GESTIONE DELLE RISORSE UMANE STRUMENTI ED ORIENTAMENTI U M A N E R I S O R S E D E L L E G E S T I O N E L a nuova rivista “Gestione delle risorse umane: orientamenti e strumenti” rappresenta un ulteriore contributo del Formez - Centro di Formazione Studi -, come Agenzia istituzionale del Dipartimento della Funzione Pubblica, a sostegno dei processi di modernizzazione della Pubblica Amministrazione. Essa si inserisce nella tradizione delle pubblicazioni “Quaderni regionali”, “Quaderni Formez”, ma più in particolare delle riviste “Problemi di gestione”, “Problemi di Amministrazione Pubblica”, “Europa e Mezzogiorno”. Queste pubblicazioni hanno perseguito l’obiettivo di fornire gli strumenti interpretativi per consentire al sistema amministrativo, e in particolare alle autonomie locali, di attuare le innovazioni introdotte dalle leggi di riforma. D’altro canto, esse sono state la sede di approfondimenti che hanno spesso anticipato le riforme o hanno offerto spunti per migliorarle. In questa duplice ottica, il Formez, in coerenza con il ruolo che il d.lgs 285/99 gli assegna, ha inteso rilanciare le proprie attività editoriali, al fine di “promuovere l’innovazione amministrativa, organizzativa e tecnologica della Pubblica Amministrazione e favorire il ruolo e le competenze delle Regioni e degli enti locali”. Lo sviluppo delle risorse umane è per le Amministrazioni una condizione indispensabile per il successo dei processi di innovazione. Gli spunti per modificare le modalità di gestione delle risorse umane sono molteplici con il varo della c.d. privatizzazione del rapporto di lavoro e con l’attribuzione di un più incisivo ruolo datoriale alle Amministrazioni e alla loro dirigenza. Ciononostante il passaggio dalla mera amministrazione del personale alla gestione delle risorse umane non è purtroppo un dato generalizzato. Infatti, alla luce della copiosa normativa degli ultimi anni, uno dei principali impegni delle direzioni del personale sarà la sperimentazione di strumenti gestionali, la condivisione e lo scambio di esperienze, il consolidamento di expertise e metodologie finalizzate a una gestione e valorizzazione delle risorse umane coerente con una attività finalizzata al risultato. Per accompagnare le Amministrazioni in questo difficile percorso di innovazione, il Formez sta sviluppando da tempo, d’intesa con il Dipartimento, iniziative di formazione ed assistenza per lo sviluppo di strumenti di gestione delle risorse umane i cui risultati e prodotti sono consultabili sul canale tematico “Lavoro Pubblico” del sito www.formez.it. La rivista vuole essere un supporto per orientare la dirigenza nell’utilizzo dei più innovativi istituti introdotti dalla normativa e dalla contrattazione collettiva, alla luce delle interpretazioni giurisprudenziali. Il percorso verso una effettiva privatizzazione del pubblico impiego è difficile, anche per la presenza di una prassi gestionale e una cultura amministrativa vecchie ormai di un secolo, ma la sensibilità che le Amministrazioni stanno dimostrando negli ultimi anni ci rendono più fiduciosi sulla possibilità che, anche con l’impegno del Formez e attraverso ausili come la rivista, questo obiettivo possa essere raggiunto. Carlo Flamment Presidente Formez In memoria di Ubaldo Poti Formez 2 IL MOBBING Direttore Responsabile Giuseppe Iannicelli Coordinatori Comitato Scientifico Carlo D’Orta e Francesco Verbaro Comitato Scientifico Caterina Cordella, Bruno Cossu, Filippo Curcuruto, Donatella De Vincentiis, Bartolo Gallitto, Franco Liso, Valentina Lostorto, Sandro Mainardi, Antonio Martone, Paolo Matteini, Giancarlo Perone, Gianpiero Profeta, Massimo Salvatorelli, Luca Soda, Paolo Sordi, Valerio Talamo, Angelo Trovato, Vincenzo Veneziano Direttore Editoriale Anna Mura Coordinatori di redazione Donatella De Vincentiis,Vincenzo Veneziano Redazione Antonio Aurilio, Maria Branchi, Maria Elena Iaverone, Gaetana Micci, Massimo Raffa, Genoveffa Vitale Coordinamento organizzativo Paola Pezzuto, Gaetana Micci Premessa 7 Perché dedicare un volume al fenomeno del mobbing e, soprattutto, cos’è il mobbing? Si immagini un branco di animali incattiviti, che circondando e aggredendo minacciosamente un membro del gruppo, ne provoca l'allontanamento. Similmente i nostri colleghi di lavoro, componenti di un team, rischiano di diventare vittime di processi di emarginazione. Così può essere spiegata l’espressione “mobbing sui luoghi di lavoro”, entrata nel dizionario corrente e da qualche anno nei testi di diritto. Il mobbing è “l'insieme di pratiche persecutorie, vessazioni e abusi morali perpetrati sul posto di lavoro ai danni di una vittima designata”. Negli ultimi anni si sta assistendo ad una crescente attenzione ai problemi della salute psichica e delle relazioni interumane nell'ambiente di lavoro. Stress, burn-out, mobbing sono entrati, oramai, nel linguaggio corrente. L’ambiente di lavoro non è solo un luogo fisico, ma soprattutto un luogo emotivo perché in esso si concentrano umori, sensibilità, culture differenti. Il benessere psicofisico, la serenità psicologica nei luoghi di lavoro e gli aspetti emotivi e motivazionali delle attività lavorative vengono sempre più considerati come fattori strategici sia per l’organizzazione sia per la gestione delle risorse umane. Questo secondo numero della nostra rivista mira ad analizzare il mobbing secondo varie prospettive: giuridica, socioeconomica (costo sociale che si riflette sulla collettività in termini di costo per il 8 Servizio Sanitario Nazionale, risoluzione anticipata del rapporto di lavoro, aumento del contenzioso del lavoro, riduzione della produttività ecc.), medico-psichiatrica e di gestione organizzativa, anche attraverso un’ottica comparata con esperienze straniere, quali la francese e la svedese, nazioni in cui la “cultura della lotta” al mobbing è assai più sviluppata. Nell’attuale scenario italiano del mercato del lavoro e della sua profonda trasformazione in termini di rapporti contrattuali flessibili e, quindi, percepiti come “meno tutelati”, il fenomeno del mobbing risulta in aumento. Si è deciso di dedicare un intero volume a questo tema per consentire una riflessione sul fenomeno e per permettere di affrontarlo con maggiore consapevolezza e conoscenza. Parlare di mobbing deve essere, sempre più, un modo di affrontare e soprattutto contrastare i comportamenti negativi che, nell’ambiente di lavoro, si traducono in attacchi alla dignità di chi lavora. Giuseppe Iannicelli INDICE EDITORIALE di Francesco Verbaro E E13 CAPITOLO1 Dottrina Il mobbing nell'ambiente di lavoro di Antonio Martone 19 Il fenomeno del mobbing e l'Unione europea di Maria Gentile 23 Il lavoro e la salute psichica di Michele Piccione 35 Il mobbing come patologia della relazione di Paolo Pappone 41 Le condizioni di lavoro del pubblico impiego in Italia di Francesco Verbaro 49 La proposta della Commissione Piccione e i Centri regionali per la diagnosi e la terapia dei disturbi correlabili al mobbing di Valentina Lostorto 55 Il mobbing e il sistema organizzativo di Luca Soda 67 Le esperienze regionali di Caterina Cordella 75 Le prime norme scritte sul mobbing nelle leggi regionali e nei contratti collettivi di Gianpiero Profeta 85 9 10 La proposta italiana e il quadro legislativo francese in tema di mobbing di Bartolo Gallitto EDIIALE91 Gli spazi della contrattazione collettiva nella disciplina del mobbing di Valerio Talamo 97 Il mobbing nel CCNL del personale del Comparto Ministeri 2002-2005 di Elvira Gentile 111 Bibliografia sul mobbing 119 CAPITOLO 2 Giurisprudenza Massime Tribunale di Tribunale di Tribunale di Tribunale di Tribunale di Tribunale di Tribunale di Tribunale di Tribunale di Tribunale di Tribunale di Tribunale di Tribunale di Milano, 4 maggio 2001 Pisa, 10 aprile 2002 Torino, 18 dicembre 2002 Forlì, 6 febbraio 2003 Lecce, ord. 31 agosto 2001 Venezia, 15 gennaio 2003 Forlì, 15 marzo 2001 Forlì, 15 marzo 2001 Como, 22 maggio 2001 Milano, 11 febbraio 2002 Milano, 20 maggio 2000 Taranto, 7 marzo 2002 Venezia, 26 aprile 2001 Sentenze massimate con testo integrale Corte di Cassazione, sezione lavoro, 22 febbraio 2003, n. 2763 Corte di Cassazione, sezione lavoro, 9 aprile 2003, n. 5539 Corte di Cassazione, sezione lavoro, 2 gennaio 2002, n. 10 Corte di Cassazione, sezione lavoro, 1 giugno 2002, n. 7967 Corte di Cassazione, sezione lavoro, 2 novembre 2001, n. 13580 Corte di Cassazione, sezione lavoro, 12 novembre 2002, n. 15868 127 128 129 129 130 131 132 132 132 133 133 134 134 135 142 148 160 168 174 Corte di Cassazione, sezione sesta penale, 12 marzo 2001, n. 10090 Corte di Cassazione, sezione lavoro, 19 gennaio 1999, n. 475 Tribunale di Roma, ord. 8 marzo 2002 Tribunale di Roma, ord. 4 luglio 2002 EDITRI181 186 196 199 CAPITOLO 3 Documentazione 11 Relazioni esplicative degli artt. 3, 5 e 6 della bozza di legge contro il mobbing 207 Interventi per la prevenzione e tutela delle lavoratrici e dei lavoratori da molestie morali e psicologiche nei luoghi di lavoro (Consiglio regionale del Veneto, progetto di legge n. 221) 214 L.R. 11 luglio 2002, n. 16. Disposizioni per prevenire e contrastare il fenomeno del mobbing nei luoghi di lavoro (Regione Lazio) 227 Contratto collettivo nazionale di lavoro relativo al personale del Comparto Ministeri per il quadriennio normativo 2002-2005 e biennio economico 2002-2003 (estratto) 232 Direttiva 2002/73/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 settembre 2002 che modifica la direttiva 76/207/CEE del Consiglio relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro 239 Risoluzione A5-0283/2001 del Parlamento europeo del 20 settembre 2001 in tema di mobbing sul posto di lavoro 252 Decreto legislativo n. 215/03 del 9 luglio 2003 recante attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica 257 12 Relazione al decreto legislativo attuativo della direttiva 2000/43/CE 263 Decreto legislativo n. 216/03 del 9 luglio 2003 recante attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro 269 Relazione al decreto legislativo attuativo della direttiva 2000/78/CE 275 EDITORIALE 13 EDITORIALE 15 L’attenzione che le pubbliche amministrazioni stanno dedicando in maniera crescente alla gestione delle risorse umane non può ormai trascurare tutti quegli aspetti che attengono alla dimensione della salute fisica e psichica del lavoratore. Il rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni è stato oggetto prevalentemente di riflessioni attinenti gli aspetti giuridici ed economici, spesso in chiave autoreferenziale, ponendo scarso rilievo agli aspetti relativi alla persona, alla motivazione e al benessere fisico e psichico. Stranamente è sembrato che il lavoro nel “settore pubblico” fosse di per sé gratificante e tale, per il basso impegno e la sicurezza del rapporto, da poter sacrificare temi come, ad esempio, il mobbing o altre forme di violenza e discriminazione. Il numero di questa rivista affronta la questione sotto molteplici aspetti: normativo, giurisprudenziale, sociologico, psicologico, amministrativo e contrattuale. Il fenomeno, richiamato sempre più frequentemente dagli organismi internazionali quali l’OIL, l’OMS e l’UE, richiede infatti una riflessione approfondita che prenda in considerazione, tra l’altro, le caratteristiche del lavoro e dell’ambiente di lavoro nelle pubbliche amministrazioni. La tutela alla salute del lavoratore emerge come diritto fondamentale in tutte le sue componenti fondamentali, fisiche e psichiche, richiedendo una serie di attenzioni e interventi ad ampio raggio che sono rilevanti, contrariamente a quanto si possa pensare, anche dal punto di vista dell’efficienza e dell’efficacia delle amministrazioni. Affrontato in una logica di prevenzione, prima ancora che di sanzione, il mobbing costringe a ripensare il modo di gestire il capitale umano, ad eliminare i fattori di incertezza e di precariato nell’ambiente di lavoro, a porre attenzione al benessere organizzativo in generale. Tutti elementi questi EDITORIALE 16 che incidono sul benessere psichico del personale, ma anche sulla motivazione e sulla produttività. Non stiamo parlando di violenza psichica che, come vedremo in alcuni interventi, trova già forme sufficienti di tutela, ma di condizioni ambientali, come la mancanza di trasparenza e di motivazione nelle politiche del personale o la scarsa attenzione, in termini di benessere organizzativo, all’impatto sul personale delle riforme istituzionali. Ciò che emerge con interesse è che proprio nel lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, considerato stabile e sicuro, si registrano in Italia i maggiori casi di mobbing, dato che ci porta a porre maggiore attenzione alle ripercussioni delle riforme sul personale. La riflessione sul tema, pertanto, si inserisce a pieno titolo nel filone di ricerca, in cui questa rivista si colloca, che ha come obiettivo quello di “ripensare il lavoro pubblico” non solo dal punto di vista normativo, ma, come ci ha insegnato il maestro ed amico Ubaldo Poti, ponendo al centro di ogni ragionamento, e quindi dell’amministrazione, il lavoratore e il suo benessere. Francesco Verbaro Direttore dell’ufficio per il personale della P.A. Dipartimento della Funzione Pubblica CAPITOLO 1 DOTTRINA 17 DOTTRINA Il mobbing nell’ambiente di lavoro di Antonio Martone* 19 1. In questi ultimi anni il fenomeno del mobbing, in particolare negli ambienti di lavoro, richiama sempre più frequentemente l’attenzione della pubblicistica (anche non specializzata), della dottrina giuridica e delle forze sociali. Da ultimo, poi, non sono rari i casi in cui tale fenomeno viene posto a fondamento di rivendicazioni di vario tipo avanzate in sede giurisdizionale. L’eco di questa situazione si è avuta anche in sede parlamentare. Già nel corso della passata legislatura erano state avanzate in materia diverse proposte di legge. La difficoltà di elaborare una soddisfacente definizione giuridica del fenomeno e quella di individuare adeguate forme di prevenzione e di repressione avevano, peraltro, impedito di pervenire all’approvazione definitiva di un testo unitario. Non si può dire tuttavia che il dibattito svoltosi in quella sede sia stato inutile: nei primi mesi della nuova legislatura sono state presentate, infatti, numerose proposte di legge (v., in particolare, le n. 422, 870, al Senato e le n. 581, 1128, 2040, 2143 alla Camera, oltre la n. 596 incentrata però sulle molestie sessuali), che, per molti aspetti ripropongono le soluzioni cui si era pervenuti in occasione del precedente dibattito parlamentare. In questo quadro, con la presente relazione, si tenterà di inquadrare il fenomeno nel nostro sistema e di indicare le possibili soluzioni sul piano normativo. 2. La definizione è uno dei problemi più delicati perché si tratta di trasferire nei rapporti di lavoro, qualificandola giuridicamente, una nozione elaborata in altri settori e con riferimento alle diverse collettività di cui l’individuo, volontariamente o meno, entra a far parte (credo che ognuno di noi possa rintracciare già tra i ricordi della propria infanzia diffusi *Presidente della Commissione di Garanzia sul Diritto di Sciopero. DOTTRINA 20 atteggiamenti lato sensu persecutori o comunque volti ad isolare un singolo alunno nell’ambito della scuola). Si deve considerare, inoltre, che, contrariamente ad altre fattispecie, il mobbing non riguarda (o non riguarda soltanto) il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore, quanto piuttosto il modo e le forme d’inserimento di quest’ultimo nella collettività di lavoro. E se è vero che nell’organizzazione aziendale (anche non complessa) il c.d. “superiore gerarchico” esercita nei confronti del sottordinato una frazione del potere direttivo e di quello disciplinare che sono propri del datore di lavoro, ciò non esclude che alla determinazione della situazione di isolamento (con conseguente pregiudizio dell’autostima) possano concorrere non soltanto “i superiori o i pari grado” ma, per la forza del collettivo, tutti i componenti dell’organizzazione aziendale, anche se, è evidente che il “sovraordinato” può incidere maggiormente (e, forse, anche, da solo) a determinare il fenomeno in esame. Sotto altro profilo, attesa la possibilità di ricorrenti contrasti interindividuali nell’ambito di un gruppo, non ogni atteggiamento persecutorio o di sopraffazione può determinare la fattispecie. Alla luce di queste considerazioni sembra, pertanto, si possa concludere individuando l’elemento qualificante della fattispecie nell’esistenza di una situazione, derivante da una serie di atti e comportamenti ingiustificati degli appartenenti alla comunità di lavoro, tale da incidere o poter incidere negativamente sull’immagine che il lavoratore ha di sé e nei confronti della collettività, con conseguenze anche sull’integrità psicofisica. 3. Quanto ora osservato rende agevole individuare il fondamento normativo primario nel riconoscimento del diritto alla salute di cui all’art. 32 della Costituzione. Non è un caso, d’altra parte, che la “vicenda del mobbing” si sia sviluppata parallelamente al riconoscimento, essenzialmente ad opera della giurisprudenza della Cassazione, accanto alla tradizionale distinzione tra danno patrimoniale e danno morale, del danno biologico e, da ultimo, di quello esistenziale che egualmente fanno riferimento al ricordato principio costituzionale. La particolare rilevanza che il mobbing assume poi nel rapporto di lavoro, deriva dalla circostanza che, unico tra i rapporti obbligatori a contenuto patrimoniale, tale rapporto coinvolge la persona stessa del lavoratore. Ed è proprio per questa ragione che, ancor prima che alla Costituzione, può farsi riferimento all’art. 2087 del cod. civ. nella parte in cui prescrive che DOTTRINA “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure ... necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro”. Nella sua formulazione letterale la norma non poteva non rispecchiare le nozioni del tempo; ciò non esclude, peraltro, che lo schema logico, adottato in ordine alla individuazione della responsabilità del datore di lavoro per la situazione ambientale in cui il lavoratore è chiamato ad operare, possa trovare puntuale applicazione anche al fenomeno in esame. Così, come nel caso dell’infortunio causato da una negligente condotta del collega di lavoro, il datore è chiamato a rispondere se non ha adottato, anche in via preventiva, le adeguate misure di controllo e di prevenzione (fino a sanzionare in sede disciplinare il lavoratore inadempiente). Ad analoga conclusione si deve pervenire nel caso di condotte riconducibili al mobbing, le cui conseguenze, in termini meno “moderni”, ben possono essere qualificate come lesioni della “personalità morale” tutelata appunto dal citato art. 2087. Conferma di questo collegamento può trarsi anche dalla costatazione che ormai si tende a ravvisare nelle conseguenze del mobbing una forma di malattia professionale non tabellata, ma non per questo non riconducibile al lavoro prestato, in presenza della rigorosa prova del relativo nesso causale. 4. II mobbing, come si è già osservato, costituisce la risultante di una serie di atti e di comportamenti dei diversi componenti della collettività di lavoro che, anche considerati isolatamente, possono rivelarsi illegittimi. Ma il mobbing richiede al tempo stesso qualcosa in meno e qualcosa in più. Una sanzione disciplinare o un trasferimento privi di giustificazione sono di per sé annullabili e, se attuati con finalità discriminatorie ai sensi dell’art. 15 dello Statuto dei lavoratori, nulli, ma non sono sufficienti a integrare la fattispecie in esame. Al contrario, la serie di atti e comportamenti che determinano, secondo quanto prima indicato, la situazione ambientale potenzialmente lesiva del lavoratore nella quale si è individuato il mobbing, possono, isolatamente considerati, non contrastare con singole disposizioni legislative (soprattutto se provenienti da semplici colleghi di lavoro). Ne deriva, sotto un primo aspetto, la rilevanza di una attività preventiva volta ad assicurare “un sano ambiente di lavoro” per la realizzazione della quale può rivelarsi indispensabile una partecipazione attiva delle rappresentanze dei lavoratori (che, come nel caso delle molestie sessuali può rivelarsi determinante sia per stimolare un corretto atteggiamento dei 21 DOTTRINA 22 colleghi di lavoro sia per evitare in caso di denuncia eventuali ritorsioni). Più complesso è il problema della sanzionabilità dei singoli atti e comportamenti non altrimenti vietati. In primo luogo perché si tratterebbe di introdurre a livello legislativo una causa di annullabilità fondata su di un non dichiarato motivo illecito di cui, da un lato, sarebbe estremamente difficile fornire la prova e che, dall’altro, potrebbe essere strumentalmente invocato per contestare ogni atto di gestione del rapporto di lavoro. Né ad evitare fenomeni di questo tipo sembra idonea, perché difficilmente praticabile, la previsione di una responsabilità disciplinare di chi abbia denunciato, per trarne vantaggio, fatti e comportamenti inesistenti. Probabilmente un richiamo ai doveri di correttezza e buona fede che incombono su tutti i partecipanti alla comunità di lavoro, potrebbe rivelarsi una soluzione più praticabile. E ciò a prescindere dalla eventuale rilevanza penale sia della denuncia di fatti inesistenti o non provati, che, per altro verso, del concorso nel determinare una situazione che, in quanto lesiva della integrità fisica del lavoratore, può integrare ipotesi di reato. 