valutare il
comportamento posto in essere dal datore di lavoro, per verificare se il fatto
in sé dell’assegnazione alle inferiori mansioni, oltre a provocare un concreto
pregiudizio alla sua vita di relazione, avesse causato la lesione dei valori
della sua personalità, in modo da consentire la liquidazione equitativa del
complessivo danno da lui patito.
Questo motivo è fondato.
La censura dedotta dal P., come va subito rilevato per disattendere la
corrispondente eccezione preliminare formulata dalla società
controricorrente, non supera l’ambito del sindacato della Corte di Cassazione
sulla sentenza del giudice del rinvio, ponendosi la stessa, viceversa, proprio
nel solco tracciato dalla precedente pronuncia di legittimità.
Come si legge in tale pronuncia, il Tribunale di Milano aveva stigmatizzato
l’operato del primo giudice, il quale aveva collegato in maniera automatica il
risarcimento al demansionamento, perché non era stato tenuto conto del fatto
che “non era stata acquisita la prova in ordine alle effettive mansioni per
svolgere le quali il dipendente era stato assunto”; e il P. aveva censurato
questa motivazione in base al rilievo che il giudice di appello, “pur
riconoscendo che quella pronunciata il 6 aprile 1990 dal Pretore di Milano
aveva acquisito forza di giudicato in ordine alla dequalificazione delle
mansioni attribuitegli, ne aveva poi disconosciuto l’efficacia vincolante ai
fini risarcitori, rilevando una presunta deficienza probatoria relativamente
alle mansioni che con il contratto di assunzione erano state affidate al
lavoratore”.
Questa censura, come aveva rilevato la Corte, era fondata, dato che nella
precedente sentenza ormai passata in giudicato il Pretore di Milano, dopo
aver individuato tanto le originarie mansioni assegnate al lavoratore quanto
GIURISPRUDENZA
quelle attribuitegli in un momento successivo, aveva concluso per la non
equivalenza delle prime in relazione alle seconde; sicché, in forza dei
principi enunciati dalla giurisprudenza relativamente alla formazione del
giudicato e alla efficacia oggettiva che ne consegue, il giudice di appello non
poteva “rimettere in discussione sia le mansioni oggetto della assunzione in
servizio che quelle successivamente svolte in occasione dei due precedenti
trasferimenti e il carattere deteriore di queste rispetto alle prime”.
Come risulta da queste argomentazioni e al contrario di quanto sostiene la
società resistente, la doglianza ora dedotta dal P. è perfettamente aderente al
tema discusso nella precedente sentenza emanata da questa Corte, la cui
motivazione non solo era stata per intero rivolta proprio a sindacare la
decisione, impugnata dal lavoratore, con la quale dal Tribunale di Milano era
stata rigettata la domanda di risarcimento del danno, ma addirittura già
conteneva – a ben vedere, proprio per aver fatto riferimento all’elemento
oggettivo del demansionamento – i criteri direttivi ai quali il giudice del
rinvio avrebbe dovuto attenersi nella liquidazione del danno (e ai quali, come
si vedrà, lo stesso non si è uniformato).
Ciò premesso, riconosciuta l’ammissibilità della censura, per rilevarne la
fondatezza va richiamata la sentenza n. 13299, emanata da questa Corte il 16
dicembre 1992, alla quale ha fatto riferimento il P. nel ricorso per cassazione
e che, in effetti, ha costituito punto fermo per la successiva elaborazione
giurisprudenziale in tema di conseguenze derivanti dalla violazione dell’art.
2103 c.c. da parte del datore di lavoro.
In tale sentenza è stato affermato che l’illegittima assegnazione del
lavoratore a mansioni diverse e di minor qualificazione rispetto a quelle
anteriori non solo viola lo specifico divieto posto dalla disposizione di legge,
ma integra la lesione di un diritto fondamentale dello stesso lavoratore, quale
cittadino, in ordine alla esplicazione della sua personalità anche nel luogo di
lavoro – garantita dagli artt. 1 e 2 della Costituzione – con la conseguenza che
il pregiudizio correlato a tale lesione, spiegandosi nella vita professionale e
di relazione dell’interessato, ha una indubbia dimensione patrimoniale che
lo rende suscettibile di risarcimento, per la cui determinazione può trovare
applicazione l’art. 1226 c.c. che consente al giudice di procedere alla
liquidazione del danno con criterio equitativo.
Avuto riguardo a questo fondamentale principio direttivo - sempre poi
interamente recepito, come sopra è stato detto, dalla giurisprudenza di
legittimità (v., fra le altre sentenze, Cass. 18 ottobre 1999 n. 11727, Cass. 16
novembre 2000 n. 14443 e Cass. 2 novembre 2001 n. 13580) affetta dai vizi
denunciati dal ricorrente – deve essere considerata la motivazione che
177
GIURISPRUDENZA
178
sorregge la sentenza impugnata su questo punto della controversia, dato che
il Tribunale di Lodi, venendo meno a quello che era un suo precipuo dovere,
non ha compiuto alcun accertamento in ordine alla lesione del diritto alla
esplicazione della personalità del Pournos nel luogo di lavoro, con riflessi
nella sua vita professionale e di relazione, né ha considerato che la mancata
allegazione di uno specifico elemento di prova diretta in merito al
pregiudizio derivante da tale lesione non valeva ad escludere la valutazione
equitativa del danno.
Per quanto concerne, in particolare, questo secondo vizio che inficia la
sentenza impugnata, è noto che il potere discrezionale assegnato dall’art.
1226 c.c. al giudice del merito presuppone la ricorrenza di una duplice
condizione e cioè che sia certa l’esistenza del danno e che sia impossibile o
sommamente difficile provarne il preciso ammontare (cfr., fra le tante
sentenze, Cass. 11 febbraio 1998 n. 1382 e Cass. 12 gennaio 1996 n. 188) e, a
tal fine, vanno tenuti presenti i seguenti criteri: a) poiché la liquidazione
equitativa del danno va effettuata soprattutto quando, in relazione alla
peculiarità del fatto dannoso, riesca difficoltosa la precisa determinazione
del pregiudizio subito dal danneggiato, il giudice, pur essendo tenuto a dare
conto degli elementi di fatto presi in considerazione per pervenire alla
decisione finale, non è però obbligato a fornire una dimostrazione minuziosa
e particolareggiata del rapporto di consequenzialità fra gli elementi esaminati
e l’ammontare del danno liquidato, sufficiente essendo che il suo
accertamento scaturisca dall’apprezzamento degli elementi presuntivi
acquisiti al giudizio e “da un esame della situazione processuale globalmente
considerata” (Cass. 15 gennaio 2000 n. 409 e Cass. 25 settembre 1998 n.
9588); b) la liquidazione equitativa, proprio riguardo alla specifica materia
oggetto del presente giudizio, deve essere compiuta anche quando sia
addirittura mancata la dimostrazione, in via diretta, dell’esistenza di un
effettivo pregiudizio patrimoniale (Cass. 16 novembre 2000 n. 14443), dato
che la prova presuntiva va ricavata dagli elementi di fatto relativi alla durata
del demansionamento e dalle altre circostanze del caso concreto (Cass. 2
novembre 2001 n. 13580).
Tenuto conto di tutti questi rilievi, non può essere tenuta ferma la sentenza
impugnata nella parte in cui è stato escluso il risarcimento del danno derivante
dal demansionamento (ormai definitivamente) acclarato nella sentenza passata
in giudicato, avendo il giudice del rinvio, senza svolgere alcuna indagine in
ordine alla concreta lesione patita dall’interessato e in base a una non attenta
lettura della sentenza di annullamento pronunciata da questa Corte, preteso
che da parte del danneggiato venisse fornita la prova rigorosa di un danno il
GIURISPRUDENZA
cui ammontare era sommamente difficoltoso dimostrare.
Con il secondo motivo dell’impugnazione il ricorrente deduce un ulteriore
vizio di violazione di legge (artt. 2909, 2103, 1226 c.c.) e di motivazione su
punti decisivi della controversia, in relazione all’art. 360, primo comma n. 3
e 5, c.p.c., e lamenta che il Tribunale di Lodi abbia ritenuto che fosse carente
la prova in ordine all’attuato demansionamento anche nel secondo periodo
(dal 1° giugno 1990 al 16 maggio 1991) . Sostiene il P. che il Tribunale ha
lasciato intendere che le successive mansioni erano inferiori a quelle
originarie e che l’errore di fondo che inficia la sentenza impugnata consiste
nell’assunto secondo cui bene aveva fatto la società datrice di lavoro ad
attribuire al lavoratore tali inferiori mansioni per essere state soppresse
quelle in precedenza assegnategli (di traduttore dalla lingua greca).
Questo motivo non può essere oggetto di esame e di decisione da parte
della Corte, giacché, come bene deduce la società resistente, la questione
relativa al suddetto secondo periodo era ormai preclusa – e sulla stessa, per
conseguenza, non doveva essere svolta alcuna indagine da parte del giudice
del rinvio – non avendo il P. a suo tempo censurato davanti a questa Corte,
su questo punto della controversia, la sentenza emessa dal Tribunale di
Milano.
Come risulta dal precedente ricorso per cassazione nonché dal contenuto
della sentenza emessa da questa Corte il 18 ottobre 1997, il P. con il suddetto
ricorso aveva investito la sentenza di appello solamente nella parte in cui era
stata rigettata la sua domanda di danni relativa al primo periodo, ma non
aveva dedotto alcuna specifica doglianza riguardo al mancato
riconoscimento del demansionamento per il periodo dal 1° giugno 1990 al 16
maggio 1991: tanto è vero che la Corte nella decisione sopra indicata non
aveva speso alcuna parola per argomentare su tale secondo periodo, avendo
conclusivamente rilevato, a compendio di tutte le considerazioni esposte per
sindacare la decisione impugnata, che, una volta “rilevate le conclusioni
raggiunte con il precedente giudicato, al giudice di appello era inibito
rimettere in discussione sia le mansioni oggetto della assunzione che quelle
successivamente svolte in occasione dei due precedenti trasferimenti e il
carattere deteriore di queste rispetto alle prime”.
Pertanto, per effetto della intervenuta preclusione nella precedente fase del
giudizio, il processo su questo punto della controversia non poteva
proseguire davanti al giudice del rinvio, il quale, lungi dal deciderla nel
merito, avrebbe dovuto dichiarare l’inammissibilità della relativa questione
dedotta dall’interessato, non più prospettabile, per conseguenza, con
l’impugnazione per cassazione.
179
GIURISPRUDENZA
180
Avuto riguardo a tutte le argomentazioni che precedono, in accoglimento
del primo motivo del ricorso e pronunciando sul secondo motivo, la sentenza
impugnata deve essere cassata. La cassazione – in applicazione,
rispettivamente, degli artt. 383, primo comma, e 382, terzo comma, secondo
periodo, c.p.c. – deve essere seguita dal rinvio della causa ad un altro giudice
per la parte relativa al primo periodo del dedotto demansionamento (1°
febbraio 1988-30 maggio 1990) e senza rinvio per la parte relativa al secondo
periodo (1° giugno 1990-16 maggio 1991).
Il giudice del rinvio, che deve essere designato nella Corte di Appello di
Brescia, dovrà uniformarsi al seguente principio di diritto: “posto che dalla
attribuzione al lavoratore di mansioni inferiori a quelle assegnategli al
momento della assunzione in servizio può derivare non solo la violazione
dell’art, 2103 c.c., ma anche la lesione del diritto fondamentale alla libera
esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, garantito dagli artt. 1
e 2 della Costituzione, e posto che il pregiudizio correlato a siffatta lesione,
promanantesi nella vita professionale e di relazione dell’interessato e avente
indubbia natura patrimoniale, è suscettibile, di per sé, di risarcimento,
l’ammontare di tale risarcimento può essere determinato dal giudice del
merito mediante valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., anche in
mancanza della allegazione di uno specifico elemento di prova da parte del
danneggiato, la liquidazione dovendo essere effettuata in base
all’apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio e relativi
alla natura, alla entità e alla durata del demansionamento nonché alle altre
circostanze del caso concreto”.
Il giudice del rinvio dovrà anche provvedere sulle spese del presente
giudizio di legittimità.
P. Q. M.
la Corte accoglie il primo motivo del ricorso, cassa la sentenza impugnata
per la parte relativa al primo periodo del dedotto demansionamento (1°
febbraio 1988-30 maggio 1990) e rinvia la causa alla Corte di Appello di
Brescia.
Pronunciando sul secondo motivo, cassa senza rinvio la sentenza impugnata
per la parte relativa al secondo periodo (1° giugno 1990-16 maggio 1991).
Il giudice del rinvio pronuncerà anche sulle spese di questo giudizio di
legittimità.
GIURISPRUDENZA
Corte di Cassazione, sezione sesta penale, 12 marzo 2001, n. 10090
(Pres. Sansone; Rel. Garribba)
Riferimenti normativi: artt. 572 e 571 c.p.
Reati contro la famiglia - delitti contro l’assistenza familiare - maltrattamenti
in famiglia - in genere - condotta attuata con modalità vessatorie verso
dipendenti al fine del loro sfruttamento - elemento oggettivo del reato di cui
all’art. 572 cod. pen. - sussistenza - abuso di mezzi di correzione o di
disciplina (art. 571 cod. pen.) - esclusione.
Integra il delitto di maltrattamenti previsto dall’art. 572 cod. pen., e non
invece quello di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina (art. 571 cod.
pen.), la condotta del datore di lavoro e dei suoi preposti che, nell’ambito del
rapporto di lavoro subordinato, abbiano posto in essere atti volontari, idonei
a produrre uno stato di abituale sofferenza fisica e morale nei dipendenti,
quando la finalità perseguita dagli agenti non sia la loro punizione per
episodi censurabili ma lo sfruttamento degli stessi per motivi di lucro
personale (fattispecie relativa a un datore di lavoro e al suo preposto che, in
concorso fra loro, avevano sottoposto i propri subordinati a varie vessazioni,
accompagnate da minacce di licenziamento e di mancato pagamento delle
retribuzioni pattuite, corrisposte su libretti di risparmio intestati ai lavoratori
ma tenuti dal datore di lavoro, al fine di costringerli a sopportare ritmi di
lavoro intensissimi).
(massima e sommario ufficiali)
(omissis)
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con sentenza del 1° febbraio 1999 la Corte d’appello di Milano confermava
le condanne alle pene di anni cinque e anni quattro di reclusione
rispettivamente inflitte dal Pretore a E. O. e C. C., dichiarati colpevoli: - il
primo, dei reati continuati di cui agli artt. 572 e 610 cod. pen., per avere,
quale capogruppo responsabile di zona per le vendite porta a porta di
prodotti per la casa per conto della ditta gestita da C. C., maltrattato, con atti
181
GIURISPRUDENZA
182
di vessazione fisica e morale, alcuni giovani sottoposti alla sua autorità nello
svolgimento della attività lavorativa e, inoltre, per avere, con i medesimi atti
di violenza fisica e morale, costretto i predetti giovani a intensificare
l’impegno lavorativo oltre ogni limite di accettabilità; - il secondo, del reato
continuato di cui all’art. 610 cod. pen., per avere, quale titolare della ditta
predetta, avvalendosi del clima di intimidazione creato dai suoi capigruppo
e omettendo di reprimere i loro eccessi, costretto gli anzidetti giovani ad
aumentare l’impegno lavorativo oltre il tollerabile.
Avverso tale sentenza entrambi gli imputati hanno proposto ricorso per
cassazione.
E. denuncia violazione della legge penale e vizio di motivazione: in ordine
alla ritenuta responsabilità per il reato di maltrattamenti, deducendo:
l’insussistenza di un elemento costitutivo del reato, perché il rapporto di
lavoro non può essere assimilato al rapporto di convivenza familiare previsto
dall’art. 572 cod. pen.; che non sarebbe stato provato il dolo, perché gli isolati
episodi di violenza sarebbero stati commessi con dolo d’impeto; in ordine al
reato di violenza privata, deducendo che non sarebbe stata dimostrata la
pretesa coazione, dato che i giovani erano assolutamente liberi di
interrompere il rapporto di lavoro quando l’avessero voluto; in ordine alla
pena inflitta, lamentando che essa sarebbe eccessiva non essendosi tenuto
conto della condotta positiva susseguente al reato.
Cominciando dall’esame del primo motivo, si osserva che, anche se
l’ipotesi di reato di più frequente verificazione è quella che dà il nome alla
rubrica dell’art. 572 cod. pen. (maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli),
la norma incriminatrice prevede altresì le ipotesi di chi commette
maltrattamenti in danno di persona sottoposta alla sua autorità, o a lui
affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, per
l’esercizio di una professione o di un’arte. Si tratta di ipotesi di reato, in
questi ultimi casi, in cui non è richiesta, a differenza della prima, la
coabitazione o convivenza tra il soggetto attivo e quello passivo, ma solo un
rapporto continuativo dipendente da cause diverse da quella familiare.
Venendo al caso in esame, non v’è dubbio che il rapporto intersoggettivo che
si instaura tra datore di lavoro e lavoratore subordinato, essendo
caratterizzato dal potere direttivo e disciplinare che la legge attribuisce al
datore nei confronti del lavoratore dipendente, pone quest’ultimo nella
condizione, specificamente prevista dalla norma penale testé richiamata, di
persona sottoposta alla sua autorità, il che, sussistendo gli altri elementi
previsti dalla legge, permette di configurare a carico del datore di lavoro il
reato di maltrattamenti in danno dal lavoratore dipendente. Vi è da
GIURISPRUDENZA
aggiungere che nel caso di specie il rapporto interpersonale che legava autore
del reato e vittime era particolarmente intenso, poiché, a parte il contatto
quotidiano dovuto a ragioni di lavoro, nel corso delle lunghe trasferte,
viaggiando su un unico pulmino, consumando insieme i pasti e alloggiando
nello stesso albergo, si realizzava tra le parti un’assidua comunanza di vita.
Ma l’aspetto saliente della presente vicenda sta nel fatto, diffusamente
illustrato dai giudici del merito, che l’imputato, con ripetute e sistematiche
vessazioni fisiche e morali, consistite in schiaffi, calci, pugni, morsi, insulti,
molestie sessuali e, non ultima, la ricorrente minaccia di troncare il rapporto
di lavoro senza pagare le retribuzioni pattuite (minaccia assai cogente, dato
che il lavoro era svolto in nero e le retribuzioni venivano depositate su
libretti di risparmio intestati ai lavoratori, ma tenuti dal datore di lavoro),
aveva ridotto i suoi dipendenti, tra i quali una minorenne, in uno stato di
penosa sottomissione e umiliazione, al fine di costringerli a sopportare ritmi
di lavoro forsennati, essendo il profitto dell’impresa direttamente
proporzionale al volume delle vendite effettuate. Ne risulta, dunque, una
serie di atti volontari, idonei a produrre quello stato di abituale sofferenza
fisica e morale, lesivo della dignità della persona, che la legge penale designa
col termine di maltrattamenti. Per quanto attiene poi all’elemento psicologico
del reato, la sentenza impugnata ha posto in rilievo non soltanto la
sussistenza del dolo, concentratosi nella coscienza e volontà di ledere in
modo abituale l’integrità fisica e morale dei soggetti passivi, ma anche il
movente, individuato nella ricerca del massimo profitto, che, al di là di ogni
dubbio, prova il disegno sottostante ai singoli fatti di violenza e minaccia,
che risultano quindi cementati da una volontà unitaria e persistente, che va
oltre il singolo episodio.
Il motivo di ricorso è quindi infondato.
Il secondo motivo è manifestamente infondato, dato che la sentenza
impugnata, proprio per rispondere alla deduzione difensiva già proposta con
i motivi d’appello, ha spiegato che l’asserita libertà delle vittime, di
licenziarsi in qualsiasi momento l’avessero voluto, era puramente apparente,
perché, atteso il meccanismo del pagamento posticipato delle retribuzioni e
del deposito delle relative somme su libretti di risparmio trattenuti dal datore
di lavoro, esse temevano che, andandosene, si sarebbe verificato quanto era
stato loro minacciato, cioè la perdita delle retribuzioni già maturate.
È manifestamente infondato anche il terzo motivo, perché il giudice di
merito ha indicato a quali dei parametri elencati dall’art. 133 cod. pen. si è
attenuto nell’esercizio del potere discrezionale di determinazione della pena
(la gravità dei fatti, la durata nel tempo della condotta delittuosa, il numero
183
GIURISPRUDENZA
184
degli episodi e delle vittime), e tale scelta, essendo adeguatamente motivata,
non è censurabile in sede di legittimità.
Con motivo nuovo presentato ai sensi dell’art. 585 comma 4 cod. proc.
pen., la difesa del ricorrente E. denuncia altro profilo di violazione della
legge penale, sostenendo che i fatti contestati avrebbero dovuto essere
qualificati come abuso dei mezzi di correzione e disciplina a mente dell’art.
571 cod. pen., perché la violazione e minacce costituivano manifestazione,
seppure abnorme, del potere disciplinare che competeva al ricorrente quale
responsabile dell’attività produttiva delle vittime. Anche questo motivo è
palesemente infondato. L’abuso punito dall’art. 571 cod. pen. ha per
presupposto logico necessario l’esistenza di un uso lecito dei poteri di
correzione e disciplina, e quindi si verifica quando l’uso è effettuato fuori dei
casi consentiti o con mezzi e modalità non ammesse dall’ordinamento.
Venendo al caso concreto, si rammenta che lo Statuto dei lavoratori ha
bandito ogni ricorso alla violenza da parte del datore di lavoro nei confronti
del lavoratore subordinato, per cui le violenze nella fattispecie commesse
non possono rientrare nella previsione dell’art. 571 cit. Non solo, ma alla
sussistenza dei fatti nella fattispecie legale prevista dall’art. 571 osta la
finalità perseguita dagli autori del reato nell’esercizio del preteso ius
corrigendi. Come hanno rimarcato i giudici di merito, gli imputati
perpetrarono sui giovani dipendenti le vessazioni fisiche e morali sopra
descritte, non come punizione per l’erronea esecuzione del lavoro o per
episodi di indisciplina o per altri fatti inerenti al corretto svolgimento
dell’attività lavorativa, ma per costringerli a sopportare ritmi di lavoro
altrimenti intollerabili, riducendoli di tal guisa in una condizione di
sfruttamento di tipo schiavistico. La condotta afflittiva posta in essere dagli
imputati non perseguiva dunque il fine educativo-correttivo che deve
contraddistinguere l’uso dei mezzi di correzione, ma mirava soltanto a scopi
di lucro personale.
Il ricorso di E. deve dunque essere rigettato.
C. denuncia mancanza e manifesta illogicità della motivazione in ordine
alla ritenuta colpevolezza, sostenendo che no sarebbe stata fornita la
dimostrazione ch’egli sapesse o incoraggiasse la condotta illecita dei suoi
capigruppo, che, anzi, sarebbe risultato che, ogni qualvolta fu informato dei
loro eccessi, egli intervenne per reprimerli. Si duole infine dell’entità della
pena irrogata e del diniego delle circostanze attenuanti generiche. Il
ricorrente C. è stato ritenuto colpevole del reato di violenza privata
continuata in applicazione del principio stabilito dall’art. 40 cod. pen.,
secondo cui non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di
GIURISPRUDENZA
impedire, equivale a cagionarlo. Infatti, argomenta la sentenza impugnata,
egli, quale imprenditore, era tenuto in forza dal disposto di cui all’art. 2087
cod. civ. ad adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la
personalità morale dei prestatori di lavoro, per cui, omettendo di porre fine
alle vessazioni attuate dai capigruppo sui lavoratori dipendenti, se ne rese
corresponsabile. Quanto al dolo, la Corte di merito, con motivazione coerente
con le risultanze probatorie e logicamente ineccepibile, ha spiegato che il
ricorrente era perfettamente consapevole dei metodi vessatori usati dai
capigruppo (e anzi li condivideva, essendo personalmente interessato al
massimo sfruttamento dei dipendenti, i cui libretti di deposito tratteneva a
fini ricattatori), e, sebbene ripetutamente sollecitato dalle povere vittime a
intervenire, nulla aveva fatto per reprimere o interrompere la condotta
antigiuridica dei capigruppo. Le censure sollevate dalla difesa su questo
punto sono dunque infondate, al pari di quelle concernenti il diniego delle
circostanze attenuanti generiche (peraltro connesse dal primo giudice) e la
misura della pena inflitta, che il giudice d’appello ha ritenuto di confermare,
sottolineando, con valutazione discrezionale insindacabile, la notevole
gravità dei fatti.
P. Q. M
la Corte di Cassazione rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento
in solido delle spese processuali.
185
GIURISPRUDENZA
Corte di Cassazione, sezione lavoro, 19 gennaio 1999, n. 475
(Pres. Sommella; Rel. Miani Canevari)
Riferimenti normativi: artt. 1223, 1226, 2043, 2056 e 2059 c.c.
186
Risarcimento del danno - patrimoniale e non patrimoniale (danni morali)
liquidazione equitativa del danno morale - criteri - determinazione della
somma dovuta in una frazione dell’importo riconosciuto per il danno
biologico - liceità.
Risarcimento del danno - patrimoniale e non patrimoniale (danni morali)
danno biologico e danno patrimoniale - distinzione - criteri - riferimento
rispettivamente, per il primo, alla gravità dell’inabilità e, per il secondo, alla
riduzione della capacità di guadagno - necessità - fattispecie.
La liquidazione del danno morale da fatto illecito, pur rimessa alla
valutazione equitativa del giudice, deve essere compiuta rispettando
l’esigenza di una razionale correlazione tra l’entità’ oggettiva del danno e
l’equivalente pecuniario, sicché solo nella effettiva considerazione del danno
concreto (risultante dalla motivazione della sentenza) e al di fuori di ogni
automatismo, può considerarsi legittimo il ricorso al criterio di
determinazione della somma dovuta per il risarcimento in questione in una
frazione dell’importo riconosciuto per il danno biologico.
Nella determinazione del danno alla persona il danno biologico e quello
patrimoniale (considerato cioè per i riflessi della lesione sul piano
economico reddituale) attengono a due distinte sfere di riferimento,
dovendosi avere riguardo per il secondo alla riduzione della capacità di
guadagno, e, per il primo, prevalentemente alla gravità dell’inabilità. (Nel
caso di specie, la S.C. ha ritenuto non conforme a diritto, in relazione a tale
principio, e privo di giustificazione logica il criterio seguito dai giudici di
merito che avevano liquidato il risarcimento del danno alla capacità
reddituale nella misura di un terzo di quanto attribuito a titolo di ristoro del
danno biologico).
(massime e sommari ufficiali)
(omissis)
GIURISPRUDENZA
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso al Pretore di Lecce G. C., già dipendente della società E.,
deduceva l’illegittimità del comportamento della datrice di lavoro che
l’aveva sottoposta a continue vessazioni, tra l’altro con la richiesta
sistematicamente ripetuta di visite di controllo del suo stato di malattia,
determinando l’aggravamento dello stato patologico consistente in una
sindrome ansioso depressiva di natura reattiva; chiedeva quindi, oltre
all’accertamento del proprio diritto alle ferie e ai riposi, la condanna della
convenuta al risarcimento dei danni, anche morali, subiti e subendi, da
liquidarsi a prudente criterio del giudicante.
Il Pretore adito pronunciava su questa domanda condannando la convenuta
al pagamento della somma di lire 45.375.000 a titolo di risarcimento del
danno biologico, oltre a rivalutazione ed interessi.
Su appello proposto da entrambe le parti, il Tribunale di Lecce con
sentenza del 9 agosto 1996 riformava parzialmente tale decisione,
condannando la società convenuta in primo grado al pagamento di ulteriori
somme a titolo di risarcimento dei danni alla capacità lavorativa, del lucro
cessante in relazione alle retribuzioni perdute e del danno morale, oltre
rivalutazione ed interessi.
Il Tribunale, dopo aver disatteso l’eccezione di nullità del ricorso
introduttivo del giudizio, ha affermato la responsabilità della datrice di
lavoro per il danno cagionato alla dipendente con l’aggravamento e la
definitiva stabilizzazione della malattia (prima emendabile e derivata da
disturbi della personalità), ravvisando un elemento scatenante della
patologia riscontrata nelle continue visite fiscali cui la C. fu sottoposta su
richiesta della datrice di lavoro, con frequenza quotidiana; l’intento
persecutorio della società era dimostrato anche dal fatto che questa aveva
sistematicamente ignorato i risultati delle visite di controllo, con le quali era
stata sempre confermata la persistenza della malattia, continuando a
richiedere ogni giorno una nuova visita.
Il giudice dell’appello, dopo aver confermato la statuizione del Pretore in
ordine alla liquidazione del danno biologico, affermava che la responsabilità
risarcitoria si estendeva al pregiudizio conseguente alla parziale perdita della
capacità lavorativa, al danno per lucro cessante e al danno morale.
Avverso questa sentenza la soc. E. propone ricorso per cassazione affidato
a quattro motivi. G. C. resiste con controricorso.
187
GIURISPRUDENZA
MOTIVI DELLA DECISIONE
188
1. Con il primo motivo la società ricorrente denuncia i vizi di violazione e
falsa applicazione dell’art. 414, nn. 3, 4 e 5 e dell’art. 164 c.p.c., nonché
omessa insufficiente motivazione, censurando la statuizione di rigetto delle
eccezioni di nullità del ricorso introduttivo. Rileva l’assoluta inderminatezza
della generica richiesta di risarcimento dei danni, in assenza di indicazioni
sulle singole voci di danno e di una necessaria quantificazione del
risarcimento richiesto (che non può essere demandata all’impulso
dell’organo giudicante e ai risultati di una consulenza tecnica); deduce
inoltre che l’attrice in primo grado non ha specificato gli elementi di diritto
posti a fondamento della domanda, qualificando il titolo giuridico della
pretesa responsabilità della convenuta (riferibile ad una responsabilità
contrattuale o extracontrattuale) e prospettando, quanto al danno morale, la
sussistenza di una fattispecie penalmente rilevante.
Il motivo appare infondato. Nel rito del lavoro, per aversi nullità del ricorso
introduttivo del giudizio, ai sensi dell’art. 414, n. 3 e n. 4, c.p.c., in relazione
all’art. 156 dello stesso codice, occorre che il petitum, sotto il profilo
sostanziale e processuale (ossia il bene della vita richiesto ed il
provvedimento giudiziale invocato), nonché le ragioni della domanda siano
del tutto omessi ed assolutamente incerti, al punto che non sia possibile
rilevarli attraverso l’esame complessivo dell’atto, la cui interpretazione è
riservata al giudice del merito; l’onere della determinazione dell’oggetto della
domanda può ritenersi poi assolto anche in difetto di quantificazione
monetaria della pretesa dedotta, quando di questa siano indicati i titoli
(giurisprudenza costante: v. per tutte Cass. 17 marzo 1986, n. 4413; Cass. 14
febbraio 1987, n. 1654; Cass. 18 novembre 1987, n. 8456, Cass. 27 febbraio
1998, n. 2205). D’altro canto, una volta dedotta la situazione di fatto che
giustifica la garanzia attribuita dalla legge, la individuazione del fondamento
normativo che la sorregge attiene ad una questione di qualificazione
giuridica, che il giudice deve compiere – senza essere condizionato dalla
formula adottata dalla parte – tenendo conto dei contenuto sostanziale della
pretesa e del provvedimento chiesto in concreto (cfr. Cass. 22 giugno,1995, n.
7080; Cass. 2 febbraio 1996, n. 900).
Nella fattispecie, le ragioni poste dall’attrice a fondamento della domanda
sono identificate con l’allegazione di un danno alla persona dovuto ad un
comportamento della datrice di lavoro, fonte di responsabilità risarcitoria; la
richiesta del risarcimento dei “danni, anche morali, subiti e subendi” “da
liquidarsi a prudente criterio del giudicante” appare, così come formulata,
GIURISPRUDENZA
certamente esaustiva, in quanto idonea a comprendere tutti i profili del
pregiudizio subito (cfr. Cass. 27 luglio 1995, n. 8216) rilevanti ai fini della
determinazione dell’oggetto della domanda.
2. Con il secondo motivo si eccepisce (per la prima volta in questa sede) il
difetto di competenza del giudice adito, rilevandosi che la signora C. non ha
invocato l’applicazione dell’art. 2087 c.c., e che la sussistenza del rapporto di
lavoro è stata “degradata ... a mera occasione della commissione di un delitto”;
la controversia doveva ritenersi quindi devoluta alla cognizione del tribunale
secondo le regole ordinarie della competenza e non del giudice del lavoro.
Il motivo appare inammissibile, perché l’incompetenza per materia dei
giudice del lavoro non può essere dedotta per la prima volta in sede di
legittimità ove la relativa questione, ancorché non preclusa dal giudicato,
implichi l’esame di elementi e profili di fatto non ritualmente prospettati
nelle pregresse fasi di merito; né, comunque, sussiste l’interesse a sollevare
la relativa questione, quando la parte non alleghi alcuno specifico
pregiudizio processuale derivato dalla mancata adozione del diverso rito
(Cass. 20 settembre 1996, n. 8368).
3. Con il terzo motivo, che reca il titolo “violazione e falsa applicazione
degli artt. 2043 e 2056 c.c., nonché degli artt. 2087, 1218, 1223, 1225, 1226 e
1227 c.c. ed altresì degli artt. 2059 c.c. e 185 c.p. – omessa insufficiente e
contraddittoria motivazione” la sentenza impugnata viene censurata sotto
diversi profili, che devono essere analiticamente esaminati tenendo conto
delle loro connessioni.
3.1. L’apprezzamento in ordine al nesso causale tra l’aggravamento della
malattia della signora C. e il comportamento della società datrice di lavoro
viene criticato con i seguenti rilievi:
- il Tribunale ha fondato il suo convincimento sulla deposizione del teste
S., marito dell’attrice in primo grado, che non poteva essere ritenuto
attendibile, anche perché riferiva su quanto appreso dalla moglie;
- non era stato dimostrato l’intento persecutorio del datore di lavoro, né
il suddetto nesso causale con le richieste all’Inps di visite di controllo;
inoltre, il giudice dell’appello non ha tenuto conto della condotta
dell’ente previdenziale, che avrebbe comunque dato un considerevole
apporto alla determinazione dell’evento;
- il danno risarcibile doveva essere limitato all’aggravamento
riconducibile al comportamento datoriale, posto che (come
riconosciuto nella sentenza impugnata) la signora C. era già portatrice
di una patologia stabilizzata.
3.2. Con riguardo ai criteri adottati per la liquidazione delle singole voci di
189
GIURISPRUDENZA
190
danno, la ricorrente deduce che il risarcimento del danno biologico è stato
determinato sulla base delle c.d. “tabelle milanesi” e quindi con riferimento
ad una realtà socio economica che non corrisponde a quella dell’area
territoriale del Mezzogiorno dove si è svolto il rapporto; che gli importi
derivati dal calcolo tabellare sono stati “inspiegabilmente rivalutati” e che la
valutazione è comunque eccessiva.
3.3. E poi sproporzionata la liquidazione del danno morale, calcolato in
“poco più della metà del danno biologico”: la quantificazione al livello
massimo rispetto ai criteri di solito seguiti è priva di motivazione, e potrebbe
essere giustificata solo dalla commissione di gravi reati.
3.4. Quanto al danno alla capacità reddituale, si contesta che la signora C.
abbia subito un danno permanente rilevante sotto questo aspetto; non si comprende poi in base a quali parametri il Tribunale abbia potuto rapportare
l’importo spettante ad un terzo di quanto liquidato per il danno biologico.
Risulta del resto una duplicazione del risarcimento, perché nelle tabelle di
liquidazione è compreso anche il danno, alla capacità lavorativa generica.
3.5. Quanto al risarcimento del lucro cessante, si deduce che l’attuale
resistente “non è tornata al lavora per sua libera scelta” perché se avesse
seguito le terapie indicate nella consulenza tecnica avrebbe potuto riprendere
la sua attività; si prospetta così un “concorso del creditore nella produzione
dell’evento”.
Sotto il profilo della responsabilità contrattuale, si deduce poi che “nessun
danno era ragionevolmente prevedibile” e che comunque il risarcimento
doveva essere. proporzionalmente ridimensionato; doveva essere anche
considerato il fatto che la patologia sofferta dalla dipendente non era stata
sino ad allora conosciuta dalla società.
4. Le censure meritano accoglimento nei limiti qui specificati. Il
Tribunale, con un giudizio di fatto sorretto da adeguata e logica motivazione
(che fa riferimento anche ai risultati dell’indagine peritale) ha accertato che
la ricorrente in primo grado era affetta da “sindrome ansioso-depressiva in
una organizzazione di personalità abnorme”; lo stato patologico connesso al
disturbo della personalità era, fino ad una certa epoca, comunque
compatibile con lo svolgimento normale dell’attività lavorativa, nonostante
una situazione di equilibrio instabile.
Quando peraltro la signora C. si assentò dal servizio per malattia, la società
datrice di lavoro determinò l’aggravamento dello stato patologico con un
atteggiamento persecutorio, consistente nella ripetuta richiesta di visite
mediche di controllo; la sentenza parla in proposito di un continuo ed
immotivato stillicidio di queste visite, che secondo un ordine di un dirigente
GIURISPRUDENZA
della società dovevano essere eseguite continuamente e quotidianamente,
anche di sabato e domenica (deposizione teste C.), senza alcuna
giustificazione perché in ogni occasione era stata confermata la diagnosi
relativa alla personalità riscontrata ed era stata formulata la medesima
prognosi di durata dell’infermità. L’intento persecut6rio era così chiaramente
dimostrato, perché nonostante i risultati degli accertamenti la datrice di
lavoro aveva insistito nelle richieste di controllo ignorando sistematicamente
le certificazioni dei medici dell’Inps. Tale comportamento aveva determinato
un aggravamento della malattia, tale da portare ad una invalidità permanente
corrispondente ad una riduzione della capacità lavorativa del 20 per cento:
la datrice di lavoro è responsabile dello stato di definitiva stabilizzazione
della malattia (con postumi permanenti) e quindi dell’intera percentuale di
invalidità riconosciuta, dato che la situazione preesistente consentiva una
normale vita lavorativa.
4.1. Queste valutazioni si sottraggono alle critiche riportate nel precedente
punto 3.1., formulate in modo del tutto generico per quanto riguarda
l’accertamento della responsabilità della datrice di lavoro (senza
l’indicazione di specifiche circostanze insufficientemente esaminate); il
convincimento espresso non si basa dei resto sulle dichiarazioni del teste S.,
alle quali non si assegna valore decisivo rispetto alle altre risultanze valutate.
Anche la deduzione relativa al mancato apprezzamento della condotta
dell’ente previdenziale è formulata in termini del tutto generici, ed appare
comunque priva di rilevanza giuridica in relazione alla identificazione della
condotta dell’attuale ricorrente come antecedente necessario del fatto lesivo,
in applicazione della regola generale della equivalenza delle cause che
comporta l’inclusione nel risarcimento di tutti i danni che si presentano
come effetto normale di tale condotta, rientrando nella serie delle
conseguenze ordinarie cui essa dà origine).
4.2. Ugualmente generica appare la censura di cui al punto 3.2., che attiene
alla liquidazione del danno biologico effettuata dai giudici di merito secondo
il sistema del c.d. punto di invalidità, nel quale – come precisato nella
sentenza impugnata – la quantificazione del danno prescinde da qualsiasi
parametro legato ad aspetti patrimoniali. Secondo un costante orientamento
giurisprudenziale (v. Cass. 13 luglio 1995, n. 4255; Cass. 8 ottobre 1996, n.
8784. Cass. 2 luglio 1997, n. 5949; Cass. 16 luglio 1997, n. 6516; Cass. 22
maggio 1998, n. 5134) si tratta di un valido criterio di liquidazione equitativa,
la cui adozione da parte del giudice del merito non è sindacabile in sede di
legittimità, se sorretta da congrua motivazione in ordine all’adeguamento del
valore medio del punto alle particolarità della singola fattispecie. La
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GIURISPRUDENZA
192
ricorrente non formula alcuna critica specifica in ordine alla determinazione
del parametro adottato nel caso concreto, e le deduzioni relative all’area
territoriale da considerare non hanno alcuna rilevanza ai fini
dell’applicazione del suddetto criterio, che prescinde dai riflessi della
lesione subita sulla sfera patrimoniale.
Analogo rilievo vale per la deduzione secondo cui gli importi liquidati
sarebbero stati inspiegabilmente rivalutati, pur essendo stati utilizzati nel
computo parametri e coefficienti “attualizzati”: l’assenza di indicazioni in
ordine agli specifici elementi che il giudice dell’appello avrebbe
erroneamente utilizzato non consente di verificare in questa sede la
fondatezza della critica.
4.3. Per quanto riguarda la condanna al risarcimento del danno morale, i
presupposti della relativa statuizione ricorrono quando il giudice civile
ravvisi nel fatto generatore del danno un’ipotesi di reato: nella specie, tale
accertamento è stato compiuto dal Tribunale con il rilievo (non sottoposto a
censura) della configurabilità di fattispecie di lesioni personali volontarie
penalmente rilevanti. Il Tribunale non indica peraltro le ragioni per cui il
risarcimento è stato stabilito nella misura di metà di quanto attribuito a titolo
di danno biologico; risulta così violato il principio secondo cui la
liquidazione del danno morale da fatto illecito, pur rimessa alla valutazione
equitativa del giudice, deve essere compiuta rispettando l’esigenza di una
razionale correlazione tra l’entità oggettiva del danno e l’equivalente
pecuniario, sicché solo nella effettiva considerazione di ogni aspetto del caso
concreto (risultante dalla motivazione della sentenza) e al di fuori di ogni
automatismo, può considerarsi legittimo il ricorso al criterio di
determinazione della somma dovuta per il risarcimento in questione in una
frazione dell’importo riconosciuto per il danno biologico (Cass. 21 maggio
1996, n. 467 1; Cass. 29 maggio 1998, n. 5366).
Sotto questo profilo è quindi fondata la denuncia di vizio di motivazione
di cui al punto 3.3.
4.4. Merita poi accoglimento la successiva censura di cui al punto 3.4. Il
giudice dell’appello, dopo aver correttamente distinto il danno alla salute
inteso nel senso sopra indicato - dalla lesione della capacità di produrre
reddito, riferita agli accertati postumi invalidanti, ha liquidato questa voce di
danno (prendendo a base gli stessi calcoli effettuati per il danno biologico)
nella misura di un terzo della somma riconosciuta per tale titolo.
La sentenza non indica le ragioni poste a base di questa statuizione, che si
pone in evidente contrasto con la premessa enunciata e con gli stessi principi
correttamente richiamati. Nella determinazione del danno alla persona il
GIURISPRUDENZA
danno biologico e quello patrimoniale (considerato cioè per i riflessi della
lesione sul piano economico reddituale) attengono a due distinte sfere di
riferimento, dovendosi avere riguardo per il secondo alla riduzione della
capacità di guadagno e, per il primo, prevalentemente alla gravità della
inabilità; per la stessa ragione il danno patrimoniale derivante dalla
riduzione della capacità lavorativa generica è risarcibile autonomamente dal
danno biologico soltanto se vi è la prova che il soggetto leso svolgesse – o
fosse presumibilmente in procinto di svolgere – un’attività lavorativa
produttiva di reddito (v. per tutte Cass. 15 aprile 1996, n. 3539; Cass. 15
novembre 1996, n. 10015). Non trova dunque alcuna giustificazione logica la
liquidazione del danno alla capacita reddituale secondo un parametro del
tutto eterogeneo, indipendente dal ruolo che i requisiti ed attributi biologici
della persona sono in grado di svolgere sulle capacità di reddito, e collegato
alla sfera di incidenza non patrimoniale di essi.
La Corte osserva che il risarcimento del danno in questione doveva essere
invece stabilito accertando in concreto in relazione l’incidenza
dell’invalidità, in relazione ai redditi conseguibili in assenza della
menomazione subita; tale aspetto non è stato affatto esaminato, mentre non
risulta neppure rispettato (data l’impostazione adottata) il criterio da
applicare perché il risarcimento del danno sia completo e per altro verso non
si traduca in un arricchimento senza causa. A tal fine, secondo la costante
giurisprudenza, le liquidazioni delle due distinte voci di danno devono
essere tenute presenti contemporaneamente affinché la liquidazione
complessiva sia corrispondente al danno nella sua globalità che costituisce
l’oggetto del risarcimento, riferibile alla proiezione negativa nel futuro di un
medesimo evento (v. Cass. 19 aprile 1996, n. 3727; Cass. 22 aprile 1998, n.
4071).
4.5. Le somme attribuite a titolo di lucro cessante sono riferibili ad una voce
di danno diversa rispetto a quella da ultimo esaminata, cosi da escludere una
duplicazione di risarcimento, in quanto il pregiudizio connesso ai riflessi
proiettati nel futuro dell’invalidità permanente sulla capacità di guadagno sia
concettualmente distinto da quello in concreto verificatosi a seguito
dell’interruzione delle prestazioni della ricorrente in primo grado
nell’ambito del rapporto di lavoro instaurato tra le parti e conclusosi con il
recesso della signora C. Di tale danno la sentenza impugnata ha tenuto conto
riconoscendo il diritto della lavoratrice all’equivalente delle retribuzioni
spettanti per l’intero periodo di assenza, sul rilievo che questa si era protratta
per fatto e colpa dell’azienda stessa. Tale statuizione sfugge alle critiche
mosse (v. punto 3.5), in cui il dedotto concorso del danneggiato nella
193
GIURISPRUDENZA
194
produzione dell’evento non trova alcun supporto nella ricostruzione della
vicenda compiuta dai giudici del merito: l’accertata situazione di invalidità
permanente esclude infatti l’emendabilità con terapie e la possibilità di una
piena ripresa dell’attività lavorativa senza riduzione di capacità di guadagno.
Gli ulteriori rilievi in ordine alla prevedibilità dell’evento lesivo e alla
conoscenza della malattia trovano ugualmente confutazione nel medesimo
apprezzamento di fatto (in particolare, per la circostanza della prosecuzione
dei continui controlli quando i dati sulla situazione patologica erano già stati
acquisiti); si deve d’altro canto rilevare che il criterio della prevedibilità di
cui all’art. 1225 c.c. coincide tendenzialmente con quello della regolarità
causale, nel senso di comprendere del danno risarcibile le conseguenze
pregiudizievoli dell’inadempimento che di questo rappresentino effetti
immediati e diretti o effetti mediati e indiretti rientranti comunque nella
serie delle conseguenze normali ed ordinarie dell’inadempimento medesimo,
in base ad un giudizio di probabile verificazione rapportato
all’apprezzamento dell’uomo di media diligenza; ai fini dell’applicazione
che limita il risarcimento a quello l’obbligazione, è sufficiente la
consapevolezza di dovere una determinata prestazione ed omettere di darvi
esecuzione intenzionalmente, senza che occorra altresì il requisito della
consapevolezza del danno (Cass. 30 ottobre 1984, n. 5566; Cass. 25 marzo
1987, n. 2899).
5. Con l’ultimo motivo la ricorrente denuncia “inadeguatezza e nullità della
c.t.u.”, affermando la totale inadeguatezza dell’indagine peritale, che avrebbe
dovuto offrire al giudice la possibilità di distinguere ed individuare in modo
ben preciso la limitazione della responsabilità datoriale. La consulenza
tecnica “è nulla” perché la risposta ai quesiti posti dal giudicante è
estremamente generica: il c.t.u. ha quantificato nella misura del 20 per cento
il grado di invalidità determinatosi, senza specificare però “se la medesima
invalidità fosse espressione di un danno biologico strettamente considerato,
e se intendesse ricomprendere accanto al danno alla capacità lavorativa
generica del soggetto anche quella specifica, ancora se abbia inteso
quantificare il solo danno biologico, il solo danno alla capacità reddituale o
entrambe le voci di danno”.
La censura – che avrebbe dovuto essere rivolta direttamente alla
valutazione da parte del giudice delle risultanze dell’indagine – non merita
accoglimento, per quanto finora rilevato a proposito del terzo motivo di
ricorso.
Il grado di invalidità permanente determinato nella consulenza tecnica
costituisce infatti un parametro per l’accertamento del danno biologico, da
GIURISPRUDENZA
riferire alla salute intesa come bene in sé, indipendentemente dalla capacità
del danneggiato di produrre reddito ed a prescindere da questo;
l’apprezzamento compiuto sul punto sfugge, come si è visto, alle critiche
della parte ricorrente. Lo stesso elemento fornisce d’altro canto la necessaria
base per la determinazione dei riflessi pregiudizievoli della lesione sulla
capacità reddituale; sotto questo profilo, l’errore rilevato nella decisione
impugnata non riguarda l’utilizzazione del suddetto elemento, ma l’adozione
di un criterio di liquidazione che non considera la concreta incidenza
dell’invalidità sui redditi conseguibili con l’attività lavorativa.
La sentenza impugnata deve essere quindi annullata in relazione ai profili
di censura accolti (v. punti 4.3. e 4.4.) con rinvio della causa ad altro giudice
– designato nel Tribunale di Brindisi – che procederà a nuovo esame
attenendosi ai principi sopra enunciati e provvederà anche sulle spese del
presente giudizio di legittimità.
(omissis)
195
GIURISPRUDENZA
Tribunale di Roma, ord. 8 marzo 2002
(Giudice Di Sario)
Riferimenti normativi art. 700 c.p.c.
196
Questioni processuali - demansionamento - decorso di un rilevante lasso
temporale tra la proposizione dell’azione cautelare e i fatti dedotti in giudizio
- inammissibilità del procedimento ex art. 700 c.p.c. per difetto del
periculum in mora.
Non è esperibile la procedura ex art. 700 c.p.c. per difetto del requisito
dell’urgenza quando si vuole far fronte a comportamenti illeciti che, stante
l’ampio tempo trascorso, hanno esaurito i loro effetti pregiudizievoli (nel
caso di specie il Tribunale ha respinto il ricorso del lavoratore presentato
all’inizio del 2002 per presunta dequalificazione professionale attuata a
partire dal 1994, con conseguente patologia cardiaca nel 1996 e stato ansioso
depressivo del 2001).
Il giudice
a scioglimento della riserva che precede; letti gli atti; premesso che con
ricorso ex art. 700 c.p.c. L. S. ha chiesto al giudice di ordinare in via
d’urgenza a Telecom Italia s.p.a. di assegnare ad esso ricorrente le mansioni
corrispondenti alla sua qualifica professionale; che fissata l’udienza di
comparizione delle parti, si costituiva Telecom Italia s.p.a. contestando il
ricorso e chiedendone il rigetto;
osserva:
Presupposti necessari per la concessione della tutela d’urgenza sono la
verosimiglianza circa l’esistenza del diritto azionato e la sussistenza del pericolo
di un pregiudizio nelle more della conclusione del giudizio ordinario.
Nel caso di specie difetta l’imprescindibile requisito del periculum in mora.
Il ricorrente lamenta di avere subito a decorrere dal 1994 una dequalifacazione
professionale per essere stato adibito ad attività di mera fotocopiatura di atti e
documenti, mansione non corrispondente alla qualifica riconosciutagli dalla
convenuta (V liv.), nonché di avere patito a decorrere dal maggio 2000 un totale
demansionamento, protrattosi anche dopo l’ottobre 2000, quando era rimasto
l’unico addetto alla sede di viale Parco dei Medici, nonché successivamente
all’assegnazione, nel novembre 2001, alla sede di via Val Cannuta n.182.
GIURISPRUDENZA
Il lungo lasso di tempo trascorso tra i fatti denunciati e l’esercizio
dell’azione è con ogni evidenza incompatibile con il carattere d’urgenza del
procedimento ex art. 700 c.p.c., in particolare con l’imprescindibile
presupposto del pregiudizio imminente ed irreparabile, che deve essere
valutato necessariamente nell’immediatezza del verificarsi della situazione
antigiuridica denunciata.
La tutela cautelare trova la sua ragione d’essere nella urgenza, cioè nella
necessita di evitare un pregiudizio imminente che non permette di attendere
la conclusione del giudizio ordinano.
La pronuncia sommaria, propria della tutela invocata, è giustificata
essenzialmente dalla necessità di un intervento del giudice volto ad evitare,
con una misura immediatamente esecutoria di segno contrario l’evento
dannoso paventato o comunque gli effetti pregiudizievoli che devono
“incombere con vicina probabilità”.
Ne discende, allora, l’inammissibilità della tutela d’urgenza per
fronteggiare comportamenti illeciti che, come nel caso di specie, stante
l’ampio tempo trascorso, hanno esaurito i loro effetti pregiudizievoli.
In tali casi essendosi già verificato e consumato il danno vi è spazio
esclusivamente per la tutela risarcitoria, ma non certo per quella cautelare.
Quest’ultima potrebbe trovare ingresso qualora fossero addotte circostanze
ulteriori e tali da aggravare irrimediabilmente il danno già patito, ma una tale
allegazione e dimostrazione difetta nel caso di specie.
Ed invero il ricorrente in ordine al requisito del periculum si è limitato a
dedurre di avere subito non solo un danno biologico ma anche un danno
esistenziale e professionale, a fronte dei quali sarebbe necessario concedere
un provvedimento ex art. 700 c.p.c.
Per quanto concerne il danno alla salute (un infarto miocardio ed uno stato
ansioso depressivo), innanzitutto difetta la prova del nesso causale tra le
lamentate patologie e i fatti denunciati. Dalla documentazione sanitaria
prodotta non è dato evincere alcun idoneo elemento al riguardo, stante la
genericità delle indicazioni ivi contenute, né appare utile la prodotta
relazione di parte redatta dal dott. F., nella quale l’affermata sussistenza del
nesso di causalità è fondata esclusivamente sul racconto del ricorrente.
Anche a volere prescindere dalla mancata dimostrazione del nesso causale,
va evidenziato che la patologia cardiaca si è verificata nel 1996 e lo stato
ansioso depressivo è stato diagnosticato nel luglio 2001 e dagli atti non è dato
evincere alcun elemento che consenta di affermare che il tempo necessario a
fare valere il diritto in sede ordinaria possa ulteriormente ed
irrimediabilmente aggravare le descritte condizioni sanitarie. Neppure il
consulente di parte ha espresso alcuna valutazione in merito; anzi il tenore
delle conclusioni della relazione inducono a ritenere stabilizzato il danno
197
GIURISPRUDENZA
198
patito dal ricorrente, tant’è che risultano quantificati con precisione non solo
l’entità delle conseguenze a carattere permanente, ma anche i periodi di
inabilità temporanea totale e di inabilità temporanea parziale.
In ordine al danno c.d. esistenziale è lo stesso ricorrente ad affermare di
avere cessato ogni attività sociale, culturale e di relazione interpersonale sin
dal 1996. Il lungo lasso di tempo trascorso è inconciliabile con l’invocata
tutela, né sono stati fomiti elementi diversi e sopravvenuti tali da giustificare
un intervento d’urgenza.
Analoga considerazione vale per l’asserito danno alla professionalità da
ricondurre alla dequalificazione del 1994 ed al demansionamento assoluto
del maggio 2000. Al riguardo va innanzitutto osservato che, pur ritenendo
violato il disposto dell’art. 2103 c.c., non in tutte le ipotesi di
demansionamento o, comunque di mancata attribuzione al lavoratore di
mansioni corrispondenti al proprio acquisito bagaglio professionale, può
dirsi sussistere quel pregiudizio imminente e irreparabile che la legge pone
come requisito indefettibile, da accertare caso per caso, per ottenere il
provvedimento cautelare.