5. Le considerazioni ora sinteticamente svolte, dimostrano la difficoltà di una analitica disciplina legislativa. C’è da chiedersi, pertanto, se, pur in presenza della indubbia rilevanza sociale del fenomeno, la tutela, anche sotto questo profilo, del lavoratore non possa essere affidata all’applicazione giurisprudenziale di norme e istituti già esistenti nel nostro ordinamento. DOTTRINA Il fenomeno del mobbing e l’Unione europea di Maria Gentile* 23 1. L’interesse per il mobbing è nato in Svezia e, grazie ad un gruppo di studiosi, coordinati e diretti dallo psicologo tedesco prof. Heinz Leymann, è stato teorizzato un fenomeno di cui si avvertiva inconsapevolmente la presenza nel mondo del lavoro. Nei primi anni Ottanta, uno studio condotto sulle condizioni psicofisiche di alcuni soggetti, in cura per problemi psicologici, e che avevano tutti incontrato delle difficoltà sull’ambiente di lavoro, ha consentito, attraverso un esame dei suoi effetti, di individuare le cause del fenomeno in questione. Nel 1984 si è avuta la prima pubblicazione scientifica con la quale è stato formalizzato l’uso del termine mobbing, quale forma di vessazione esercitata nell’ambito lavorativo ed il cui risultato è l’estromissione della vittima dal mondo del lavoro. In tale occasione, la parola mobbing fu utilizzata per indicare quella forma di “comunicazione ostile ed immorale diretta in maniera sistematica da uno o più individui verso un altro individuo che si viene a trovare in una posizione di mancata difesa” (Leymann). In breve, tale nozione ha avuto modo di diffondersi in buona parte del contesto europeo, in special modo in Germania, Francia e Regno Unito, Paesi ad economia avanzata, ed ovviamente negli Stati Uniti ed in Australia, parimenti con un sistema economico progredito, tutti Paesi dotati di una legislazione sulla protezione dei lavoratori dipendenti. Di contro, nel contesto italiano, il fenomeno ha cominciato ad assumere rilevanza solo più tardi e soprattutto grazie agli studi condotti da Harald Ege. L’utilizzo di un termine di derivazione anglosassone (to mob, significa prendere d’assalto collettivamente qualcuno, ovvero assalirlo con violenza) è sembrato il modo più opportuno per definire il processo in esame. Si tratta *Docente presso la Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze. DOTTRINA 24 di un termine di largo uso in etologia per descrivere il comportamento aggressivo di un animale del branco nei confronti di un altro membro del gruppo o capo isolato per allontanarlo. Il termine to mob deriva, a sua volta, dall’espressione latina mobile vulgus, che indica il movimento della gentaglia che aggredisce qualcuno. Nella sua sinteticità la locuzione inglese è apparsa in grado di descrivere quelle particolari forme di degenerazione dei rapporti interpersonali nell’ambito lavorativo, le quali si concretizzano in una sorta di aggressione sistematica posta in essere nei confronti di un soggetto, direttamente dal datore di lavoro o dai suoi preposti o anche da colleghi della vittima medesima, che provocano un progressivo disadattamento lavorativo di quest’ultima (Matto). Con tale fenomeno siamo in presenza di una vera e propria forma di molestia morale realizzata nei luoghi di lavoro, ovvero di un terrore psicologico sul posto di lavoro o, ancora, di vittimizzazione psico-sociale sul lavoro – in Francia il fenomeno è denominato harcelement moral. La caratteristica comune alle sopradefinite condotte, nella stragrande maggioranza dei casi, è quella di essere perpetrata con chiari intenti discriminatori e persecutori, protesi ad emarginare progressivamente un determinato lavoratore nell’ambiente di lavoro e a indurlo alle dimissioni, per ragioni di concorrenza, gelosia, invidia o di altro comportamento o sentimento socialmente deprecabile suscitato in un animo perverso dalla convivenza nell’ambiente di lavoro od occasionato dallo svolgimento dell’attività lavorativa (Meucci). I mobbers, o soggetti agenti, possono essere i più vari: nel caso del c.d. mobbing verticale, definito anche bossing, potrà trattarsi sia del soggetto immediatamente sovraordinato al lavoratore che subisce l’aggressione – quest’ultimo prende il nome di “mobbizzato”– , sia dello stesso datore di lavoro o titolare dell’impresa. Nel caso del c. d. mobbing orizzontale, al contrario, le condotte mobbizzanti sono tenute da colleghi pariordinati alla vittima – non si esclude, tuttavia, la possibilità che la persecuzione in danno di un lavoratore avvenga anche ad opera di un gruppo compatto di subalterni, ossia soggetti che svolgono mansioni inferiori rispetto al mobbizzato – Tale situazione viene da alcuni indicata come “mobbing ascendente”. È noto come sia difficile fornire una definizione univoca di mobbing, a causa soprattutto delle diverse finalità perseguite dalle varie scienze che si sono finora accostate al fenomeno; d’altra parte, è incontrovertibile come l’analisi di tale fenomeno imponga uno sforzo interdisciplinare. Si diceva che il dibattito sul mobbing nel contesto internazionale ha preso avvio già dai primi anni Ottanta; in primo luogo la Svezia, sin dal 1977, DOTTRINA sebbene il provvedimento sia entrato in vigore nel 1994, ha emanato un’Ordinanza sull’ambiente di lavoro che precisa le misure da adottare contro forme di violenza psicologica. I casi di mobbing nel tempo sono sensibilmente cresciuti, in maniera direttamente proporzionale all’espandersi delle organizzazioni di lavoro post-fordiste. Il Parlamento europeo ha preso atto di tale fenomeno ed ha assunto, in data 20 settembre 2001, la Risoluzione A5-0283/2001 avente ad oggetto “Il mobbing sul posto di lavoro”. 2. Al riguardo, in primo luogo, occorre precisare che le risoluzioni rientrano nella categoria degli atti atipici emanati dalle istituzioni comunitarie, ossia atti non vincolanti, che non rientrano tra quelli elencati nell’art. 249 del Trattato CE, ma che sono sempre più frequentemente utilizzati dalle istituzioni comunitarie. In particolare, le risoluzioni, più frequentemente emanate dal Consiglio, contengono il punto di vista dell’istituzione emanante su determinate questioni oggetto di intervento comunitario. L’interesse comunitario per il fenomeno in argomento discende direttamente dall’art. 2 del Trattato che costituisce la Comunità Europea, modificato dal Trattato di Amsterdam del 1997 si ricorda che la CE è, quale primo pilastro, una parte dell’Unione europea. Tale articolo recita: “La Comunità [l’UE] ha il compito di promuovere nell’insieme della Comunità (...) uno sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche, un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, la parità tra uomini e donne, una crescita sostenibile e non inflazionistica, un alto grado di competitività e di convergenza dei risultati economici, un elevato livello di protezione dell’ambiente e il miglioramento della qualità di quest’ultimo, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà tra gli Stati membri”. La politica sociale è responsabilità precipua degli Stati membri. Conformemente al principio di sussidiarietà – previsto dall’art. 5 del Trattato CE e secondo il quale la Comunità interviene in quei settori che non sono di sua esclusiva competenza solo quando la sua azione è considerata più efficace di quella intrapresa a livello nazionale, regionale o locale, senza andare oltre quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi fissati (c.d. principio di proporzionalità) –, l’Europa si occupa soltanto delle questioni per le quali una soluzione a livello di UE appare più opportuna. Sinora l’UE ha fissato soltanto standard minimi e diritti di minima. Gli Stati membri possono quindi adottare norme e regolamenti che vanno al di là delle disposizioni sociali europee. 25 DOTTRINA 26 I principali compiti della politica sociale europea sono descritti nell’articolo 136 del Trattato CE: “La Comunità [l’UE] e gli Stati membri (...) hanno come obiettivi la promozione dell’occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro che consenta la loro parificazione nel progresso, una protezione sociale adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello occupazionale elevato e duraturo e la lotta contro l’emarginazione”. Il Trattato di Amsterdam, che è stato concordato nel 1997 ed è entrato in vigore nel maggio 1999 ha costituito un’importante svolta nella politica occupazionale e sociale dell’Europa. Esso ha introdotto diversi nuovi compiti per la politica sociale europea. Ad esempio, l’UE può ora intraprendere azioni per lottare contro la discriminazione o per aiutare le persone emarginate a trovare il loro ruolo nella società, rispecchiando così l’impegno di realizzare una società integrata. Il Trattato di Amsterdam ha, inoltre, conferito alla politica occupazionale e sociale una dimensione veramente europea. Nel corso degli anni Novanta la maggior parte delle misure dell’UE in materia di politica sociale si basavano sull’accordo sulla politica sociale allegato in forma di protocollo al Trattato dell’UE del 1992, nonché sulla Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori adottata dai capi di Stato e di governo nel 1989. I diritti fondamentali dei lavoratori proclamati dai governi comprendevano la protezione della salute e della sicurezza sul lavoro, la formazione, nonché la parità di trattamento tra gli uomini e le donne. Mentre la Carta non era un documento legalmente vincolante, l’accordo sulla politica sociale assicurava che l’UE fosse in grado di intraprendere azioni negli ambiti sociali coperti dalla Carta. Tuttavia, il Regno Unito non aveva sottoscritto né la Carta né l’Accordo sulla politica sociale. Conseguentemente, parte della normativa dell’UE in campo sociale era applicabile in soli 14 dei 15 Stati membri. Il Trattato di Amsterdam ha posto fine a questa diversità nello sviluppo della politica sociale dell’UE. L’accordo è ora parte integrante del Trattato e le sue disposizioni si applicano senza distinzione a tutti gli Stati membri. Tutti i cittadini dell’UE possono ora rifarsi alla normativa sociale adottata dall’UE negli anni Novanta ed applicata retroattivamente anche al Regno Unito. Riguardo alle politiche sociali occorre, infine, ricordare l’art. 3 del Trattato CE che stabilisce: “L’azione della Comunità [dell’UE] (...) mira ad eliminare le ineguaglianze, nonché a promuovere la parità, tra uomini e donne”, nonché l’art. 13 dello stesso Trattato, secondo il quale l’UE può prendere provvedimenti per “combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali”. DOTTRINA 3. Passando ad esaminare il contenuto della Risoluzione del Parlamento di Strasburgo del 20 settembre 2001, in primo luogo, è da dire che essa è stata preceduta da una relazione del 24 ottobre 2000 dal titolo “Modernizzare l’organizzazione del lavoro – Un atteggiamento positivo nei confronti dei cambiamenti”, della Commissione congiunta sull’occupazione e dell’Agenda per la politica sociale e dalla relazione della Commissione per l’occupazione e gli affari sociali e dal parere della Commissione per i diritti della donna e le pari opportunità. I dati statistici sono stati raccolti dalla Fondazione di Dublino (Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro) sulla base di un sondaggio tra 21.500 lavoratori nel corso di 12 mesi, che ha dato il seguente risultato: l’8% dei lavoratori dell’Unione europea, pari a 12 milioni di persone, è stato vittima di mobbing sul posto di lavoro. La Fondazione ha ritenuto il dato notevolmente sottostimato. La relazione offre particolari spunti di riflessione; i risultati della ricerca svolta presentano sensibili variazioni tra gli Stati membri, ma ciò sarebbe dovuto “al fatto che in alcuni Paesi soltanto pochi casi vengono dichiarati, che in altri la sensibilità verso il fenomeno è maggiore e che esistono differenze tra i sistemi giuridici nonché differenze culturali, che la precarietà dell’impiego costituisce una delle cause principali dell’aumento della frequenza di suddetti fenomeni”. Nella relazione si legge ancora: “la Fondazione di Dublino rileva che le persone esposte al mobbing subiscono uno stress notevolmente più elevato rispetto agli altri lavoratori in generale e che le molestie costituiscono dei rischi potenziali per la salute che spesso sfociano in patologie associate allo stress; che i dati nazionali sul mobbing nella vita professionale, disaggregati per generi, non offrono, secondo l’Agenzia, un quadro uniforme della situazione”. Sempre secondo lo studio in esame, il fenomeno del mobbing è stato, negli ultimi anni, favorito da una vita professionale sempre più competitiva ed in presenza di ridotta sicurezza della conservazione del posto di lavoro. Tali problemi sono ancor più evidenti in ambienti di lavoro scarsamente organizzati, con carenze di informazione, che si traducono col tempo a riversare le tensioni e la incapacità del gruppo a gestire l’attività su un individuo ben determinato che diviene così il “capro espiatorio”. Tutto ciò si risolve in situazioni gravi sia per il singolo dipendente che per l’impresa. La Commissione pari opportunità rammenta ancora come l’ampliarsi di lavori precari, contratti a termine, soprattutto tra le donne, crea un clima adatto al proliferare di varie forme di molestie. Le conseguenze a cui giunge lo studio e conseguentemente la risoluzione in esame sono quelle già rammentate: 27 DOTTRINA 28 danni alla salute dei lavoratori e alle loro famiglie, disgregazione del tessuto sociale, espulsione dei lavoratori dal contesto lavorativo e conseguente emarginazione. Un’ulteriore riflessione è degna di essere menzionata: secondo la Commissione, una forma di mobbing è anche la falsa denuncia di mobbing, questo è significativo di quanto il fenomeno sia denso di problematiche. Ciò premesso, il Parlamento europeo, al punto 2 della Risoluzione, in primo luogo, richiama l’attenzione degli Stati membri dell’Unione sul fatto che l’aumento dei contratti a termine e, più in generale, della precarietà del lavoro, favorisce la pratica di diverse forme di molestia, dando finalmente voce alle opinioni di diversi studiosi che ritengono che “la flessibilità esasperata forse è uno strumento di efficienza economica, ma probabilmente non costituisce un valore sul piano organizzativo ed è sicuramente dannosa su quello esistenziale” (Viscomi). In secondo luogo, nella Risoluzione si afferma che senz’altro concorre notevolmente a creare un ambiente di lavoro, favorevole allo sviluppo del mobbing, la estrema competitività tra i lavoratori, il cui interesse collettivo è stato sempre più frammentato dalla volontà, o meglio dalla necessità, di molti di loro di vedere “stabilizzato” il proprio rapporto di lavoro, a scapito semmai di quello del collega di reparto o di ufficio. Tale competizione tra dipendenti viene in parte imposta dalle moderne organizzazioni della produzione, le quali hanno comportato una distribuzione orizzontale del potere, in particolare di quello direttivo, attraverso la costituzione di gruppi autonomi di lavoro e l’imposizione di sistemi di qualità totale. I considerando E e F della Risoluzione sottolineano dunque l’esistenza di “un chiaro nesso tra, da una parte, il fenomeno del mobbing nella vita professionale e, dall’altra, lo stress o il lavoro ad elevato grado di tensione, l’aumento della competizione, la riduzione della sicurezza dell’impiego nonché l’incertezza dei compiti professionali [e] le carenze a livello di organizzazione lavorativa, di informazione interna e di direzione”. Del resto, una organizzazione “razionale” del lavoro ha interesse a che non si verifichino fenomeni di mobbing al suo interno perché essi certamente mettono a rischio il suo buon funzionamento. Possono però esistere delle eccezioni a questa regola, perché in taluni contesti lavorativi il mobbing può anche rappresentare una vera e propria strategia direttiva avente finalità o di ridurre il personale senza dovere sottostare alle norme sui licenziamenti, ovvero di governare l’azienda sedando con brutalità lo spirito critico dei dipendenti, senza che questo peraltro comporti necessariamente anche l’ulteriore intenzione di allontanare uno o più di essi, ma, al contrario, vi sia quella di trattenerli, a condizione che accettino senza protestare ogni DOTTRINA richiesta proveniente dalla direzione dell’impresa. Nella Risoluzione, il Parlamento manifesta l’impellente necessità di intervenire per combattere il fenomeno del mobbing in ogni modo, evitando, prima di tutto, che esso si manifesti e, perciò, operando principalmente nella direzione della prevenzione. L’assoluta prevalenza della sensibilizzazione sul tema della prevenzione, quando si tratta della salute dei lavoratori, non può, infatti, essere messa in discussione. La prevenzione del mobbing può essere attuata soprattutto attraverso la procedimentalizzazione dell’esercizio dei poteri imprenditoriali; a tale considerazione bisogna aggiungere, come sottolineato nel punto 21 della Risoluzione, che “il mobbing comporta altresì conseguenze nefaste per i datori di lavoro per quanto riguarda la redditività e l’efficienza economica dell’impresa a causa dell’assenteismo che esso provoca, della riduzione della produttività dei lavoratori indotta dal loro stato di confusione e di difficoltà di concentrazione”. Tale argomentazione del Parlamento europeo, ovviamente, è utilizzata come un motivo aggiuntivo, e non è certo la ragione principale, per voler sconfiggere un fenomeno potenzialmente così grave per la salute dei lavoratori. L’esperienza passata ha dimostrato come la procedimentalizzazione dei poteri sia sicuramente una delle strade più efficaci per consentire di controllare il corretto esercizio di essi. Ai fini della prevenzione dei fenomeni che possono causare problemi alla salute dei lavoratori, la procedimentalizzazione può essere effettuata sia per via legale (direttiva quadro per la salute e la sicurezza sul lavoro 89/391/CEE), sia per via contrattuale, soprattutto attraverso l’imposizione di sistemi di controllo delle condizioni ambientali a carico di soggetti esterni, sistemi che possono essere fissati e regolati, in special modo, dalla contrattazione collettiva. Per quanto riguarda la procedimentalizzazione per via legislativa, da più parti, viene sentita l’esigenza di intervenire sul tema attraverso leggi specifiche. Tale necessità è avvertita in tutti i Paesi dell’Unione anche perché le legislazioni in materia di prevenzione e repressione del mobbing sono scarse. Nei punti 8 e 24 della Risoluzione il Parlamento europeo ha esortato la Commissione, quale organo con funzione, in via esclusiva, di proposta, nonché di iniziativa normativa, “(...) ad attribuire importanza a misure di miglioramento dell’ambiente lavorativo che siano lungimiranti, sistematiche e preventive, finalizzate tra l’altro a combattere il mobbing sul posto di lavoro e a valutare l’esigenza di iniziative legislative in tal senso [e...] a presentare, entro il marzo 2002, un libro verde recante un’analisi dettagliata della situazione relativa al mobbing sul posto di lavoro in ogni Stato membro e, 29 DOTTRINA 30 sulla base di detta analisi, a presentare successivamente, entro l’ottobre 2002, un programma d’azione concernente le misure comunitarie contro il mobbing sul posto di lavoro”. Al punto 12 della Risoluzione stessa, il Parlamento europeo ha, inoltre, raccomandato “agli Stati membri di imporre alle imprese, ai pubblici poteri nonché alle parti sociali l’attuazione di politiche di prevenzione efficaci, l’introduzione di un sistema di scambio di esperienze e l’individuazione di procedure atte a risolvere il problema per le vittime e ad evitare sue recrudescenze; raccomanda, in tale contesto, la messa a punto di un’informazione e di una formazione dei lavoratori dipendenti, del personale di inquadramento, delle parti sociali e dei medici del lavoro, sia nel settore privato che nel settore pubblico”. Al riguardo si è sostenuto che, senza bisogno di attendere l’emanazione di una normativa specifica, sia già possibile sviluppare una strategia di tipo preventivo contro il mobbing, servendosi degli strumenti normativi già presenti nel nostro ordinamento. In particolare, ci si riferisce al d. lgs. n. 626 del 1994, che attuando le numerose direttive comunitarie in materia costituisce la normativa quadro in tema di sicurezza e di salute dei lavoratori sul luogo di lavoro. Ad esempio, la figura del medico competente, di cui agli artt. 16 e seguenti, ai quali è demandata la sorveglianza sanitaria in azienda nei casi previsti dalla normativa vigente, potrebbe assumere un ruolo importante in una strategia integrata di difesa contro il mobbing. Tra le misure generali di tutela deve essere collocata pure la lett. f) del comma 1 dell’art. 3, a mente della quale il datore di lavoro deve rispettare i principi ergonomici nella concezione dei posti di lavoro, nella scelta delle attrezzature e nella definizione dei metodi di lavoro e produzione, anche al fine di attenuare il lavoro monotono e ripetitivo. Parimenti significativo è l’art. 4, commi 1 e 2, che pone in capo al datore di valutare i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, redigendo al riguardo un apposito documento nel quale indicare anche le idonee misure di prevenzione. Considerando, infatti, che ai fattori di ordine psicologico, sociale e organizzativo concernenti l’ambiente di lavoro va riconosciuta la stessa importanza attribuita normalmente ai soli profili strettamente tecnici, ci si potrebbe interrogare sulla possibilità di ricomprendere fra i rischi, che il datore è tenuto a valutare e a prevenire, anche il mobbing, quale particolare situazione di rischio legata al contesto lavorativo, che si affianca ai “pericoli” classicamente intesi derivanti da macchine, impianti, agenti fisici, chimici e biologici. In questa prospettiva potrebbero anche risultare funzionali gli artt. 19, 21 e 22 del decreto, che pongono in capo al datore di lavoro obblighi informativi e formativi in favore dei propri dipendenti e dei rappresentanti DOTTRINA per la sicurezza in azienda; le informazioni e la formazione nei confronti dei citati soggetti potrebbero concernere anche i rischi relativi al mobbing e le corrispondenti misure di prevenzione; ciò consentirebbe di condurre un’efficace attività di sensibilizzazione sul fenomeno nei luoghi di lavoro. In un’ottica preventiva è stato auspicato anche l’intervento della contrattazione collettiva; le parti sociali hanno preso atto di tale esigenza, tant’è che nell’ipotesi di CCNL relativo al personale del comparto ministeri per il quadriennio 2002-2005, già siglata ed attualmente all’esame della Corte dei Conti, si prevede, nell’ambito delle forme di partecipazione (Capo II, art. 6), l’istituzione di un Comitato paritetico sul fenomeno del mobbing presso ciascuna amministrazione. 