Perché possa parlarsi di lesione irreparabile della protesa professionalità è
necessario che il lavoratore alleghi e dimostri che il mancato esercizio delle
proprie mansioni per effetto dell’illegittimo comportamento datoriale abbia
come sicura conseguenza un depauperamento irreversibile del proprio
bagaglio professionale oppure che lo sviluppo di quest’ultimo sia
irrimediabilmente compromesso nelle more del giudizio, ciò che è
logicamente ipotizzabile solo con riferimento a mansioni di particolare ed
elevato contenuto tecnico, soggette a rapidissima obsolescenza o richiedenti
l’utilizzo di specifiche tecnologie in costante e rapida evoluzione.
Con riferimento alla fattispecie in esame, il ricorrente si è limitato ad
affermare che il danno da dequalificazione è in re ipsa e ciò non è sufficiente
per poter accogliere il ricorso, non apparendo le mansioni in precedenza
svolte dal L. connotate dai requisiti sopra indicati.
Inoltre l’amplissimo lasso di tempo trascorso ben avrebbe consentito al
ricorrente di agire in via ordinaria per l’accertamento del proprio diritto e
rende assolutamente ingiustificabile il ricorso alla tutela d’urgenza.
L’assenza del periculum solleva dall’esame del fumus e delle ulteriori
deduzioni contenute nel ricorso inerenti a quest’ultimo profilo.
La natura della questione giustifica la compensazione delle spese di lite.
P. Q. M.
rigetta il ricorso; compensa le spese.
GIURISPRUDENZA
Tribunale di Roma, ord. 4 luglio 2002
(pres. Cortesani; est. Luna)
[accoglie il reclamo avverso Tribunale di Roma, ord. 8 marzo 2002]
(Giudice Di Sario)
Riferimenti normativi: art. 2103 c.c.; art. 700 c.p.c
199
Questioni processuali - provvedimenti di urgenza - periculum in mora valutazione.
Per la configurabilità di un pregiudizio grave e irreparabile ai fini
dell’emissione di un provvedimento ex art. 700 c.p.c. bisogna considerare
non il momento in cui ha inizio la condotta dannosa bensì il momento in cui
il pregiudizio rischia di diventare irreparabile (nella fattispecie il Tribunale
ha accolto il reclamo del dipendente che lamentava un demansionamento
iniziato nel 1994 e culminato nel 2001 in una sindrome ansioso-depressiva).
Con ricorso ex art. 700 c.p.c., depositato il 1° febbraio 2002, L. S.,
dipendente della Telecom Italia s.p.a., con inquadramento nel 6° livello
contrattuale, premesso di aver sempre svolto fino al 1994 le sue mansioni
partecipando alla realizzazione di filmati promozionali dell'immagine della
soc. Italcable, poi incorporata nella Telecom, stabilendo i contatti con le ditte
appaltatrici per le riprese e trattando le condizioni economiche e contrattuali
delle forniture, nell'ambito del budget di spesa assegnategli dai preposti e
dirigenti del settore, ha esposto che, dal 1994, le sue mansioni sono state
progressivamente ridotte, essendogli stati assegnati inizialmente meri
compiti d'ordine come fotocopiatura di documenti; che nel 1996 ha subito un
infarto; che nel maggio 2000 un funzionario della società ha assegnato tutti i
suoi compiti ad un suo collega; sicché egli è rimasto del tutto privo di ogni
incarico; che mentre i suoi colleghi sono stati trasferiti in altra sede, egli è
rimasto da solo senza ricevere alcuna disposizione; che nel corso del 2001,
nonostante le assicurazioni ricevute da alcuni funzionari, ha continuato a
rimanere del tutto privo di mansioni ed ha ricevuto pressioni per dar seguito
ad una procedura di mobilità; che alla fine del mese del mese del luglio 2001,
nonostante le assicurazioni ricevute da alcuni funzionari, ha continuato a
rimanere del tutto privo di mansioni ed ha ricevuto pressioni per dar seguito
ad una procedura di mobilità; che alla fine del mese del luglio 2001 si è
ammalato di sindrome ansioso-depressiva ed ha dovuto iniziare un ciclo di
GIURISPRUDENZA
200
psicoterapia presso il Centro mobbing della ASL Roma "E"; che nel novembre
del 2001 ha ottenuto il trasferimento nella sede cui sono stati assegnati i suoi
colleghi, ma neppure colà gli era stato conferito alcun incarico e la sua
scrivania è rimasta vuota e neppure dotata di un telefono e di un computer.
Il ricorrente, sostenendo che il datore di lavoro lo abbia illegittimamente
privato delle sue mansioni, ha chiesto che sia ordinato alla società di adibirlo
nuovamente a mansioni di impiegato di V livello secondo la definizione del
contratto collettivo di settore.
La società, costituitasi in giudizio, ha contestato la veridicità dei fatti
esposti dal lavoratore evidenziando che il L. era stato solo contattato nel
giugno 2000 ai fini di una eventuale volontaria adesione all'inserimento nelle
liste di mobilità; che, essendo le richieste superiori alla disponibilità, non è
stato possibile dare esecuzione alla manifestazione di volontà del lavoratore;
che, nella seconda metà del 2000, riorganizzate alcune funzioni, il L. ha
chiesto di essere assegnato ad una sede da lui ritenuta più comoda; che il
ricorrente non si è mai lamentato delle mansioni affidate ed anzi parlava in
termini estremamente positivi della possibilità di essere collocato in mobilità
e quindi di cessare il rapporto nel corso del 2001; che alla fine del 2001, dopo
numerose sollecitazioni da parte dell'azienda, egli ha predisposto quanto
necessario per essere trasferito alla sede cui sono stati assegnati i suoi
colleghi; che nel corso degli anni 2000-2001 i suoi superiori hanno incontrato
spesso difficoltà nel coinvolgere il L. nelle attività di settore, essendo egli
poco collaborativo e disinteressato; che solo di recente è stato inserito in un
progetto relativo ai pannelli pubblicitari collocati all'interno delle sedi
aziendali; e che la linea telefonica gli è stata attribuita mentre per il computer
dovrebbe attivarsi egli stesso per chiedere un nuovo apparecchio. La
resistente, quindi, negando che vi sia stato demansionamento e che possa
esservi nesso di causa tra le patologie denunciate e l'attività lavorativa, ha
chiesto il rigetto del ricorso.
II giudice, con ordinanza 8 marzo 2002, n. 8222 reg. cron. ha respinto la
domanda ritenendo carente il requisito del periculum in mora stante il lungo
tempo trascorso tra i fatti denunciati e l'esercizio dell'azione, non essendo
consentito ricorrere alla tutela d'urgenza per fronteggiare comportamenti
illeciti che avevano ormai esaurito i loro effetti pregiudizievoli.
Il lavoratore, con atto depositato il 19 aprile 2002, ha proposto reclamo
ribadendo le proprie tesi e contestando in fatto e in diritto le motivazioni
addotte dal primo giudice.
La società resiste al reclamo.
Tanto premesso, questo Collegio reputa fondato il reclamo.
GIURISPRUDENZA
Il reclamante sostiene che non può escludersi il periculum facendo
riferimento al tempo intercorso tra il momento in cui il danno ha cominciato
a manifestarsi, giacché, stando alle allegazioni contenute nel ricorso, in
realtà, solo nel momento attuale gli illegittimi comportamenti del datore di
lavoro, sono divenuti, per il loro successivo perdurare e per essersi
configurati come volti alla totale privazione di mansioni, idonei non solo ad
esporre la professionalità e la dignità del lavoratore al rischio di un danno
grave ed irreparabile, ma anche a ledere il diritto alla salute, offeso
specificamente e gravemente soltanto dal mese di agosto del 2001, epoca in
cui egli, rientrato in servizio a seguito di malattia, non ha ricevuto alcun tipo
di incarico sicché le sue condizioni di salute, già compromesse a causa dello
stress lavorativo, sono progressivamente peggiorate fino a giungere al
momento attuale in cui è posta in pericolo la sua stessa vita, tenuto conto
degli esiti dell'infarto.
Questo Collegio ritiene condivisibile la considerazione secondo cui, al fine
di valutare la sussistenza del periculum, non deve aversi riguardo
all'intervallo di tempo intercorrente tra il momento in cui il danno si sarebbe
concretizzato e quello in cui viene proposto il ricorso in via d'urgenza, bensì,
in conformità alla formulazione dell'art. 700 c.p.c., al tempo presumibilmente
occorrente per la definizione del giudizio di merito, valutando la situazione
in cui si trova l'interessato al momento in cui propone il giudizio cautelare
nella prospettiva di giungere ad una definizione di merito.
Proprio il trascorrere del tempo, invero, può far sì che una situazione "non
pericolosa" in un certo momento, lo diventi per effetto del protrarsi della
condizione asseritamene lesiva venutasi a creare.
Nella fattispecie, invero, la situazione pregiudizievole, iniziata a verificarsi –
secondo le allegazioni del lavoratore nel 1994 – avrebbe, in realtà, assunto
consistenza soltanto dal maggio del 2000, quando si sarebbe verificata la
totale privazione di mansioni ed avrebbe raggiunto un rilevante livello di
gravità appena dal mese di agosto 2001 quando appunto il lavoratore ha
iniziato a soffrire di sindrome ansioso-depressiva.
Appare quindi evidente che, comunque, il pregiudizio grave ed irreparabile
si è manifestato solo pochi mesi prima dell’inizio del procedimento cautelare
e tale pregiudizio, nella prospettiva di un giudizio di cognizione che
potrebbe non esaurirsi in breve tempo, appare vieppiù grave per il pericolo
che le condizioni di salute del lavoratore peggiorino proprio a causa del
protrarsi della situazione lesiva.
Per quanto riguarda il fumus boni iuris, questo ben può allo stato ravvisarsi,
salvo diversa valutazione riservata alla sede di merito, in quanto la società
201
GIURISPRUDENZA
202
non contesta tanto il fatto che il L. sia rimasto privo di mansioni, ma imputa
all'atteggiamento poco collaborativo e disinteressato del lavoratore, il fatto di
essere rimasto nella precedente sede mentre gli altri colleghi erano già stati
trasferiti nella nuova, ed il fatto di non partecipare alle attività del settore cui
era assegnato.
Appare quantomeno singolare che il datore di lavoro, di fronte ad un
atteggiamento meramente inerte del lavoratore, non si attivi in qualche modo
per far valere il proprio diritto di ricevere la prestazione, ad esempio
formulando espressi ordini di servizio se non altro a fine di contestare
successivamente al lavoratore l'omesso adempimento.
Può quindi ritenersi che, effettivamente, il L., nell'ultimo periodo, sia stato
lasciato di fatto senza alcuna mansione.
Tale situazione verosimilmente ha cagionato la sindrome ansiosodepressiva attestata dal medico curante nel luglio 2001 e confermata dal
medico legale, Dott. F. con la relazione in atti, nella quale appunto si legge
che "le condizioni di salute del L., alla fine del mese di luglio 2001 … sono
progressivamente peggiorate, soprattutto con riguardo al profilo psicologico,
essendo stato riscontrato un rilevante stato d'ansia, via via di crescente entità,
con notevole grado di somatizzazione, disturbi depressivi incentrati sulla
perdita della propria immagine professionale con sentimenti di sfiducia,
pessimismo, incertezza sul futuro e idee di autosvalutazione; tale quadro si è
di recente ulteriormente aggravato in relazione alle condizioni di continuo
stress lavorativo".
Né appare condivisibile, dato il carattere sommario della cognizione,
l'affermazione del primo giudice secondo cui l'affermazione del nesso di
causalità tra la situazione creatasi nel luogo di lavoro e le condizioni di salute
è stata fondata sul mero racconto del paziente, giacché il medico non si limita
a registrare ciò che il suo paziente gli riferisce, ma compie appunto una
valutazione tecnica, quanto meno di verosimiglianza, tra i fatti riferiti ed i
dati oggettivi riscontrati.
Non del tutto privo di rilievo è poi il fatto che il lavoratore è in cura, dal
settembre 2001, presso il Centro mobbing della ASL Roma E, giacché può
presumersi che i sanitari di tale struttura abbiano riscontrato una situazione
patologica cagionata dalla situazione lavorativa.
Può quindi ritenersi sussistente la situazione di pericolo di un danno grave
ed irreparabile per interessi di rilievo costituzionale (dignità alla persona,
diritto al lavoro e diritto alla salute) che, in quanto attinenti alla sfera della
tutela della persona, non sono suscettibili di integrale, effettivo ristoro per
equivalente.
GIURISPRUDENZA
Deve pertanto ordinarsi alla società resistente di assegnare al L., mansioni
corrispondenti alla sua qualifica professionale.
Le spese della presente fase saranno regolate all'esito del giudizio di merito.
P. Q. M.
il Tribunale, pronunciando sul reclamo proposto dal L. S., avverso
l'ordinanza del Giudice del Lavoro di Roma 8 marzo 2002, n. 8222 reg. cron.,
così provvede:
1. ordina alla Telecom Italia s.p.a. di assegnare a L. S. mansioni
corrispondenti alla sua qualifica professionale;
2. fissa il termine di giorni 30 dalla comunicazione della presente
ordinanza per l'inizio del giudizio di merito;
3. spese al definitivo.
203
CAPITOLO 3
DOCUMENTAZIONE
205
DOCUMENTAZIONE
207
Relazioni esplicative degli artt. 3, 5 e 6 della bozza di legge contro il
mobbing
Articolo 3
L’art. 3 al comma 1 tiene conto delle competenze regionali riguardanti
l’assistenza e la prevenzione in materia di salute e, quindi, la diagnosi e la
terapia dei disturbi correlati a violenza morale o psichica in occasione di
lavoro. È parso pertanto indispensabile proporre di istituire appositi Centri
Pubblici (regionali specializzati o di Diritto Pubblico specializzati, Università
etc.) al fine di:
a) certificare la diagnosi di sindrome correlata, sindrome non correlata o
sindrome allo stato non sufficientemente correlabile,
b) impostare tutti quei provvedimenti terapeutici necessari per la
remissione della patologia.
Al comma 2 si ravvisa la necessità della interconnessione dei Centri a livello
nazionale in cui devono essere utilizzati spazi e personale specialisticamente
formato ed esclusivamente dedicato, riconoscendo le figure professionali
minime ed uniche per la diagnosi, che non può non essere frutto di una attività
pluridisciplinare, rappresentate dal medico legale, medico del lavoro,
psichiatra o psichiatra forense, psicologo clinico o del lavoro.
Viene lasciata all’organizzazione interna dei Centri la possibilità di
utilizzare tutte le specialità mediche, con il modello della consulenza, ma
non della formulazione e formalizzazione della diagnosi finale.
La necessità della interconnessione dei Centri è considerato requisito
indispensabile al fine di evitare consultazioni continue in vari centri senza
che tale attività venga di volta in volta riferita.
DOCUMENTAZIONE
208
La interconnessione consente di non ripetere tutte le attività testologiche
che per definizione non possono essere ripetute prima di un tempo minimo.
La interconnessione consente il monitoraggio del fenomeno.
Al comma 3 si vuole garantire il lavoratore circa il rispetto della privacy e della
possibilità di utilizzare la diagnosi richiesta nei modi che ritiene più opportuni.
Al comma 4, trattandosi di patologie non psicopatologicamente autonome
e non essendo inquadrabili in sindromi cliniche specifiche, ma rientrando di
volta in volta ed a seconda della personalità del soggetto colpito in sindromi
già note, la terapia può essere affrontata oltre che presso gli stessi centri
anche presso quelli già esistenti nei Dipartimenti di Salute Mentale
distribuiti sul territorio.
Articolo 5
Premessa
La norma è intesa a offrire uno specifico strumento di tutela in via
d’urgenza al lavoratore che abbia subito atti, atteggiamenti o comportamenti
di violenza morale o psichica in occasione di lavoro da qualificarsi, ai sensi
della bozza di legge in commento, come mobbing.
Si è optato per l’introduzione di un procedimento ad hoc per soddisfare
uno degli obiettivi prefissati dalla presente bozza di legge, e cioè quello di
assicurare al lavoratore una tutela più immediata ed efficace rispetto a quella
ordinaria (anche in via d’urgenza), nei casi in cui già sia intervenuto da parte
dei Centri all’uopo deputati (e disciplinati dal precedente art. 3) un
accertamento preliminare circa la sussistenza di un pregiudizio alla salute
del lavoratore e circa la correlabilità delle condizioni di salute alla situazione
lavorativa, in base ai parametri fissati con il protocollo allegato.
In questi casi, il lavoratore potrà ottenere dal giudice adito competente, in
termini ristrettissimi, un decreto immediatamente esecutivo che, se non
opposto (secondo il meccanismo già collaudato con l’art. 28 della legge 20
maggio 1970 n. 300), diventerà definitivo senza bisogno di successivi
accertamenti giudiziali a cognizione piena, come invece avviene in caso di
tutela cautelare ai sensi dell’art. 700 c.p.c.
Ovviamente in tutti gli altri casi (in cui il lavoratore non si sia rivolto al
Centro o l’accertamento compiuto dal Centro non si sia concluso con una
diagnosi di sindrome correlata) la tutela invocabile dal lavoratore sarà quella
ordinaria (art. 700 c.p.c. e artt.413 e ss. c.p.c.).
DOCUMENTAZIONE
Comma primo
Come si è detto, viene delineata una fase sommaria di competenza del
giudice del lavoro. La legittimazione attiva per instaurare tale procedimento
speciale spetta esclusivamente al lavoratore che abbia ottenuto dai Centri
regionali di cui all’art. 3 una diagnosi di “sindrome correlata”.
Non si è ritenuto di estendere la legittimazione ad altri soggetti
(rappresentante per la sicurezza o organizzazioni sindacali) stante la
delicatezza della materia, che coinvolge aspetti della personalità
insuscettibili di valutazione da parte di estranei .
Quanto alla legittimazione passiva, trattandosi di procedimento speciale
finalizzato ad una tutela immediata di situazioni pregiudizievoli anche
rispetto alla salute del lavoratore, si è ritenuto, in ossequio all’impianto della
presente bozza legge (che detta precisi obblighi in capo al datore di lavoro) e,
soprattutto, a quello della legge di riferimento (d.lgs. n. 626/94,
espressamente richiamata nel precedente art. 1), di limitarla al datore di
lavoro, ovviamente da intendersi alla stregua della definizione già contenuta
nell’art. 2, lett. B) d.lgs. n. 626/94 (datore di lavoro: il soggetto titolare del
rapporto di lavoro o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e
l’organizzazione dell’impresa, ha la responsabilità dell’impresa stessa ovvero
dell’unità produttiva, quale definita ai sensi della lettera i), in quanto titolare
di poteri decisionali e di spesa. Nelle pubbliche amministrazioni di cui
all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, per datore
di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero
il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui
quest’ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale).
Tale disposizione legislativa, che individua nel dirigente (o nel funzionario
all’uopo preposto) il datore di lavoro per tutte le amministrazioni pubbliche
di cui all’art. 1, comma 2, T.U. n. 165/2001, sembra consentire il superamento
di ogni dubbio circa la insussistenza della legittimazione passiva in capo al
Ministro, anche in caso di rapporti di lavoro non privatizzati ai sensi dell’art.
3 T.U. n. 165/2001.
Quanto ai rapporti di lavoro pubblico soggetti alla cd. privatizzazione,
valgono le nuove norme sulla legittimazione introdotte dall’art. 16, lettera f)
del T.U. 30 marzo 2001 n. 165, che attribuiscono al dirigente dell’ufficio
dirigenziale generale il potere di promuovere e resistere alle liti,
comportando il definitivo superamento del previgente regime di
legittimazione degli organi dello Stato, come delineato dall’art. 52 del T.U. 30
ottobre 1933 n. 1611, novellato dalla legge n. 260 del 1958.
209
DOCUMENTAZIONE
210
Inoltre, essendo il presente procedimento speciale finalizzato alla inibitoria
dei comportamenti vessatori, è sembrato più efficace evocare in giudizio il
soggetto responsabile della organizzazione e della gestione dei rapporti di
lavoro, in quanto non solo ad esso è comunque riconducibile l’attività dei
propri dipendenti (che siano eventualmente gli esecutori materiali dei
comportamenti vessatori), ma anche perché il dirigente in questione è l’unico
soggetto titolare dei poteri necessari per poter attivare contromisure efficaci.
Non può, infine, non rilevarsi come il lavoratore sia comunque facilitato
nell’individuazione del soggetto da evocare in giudizio, soprattutto in quelle
situazioni di vessazioni collettive, purtroppo non infrequenti nelle situazioni
di cd. mobbing.
Quanto al rito, il procedimento speciale in commento, analogamente al
procedimento di cui all’art. 28 della legge 20 maggio 1970 n. 300 ed alle
azioni di cui alle leggi 9 dicembre 1977 n. 903 e 10 aprile 1991 n. 125, è
articolato in una prima fase di carattere urgente e sommario ed in una
seconda fase, solo eventuale, a cognizione piena ed esauriente, che si svolge
negli ordinari gradi di giudizio.
La prima fase è caratterizzata dalla sommarietà dell’accertamento del
giudice circa la sussistenza dei fatti dedotti dal ricorrente, da compiersi nel
contraddittorio delle parti (è, infatti, prevista la convocazione delle parti), e
si conclude con il decreto del giudice, immediatamente esecutivo, con cui
viene accolto o respinto il ricorso. L’oggetto della tutela accordabile in questa
fase è limitata alla inibitoria dei comportamenti ritenuti illegittimi ed alla
rimozione dei relativi effetti, al fine di evitare il protrarsi e l’aggravarsi della
situazione pregiudizievole lamentata, fatta salva, ovviamente, la
proposizione in sede di opposizione o autonomamente delle azioni
risarcitorie eventualmente conseguenti.
Il termine breve di cinque giorni dal deposito del ricorso per l’emissione
del provvedimento è, al pari degli altri termini (di due giorni) già previsti
negli analoghi procedimenti speciali sopra richiamati, di natura ordinatoria;
peraltro, pur non comportando l’inosservanza del termine alcuna
illegittimità del provvedimento tardivo, l’espressa previsione di un termine
breve vuole essere indicativa dell’assoluta tempestività con cui tale
procedimento deve necessariamente concludersi.
Sempre analogamente a quanto previsto nell’art. 28 L. n. 300/70, il decreto
ha efficacia esecutiva ope legis e questa esecutività conserva fino
all’esaurimento del giudizio di opposizione in primo grado. La particolare
rilevanza degli interessi coinvolti, infatti, richiede che lo strumento di tutela
accordato in sede cautelare possa essere revocato solo all’esito degli
DOCUMENTAZIONE
approfondimenti istruttori del giudizio di cognizione ordinario; non vi è
dunque durante il giudizio di opposizione possibilità di sospensione
dell’esecutività del decreto.
Comma secondo
Il presente comma disciplina il passaggio dalla fase sommaria a quella
eventuale di opposizione, a cognizione piena ed esauriente.
Legittimata a proporre opposizione è la parte soccombente nella fase
sommaria; l’opposizione apre un ordinario processo di cognizione, articolato
nei normali gradi di giudizio e con le forme del rito speciale del lavoro,
espressamente richiamato dalla norma.
Comma terzo
Si è voluto espressamente specificare la possibilità per il lavoratore di
introdurre nel giudizio di opposizione l’azione di risarcimento del danno,
ampliando così l’oggetto del giudizio rispetto a quello già oggetto
dell’accertamento sommario.
Comma quarto
Si è riproposto il comma quarto dell’art. 28 della legge 20 maggio 1970 n.
300, quale mezzo di coazione indiretta per il datore di lavoro all’osservanza
del provvedimento reso all’esito del procedimento in commento.
Comma quinto
Nelle ipotesi in cui la controversia attenga a rapporti di lavoro rimasti
sottoposti alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (ai sensi
dell’art. 63, comma 4 del T.U. n. 165/2001) si è previsto che un procedimento
analogo a quello di cui al primo comma possa essere instaurato davanti al
tribunale amministrativo regionale.
Il comma ripropone il medesimo schema già utilizzato dal legislatore nella
l.n. 146/90, che aveva inserito, così codificando l’orientamento della
giurisprudenza, due commi ulteriori all’art. 28 L. n. 300/70, nei quali si
disciplinava il procedimento nei casi in cui il comportamento antisindacale
avesse anche leso il diritto di un dipendente pubblico. Peraltro, essendo tali
211
DOCUMENTAZIONE
212
due commi stati abrogati (in virtù della devoluzione al giudice ordinario
delle controversie sul pubblico impiego) dall’art. 4, L. n. 83/2000, si è posto
il problema della sopravvivenza di tale disciplina relativamente ai rapporti
di lavoro non contrattualizzati, e quindi rimasti sottoposti alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo.
A fronte di tali dubbi interpretativi, si è ritenuto opportuno reintrodurre
espressamente nella norma che regola il procedimento speciale in questione
la possibilità, per il dipendente pubblico non privatizzato, di proporre il
ricorso d’urgenza avanti al tribunale amministrativo regionale, il quale
provvederà con procedura speciale analoga a quella seguita avanti al giudice
ordinario.
Comma sesto
Si è ritenuto di introdurre questa norma stante la peculiarità del procedimento
speciale in commento rispetto alle ordinarie controversie di lavoro.
Diversamente opinando, occorrerebbe introdurre una norma che regoli il
rapporto tra il termine perentorio di 15 giorni per proporre opposizione e la
procedibilità della domanda, in analogia a quanto disposto dall’art. 669
octies quarto comma c.p.c. per la causa di merito da instaurarsi all’esito del
provvedimento ex art. 700 c.p.c.
Articolo 6
La disposizione in esame recepisce le indicazioni provenienti dalla
giurisprudenza e dalla dottrina in merito ai danni risarcibili ai lavoratori che
abbiano subito la lesione dei beni individuati dal combinato disposto di cui
agli artt. 41, 2° comma, Cost. e 2087 c.c. (salute, dignità, personalità morale).
Si osservi in particolare che viene recepita dal progetto di legge l’idea del
danno esistenziale come categoria autonoma e distinta dal danno biologico,
inquadramento questo fatto proprio dalla Sezione Lavoro della Suprema
corte (Cass., sez. lav., 3 luglio 2001, n. 9009) e da diversi giudici di merito
(cfr. ad esempio Trib. Pisa, sez. lav., 3 ottobre 2001; Trib. Forlì, sez. lav., 15
marzo 2001).
L’opportunità di una tale impostazione discende dall’esigenza di
mantenere disgiunte le due categorie di danno in questione, poiché, come
anche rilevato dalla Cassazione, esse si differenziano, oltre che per i rispettivi
contenuti, in relazione alla loro prova:
DOCUMENTAZIONE
- da un lato per il danno biologico, come anche recita l’art. 13 del decreto
legislativo n. 38/2000, è necessaria la dimostrazione di una lesione
dell’integrità psicofisica suscettibile di valutazione medico legale;
- dall’altro lato, il danno esistenziale, incardinandosi sulla lesione di beni
quali la personalità e la dignità del lavoratore non suscettibili di
valutazione medico legale, non richiede la prova di pregiudizi della
salute, bensì la dimostrazione, su un piano oggettivo, che la vittima abbia
effettivamente sperimentato la compromissione di detti beni attraverso
la frustrazione della sua persona sul luogo di lavoro.
Siffatta impostazione della norma non implica tuttavia che ogni evento che
rilevi ai fini della presente legge debba dare automaticamente luogo alla
liquidazione di due poste risarcitorie, né che si dia così luogo a indesiderabili
duplicazioni dei risarcimenti.
Infatti la precisazione “anche disgiuntamente”, unitamente al riferimento
alla valutazione equitativa, è finalizzata proprio ad evitare automatismi od
inutili sovrapposizioni:
- in primo luogo, il giudicante, con specifico riferimento alle prove
acquisite sull’esistenza dei danni oggetto della richiesta risarcitoria,
è tenuto a motivare la sua eventuale scelta di liquidare disgiuntamente
le due poste risarcitorie;
- in secondo luogo, la valutazione equitativa impone di coordinare il
quantum riconosciuto ad ogni singola posta risarcitoria affinché la
somma liquidata sia equa nella sua globalità.
213
DOCUMENTAZIONE
Interventi per la prevenzione e tutela delle lavoratrici e dei lavoratori da
molestie morali e psicologiche nei luoghi di lavoro
CONSIGLIO REGIONALE DEL VENETO
progetto di legge n. 221
214
PROPOSTA DI LEGGE
d’iniziativa dei Consiglieri Nadir Welponer, Flavio Zanonato, Elder Campion,
Adriana Costantini, Giovanni Gallo, Giampietro Marchese, Claudio Rizzato e
Lucio Tiozzo
Presentato alla Presidenza del Consiglio il 29 novembre 2001
RELAZIONE
Premessa
È stata definita una “patologia sociale dilagante”. Genera una sindrome
composita, con sintomi migranti, che spesso inducono lo spaesato medico di
famiglia ad annoverare tra i suoi assistiti un ennesimo apparente
ipocondriaco. Questa sindrome, però, è la causa del 15% dei suicidi nel
nostro Paese. E volendo essere cinici, non è questo il male peggiore, poiché
ben più numerose e costose in termini produttivi, sociali e sanitari sono le
sofferenze che essa causa. È la sindrome di chi viene fatto oggetto di mobbing.
La parola è semplicemente una definizione che descrive una strategia,
l’accerchiamento, ma dice poco dell’ansia e dell’angoscia, della paura, dello
sconforto, della rabbia, del senso di impotenza, della disistima di se stessi,
del desiderio insano di rivalsa e vendetta, della rassegnazione, della sfiducia
negli amici ai quali non si riesce a raccontare e nel coniuge che non riesce a
capire profondamente.
Il mobbing è un subdolo modo per sbriciolare le certezze di una persona, per
fargli credere di essere tanto debole da dover cedere per forza, incapace ormai
di mettere in pratica tutto ciò che credeva di sapere. Spesso chi è stato vittima
di mobbing – e mediamente i fenomeni durano circa cinque anni – non è più
in grado di trovare un nuovo lavoro a livello di quello precedente, poiché
mette ormai egli stesso in dubbio le proprie capacità, o perché è sfiduciato.
DOCUMENTAZIONE
Invece, ci dicono studi di comprovato prestigio, frequentemente il
mobbizzato è il più preparato sul piano professionale, e diviene vittima di
uno o più individui che per realizzarsi hanno bisogno di umiliare gli altri, o
che per esistere hanno bisogno di distruggere una persona. O,
semplicemente, di chi – fatto un semplicistico calcolo economico – constata
come sia meno costoso eliminare un collaboratore mobbizzandolo che
licenziandolo se e come previsto dai contratti nazionali.
È infatti anche un fenomeno frequentissimo, ad esempio, nei casi di fusioni
aziendali, quando inevitabilmente all’interno di una compagine vengono a
trovarsi dei “doppioni” dal punto di vista dei ruoli.
Il mobbing viene sempre esercitato su una vittima designata, sgradita per i
motivi più disparati, che viene costretta in condizione di debolezza e
aggredita più o meno palesemente da una o più persone in modo sistematico
e per tempo prolungato, con lo scopo e/o la conseguenza di estrometterla.
Talvolta, e il termine bossing lo definisce, la vittima viene invece attaccata
con le medesime modalità esclusivamente dal superiore o dalla direzione
con azioni spadroneggianti e di vessazione.
Il mobbing è quindi una condotta impropria, che reca offesa alla
personalità, alla dignità e all’integrità fisica o psichica di una persona.
Si può tradurre in semplici abusi di potere o piuttosto in manipolazioni
perverse e ambigue, che causano per questo danni maggiori creando
altalenanti dubbi e conflitti continuamente smentiti o avvalorati,
appositamente causati per destabilizzare una personalità. Infatti può
presentarsi travestito da blandizia, da lusinga anche di tipo amoroso, da
proposta di miglioramento.
Spesso la molestia si instaura quando una vittima reagisce all’autoritarismo
di un capo e rifiuta di lasciarsi asservire, diventando un bersaglio proprio per
la sua capacità di resistere malgrado le pressioni.
Ma quanto costa la resistenza in termini di salute? E quanto a lungo bisogna
resistere se si ha famiglia? Se si desidera difendere la propria rispettabilità in
casa e in società e non far sapere? Se non si accetta l’ingiustizia? Se si crede
inizialmente che siano malintesi che si chiariranno?
L’aurea regola del divide et impera coinvolge facilmente corresponsabili
che sono più o meno costretti alla connivenza – quanto meno del silenzio –
alla nostra attuale legge, che non prevede una definizione specifica per
comportamenti di questa portata e non facilita la correlazione tra eventi
riferibili ad un unico fenomeno.
Esistono invece Paesi europei nei quali il mobbing è considerato e
sanzionato come reato penale, e nei quali già da molti anni è codificato un
215
DOCUMENTAZIONE
216
comportamento, tanto da parte delle aziende come dei dipendenti, ormai
quasi soltanto di prevenzione, essendo divenuta cultura comune la massima
imperativa del rispetto della dignità e la tutela della salute anche psichica.
Peraltro il mobbing non causa soltanto disturbi da affrontare con terapia
psicologica o psichiatrica, bensì anche gravi patologie di tipo
gastrointestinale, cardiologico, dermatologico, e ulteriori svariate reazioni
psicosomatiche che sempre cronicizzano.
Esistono costi sociali e sanitari assolutamente considerevoli in
conseguenza di azioni di mobbing.
Le conseguenze ricadono sulla famiglia e sui suoi equilibri, sull’azienda e
sulla sua produttività, sugli istituti di previdenza sociale e sul sistema
sanitario.
Se il Veneto è la seconda regione italiana per produttività, è però quella con
il più pesante disavanzo di costi sanitari.
Noi riteniamo che il nesso sia inconfutabile, e da questa considerazione è
nata l’esigenza morale e pratica di dare un apporto fattivo ad una situazione
generalizzata per la quale si può prevedere esclusivamente una
recrudescenza in valori esponenziali e in tempi sempre più brevi vista la
vitalità produttiva del nostro territorio.
Riteniamo infatti che, individuando grazie ad un’apposita legge di tutela e
prevenzione i casi di effettivo mobbing, quantificando i costi che generano
nel corso della loro evoluzione cosicché siano imputabili per rivalsa a chi li
ha causati, sarà inizialmente possibile un consistente recupero in attivo delle
spese sanitarie.
Ed una volta creata la cultura della prevenzione, creato il concetto stesso di
“patologia da mobbing” ed equiparandola ad una malattia professionale
perché correlata al lavoro, le spese sanitarie saranno senza dubbio meno
elevate. Si giungerà ad eliminare quel farraginoso intreccio di diagnosi “di
copertura” che giustificano – attualmente in modo scorretto o inconsapevole
– un alto tasso di assenteismo che probabilmente non è tale. Perché oggi
sappiamo che malattia professionale è anche quella psicologica.
Inoltre la produttività ad ogni livello sarà incrementata, poiché
assolutamente ingenti sono i danni palesi e occulti che un mobbing
consentito o non riconosciuto causa nell’ambito di un luogo di lavoro.
In Italia, nonostante ancora il fenomeno non venga analizzato con
procedure omogenee, si rileva una presenza dichiarata e constatata del 15%
dei lavoratori che subiscono il mobbing. In realtà pubbliche o in grandi
aziende, come ad esempio la scuola, le banche, le assicurazioni, si
raggiungono punte del 45%. In presenza di casi di mobbing la produttività in
DOCUMENTAZIONE
azienda cala del 60%.
Da indagini europee sappiamo che in Germania, ad esempio, un lavoratore
mobbizzato costa all’azienda 150 milioni di Lire all’anno per perdite dovute
all’assenza o al minor rendimento. Il 50% dei lavoratori colpiti è in malattia
6 settimane l’anno; il 31% è in malattia dal mese e mezzo a oltre tre mesi.
L’assenteismo generale sale in azienda dal 23 al 34%.
I riflessi sul prodotto interno lordo sono eclatanti: la municipalità di
Ginevra ha calcolato che per molestie morali le aziende pubbliche e private
della Confederazione perdono 2.400 miliardi di Lire all’anno.
In Inghilterra si perdono 80 milioni di giorni lavorativi e 6.000 miliardi di
Lire all’anno.
In Germania la perdita di prodotto interno lordo è valutata in 220.000
1
miliardi di Lire, mentre negli Stati Uniti in 400.000 miliardi di Lire.
Per l’Italia si può considerare per difetto una perdita di 100.000 miliardi di
Lire all’anno.
Se si considera che il 48% dei mobbizzati ha tra i 41 ed i 50 anni, che il
45% sono uomini ed il 55% donne, è spontanea per chiunque la valutazione
di quanta sana, matura ed esperta forza-lavoro venga accantonata: nessuno
può ritenersi estraneo al problema o alla eventualità passata presente o futura
di coinvolgimento diretto o personale in un caso di mobbing.
DESCRIZIONE
L’art. 1 collega la presente proposta di legge agli articoli 1, 2, 3, 4, 32, 35, 41
della Costituzione Italiana e agli articoli 3, 4, 5 dello Statuto della Regione
Veneto.
Essa recepisce i contenuti del Trattato dell’Unione Europea e sue
integrazioni del 30 maggio 2001, nonché le indicazioni della Carta dei Diritti
Fondamentali dell’Unione Europea del 20 settembre 2000 e, in ultimo ma
importantissime per l’attualità e le sollecitazioni, le indicazioni della
Risoluzione della Commissione Affari Sociali del Parlamento Europeo del 20
settembre 2001.
Caratteristica della presente legge è di supportare e integrare, con la sua
applicazione, quanto già contenuto nell’art. 2087 del Codice Civile, e negli
articoli 437, 451, 582, 590, 660 del Codice Penale, nonché nell’art. 13 della
L. 300/1970 e nel D.L. 626/94.
1998: ricerca dell’Ufficio Internazionale del lavoro e ricerca Health & Safety Executive Britannica;
1997 ricerca Panse e Stegmann.
1
217
DOCUMENTAZIONE
218
L’art. 2 annovera i più palesi comportamenti a cui si applica la presente legge.
Le violazioni amministrativamente sanzionabili dalla presente legge sono
differenziate in base alla presenza di uno stato di malattia del lavoratore, a un
evento di mobbing in assenza di malattia, agli interventi per la prevenzione
da attuare da parte del datore di lavoro.
Così come tra le funzioni del previsto Osservatorio regionale (art. 8) vi è
l’attività di divulgazione di quanto stabilito per la tutela e per il
raggiungimento di una comune cultura della prevenzione, agli operatori a
ogni titolo coinvolti si raccomanda di diffondere l’informazione che gli
strumenti ed i servizi istituiti dalla presente legge sono per l’interesse
comune, tanto del lavoratore come del datore di lavoro, e pertanto fruibili da
entrambi.
Negli artt. 3, 4 e 5, al fine di perseguire il primario obiettivo della legge, che
consiste nel diffondere una cultura di prevenzione del fenomeno “mobbing”,
si auspica la più fattiva collaborazione tra le parti a qualsiasi titolo coinvolte:
- le aziende sanitarie locali
- le organizzazioni sindacali
- le associazioni dei datori di lavoro
- l’ispettorato del lavoro
- gli istituti di previdenza.
Si raccomanda che queste operino in sinergia, concordando gli interventi
di massima sulla base di capitolati comuni, e il più possibile riferendosi al
coordinamento del preposto Osservatorio istituito dalla presente legge.
Poiché si ritiene che nella maggioranza dei casi di mobbing il lavoratore si
rivolga in prima istanza al proprio medico, va posta estrema cura nella
sensibilizzazione dei medici di base, che dovranno impegnarsi in un
colloquio di anamnesi che comprenda ricerca di informazioni sull’ambito
socio-lavorativo del paziente.
Inoltre, per favorire la precoce individuazione dei casi di mobbing, sarà di
particolare utilità la diligente denuncia di sospetti casi di malattia correlata
al lavoro: un tempestivo riconoscimento delle situazioni a rischio, ancor
prima che si manifestino sintomatologie accentuate, consentono un recupero
del paziente tanto dal punto di vista medico che socio-lavorativo, mentre per
contro situazioni misconosciute generano conseguenze gravi e croniche.
L’art. 6 individua l’organo di vigilanza nell’esistente SPISAL (L. Reg. 54/82
e L. 626/94) competente territorialmente. Allo scopo di intervenire
tempestivamente nel caso di malattia del lavoratore, e limitare i danni tanto
personali quanto socio-sanitari derivanti da una situazione di mobbing,
l’attività di vigilanza dispone del nuovo strumento del “collegio medico”, da
DOCUMENTAZIONE
convocare con urgenza previa constatazione della fondatezza della
segnalazione ricevuta, e al fine di indirizzare eventualmente al più presto il
lavoratore al medico specialista.
L’art. 7 sancisce uno dei principi fondamentali della presente legge
nell’intento di fondare una cultura della prevenzione basata su principi
omogenei.
A questo proposito si raccomanda che le organizzazioni sindacali in
particolare, e ogni altro ente o associazione coinvolto nell’applicazione o
divulgazione della presente legge, partecipino attivamente alla diffusione
capillare della stessa, e che inaugurino sportelli di ascolto condotti da
personale appositamente formato, per il quale l’Osservatorio potrà svolgere
funzione di centro di riferimento.
In particolare si raccomanda che, qualora vi sia da parte di terzi un
impegno nel lavoro di sondaggio o statistica, si utilizzino questionari diffusi
dall’Osservatorio o realizzati in collaborazione con lo stesso, al fine di non
ingenerare equivoco nell’analisi dei dati che emergano da campagne di
indagine o sensibilizzazione, e con lo scopo di utilizzare i dati stessi per una
statistica comune sul territorio.
L’art. 8 introduce lo strumento dell’ “Osservatorio regionale”
descrivendone i compiti e determinandone la composizione.
L’Osservatorio vuole essere il raccordo tra le parti coinvolte, il centro di
raccolta e ridistribuzione delle risorse e delle conoscenze, il punto di
riferimento per tutto quanto in futuro verrà stabilito nel recepimento
definitivo delle indicazioni già emanate dalla Comunità Europea in materia
di mobbing.
L’art. 9 determina gli importi delle sanzioni amministrative per le
violazioni agli obblighi imposti dalla presente legge. Rappresenta
l’innovazione rispetto agli strumenti finora per legge disponibili, poiché
introduce una fattispecie di evento finora non codificato in un concetto
descritto e circoscritto.
Va peraltro sottolineata in modo particolare l’attenzione posta nella
prescrizione di applicare le sanzioni per entità commisurata, tra l’altro, alle
dimensioni dell’attività economica.
L’art. 10, attraverso la norma finanziaria, indica la volontà politica e
amministrativa di affrontare nel modo più concreto e fondante il problema
sociale del mobbing, sempre tenendo in prospettiva a media e lunga scadenza
l’obiettivo di favorire la cultura della prevenzione.
L’art. 11 fissa la data del 1° ottobre 2002 come scadenza idonea per rendere
operativi gli strumenti stabiliti dalla presente legge.
219
DOCUMENTAZIONE
Articolo 1
Finalità
220
1. La Regione del Veneto, nel rispetto dei principi costituzionali e
comunitari, riconosce la funzione sociale del lavoro, si impegna per la sua
tutela nel rispetto dell’integrità psicofisica della persona, e promuove le
azioni e le iniziative atte a prevenire e risolvere fenomeni di molestie morali
e persecuzioni psicologiche nel luogo di lavoro, di seguito denominate
mobbing.
Articolo 2
Ambito di applicazione
1. La presente legge riguarda gli atti ed i comportamenti di natura vessatoria
o persecutoria, protratti nel tempo, posti in essere da parte del datore di
lavoro e tali da creare un danno all’integrità psicofisica del lavoratore o
collaboratore ai sensi della L. 142/2001, anche in assenza di uno stato di
malattia del medesimo.
2. Ai fini della presente legge si intendono posti in essere dal datore di
lavoro anche gli atti e comportamenti di cui al comma 1 che siano posti in
essere, nella consapevolezza del datore di lavoro, da tutti i soggetti, con
rapporto di lavoro subordinato e non, che collaborano in via continuativa
nell’esercizio dell’impresa e/o comunque nell’esercizio dell’attività
economica e nello svolgimento dell’attività aziendale; normalmente la
consapevolezza del datore di lavoro si presume in via relativa, ma la
presunzione è assoluta allorché il datore di lavoro non abbia ottemperato ad
uno degli obblighi previsti nel seguente comma 3.
3. Il datore di lavoro ha l’obbligo di:
a) redigere un documento contenente la descrizione dell’organizzazione
aziendale nonché il codice interno di corretto comportamento che deve
essere consegnato ad ogni lavoratore e che, commisurato alla propria
organizzazione aziendale, deve contenere quanto meno il divieto di
porre in essere:
- strumentali e comunque immotivati atteggiamenti ostili
- calunnie sistematiche al lavoratore o alla sua famiglia
- maltrattamenti verbali e offese personali
- linguaggio volgare o blasfemo
- atti e/o comportamenti diretti ad intimorire e/o ad avvilire la persona,
anche in forma velata o indiretta
DOCUMENTAZIONE
- critiche immotivate o esagerate
- sabotaggio o impedimento deliberato dell’esecuzione del lavoro
- impedimento all’accesso a notizie e informazioni inerenti l’attività
lavorativa o fornitura di informazioni non corrette o incomplete
- privazione degli strumenti necessari a svolgere l’attività
- controllo dell’operato del lavoratore senza che egli ne sia informato e con
l’intento di danneggiarlo
- esclusione o emarginazione dai compiti abituali
- delegittimazione dell’immagine privata e/o professionale anche di fronte
a estranei
- attribuzione di compiti eccessivi, sovraccarico di lavoro, attribuzione di
lavori inutili, richiesta continua di lavoro straordinario non motivato o
alternativamente sottrazione di lavoro
- attribuzione di compiti dequalificanti
- esclusione da iniziative di formazione o riqualificazione professionale
- deliberato isolamento fisico del lavoratore;
b) organizzare un’attività di formazione interna di almeno 4 ore annue sulla
base delle indicazioni fornite dall’Osservatorio regionale di cui
all’articolo 8.
Articolo 3
Interventi regionali
1. La Regione, attraverso i dipartimenti di prevenzione delle unità locali
sociosanitarie ed in collaborazione con le parti sociali interessate, promuove
attività di informazione, formazione e ricerca volte a prevenire azioni di
mobbing.
2. La Regione organizza appositi corsi di formazione per gli incaricati dei
servizi di prevenzione e sicurezza degli ambienti di lavoro (SPISAL) del
dipartimento di prevenzione.
3. In particolare, la Regione promuove e incentiva studi e ricerche su:
a) l’incidenza dei costi sanitari, previdenziali, aziendali e sociali riferibili
alle patologie da mobbing;
b) le patologie psicosomatiche e sui trattamenti terapeutici, ovvero sulle
conseguenze in ambito sociale e famigliare per le vittime del mobbing;
c) il contenzioso legale in caso di mobbing.
221
DOCUMENTAZIONE
Articolo 4
Azioni positive
222
1. Allo scopo di prevenire e limitare l’insorgenza e la diffusione del
fenomeno del mobbing e le sue conseguenze negative, la Regione, in
collaborazione con le parti sociali interessate, realizza azioni positive per la
tutela e il sostegno del lavoratore e della sua famiglia:
2. In particolare le azioni positive consistono in:
a) divulgazione di studi e ricerche sul mobbing attraverso l’Osservatorio
regionale;
b) realizzazione annuale, per i primi sei anni, di una campagna di
informazione sociale su televisioni e stampa locali al fine di
pubblicizzare la presente legge ed i servizi ad essa connessi;
c) realizzazione di strumenti permanenti di documentazione e
informazione con il coordinamento dell’Osservatorio regionale;
d) incentivi per la realizzazione di supporti e terapie psicologiche di
sostegno e riabilitazione per il lavoratore ed i suoi famigliari nonché,
all’occorrenza, per l’autore delle azioni mobbizzanti;
e) incentivi per la realizzazione di centri di ascolto presso organizzazioni
sindacali, associazioni senza scopo di lucro, enti locali, associazioni di
categoria, affinché in ogni realtà e dimensione lavorativa le vittime di
mobbing abbiano garantite consulenza, assistenza legale e sostegno
psicologico.
Articolo 5
Programmazione degli interventi e delle azioni
1. Le azioni e gli interventi previsti dalla presente legge sono realizzati in
base ad un piano triennale articolato su base annuale per il primo e secondo
triennio, ed in seguito su base triennale.
2. Il Piano triennale è predisposto dall’Osservatorio regionale ed è
approvato dalla Giunta regionale su proposta dell’Assessore regionale delle
politiche dell’occupazione e della formazione, di concerto con l’Assessore
regionale alle politiche sanitarie e l’Assessore regionale alle politiche sociali.
3. Con le medesime modalità di cui al comma 2 vengono approvati i
programmi annuali del primo e secondo triennio per tutti gli interventi da
realizzare in sinergia con enti locali, istituzioni, parti sociali e associazioni.
4. Il programma annuale esplica la parte attuativa nei dettagli, stabilendo
direttive generali e particolari che verranno riprese ed aggiornate nei
DOCUMENTAZIONE
successivi piani triennali sulla base dei dati forniti dall’Osservatorio
regionale.
Articolo 6
Attività di vigilanza
1. L’attività di vigilanza nei luoghi di lavoro è attribuita agli SPISAL
opportunamente integrati da medici e psicologi esperti in materia di
mobbing.
2. Lo SPISAL, sulla base delle segnalazioni ricevute e previa valutazione
della loro fondatezza, effettua apposite ispezioni nel luogo di lavoro, per
accertare l’esistenza di azioni di mobbing, l’eventuale stato di malattia e
l’assolvimento degli obblighi previsti dall’art. 2 comma 3.
3. Presso ogni SPISAL è istituito un collegio medico composto da un
medico specialista in medicina del lavoro, da un medico specialista in
medicina legale, da uno psicologo esperto in organizzazione del lavoro con il
compito di confermare lo stato di malattia e di accertare la connessione tra
stato di malattia ed azioni di mobbing.
4. Lo SPISAL, qualora accerti azioni di mobbing e uno stato di malattia,
convoca il collegio medico di cui al comma 3 il quale decide entro 30 giorni
dalla costituzione, salvo la possibilità di prorogare di altri 15 giorni per
motivate esigenze; alle sedute del collegio medico possono presenziare un
medico indicato dal lavoratore ed un medico indicato dal datore di lavoro.
Articolo 7
Formazione degli operatori
1. Gli operatori coinvolti dall’attuazione della presente legge devono
ricevere una formazione omogenea e comune. Tale formazione avviene, per i
primi tre anni dall’entrata in vigore della legge, tramite gli appositi corsi
istituiti dall’Osservatorio regionale di cui all’articolo 8, in collaborazione con
le parti interessate.
2. Per i cicli triennali successivi i corsi sono stabiliti per l’integrazione sulla
base dei dati forniti dall’Osservatorio regionale.
3. La Regione può bandire, attraverso l’Osservatorio regionale, borse di
studio nelle materie oggetto della presente legge.
4. La Giunta regionale detta disposizioni attuative su quanto previsto ai
commi 1 e 2 e 3.
223
DOCUMENTAZIONE
Articolo 8
Osservatorio regionale
224
1. È istituito presso l’Assessorato regionale alle politiche dell’occupazione
e della formazione, un Osservatorio regionale sulle molestie morali e le
persecuzioni psicologiche nei luoghi di lavoro.
2. L’Osservatorio è un organo consultivo e di coordinamento, e svolge le
seguenti attività:
a) partecipa alla stesura del piano triennale e del programma annuale,
fornendo man mano dati, informazioni e valutazioni su quanto svolto ad
ogni scadenza per il perseguimento della finalità della legge;
b) partecipa alla stesura del piano triennale per la Prevenzione sanitaria
della Regione;
c) provvede alla redazione dei criteri di valutazione dello stato di malattia
riferibile a comportamenti e atti di cui all’articolo 2 e alla sua diffusione
presso gli organi e gli operatori competenti;
d) provvede alla redazione del questionario da inoltrare ai lavoratori in
collaborazione con i dipartimenti di prevenzione delle ULSS e le
organizzazioni sindacali per il censimento del fenomeno mobbing.
e) offre attività di assistenza nei confronti di organi regionali e locali, enti
pubblici, istituzioni, aziende sanitarie, aziende private, che adottino progetti
e sviluppino iniziative in sintonia con le finalità della presente legge;
f) effettua il monitoraggio sul territorio attraverso la raccolta del
questionario e dei dati bio-statistici;
g) mantiene i contatti e funge da fulcro per le attività sinergiche tra
Università, ULSS, INAIL, Ispettorato del Lavoro e qualsiasi operatore a
qualsiasi titolo coinvolto nell’attuazione della legge;
h) programma e coordina i corsi di formazione continui necessari agli
operatori come descritto all’articolo 7;
3. L’Osservatorio, presieduto dall’assessore regionale alle politiche
dell’occupazione e della formazione o da un suo delegato, è costituito da:
a) due rappresentanti dalle associazioni dei datori di lavoro maggiormente
rappresentative a livello regionale;
b) due rappresentanti dalle organizzazioni sindacali maggiormente
rappresentative a livello regionale;
c) il responsabile della struttura regionale competente in materia di
prevenzione sanitaria o suo delegato;
d) un rappresentante di associazioni di volontariato che svolgano attività
di centro di ascolto in materia di mobbing;
DOCUMENTAZIONE
e) un consigliere regionale.
4. I rappresentanti dell’Osservatorio sono nominati dal Consiglio
Regionale, durano in carica per la legislatura e possono essere riconfermati.
5. L’Osservatorio può avvalersi della consulenza di un medico del lavoro,
di uno psicologo di organizzazione del lavoro, di un medico legale, di un
avvocato esperto di diritto del lavoro, di uno studioso in materia di mobbing,
in qualità di riconosciuti esperti.
6. Ai componenti l’osservatorio si applicano le disposizioni di cui
all’articolo 187 della legge regionale 10 giugno 1991, n. 12 e successive
modificazioni.
7. Esercita le funzioni di segretario dell’Osservatorio un dipendente
regionale di categoria non inferiore alla categoria direttiva. La Giunta
regionale con propria deliberazione determina modalità e criteri di
funzionamento.
Articolo 9
Sanzioni
1. Per le violazioni delle disposizioni della presente legge si applicano le
seguenti sanzioni amministrative:
a) la violazione da parte del datore di lavoro di quanto previsto dall’art. 2,
commi 1 o 2, è punita, in presenza di uno stato di malattia, con la
sanzione amministrativa da Lire 10.000.000 a Lire 50.000.000;
b) la violazione da parte del datore di lavoro di quanto previsto dall’art. 2,
commi 1 o 2, è punita, in assenza di uno stato di malattia, con la
sanzione amministrativa da Lire 5.000.000 a Lire 30.000.000;
c) la violazione da parte del datore di lavoro di quanto previsto dall’art. 2,
comma 3, lettera a) o lettera b), è punita, ciascuna violazione, con la
sanzione amministrativa da Lire 5.000.000 a Lire 20.000.000.
2. L’applicazione delle sanzioni deve avvenire con provvedimento
motivato che nella determinazione dell’entità tenga conto in via principale
dell’intensità del dolo, del grado della colpa e delle dimensioni dell’attività
economica.