4. Il mobbing sul posto di lavoro è chiaramente collegato con la discriminazione e le molestie sessuali sul lavoro, due settori in cui l’Unione ha già intrapreso iniziative. La direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, c.d. direttiva sulla vita lavorativa, indica cosa si intende rispettivamente per discriminazione diretta e indiretta e molestie. Ai sensi della citata direttiva sussiste discriminazione diretta quando, sulla base della religione o delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o delle tendenze sessuali, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga. Sussiste, invece, discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone. Sussistono alcune deroghe in relazione a quanto sopra sulla discriminazione indiretta. Sempre in base alla direttiva 2000/78, le molestie sono da considerarsi una discriminazione in caso di comportamento indesiderato adottato sulla base della religione o delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o delle tendenze sessuali e avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo. In questo contesto, il concetto di molestia può essere definito conformemente alle leggi e prassi nazionali degli Stati membri. Al riguardo si osserva che il 23 settembre 2002 è stata adottata la direttiva 2002/73/CE, di modifica della direttiva 76/207/CE, relativa all’attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, 31 DOTTRINA 32 alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro. Tale direttiva introduce rilevanti modifiche nel testo della direttiva 76/207/CEE; in particolare, introduce con il nuovo articolo 2 le definizioni di “discriminazione diretta”, “discriminazione indiretta”, “molestie” e “molestie sessuali”. La distinzione tra discriminazione diretta e indiretta, appena accennata nella direttiva del 1976, viene mutuata dalle direttive 2000/43/CE, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, e dalla citata direttiva 2000/78/CE, le molestie e le molestie sessuali vengono considerate discriminazioni fondate sul sesso e pertanto vietate. Nel nostro ordinamento le due direttive da ultimo citate sono in corso di recepimento sulla base della delega conferita dalla legge n. 39 del 2002, legge comunitaria 2001, mentre l’art. 15 del ddl comunitaria 2003 (AC 3618) reca una delega al Governo per 1 il recepimento della più recente direttiva 2002/73/CE. . Particolare rilievo assume lo schema di d. decreto legislativo che recepisce la direttiva 2000/78/CE; infatti, l’art. 2 dello schema, rubricato “Nozione di discriminazione”, al comma 3, introduce nell’ordinamento nazionale la nozione di mobbing, individuata nell’attuazione di molestie o di comportamenti indesiderati con lo scopo e l’effetto di violare la dignità personale creando un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo. Tale comportamento viene considerato discriminatorio e pertanto suscettibile di tutela ai sensi dell’art. 4 dello stesso schema, che disciplina la tutela giurisdizionale dei diritti, apportando una modifica all’art. 15 della legge n. 300 del 1970, cd. Statuto dei lavoratori, in maniera da rendere nulli anche gli atti e i patti diretti a discriminare il lavoratore per motivi di handicap, di età, di tendenze sessuali o di convinzioni personali (comma 1) e prevedendo, altresì, che la tutela giurisdizionale avverso gli atti discriminatori si svolga “nelle forme previste dall’articolo 44 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286” – testo unico delle leggi sull’immigrazione – (comma 2 dello schema). Devesi, tuttavia, aggiungere al riguardo che, nel corso dell’esame dello schema in argomento da parte della XI Commissione permanente della Camera dei D eputati, il relatore ha richiamato l’attenzione sulla disposizione da ultimo citata, che introduce nell’ordinamento italiano il concetto di mobbing, ritenendo che la definizione sia in contraddizione con i criteri di delega contenuti nella legge n. 39 del 2002 e nel disegno di legge comunitaria 2003 all’esame 1 Nella sezione dedicata alla Documentazione, pag. 269, è pubblicato il testo definitivo del decreto legislativo di recepimento della direttiva 2000/78/CE DOTTRINA dell’Assemblea. Infatti, sostiene il parlamentare, in entrambi i casi, i criteri di delega specificano che le molestie devono essere considerate discriminazioni se vengono posti in essere comportamenti indesiderati che persistono anche quando sono stati dichiarati inequivocabilmente dalla persona che li subisce come offensivi e lesivi della dignità personale. Poiché il termine “molestie” potrebbe far pensare a qualunque tipo di comportamento non gradito al soggetto destinatario, ritiene il relatore medesimo che un legislatore garantista dovrebbe riformulare la definizione contenuta nel citato comma 3 dell’art. 2 dello schema. 33 DOTTRINA Il lavoro e la salute psichica di Michele Piccione* 35 1. Nella Costituzione della Repubblica Italiana si legge all’art. 1: “Principi fondamentali: L’Italia è una Repubblica Democratica fondata sul Lavoro”. Perché sul lavoro e non sulla libertà, eguaglianza e fraternità o sulla felicità o su tanti altri valori non solo di principio, ma anche di fatto? Perché il lavoro nella sua accezione sociale, pratica e psicologica le comprende tutte. Non c’è infatti libertà, eguaglianza, fraternità, felicità se non c’è lavoro. Questo gigante esistenziale è l’alleato speciale di ogni cittadino, di ogni piccolo uomo che da solo ed in comunione con gli altri è in grado di costruire e distruggere, amare ed odiare, vivere e morire. La vera grande differenza tra l’uomo e l’animale consiste nella capacità del primo (l’uomo) di informare e proporre agli altri e ai suoi successori, le proprie esperienze. È questa l’essenza del lavoro, è questa l’essenza del progresso, è questa l’essenza del divino nel mondano. Questa è la metafora di Cristo, figlio di Dio che pur potendo nascere con un padre putativo come Erode, ed evitare così una strage, viene affidato ad un operaio che ragionevolmente siamo autorizzati a pensare che tutti i giorni costruisse sedie, tavoli, porte e finestre. Giuseppe non era un re, un filosofo, un pensatore, un riccone, un politico, era un pover’uomo, niente di speciale, che ha allevato il senso della ascesa e dell’ingresso dell’uomo nell’eterno per dimostrare che chiunque può esserlo perché chiunque lo è. È possibile derivare da questo i concetti di libertà, di creatività, di dignità, di amore? Forse sì. Perché diversamente ci risulta quantomeno difficile, se *Medico Psichiatra, Presidente della Commissione sul Mobbing, istituita presso il Dipartimento della Funzione Pubblica. DOTTRINA 36 non impossibile, giustificare l’esistenza di Michelangelo o Beethoven o Einstein. La soddisfazione completa o parziale percentualizzata rappresenta il ponte tra lavoro, salute psichica e felicità. Nessuno può essere mentalmente sano o sembrare tale se e quando queste esigenze sono alterate, sono squilibrate, sono violate. “Volendo meglio precisare il significato etico del lavoro, si deve avere davanti agli occhi prima di tutto questa verità. Il lavoro è un bene dell’uomo – è un bene della sua umanità –, perché, mediante il lavoro, l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso, diventa più uomo” (da Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica 14 settembe 1981 “Laborem Exercens”). Senza questa considerazione non si può comprendere il significato della virtù della laboriosità, più particolarmente non si può comprendere perché la laboriosità dovrebbe essere una virtù: infatti la virtù, come attitudine morale, è ciò per cui l’uomo diventa buono in quanto uomo. Questo fatto non cambia per nulla la nostra giusta preoccupazione, affinché nel lavoro, mediante il quale la materia viene nobilitata, l’uomo stesso non subisca una diminuzione della propria dignità. È noto, ancora, che è possibile usare variamente il lavoro contro l’uomo, che si può punire l’uomo col sistema del lavoro forzato nel lager, che si può fare del lavoro un mezzo di oppressione dell’uomo, che infine si può, in vari modi, sfruttare il lavoro umano, cioè l’uomo del lavoro. Tutto ciò depone in favore dell’obbligo morale di unire la laboriosità come virtù con l’ordine sociale del lavoro, che permetterà all’uomo di diventare “più uomo” nel lavoro, e non già di degradarsi a causa del lavoro, logorando non solo le forze fisiche (il che, almeno fino a un certo grado, è inevitabile), ma soprattutto intaccando la dignità e soggettività, che gli sono proprie. Il mobbing è uno dei tanti modi possibili per esercitare questa violenza. La commissione, coordinata da chi scrive, non a caso ha formalizzato la seguente definizione: “atti, atteggiamenti o comportamenti di violenza morale o psichica in occasione di lavoro, ripetuti nel tempo in modo sistematico o abituale, che portano ad un degrado delle condizioni di lavoro, idoneo a compromettere la salute o la professionalità o la dignità del lavoratore”, di per sé infatti il mobbing non si esprime come una malattia ma come l’insieme di tutte le malattie possibili. Non è una sindrome composta da vari sintomi perché è una condotta che produce sintomi alterando equilibri psichici e fisici. Dopo studi condotti ormai da alcuni anni, è interessante comunicare alcuni dati in grado di definire le alterazioni della personalità del mobbizzato oltreché, e per la prima volta in assoluto, anche quelle del mobber. DOTTRINA 2. Il mobbizzato è un individuo che sin dal primo incontro risulta sgradevole, è una persona la cui sofferenza non suscita empatia, è un malato che non si è arreso, è un combattente che cerca consenso, ma non alleanza, è totalmente privo della capacità di fidarsi e di affidarsi, disperato e cinico lotta e vuole lottare senza regole, all’ultimo sangue e con l’unico obiettivo di tenere per i capelli la testa decollata del suo nemico. Attenzione, guai se non fosse così perché solo questo lo mantiene in vita, diversamente sarebbe morto. È l’unica ed ultima battaglia, dove è tutto giocato sugli estremi, è la perdita del doppio binario dell’alternativa, è la solitudine del disperato a cui rimane soltanto l’ultimo colpo. I sentimenti per tutto e per tutti si sono compattati in un amalgama unico in cui domina l’incomprensione e la violenza per la lotta, dove tutto è finalizzato nello scopo unico di “vincere” senza il raggiungimento del quale la persona è certa che non possono rinascere tutti gli altri sentimenti. Si determina una vera e propria impotenza affettiva, un incistamento emozionale, un distacco relazionale. Nessuna esperienza personale e sociale, altra da quella e di qualunque portata, può essere presa in considerazione perché considerata inferiore se non inutile. Si entra all’interno di quello stato psicopatologico che tecnicamente è definito: ideazione monotematica. All’esterno di questo vissuto sono tutti terzi, anche quelli che cercano di dare aiuto, vige come unica legge: “con me o contro di me”. Dallo studio di 77 mobbizzati, che hanno risolto la loro vertenza in via extragiudiziale, si sono rilevati dei tratti comuni di personalità Sovrapponibili, mutatis mutandis a quelli dei reduci e, più in particolare e dopo un anno, caratterizzati dai seguenti elementi: 1. il 75% aveva smesso di lavorare per sempre; 2. il 25% non aveva trovato altro lavoro presso terzi e svolgeva una attività in proprio; 3. nessuno accettava di parlare di buon grado di quanto gli era accaduto; 4. nessuno si sentiva soddisfatto dell’accordo economico neppure quando considerato obiettivamente congruo; 5. nessuno pensava di se come “di colui che aveva dato una lezione al sopraffattore”; 6. il 100% pensava di essere stata vittima e di “ considerarsi quello che aveva perduto”. 37 DOTTRINA 38 Alla domanda: perduto cosa tra 1. il lavoro 2. la salute 3. la dignità 3a) verso la famiglia 3b) verso i colleghi 3c) verso gli amici il 100% degli intervistati ha risposto positivamente alla 1 e alla 2, alla 3 20% verso la famiglia, nessuno verso i colleghi, il 15% verso gli amici. Circa la patologia somatica denunziata, il 100% dichiarava di soffrirne ancora. Di questi, il 50% in modo ridotto del 50%, il 25% come prima, il rimanente 25% ridotta più del 75% a prescindere dell’organo o apparato interessato. Circa la patologia psichica denunziata: depressione – il 30% non presentava più depressione, il rimanente 70% in forma lieve; ansia – nel 100% permaneva in forma lieve; idee persecutorie – il 15% manteneva idee persecutorie, il rimanente 85% presentava un’ideazione in cui era dominante una “eccessiva sospettosità e diffidenza”. 3. Dagli studi presenti in letteratura non si evince la personalità del mobber. Da una statistica personale ed in verità esigua, sette i casi studiati per motivi facilmente comprensibili, data la indisponibilità del mobber ad accettare di essere sottoposto ad indagine psicologica, si è potuto evincere che trattasi di individui con una struttura di personalità all’ MMPI, caratterizzata da un alto indice di risposte non attendibili e con dei profili orientati sul depressivo, con significativi tratti di tipo isterico, inquadrabili – in modo clinico – all’interno delle personalità passive-aggressive. Alla richiesta se il mobber, denunziato come tale, ha presentato dei sintomi di natura somatica o psichica, tutti hanno negato sintomi somatici, mentre tutti hanno ammesso alti livelli di ansia limitatamente e in occasione della contestazione giudiziaria. Nessuno ha accettato un colloquio per un esame catamnestico dopo un anno dalla conclusione della vicenda. Il 100% ha proseguito e mantenuto il posto di lavoro precedente, il 100% si è autodichiarato di essere nel giusto. In conclusione, il lavoro e la salute psichica cosi come quella fisica devono essere coniugati all’interno di modelli che non possono non transitare sia dalla considerazione del clima lavorativo, sia, e soprattutto, senza pensare a una regolamentazione comportamentale in grado di differenziare il DOTTRINA lavoratore onesto e sano da quello disonesto e malato, sia che la vita lo abbia collocato nel ruolo di datore di lavoro che in quello di dipendente. Gli studi condotti dimostrano che la ferita da mobbing, non solo lascia il segno, ma rimane spesso per sempre: il trauma per lo stress non è superabile mai e nei casi osservati cambia la vita della persona in modo radicale e significativo, mai in meglio. L’azione mobbizzante può, senza ombra di dubbio alcuno, essere collocata tra le condotte antisociali e chi la realizza dovrebbe essere chiamato a risponderne. 39 DOTTRINA Il mobbing come patologia della relazione di Paolo Pappone* 41 Da quando il problema del mobbing è stato portato all’attenzione del pubblico, della magistratura e del legislatore, si è acceso un intenso dibattito che verte, innanzitutto, sulla definizione del fenomeno. Il termine mobbing, e tutte le conoscenze ad esso connesse, hanno da sempre prodotto negli esperti delle diverse discipline un atteggiamento in generale improntato alla diffidenza e allo scetticismo e sollevato un mare di dubbi e di perplessità. L’incertezza riguarda parimenti la natura del fenomeno “mobbing”, la sua definizione e la sua capacità di produrre effetti devastanti sulla psiche delle vittime. Il dibattito che si è aperto in questa sede coglie la necessità del magistrato e del legislatore di dare esatti confini ad una questione che comincia ad avere un peso rilevante per un verso sulle vicende di contenzioso giuridico, per l’altro, più importante aspetto, sulle politiche e le applicazioni delle normative che tutelano la salute dei lavoratori privilegiando l’azione preventiva. In questo lavoro proponiamo una serie di considerazioni che derivano dall’osservazione clinica svolta in circa tre anni su oltre 400 casi. Utilizzando i punti di vista della psicologia relazionale e della psicologia cognitiva discuteremo alcuni aspetti differenziali che consentono di definire operativamente il fenomeno e di comprendere attraverso quali meccanismi possa produrre danno. 1. La natura proteiforme delle azioni di mobbing è la principale fonte di confusione e di scetticismo nei confronti del problema. *Psichiatra, Responsabile dell’Ambulatorio Specializzato per il Mobbing e il Disadattamento Lavorativo – ASL Napoli 1. DOTTRINA Una strategia di mobbing può esplicitarsi in una incredibile varietà di azioni e di atteggiamenti che, se presi singolarmente, in genere appaiono fatti ordinari e privi di significato particolare. La tabella 1, tratta dal lavoro di Leymann è ampiamente rappresentativa di questo aspetto del problema. 42 Tabella 1. Classificazione generale delle attività mobbizzanti secondo Heinz Leymann Effetti sulle possibilità della vittima di comunicare adeguatamente la dirigenza non dà possibilità di comunicare, il lavoratore viene zittito, si fanno attacchi verbali riguardo le assegnazioni del lavoro, minacce verbali, espressioni verbali che respingono, ecc. Effetti sulle possibilità della vittima di mantenere contatti sociali i colleghi non comunicano più con il lavoratore o la dirigenza proibisce esplicitamente di comunicare con loro, isolamento in una stanza lontano dagli altri, ecc. Effetti sulle possibilità della vittima di mantenere la sua reputazione personale mettere in giro voci sul conto della vittima, azioni di messa in ridicolo, derisione circa eventuale handicap o della appartenenza etnica o del modo di muoversi o di comunicare, ecc. Effetti sulla situazione professionale della vittima non viene assegnato alcun compito o solo dei compiti insignificanti, ecc. Effetti sulla salute fisica della vittima vengono assegnati incarichi pericolosi di lavoro, oppure si fanno minacce di lesioni fisiche, molestie sessuali, ecc. DOTTRINA Proponiamo poi all’attenzione due definizioni “storiche” del mobbing, che esprimono in modo sintetico due aspetti fondamentali del fenomeno: a) Comunicazione ostile e contraria ai principi etici, perpetrata in modo sistematico da una o più persone principalmente contro un singolo individuo che viene per questo spinto in una posizione di impotenza e impossibilità di difesa e qui costretto a restare da continue attività ostili (Leymann, 1996). b) Attacco continuato e persistente nei confronti dell’autostima e della fiducia in sé della vittima. La ragione sottostante tale comportamento è il desiderio di dominare, soggiogare, eliminare; la caratteristica dell’aggressore è il totale rifiuto di farsi carico di ogni responsabilità per le conseguenze delle sue azioni (Field, 1996). Della definizione di Leymann sottolineiamo il termine “comunicazione”: sta ad esprimere che le azioni di mobbing sono definibili in termini di “significato” più che di effetti materiali e questo è l’elemento che deve essere guida nella valutazione di quelle situazioni in cui l’effetto dannoso è prodotto da una serie di atti privi di gravi effetti immediati e dall’apparenza accidentale e innocente. Della definizione di Field sottolineiamo la considerazione che considera le azioni di mobbing prodotte dal “desiderio di dominare, soggiogare eliminare”: la finalità è l’elemento caratterizzante dell’azione di mobbing. 2. Nelle comuni relazioni umane e, per quanto ci riguarda specificamente in questo contesto, nelle reazioni lavorative, il conflitto è un elemento fisiologico, se resta entro certi limiti. Il mobbing, pur se nasce spesso (ma non sempre) sulla base di un conflitto, è di natura diversa. Nella tabella 2 sono schematizzati le principali differenze tra una situazione di mobbing e una situazione di conflitto. Assumiamo dunque come finalità fondamentale e caratteristica dell’azione di mobbing l’eliminazione dell’altro: questo ha spesso come esito l’allontanamento della persona dal contesto lavorativo (trasferimento, dimissioni, licenziamento). Ma l’eliminazione dell’altro si manifesta anche in altri modi, che per certi aspetti possiamo definire meno concreti, ma che risultano dal punto di vista psichico anche più devastanti. 43 DOTTRINA Tabella 2. Elementi di differenza tra mobbing e conflitto (Pappone, 2003) 44 Mobbing Conflitto Oggetto del contrasto La relazione Un fatto Modalità Manipolativa Oltre le regole Esplicita Secondo le regole Finalità Eliminare o soggiogare l’altro Ottenere qualcosa Danno per lo Dist. Post Traumatico da Stress sconfitto Frustrazione 3. Proviamo ora ad esaminare per gradi come si presenta questa condizione, in modo sottile e simbolico. Una delle immagini paradigmatiche del lavoratore mobbizzato è quella della persona messa da sola in una stanza, isolata dal gruppo di lavoro, senza strumenti di comunicazione, senza compiti, funzioni o incarichi di lavoro. Questa condizione corrisponde ad una eliminazione funzionale della persona. Il lavoratore è nominalmente presente nell’organico della azienda, riceve la busta paga, marca il cartellino, ma non esiste più dal punto di vista della produzione, delle relazioni di lavoro, delle prospettive di lavoro e di carriera. Un altro modo di manifestarsi del mobbing è il dimenticare: i compagni di stanza dimenticano di invitarti al bar durante la pausa, ci si dimentica di invitarti alla tal riunione, il direttore dimentica di farti pervenire una circolare o un’informazione importante, qualcuno ti cancella dalla mailinglist, il capo dimentica di firmare la domanda di ferie, etc. Il lavoratore percepisce di non esistere nella mente degli altri. Un altro modo ancora è di non dare risposta o cambiare significato a quello che il lavoratore chiede o fa (in generale questo accade quando il lavoratore inizia a tutelarsi o a cercare di modificare una situazione che comincia a DOTTRINA sentire pericolosa). Ti lamenti che da due settimane non ti riparano il computer, ti si risponde che sei un intollerante e non tieni conto delle difficoltà degli altri; dopo numerose garbate richieste verbali metti per iscritto una tua esigenza, ti si risponde che questo tipo di comunicazione in genere non viene formalizzato e che quindi non hai capito lo spirito del gruppo di lavoro. Quando la vittima comincia a capire che è in atto una manovra ostile comincia a diventare puntigliosa, a pretendere che tutto venga formalizzato, si radicalizza sull’applicazione di norme e regolamenti, le si attribuisce un carattere difficile, “è un querulomane; manca di elasticità….” Il mobbizzato è così spinto in uno “spazio” di incomprensibilità, di incomunicabilità, e quindi di non esistenza soggettiva nella relazione. Con questa progressione vogliamo esemplificare che la caratteristica fondamentale del mobbing è una modalità di relazione (o di comunicazione per riportarci alla definizione di Leymann) che è presente prima e a prescindere da ogni effetto concreto, materiale, sulla condizione lavorativa. Prima di essere eliminata fisicamente, la persona è eliminata come soggetto relazionale nel gruppo di lavoro e nella realtà lavorativa. Questo si compie attraverso una ampia e variegata serie di atti formali e informali, comunicazioni personali verbali e non verbali, azioni ed omissioni che sono organizzate dalla comune finalità espulsiva e assumono il significato relazionale di negazione della esistenza soggettiva della vittima. Questa modalità relazionale corrisponde nella sua generalità e nel suo significato a quella modalità di rapporto interpersonale che i terapeuti di indirizzo relazionale descrivono come disconferma. Dal punto di vista psicologico essere costretti in una relazione affettivamente significativa che prende questa forma è fortemente destabilizzante e può comportare gravi sofferenze psicologiche. 4. L’effetto di siffatte modalità di relazione sulla struttura psichica delle persone è stato affrontato e accuratamente analizzato e documentato da G. Liotti (La dimensione interpersonale della coscienza, 1994). Liotti, infatti, sostiene che: “La tendenza all’integrazione delle varie strutture della conoscenza di sé in una realtà psichica coesa che possiamo chiamare sé è dunque sostenuta da una precisa qualità di relazione meglio che da qualunque altra: una relazione fra pari, definita tale da una comune intenzionalità, in cui la comunicazione sia aperta e libera, la volontà di piegare l’altro a un qualunque fine sia ridotta al minimo e la ricerca di una condivisione o sintonia durante ogni atto comunicativo sia bilaterale e continua”. 45 DOTTRINA Nella tabella 3 sono per inverso schematizzate le caratteristiche della relazione che, secondo lo stesso autore possono essere fonte di grave patologia. Tabella 3. Distorsioni della comunicazione che minacciano la coesione del se (Liotti, 1994) 46 • Occultamento de la verità relazionale - Impedire all'altro di costruire un'adeguata rappresentazione della relazione in atto • Minacce di abbandono, colpevolizzazioni e paradossi - Utilizzare i sentimenti dell'altro, attraverso manovre interpersonali capaci di suscitare emozioni potenti, al fine di piegarlo ai nostri desideri o di coartarne la libertà • Perdita di sintonia nella comunicazione È su questa linea di ragionamento che si basa la consapevolezza e la dimostrazione del valore gravemente traumatico dell’esperienza del mobbing. Il mobbizzato è obbligato in una relazione manipolativa, che distorce profondamente la realtà della comunicazione interpersonale, che lo costringe a rivedere le proprie strategie di coping, che gli nega contrattualità sociale interpersonale, fino a negargli la stessa esistenza in quanto soggetto comunicante. Dal punto di vista soggettivo è l’equivalente di una grave minaccia all’incolumità personale ed assimila l’esperienza del mobbing alle esperienze traumatiche considerate all’origine della patologia inquadrata dalla nosografia attuale come “Sindrome Post-Traumatica da Stress”. Tabella. 4. Elementi traumatici nell’esperienza del mobbing (Pappone, 2003) • • • • Disconferma dell'identità lavorativa Discontinuità nello sviluppo delle relazioni Messa in crisi di un modello operativo interpersonale Ridefinizione in senso negativo delle azioni appropriate di risoluzione del conflitto • Negazione della possibilità di contrattazione DOTTRINA 5. Nel lavoro, e nelle relazioni interpersonali in generale, non si soffre solo per il mobbing. Esistono molteplici forme di esperienze che inducono frustrazione, sofferenza, un vissuto di ingiustizia, un radicale bisogno di indennizzo. Ai fini della comprensione psicopatologica, del risoluzione del contenzioso giuridico e, soprattutto, ai fini della definizione di politiche di prevenzione, è importante distinguere il mobbing da altre esperienze negative, più o meno intenzionali, che sono definibili di volta in volta come discriminazione, lesione di diritti, mancati riconoscimenti, ritmi e modalità di lavoro stressanti, ed altre ancora. Secondo il nostro punto di vista il termine mobbing può essere appropriatamente adoperato solo tenendo conto del significato strutturale dell’insieme di azioni che hanno indotto sofferenza: nel mobbing la vittima viene costretta in una relazione asimmetrica la cui modalità fondamentale è di tipo manipolativo, la finalità è la eliminazione dell’altro in quanto soggetto della relazione (e questo comprende sia l’espulsione/esclusione vera e propria, sia l’assoggettamento). Questa condizione ha in sé un potenziale patogeno molto maggiore e più radicale, comportando spesso lo sviluppo di una sindrome cronica assimilabile alla “Sindrome Post-traumatica da Stress”. 47 DOTTRINA Le condizioni di lavoro del pubblico impiego in Italia di Francesco Verbaro* 49 Tempo fa è giunto un quesito presso l’Ufficio per il personale delle pubbliche amministrazioni del Dipartimento della Funzione Pubblica, una struttura che, in generale, fornisce delle risposte alla richiesta di pareri sul trattamento giuridico-economico. La questione, un po’ particolare, era posta da una ragazza che chiedeva: “Desidero sapere come posso tutelare mio padre che, dal 4 luglio 2000, va in ufficio per non lavorare. C’è un rimedio che può suggerirmi? La prego di fare in modo che non lo sappia mio padre”. È una delle richieste di parere più difficili pervenute all’ufficio da me diretto. E per rispondere alla quale è opportuno provare a fare un ragionamento complesso, per cercare di capire quali siano questi atti, ripetuti nel tempo, che non raggiungono di per sé il livello di illegittimità, ma che si configurano come elementi di condizione del lavoro non confacenti alla organizzazione del lavoro, che sono in contraddizione con le tre “e” (efficienza, efficacia, economicità) e che, certamente, vanno eliminati in una logica di prevenzione e di attenzione generale al clima e all’ambiente di lavoro della pubblica amministrazione. Riferisce, giustamente, la Risoluzione del Parlamento Europeo del settembre 2001 che “la precarietà dell’impiego costituisce una delle cause principali dell’aumento della frequenza dei suddetti fenomeni”. Eppure l’impiego pubblico viene considerato come il lavoro più stabile, più sicuro, il famoso “posto fisso”. Perché, allora, secondo l’ISPESL, il 71% del fenomeno del mobbing avviene presso il settore pubblico? Effettivamente, dal ’92 ad oggi, ci troviamo in una situazione di trasformazione continua. Le amministrazioni pubbliche sono soggette ad un forte processo di cambiamento: pensiamo alla riforma dei ministeri e degli enti, alla riorganizzazione interna, al decentramento amministrativo, con *Direttore dell’Ufficio per il personale delle P.A. presso il Dipartimento della Funzione Pubblica. DOTTRINA 50 molte delle funzioni statali cedute alle Regioni e al conseguente trasferimento del personale, seguito dal cambiamento di status e di funzioni. Ancora oggi questo processo di decentramento è in fase di completamento. Noi, ad esempio, abbiamo personale ancora di alcuni settori non trasferiti; molti si autodenunciano alla Corte dei Conti in quanto non lavorano, dato che non appartengono né alle competenze dello Stato né delle Regioni a cui dovranno essere trasferiti. Abbiamo la questione aperta del Titolo V, il quale modifica le competenze e l’assetto di tutte le amministrazioni, e abbiamo il fenomeno dell’e-government. L’impatto dell’informatizzazione, per esempio, non deve essere sottovalutato, perché oggi ci sono generazioni di personale pubblico tagliate fuori ed escluse a causa delle innovazioni introdotte dalle nuove tecnologie e, a volte, all’interno degli uffici, in un rapporto di “tensione” con le giovani generazioni che sono un po’ più vicine a questi nuovi meccanismi. L’egovernment è anche un modo nuovo di pensare l’amministrazione, cioè con strutture più piccole dotate di alte professionalità, dove si coopera e dove il rapporto gerarchico si attenua e diventa importante la relazione orizzontale, la cooperazione tra soggetti, uffici, settori. E tutto questo può essere vissuto, per alcune generazioni, più come un problema che un’opportunità, come un meccanismo voluto di esclusione. Un altro tema è il lavoro flessibile, utilizzato molto dalle amministrazioni (art. 36 del d.lgs. 165/2001 e poi d.lgs. 368/2001), a cui occorre aggiungere ammortizzatori sociali come l’impiego dei lavoratori socialmente utili (LSU). Forme di rapporto di lavoro, che hanno dato vita a “stabilizzati a tempo determinato”, prorogati da finanziaria a finanziaria, per ultimo con il comma 19 dell’art. 34 della finanziaria 2003. Tutto ciò ha creato un conflitto sociale, anche all’interno degli uffici, dove c’è chi lavora a tempo indeterminato con alcune garanzie e, alla scrivania di fronte, c’è chi lavora a tempo determinato con garanzie minori. Come si vede, in questo disegno, ci sono elementi di enorme incertezza rispetto a quella che poteva essere l’immagine stereotipata dell’impiego pubblico come posto fisso. A ciò si aggiungano anche i problemi finanziari, perché tutte le misure avviate nei confronti di pubblici impiegati hanno avuto finalità di finanza pubblica (abbiamo iniziato con la L. 537/93, la legge Cassese e così via) di tipo restrittivo. Da un lato si ha il blocco delle assunzioni – con graduatorie di vincitori che entrano dopo 5 o 6 anni rispetto alla domanda fatta per partecipare al concorso – e dall’altro ingenti tagli sui fondi per la formazione del personale, che le amministrazioni non sono in grado di programmare. Un accenno va dedicato alla contrattazione integrativa: quella che doveva DOTTRINA essere lo strumento più innovativo e stimolante per organizzare il lavoro a livello aziendale e che, di fatto, ha perso molte delle sue funzioni e potenzialità. Ma non possiamo dimenticare le privatizzazioni ed i relativi processi. Il vincolo europeo del 3% di deficit sul PIL ha portato il Ministero dell’Economia e delle Finanze e, poi, il Dipartimento della Funzione Pubblica a dover gestire tutti i problemi che sono legati al passaggio dal pubblico al privato, tra cui quello non facile della mobilità d’ufficio. Non stiamo parlando, ovviamente, di mobbing, ma delle condizioni generali in cui oggi si trova l’amministrazione pubblica ed è su queste che, innanzitutto, dobbiamo intervenire per prevenire alcuni di quei problemi che possono causare situazioni di mobbing. Teniamo conto, quindi, dell’impatto che ha il cambiamento organizzativo sul personale, non soltanto attraverso la formula “sentite le organizzazioni sindacali”. Rispetto ad una prevista riduzione del personale, la gestione delle risorse umane diventa ancora più difficile e complessa nelle amministrazioni pubbliche, dove c’è una gestione abbastanza antiquata del settore, fondata su un’amministrazione giuridica e contabile del personale. Gli uffici del personale hanno competenze giuridiche, amministrative e contabili (e in piccola parte sindacale) e, quindi, null’altro si conosce delle risorse umane se non i dati riportati sul cedolino paga e quelli necessari per il passaggio di qualifica. Quindi, è chiaro che ci sono elementi legati ad una debolezza strutturale di questi uffici del personale. Ecco perché ritengo che, al di là dei Comitati Paritetici previsti nei vari contratti – come quello previsto dall’art. 3, comma 6, del CCNL Ministeri –, forse ciò su cui occorre lavorare è proprio l’Ufficio del personale e la responsabilizzazione della dirigenza. Tutti quegli elementi non monetari del rapporto di lavoro e del contratto come la formazione, la comunicazione interna, i codici di comportamento, la motivazione, sono parti che alla fine vengono citate (quando vengono citate) molto superficialmente. Invece, si tratta di tematiche su cui dovrebbero operare gli uffici del personale. Questo è un problema culturale da superare sia dalla parte datoriale, cioè dalla pubblica amministrazione che è purtroppo il peggiore datore di lavoro possibile, sia dalla rappresentanza dei lavoratori, che spesso esprimono come massima richiesta l’esigenza strettamente monetaria, dimenticando o sottovalutando gli altri punti (formazione, qualificazione del lavoro, ecc). Ma tutti questi problemi sono rilevanti e hanno un costo per la pubblica amministrazione. Pensiamo ai tassi di assenteismo, alle malattie, a tutti i 51 DOTTRINA 52 permessi che vengono presi da quei soggetti che non trovano facile collocazione, oppure pensiamo al discorso delle pause di lavoro. Questo è un costo reale, anche se non viene quantificato. Ed allora cosa fare? Certamente il ruolo dell’Ufficio del personale diventa importante. Queste strutture andrebbero rafforzate in quanto hanno gli strumenti di tutela per migliorare l’ambiente interno. Poi c’è il fronte della responsabilità dirigenziale. Il vertice amministrativo rappresenta senz’altro il primo datore di lavoro da individuare, perché su questo punto bisogna fare in modo che, al di là delle plurimodifiche degli artt. 19 e 28 del d.lgs. 165/2001, si rifletta bene sulla responsabilità dirigenziale nei confronti del personale. Basti pensare che non ci sono ancora dei meccanismi di valutazione della dirigenza che legano l’indennità di risultato ad una valutazione su come è stato gestito il personale (i sistemi di valutazione della P.A. sono stati introdotti da pochi anni e con un certo generalismo). Accanto ad una cultura del merito che deve essere introdotta, nonostante gli ostacoli culturali presenti in ampie parti dell’amministrazione, occorre introdurre sistemi trasparenti di decisione in grado di dare evidenza ai motivi delle scelte organizzative e che offrano la possibilità di tenere conto delle esigenze del personale. È chiaro che di fronte a sistemi non definiti e poco trasparenti è più facile essere soggetti a quelle critiche per cui una scelta – che è poi gestionale, organizzativa – può essere interpretata dal personale come un’azione di mobbing. Rispetto a questo, che fare? Senz’altro deve cominciare a pesare la cultura dell’organizzazione, l’attenzione all’ambiente di lavoro. Occorre considerare gli effetti e i danni del cosiddetto “malessere organizzativo”, eliminare la cattiva gestione del personale e, quindi, dare tutela nei confronti del mobbing. Esistono già per questo delle norme di tutela giudiziaria. L’art. 2087 c.c. è una norma di chiusura che tutela il lavoratore e che dà degli obblighi al datore di lavoro. Questa norma può essere utilizzata come punto di riferimento, ma ci sono anche degli obblighi per le amministrazioni pubbliche legati all’efficienza ed all’efficacia dell’azione amministrativa. Non si può pensare che tutto quello di cui abbiamo parlato non sia un costo per l’amministrazione e che, pertanto, non vada valutato e quantificato. Un altro obiettivo è riuscire ad attuare realmente il decreto legislativo 286/99, creando sistemi di valutazione efficienti e trasparenti, che leghino l’indennità di risultato dei dirigenti a come viene gestito, valorizzato e formato il personale. La chiave di volta è riuscire a gestire le risorse umane DOTTRINA al meglio e al di là dei contratti, spesso inattuati, aumentando la responsabilità dei dirigenti sul personale assegnato. Questo è un obbligo che il dirigente ha per il conferimento dell’incarico; è un obbligo morale e civile da parte di una classe dirigente del Paese. Probabilmente bisognerà lavorare con la formazione e mostrando anche i dati e i costi reali su cui si va ad incidere. Esiste su questo un sommerso da far emergere. È intervenendo su questi aspetti che si potrà allora dare una risposta a quella richiesta di parere pervenuta alla Funzione Pubblica che diceva: “come posso aiutare a far lavorare mio padre ogni giorno?”. 