3. Le sanzioni previste al comma 1 sono comminate dallo SPISAL
territorialmente competente e sono destinate per il 50% al Dipartimento di
Prevenzione della ULSS territorialmente competente per l’attività prevista
all’articolo 6, e per il restante 50% agli scopi di formazione e prevenzione
previsti dall’Osservatorio regionale.
225
DOCUMENTAZIONE
Articolo 10
Norma finanziaria
226
1. Agli oneri derivanti dall’applicazione della presente legge, quantificati
per l’anno 2002 in Lire 1,5 miliardi, si provvede mediante imputazione al
Fondo globale spese correnti UO185 del Bilancio di previsione 2002 alla
Partita: Interventi per la “Prevenzione e tutela delle lavoratrici e dei
lavoratori da molestie morali e psicologiche nei luoghi di lavoro”.
Articolo 11
Norma finale
Le disposizioni della presente legge si applicano a decorrere dal 1° ottobre
2002.
DOCUMENTAZIONE
L.R. 11 luglio 2002, n. 16
Disposizioni per prevenire e contrastare il fenomeno del mobbing nei luoghi
di lavoro
IL PRESIDENTE DELLA GIUNTA REGIONALE DEL LAZIO
Promulga la seguente legge:
Articolo 1
Finalità
1. La Regione, in attuazione dei princìpi costituzionali enunciati negli
articoli 2, 3, 4, 32, 35 e 37 della Costituzione, nel rispetto della normativa
statale vigente e nelle more dell’emanazione di una disciplina organica dello
Stato in materia, interviene con la presente legge al fine di prevenire e
contrastare l’insorgenza e la diffusione del fenomeno del mobbing nei luoghi
di lavoro.
2. La Regione individua nella crescita e nello sviluppo di una cultura del
rispetto dei diritti dei lavoratori da parte di tutte le componenti del mondo
del lavoro gli elementi fondamentali per il raggiungimento delle finalità
indicate al comma 1 e per un’ottimale utilizzazione delle risorse umane nei
luoghi di lavoro.
Articolo 2
Definizione del mobbing
1. Ai fini della presente legge per mobbing s’intendono atti e
comportamenti discriminatori o vessatori protratti nel tempo, posti in
essere nei confronti di lavoratori dipendenti, pubblici o privati, da parte del
datore di lavoro o da soggetti posti in posizione sovraordinata ovvero da
altri colleghi, e che si caratterizzano come una vera e propria forma di
persecuzione psicologica o di violenza morale.
2. Gli atti ed i comportamenti di cui al comma 1 possono consistere in:
a) pressioni o molestie psicologiche;
b) calunnie sistematiche;
c) maltrattamenti verbali ed offese personali;
d) minacce od atteggiamenti miranti ad intimorire ingiustamente od
avvilire, anche in forma velata ed indiretta;
e) critiche immotivate ed atteggiamenti ostili;
227
DOCUMENTAZIONE
228
f) delegittimazione dell’immagine, anche di fronte a colleghi ed a
soggetti estranei all’impresa, ente od amministrazione;
g) esclusione od immotivata marginalizzazione dall’attività lavorativa
ovvero svuotamento delle mansioni;
h) attribuzione di compiti esorbitanti od eccessivi, e comunque idonei a
provocare seri disagi in relazione alle condizioni fisiche e psicologiche
del lavoratore;
i) attribuzione di compiti dequalificanti in relazione al profilo
professionale posseduto;
j) impedimento sistematico ed immotivato all’accesso a notizie ed
informazioni inerenti l’ordinaria attività di lavoro;
k) marginalizzazione immotivata del lavoratore rispetto ad iniziative
formative, di riqualificazione e di aggiornamento professionale;
l) esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo nei confronti del
lavoratore, idonee a produrre danni o seri disagi;
m) atti vessatori correlati alla sfera privata del lavoratore, consistenti in
discriminazioni sessuali, di razza, di lingua e di religione.
Articolo 3
Organi paritetici
1. Gli organi paritetici previsti dall’articolo 20 del decreto legislativo 19
settembre 1994, n. 626 (Attuazione delle direttive 89/391/CEE, 89/654/CEE,
89/655/CEE, 89/656/CEE, 90/269/CEE, 90/270/CEE, 90/394/CEE,
90/679/CEE, 93/88/CEE e 1999/38/CE riguardanti il miglioramento della
sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro) e successive
modifiche, nell’ambito delle attribuzioni ad essi conferite in materia di
formazione dei lavoratori, assumono iniziative e programmano interventi per
sensibilizzare tutte le componenti del mondo del lavoro sulle problematiche
di cui alla presente legge.
Articolo 4
Istituzione di centri anti-mobbing
1. Le aziende sanitarie locali istituiscono o promuovono l’istituzione,
anche mediante convenzioni con associazioni senza fini di lucro, di appositi
centri, opportunamente dislocati sul territorio in relazione ai livelli
occupazionali esistenti nell’ambito pubblico e privato, che forniscano
adeguata assistenza al lavoratore oggetto di discriminazioni. I centri, nel caso
DOCUMENTAZIONE
in cui accertino l’effettiva esistenza di elementi atti a configurare le
fattispecie di cui all’articolo 2, assumono, entro sessanta giorni dalla
richiesta del lavoratore, iniziative a tutela del medesimo, ed in particolare:
a) forniscono una prima consulenza in ordine ai diritti del lavoratore;
b) avviano, qualora la situazione lo richieda, primi interventi di sostegno
psicologico;
c) nel caso in cui riscontrino la probabile avvenuta insorgenza di stati
patologici determinati od aggravati dal mobbing, indirizzano il
lavoratore, con il suo consenso, al servizio sanitario specialistico;
d) segnalano al datore di lavoro, pubblico o privato, la situazione di disagio
del lavoratore, invitandolo ad assumere i provvedimenti idonei per
rimuoverne le cause.
2. Nel caso in cui il centro non accerti elementi atti a configurare le
fattispecie di cui all’articolo 2, il lavoratore interessato può rivolgersi
all’Osservatorio previsto all’articolo 6, richiedendo un’audizione.
3. Ciascun centro deve, in ogni caso, prevedere nel proprio ambito le
seguenti figure professionali:
a) un avvocato esperto in diritto del lavoro;
b) un medico specialista in igiene pubblica;
c) uno psicologo o psicoterapeuta;
d) un sociologo;
e) un assistente sociale.
4. I centri provvedono a trasmettere periodicamente all’Osservatorio di cui
all’articolo 6 dati ed informazioni relative ai casi trattati, nel rispetto della
normativa vigente in materia di tutela dei dati personali, al fine di consentire
il monitoraggio e l’analisi dell’incidenza del fenomeno del mobbing.
Articolo 5
Iniziative degli enti locali
1. Le province ed i comuni assumono iniziative per diffondere
l’informazione sul fenomeno del mobbing e per prevenirne l’insorgenza.
2. Nell’ambito delle contrattazioni collettive decentrate integrative per il
comparto regione - enti locali, le parti pubbliche e quelle sindacali verificano
le possibilità e le modalità per l’adozione di idonee misure, al fine di
prevenire e contrastare l’insorgenza di fenomeni di mobbing, anche
attraverso la partecipazione dei dirigenti e degli altri dipendenti ad appositi
corsi di formazione e di aggiornamento.
229
DOCUMENTAZIONE
Articolo 6
Osservatorio regionale sul mobbing
230
1. È istituito l’Osservatorio regionale sul mobbing, con sede presso
l’assessorato competente in materia di lavoro.
2. L’Osservatorio svolge i seguenti compiti:
a) attività di consulenza nei confronti degli organi regionali, nonché degli
enti pubblici, delle associazioni od enti privati e delle aziende sanitarie
che adottino progetti o che sviluppino iniziative per le finalità di cui alla
presente legge;
b) monitoraggio ed analisi del fenomeno del mobbing;
c) promozione di studi e ricerche, nonché di campagne di sensibilizzazione
e d’informazione, in raccordo con le amministrazioni, gli enti e gli
organismi destinatari delle norme di cui alla presente legge.
3. L’Osservatorio è composto da:
a) il direttore del dipartimento competente in materia di lavoro, o suo
delegato, che lo presiede;
b) i direttori dei dipartimenti competenti in materia di sanità e di qualità
della vita, o loro delegati;
c) un rappresentante della commissione consiliare permanente competente
in materia di lavoro;
d) il responsabile della struttura regionale competente in materia di lotta
alle diseguaglianze;
e) un rappresentante del Ministero del Lavoro;
f) tre rappresentanti designati dalle organizzazioni sindacali maggiormente
rappresentative a livello regionale;
g) tre rappresentanti designati dalle organizzazioni imprenditoriali
maggiormente rappresentative a livello regionale;
h) un sociologo, due psicologi e due avvocati esperti in diritto del lavoro,
scelti dall’Amministrazione nell’ambito di terne di nominativi forniti dai
rispettivi ordini o associazioni professionali.
4. L’Osservatorio è costituito con decreto del Presidente della Giunta
regionale. Il suo funzionamento è disciplinato da apposito regolamento
interno, adottato a maggioranza assoluta dei componenti. Le funzioni di
segreteria sono svolte dalla competente struttura dell’assessorato.
5. I componenti dell’Osservatorio di cui al comma 3, lettere e), f), g) e h)
restano in carica tre anni e possono essere riconfermati.
6. Ai componenti l’Osservatorio è corrisposto il trattamento economico
determinato ai sensi della normativa regionale vigente.
DOCUMENTAZIONE
Articolo 7
Norma finanziaria
1. Per le finalità di cui gli articoli 4 e 5 della presente legge si provvede con
deliberazione della Giunta regionale, ai sensi dell’articolo 28, comma 2, della
legge regionale 20 novembre 2001, n. 25 e all’istituzione nel bilancio per
l’esercizio 2002 di appositi capitoli da iscrivere all’UPB H13 concernenti:
a) “Contributi alle ASL per l’istituzione di centri anti mobbing” con lo
stanziamento di euro 20 mila per ciascuno degli anni 2002, 2003 e 2004;
b) “Contributo agli enti locali per le iniziative di cui all’articolo 5” con lo
stanziamento di euro 30 mila per ciascuno degli anni 2002, 2003 e 2004.
2. Alla copertura dell’onere di cui al comma 1 si provvede, in conto
competenza, mediante riduzione dei corrispondenti importi di euro 50 mila
degli stanziamenti, per ciascuno degli esercizi 2002, 2003 e 2004, di cui
all’elenco 4 del bilancio di previsione 2002, capitolo T27501, lettera E); alla
copertura di cassa per l’esercizio 2002 si fa fronte mediante riduzione del
complessivo importo di euro 50 mila dell’UPB T25.
3. Alla spesa per la corresponsione dei compensi ai componenti
dell’Osservatorio di cui alle lettere e), f), g) e h) del comma 3 dell’articolo 6
si fa fronte con i fondi previsti all’UPB R21 del bilancio regionale di
previsione per l’esercizio 2002 e alla corrispondente UPB del bilancio
relativo agli esercizi successivi.
La presente legge regionale sarà pubblicata sul Bollettino Ufficiale della
Regione. È fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare
come legge della Regione Lazio.
231
DOCUMENTAZIONE
Contratto collettivo nazionale di lavoro relativo al personale del Comparto
Ministeri per il quadriennio normativo 2002-2005 e biennio economico
2002-2003 (estratto)
CAPO II
232
FORME DI PARTECIPAZIONE
Articolo 6
Comitato paritetico sul fenomeno del mobbing
1. Le parti prendono atto che nelle pubbliche amministrazioni sta
emergendo, sempre con maggiore frequenza, il fenomeno del mobbing, inteso
come forma di violenza morale o psichica in occasione di lavoro – attuato dal
datore di lavoro o da altri dipendenti – nei confronti di un lavoratore. Esso è
caratterizzato da una serie di atti, atteggiamenti o comportamenti, diversi e
ripetuti nel tempo in modo sistematico ed abituale, aventi connotazioni
aggressive, denigratorie e vessatorie tali da comportare un degrado delle
condizioni di lavoro, idoneo a compromettere la salute o la professionalità o
la dignità del lavoratore stesso nell'ambito dell'ufficio di appartenenza o,
addirittura, tale da escluderlo dal contesto lavorativo di riferimento.
2. In relazione al comma 1, le parti, anche con riferimento alla risoluzione
del Parlamento Europeo del 20 settembre 2001 riconoscono la necessità di
avviare adeguate ed opportune iniziative al fine di contrastare la diffusione
di tali situazioni, che assumono rilevanza sociale, nonché di prevenire il
verificarsi di possibili conseguenze pericolose per la salute fisica e mentale
del lavoratore interessato e, più in generale, migliorare la qualità e la
sicurezza dell'ambiente di lavoro.
3. Nell'ambito delle forme di partecipazione previste dall'art. 6, lett. d) del
CCNL del 16 febbraio 1999 sono, pertanto, istituiti, entro sessanta giorni
dall'entrata in vigore del presente contratto, specifici Comitati Paritetici
presso ciascuna amministrazione con i seguenti compiti:
a) raccolta dei dati relativi all'aspetto quantitativo e qualitativo del
fenomeno del mobbing in relazione alle materie di propria competenza;
b) individuazione delle possibili cause del fenomeno, con particolare
riferimento alla verifica dell'esistenza di condizioni di lavoro o fattori
organizzativi e gestionali che possano determinare l'insorgere di
situazioni persecutorie o di violenza morale;
DOCUMENTAZIONE
c) formulazione di proposte di azioni positive in ordine alla prevenzione e
alla repressione delle situazioni di criticità, anche al fine di realizzare
misure di tutela del dipendente interessato;
d) formulare proposte per la definizione dei codici di condotta.
4. Le proposte formulate dai Comitati vengono presentate alle
Amministrazioni per i conseguenti adempimenti tra i quali rientrano, in
particolare, la costituzione ed il funzionamento di sportelli di ascolto,
nell'ambito delle strutture esistenti, l'istituzione della figura del
consigliere/consigliera di fiducia nonchè la definizione dei codici, sentite le
organizzazioni sindacali firmatarie.
5. In relazione all'attività di prevenzione del fenomeno di cui al comma 3,
i Comitati valuteranno l'opportunità di attuare, nell'ambito dei piani generali
per la formazione, previsti dall'art. 26 del CCNL del 16 febbraio 1999, idonei
interventi formativi e di aggiornamento del personale, che possono essere
finalizzati, tra l'altro, ai seguenti obiettivi:
a) affermare una cultura organizzativa che comporti una maggiore
consapevolezza della gravità del fenomeno e delle sue conseguenze
individuali e sociali;
b) favorire la coesione e la solidarietà dei dipendenti, attraverso una più
specifica conoscenza dei ruoli e delle dinamiche interpersonali
all'interno degli uffici, anche al fine di incentivare il recupero della
motivazione e dell'affezione all'ambiente lavorativo da parte del personale.
6. I Comitati sono costituiti da un componente designato da ciascuna delle
organizzazioni sindacali di comparto firmatarie del presente CCNL e da un pari
numero di rappresentanti dell'amministrazione. Il Presidente del Comitato
viene designato tra i rappresentanti dell'amministrazione ed il vicepresidente
dai componenti di parte sindacale. Per ogni componente effettivo è previsto un
componente supplente. Ferma rimanendo la composizione paritetica dei
Comitati, di essi fa parte anche un rappresentante del Comitato per le pari
opportunità , appositamente designato da quest'ultimo, allo scopo di garantire
il raccordo tra le attività dei due organismi.
7. Le Amministrazioni favoriscono l'operatività dei Comitati e garantiscono
tutti gli strumenti idonei al loro funzionamento. In particolare valorizzano e
pubblicizzano con ogni mezzo, nell'ambito lavorativo, i risultati del lavoro
svolto dagli stessi. I Comitati sono tenuti a svolgere una relazione annuale
sull'attività svolta.
8. I Comitati di cui al presente articolo rimangono in carica per la durata di
un quadriennio e comunque fino alla costituzione dei nuovi. I componenti
dei Comitati possono essere rinnovati nell'incarico per un solo mandato.
233
DOCUMENTAZIONE
Articolo 13
Codice disciplinare
234
1. Nel rispetto del principio di gradualità e proporzionalità delle sanzioni
in relazione alla gravità della mancanza e in conformità di quanto previsto
dall'art. 55 del d.lgs. n. 165/2001 e successive modificazioni ed integrazioni,
sono fissati i seguenti criteri generali:
a) il tipo e l'entità di ciascuna delle sanzioni sono determinati anche in
relazione:
- alla intenzionalità del comportamento, alla rilevanza della violazione di
norme o disposizioni;
- al grado di disservizio o di pericolo provocato dalla negligenza
imprudenza o imperizia dimostrate, tenuto conto anche della
prevedibilità dell'evento;
- all'eventuale sussistenza di circostanze aggravanti o attenuanti;
- alle responsabilità derivanti dalla posizione di lavoro occupata dal dipendente;
- al concorso nella mancanza di più lavoratori in accordo tra loro;
- al comportamento complessivo del lavoratore, con particolare riguardo
ai precedenti disciplinari, nell'ambito del biennio previsto dalla legge;
- al comportamento verso gli utenti;
b) Al lavoratore che abbia commesso mancanze della stessa natura già
sanzionate nel biennio di riferimento, è irrogata, a seconda della gravità
del caso e delle circostanze, una sanzione di maggiore entità prevista
nell'ambito del medesimo comma.
c) Al dipendente responsabile di più mancanze compiute in un'unica
azione od omissione o con più azioni o omissioni tra loro collegate ed
accertate con un unico procedimento, è applicabile la sanzione prevista
per la mancanza più grave se le suddette infrazioni sono punite con
sanzioni di diversa gravità.
2. La sanzione disciplinare dal minimo del rimprovero verbale o scritto al
massimo della multa di importo pari a 4 ore di retribuzione si applica al
dipendente per:
a) inosservanza delle disposizioni di servizio, anche in tema di assenze per
malattia, nonché dell'orario di lavoro;
b) condotta non conforme ai principi di correttezza verso altri dipendenti o
nei confronti del pubblico;
c) negligenza nella cura dei locali e dei beni mobili o strumenti a lui affidati
o sui quali, in relazione alle sue responsabilità, debba espletare azione di
vigilanza;
DOCUMENTAZIONE
d) inosservanza delle norme in materia di prevenzione degli infortuni e di
sicurezza sul lavoro nel caso in cui non ne sia derivato un pregiudizio al
servizio o agli interessi dell'amministrazione o di terzi;
e) rifiuto di assoggettarsi a visite personali disposte a tutela del patrimonio
dell'amministrazione, nel rispetto di quanto previsto dall'art. 6 della
L. 300 del 1970;
f) insufficiente rendimento;
L'importo delle ritenute per multa sarà introitato dal bilancio
dell'amministrazione e destinato ad attività sociali.
3. La sanzione disciplinare della sospensione dal servizio con privazione
della retribuzione fino ad un massimo di 10 giorni si applica per:
a) recidiva nelle mancanze che abbiano comportato l'applicazione del
massimo della multa oppure quando le mancanze previste nel comma 2
presentino caratteri di particolare gravità;
b) assenza ingiustificata dal servizio fino a 10 giorni o arbitrario abbandono
dello stesso; in tali ipotesi l'entità della sanzione è determinata in
relazione alla durata dell'assenza o dell'abbandono dal servizio, al
disservizio determinatosi, alla gravità della violazione degli obblighi del
dipendente, agli eventuali danni causati all'amministrazione, agli utenti
o ai terzi;
c) ingiustificato ritardo, non superiore a 10 giorni, a trasferirsi nella sede
assegnata dall'amministrazione;
d) svolgimento di altre attività lavorative durante lo stato di malattia o di
infortunio;
e) rifiuto di testimonianza oppure testimonianza falsa o reticente in
procedimenti disciplinari;
f) minacce, ingiurie gravi, calunnie o diffamazioni verso il pubblico o altri
dipendenti; alterchi con vie di fatto negli ambienti di lavoro, anche con utenti;
g) manifestazioni ingiuriose nei confronti dell'amministrazione, tenuto
conto del rispetto della libertà di pensiero e di espressione ai sensi
dell'art. 1 L. 300 del 1970;
h) qualsiasi comportamento da cui sia derivato danno grave
all'amministrazione o a terzi;
i) dignità della persona;
j) sistematici e reiterati atti o comportamenti aggressivi, ostili e denigratori
che assumano forme di violenza morale o di persecuzione psicologica
nei confronti di un altro dipendente.
4. La sanzione disciplinare della sospensione dal servizio con privazione
della retribuzione da 11 giorni fino ad un massimo di 6 mesi si applica per:
235
DOCUMENTAZIONE
236
a) recidiva nel biennio delle mancanze previste nel comma precedente
quando sia stata comminata la sanzione massima oppure quando le
mancanze previste al comma 3 presentino caratteri di particolare gravità;
b) assenza ingiustificata dal servizio oltre 10 giorni e fino a 15 giorni;
c) occultamento di fatti e circostanze relativi ad illecito uso, manomissione,
distrazione di somme o beni di spettanza o di pertinenza
dell'amministrazione o ad essa affidati, quando, in relazione alla
posizione rivestita, il lavoratore abbia un obbligo di vigilanza o di controllo;
d) insufficiente persistente scarso rendimento dovuto a comportamento
negligente;
e) esercizio, attraverso sistematici e reiterati atti e comportamenti
aggressivi ostili e denigratori, di forme di violenza morale o di
persecuzione psicologica nei confronti di un altro dipendente al fine di
procurargli un danno in ambito lavorativo o addirittura di escluderlo dal
contesto lavorativo;
f) atti, comportamenti o molestie, anche di carattere sessuale, di particolare
gravità che siano lesivi della dignità della persona.
Nella sospensione dal servizio prevista dal presente comma, il dipendente
è privato della retribuzione fino al decimo giorno mentre, a decorrere
dall'undicesimo, viene corrisposta allo stesso una indennità pari al 50% della
retribuzione indicata all'art. 25, comma 2, primo alinea, del CCNL del 16
maggio 2001 nonchè gli assegni del nucleo familiare ove spettanti. Il periodo
di sospensione non è, in ogni caso, computabile ai fini dell'anzianità di
servizio.
5. La sanzione disciplinare del licenziamento con preavviso si applica per:
a) recidiva plurima, almeno tre volte nell'anno, in una delle mancanze
previste ai commi 3 e 4, anche se di diversa natura, o recidiva, nel
biennio, in una mancanza che abbia comportato l'applicazione della
sanzione massima di 6 mesi di sospensione dal servizio e dalla
retribuzione, salvo quanto previsto al comma 6, lett. a);
b) recidiva nell'infrazione di cui al comma 4, lettera d);
c) ingiustificato rifiuto del trasferimento disposto dall'Amministrazione
per riconosciute e motivate esigenze di servizio nel rispetto delle vigenti
procedure in relazione alla tipologia di mobilità attivata;
d) mancata ripresa del servizio nel termine prefissato dall'amministrazione
quando l'assenza arbitraria ed ingiustificata si sia protratta per un
periodo superiore a quindici giorni. Qualora il dipendente riprenda
servizio si applica la sanzione di cui al comma 4;
e) continuità, nel biennio, dei comportamenti attestanti il perdurare di una
DOCUMENTAZIONE
situazione di insufficiente scarso rendimento dovuta a comportamento
negligente ovvero per qualsiasi fatto grave che dimostri la piena
incapacità ad adempiere adeguatamente agli obblighi di servizio;
f) recidiva nel biennio, anche nei confronti di persona diversa, di
sistematici e reiterati atti e comportamenti aggressivi ostili e denigratori
e di forme di violenza morale o di persecuzione psicologica nei confronti
di un collega al fine di procurargli un danno in ambito lavorativo o
addirittura di escluderlo dal contesto lavorativo;
g) recidiva nel biennio di atti, comportamenti o molestie, anche di carattere
sessuale, che siano lesivi della dignità della persona;
h) condanna passata in giudicato per un delitto che, commesso in servizio
o fuori dal servizio ma non attinente in via diretta al rapporto di lavoro,
non ne consenta la prosecuzione per la sua specifica gravità.
6. La sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso si applica per:
a) terza recidiva nel biennio di minacce, ingiurie gravi, calunnie o
diffamazioni verso il pubblico o altri dipendenti, alterchi con vie di fatto
negli ambienti di lavoro, anche con utenti;
b) condanna passata in giudicato per un delitto commesso in servizio o
fuori servizio che, pur non attenendo in via diretta al rapporto di lavoro,
non ne consenta neanche provvisoriamente la prosecuzione per la sua
specifica gravità;
c) accertamento che l'impiego fu conseguito mediante la produzione di
documenti falsi e, comunque, con mezzi fraudolenti ovvero che la
sottoscrizione del contratto individuale di lavoro sia avvenuta a seguito
di presentazione di documenti falsi;
d) commissione in genere – anche nei confronti di terzi – di fatti o atti
dolosi, che, pur non costituendo illeciti di rilevanza penale, sono di
gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del
rapporto di lavoro.
e) condanna passata in giudicato:
1. per i delitti indicati nell' art. 1, commi 1 e 4 septies, lettere a), b)
limitatamente all'art. 316 del codice penale, c), ed e) della legge n. 16 del 1992;
2. quando alla condanna consegua comunque l'interdizione perpetua dai
pubblici uffici;
3. per i delitti previsti dall'art. 3, comma 1 della legge n. 97 del 2001.
7. Le mancanze non espressamente previste nei commi da 2 a 6 sono
comunque sanzionate secondo i criteri di cui al comma 1, facendosi
riferimento, quanto all'individuazione dei fatti sanzionabili, agli obblighi dei
lavoratori di cui all'art. 23 del CCNL del 16 maggio 1995, come modificato dal
237
DOCUMENTAZIONE
238
presente CCNL quanto al tipo e alla misura delle sanzioni, ai principi
desumibili dai commi precedenti.
8. Al codice disciplinare di cui al presente articolo, deve essere data la
massima pubblicità mediante affissione in ogni posto di lavoro in luogo
accessibile a tutti i dipendenti. Tale forma di pubblicità è tassativa e non può
essere sostituita con altre.
9. L'art. 25 del CCNL del 16 maggio 1995 è disapplicato. Di conseguenza
tutti i riferimenti al medesimo art. 25 devono intendersi all'art. 25 come
rinovellato dal presente contratto.
DOCUMENTAZIONE
Direttiva 2002/73/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23
settembre 2002, che modifica la direttiva 76/207/CEE del Consiglio relativa
all’attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le
donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla
promozione professionali e le condizioni di lavoro
(GUCE L 269 del 5 ottobre 2002)
239
IL PARLAMENTO EUROPEO E IL
CONSIGLIO DELL’UNIONE EUROPEA,
visto il trattato che istituisce la Comunità europea, in particolare l’articolo
141, paragrafo 3,
1
vista la proposta della Commissione ,
2
visto il parere del Comitato economico e sociale ,
3
deliberando secondo la procedura di cui all’articolo 251 del trattato , visto il
progetto comune approvato il 19 aprile 2002 dal comitato di conciliazione,
considerando quanto segue:
1. A norma dell’articolo 6 del trattato dell’Unione europea, l’Unione
europea si fonda sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali e dello stato di diritto, principi che
sono comuni agli Stati membri, e rispetta i diritti fondamentali quali sono
garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
e delle libertà fondamentali, quali risultano dalle tradizioni costituzionali
comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto
comunitario.
2. Il diritto all’eguaglianza dinanzi alla legge ed alla tutela contro la
discriminazione per tutti gli individui costituisce un diritto universale
riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, dalla
GU C 337 E del 28.11.2000 pag. 204 e GU C 270 E del 25.9.2001 pag. 9.