53 DOTTRINA La proposta della Commissione Piccione e i Centri regionali per la diagnosi e la terapia dei disturbi correlabili al mobbing di Valentina Lostorto* 55 La proposta di legge scaturita dai lavori della commissione – presieduta dal prof. Piccione – sul mobbing istituita ad hoc presso il Dipartimento della Funzione Pubblica, è il frutto di un lavoro interdisciplinare che ha tenuto conto di una pluralità di specifiche esperienze professionali. Ogni tentativo di individuare e disciplinare il fenomeno del mobbing, infatti, non può che essere preceduto da uno studio completo e approfondito dello stesso in tutti i suoi aspetti. Si entra così in contatto con una realtà che travalica i confini delle aule di giustizia e che è conoscibile solo attraverso il contributo, tra gli altri, di medici legali, psichiatri, psicologi, sociologi, sindacalisti, datori di lavoro, dirigenti dell’amministrazione direttamente a contatto con il mondo della gestione del personale. Prima di partecipare ai lavori della Commissione, l’esperienza professionale di chi scrive come giudice del lavoro ha portato a conoscere e studiare il mobbing esclusivamente sotto il profilo della tutela accordabile e della qualificazione e quantificazione del danno eventualmente conseguito al comportamento datoriale denunciato. Va peraltro detto come, almeno presso il Tribunale di Roma, la casistica, soprattutto in sede di merito, sul mobbing vero e proprio (come qualificazione della causa pretendi) è stata fin ad ora alquanto scarna, anche se non può non tenersi conto del fatto che, al di là della qualificazione formale utilizzata, di mobbing può certamente parlarsi anche nella maggior parte delle controversie concernenti un demansionamento. Preliminarmente la Commissione si è preoccupata di esaminare e raffrontare, istituto per istituto, le altre proposte di legge tuttora pendenti al Senato o alla Camera per vedere come erano stati risolti punto per punto i vari problemi (definizione, prevenzione, formazione, apparato sanzionatorio, *Magistrato del lavoro e membro della Commissione sul Mobbing presso il Dipartimento della Funzione Pubblica. DOTTRINA 56 tutela, ecc.). Quindi, si è mossa su varie direttrici, attraverso le sottocommissioni all’uopo costituite. Il primo problema è stato quello di giungere ad una definizione del fenomeno. Ed infatti, le condotte munite di potenzialità lesiva che possono integrare mobbing sono molteplici e non necessariamente illecite se prese singolarmente; le stesse, in sintesi, possono essere distinte in tre categorie: 1. quelle aventi rilevanza penale, che costituiscono per se stesse reato, prese in considerazione anche singolarmente (si pensi all’ingiuria di cui sia fatto oggetto il lavoratore ad opera di un superiore); 2. quelle sfornite di rilievo penale ma perseguibili singolarmente, per la loro illegittimità, dal giudice del lavoro (si pensi ad un trasferimento illegittimo ad altra sede più disagiata del dipendente, al fine di fiaccarne la volontà, o ad un illegittimo demansionamento, ovvero all’accanimento disciplinare); 3. quelle pienamente legittime sotto il profilo civilistico, ma che, essendo poste in essere con modalità lesive, unitariamente considerate, possono costituire una grave offesa alla dignità del lavoratore (si pensi alle reiterate visite fiscali di controllo in caso di malattia, o ai richiami ad avere un abbigliamento consono indirizzati ad un solo dipendente nonostante sussistano nel medesimo ambito lavorativo analoghe situazioni, ovvero alla ripetuta sottoposizione a procedimenti disciplinari poi archiviati, per cui manca uno specifico atto contro cui chiedere tutela al giudice, ma esiste una pluralità di azioni che mette il lavoratore in qualche modo in una posizione diversa e deteriore rispetto agli altri). Proprio con riferimento a quest’ultima ipotesi la giurisprudenza, attraverso l’elaborazione dell’istituto, ha consentito, anche in assenza di leggi in materia, di sanzionare, oltre che comportamenti di per sé illegittimi e già sanzionabili in precedenza, anche l’insieme dei comportamenti ostativi singolarmente non connotati da illiceità e/o illegittimità, ma che tali siano diventati per le modalità, il contesto e le finalità vessatorie o lesive con cui sono posti congiuntamente in essere e di fronte ai quali il dipendente era sinora sfornito di qualunque protezione. In secondo luogo, la Commissione ha cercato di enucleare una risposta quanto più certa ed omogenea in ordine al problema dell’individuazione e qualificazione delle malattie psichiche e somatiche che possono derivare al lavoratore da un comportamento datoriale illecito e soprattutto in merito al necessario nesso causale. Ed invero, la stessa giurisprudenza della Corte DOTTRINA Cassazione (cfr. sent. n. 5491/2000) testimonia le difficoltà che possono sorgere proprio in relazione alla rilevazione in concreto di un pregiudizio per il lavoratore che sia eziologicamente ricollegabile ad una situazione di vessazione sul posto di lavoro. In particolare, proprio nella fattispecie esaminata dalla S.C. nella sentenza sopra richiamata, pur affermandosi la sussistenza di un diritto del lavoratore alla propria integrità psicofisica (nella specie lesa da un reiterato abuso del potere disciplinare), tutelato dall’art. 2087 c.c., ha poi escluso che sussistesse il nesso causale tra le manifestazioni esteriori della lamentata lesione psichica (crisi matrimoniale, perdita di relazioni sociali ed amicali, ecc.), le denunciate somatizzazioni (nausea, vomito, irritabilità ed altro), e l’accanimento disciplinare datoriale; la Corte, infatti, anche in considerazione – citando testualmente – “delle incoerenze e manchevolezze della consulenza”, ha affermato che le lamentate ripercussioni sulla sfera affettiva del lavoratore erano esclusivamente da ricollegarsi a scelte individuali autonome del lavoratore stesso. È dunque evidente la assoluta necessità di fornire criteri oggettivi ed omogenei non solo per la definizione oggettiva della condotta datoriale integrante il c.d. mobbing, ma anche per la diagnosi delle eventuali lesioni psichiche, affinché si tenga conto, in sede diagnostica, delle somatizzazioni e del nesso causale che deve sussistere tra malattia psichica e malattia somatica. In mancanza di ogni indicazione circa la definizione e le modalità di rilevazione di questo fenomeno sotto il profilo medico, non solo il lavoratore che versi effettivamente in una situazione di malattia psichica da mobbing avrà maggiori difficoltà ad ottenere la invocata tutela, ma anche il datore di lavoro potrà essere maggiormente esposto a richieste e ricorsi. Né il compito di regolamentare il mobbing può essere totalmente demandato alla contrattazione collettiva, trattandosi in ogni caso di un intervento settoriale per definizione e, quindi, non completo. Infine, non è possibile lasciare alla buona volontà delle singole Regioni o di singole ASL la costituzione di centri in cui si offrano strumenti diagnostici o terapeutici ai lavoratori soggetti a mobbing; in mancanza di norme che, nel rispetto dell’art. 117 Cost., dettino dei criteri omogenei di funzionamento di tali servizi, potrebbe verificarsi la creazione di strutture che rilascino una sorta di “patente” al mobbizzato senza alcun controllo. Rischio che assume un rilievo ancor più grande laddove avanti al giudice del lavoro in sede di urgenza – e cioè in una fase di accertamento giudiziale necessariamente sommario – la certificazione da parte di un centro specializzato sul mobbing potrebbe essere ritenuta sufficiente a dimostrare la verosimiglianza della 57 DOTTRINA 58 lamentata patologia e, quindi, il fumus boni iuris. Basti qui menzionare 1 l’ordinanza 4.7.2002 del Tribunale di Roma , che ha accordato tutela in via d’urgenza ad un lavoratore – accertata, ovviamente, l’irreparabilità del pregiudizio e la verosimiglianza della lamentata situazione di demansionamento – proprio sulla base del fatto che questi era in terapia presso un centro specializzato (nella specie, il Centro mobbing della ASL Roma E). In relazione all’ordinanza cautelare citata, inoltre, non ci si può non soffermare brevemente per illustrare il principio affermato dal Tribunale in tema di accertamento del requisito del periculum in mora. Mentre il giudice investito del ricorso ex art. 700 c.p.c. aveva negato la tutela cautelare ritenendo carente il requisito del periculum in mora stante il lungo tempo trascorso tra i fatti denunciati e l’esercizio dell’azione, il collegio in sede di reclamo ha ritenuto che ai fini dell’individuazione del pregiudizio “non deve aversi riguardo all’intervallo di tempo intercorrente tra il momento in cui il danno (rectius, il comportamento lesivo) si sarebbe concretizzato e quello in cui viene proposto il ricorso in via d’urgenza, bensì ... al tempo presumibilmente occorrente per la definizione del giudizio di merito, valutando la situazione in cui si trova l’interessato al momento in cui propone il giudizio cautelare nella prospettiva di giungere ad una definizione di merito. Proprio il trascorrere del tempo, invero, può far sì che una situazione “pericolosa” in un certo momento, lo diventi per effetto del protrarsi della condizione asseritamente lesiva venutasi a creare”. Trattasi di impostazione certamente condivisibile. Se, infatti, è vero che la concessione della tutela in via di urgenza è rigorosamente delimitata dagli estremi dell’imminenza e dell’irreparabilità degli effetti pregiudizievoli che possono derivare al ricorrente nel tempo necessario per ottenere ed attuare la decisione di merito (con la conseguente esclusione dei danni suscettibili di completo ristoro), è altrettanto vero che, se tali presupposti si siano verificati in epoca successiva alla condotta pregiudizievole – purché eziologicamente ad essa ricollegabili –, la tutela in via d’urgenza non può certamente essere negata per il solo fatto del decorso del tempo dall’evento lesivo. Il requisito dell’imminenza del pregiudizio, infatti, implica non già la necessità che la richiesta di tutela debba essere immediata rispetto al fatto ritenuto lesivo, bensì che l’evento dannoso paventato debba incombere con vicina probabilità. Se, pertanto, nel caso in cui la condotta lesiva denunciata sia il demansionamento, appare verosimile che un danno di carattere meramente Il testo integrale della ordinanza citata è riportato in questa rivista, sezione Giurisprudenza, pag. 199 1 DOTTRINA morale o comunque non patrimoniale – quale il c.d. attentato alla professionalità – non possa che cominciarsi a manifestare nell’immediatezza dell’allontanamento dal posto di lavoro, appare altrettanto verosimile che il danno alla salute possa invece insorgere anche successivamente, – e cioè al momento dell’esaurimento nel lavoratore del livello di tollerabilità psicofisica della lamentata condotta datoriale mobbizzante e della conseguente insorgenza di una vera e propria patologia. Tornando ora ad esaminare più da vicino i problemi affrontati dalla Commissione, i punti salienti possono essere sintetizzati come segue. 1. Già si è detto della varietà e molteplicità delle condotte che in astratto possono integrare la condotta mobbizzante, soprattutto tenendo conto che spesso si tratta di atti o omissioni che per se stessi possono non avere alcun disvalore giuridico. Per cercare di fornire una definizione il più ampia possibile, che non restringesse l’area della tutela ai soli casi di persecuzione finalizzata all’espulsione del lavoratore, la Commissione, all’esito anche di accesi dibattiti interni, ha ritenuto di non introdurre, quale elemento psicologico essenziale della fattispecie, il dolo. Il mobbing, infatti, può, di fatto, avere le più svariate motivazioni (dalla vera e propria intenzione espulsiva, al semplice gusto di prendere in giro un soggetto più debole) e può, inoltre, essere posto in essere anche al di fuori della volontà e della consapevolezza del datore di lavoro (si pensi ai casi di mobbing orizzontale collettivo), il quale però deve vigilare anche sul comportamento dei propri dipendenti (e ne è anche oggettivamente responsabile ai sensi dell’art. 2049 c.c.). Quello che ad avviso della Commissione occorre, in sostanza, è che il comportamento sia oggettivamente idoneo a ledere l’integrità psicofisica del lavoratore, indipendentemente dall’enucleazione di specifiche finalità persecutorie. Ovviamente, della sussistenza in concreto del dolo non potrà che tenersene conto in relazione alla graduazione della responsabilità e, quindi, in sede di quantificazione dell’eventuale risarcimento. Quanto all’elemento temporale, premesso che il mobbing è per definizione un fenomeno necessariamente caratterizzato dalla continuatività o reiterazione della condotta vessatoria, la Commissione ha ritenuto che introdurre una definizione precisa dell’arco minimo di tempo oltre il quale un’attività persecutoria possa integrare la fattispecie di mobbing avrebbe comportato un ingiustificato limite alla tutela, oltre che enormi difficoltà oggettive in ordine all’individuazione del preciso momento temporale in cui debba considerarsi iniziata la condotta mobbizzante. Attraverso 59 DOTTRINA 60 l’utilizzazione dell’espressione “atti, atteggiamenti o comportamenti di violenza morale o psichica in occasione di lavoro, ripetuti nel tempo in modo sistematico o abituale” la Commissione ha invece voluto non solo porre l’accento sulla necessità della reiterazione dei comportamenti, ma anche sulla loro sistematicità, cioè il divenire la condotta lesiva una condizione per così dire “normale” dell’ambiente lavorativo in cui si svolge la prestazione, indipendentemente dal concreto lasso di tempo intercorso. Infine, la Commissione ha affrontato il problema relativo al pregiudizio quale elemento essenziale della fattispecie oggettiva del mobbing. In particolare ci si è chiesti se per aversi mobbing occorresse per forza la produzione di un pregiudizio alla salute, e, cioè, quella figura di patologia medica che è lo stress da mobbing. A tale domanda la Commissione ha dato una risposta negativa, ritenendo sufficiente una lesione della dignità personale del lavoratore e della professionalità. Infatti, la proposta dice: “…a compromettere la salute o la professionalità o la dignità del lavoratore”. Ovviamente, come si vedrà, tale opzione non potrà che avere ripercussioni anche sul versante risarcitorio: se si ammette il mobbing non solo come pregiudizio alla salute, ma anche come pregiudizio professionale ed alla personalità deve necessariamente introdursi un sistema di risarcimento che vada oltre il danno biologico in senso stretto e si estenda al c.d. danno esistenziale. 2. La proposta di legge si muove sulla falsa riga del d.lgs. n. 626/94, utilizzandone gli strumenti essenziali (valutazione dei rischi, individuazione dei soggetti responsabili, ruolo del medico competente, rappresentante per la sicurezza) per garantire la sicurezza, la prevenzione e la formazione sul luogo di lavoro, in quanto trattasi di schema già collaudato e conosciuto dai datori di lavoro. Ed infatti, essendo il d.lgs. n. 626/94 mirato a reprimere e prevenire condizioni lavorative potenzialmente pericolose da un punto di vista essenzialmente oggettivo (impianti, apparecchiature, ambiente di lavoro, ecc…), lo stesso non avrebbe potuto essere applicato tout court al caso di violenza morale e psichica in occasione di lavoro, vertendosi, come si è visto, in ipotesi in cui le condotte lesive possono essere le più svariate – attive ma anche omissive – e da sole anche legittime. La Commissione quindi ha ritenuto utile fare riferimento a figure già ampiamente collaudate nell’ambiente di lavoro, quali il medico competente, il rappresentante dei lavoratori, ecc.; di strategica importanza potrebbe rivelarsi il medico competente che, una volta ampliate la sue competenze DOTTRINA anche in tema di rilevazione di situazioni patologiche dovute a violenza morale o psichica sul luogo di lavoro, potrebbe essere in grado di segnalare ante tempus una situazione di particolare stress o disagio di un lavoratore e quindi richiedere gli accertamenti specialistici ai sensi dell’art. 17, 2 comma, d.lgs. 626/94; il compimento di una prima attività di screening tra situazioni di vero e proprio mobbing e le situazioni di mero conflitto sul luogo di lavoro (caratterizzato dalla reciprocità degli attacchi laddove invece il mobbizzato è veramente solo vittima della situazione lavorativa) potrebbe, infine, non solo limitare al massimo i danni da mobbing, ma anche fungere da filtro deflativo al successivo eventuale contenzioso. 3. La Commissione, preso atto dell’attuale situazione di grande incertezza in tema di criteri diagnostici – come si è sopra visto sicura fonte di equivoci in ordine alla tutela accordabile – ha tentato di dettare alcuni basilari principi, nell’ambito delle competenze legislative ridisegnate dal nuovo art. 117 Cost., al fine di garantire quanto più possibile al lavoratore soggetto a mobbing una uniformità di trattamento sotto il profilo diagnostico e terapeutico. In particolare, tenuto conto delle competenze regionali riguardanti l’assistenza e la prevenzione in materia di salute e, quindi, la diagnosi e la terapia dei disturbi correlati a violenza morale o psichica in occasione di lavoro, si propone l’istituzione di appositi Centri Pubblici (regionali specializzati o di Diritto Pubblico specializzati, Università etc.) al fine di certificare la diagnosi (che può essere di: sindrome correlata, sindrome non correlata o sindrome allo stato non sufficientemente correlabile) ed impostare tutti quei provvedimenti terapeutici necessari per la remissione della patologia. La proposta, inoltre, prevede che tali Centri – che possono essere o appositamente costituiti, ovvero possono essere già esistenti in varie forme ed utilizzati all’uopo, in base alle determinazioni delle singole Regioni – siano tra loro interconnessi a livello nazionale (anche al fine di evitare “pellegrinaggi” dei lavoratori da una Regione all’altra e la conseguente ripetizione delle attività testologiche che per definizione non possono essere ripetute prima di un tempo minimo) e che operino utilizzando spazi e personale specialisticamente formato ed esclusivamente dedicato; in particolare la Commissione, al fine di garantire la qualità e l’uniformità delle prestazioni dei centri, ha ritenuto necessario indicare le figure professionali che necessariamente devono partecipare all’attività diagnostica, che non può non essere frutto di una attività pluridisciplinare, rappresentata dal medico legale, medico del lavoro, psichiatra o psichiatra forense, psicologo clinico o 61 DOTTRINA del lavoro. Viene, quindi, lasciata all’organizzazione interna dei Centri la possibilità di utilizzare tutte le specialità mediche, con il modello della consulenza, ma non della formulazione e formalizzazione della diagnosi finale. 62 4. Dopo una affermazione di principio in ordine alla nullità di tutti gli atti riconducibili a violenza morale o psichica in occasione di lavoro, la Commissione ha ritenuto di optare per l’introduzione di uno specifico strumento di tutela in via d’urgenza al lavoratore che abbia subito un vero e proprio mobbing, al fine di assicurare al lavoratore una tutela più immediata ed efficace rispetto a quella ordinaria (anche in via d’urgenza), nei casi in cui già sia intervenuto da parte dei Centri all’uopo deputati (come si è sopra visto) un accertamento preliminare circa la sussistenza di un pregiudizio alla salute del lavoratore e circa la correlabilità delle condizioni di salute alla situazione lavorativa, in base a precisi e predeterminati parametri diagnostici. In questi casi, il lavoratore potrà ottenere dal giudice adito competente, qualora ovviamente il giudice ravvisi la verosimiglianza del comportamento datoriale denunciato e del pregiudizio lamentato, in termini ristrettissimi, un decreto immediatamente esecutivo che, se non opposto (secondo il meccanismo già collaudato con l’art. 28 della legge 20 maggio 1970 n. 300 in tema di condotta antisindacale del datore di lavoro), diventerà definitivo senza bisogno di successivi accertamenti giudiziali a cognizione piena, come invece avviene in caso di tutela cautelare ai sensi dell’art. 700 c.p.c. Ovviamente in tutti gli altri casi (in cui il lavoratore non si fosse rivolto ad uno dei Centri di cui sopra o l’accertamento compiuto dal Centro non si fosse concluso con una diagnosi di sindrome correlata) la tutela invocabile dal lavoratore sarà sempre quella ordinaria (art. 700 c.p.c. e artt. 413 e ss. c.p.c.). Sul punto si rinvia alla dettagliata relazione esplicativa allegata al testo della proposta di legge. Peraltro, mi sembra necessario soffermarsi brevemente in ordine alle problematiche sulla legittimazione attiva e passiva in tale procedimento speciale Quanto alla legittimazione attiva, la Commissione non ha ritenuto di estendere la legittimazione ad altri soggetti (rappresentante per la sicurezza o organizzazioni sindacali) oltre che al lavoratore, stante la delicatezza della materia, che coinvolge aspetti della personalità insuscettibili di valutazione da parte di estranei. Quanto alla legittimazione passiva, trattandosi di procedimento speciale DOTTRINA finalizzato ad una tutela immediata di situazioni pregiudizievoli, anche rispetto alla salute del lavoratore, si è ritenuto, in ossequio all’impianto della proposta di legge (che detta precisi obblighi in capo al datore di lavoro), di limitarla al solo “datore di lavoro”. Per la concreta individuazione del soggetto qualificabile come “datore di lavoro” ai fini che qui interessano, occorre rifarsi alla definizione contenuta nel d.lgs. n. 626/94, in virtù dell’esplicito rinvio contenuto nel comma 3 dell’art. 1 della presente bozza di legge. Pertanto, alla stregua della definizione contenuta nell’art. 2, lett. B) del d.lgs. n. 626/94, per “datore di lavoro” deve intendersi “il soggetto titolare del rapporto di lavoro o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’organizzazione dell’impresa, ha la responsabilità dell’impresa stessa ovvero dell’unità produttiva, quale definita ai sensi della lettera i), in quanto titolare di poteri decisionali e di spesa. Nelle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest’ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale”. Tale disposizione legislativa, che individua nel dirigente (o nel funzionario all’uopo preposto) il datore di lavoro per tutte le amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, T.U. n. 165/2001, sembra consentire il superameno di ogni dubbio circa la insussistenza della legittimazione passiva in capo al Ministro, anche in caso di rapporti di lavoro non privatizzati ai sensi dell’art. 3 T.U. n. 165/2001. Quanto ai rapporti di lavoro pubblico soggetti alla c.d. privatizzazione, valgono le nuove norme sulla legittimazione introdotte dall’art. 16, lettera f) del T.U. 30 marzo 2001 n. 165, che attribuiscono al dirigente dell’ufficio dirigenziale generale il potere di promuovere e resistere alle liti, comportando il definitivo superamento del previgente regime di legittimazione degli organi dello Stato, come delineato dall’art. 52 del T.U. 30 ottobre 1933 n. 1611, novellato dalla legge n. 260 del 1958. Inoltre, essendo il presente procedimento speciale finalizzato alla inibitoria dei comportamenti vessatori, è sembrato più efficace evocare in giudizio il soggetto responsabile della organizzazione e della gestione dei rapporti di lavoro, in quanto non solo ad esso è comunque riconducibile l’attività dei propri dipendenti (che siano eventualmente gli esecutori materiali dei comportamenti vessatori), ma anche perché il dirigente in questione è l’unico soggetto titolare dei poteri necessari per poter attivare contromisure efficaci. Non può, infine, non rilevarsi come il lavoratore sia comunque facilitato nell’individuazione del soggetto da evocare in giudizio, soprattutto in quelle 63 DOTTRINA 64 situazioni di vessazioni collettive, purtroppo non infrequenti nelle situazioni di c.d. mobbing. Ovviamente tale limitazione della legittimazione passiva al solo datore di lavoro è circoscritta al solo procedimento cautelare speciale in questione, ben potendo il lavoratore evocare in giudizio gli esecutori materiali della condotta persecutoria in una eventuale azione risarcitoria ordinaria. Nelle ipotesi in cui la controversia attenga a rapporti di lavoro rimasti sottoposti alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (ai sensi dell’art. 63, comma 4 del T.U. n. 165/2001) si è invece previsto che un procedimento analogo a quello di cui al primo comma possa essere instaurato davanti al tribunale amministrativo regionale, riproponendo il medesimo schema già utilizzato dal legislatore nella L. 146/90, che aveva inserito, così codificando l’orientamento della giurisprudenza, due commi ulteriori all’art. 28 L. 300/70, nei quali si disciplinava il procedimento nei casi in cui il comportamento antisindacale avesse anche leso il diritto di un dipendente pubblico. Peraltro, essendo tali due commi stati abrogati (in virtù della devoluzione al giudice ordinario delle controversie sul pubblico impiego) dall’art. 4, L. 83/2000, si è posto il problema della sopravvivenza di tale disciplina relativamente ai rapporti di lavoro non contrattualizzati, e quindi rimasti sottoposti alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. A fronte di tali dubbi interpretativi, la Commissione ha ritenuto opportuno reintrodurre espressamente nella norma che regola il procedimento speciale in questione la possibilità, per il dipendente pubblico non privatizzato, di proporre il ricorso d’urgenza avanti al tribunale amministrativo regionale, il quale provvederà con procedura speciale analoga a quella seguita avanti al giudice ordinario. 