GU C 123 del 25.9.2001 pag. 81
3
Parere del Parlamento europeo del 31 maggio 2001 (GU C 47 del 21.2.2002, Pag. 19), posizione
comune del Consiglio del 23 luglio 2001 (GU C 307 del 31.10.2001, pag. 5) e decisione del
Parlamento europeo del 24 ottobre 2001 (GU C 112 E del 9.5.2002, pag. 14). Decisione del
Parlamento europeo del 12 giugno 2002 e decisione del Consiglio del 13 giugno 2002.
1
2
DOCUMENTAZIONE
240
Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di ogni forma di
discriminazione nei confronti della donna, dalla Convenzione internazionale
sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, dai patti delle
Nazioni Unite relative ai diritti civili e politici e ai diritti economici, sociali e
culturali, nonché dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali, di cui tutti gli Stati membri sono firmatari.
3. La presente direttiva rispetta i diritti fondamentali ed osserva i principi
riconosciuti, in particolare, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea.
4. La parità fra uomini e donne è un principio fondamentale ai sensi
dell’articolo 2 e dell’articolo 3, paragrafo 2, del Trattato CE, nonché ai sensi
della giurisprudenza della Corte di Giustizia. Le suddette disposizioni del
Trattato sanciscono la parità fra uomini e donne quale “compito” e
“obiettivo” della Comunità e impongono l’obbligo concreto della sua
promozione in tutte le sue attività.
5. L’articolo 141 del Trattato, ed in particolare il paragrafo 3, affronta
specificamente la parità di trattamento e di opportunità per uomini e donne
in materia di occupazione e condizioni di lavoro.
4
6. La direttiva 76/207/CEE del Consiglio non dà una definizione della
nozione di discriminazione diretta o indiretta. Il Consiglio ha adottato, sulla
base dell’articolo 13 del trattato, la direttiva 2000/43/CE, del 29 giugno 2000,
che attua il principio della parità di trattamento fra le persone
5
indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica e la direttiva del
Consiglio 2000/78/CE, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro
generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di
6
condizioni di lavoro , in cui si dà una definizione di discriminazione diretta
ed indiretta. È pertanto appropriato inserire definizioni coerenti con le
suddette direttive in materia di genere.
7. La presente direttiva lascia impregiudicata la libertà di associazione
compreso il diritto di ogni individuo di fondare sindacati insieme con altri e
di aderirvi per la difesa dei propri interessi. Misure ai sensi dell’articolo 141,
paragrafo 4, del Trattato possono includere l’adesione o la continuazione
dell’attività di organizzazioni o sindacati il cui scopo principale sia la
promozione, nella pratica, del principio della parità di trattamento fra
uomini e donne.
8. Le molestie legate al sesso di una persona e le molestie sessuali sono
GU L 39 del 14.2.1976, pag. 40.
GU L 180 del 19.7.2000, pag. 22.
6
GU L 303 del 2.12.2000, pag. 16.
4
5
DOCUMENTAZIONE
contrarie al principio della parità di trattamento fra uomini e donne; è pertanto
opportuno definire siffatte nozioni e vietare siffatte forme di discriminazione.
A tal fine va sottolineato che queste forme di discriminazione non si
producono soltanto sul posto di lavoro, ma anche nel quadro dell’accesso
all’impiego e alla formazione professionale, durante l’impiego e l’occupazione.
9. In questo contesto, occorrerebbe incoraggiare i datori di lavoro e i
responsabili della formazione professionale a prendere misure per
combattere tutte le forme di discriminazione sessuale e, in particolare, a
prendere misure preventive contro le molestie e le molestie sessuali sul posto
di lavoro, in conformità del diritto e della prassi nazionale.
10. La valutazione dei fatti sulla base dei quali si può dedurre che ci sia
stata discriminazione diretta o indiretta è una questione di competenza
dell’organo giurisdizionale nazionale o di altro organo competente secondo
norme del diritto o della prassi nazionale. Tali norme possono prevedere in
particolare che la discriminazione indiretta sia accertata con qualsiasi mezzo,
compresa l’evidenza statistica. Secondo la giurisprudenza della Corte di
7
giustizia una discriminazione consiste nell’applicazione di norme diverse a
situazioni comparabili o nell’applicazione della stessa norma a situazioni
diverse.
11. Le attività professionali che gli Stati membri possono escludere dal
campo di applicazione della direttiva 76/207/CEE dovrebbero essere ristrette
a quelle che necessitano l’assunzione di una persona di un determinato sesso
data la natura delle particolari attività lavorative in questione, purché
l’obiettivo ricercato sia legittimo e soggetto al principio di proporzionalità
8
come stabilisce la giurisprudenza della Corte di giustizia .
12. La Corte di giustizia ha coerentemente riconosciuto la legittimità, per
quanto riguarda il principio della parità di trattamento, della protezione della
condizione biologica della donna durante e dopo la maternità; ha inoltre
costantemente decretato che qualsiasi trattamento sfavorevole nei confronti
della donna in relazione alla gravidanza o alla maternità costituisce una
discriminazione diretta fondata sul sesso. La presente direttiva non
pregiudica pertanto la direttiva 92/85/CEE del Consiglio, del 19 ottobre 1992
concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della
sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in
9
periodo di allattamento (decima direttiva particolare ai sensi dell’articolo 16,
Causa C-394/96 Brown, Racc. 1988, pag. I-4185, Causa C-342/93 Gillespie, Racc. 1996, pag. I-475
Causa C-222/84 Johnston, Racc. 1986, pag. 1651, Causa C-273/97 Sirdar, Racc. 1999, pag. I-7403
e Causa C-285/98 Kreil, Racc. 2000, pag. I-69.
9
GU L 348 del 28.11.1992, pag. 1.
7
8
241
DOCUMENTAZIONE
242
paragrafo 1, della direttiva 89/391/CEE) che intende garantire la protezione
dello stato fisico e mentale delle donne gestanti, puerpere o in periodo di
allattamento. Alcuni, considerando della direttiva 92/85/CEE, affermano che
la protezione della sicurezza e della salute delle lavoratrici gestanti, puerpere
e in periodo di allattamento non dovrebbe svantaggiare le donne sul mercato
del lavoro né pregiudicare le direttive in materia di parità di trattamento tra
gli uomini e le donne. La Corte di giustizia ha riconosciuto la tutela dei diritti
delle donne sul piano del lavoro, in particolare per quanto riguarda il loro
diritto a riprendere lo stesso lavoro o un lavoro equivalente, con condizioni
lavorative non meno favorevoli, nonché di beneficiare di qualsiasi
miglioramento delle condizioni di lavoro alle quali avrebbero avuto diritto
durante la loro assenza.
13. Nella risoluzione del Consiglio e dei Ministri incaricati
dell’occupazione e della politica sociale, riuniti in sede di Consiglio, del 29
giugno 2000, concernente la partecipazione equilibrata delle donne e degli
10
uomini all’attività professionale e alla vita familiare , gli Stati membri sono
incoraggiati a prendere in considerazione la possibilità che i rispettivi
ordinamenti giuridici riconoscano ai lavoratori uomini un diritto individuale e
non trasferibile al congedo di paternità, pur mantenendo i propri diritti
inerenti al lavoro. In tale contesto, è importante sottolineare che spetta agli
Stati membri determinare se concedere o meno un tale diritto e determinare
inoltre tutte le condizioni, a parte il licenziamento e il ritorno al lavoro, che
sono al di fuori del campo di applicazione della presente direttiva.
14. Gli Stati membri hanno la facoltà, ai sensi dell’articolo 141, paragrafo
4, del Trattato, di mantenere o di adottare misure che prevedono vantaggi
specifici volti a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte del
sesso sottorappresentato oppure a evitare o compensare svantaggi nelle carriere
professionali. Data la situazione attuale e tenendo conto della dichiarazione 28
allegata al Trattato di Amsterdam, gli Stati membri dovrebbero, innanzitutto,
mirare a migliorare la situazione delle donne nella vita lavorativa.
15. Il divieto di discriminazione non dovrebbe pregiudicare il
mantenimento o l’adozione di misure volte a prevenire o compensare gli
svantaggi incontrati da un gruppo di persone di uno dei due sessi. Tali misure
autorizzano l’esistenza di organizzazioni di persone di tale sesso se il loro
principale obiettivo è la promozione di necessità specifiche delle persone
stesse e la promozione della parità tra donne e uomini.
16. Il principio della parità di retribuzione tra gli uomini e le donne è già
10
GU C 218 del 31.7.2000, pag. 5.
DOCUMENTAZIONE
fermamente stabilito dall’articolo 141 del Trattato e dalla direttiva 75/117/CEE
del Consiglio, del 10 febbraio 1975, per il ravvicinamento delle legislazioni
degli Stati membri relative all’applicazione del principio della parità delle
11
retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile ed
è costantemente sostenuto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia: questo
principio costituisce una parte essenziale e imprescindibile dell’acquis
comunitario in materia di discriminazioni basate sul sesso.
17. La Corte di giustizia ha stabilito che, vista la natura fondamentale del
diritto all’effettiva tutela giurisdizionale, i dipendenti godono di tale tutela
12
anche dopo la fine del rapporto di lavoro . La stessa tutela andrebbe
assicurata a ogni dipendente che difenda, o testimoni in favore di una
persona tutelata ai sensi della presente direttiva.
18. La Corte di giustizia ha stabilito che, per essere efficace, il principio
della parità di trattamento comporta, qualora sia disatteso, che l’indennizzo
riconosciuto al dipendente discriminato debba essere adeguato al danno
subito. Ha inoltre specificato che stabilire un massimale a priori può
precludere un risarcimento efficace e che non è consentito escludere il
13
riconoscimento di interessi per compensare la perdita subita .
19. Secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, le norme nazionali
relative ai termini per agire in giudizio sono ammissibili, a condizione che esse
non siano meno favorevoli di quelle relative ai termini previsti per analoghe
azioni del sistema processuale nazionale e che non rendano in pratica
impossibile l’esercizio di diritti conferiti dalla normativa comunitaria.
20. Le vittime di discriminazioni fondate sul sesso dovrebbero disporre
di mezzi adeguati di protezione legale. Al fine di assicurare un livello più
efficace di protezione, anche alle associazioni, organizzazioni e altre persone
giuridiche dovrebbe essere conferito il potere di avviare una procedura,
secondo le modalità stabilite dagli Stati membri, per conto o a sostegno delle
vittime, fatte salve norme procedurali nazionali relative alla rappresentanza
e alla difesa in giudizio.
21. Gli Stati membri dovrebbero promuovere il dialogo fra le parti sociali
e, nel quadro della prassi nazionale, con organizzazioni non governative, al
fine di affrontare e combattere varie forme di discriminazione fondate sul
sesso nei luoghi di lavoro.
22. Gli Stati membri dovrebbero prevedere sanzioni efficaci,
GU L 45 del 19.2.1975, pag. 19
Causa C-185/97, Coote, Racc. 1998, pag. I-5199.
13
Causa C-180/95, Draehmpaehl, Racc. 1997 pag. I-2195, Causa C-271/91, Marshall Racc. [1993]
pag. I-4367.
11
12
243
DOCUMENTAZIONE
244
proporzionate e dissuasive in caso di mancata ottemperanza agli obblighi
derivanti dalla direttiva 76/207/CEE.
23. Poiché gli scopi dell’azione proposta non possono essere realizzati in
misura sufficiente dagli Stati membri e possono dunque essere realizzati
meglio a livello comunitario, la Comunità può intervenire in base al principio
di sussidiarietà sancito dall’articolo 5 del Trattato. La presente direttiva si
limita a quanto è necessario per conseguire tali scopi in ottemperanza al
principio di proporzionalità enunciato nello stesso articolo.
24. La direttiva 76/207/CEE dovrebbe pertanto essere modificata,
HANNO ADOTTATO LA PRESENTE DIRETTIVA:
Articolo 1
La direttiva 76/207/CE è modificata come segue:
1. All’articolo 1 è inserito il seguente paragrafo:
“1 bis. Gli Stati membri tengono conto dell’obiettivo della parità tra gli
uomini e le donne nel formulare ed attuare leggi, regolamenti, atti
amministrativi, politiche e attività nei settori di cui al paragrafo 1.”
2. L’articolo 2 è sostituito dal seguente:
“Articolo 2
1. Ai sensi delle seguenti disposizioni il principio di parità di trattamento
implica l’assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso,
direttamente o indirettamente, in particolare mediante riferimento allo stato
matrimoniale o di famiglia.
2. Ai sensi della presente direttiva si applicano le seguenti definizioni:
- discriminazione diretta: situazione nella quale una persona è trattata
meno favorevolmente in base al sesso di quanto sia, sia stata o sarebbe
trattata un’altra in una situazione analoga,
- discriminazione indiretta: situazione nella quale una disposizione, un
criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una
situazione di particolare svantaggio le persone di un determinato sesso,
rispetto a persone dell’altro sesso, a meno che detta disposizione,
criterio o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità
DOCUMENTAZIONE
legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati
e necessari,
- molestie: situazione nella quale si verifica un comportamento
indesiderato connesso al sesso di una persona avente lo scopo o l’effetto
di violare la dignità di tale persona e di creare un clima intimidatorio,
ostile, degradante, umiliante od offensivo,
- molestie sessuali: situazione nella quale si verifica un comportamento
indesiderato a connotazione sessuale, espresso in forma fisica, verbale o
non verbale, avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una
persona, in particolare creando un clima intimidatorio, ostile, degradante,
umiliante o offensivo.
3. Le molestie e le molestie sessuali, ai sensi della presente direttiva, sono
considerate discriminazioni fondate sul sesso e sono pertanto vietate.
Il rifiuto di, o la sottomissione a tali comportamenti da parte di una
persona non possono essere utilizzati per prendere una decisione riguardo a
detta persona.
4. L’ordine di discriminare persone a motivo del sesso è considerato una
discriminazione ai sensi della presente direttiva.
5. Gli Stati membri incoraggiano, in conformità con il diritto, gli accordi
collettivi o le prassi nazionali, i datori di lavoro e i responsabili dell’accesso
alla formazione professionale a prendere misure per prevenire tutte le forme
di discriminazione sessuale e, in particolare, le molestie e le molestie sessuali
sul luogo di lavoro.
6. Per quanto riguarda l’accesso all’occupazione, inclusa la formazione
preventiva, gli Stati membri possono stabilire che una differenza di
trattamento basata su una caratteristica specifica di un sesso non costituisca
discriminazione laddove, per la particolare natura delle attività lavorative di
cui trattasi o per il contesto in cui esse vengono espletate, tale caratteristica
costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento
dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e il requisito
proporzionato.
7. La presente direttiva non pregiudica le misure relative alla protezione
della donna, in particolare per quanto riguarda la gravidanza e la maternità.
Alla fine del periodo di congedo per maternità, la donna ha diritto di
riprendere il proprio lavoro o un posto equivalente secondo termini e
condizioni che non le siano meno favorevoli, e a beneficiare di eventuali
miglioramenti delle condizioni di lavoro che le sarebbero spettati durante la
sua assenza.
Ai sensi della presente direttiva un trattamento meno favorevole riservato
245
DOCUMENTAZIONE
246
ad una donna per ragioni collegate alla gravidanza o al congedo per
maternità ai sensi della direttiva 92/85/CEE costituisce una discriminazione.
La presente direttiva lascia altresì impregiudicate le disposizioni della
direttiva 96/34/CE del Consiglio, del 3 giugno 1996, concernente l’accordo
14
quadro sul congedo parentale concluso all’UNICE, dal CEEP e dalla CES ,
e della direttiva 92/85/CEE del Consiglio, del 19 ottobre 1992, concernente
l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza
e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di
allattamento (decima direttiva particolare ai sensi dell’articolo 16,
15
paragrafo 1, della direttiva 89/391/CEE) . La presente direttiva lascia
altresì impregiudicata la facoltà degli Stati membri di riconoscere diritti
distinti di congedo di paternità e/o adozione. Gli Stati membri che
riconoscono siffatti diritti adottano le misure necessarie per tutelare i
lavoratori e le lavoratrici contro il licenziamento causato dall’esercizio di
tali diritti e per garantire che alla fine di tale periodo di congedo essi
abbiano diritto di riprendere il proprio lavoro o un posto equivalente
secondo termini e condizioni che non siano per essi meno favorevoli, e di
beneficiare di eventuali miglioramenti delle condizioni di lavoro che
sarebbero loro spettati durante la loro assenza.
8. Gli Stati membri possono mantenere o adottare misure ai sensi
dell’articolo 141, paragrafo 4, del Trattato volte ad assicurare nella pratica la
piena parità tra gli uomini e le donne.”
3. L’articolo 3 è sostituito dal seguente:
“Articolo 3
1. L’applicazione del principio della parità di trattamento tra uomini e
donne significa che non vi deve essere discriminazione diretta o indiretta in
base al sesso nei settori pubblico o privato, compresi gli Enti di diritto
pubblico, per quanto attiene:
a) alle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro, sia dipendente
che autonomo, compresi i criteri di selezione e le condizioni di
assunzione indipendentemente dal ramo di attività e a tutti i livelli
della gerarchia professionale, nonché alla promozione;
b) all’accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione
14
15
GU L 145 del 19.6.1996, pag. 4.
GU L 348 del 28.11.1992, pag. 1.
DOCUMENTAZIONE
professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i
tirocini professionali;
c) all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di
licenziamento e la retribuzione come previsto dalla direttiva
75/117/CEE;
d) all’affiliazione e all’attività in un’organizzazione di lavoratori o datori di
lavoro, o in qualunque organizzazione i cui membri esercitino una
particolare professione, nonché alle prestazioni erogate da tali
organizzazioni.
2. A tal fine gli Stati membri prendono le misure necessarie per
assicurare che:
a) tutte le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative contrarie
al principio della parità di trattamento siano abrogate;
b) tutte le disposizioni contrarie al principio della parità di trattamento c
ontenute nei contratti di lavoro o nei contratti collettivi, nei regolamenti
interni delle aziende o nelle regole che disciplinano il lavoro autonomo
e le organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro siano o possano
essere dichiarate nulle e prive di effetto oppure siano modificate.”
4) Gli articoli 4 e 5 sono soppressi.
5) L’articolo 6 è sostituito dal seguente:
“Articolo 6
1. Gli Stati membri provvedono affinché tutte le persone che si ritengono
lese, in seguito alla mancata applicazione nei loro confronti del principio
della parità di trattamento, possano accedere, anche dopo la cessazione del
rapporto che si lamenta affetto da discriminazione, a procedure
giurisdizionali e/o amministrative, comprese, ove lo ritengono opportuno, le
procedure di conciliazione finalizzate all’esecuzione degli obblighi derivanti
dalla presente direttiva.
2. Gli Stati membri introducono nei rispettivi ordinamenti giuridici
nazionali le misure necessarie per garantire un indennizzo o una riparazione
reale ed effettiva che essi stessi stabiliscono per il danno subito da una
persona lesa a causa di una discriminazione contraria all’articolo 3, in modo
tale da risultare dissuasiva e proporzionata al danno subito; tale indennizzo
o riparazione non può avere un massimale stabilito a priori, fatti salvi i casi
in cui il datore di lavoro può dimostrare che l’unico danno subito
247
DOCUMENTAZIONE
248
dall’aspirante a seguito di una discriminazione ai sensi della presente
direttiva è costituito dal rifiuto di prendere in considerazione la sua
domanda.
3. Gli Stati membri riconoscono alle associazioni, organizzazioni o altre
persone giuridiche che, conformemente ai criteri stabiliti dalle rispettive
legislazioni nazionali, abbiano un legittimo interesse a garantire che le
disposizioni della presente direttiva siano rispettate, il diritto di avviare, in
via giurisdizionale e/o amministrativa, per conto o a sostegno della persona
che si ritiene lesa e con il suo consenso, una procedura finalizzata
all’esecuzione degli obblighi derivanti dalla presente direttiva.
4. I paragrafi 1 e 3 lasciano impregiudicate le norme nazionali relative ai
termini per la proposta di azioni relative al principio della parità di
trattamento.”
6) L’articolo 7 è sostituito dal seguente:
“Articolo 7
Gli Stati membri introducono nei rispettivi ordinamenti giuridici le
disposizioni necessarie per proteggere i lavoratori, inclusi i rappresentanti
dei dipendenti previsti dalle leggi e/o prassi nazionali, dal licenziamento o
da altro trattamento sfavorevole da parte del datore di lavoro, quale reazione
ad un reclamo all’interno dell’impresa o ad un’azione legale volta ad
ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento.”
7) Sono inseriti i seguenti articoli:
“Articolo 8 bis
1. Gli Stati membri designano uno o più organismi per la promozione,
l’analisi, il controllo e il sostegno delle parità di trattamento di tutte le
persone senza discriminazioni fondate sul sesso. Tali organismi possono far
parte di agenzie, incaricate, a livello nazionale, della difesa dei diritti umani
o della salvaguardia dei diritti individuali.
2. Gli Stati membri assicurano che nella competenza di tali organismi
rientrino:
a) l’assistenza indipendente alle vittime di discriminazioni nel dare seguito
alle denunce da essi inoltrate in materia di discriminazione, fatto salvo
il diritto delle vittime e delle associazioni, organizzazioni o altre persone
DOCUMENTAZIONE
giuridiche di cui all’articolo 6, paragrafo 3;
b) lo svolgimento di inchieste indipendenti in materia di discriminazione;
c) la pubblicazione di relazioni indipendenti e la formulazione di
raccomandazioni su questioni connesse con tali discriminazioni.
Articolo 8 ter
1. Gli Stati membri, conformemente alle tradizioni e prassi nazionali,
prendono le misure adeguate per incoraggiare il dialogo tra le parti sociali al
fine di promuovere il principio della parità di trattamento, fra l’altro
attraverso il monitoraggio delle prassi nei luoghi di lavoro, contratti
collettivi, codici di comportamento, ricerche o scambi di esperienze e di
buone pratiche.
2. Laddove ciò sia conforme alle tradizioni e prassi nazionali, gli Stati
membri incoraggiano le parti sociali, lasciando impregiudicata la loro
autonomia, a promuovere la parità tra le donne e gli uomini e a concludere
al livello appropriato accordi che fissino regole antidiscriminatorie negli
ambiti di cui all’articolo 1 che rientrano nella sfera della contrattazione
collettiva. Tali accordi rispettano i requisiti minimi fissati dalla presente
direttiva e dalle relative misure nazionali di attuazione.
3. Gli Stati membri, in conformità con la legislazione, i contratti collettivi o
le prassi nazionali, incoraggiano i datori di lavoro a promuovere in modo
sistematico e pianificato la parità di trattamento tra uomini e donne sul
posto di lavoro.
4. A tal fine, i datori di lavoro sono incoraggiati a fornire, ad intervalli
regolari appropriati, ai lavoratori e/o ai rappresentanti dei lavoratori
informazioni adeguate sulla parità di trattamento tra uomini e donne
nell’impresa.
Tali informazioni possono includere dati statistici sulla distribuzione di
uomini e donne ai vari livelli dell’impresa e proposte di misure atte a
migliorare la situazione in cooperazione con i rappresentanti dei dipendenti.
Articolo 8 quater
Al fine di promuovere il principio della parità di trattamento, gli Stati
membri incoraggiano il dialogo con le competenti organizzazioni non
governative che, conformemente alle rispettive legislazioni e prassi
nazionali, hanno un legittimo interesse a contribuire alla lotta contro le
discriminazioni fondate sul sesso.
249
DOCUMENTAZIONE
Articolo 8 quinquies
250
Gli Stati membri stabiliscono le norme relative alle sanzioni da irrogare in
caso di violazione delle disposizioni nazionali di attuazione della presente
direttiva e prendono tutti i provvedimenti necessari per la loro applicazione.
Le sanzioni, che possono prevedere un risarcimento dei danni, devono
essere effettive, proporzionate e dissuasive. Gli Stati membri notificano le
relative disposizioni alla Commissione entro il 5 ottobre 2005 e provvedono
poi a notificare immediatamente le eventuali modificazioni successive.
Articolo 8 sexies
1. Gli Stati membri possono introdurre o mantenere, per quanto riguarda il
principio della parità di trattamento, disposizioni più favorevoli di quelle
fissate nella presente direttiva.
2. L’attuazione della presente direttiva non può in alcun caso costituire
motivo di riduzione del livello di protezione contro la discriminazione già
predisposto dagli Stati membri nei settori di applicazione della presente
direttiva.”
DISPOSIZIONI D’ATTUAZIONE
Articolo 2
1. Gli Stati membri mettono in vigore le disposizioni legislative,
regolamentari ed amministrative necessarie per conformarsi alla presente
direttiva entro il 5 ottobre 2005 o fanno sì che entro questa data i datori di
lavoro e i lavoratori introducano le disposizioni richieste tramite accordi. Gli
Stati membri adottano tutte le iniziative necessarie per essere in grado in ogni
momento di garantire i risultati previsti dalla presente direttiva. Essi ne
informano immediatamente la Commissione.
Quando gli Stati membri adottano queste disposizioni, esse contengono un
riferimento alla presente direttiva o sono corredate di un siffatto riferimento
all’atto della pubblicazione ufficiale. Le modalità di tale riferimento sono
decise dagli Stati membri.
2. Gli Stati membri comunicano alla Commissione entro tre anni
dall’entrata in vigore della presente direttiva tutte le informazioni necessarie
per consentire alla Commissione di redigere una relazione al Parlamento
europeo e al Consiglio sull’applicazione della presente direttiva.
DOCUMENTAZIONE
3. Salvo il disposto del paragrafo 2, gli Stati membri sottopongono ogni
quattro anni alla Commissione il testo delle disposizioni legislative,
regolamentari e amministrative riguardanti eventuali misure adottate in base
all’articolo 141, paragrafo 4, del Trattato nonché relazioni su tali misure e
sulla loro attuazione. Sulla base di tali informazioni, la Commissione adotta
e pubblica ogni quattro anni una relazione di valutazione comparativa di tali
misure, alla luce della Dichiarazione n. 28 allegata all’Atto finale del Trattato
di Amsterdam.
Articolo 3
La presente direttiva entra in vigore il giorno della pubblicazione nella
Gazzetta ufficiale delle Comunità europee.
Articolo 4
Gli Stati membri sono destinatari della presente direttiva.