5. La Commissione, prevedendo che la liquidazione del danno debba avvenire “ivi compresi il danno biologico e il danno esistenziale anche in modo disgiunto” ha recepito le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza e dalla dottrina in merito ai danni risarcibili ai lavoratori che abbiano subito la lesione dei beni individuati dal combinato disposto di cui agli artt. 41, 2° comma, Cost. e 2087 c.c. (salute, dignità, personalità morale). Si osserva in particolare che viene recepita dalla proposta di legge l’idea del danno esistenziale come categoria autonoma e distinta dal danno biologico, inquadramento questo fatto proprio dalla Sezione Lavoro della Suprema Corte (Cass., sez. lav., 3 luglio 2001, n. 9009) e da diversi giudici di merito (cfr. ad esempio Trib. Pisa, sez. lav., 3 ottobre 2001; Trib. Forlì, sez. lav., 15 marzo 2001). DOTTRINA L’opportunità di una tale impostazione discende dall’esigenza di mantenere disgiunte le due categorie di danno in questione, poiché, come anche rilevato dalla Cassazione, esse si differenziano, oltre che per i rispettivi contenuti, in relazione alla loro prova: da un lato per il danno biologico, come anche recita l’art. 13 del decreto legislativo n. 38/2000, è necessaria la dimostrazione di una lesione dell’integrità psicofisica suscettibile di valutazione medico legale; dall’altro lato, il danno esistenziale, incardinandosi sulla lesione di beni quali la personalità e la dignità del lavoratore non suscettibili di valutazione medico legale, non richiede la prova di pregiudizi della salute, bensì la dimostrazione, su un piano oggettivo, che la vittima abbia effettivamente sperimentato la compromissione di detti beni attraverso la frustrazione della sua persona sul luogo di lavoro. Siffatta impostazione della norma non implica tuttavia che ogni evento che rilevi ai fini della presente legge debba dare automaticamente luogo alla liquidazione di due poste risarcitorie, né che si dia così luogo a indesiderabili duplicazioni dei risarcimenti. Infatti la precisazione “anche disgiuntamente”, unitamente al riferimento alla valutazione equitativa, è finalizzata proprio ad evitare automatismi od inutili sovrapposizioni. 65 DOTTRINA Il mobbing e il sistema organizzativo di Luca Soda* 67 Pensate a un uomo, per natura o sventura, incline a una languida disperazione: esiste un lavoro più adatto ad accentuarla che maneggiare continuamente queste lettere morte e metterle in ordine per darle alle fiamme? Melville Akakij Akaprokievic è un mobbizzato di lusso. Mobbizzato perché è un impiegato zelante, ma con una personalità grigia, austera, mediocre che gli cura la derisione e le angherie dei colleghi. Di lusso, perché è il protagonista de Il cappotto il racconto originato dalla magistrale penna di Gogol che ne ha fatto un mite eroe letterario. La vicenda di Bartleby lo scrivano, invece non c’entra nulla col mobbing, e tuttavia suscita una suggestione di non trascurabile rilevanza: il capolavoro di Melville ci ricorda che il luogo di lavoro è un luogo emotivo, un’occasione di spendita dei tratti della propria individualità anche se caratterizzata dagli imperscrutabili tratti della complessità. Quel cortese “preferirei di no” ad un compito assegnatogli dal capo rappresenta l’elogio alla relatività, alla molteplicità dei punti di vista, al rispetto e alla rinuncia a voler capire sempre e comunque l’atteggiamento degli altri, riducendolo a schemi intellettuali comunemente accettati ma non necessariamente universali. Bartleby è colui che sceglie cosa fare secondo la sua scala di valori: è proprio tale caratteristica, evidenziata da un’apparente assurdità, a determinare la sua libertà, facendolo assurgere a prototipo dell’uomo libero. Bartleby è la rappresentazione della sofferenza e della liberazione dentro il quadro del lavoro, ma non di quello industriale dei satanici opifici di Dickens, ma di quello delle carte e dei registri degli uffici, *Ufficio Ruolo Unico, Dipartimento della Funzione Pubblica. DOTTRINA 68 sicuramente meno pesante per il fisico ma non per l’anima. Prima di lavorare presso uno studio legale, dove si svolge la sua vicenda letteraria, Bartleby è stato per anni un impiegato pubblico presso l’ufficio lettere smarrite di Washington, poi licenziato a seguito di spoil system, dove catalogava e ordinava le lettere non giunte al destinatario, destinate al rogo. Un lavoro sulle “lettere morte” che (in questo modo Melville fa interrogare l’altro protagonista del suo racconto), forse, ha cambiato profondamente il carattere di Bartleby. Bartleby lo scrivano appare come l’antesignano del moderno lavoratore dei servizi e del terziario che, oltre a una sfera fisica ed intellettuale, coinvolge la sfera emotiva nella produzione. È proprio la sfera emotiva che è interessata dal mobbing, che poi produce effetti su quella fisica e psicologica. Non a caso il concetto di mobbing evoca un’idea evoluta del luogo di lavoro, che non è solo un luogo fisico ma soprattutto un luogo emotivo perché in esso si concentrano umori, sensibilità, culture differenti. È spesso anche un luogo di sofferenza, di disagio, di insoddisfazione, di conflitto, dove possono accadere vicende simili a quelle di Bartleby lo scrivano: per queste ragioni i temi della serenità psicologica e il benessere psicofisico dei luoghi di lavoro e gli aspetti emotivi e motivazionali delle attività lavorative vengono sempre di più considerati come strategici per l’organizzazione e la gestione delle risorse umane. Da più parti è stato osservato come il mobbing produca una molteplicità di effetti negativi. Innanzitutto, sulla salute del lavoratore, da intendersi non solo come salute fisica. L’articolo 2087 del codice civile, al quale si è quasi sempre ricorso a tutela e salvaguardia del lavoratore da tutte quelle situazioni definibili come di mobbing, protegge infatti la sua “personalità morale” oltre che la sua salute psico–fisica. Il mobbing si riverbera, inoltre, sull’efficienza dell’amministrazione in quanto genera una diminuzione della produttività nel lavoro e dunque viola indirettamente il principio di buon andamento. Produce, inoltre, conflitto organizzativo in quanto altera la serenità dell’ambiente di lavoro nel suo complesso, produce effetti, cioè, anche sugli altri lavoratori. Genera, inoltre, costi economici sul sistema sanitario legati alla cura degli effetti negativi sulla salute del lavoratore mobbizzato e costi sociali relativi alla sfera privata e familiare del lavoratore. È innegabilmente un fenomeno che lede principi di rilevanza costituzionale: l’art. 2, dove si riconoscono e garantiscono i diritti inviolabili dell’uomo, potendo il luogo di lavoro essere considerata una delle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità; l’art. 3 che sancisce il principio di uguaglianza e di pari dignità sociale; l’art. 4 che prevede che ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie DOTTRINA possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società. Secondo l’impostazione costituzionale, il lavoro si configura come un mezzo di svolgimento della personalità di ciascun cittadino e, dunque, costituisce un vero e proprio diritto soggettivo la pretesa del lavoratore di eseguire tranquillamente e serenamente la prestazione lavorativa contrattualmente richiestagli. Ma ciò che più preoccupa del fenomeno, non è solo l’effetto finale delle pratiche di mobbing, ovvero, la sua manifestazione finale sul piano fisico e psicologico del lavoratore, quanto piuttosto il meccanismo inquietante sulla base del quale esso si sviluppa. Il problema è, infatti, la sottile, impalpabile logica del mobbing che ne fa un fenomeno spesso e sinuoso, che si nasconde tra le pieghe dei comportamenti rituali ma che come un torrente carsico resta sotterraneo, lavora in silenzio, ed esplode improvvisamente con tutto il suo carico di nichilismo distruttivo. È stato sottolineato che il fenomeno può realizzarsi, infatti, attraverso atti che non sono necessariamente illegittimi, ma lo diventano con la loro ripetitività e sistematicità, creando cioè quella specie di trappola, di tela del ragno emotiva dalla quale risulta difficile fuggire. Sulla base di queste premesse, il mobbing viene quindi classificato come una fattispecie complessa a formazione progressiva, cioè composta da una molteplicità di fatti logicamente e cronologicamente legati fra loro, tanto che l’effetto-danno finale viene subordinato all’accadimento di tutti i fatti previsti dalla fattispecie astratta. La logica inquietante del mobbing è che colpisce la serenità del lavoratore, non a caso la giurisprudenza ha considerato il danno derivante dalla lesione alla personalità morale del lavoratore, come costruito dall’art. 2087 del c.c., come avente rilevanza autonoma rispetto al danno patrimoniale e al cosiddetto danno biologico. L’aspetto più interessante dell’antigiuridicità della condotta mobbizzante è nel fatto che la molestia morale rileva in re ipsa, indipendentemente dall’eventuale pregiudizio che possa altrimenti derivare per il lavoratore. Il mobbing cioè può determinare una diversa lesione patrimoniale o alla vita di relazione e così scemare la capacità reddituale o quella relazionale, ma può anche esaurirsi in se stesso, provocando il solo disagio derivante dall’effetto emotivo dell’ambiente di lavoro e dunque la compromissione oggettiva della personalità del lavoratore, non a caso in materia di mobbing è stata ipotizzata anche la fattispecie di quello che oggi la dottrina configura come danno esistenziale. Ma una volta chiariti i margini dell’antigiuridicità del fenomeno si apre un problema rilevante e cioè affrontare le possibili soluzioni di coltura dei fenomeni mobbizzanti e prevenirli. Ancor più per le 69 DOTTRINA 70 amministrazioni pubbliche dove solo di recente si è osservato un interesse per il fenomeno del mobbing anche a seguito delle recenti innovazioni che hanno avvicinato il lavoro pubblico al lavoro privato dove, storicamente, il fenomeno si è manifestato. Le stesse parti contrattuali che hanno sottoscritto il CCNL personale Comparto Ministeri, quadriennio normativo 2002-2005 e biennio economico 2002-2003, hanno preso atto “che nelle pubbliche amministrazioni sta emergendo, sempre con maggiore frequenza, il fenomeno del mobbing, inteso come forma di violenza morale o psichica in occasione di lavoro – attuato dal datore di lavoro o da altri dipendenti – nei confronti di un lavoratore” (art. 6). Al di là dei casi strettamente connessi alle caratteristiche psicologiche individuali legate al carattere dei lavoratori, a chi studia l’organizzazione pubblica interessa l’analisi del sistema di funzionamento dei meccanismi operativi della catena del comando e della decisione, dei rapporti con gli altri lavoratori, del sistema organizzativo-funzionale. Cioè interessa chiedersi, al di là degli aspetti meramente caratteriali degli individui, se e in quale punto critico del sistema organizzativo possano svilupparsi più facilmente situazioni in grado di generare mobbing. Al di là degli aspetti eminentemente giuridici è infatti importante anche valutare se all’interno della configurazione dei poteri di decisione e comando, nei meccanismi di funzionamento dell’amministrazione, vi siano delle zone di criticità nei quali possa svilupparsi il mobbing. Che il mobbing trovi spesso una sua origine in situazioni connesse con il funzionamento del sistema organizzativo appare pacifico, non a caso l’art. 6 del CCNL personale Comparto Ministeri, quadriennio normativo 2002-2005 e biennio economico 2002-2003, ha previsto che tra i compiti dei Comitati Paritetici sul fenomeno del mobbing, da istituire presso ciascuna amministrazione, sia inclusa l’individuazione delle possibili cause del fenomeno, con particolare riferimento “alla verifica dell’esistenza di condizioni di lavoro o fattori organizzativi e gestionali che possano determinare l’insorgere di situazioni persecutorie o di violenza morale”. Il fronte organizzativo e gestionale si candida, dunque, ad essere uno dei terreni di osservazione privilegiata del fenomeno e dunque rappresenta uno dei temi centrali nelle attività di monitoraggio e di studio del fenomeno. In concreto i casi di mobbing orizzontale nelle amministrazioni pubbliche appaiono prima facie ancora rari, ciò a causa di uno spirito molto pronunciato di solidarietà tra dipendenti pubblici posti sullo stesso piano gerarchico funzionale non intaccato da logiche competitive e premianti che restano, a tutt’oggi, riservate all’area della dirigenza. La mancanza di DOTTRINA meccanismi competitivi tra dipendenti delle aree azzera di fatto le possibili frizioni e i conflitti organizzativi legati alla sfera dell’antagonismo tra lavoratori che anzi si presentano come un blocco omogeneo alle funzioni decisorie e gestorie della dirigenza. Appaiono invece più facilmente concretizzabili i casi di mobbing verticale anche in ragione delle recenti radicali innovazioni nelle logiche di funzionamento del sistema di decisione e di comando che hanno coinvolto le amministrazioni e dell’introduzione di logiche privatistiche nell’organizzazione e nel funzionamento delle 1 amministrazioni previste dal decreto legislativo n. 165 del 2001 . In particolare, il mobbing verticale, cioè quello esercitabile nell’ambito del rapporto di lavoro dipendente da chi si trova in una posizione di supremazia gerarchica, può svilupparsi soprattutto in relazione alla nuova configurazione delle funzioni e dei poteri della dirigenza pubblica. Essa, infatti, svolge le sue attività in relazione ad obiettivi da raggiungere e di conseguenza accentua le sue funzioni di autonomia nella gestione e organizzazione del personale e di gestione dei rapporti di lavoro (art. 16, comma 1, lettera h, del decreto legislativo n. 165 del 2001) rispetto alle quali ha poteri e capacità simili a quelle del privato datore di lavoro (art. 5, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001). Sul punto però bisogna fare molta attenzione: non si vuol sostenere che l’attuale configurazione dei poteri dirigenziali è astrattamente in grado di determinare pratiche mobbizzanti, si osserva, puramente e semplicemente, che tale sistema aumenta in modo esponenziale l’idoneità a incidere con decisioni organizzative sulla sfera individuale del lavoratore. Per questa ragione rappresenta un punto di possibile criticità del sistema che merita attenzione. A ciò si aggiunge la fine del mansionismo e delle rigidità strutturali ed organizzative delle amministrazioni (che comportavano la conseguenza che il lavoratore venisse preposto all’esercizio di specifiche mansioni difficilmente modificabili) e l’attenuazione dei canoni della legalità nella gestione delle risorse a favore del parametro del risultato, possono essere interpretati come cause strutturali potenzialmente idonee a incrementare il mobbing. Su questo punto tuttavia è necessario ribadire che non è ipotizzabile un rapporto diretto causa-effetto tra l’introduzione di meccanismi di funzioni performance oriented e lo sviluppo del mobbing nel lavoro pubblico. Anche nel sistema organizzativo 1 Sul punto è drastico Oricchio M., Il mobbing nel pubblico impiego, in Giust.It: "Dall'esame della casistica fin qui emersa si può rilevare come nel publico impiego (privatizzato) la principale causa di possibili atteggiamenti "mobbistici" è da ricercare nella testé richiamata deprecabile tendenza legislativa in atto che ha affievolito il ruolo dei canoni della legittimità e della legalità dell'agire amministrativo, sacrificandoli sull'"altare" di un malinteso efficientismo che certo non è un principio antitetico ai primi (come testimonia l'art. 97 della Costituzione)". 71 DOTTRINA 72 burocratico-formale, fondato sulle norme, si sviluppano, come è stato 2 autorevolmente sostenuto, forme di autoritarismo . Quello che qui si vuole sostenere è che occorre prestare attenzione sul modo in cui viene vissuta nel sistema organizzativo pubblico, sia dal management che dai suoi collaboratori, una trasformazione culturale che è destinata a mutare nel profondo i meccanismi di funzionamento del sistema. Un altro fronte interessante è quello relativo all’innovazione tecnologica. Sono state proposte chiavi di lettura interessanti relativamente all’analisi del fenomeno dal punto di vista delle sue correlazioni con la trasformazione 3 della prestazione lavorativa a seguito dell’introduzione di sistemi ICT . Inoltre non può essere trascurato come fattore escludente il cultural gap di cui soffre il lavoratore nei confronti delle innovazioni tecnologiche e culturali in genere. Se è vero che in questi anni si sta riducendo il digital divide all’interno del sistema pubblico, è tuttavia persistente il rischio che, anche per ragioni differenti, un segmento di dipendenti resti escluso dal processo di adeguamento dei processi lavorativi alla net culture e che tale processo possa essere inevitabilmente destinato a produrre fenomeni di marginalizzazione. Il fronte delle flessibilità è un altro terreno “minato”. La flessibilità, termine con il quale in genere si descrivono una gamma di istituti contrattuali che riguardano le modalità della prestazione di lavoro diverse da quelle tradizionali del lavoro a tempo pieno e indeterminato, è considerato uno dei fattori strategici per la crescita e la modernizzazione del mercato del lavoro. Nel sistema di regolamentazione dei rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche sono, dunque, oramai presenti diverse forme contrattuali flessibili come il lavoro interinale, i contratti formativi, i contratti a termine, il lavoro a tempo parziale. Ad essa vengono ricondotti effetti benefici sul costo del lavoro, sui programmi di sviluppo e di riqualificazione della forza lavoro, sulla maggiore elasticità nell’offerta dei servizi agli utenti e, conseguentemente, sulla qualità dell’organizzazione amministrativa. Vi sono casi di denunce di esclusione e di marginalizzazione Rugiadini A., Organizzazione aziendale, Milano. Fagiani S., Il mobbing e l'information e comunication tecnology. "Essendo fuor di dubbio che le nuove tecnologie hanno modificato profondamente il rapporto di lavoro, portando ad una concentrazione della sfera professionale con la sfera personale di chi opera, costringendolo a configurare la propria attività lavorativa come una obbligazione di risultato, sono divenute più agevoli sia l'intrusione del superiore gerarchico nella sfera personale del lavoratore dipendente con il pretesto del controllo dell'attività lavorativa, dei suoi contenuti, dei tempi impiegati, etc., sia la malevola intromissione, da parte dei suoi colleghi, nel lavoro del dipendente, provocandogli preoccupazioni, stress e possibili lesioni alla sua integrità psicofisica". Sul punto anche Gallitto B., Nuove prospettive di tutela. Riflessioni sul mobbing. 