251
DOCUMENTAZIONE
Risoluzione A5-0283 del Parlamento europeo del 20 settembre 2001 in tema
di mobbing sul posto di lavoro
IL PARLAMENTO EUROPEO,
252
- visti gli articoli 2, 3, 13, 125-129, 136-140 e 143 del trattato CE,
- viste le sue risoluzioni del 13 aprile 1999 sulla comunicazione della
Commissione “Modernizzare l’organizzazione del lavoro – Un
atteggiamento positivo nei confronti dei cambiamenti”, del 24 ottobre
2000 su “Orientamenti a favore dell’occupazione per il 2001 – Relazione
congiunta sull’occupazione 2000”e del 25 ottobre 2000 sull’Agenda per
la politica sociale,
- viste le parti pertinenti delle conclusioni del Consiglio Europeo in
occasione dei vertici di Nizza e di Stoccolma,
- visto l’articolo 163 del suo regolamento,
- visti la relazione della commissione per l’occupazione e gli affari sociali
e il parere della commissione per i diritti della donna e le pari
opportunità (A5-0283/2000)
a) considerando che, secondo un sondaggio svolto tra 21.500 lavoratori
dalla Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e
di lavoro (Fondazione di Dublino), nel corso degli ultimi 12 mesi l’8%
dei lavoratori dell’Unione europea, pari a 12 milioni di persone, è stato
vittima di mobbing sul posto di lavoro, e che si può presupporre che il
dato sia notevolmente sottostimato,
b) considerando che l’incidenza di fenomeni di violenza e molestie sul
lavoro, tra cui la Fondazione include il mobbing, presenta sensibili
variazioni tra gli Stati membri e che ciò è dovuto, secondo la
Fondazione, al fatto che in alcuni paesi soltanto pochi casi vengono
dichiarati, che in altri la sensibilità verso il fenomeno è maggiore e che
esistono differenze tra i sistemi giuridici nonché differenze culturali; che
la precarietà dell’impiego costituisce una delle cause principali
dell’aumento della frequenza di suddetti fenomeni,
c) considerando che la Fondazione di Dublino rileva che le persone esposte
al mobbing subiscono uno stress notevolmente più elevato rispetto agli
altri lavoratori in generale e che le molestie costituiscono dei rischi
potenziali per la salute che spesso sfociano in patologie associate allo
stress; che i dati nazionali sul mobbing nella vita professionale,
DOCUMENTAZIONE
disaggregati per generi, non offrono, secondo l’Agenzia, un quadro
uniforme della situazione;
d) considerando che dai dati provenienti da uno degli Stati membri risulta
che i casi di mobbing sono di gran lunga più frequenti nelle professioni
caratterizzate da un elevato livello di tensione, professioni esercitate più
comunemente da donne che da uomini e che hanno conosciuto una
grande espansione nel corso degli anni 90,
e) considerando che gli studi e l’esperienza empirica convergono nel
rilevare un chiaro nesso tra, da una parte, il fenomeno del mobbing nella
vita professionale e, dall’altra, lo stress o il lavoro ad elevato grado di
tensione, l’aumento della competizione, la riduzione della sicurezza
dell’impiego nonché l’incertezza dei compiti professionali,
f) considerando che tra le cause del mobbing vanno ad esempio annoverate
le carenze a livello di organizzazione lavorativa, di informazione interna
e di direzione; che problemi organizzativi irrisolti e di lunga durata si
traducono in pesanti pressioni sui gruppi di lavoro e possono condurre
all’adozione della logica del “capro espiatorio” e al mobbing; che le
conseguenze per l’individuo e per il gruppo di lavoro possono essere
rilevanti, così come i costi per i singoli, le imprese e la società;
1. ritiene che il mobbing, fenomeno di cui al momento non si conosce la
reale entità, costituisca un grave problema nel contesto della vita
professionale e che sia opportuno prestarvi maggiore attenzione e rafforzare
le misure per farvi fronte, inclusa la ricerca di nuovi strumenti per
combattere il fenomeno;
2. richiama l’attenzione sul fatto che il continuo aumento dei contratti a
termine e della precarietà del lavoro, in particolare tra le donne, crea
condizioni propizie alla pratica di varie forme di molestia;
3. richiama l’attenzione sugli effetti devastanti del mobbing sulla salute
fisica e psichica delle vittime, nonché delle loro famiglie, in quanto essi
impongono spesso il ricorso ad un trattamento medico e psicoterapeutico e
conducono generalmente a un congedo per malattia o alle dimissioni;
4. richiama l’attenzione sul fatto che, secondo alcune inchieste, le donne
sono più frequentemente vittime che non gli uomini dei fenomeni di
mobbing, che si tratti di molestie verticali: discendenti (dal superiore al
subordinato) o ascendenti (dal subordinato al superiore), di molestie
orizzontali (tra colleghi di pari livello) o di molestie miste;
5. richiama l’attenzione sul fatto che false accuse di mobbing possono
trasformarsi a loro volta in un temibile strumento di mobbing;
6. pone l’accento sul fatto che le misure contro il mobbing sul luogo di
253
DOCUMENTAZIONE
254
lavoro vanno considerate una componente importante degli sforzi finalizzati
all’aumento della qualità del lavoro e al miglioramento delle relazioni sociali
nella vita lavorativa; ritiene che esse contribuiscano altresì a combattere
l’esclusione sociale, il che può giustificare l’adozione di misure comunitarie
e risulta in sintonia con l’Agenda sociale e gli orientamenti in materia di
occupazione dell’Unione Europea;
7. rileva che i problemi di mobbing sul posto di lavoro vengono
probabilmente ancora sottovalutati in molti settori all’interno dell’UE e che
vi sono molti argomenti a favore di iniziative comuni a livello dell’Unione,
quali ad esempio la difficoltà di trovare strumenti efficaci per prevenire e
contrastare il fenomeno, il fatto che gli orientamenti sulle misure per
combattere il mobbing sul posto di lavoro possano produrre effetti normativi
ed influire sugli atteggiamenti e che l’adozione di tali orientamenti comuni
sia giustificata anche da ragioni di equità;
8. esorta la Commissione a prendere ugualmente in considerazione, nelle
sue comunicazioni relative a una strategia comune in materia di salute e
sicurezza sul lavoro e al rafforzamento della dimensione qualitativa della
politica occupazionale e sociale nonché nel libro verde sulla responsabilità
sociale delle imprese, fattori psichici, psicosociali e sociali connessi
all’ambiente lavorativo, inclusa l’organizzazione lavorativa, invitandola
pertanto ad attribuire importanza a misure di miglioramento dell’ambiente
lavorativo che siano lungimiranti, sistematiche e preventive, finalizzate tra
l’altro a combattere il mobbing sul posto di lavoro e a valutare l’esigenza di
iniziative legislative in tal senso;
9. esorta il Consiglio e la Commissione ad includere indicatori quantitativi
relativi al mobbing sul posto di lavoro negli indicatori relativi alla qualità del
lavoro, che dovranno essere definiti in vista del Consiglio europeo di Laeken;
10. esorta gli Stati membri a rivedere e, se del caso, a completare la propria
legislazione vigente sotto il profilo della lotta contro il mobbing e le molestie
sessuali sul posto di lavoro, nonché a verificare e ad uniformare la
definizione della fattispecie del mobbing;
11. sottolinea espressamente la responsabilità degli Stati membri e
dell’intera società per il mobbing e la violenza sul posto di lavoro, ravvisando
in tale responsabilità il punto centrale di una strategia di lotta a tale
fenomeno;
12 raccomanda agli Stati membri di imporre alle imprese, ai pubblici
poteri nonché alle parti sociali l’attuazione di politiche di prevenzione
efficaci, l’introduzione di un sistema di scambio di esperienze e
l’individuazione di procedure atte a risolvere il problema per le vittime e ad
DOCUMENTAZIONE
evitare sue recrudescenze; raccomanda, in tale contesto, la messa a punto di
un’informazione e di una formazione dei lavoratori dipendenti, del personale
di inquadramento, delle parti sociali e dei medici del lavoro, sia nel settore
privato che nel settore pubblico; ricorda a tale proposito la possibilità di
nominare sul luogo di lavoro una persona di fiducia alla quale i lavoratori
possono eventualmente rivolgersi;
13. esorta la Commissione ad esaminare la possibilità di chiarificare o
estendere il campo di applicazione della direttiva quadro per la salute e la
sicurezza sul lavoro oppure di elaborare una nuova direttiva quadro, come
strumento giuridico per combattere il fenomeno delle molestie, nonché come
meccanismo di difesa del rispetto della dignità della persona del lavoratore,
della sua intimità e del suo onore; sottolinea pertanto che è importante che
la questione del miglioramento dell’ambiente di lavoro venga affrontata in
modo sistematico e con l’adozione di misure preventive;
14. sottolinea che una base statistica migliore può agevolare e ampliare la
conoscenza e la ricerca e segnala il ruolo che l’Eurostat e la Fondazione di
Dublino possono svolgere in tale contesto; esorta la Commissione, la
Fondazione di Dublino e l’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul
lavoro a prendere iniziative affinché vengano condotti studi approfonditi in
materia di mobbing;
15. sottolinea l’importanza di studiare più da vicino il fenomeno del
mobbing sul posto di lavoro in relazione sia agli aspetti attinenti
all’organizzazione del lavoro sia a quelli legati a fattori quali genere, età,
settore e tipo di professione; chiede che lo studio in questione comprenda
un’analisi della situazione particolare delle donne vittime di mobbing;
16. constata che uno Stato membro ha già adottato una normativa mirante
a lottare contro il mobbing sul posto di lavoro e che altri Stati sono impegnati
nella ratifica di una legislazione volta a reprimere tale fenomeno,
richiamandosi il più delle volte alle legislazioni adottate per reprimere le
molestie sessuali; esorta gli Stati membri a prestare attenzione al problema
del mobbing sul luogo di lavoro e a tenerne conto nel contesto delle rispettive
legislazioni nazionali e di altre azioni;
17. esorta le istituzioni europee a fungere da modello sia per quanto
riguarda l’adozione di misure per prevenire e combattere il mobbing
all’interno delle loro stesse strutture che per quanto riguarda l’aiuto e
l’assistenza a individui o gruppi di lavoro, prevedendo eventualmente un
adeguamento dello statuto dei funzionari nonché un’adeguata politica di
sanzioni;
18. constata che le persone esposte al mobbing nelle istituzioni europee
255
DOCUMENTAZIONE
256
beneficiano attualmente di un aiuto insufficiente e si compiace al riguardo
con l’amministrazione per aver istituito da tempo un corso destinato in
particolare alle donne amministratrici intitolato “La gestione al femminile” e,
più recentemente, un comitato consultivo sul mobbing;
19. chiede che si esamini in quale misura la consultazione a livello
comunitario tra le parti sociali può contribuire a combattere il mobbing sul
posto di lavoro e ad associare a tale lotta le organizzazioni dei lavoratori;
20. esorta le parti sociali negli Stati membri a elaborare, tra di loro e a
livello comunitario, strategie idonee di lotta contro il mobbing e la violenza
sul luogo di lavoro, procedendo altresì a uno scambio di esperienze in merito
secondo il principio delle “migliori pratiche”;
21. ricorda che il mobbing comporta altresì conseguenze nefaste per i datori
di lavoro per quanto riguarda la redditività e l’efficienza economica
dell’impresa a causa dell’assenteismo che esso provoca, della riduzione della
produttività dei lavoratori indotta dal loro stato di confusione e di difficoltà
di concentrazione nonché dalla necessità di erogare indennità ai lavoratori
licenziati;
22. sottolinea l’importanza di ampliare e chiarire la responsabilità del
datore di lavoro per quanto concerne la messa in atto di misure sistematiche
atte a creare un ambiente di lavoro soddisfacente;
23. chiede che abbia luogo una discussione in merito alle modalità di
sostegno alle reti e organizzazioni di volontariato impegnate nella lotta al
mobbing;
24. invita la Commissione a presentare, entro il marzo 2002, un libro verde
recante un’analisi dettagliata della situazione relativa al mobbing sul posto di
lavoro in ogni Stato membro e, sulla base di detta analisi, a presentare
successivamente, entro l’ottobre 2002, un programma d’azione concernente
le misure comunitarie contro il mobbing sul posto di lavoro; chiede che tale
piano d’azione venga corredato di uno scadenzario;
25. incarica la sua Presidente di trasmettere la presente risoluzione alla
Commissione, al Consiglio, alla Fondazione europea per il miglioramento
delle condizioni di vita e di lavoro ed all’Agenzia europea per la sicurezza e
la salute sul lavoro.
DOCUMENTAZIONE
Decreto legislativo n. 215/03 del 9 luglio 2003 recante attuazione della
direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone
indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica
visti gli articoli 76 e 87 della Costituzione;
vista la direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che
stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di
occupazione e di condizioni di lavoro;
vista la legge 1° marzo 2002, n. 39, ed in particolare l’Allegato B;
vista la legge 20 maggio 1970, n. 300, recante “Norme sulla tutela della
libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale
nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”;
visto il testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, approvato con
decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286;
vista la preliminare deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella
riunione del 28 marzo 2003;
acquisiti i pareri delle Commissioni della Camera dei Deputati e del Senato
della Repubblica;
vista la deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del
3 luglio 2003;
sulla proposta del Ministro per le Politiche Comunitarie, del Ministro del
lavoro e delle Politiche Sociali e del Ministro per le Pari Opportunità, di
concerto con il Ministro degli Affari Esteri, con il Ministro della Giustizia e
con il Ministro dell’Economia e delle Finanze;
emana
il seguente decreto legislativo:
Articolo 1
Oggetto
1. Il presente decreto reca le disposizioni relative all’attuazione della parità di
trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica,
disponendo le misure necessarie affinché le differenze di razza o di origine etnica
non siano causa di discriminazione, anche in un’ottica che tenga conto del diverso
impatto che le stesse forme di discriminazione possono avere su donne e uomini,
nonché dell’esistenza di forme di razzismo a carattere culturale e religioso.
257
DOCUMENTAZIONE
Articolo 2
Nozione di discriminazione
258
1. Ai fini del presente decreto e salvo quanto disposto dall’articolo 3,
commi da 3 a 6, per principio di parità di trattamento si intende l’assenza di
qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle
convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale.
Tale principio comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta
o indiretta, così come di seguito definite:
a) discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali,
per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata
meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in
una situazione analoga;
b) discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una
prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri
possono mettere le persone che professano una determinata religione o
ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di
una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di
particolare svantaggio rispetto ad altre persone.
2. È fatto salvo il disposto dell’articolo 43, commi 1 e 2 del testo unico delle
disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero, approvato con decreto legislativo 25 luglio 1998,
n. 286;
3. Sono, altresì, considerate come discriminazioni, ai sensi del comma 1,
anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per
uno dei motivi di cui all’articolo 1, aventi lo scopo o l’effetto di violare la
dignità di un persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante,
umiliante od offensivo.
4. L’ordine di discriminare persone a causa della religione, delle
convinzioni personali, dell’handicap, dell’età o delle tendenze sessuali è
considerata una discriminazione ai sensi del comma 1.
Articolo 3
Ambito di applicazione
1. Il principio di parità di trattamento senza distinzione di religione, di
convinzioni personali, di handicap, di età e di orientamento sessuale si
applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile
di tutela giurisdizionale secondo le forme previste dall’articolo 4, con
DOCUMENTAZIONE
specifico riferimento alle seguenti aree:
a) accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente,
compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione;
b) occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di
carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento;
c) accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale,
perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini
professionali;
d) affiliazione e attività nell’ambito di organizzazioni di lavoratori, di datori
di lavoro o di altre organizzazioni professionali e prestazioni erogate
dalle medesime organizzazioni.
2. La disciplina di cui al presente decreto fa salve tutte le disposizioni
vigenti in materia di:
a) condizioni di ingresso, soggiorno ed accesso all’occupazione,
all’assistenza e alla previdenza dei cittadini dei Paesi terzi e degli apolidi
nel territorio dello Stato;
b) sicurezza e protezione sociale;
c) sicurezza pubblica, tutela dell’ordine pubblico, prevenzione dei reati e
tutela della salute;
d) stato civile e prestazioni che ne derivano;
e) forze armate, limitatamente ai fattori di età e di handicap.
3. Nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, nell’ambito
del rapporto di lavoro o dell’esercizio dell’attività di impresa, non
costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 quelle differenze
di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle
convinzioni personali, all’handicap, all’età o all’orientamento sessuale di
una persona, qualora, per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in
cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un
requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività
medesima. Parimenti, non costituisce atto di discriminazione la valutazione
delle caratteristiche suddette ove esse assumano rilevanza ai fini
dell’idoneità allo svolgimento delle funzioni che le forze armate e i servizi di
polizia, penitenziari o di soccorso possono essere chiamati ad esercitare.
4. Sono, comunque, fatte salve le disposizioni che prevedono
accertamenti di idoneità al lavoro per quanto riguarda la necessità di una
idoneità ad uno specifico lavoro e le disposizioni che prevedono la
possibilità di trattamenti differenziati in merito agli adolescenti, ai giovani,
ai lavoratori anziani e ai lavoratori con persone a carico, dettati dalla
particolare natura del rapporto e dalle legittime finalità di politica del
259
DOCUMENTAZIONE
260
lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale.
5. Non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 le
differenze di trattamento basate sulla professione di una determinata
religione o di determinate convinzioni personali che siano praticate
nell’ambito di enti religiosi o altre organizzazioni pubbliche o private,
qualora tale religione o tali convinzioni personali, per la natura delle attività
professionali svolte da detti enti o organizzazioni o per il contesto in cui esse
sono espletate, costituiscano requisito essenziale, legittimo e giustificato ai
fini dello svolgimento delle medesime attività.
6. Non costituiscono, comunque, atti di discriminazione ai sensi
dell’articolo 2 quelle differenze di trattamento che, pur risultando
indirettamente discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalità
legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari. In particolare,
resta ferma la legittimità di atti diretti all’esclusione dallo svolgimento di
attività lavorativa che riguardi la cura, l’assistenza, l’istruzione e
l’educazione di soggetti minorenni nei confronti di coloro che siano stati
condannati in via definitiva per reati che concernono la libertà sessuale dei
minori e la pornografia minorile.
Articolo 4
Tutela giurisdizionale dei diritti
1. All’articolo 15, comma 2, della legge 20 maggio 1970, n. 300, dopo la
parola “sesso” sono aggiunte le seguenti: “, di handicap, di età o basata
sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali”.
2. La tutela giurisdizionale avverso gli atti e i comportamenti di cui
all’articolo 2 si svolge nelle forme previste dall’articolo 44, commi da 1 a 6,
8 e 11, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, approvato con
decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286;
3. Chi intende agire in giudizio per il riconoscimento della sussistenza di
una delle discriminazioni di cui all’articolo 2 e non ritiene di avvalersi delle
procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, può promuovere
il tentativo di conciliazione ai sensi dell’articolo 410 del codice di procedura
civile o, nell’ipotesi di rapporti di lavoro con le amministrazioni pubbliche,
ai sensi dell’articolo 66 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, anche
tramite le rappresentanze locali di cui all’articolo 5.
4. Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento
discriminatorio a proprio danno, può dedurre in giudizio, anche sulla base
DOCUMENTAZIONE
di dati statistici, elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti,
che il giudice valuta ai sensi dell’articolo 2729, primo comma, del codice
civile.
5. Con il provvedimento che accoglie il ricorso il giudice, oltre a
provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale,
ordina la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto
discriminatorio, ove ancora sussistente, nonché la rimozione degli effetti. Al
fine di impedirne la ripetizione, il giudice può ordinare, entro il termine
fissato nel provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni
accertate.
6. Il giudice tiene conto, ai fini della liquidazione del danno di cui al
comma 5, che l’atto o comportamento discriminatorio costituiscono
ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad
una precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del
principio della parità di trattamento.
7. Il giudice può ordinare la pubblicazione delle sentenza di cui ai commi
5 e 6, a spese del convenuto, per una sola volta su un quotidiano di tiratura
nazionale.
8. Resta salva la giurisdizione del giudice amministrativo per il personale
di cui all’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.
Articolo 5
Legittimazione ad agire
1. Le rappresentanze locali delle organizzazioni nazionali maggiormente
rappresentative a livello nazionale, in forza di delega, rilasciata per atto
pubblico o scrittura privata autenticata, a pena di nullità, sono legittimate ad
agire ai sensi dell’articolo 4, in nome e per conto o a sostegno del soggetto
passivo della discriminazione, contro la persona fisica o giuridica cui è
riferibile il comportamento o l’atto discriminatorio.
2. Le rappresentanze locali di cui al comma 1 sono, altresì, legittimate ad
agire nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in
modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione.
Articolo 6
Relazione
1. Entro il 2 dicembre 2005 e successivamente ogni cinque anni, il
Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali trasmette alla Commissione
261
DOCUMENTAZIONE
Europea una relazione contenente le informazioni relative all’applicazione
del presente decreto.
Articolo 7
Copertura finanziaria
262
1. Dall’attuazione del presente decreto non derivano oneri aggiuntivi per il
bilancio dello Stato.
DOCUMENTAZIONE
Relazione al decreto legislativo attuativo della direttiva 2000/43/CE
Il presente decreto legislativo recepisce la direttiva 2000/43/CE del
Consiglio del 29 giugno 2000, che attua il principio della parità di trattamento
fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica.
Tale direttiva mira a stabilire un quadro per la lotta alle discriminazioni
fondate sulla razza o l’origine etnica, al fine di rendere effettivo negli Stati
membri il principio della parità di trattamento. A tale scopo, la direttiva dà
una precisa definizione di discriminazione diretta e indiretta, delimita il
campo di applicazione, prevede la giustificazione di alcune discriminazioni,
stabilisce l’accesso a procedure giurisdizionali e/o amministrative, anche
attraverso associazioni, organizzazioni ed altre persone giuridiche.
L’articolo 29 della legge comunitaria 1° marzo 2002, n. 39, elenca i principi
e i criteri direttivi per l’attuazione della delega. La direttiva è contenuta
nell’Allegato B della legge comunitaria e, pertanto, sullo schema di decreto
legislativo di recepimento è stato acquisito il parere delle competenti
Commissioni parlamentari. Il termine di recepimento della direttiva, di un
anno dalla data di entrata in vigore della legge comunitaria, è stato prorogato
di ulteriori novanta giorni poiché il termine previsto per il parere delle
Commissioni scadeva nei trenta giorni che precedono la scadenza del
termine per il recepimento.
Lo schema di decreto legislativo è stato deliberato in via preliminare dal
Consiglio dei ministri nella riunione del 28 marzo 2003.
La materia del decreto legislativo attiene alla competenza esclusiva dello
Stato, in quanto inerente ai diritti fondamentali delle persone.
Si passa ad illustrare lo schema di decreto legislativo, che si compone 8
articoli.
L’articolo 1 definisce l’oggetto del decreto legislativo, relativo
all’attuazione della parità di trattamento tra le persone indipendentemente
dalla razza e dall’origine etnica, disponendo le misure necessarie per
impedire che le differenze di razza e di origine etnica siano causa di
discriminazione.
L’articolo 2, facendo salvo il disposto dell’articolo 43, commi 1 e 2, del testo
unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme
sulla condizione dello straniero, approvato con d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286,
definisce innanzi tutto la discriminazione diretta e quella indiretta. A tale
scopo si è fatto preciso riferimento a quanto contenuto nella direttiva.
Quanto alla nozione di discriminazione indiretta, si ritiene di dover
263
DOCUMENTAZIONE
264
recepire solo parzialmente i rilievi formulati dalla XIV Commissione per le
politiche dell’Unione Europea della Camera dei Deputati, in quanto nella
recente tendenza evolutiva del diritto comunitario (direttive 2000/43/CE,
2000/78/CE, 2002/73/CE) la nozione di discriminazione si riferisce
solamente ad una situazione di “particolare svantaggio” in cui i soggetti
colpiti da discriminazione indiretta possono trovarsi rispetto ad altri. È
assente, perciò, nel concetto comunitario di discriminazione indiretta ogni
riferimento al criterio di “proporzionalità”. L’introduzione di un tale criterio
nella fase di attuazione della direttiva, nel richiedere che la discriminazione
si riferisca ad una quota rilevante di persone, finirebbe, difatti, per restringere
l’ambito dei comportamenti rilevanti ai fini dell’accertamento della
discriminazione stessa entro confini più circoscritti di quelli previsti dal
legislatore comunitario e rischierebbe, a sua volta, di esporre il nostro
ordinamento a censure in sede europea.
Nell’articolo 2 si definiscono, inoltre, come discriminazioni le molestie e
l’ordine di discriminare. Per quanto riguarda specificamente la definizione di
molestie, si è ritenuto di dover confermare l’impostazione originaria,
nonostante i rilievi formulati dalla XIV Commissione per le politiche
dell’Unione Europea della Camera dei Deputati, poiché vi è la necessità di
dare corretta e piena attuazione alla direttiva comunitaria. La nozione di
molestia proposta da quest’ultima, infatti, opera un riferimento ad un criterio
di carattere soggettivo che incentra la molestia sulla percezione della vittima,
unitamente ad un concetto di “molestia ambientale” connesso alla creazione
di un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante ed offensivo. Invece,
la definizione contenuta nella legge comunitaria circoscrive la molestia entro
confini assai più angusti, poiché richiede la persistenza del comportamento
a fronte della inequivoca dichiarazione dell’offensività dello stesso da parte
della vittima. Se si considera che la stessa nozione comunitaria è stata
ribadita da altre fonti (v. le direttive n. 73 del 2002 e n. 78 del 2000, per la cui
attuazione non era previsto alcun criterio di delega), si capisce come esigenze
di conformità al diritto comunitario consiglino di non esporsi a censure in
sede europea.
L’articolo 3 delimita il campo di applicazione del decreto legislativo,
secondo quanto stabilito dalla direttiva.
In particolare, il principio di parità di trattamento come precedentemente
definito si applica a tutte le persone dei settori pubblici e privati, per quanto
concerne l’accesso all’occupazione, al lavoro, all’orientamento e alla
formazione professionale, l’occupazione e le condizioni di lavoro,
l’affiliazione e le attività nelle organizzazioni di lavoratori e datori di lavoro,
DOCUMENTAZIONE
o di altre organizzazioni professionali, la protezione sociale, l’assistenza
sanitaria, le prestazioni sociali, l’istruzione e l’accesso a beni e servizi.
Si fanno, inoltre, salve tutte le disposizioni vigenti inerenti le condizioni di
ingresso, soggiorno e accesso all’occupazione, all’assistenza e alla previdenza
dei cittadini dei Paesi terzi e degli apolidi nel territorio dello Stato e le
disposizioni che prevedono differenze di trattamento basate sulla nazionalità.
Si prevedono, infine, alcuni casi in cui le differenze di trattamento non
costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2.
L’articolo 4 disciplina la tutela giurisdizionale dei diritti.
Al fine di creare strumenti omogenei di tutela, si prevede l’applicazione
della procedura di cui all’articolo 44, commi da 1 a 6, 8 e 11, del decreto
legislativo n. 286 del 1998. Tale articolo disciplina una particolare azione
civile contro la discriminazione, dotata di snellezza ed efficacia.
Si prevedono, inoltre, altri strumenti correlati: la possibilità di esperire il
tentativo di conciliazione previsto dal codice civile e dal decreto legislativo n.
165 del 2001, il regime probatorio secondo il sistema della prova presuntiva,
la possibilità per il giudice di risarcire il danno anche non patrimoniale, di
ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto
discriminatorio, nonché la rimozione degli effetti e di ordinare l’adozione di
un piano di rimozione, di tenere conto, ai fini della liquidazione del danno,
che l’atto o il comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una
precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente
attività, di ordinare la pubblicazione della sentenza.
Recependo le osservazioni emerse dai pareri parlamentari (Giunta per gli
affari delle Comunità europee del Senato della Repubblica), si è provveduto
a coordinare la disciplina sulla tutela giurisdizionale con le disposizioni di
cui all’articolo 44 del decreto legislativo n. 286 del 1998, richiamando
espressamente solo alcuni commi di esso, al fine di evitare eventuali
sovrapposizioni e dubbi interpretativi.
Circa il regime delle prove, è stata parzialmente recepita l’osservazione
della I Commissione del Senato della Repubblica; tuttavia, la previsione di
una radicale inversione dell’onere della prova è apparsa non strettamente
conforme ai principi del nostro ordinamento giuridico. Posto che nel nostro
sistema il principio dell’inversione dell’onere della prova esiste solo in
alcune precise e tassative ipotesi previste dalla legge (articolo 1988 del
codice civile), la legge comunitaria ha optato, più genericamente, per un
regime di prova presuntiva per il quale non vi è una vera e propria inversione
dei carichi probatori, ma semplicemente un principio di favore per la parte
debole che agisce in giudizio: a fronte di elementi di fatto idonei a fondare in
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DOCUMENTAZIONE
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termini precisi e concordanti la presunzione dell’esistenza di atti o
comportamenti discriminatori, il convenuto viene onerato della prova
liberatoria circa l’insussistenza della discriminazione.
Viene così introdotto un regime bilanciato per il quale, pur non esonerando
espressamente il ricorrente dall’onere della prova, si considera necessaria e
sufficiente la prova presuntiva, con l’ausilio aggiuntivo dei dati statistici, i
quali, come è stato più volte affermato dalla Corte di Giustizia delle
Comunità europee, rappresentano un importante meccanismo
nell’accertamento della sussistenza di discriminazioni indirette. È
significativo notare che in tal senso si è espressa anche la giurisprudenza
sull’onere probatorio di cui all’articolo 4, comma 6, della legge 10 aprile
1991, n. 125, laddove, anche in presenza di una disposizione il cui tenore
letterale faceva propendere per una vera e propria inversione dell’onere della
prova, i giudici hanno ritenuto di dover limitare il regime probatorio entro i
più cauti confini dell’articolo 2729 del codice civile.
L’articolo 5 disciplina la legittimazione ad agire, prevedendo l’intervento
delle associazioni anche nell’ipotesi di discriminazione collettiva, qualora
non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla
discriminazione.
Circa il sistema della legittimazione ad agire, l’articolo 29, comma 1, lettere
e) ed f), della legge comunitaria prevede che, nei casi di discriminazione,
debba essere riconosciuta la facoltà di agire in giudizio anche ad associazioni
rappresentative degli interessi lesi.
A tal fine, si riconosce la legittimazione ad agire alle associazioni ed agli
enti che sono individuati con apposito decreto del Ministro del Lavoro e
delle Politiche Sociali e del Ministro per le Pari Opportunità, prevedendo la
previa iscrizione degli stessi al registro di cui all’art. 52, comma 1, lett. a), del
decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, o al registro
istituito dall’articolo 6 del presente schema di decreto legislativo.
Come prevede l’articolo 5, la legittimazione attiva deve riguardare sia i casi
di discriminazione individuale che collettiva. Nel primo caso, le associazioni
possono agire in forza di delega rilasciata dal soggetto passivo della
discriminazione per iscritto, a pena di nullità, per atto pubblico o scrittura
privata; nel secondo caso, invece, le associazioni possono agire anche in
assenza di una delega, proprio perché non sono individuabili in modo diretto
ed immediato le persone lese dalla discriminazione.
L’articolo 6 prevede l’istituzione di un apposito albo presso il Dipartimento
per le Pari Opportunità cui possono iscriversi le associazioni che hanno
un’esperienza consolidata nella materia della lotta alle discriminazioni.
DOCUMENTAZIONE
L’articolo 7 istituisce presso la Presidenza del Consiglio - Dipartimento per
le Pari Opportunità - l’Ufficio per la promozione della parità di trattamento e
la rimozione delle discriminazioni fondate sulla razza o sull’origine etnica.
A tal proposito, la direttiva comunitaria si basa sulla considerazione che il
rafforzamento della protezione contro le discriminazioni in ciascuno Stato
membro può passare solo attraverso la costituzione di un organismo ad hoc,
che sia specificamente incaricato di analizzare i problemi relativi alla materia
della lotta alle discriminazioni, di studiare e proporre le possibili soluzioni e
fornire assistenza concreta alle vittime.
Come previsto dall’articolo 29, comma 1, lett. i), della legge comunitaria,
infatti, la costituzione dell’Ufficio mira alla istituzione, nell’ordinamento
interno, di un presidio di riferimento per il controllo e la garanzia della parità
di trattamento e dell’operatività degli strumenti di tutela.
Funzione generale dell’Ufficio è quella di svolgere attività di promozione
della parità e di rimozione di qualsiasi discriminazione fondata sulla razza o
sull’origine etnica, tenendo in particolar conto che, spesso, le forme di
discriminazione sono amplificate quando all’elemento di diversità costituito
dalla razza o dall’origine etnica si aggiungono altri fattori di genere, religione
e cultura. È risaputo, difatti, come spesso le donne costituiscano le principali
vittime di comportamenti fortemente discriminatori.
In relazione a questa funzione di presidio e garanzia, particolare rilievo
assumono i compiti specificati dall’articolo 7, comma 2, laddove si prevede
che l’Ufficio provveda a: fornire assistenza alle vittime di comportamenti
discriminatori nei procedimenti intrapresi da queste ultime sia in sede
amministrativa che giurisdizionale; svolgere inchieste al fine di verificare
l’esistenza di fenomeni discriminatori; promuovere l’adozione di progetti di
azioni positive; diffondere la massima conoscenza possibile degli strumenti
di tutela vigenti mediante azioni di sensibilizzazione e campagne di
comunicazione; formulare raccomandazioni e pareri sulle questioni connesse
alla discriminazione per razza ed origine etnica; redigere due relazioni
annuali, rispettivamente, per il Parlamento e per il Presidente del Consiglio
dei Ministri; infine, promuovere studi, ricerche, corsi di formazione e scambi
di esperienze, anche in collaborazione con le associazioni e le altre
organizzazioni non governative che operano nel settore e, spesso, ne
costituiscono la linfa vitale.
Circa l’organizzazione ed il funzionamento dell’Ufficio, si rinvia ad un
apposito decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri.
Secondo quanto previsto dalla legge comunitaria, si prevede che l’Ufficio
sia diretto da un responsabile nominato dal Presidente del Consiglio dei
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DOCUMENTAZIONE
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Ministri o da un Ministro delegato, e che si avvalga, oltre che di personale di
altre amministrazioni, anche di un contingente di esperti e consulenti
esterni, dotati di elevata professionalità ed esperienza nella materia.
Circa la disposizione (comma 8) che fa salve le competenze delle regioni e
delle province autonome, in relazione al rilievo formulato dalla XIV
Commissione della Camera dei Deputati, si precisa che il riferimento al
termine ‘regioni’ include in modo inequivoco sia le regioni a statuto
ordinario che quelle a statuto speciale. Analogamente, il concetto di
competenze comprende l’intero ambito delle attribuzioni regionali secondo i
rispettivi statuti, norme di attuazione e leggi regionali.
L’articolo 8, infine, contiene la disposizione sulla copertura finanziaria già
prevista dall’articolo 29, comma 2, della legge comunitaria n. 39 del 2002,
con la clausola di salvaguardia che prevede che dall’attuazione del decreto
non deriva alcun ulteriore onere a carico del bilancio dello Stato rispetto a
quelli derivanti dall’istituzione e funzionamento dell’Ufficio di cui
all’articolo 7.
DOCUMENTAZIONE
Decreto legislativo n. 216/03 del 9 luglio 2003 recante attuazione della
direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione
e di condizioni di lavoro
visti gli articoli 76 e 87 della Costituzione;
vista la direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che
stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di
occupazione e di condizioni di lavoro;
vista la legge 1° marzo 2002, n. 39, ed in particolare l’Allegato B;
vista la legge 20 maggio 1970, n. 300, recante “Norme sulla tutela della
libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale
nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”;
visto il testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, approvato con
decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286;
vista la preliminare deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella
riunione del 28 marzo 2003;
acquisiti i pareri delle Commissioni della Camera dei Deputati e del Senato
della Repubblica;
vista la deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del
3 luglio 2003;
sulla proposta del Ministro per le Politiche Comunitarie, del Ministro del
Lavoro e delle Politiche Sociali e del Ministro per le Pari Opportunità, di
concerto con il Ministro degli Affari Esteri, con il Ministro della Giustizia e
con il Ministro dell’Economia e delle Finanze;
EMANA
il seguente decreto legislativo:
Articolo 1
Oggetto
1. Il presente decreto reca le disposizioni relative all’attuazione della parità
di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle
convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dall’orientamento sessuale,
per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro, disponendo le
misure necessarie affinché tali fattori non siano causa di discriminazione, in
un’ottica che tenga conto anche del diverso impatto che le stesse forme di
discriminazione possono avere su donne e uomini.
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DOCUMENTAZIONE
Articolo 2
Nozione di discriminazione
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1. Ai fini del presente decreto e salvo quanto disposto dall’articolo 3,
commi da 3 a 6, per principio di parità di trattamento si intende l’assenza di
qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle
convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale.
Tale principio comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta
o indiretta, così come di seguito definite:
a) discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali,
per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata
meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in
una situazione analoga;
b) discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una
prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri
possono mettere le persone che professano una determinata religione o
ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di
una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di
particolare svantaggio rispetto ad altre persone.
2. È fatto salvo il disposto dell’articolo 43, commi 1 e 2 del testo unico delle
disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero, approvato con decreto legislativo 25 luglio 1998,
n. 286;
3. Sono, altresì, considerate come discriminazioni, ai sensi del comma 1,
anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per
uno dei motivi di cui all’articolo 1, aventi lo scopo o l’effetto di violare la
dignità di un persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante,
umiliante od offensivo.
4. L’ordine di discriminare persone a causa della religione, delle
convinzioni personali, dell’handicap, dell’età o delle tendenze sessuali è
considerata una discriminazione ai sensi del comma 1.
Articolo 3
Ambito di applicazione
1. Il principio di parità di trattamento senza distinzione di religione, di
convinzioni personali, di handicap, di età e di orientamento sessuale si
applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile
di tutela giurisdizionale secondo le forme previste dall’articolo 4, con
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specifico riferimento alle seguenti aree:
a) accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente,
compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione;
b) occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di
carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento;
c) accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale,
perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini
professionali;
d) affiliazione e attività nell’ambito di organizzazioni di lavoratori, di datori
di lavoro o di altre organizzazioni professionali e prestazioni erogate
dalle medesime organizzazioni.
2. La disciplina di cui al presente decreto fa salve tutte le disposizioni
vigenti in materia di:
a) condizioni di ingresso, soggiorno ed accesso all’occupazione,
all’assistenza e alla previdenza dei cittadini dei Paesi terzi e degli apolidi
nel territorio dello Stato;
b) sicurezza e protezione sociale;
c) sicurezza pubblica, tutela dell’ordine pubblico, prevenzione dei reati e
tutela della salute;
d) stato civile e prestazioni che ne derivano;
e) forze armate, limitatamente ai fattori di età e di handicap.
3. Nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, nell’ambito
del rapporto di lavoro o dell’esercizio dell’attività di impresa, non
costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 quelle differenze
di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle
convinzioni personali, all’handicap, all’età o all’orientamento sessuale di
una persona, qualora, per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in
cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un
requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività
medesima. Parimenti, non costituisce atto di discriminazione la valutazione
delle caratteristiche suddette ove esse assumano rilevanza ai fini
dell’idoneità allo svolgimento delle funzioni che le forze armate e i servizi di
polizia, penitenziari o di soccorso possono essere chiamati ad esercitare.
4. Sono, comunque, fatte salve le disposizioni che prevedono accertamenti
di idoneità al lavoro per quanto riguarda la necessità di una idoneità ad uno
specifico lavoro e le disposizioni che prevedono la possibilità di trattamenti
differenziati in merito agli adolescenti, ai giovani, ai lavoratori anziani e ai
lavoratori con persone a carico, dettati dalla particolare natura del rapporto e
dalle legittime finalità di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di
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DOCUMENTAZIONE
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formazione professionale.
5. Non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 le
differenze di trattamento basate sulla professione di una determinata
religione o di determinate convinzioni personali che siano praticate
nell’ambito di enti religiosi o altre organizzazioni pubbliche o private,
qualora tale religione o tali convinzioni personali, per la natura delle attività
professionali svolte da detti enti o organizzazioni o per il contesto in cui esse
sono espletate, costituiscano requisito essenziale, legittimo e giustificato ai
fini dello svolgimento delle medesime attività.
6. Non costituiscono, comunque, atti di discriminazione ai sensi
dell’articolo 2 quelle differenze di trattamento che, pur risultando
indirettamente discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalità
legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari. In particolare,
resta ferma la legittimità di atti diretti all’esclusione dallo svolgimento di
attività lavorativa che riguardi la cura, l’assistenza, l’istruzione e
l’educazione di soggetti minorenni nei confronti di coloro che siano stati
condannati in via definitiva per reati che concernono la libertà sessuale dei
minori e la pornografia minorile.
Articolo 4
Tutela giurisdizionale dei diritti
1. All’articolo 15, comma 2, della legge 20 maggio 1970, n. 300, dopo la
parola "sesso" sono aggiunte le seguenti: ", di handicap, di età o basata
sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali".
2. La tutela giurisdizionale avverso gli atti e i comportamenti di cui
all’articolo 2 si svolge nelle forme previste dall’articolo 44, commi da 1 a 6,
8 e 11, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, approvato con
decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286;
3. Chi intende agire in giudizio per il riconoscimento della sussistenza di
una delle discriminazioni di cui all’articolo 2 e non ritiene di avvalersi delle
procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, può promuovere
il tentativo di conciliazione ai sensi dell’articolo 410 del codice di procedura
civile o, nell’ipotesi di rapporti di lavoro con le amministrazioni pubbliche,
ai sensi dell’articolo 66 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, anche
tramite le rappresentanze locali di cui all’articolo 5.
4. Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento
discriminatorio a proprio danno, può dedurre in giudizio, anche sulla base di
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dati statistici, elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti, che il
giudice valuta ai sensi dell’articolo 2729, primo comma, del codice civile.
5. Con il provvedimento che accoglie il ricorso il giudice, oltre a provvedere,
se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, ordina la
cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio, ove
ancora sussistente, nonché la rimozione degli effetti. Al fine di impedirne la
ripetizione, il giudice può ordinare, entro il termine fissato nel provvedimento,
un piano di rimozione delle discriminazioni accertate.
6. Il giudice tiene conto, ai fini della liquidazione del danno di cui al
comma 5, che l’atto o comportamento discriminatorio costituiscono
ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad
una precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del
principio della parità di trattamento.
7. Il giudice può ordinare la pubblicazione delle sentenza di cui ai commi
5 e 6, a spese del convenuto, per una sola volta su un quotidiano di tiratura
nazionale.
8. Resta salva la giurisdizione del giudice amministrativo per il personale
di cui all’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.
Articolo 5
Legittimazione ad agire
1. Le rappresentanze locali delle organizzazioni nazionali maggiormente
rappresentative a livello nazionale, in forza di delega, rilasciata per atto
pubblico o scrittura privata autenticata, a pena di nullità, sono legittimate ad
agire ai sensi dell’articolo 4, in nome e per conto o a sostegno del soggetto
passivo della discriminazione, contro la persona fisica o giuridica cui è
riferibile il comportamento o l’atto discriminatorio.
2. Le rappresentanze locali di cui al comma 1 sono, altresì, legittimate ad
agire nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in
modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione.
Articolo 6
Relazione
1. Entro il 2 dicembre 2005 e successivamente ogni cinque anni, il
Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali trasmette alla Commissione
Europea una relazione contenente le informazioni relative all’applicazione
del presente decreto.
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Articolo 7
Copertura finanziaria
1. Dall’attuazione del presente decreto non derivano oneri aggiuntivi per il
bilancio dello Stato.
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Relazione al decreto legislativo attuativo della direttiva 2000/78/CE
Il presente decreto legislativo recepisce la direttiva 2000/78/CE del
Consiglio del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la
parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
Tale direttiva mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle
discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli
handicap, l’età o l’orientamento sessuale, per quanto concerne l’occupazione
e le condizioni di lavoro, al fine di rendere effettivo negli Stati membri il
principio della parità di trattamento. A tale scopo, la direttiva dà una precisa
definizione di discriminazione diretta e indiretta, delimita il campo di
applicazione, prevede la giustificazione di alcune discriminazioni, stabilisce
l’accesso a procedure giurisdizionali e/o amministrative, anche attraverso
associazioni, organizzazioni ed altre persone giuridiche.
La direttiva è contenuta nell’Allegato B della legge comunitaria 1° marzo
2002, n. 39, e, sulla base di quanto stabilito nell’articolo 1, comma 3, della
stessa, è stato necessario acquisire sullo schema di decreto legislativo il
parere delle competenti Commissioni parlamentari. Il termine di
recepimento della direttiva, di un anno dalla data di entrata in vigore della
legge comunitaria, è stato prorogato di ulteriori novanta giorni poiché il
termine per il parere delle Commissioni scadeva nei trenta giorni che
precedono la scadenza del termine per il recepimento.
Lo schema di decreto legislativo è stato deliberato in via preliminare dal
Consiglio dei Ministri nella riunione del 28 marzo 2003.
La materia oggetto di recepimento attiene alla competenza esclusiva dello
Stato, in quanto inerente ai diritti fondamentali delle persone.
Si passa ad illustrare lo schema di decreto legislativo, che si compone di 7
articoli.
L’articolo 1 definisce l’oggetto del decreto legislativo, relativo all’attuazione
della parità di trattamento indipendentemente dalla religione, dalle
convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dall’orientamento sessuale,
disponendo le misure necessarie affinché tali fattori non siano causa di
discriminazione.
L’articolo 2, facendo salvo il disposto dell’articolo 43, commi 1 e 2, del
decreto legislativo n. 286 del 1998, definisce innanzi tutto la discriminazione
diretta e quella indiretta. A tale scopo si è fatto preciso riferimento a quanto
contenuto nella direttiva.
Quanto alla nozione di discriminazione indiretta, si ritiene di dover
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recepire solo parzialmente i rilievi formulati dalla XI Commissione della
Camera dei Deputati, in quanto nella recente tendenza evolutiva del diritto
comunitario (direttive 2000/43/CE, 2000/78/CE, 2002/73/CE) la nozione di
discriminazione si riferisce solamente ad una situazione di “particolare
svantaggio” in cui i soggetti colpiti da discriminazione indiretta possono
trovarsi rispetto ad altri. È assente, perciò, nel concetto comunitario di
discriminazione indiretta ogni riferimento al criterio di “proporzionalità”.
L’introduzione di un tale criterio nella fase di attuazione della direttiva, nel
richiedere che la discriminazione si riferisca ad una quota rilevante di
persone, finirebbe, difatti, per restringere l’ambito dei comportamenti
rilevanti ai fini dell’accertamento della discriminazione stessa entro confini
più circoscritti di quelli previsti dal legislatore comunitario e rischierebbe, a
sua volta, di esporre il nostro ordinamento a censure in sede europea.
Nell’articolo 2 si definiscono, inoltre, come discriminazioni anche le
molestie e l’ordine di discriminare. Per quanto riguarda specificamente la
definizione di molestie, si è ritenuto di dover confermare l’impostazione
originaria, nonostante i rilievi formulati dalla XI Commissione della Camera
dei Deputati, poiché vi è la necessità di dare corretta e piena attuazione alla
direttiva comunitaria. La nozione di molestia proposta da quest’ultima,
infatti, opera un riferimento ad un criterio di carattere soggettivo che incentra
la molestia sulla percezione della vittima, unitamente ad un concetto di
“molestia ambientale” connesso alla creazione di un clima intimidatorio,
ostile, degradante, umiliante ed offensivo. Invece, la definizione contenuta
nella legge comunitaria circoscrive la molestia entro confini assai più
angusti, poiché richiede la persistenza del comportamento a fronte della
inequivoca dichiarazione dell’offensività dello stesso da parte della vittima.
Se si considera che la stessa nozione comunitaria è stata ribadita da altre fonti
(v. la direttiva n. 73 del 2002), si capisce come esigenze di conformità al
diritto comunitario consiglino di non esporsi a censure in sede europea.
L’articolo 3 delimita il campo di applicazione dello schema di decreto
legislativo, secondo quanto stabilito dalla direttiva.
In particolare, il principio di parità di trattamento come precedentemente
definito si applica a tutte le persone dei settori pubblici e privati, per quanto
concerne l’accesso all’occupazione, al lavoro, all’orientamento e alla
formazione professionale, l’occupazione e le condizioni di lavoro,
l’affiliazione e le attività nelle organizzazioni di lavoratori e datori di lavoro
o di altre organizzazioni professionali.
Si fa, inoltre, salva tutta la normativa nazionale inerente le condizioni di
ingresso, soggiorno ed accesso all’occupazione, all’assistenza e alla
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previdenza dei cittadini dei Paesi terzi e degli apolidi nel territorio dello
Stato, la sicurezza e la protezione sociale, la sicurezza pubblica, la tutela
dell’ordine pubblico e della salute, la prevenzione dei reati, lo stato civile e
le prestazioni che ne derivano, le forze armate limitatamente ai fattori di età
e di handicap.
Si prevedono, infine, alcuni casi in cui le differenze di trattamento non
costituiscono atti di discriminazione ai sensi di quanto stabilito nell’articolo
2. Relativamente alla materia lavoristica, si fanno, inoltre, salve le
disposizioni che prevedono accertamenti di idoneità al lavoro e le
disposizioni che attuano trattamenti differenziati in merito agli adolescenti,
ai giovani, ai lavoratori anziani e ai lavoratori con persone a carico. Sono,
inoltre, fatte salve le differenze di trattamento che escludono persone che
siano state condannate per reati in danno di minori dalla possibilità di
svolgere attività lavorative che li portino ad avere contatto con i minori stessi.
L’articolo 4 disciplina la tutela giurisdizionale dei diritti.
Innanzi tutto, si apporta una modifica all’articolo 15, comma 2, della legge
n. 300 del 1970, recante “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei
lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro
e norme sul collocamento”. In tale modo, si rendono nulli gli atti e i patti del
datore di lavoro diretti a fini di discriminazione anche per motivi di
handicap, di età, di orientamento sessuale o di convinzioni personali.
Relativamente alla tutela giurisdizionale dei diritti, al fine di creare
strumenti omogenei di tutela, si prevede l’applicazione dell’articolo 44,
commi da 1 a 6, 8 e 11, del decreto legislativo n. 286 del 1998. Tale articolo
prevede una particolare azione civile contro la discriminazione, dotata di
snellezza ed efficacia.
Si prevedono, inoltre, altri strumenti correlati: la possibilità di esperire il
tentativo di conciliazione previsto dal codice civile e dal decreto legislativo
n. 165 del 2001, l’operatività dell’articolo 2729 del codice civile in materia di
presunzioni, la possibilità per il giudice di risarcire il danno non
patrimoniale, di ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o
dell’atto discriminatorio, nonché la rimozione degli effetti e di ordinare un
piano di rimozione delle discriminazioni accertate, di tenere conto, ai fini
della liquidazione del danno, che l’atto o il comportamento discriminatorio
costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta
reazione ad una precedente attività, di ordinare la pubblicazione della
sentenza.
Recependo le osservazioni della XI Commissione della Camera dei
Deputati e del Senato della Repubblica, si è provveduto a coordinare la
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disciplina sulla tutela giurisdizionale con le disposizioni di cui all’articolo
44 del decreto legislativo n. 286 del 1998, richiamando espressamente solo
alcuni commi di esso, al fine di evitare inutili sovrapposizioni e dubbi
interpretativi.
Circa il regime delle prove, è stata parzialmente recepita l’osservazione
della Commissione Giustizia del Senato della Repubblica; tuttavia, la
previsione di una radicale inversione dell’onere della prova è apparsa non
strettamente conforme ai principi del nostro ordinamento giuridico. Posto
che nel nostro sistema il principio dell’inversione della prova esiste solo in
alcune precise e tassative ipotesi previste dalla legge (articolo 1988 del
codice civile), la legge comunitaria ha optato, più genericamente, per un
regime di prova presuntiva per il quale non vi è una vera e propria inversione
dei carichi probatori, ma semplicemente un principio di favore per la parte
debole che agisce in giudizio: a fronte di elementi di fatto idonei a fondare in
termini precisi e concordanti la presunzione dell’esistenza di atti o
comportamenti discriminatori, il convenuto viene onerato della prova
liberatoria circa l’insussistenza della discriminazione.
Viene introdotto, così, un regime bilanciato per il quale, pur non
esonerando espressamente il ricorrente dall’onere della prova, si considera
necessaria e sufficiente la prova presuntiva, con l’ausilio aggiuntivo dei dati
statistici, i quali, come è stato più volte affermato dalla Corte di Giustizia
delle Comunità Europee, rappresentano un importante meccanismo
nell’accertamento della sussistenza delle discriminazioni indirette. È
significativo notare che in tal senso si è espressa anche la giurisprudenza
sull’onere probatorio di cui all’articolo 4, comma 6, della legge 10 aprile
1991, n. 125, laddove, anche in presenza di una disposizione il cui tenore
letterale faceva propendere per una vera e propria inversione dell’onere della
prova, i giudici hanno ritenuto di dover limitare il regime probatorio entro i
più cauti confini dell’articolo 2729 del codice civile.
In ordine all’osservazione della Giunta per gli affari delle Comunità
Europee relativa alla tutela più rigorosa dell’articolo 11 della direttiva
rispetto al comma 6 del presente schema di decreto, si fa presente che nel
nostro ordinamento esistono già disposizioni volte a proteggere i lavoratori
dal licenziamento illegittimo.
L’articolo 5 legittima le rappresentanze locali delle organizzazioni
nazionali maggiormente rappresentative ad agire in giudizio in nome e per
conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, anche nei casi
di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto
e immediato le persone lese dalla discriminazione.
DOCUMENTAZIONE
In merito all’osservazione della XI Commissione del Senato della
Repubblica volta a valutare la possibilità di indicare più specificamente le
tipologie associative interessate, come ad esempio le associazioni degli
anziani, si ritiene che, trattandosi di discriminazioni relative al mondo del
lavoro, le organizzazioni sindacali siano gli organismi più idonei allo
svolgimento del compito demandato dalla direttiva.
L’articolo 6 prevede la redazione da parte del Ministero del Lavoro e delle
Politiche Sociali di una relazione contenente le informazioni sullo stato di
attuazione delle disposizioni del presente decreto da trasmettere alla
Commissione Europea. Relativamente all’osservazione della XI Commissione
del Senato della Repubblica e della XI Commissione della Camera dei
Deputati in merito alla possibilità di recepire le disposizioni della direttiva
di cui agli articoli 7 (azione positiva e misure specifiche), 12 (diffusione delle
informazioni), 13 (dialogo sociale) e 14 (dialogo con le organizzazioni non
governative), si fa presente che le misure stesse sono già previste all’interno
del nostro ordinamento giuridico.
L’articolo 7 precisa che l’applicazione del decreto legislativo non comporta
oneri a carico del bilancio dello Stato.
Infine, quanto all’invito formulato dalla XI Commissione della Camera dei
Deputati a redigere un testo unico legislativo che recepisca tutte le direttive
comunitarie in materia di parità di trattamento e divieti di discriminazione,
si rileva che, stante l’imminente scadenza della delega, l’urgenza di recepire
la direttiva in oggetto indice a preferire l’attuazione separata delle singole
direttive. Un eventuale lavoro di riordino può essere, pertanto, rinviato ad un
momento successivo.
Circa l’organizzazione ed il funzionamento dell’Ufficio, si rinvia ad un
apposito decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri.
Secondo quanto previsto dalla legge comunitaria, si prevede che l’Ufficio
sia diretto da un responsabile nominato dal Presidente del Consiglio dei
Ministri o da un Ministro delegato, e che si avvalga, oltre che di personale di
altre amministrazioni, anche di un contingente di esperti e consulenti
esterni, dotati di elevata professionalità ed esperienza nella materia.
Circa la disposizione (comma 8) che fa salve le competenze delle regioni e
delle province autonome, in relazione al rilievo formulato dalla XIV
Commissione della Camera dei Deputati, si precisa che il riferimento al
termine ‘regioni’ include in modo inequivoco sia le regioni a statuto
ordinario che quelle a statuto speciale. Analogamente, il concetto di
competenze comprende l’intero ambito delle attribuzioni regionali secondo i
rispettivi statuti, norme di attuazione e leggi regionali.
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L’articolo 8, infine, contiene la disposizione sulla copertura finanziaria già
prevista dall’articolo 29, comma 2, della legge comunitaria n. 39 del 2002,
con la clausola di salvaguardia che prevede che dall’attuazione del decreto
non deriva alcun ulteriore onere a carico del bilancio dello Stato rispetto a
quelli derivanti dall’istituzione e funzionamento dell’Ufficio di cui
all’articolo 7.
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