2 3 DOTTRINA del lavoratore flessibile, per esempio, del lavoratore pubblico a tempo determinato, rispetto al contesto in cui si trova a svolgere la sua prestazione di lavoro, marginalizzazione che in questo caso può manifestarsi sia in senso orizzontale che verticale. Questi, infatti, può essere considerato, sul fronte dei rapporti orizzontali, un estraneo dalla struttura e dunque vivere in una situazione di esclusione dalla comunità lavorativa; sul fronte del suo rapporto con il sistema gerarchico, subire la pressione psicologica della scadenza del contratto e, dunque, essere più vulnerabile ad abusi dei poteri dirigenziali. Tuttavia anche in questo caso occorre la massima cautela per evitare il rischio che si possa superficialmente dedurre una relazione di causa effetto tra le forme di lavoro flessibili e le situazioni di mobbing. Il tema della prevenzione del mobbing, dal punto di vista dell’analisi dei punti di criticità del sistema organizzativo, meriterebbe un discorso più ampio ed articolato. Accanto al fronte informativo sui luoghi di lavoro, ad esempio, attraverso campagne di comunicazione, e a quello della formazione sui temi dei risvolti emotivi connessi alla gestione delle risorse umane rivolto alla dirigenza, sul terreno dell’organizzazione, ci sembra prioritaria la trasformazione degli uffici del personale in uffici di gestione delle risorse umane. Al di là del mero dato nominalistico, questa trasformazione reca con sé il superamento della gestione giuridico-economica del personale verso la gestione delle professionalità ed emotività. Il sistema organizzativo delle amministrazioni pubbliche necessita di strutture che, se da un lato sono finalizzate a sviluppare la crescita del potenziale innovativo dei dipendenti, dall’altro siano in grado di agire sul luogo di lavoro come luogo di esplicazione della personalità umana e dunque come luogo di realizzazione e soddisfazione ma anche disagio e conflitto. Come infatti ci suggeriscono i segnali che giungono dai settori più innovativi del sistema del lavoro privato, per l’ottimale gestione delle professionalità sarà infatti sempre più strategico il tema della serenità psicologica e il benessere psicofisico dei luoghi di lavoro e gli aspetti emotivi e motivazionali delle attività lavorative. 73 DOTTRINA Le esperienze regionali di Caterina Cordella* 75 1. La modifica costituzionale operata dalla L. Cost. 3/2001 ha introdotto un 1 nuovo criterio di riparto delle competenze legislative fra Stato e Regioni . Allo Stato non spetta più una generale potestà normativa, bensì un potere legislativo esercibile in alcune materie tassativamente determinate e indicate nell’art. 117, Cost., comma 2. In tutte le altre materie la competenza legislativa delle Regioni è in concorrenza con il legislatore nazionale o è esercitabile in via esclusiva. Il nuovo art. 117 ha operato la seguente distinzione: • potestà legislativa dello Stato, nelle materie espressamente indicate opera una vera e propria preclusione per il legislatore regionale; • potestà legislativa concorrente, si tratta di materie individuate nel comma 3 e nelle quali vi è una suddivisione dei compiti tra lo Stato e le Regioni: al primo spetta il compito di “determinare i principi fondamentali” (leggi quadro o leggi cornice), mentre alle Regioni spetta il compito di emanare la legislazione specifica di settore; • potestà legislativa esclusiva delle Regioni, le materie che rientrano in tale ambito non sono definite nel testo costituzionale, ma vanno ricavate per esclusione sicché hanno un carattere indefinito. All’ampliamento dell’autonomia legislativa regionale ha fatto seguito anche la semplificazione dei sistemi di controllo che sono stati adeguati alla nuova dignità costituzionale riconosciuta alle autonomie territoriali: il controllo di conformità alla Costituzione, sia delle leggi regionali che delle leggi statali, viene effettuato solo dopo che l’atto legislativo è entrato in vigore ex art. 127 Cost. Se si è certi che sull’effettiva portata della riforma sarà la giurisprudenza *Segretario - Direttore Generale Enti locali, avvocato, esperta nella Gestione e Organizzazione delle Risorse Umane. 1 L. Cost. 18 ottobre 2001, n.3. DOTTRINA 76 della Corte Costituzionale a svolgere un ruolo importante, dal nuovo art. 117 Cost. emerge nitida la difficoltà di collocare la vasta materia della disciplina del lavoro nell’ambito della tripartizione su delineata. Non è di immediata comprensione come debba sul piano applicativo ripartirsi tra Stato e Regioni la potestà normativa in materia. Infatti, nel quadro costituzionale delineato, la materia del mobbing è solo un aspetto della materia lavoristica. Tuttavia, l’apposita legge regionale del Lazio e il ricorso per questione di legittimità costituzionale (per violazione dell’art.117, comma secondo, lettera g), e 119, comma quarto) che l’ha investita, inducono, prima di analizzare i contenuti della legge regionale e di altre iniziative legislative proposte da altre regioni, a chiarire come si configuri la potestà normativa in materia. Che il fenomeno del mobbing, come “patologia sociale dilagante”, necessiti di interventi normativi ad hoc tesi a prevenire e a combattere questa condotta impropria che reca offesa alla personalità, alla dignità e all’integrità fisica o psichica di una persona, appartiene al sentire comune come testimoniano i numerosi disegni di legge in materia. Analogamente, dopo la legge della Regione Lazio e il successivo ricorso alla 2 Corte Costituzionale è di cogente attualità la necessità individuare il legislatore competente in materia. 3 Come è stato osservato , non è facile collocare nei “territori” indicati dal nuovo art. 117 la vastissima materia della disciplina dei rapporti di lavoro in generale; la norma, infatti, nella elencazione delle materie, utilizza termini difficilmente traducibili in un linguaggio significativo per il giuslavorista: “immigrazione”, “tutela della concorrenza”, “perequazione delle risorse finanziarie”, “ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali”; “giurisdizione e norme processuali”; “ordinamento civile e penale”; “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”, “previdenza sociale”; “tutela e sicurezza del lavoro”; “istruzione e formazione professionale”, etc. E sebbene l’art. 117, terzo comma, della Costituzione demandi alla competenza concorrente Stato-Regioni la “tutela e sicurezza del lavoro”, nonché la “previdenza complementare e integrativa” è difficile ritenere che tali formule esauriscano l’intero ambito della competenza legislativa in materia di “lavoro”, con la conseguenza che gli ambiti di competenza esclusiva dello Stato necessitano di definizione. Il ricorso per questione di legittimità costituzionale è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 30-10-2002. 3 Zoppoli, La riforma del Titolo V della Costituzione e la regolazione del lavoro nelle pubbliche amministrazioni: come ricomporre i “pezzi” di un difficile puzzle? In www.lavoro.unisannio.it 2 DOTTRINA In merito, come peraltro sottolineato dalla sentenza n. 282/2002 della Corte Costituzionale, corre l’obbligo “riempire di contenuto” le clausole generali e le specifiche riserve di competenza legislativa esclusiva del legislatore statale contenute nell’art. 117, secondo comma. Per la materia del diritto del lavoro impongono una riflessione il riferimento all’”ordinamento civile”; alle “determinazioni dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, contenute nell’articolo citato. Se, dunque, la formula “tutela e sicurezza del lavoro”, come già osservato, non può considerarsi esaustiva dell’intera materia giuslavoristica, con la conseguente difficoltà di accedere alla tesi di una “regionalizzazione” della regolazione dei rapporti di lavoro, non può peraltro non considerarsi la 4 copiosa giurisprudenza della Corte Costituzionale che ha sempre affermato che l’ordinamento del diritto privato, ovvero la regolamentazione dei rapporti interprivati deve essere disciplinata in via esclusiva dallo Stato perché possa garantirsi un’effettiva uguaglianza formale tra i cittadini. Queste considerazioni portano ad asserire il permanere di una competenza legislativa esclusiva dello Stato per quanto concerne le linee ordinamentali della disciplina dei rapporti di lavoro, quelli che possiamo definire gli aspetti privatistici, in quanto parte della materia dell’ “ordinamento civile”. La potestà legislativa concorrente delle regioni, invece, ed è questa la vera novità della riforma del Titolo V della Costituzione, deve avere ad oggetto quella che possiamo denominare la parte pubblicistica del diritto di lavoro: il mercato del lavoro, il collocamento e i servizi per l’impiego, la previdenza complementare e integrativa, l’igiene e la sicurezza del lavoro. La competenza esclusiva delle regioni concernerebbe, de residuo, l’istruzione e la formazione professionale e l’assistenza sociale. Partendo dunque da tale sommaria ripartizione della potestà normativa nella materia del diritto del lavoro, c’è da chiedersi: il mobbing attiene alla disciplina dei rapporti di lavoro e quindi accede alla materia dell’ordinamento civile, con la conseguente competenza legislativa esclusiva dello Stato? Oppure la tematica, poiché rientrante nella materia “dell’igiene e sicurezza” rientra nella potestà normativa concorrente della Regione? Per rispondere alla domanda è necessario riflettere sul mobbing per inquadrare tale fenomeno sotto il profilo tecnico-giuridico, anche alla luce Sul punto v. Corte Costituzionale sentenze n.154/1972, n. 691/1988, n. 35/1992, n. 307/1996, n. 352/2001. 4 77 DOTTRINA 78 della recente giurisprudenza intervenuta in materia. Il fenomeno del mobbing è complesso e può essere realizzato attraverso svariate condotte vessatorie con effetti più o meno devastanti sull’equilibrio psico-fisico del lavoratore; soffermiamoci, allora, sui diversi comportamenti cui la giurisprudenza ha dato rilevanza giuridica nel senso di condurre ad una affermazione di civile o penale responsabilità in mancanza di una normativa specifica. La giurisprudenza senza difficoltà ha prestato tutela giuridica per quei comportamenti che possono essere ricondotti a norme giuridiche esistenti: si pensi, ad esempio, alla dequalificazione professionale del lavoratore ex art. 2103 ovvero all’art. 594 c.p. per le ingiurie. La questione è più problematica quando il mobbing si manifesta con comportamenti atipici che non hanno alcuna regolamentazione giuridica specifica; sono queste le ipotesi che necessitano di un intervento normativo. Contro i comportamenti atipici, che nella loro reiterazione assurgono a pratiche vessatorie del mobbing, in mancanza di una normativa ad hoc, la giurisprudenza (ma anche la dottrina) hanno individuato quali forme di 5 6 tutela l’art. 2043 e l’art. 2087 c.c. Il primo articolo ha introdotto nel nostro sistema il principio fondamentale del neminem laedere che configurerebbe in capo al mobber una responsabilità aquiliana o extracontrattuale con l’onere della prova in capo al mobbizzato che, agendo giudizialmente ai fini del risarcimento del danno, sarebbe tenuto a fornire la prova della condotta antigiuridica dell’agente, del danno patito, del nesso di causalità tra danno e condotta, della consapevolezza, sotto i profili del dolo o della colpa, del soggetto agente. Il secondo contro le tutele vessatorie ha una importanza fondamentale perché impone al datore di lavoro il divieto di compiere qualsiasi comportamento lesivo dell’integrità fisica e della personalità morale del dipendente, ma anche di prevenire e scoraggiare simili condotte nell’ambito dello svolgimento dell’attività lavorativa. Dalla violazione di tale obbligo scaturisce la responsabilità contrattuale del datore di lavoro. Sotto il profilo probatorio, graverebbe in questo caso non già sulla vittima ma sul datore di lavoro, ai fini della esclusione della responsabilità, la prova di aver adottato tutte le cautele necessarie per tutelare l’integrità fisica e la personalità del 5 Art. 2043. Risarcimento per fatto illecito. Qualunque fatto doloso, o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno. 6 Art. 2087. Tutela delle condizioni di lavoro. L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori d’opera. DOTTRINA lavoratore. L’applicazione dell’art. 2087 c.c. ai casi di mobbing assicura così una tutela forte alla vittima perché impone al datore di lavoro non soltanto di astenersi da comportamenti vessatori e persecutori nei confronti dei lavoratori, ma anche l’obbligo di vigilare che tali situazioni non si verifichino per iniziativa di altri soggetti, dirigenti e colleghi, nei luoghi di lavoro soggetti a controllo. La ricostruzione giurisprudenziale del fenomeno induce a ritenere che una tutela effettiva e concreta del fenomeno del mobbing debba necessariamente passare per una qualificazione giuridica di quegli atti e comportamenti che oggi solo lo sforzo interpretativo sistematico dei giudici consente di punire, nonostante l’ampia letteratura medico-legale in materia sia giunta a individuarli nell’ambito della strategia subdola posta in essere dal mobber per annientare la vittima dalla organizzazione del lavoro, previa messa in discussione dell’identità professionale, delle capacità professionali e relazionali, della propria utilità sociale. Un intervento legislativo in materia dovrebbe definire il fenomeno del mobbing e individuare, in via esemplificativa, tutti quegli atti e comportamenti che gli ampi studi in ambito medico condotti da sociologi e psicologi del lavoro hanno individuato. In questo modo le critiche immotivate e gli atteggiamenti ostili; la delegittimazione dell’immagine, anche di fronte ai colleghi; l’impedimento sistematico ed immotivato all’accesso a notizie ed informazioni inerenti l’ordinaria attività di lavoro dovrebbero, se sistematici e duraturi, essere comportamenti espressamente puniti dal legislatore perché rientranti nel mobbing. Così anche i mobbing-scettici si convincerebbero che vi è nell’ambito del rapporto contrattuale di lavoro un valore che l’ordinamento giuridico ha inteso tutelare: la dignità professionale. Ma poiché il legislatore dovrebbe qualificare atti e comportamenti che attengono il rapporto contrattuale di lavoro, materia attinente ai rapporti civilistici e come tale, secondo quanto asserito precedentemente, rientrante nell’ambito “dell’ordinamento civile”, “territorio” di competenza legislativa esclusiva dello Stato ex art. 117 Cost., secondo comma, ne consegue che per realizzare l’uguaglianza formale tra i lavoratori nel rapporto di lavoro, la definizione di mobbing debba necessariamente rientrare nella potestà normativa esclusiva dello Stato. Logico corollario di tale impostazione è che in materia le Regioni avrebbero solo una competenza concorrente per gli aspetti pubblicistici concernenti le misure relative alla materia dell’igiene e della sicurezza per la quale comunque resta ferma la necessità che lo Stato detti i principi fondamentali in materia. 79 DOTTRINA 80 2. La L.R. Lazio 11-07-2002 n. 16 “Disposizioni per prevenire e contrastare il fenomeno del mobbing nei luoghi di lavoro”, come già accennato, è stato il primo intervento normativo in Italia in materia. Contro tale legge, animata dalle migliori intenzioni, ideata per combattere il mobbing nelle aziende pubbliche e private nelle more - sottolinea l’art.1 - dell’emanazione di una disciplina organica dello Stato in materia, è stato prontamente promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri un contenzioso costituzionale. Per supportare il ricorso costituzionale, l’Avvocatura di Stato, correttamente, sottolinea che laddove nell’art. 2 della legge si cerca di descrivere e qualificare alcuni atti e comportamenti posti in essere nei confronti di (singoli) lavoratori dipendenti, pubblici e privati, da parte del datore o da soggetti posti in posizione sovraordinata ovvero da altri colleghi (non sovraordinati), questi, qualificati illeciti e da contrastare, incidono sulla disciplina civilistica dei rapporti di lavoro subordinato regolati dal diritto privato (sia il datore di lavoro un privato o una pubblica amministrazione) e persino sulla disciplina pubblicistica dei (residui) rapporti di pubblico impiego statale. Tali atti e comportamenti, che nel ricorso si afferma essere “di difficile descrizione e delimitazione in astratto e di ancor più difficile individuazione nel concreto” (interpretazione dalla quale si dissente 7 totalmente in considerazione della legislazione dei Paesi europei in materia e di quanto elaborato dalla specifica letteratura), poiché attengono alla materia dell’”ordinamento civile” secondo l’art. 117 Cost. secondo comma lettera l) possono essere qualificati e individuati solo nell’ambito della legislazione esclusiva dello Stato. Inoltre, per il caso che il datore di lavoro sia una amministrazione statale, il permanere di una legislazione esclusiva dello Stato si evince dal tenore dell’art. 117 secondo comma lettera g) “ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali”. Non solo, ma, dice l’Avvocatura, la legge dichiaratamente coinvolge anche le materie della “tutela della salute” e della “tutela e sicurezza del lavoro” le quali sono attribuite ex art. 117, terzo comma Cost. alla competenza legislativa concorrente di Stato e Regioni. Lo Stato, dunque, nella materia de qua deve fissare i principi fondamentali. A tale riguardo, se stupisce che la Regione Lazio, nonostante il riconoscimento nella stessa legge che spetti allo Stato definire ai fini civilistici il mobbing e indicare i principi in tema di tutela della salute e del 7 Sulla legislazione europea in materia si rinvia alla tesi di specializzazione di Luisa Lerda “Orientamenti di diritto europeo in tema di mobbing” pubblicata sul sito www.mobbingonline.it. DOTTRINA lavoro, abbia comunque legiferato, realizzando un intervento sostanzialmente sostitutivo o anticipatorio del legislatore statale non previsto dalla Costituzione, al contempo non è del tutto condivisibile quel passaggio nel ricorso laddove in qualche modo si giustificano i tempi lunghi di riflessione del Parlamento nazionale in materia con la “difficoltà di disciplinare una molteplicità variegata di comportamenti umani di sovente sfuggevole essenza e l’impatto sui rapporti interpersonali anche extragiuridici”. Sul punto, il legislatore regionale del Lazio, a differenza del Parlamento nazionale, ha messo a punto una legge che, anche se “viziata” sotto il profilo della potestà normativa, si dimostra innovativa giacché capace di recepire e difendere le istanze di quei lavoratori, privati e pubblici, che nell’attuale organizzazione del lavoro sempre più flessibile chiedono una legislazione specifica contro la violenza psicologica in virtù del diritto di rimanere in uno stato di benessere mentale nel proprio ambiente di lavoro. La legge, inoltre, oltre ad uno sforzo definitorio nella individuazione degli atti e comportamenti che realizzano il mobbing quale vera e propria forma di persecuzione psicologica o di violenza morale, appare innovativa anche laddove prevede disposizioni organizzative e strumentali come l’istituzione di centri anti mobbing dislocati sul territorio promossi dalle ASL, il rinvio alle iniziative specifiche degli enti locali e la nascita di un osservatorio regionale sul mobbing. Pertanto, al di là dei paventati conflitti di competenza, su cui è chiamata a decidere la Corte Costituzionale, si auspica che la “solerzia” della Regione Lazio induca lo Stato non solo a rivendicare la propria potestà normativa esclusiva e concorrente ma a dimostrare tanto zelo anche nell’esercitarla. Le 8 numerose iniziative legislative fanno ben sperare . 3. In attesa di una legge statale che disciplini e qualifichi gli atti e i comportamenti che costituiscono mobbing e i principi fondamentali concernenti gli aspetti pubblicistici del fenomeno ovvero quelli attinenti l’igiene e la sicurezza, alcune regioni hanno messo a punto disegni di legge pronti a trasformarsi in legge, i cui iter legislativi però hanno segnato una battuta d’arresto in considerazione della mannaia del ricorso costituzionale che ha investito la legge della Regione Lazio. L’attivismo delle Regioni dà comunque la misura di quanto alto sia l’interesse in materia. Una disamina delle iniziative legislative più significative offre spunti di V., al riguardo, il sito web www.pegacity.it/justice/impegno/link3.html. 8 81 DOTTRINA 82 riflessioni suggestivi sia sotto il profilo definitorio, sia sul piano della tutela. Si segnala il progetto di legge n. 221 della Regione Veneto, il quale, dopo aver segnalato che il mobbing è la causa del 15% dei suicidi nel nostro Paese e che esso costituisce una condotta impropria che reca offesa alla personalità, alla dignità e alla integrità psichica di una persona, con un approccio pragmatico al problema, evidenzia, nella relazione di accompagnamento, come esistano costi sociali e sanitari assolutamente considerevoli conseguenze di azioni di mobbing. Tali conseguenze, si aggiunge, ricadono sulla famiglia, sui suoi equilibri, sull’azienda, sugli istituti di previdenza e sul sistema sanitario. Movendo dalla considerazione che il Veneto è la seconda regione italiana per produttività, ma anche quella con il più pesante disavanzo dei costi sanitari, si ritiene che con una legge di tutela e prevenzione dei casi di effettivo mobbing si possano quantificare i costi che questi generano nel corso della loro evoluzione cosicché siano imputabili a chi li ha causati. L’obiettivo è un recupero in attivo delle spese sanitarie. Nel progetto di legge vi è inoltre l’equiparazione del mobbing ad una malattia professionale, correlata al 9 lavoro, malattia psicologica che da indagini europee risulta avere riflessi eclatanti sul prodotto interno lordo. Sul versante della tutela il progetto di legge si pone quale supporto e integrazione a quanto già contenuto nell’art. 2087 del c.c. e negli art. 437, 451, 582, 590, 660 del c.p., nonché nella L. 300/1970 e nel d.lgs. 626/94; inoltre, per il raggiungimento di una comune cultura della prevenzione, si propone una fattiva collaborazione tra tutte le parti coinvolte: aziende sanitarie locali, organizzazioni sindacali, associazioni dei datori di lavoro, ispettorati di previdenza, associazioni dei datori di lavoro e soprattutto i medici di base i primi, di solito investiti del problema dei mobbizzati. Per il progetto di legge in esame, il datore di lavoro ha poi l’obbligo di emanare un codice interno di corretto comportamento che deve contenere il divieto di porre in essere atti e comportamenti che, espressamente enucleati costituiscono il mobbing. La violazione di tali obblighi determina l’applicazione di sanzioni amministrative; questa rappresenta l’innovazione più significativa rispetto agli strumenti per legge finora disponibili, in quanto introduce una 9 In Germania un lavoratore mobbizzato costa all’azienda 150 milioni di euro all’anno per perdite dovute all’assenza o al minor rendimento. Il 50% dei lavoratori colpiti è in malattia 6 settimane l’anno, il 31% è in malattia dal mese e mezzo a oltre tre mesi. L’assenteismo generale sale dal 23% al 34%. I riflessi sul prodotto interno lordo sono eclatanti: la municipalità di Ginevra ha calcolato che per molestie morali le aziende pubbliche e private perdono 2.400 miliardi di euro all’anno. In Inghilterra si perdono 80 milioni di giorni lavorativi e 6.000 miliardi di euro. Per l’Italia si può considerare per difetto una perdita di 1.000 miliardi di euro all’anno. DOTTRINA fattispecie d’evento sin qui non tipizzata. Sempre con l’intento di prevenire più che curare le vittime del mobbing, interessante appare anche il disegno di legge n. 98 della Regione Sardegna che per far fronte a questa nuova forma di “disagio sociale” intende affrontare la tematica del mobbing con un approccio non solo giuslavoristico, tendente essenzialmente a far emergere il danno biologico e a delineare il conseguente aspetto sanzionatorio o risarcitorio. Nel disegno di legge si parla di “azioni positive” perché le norme per non essere vane hanno bisogno di iniziative specifiche attive. Le azioni positive previste in favore dei lavoratori mobbizzati e delle loro famiglie consistono nella: • osservazione sistematica del fenomeno mobbing e delle sue caratteristiche con la previsione di una sezione dell’osservatorio sul mercato del lavoro; • prevenzione, cura, riabilitazione psicofisica, sociale e professionale delle vittime del mobbing attraverso specifiche terapie psicologiche; • consulenza formativa, comportamentale e legale rivolta ai lavoratori con incarichi decisionali e ai formatori all’interno delle aziende e degli enti pubblici; • attivazione di centri d’ascolto promossi dagli enti locali e dalle associazioni non profit, per garantire alle vittime consulenza, assistenza legale e psicologica. In questo disegno di legge, la Sardegna punta su azioni positive per creare la cultura del rispetto della dignità del lavoratore in una organizzazione del lavoro sempre più spietata che addirittura in alcuni contesati lavorativi sembra guardare con favore a quegli individui che per realizzarsi hanno bisogno di umiliare gli altri o che per esistere hanno bisogno di distruggere una persona, o semplicemente, fatto un elementare calcolo economico, constatano che sia meno costoso eliminare un collaboratore, mobbizzandolo. Sulla scorta di quanto la Corte Costituzionale deciderà sul riparto della potestà normativa in materia, sarà importante seguire l’evoluzione normativa in materia, anche perché si è sempre più persuasi del fatto che nessun lavoratore può ritenersi estraneo al problema e, dunque, al riparo dal rischio 10 di un coivolgimento, diretto e personale, in un caso di mobbing. Siti tematici di interesse: www.mobbingonline.it; www.antimobbing.it; www.unicam.it; www.mobbing-web.de/; www.lejman.se; www.pegacity.it/justice/impegno/link3.html. 10 83 DOTTRINA Le prime norme scritte sul mobbing nelle leggi regionali e nei contratti collettivi di Gianpiero Profeta* 85 La Regione Lazio, il CCNL dei dipendenti dello Stato ed alcuni contratti 1 decentrati fanno da apripista nella previsione normativa sul mobbing. Con la legge n. 16 del 11 luglio 2002 della Regione Lazio si affronta per la prima volta ufficialmente il tema del “mobbing” introducendo, nell’ampio dibattito in corso intorno a questo fenomeno, una definizione giuridica. Il tentativo operato dalla Regione Lazio ha, però, incontrato la disapprovazione del governo che ha proposto ricorso alla Corte Costituzionale per illegittimità costituzionale della legge (violerebbe l’art. 2 117 per più motivi) . 3 Di questo argomento si occupa, in questo volume, altro contributo . Qui esamineremo la normativa introdotta dalla legge senza tener conto degli eventuali profili di illegittimità costituzionale, considerando il provvedimento avulso da tale problema. Lo scopo principale che si propone la legge regionale è quello di individuare misure per prevenire e contrastare il fenomeno mobbing di cui tanto si discute e nel cui nome, molto spesso, si tende a dare voce indiscriminata a tutte le “sofferenze” causate al lavoratore dallo svolgimento del rapporto di lavoro, siano esse provocate da comportamenti legittimi o illegittimi quanto da situazioni di disagio soggettivo o da meri conflitti personali tra colleghi di lavoro. Per prima cosa il legislatore regionale si è cimentato nel tentativo di dare una definizione del fenomeno. L’art. 2, infatti, circoscrive il fenomeno mobbing a quegli “atti e *Avvocato esperto in diritto del lavoro. 1 Regione Abruzzo, Comuni di Atri, Mosciano, Castellalto, Silvi e Isola. 2 Il testo è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 1° Serie Speciale n. 43 del 30/10/2002. 3 Confronta l’articolo di Caterina Cordella, pag. 75. DOTTRINA 86 comportamenti discriminatori e vessatori protratti nel tempo che si caratterizzano come una vera e propria forma di persecuzione psicologica o di violenza morale”. Pur apprezzando lo sforzo il risultato non può essere condiviso. La definizione è limitativa perché è oramai dato acclarato, in dottrina e giurisprudenza, altresì confermato dalla letteratura scientifica, che il mobbing non si sostanzia necessariamente in comportamenti che singolarmente considerati siano discriminatori o vessatori. L’azione del mobber (o dei mobber in caso di mobbing orizzontale), infatti, si può concretizzare anche attraverso comportamenti che appartengono ai normali canali di comunicazione interpersonale ed a consueti atti di gestione del rapporto che, di per sé, non sono né discriminatori né vessatori. Il mobbing può riscontrarsi anche quando gli atti posti in essere dal mobber sono, singolarmente analizzati, legittimi. Possono essere parte dello stesso processo persecutorio sia atti legittimi che illegittimi. Di norma solo se queste azioni vengono compiute di proposito, frequentemente e per un lungo periodo di tempo (Leymann individua questo lasso di tempo in sei mesi) si possono definire mobbing. La persecuzione, come emerge dalla casistica elaborata, si può attuare ad esempio attraverso l’invio ripetuto di visite di controllo domiciliare, attraverso l’assegnazione di un carico di lavoro che il mobber sa comportare difficoltà per il mobbizzato, attraverso la non assegnazione di un carico di lavoro, attraverso l’apprezzamento negativo di un lavoro svolto, attraverso la simulazione di errori nello svolgimento del lavoro o l’attribuzione di una postazione di lavoro disagiata. In questi casi il mobbing è ravvisabile nella sommatoria di questi ed altri comportamenti che, insieme, procurano al mobbizzato la molestia psichica e/o morale. In virtù di quanto sin ora affermato non può condividersi la scelta operata dal legislatore regionale nel secondo comma dell’art. 2, laddove elenca una serie di fattispecie in cui “possono consistere” gli atti e i comportamenti discriminatori e vessatori cui ha fatto riferimento nel dettare la definizione del fenomeno. Non è questa la strada giusta per individuare e quindi contrastare il mobbing. Una elencazione di comportamenti può solo ingenerare confusione e false aspettative sia in chi tali atti subisce sia in chi è chiamato ad individuare in concreto l’esistenza del mobbing. I comportamenti elencati sono tutti comportamenti illegittimi anche se considerati singolarmente e possono quindi essere autonomamente contrastati indipendentemente DOTTRINA dall’accertamento del mobbing. Il nodo che la norma non scioglie e che, ad avviso di chi scrive, non può essere risolto con la individuazione di una situazione concreta, è quello di chiarire quando e in che combinazione tali eventi possono costituire mobbing. Ha giustamente affermato H. Ege che: “Il mobbing può conoscersi solo attraverso un’analisi interdisciplinare dei fatti concreti che lo determinano.” In altre parole non può erigersi a principio che il lavoratore, ingiustamente trasferito, demansionato e marginalizzato, sia necessariamente colpito da mobbing né, al contrario, che anche un solo atto come ad esempio l’assegnazione di un obiettivo impossibile da conseguire possa scatenare una catena di conseguenze che si concretizzano in vero e proprio mobbing. 4 Lo stesso H. Ege sul punto sostiene la teoria del c.d. “sasso nello stagno” cioè del comportamento singolo che scatena una serie di conseguenze negative per il personaggio che ne è colpito. In questi casi secondo l’autore può parlarsi a tutti gli effetti di mobbing “…di una particolare strategia mobbizzante che non segue una parabola in crescendo, bensì implica un’unica grave azione che si esplica in modo simile a un sasso gettato in uno stagno: originando, cioè, una serie di cerchi concentrici anche dopo che il primo di essi è ormai scomparso sott’acqua”. Nella valutazione saranno rilevanti la posizione del mobbizzato nell’organizzazione aziendale, l’entità e la riconoscibilità del provvedimento (ad esempio nel caso di demansionamento) come il significato che in quel particolare tipo di azienda quel provvedimento può significare (si pensi al caso di un direttore di filiale di banca trasferito presso l’ufficio provveditorato in posizione subalterna ad un pari grado, l’intera platea dei colleghi interpreterà il provvedimento come punizione per chissà quale nefandezza egli abbia commesso). Più ci si spinge avanti a considerare casi ed ipotesi, più ci si convince della complessità del fenomeno e della parzialità dei tentativi di irreggimentarlo in una definizione chiusa. Da più parti, operatori del diritto, della sociologia e della psicologia, hanno sapientemente evidenziato che il mobbing rappresenta un concetto “contenitore” una categoria “aperta” una “cornice giuridica” che deve essere riempita con lo sfruttamento simultaneo e sinergico delle esperienze maturate da tutte le discipline scientifiche. La corretta individuazione del fenomeno e, quindi, una efficace opera di prevenzione e contrasto necessita, pertanto, di un confronto tra Harald Ege, La valutazione peritale del danno da mobbing, pag. 54, Giuffrè Editore. 4 87 DOTTRINA 88 professionalità diverse che impedisca di cadere nell’equivoco “tutto è mobbing – niente è mobbing”. È giusto ribadire che i comportamenti esemplificati nel 2 comma dell’art. 2, sono, in gran parte, illegittimi di per sé e possono essere sanzionati indipendentemente dall’accertamento del mobbing. Essi sono, comunque, produttivi di conseguenze dannose per il soggetto che li subisce sia nella sfera professionale che morale. Possono determinare lesioni fisiche pur non essendo mobbing, come possono far parte di una azione di mobbing a tutti gli effetti e non produrre lesioni. L’elemento discriminante che trasforma un provvedimento di demansionamento o di trasferimento, o comunque un provvedimento illegittimo e vessatorio in azione mobbizzante è “l’intento persecutorio” cioè lo scopo negativo che ha l’aggressore nei confronti della sua vittima. Il mobber compie le proprie azioni con un obiettivo preciso, ad esempio quello di espellere dal lavoro la vittima, di emarginarla, di farla desistere dall’ambire ad una promozione ecc. Questo aspetto saliente del fenomeno mobbing non è affrontato con sufficiente chiarezza ed efficacia nella legge in commento. L’essenzialità dell’intento persecutorio nella individuazione del mobbing ed il molteplice atteggiarsi di questo fanno decisamente propendere verso l’adozione di una definizione aperta del mobbing, che si possa adattare alla forma di azione ed alla strategia che il mobber, di volta in volta, pone in gioco. La legge in commento va, invece, apprezzata perché si sforza di concepire ed istituire organismi territoriali che possano fornire assistenza al lavoratore che si trova in situazione di “disagio” con il precipuo compito di prevenire il mobbing o, se il fenomeno fosse già in essere, di contrastarlo. In questa attività la legge prevede l’impegno, appunto, di centri pluridisciplinari in cui agiscano, in sinergia, un avvocato esperto in diritto del lavoro, un medico specialista in igiene pubblica, un sociologo, uno psicologo o psicoterapeuta ed un assistente sociale. L’esperienza ed i risultati dell’attività di questi centri confluisce in un Osservatorio regionale sul mobbing cui sono affidati compiti di consulenza, di monitoraggio, di promozione di studi e ricerche, di informazione e sensibilizzazioni sul fenomeno mobbing. Sotto questo profilo, la via intrapresa sembra quella corretta e si sintonizza anche con le prime previsioni sul mobbing contenute nei contratti collettivi, tra cui, per l’ampiezza della platea cui si rivolge, assume particolare rilievo quella contenuta nel CCNL dei Dipendenti dello Stato 2002-2005. Il contratto citato (art. 6) prende atto che il fenomeno mobbing è emergente DOTTRINA anche nelle pubbliche amministrazioni ed approccia un tentativo di definizione. “Forma di violenza morale o psichica in occasione di lavoro – attuato dal datore di lavoro o da altri dipendenti – nei confronti di un lavoratore. Esso è caratterizzato da una serie di atti, atteggiamenti o comportamenti, diversi e ripetuti nel tempo in modo sistematico ed abituale, aventi connotazioni aggressive, denigratorie e vessatorie tali da comportare un degrado delle condizioni di lavoro, idoneo a compromettere la salute o la professionalità o la dignità del lavoratore stesso nell’ambito dell’ufficio di appartenenza o, addirittura, tale da escluderlo dal contesto lavorativo di riferimento.” Anche questa definizione non sembra sufficientemente completa. L’azione del mobber, infatti, non tende a compromettere la professionalità o la dignità del lavoratore come atto fine a se stesso, ma come tappa, strumento per la realizzazione di un più ampio intento persecutorio. Il mobber ha una serie di obbiettivi a corto raggio che si uniscono nell’azione di mobbing per realizzare l’intento persecutorio. I singoli comportamenti riportati nella definizione sono sanzionabili in quanto tali, divengono mobbing quando tendono tutti allo stesso fine: espellere il lavoratore, emarginarlo ecc. È fondamentale, quindi, riuscire ad inquadrare l’intento, la finalità che il mobber si ripropone. Con questo non si vuole addossare al lavoratore l’onere di provare l’ animus nocendi ma di evidenziare l’esistenza, anche attraverso presunzioni, di un disegno persecutorio. Sarà, invece il datore di lavoro a dover dimostrare che i comportamenti adottati sono stati assunti nel legittimo esercizio dei propri poteri, nel rispetto delle norme contrattuali e del principio del neminem ledere. In conclusione è preferibile stare alla larga da elencazioni incomplete di comportamenti e da definizioni poco meditate che prescindono da una visione interdisciplinare del fenomeno. La corsa che, da più parti, si sta verificando alla chiusura del fenomeno mobbing in una definizione che ne delimiti esaustivamente i confini, finisce per creare confusione e per mettere chi deve contrastare il fenomeno di fronte a tanti “mobbing” diversi. La scelta più opportuna che il legislatore nazionale dovrebbe operare è, secondo l’esperienza maturata sul campo da chi scrive, quella di una definizione aperta. Sul punto è condivisibile l’opinione espressa dal Prof. Michele 5 Miscione “Io credo che sul mobbing sia preferibile una norma elastica, come Mobbing Norma Giurisprudenziale in Il Lavoro nella Giurisprudenza, n. 4/2003, Ipsoa Editore. 5 89 DOTTRINA 90 quelle, numerose, previste in materia sia di lavoro che penale 8 ad esempio sul minimo esistenziale in base all’art. 36 Cost. o sulla nozione di atti osceni in base all’art. 527 c.p.). Una norma elastica o indeterminata è preferibile per due motivi, primo perché la nozione stessa di mobbing è di difficile, se non impossibile delimitazione preventiva e secondo perché, come per tutte le norme indeterminate, è preferibile non cristallizzare nel tempo e utilizzare una tecnica di continua modernizzazione secondo la coscienza sociale.” L’intervento del legislatore è, inoltre, necessario in merito agli strumenti probatori utilizzabili per dimostrare il mobbing (quale valore ha la diagnosi dello specialista) ed alla distribuzione dell’onere probatorio. Per quanto concerne le azioni di prevenzione e contrasto, è fondamentale insistere nell’affidare a soggetti multidisciplinari il compito di rivelare il mobbing, di contrastarlo e di fare formazione. Le iniziative estemporanee non faranno altro che creare altra confusione. La norma del CCNL esaminata, ad esempio, è criticabile proprio perché nella costituzione dei Comitati paritetici non stabilisce, quanto meno, la necessità di affiancare ai Comitati specifiche figure professionali in grado di esaminare e conoscere i vari aspetti del fenomeno. Se così non sarà fatto la norma contrattuale rimarrà esclusivamente una elencazione di buoni propositi con poche probabilità di produrre risultati tangibili. Non ci resta che attendere fiduciosi l’emanazione di una legge dello Stato. DOTTRINA La proposta italiana e il quadro legislativo francese in tema di mobbing di Bartolo Gallitto* 91 Nella motivazione del ricorso per questione di legittimità costituzionale avverso la legge regionale del Lazio 11 luglio 2002 n. 16, al fine di giustificare il ricorso, ma, in effetti, nel tentativo di giustificare la mancanza di una legge nazionale sul fenomeno mobbing, fra l’altro, si fa riferimento alla lunghezza dei tempi di riflessione del Parlamento Nazionale, “riflessione più che opportuna considerate le difficoltà di disciplinare una molteplicità variegata di comportamenti umani di sovente sfuggevole essenza, sia l’impatto sui rapporti interpersonali anche extragiuridici”. Al di là del merito del ricorso, della sua opportunità e fondatezza, le espressioni succitate evidenziano, non solo il ritardo, ma la grande difficoltà nel definire, con formula chiara, scientificamente valida, condivisibile, il fenomeno mobbing, onde apprestare prevenzione e tutele, evidenziandosi, altresì, l’impossibilità di accogliere l’invito contenuto nella Risoluzione del Parlamento Europeo “a verificare e a caratterizzare in maniera unitaria, con gli altri Stati membri, la definizione della fattispecie mobbing”, “fenomeno di cui al momento non si conosce la reale entità”. Certamente drammatica questa ultima affermazione, poiché l’entità del risultato del sondaggio effettuato dalla Fondazione di Dublino potrebbe essere superata da una realtà sconosciuta: quanti sono quelli che per timore reverenziale, o paventando rappresaglie, o per altri motivi, umanamente comprensibili, non denunziano il loro stato? E quanti sono coloro che, malgrado ogni possibile impegno, non sono riusciti a procurarsi le prove ed i riferimenti di azioni mobbizzanti messe in atto contro di loro o ad individuarne gli autori? Per quanti non si è saputa accertare la correlazione tra le azioni mobbizzanti e le sindromi di cui erano portatori? L’esemplificazione potrebbe continuare, anche se, dalla dottrina alla *Avvocato, membro del CSM. DOTTRINA 92 produzione giurisprudenziale a quella normativa, pur non esprimendosi progetti organici, dalla prevenzione alla formazione, dall’accertamento della violenza mobbizzante all’accertamento delle sindromi correlate, dalla tutela giudiziale al risarcimento del danno, si è formato un immenso patrimonio di conoscenze che si arricchisce sempre più di approfondimenti e di esperienze, non solo con riferimento all’Europa, dalla Ordinanza del 31/4/94 dell’Ente Nazionale Svedese per la sicurezza e la salute, alla legge 24/6/94 Norvegese, dalla Protection from Harasment act inglese del 21/3/97, allo art. 442 bis introdotto nel codice penale belga, alla francese legge di Modernizzazione Sociale del 17/1/2002, ma, anche all’Italia, dove sono stati fatti passi giganteschi. Pur in mancanza di una qualificazione legislativa del fenomeno mobbing, ed in mancanza, quindi, di consequenziali sanzioni e forme di tutela dirette, gli approfondimenti dottrinari, la giurisprudenza, soprattutto quella di merito, hanno avuto l’importante ruolo di identificare un esatto criterio di identificazione del fenomeno, utilizzando, a seconda dei casi, gli strumenti giuridici esistenti, dal codice civile a quello penale, con riferimento alla Costituzione, alla legge 626/94 e successive modificazioni, alla legge 300/70, assicurando, quindi, tutele e sanzioni. Così come passi da gigante ha fatto la prevenzione: dalla legge regionale del Lazio, il cui fine dichiarato è quello “di prevenire e contrastare l’insorgenza e la diffusione del fenomeno mobbing nei luoghi di lavoro“, creando gli organi paritetici previsti dall’art. 20 del d.lgs. n. 626/94, costituendo centri anti-mobbing ed un Osservatorio regionale sul mobbing, alla Ipotesi di Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro del Comparto Ministeri per il quadriennio 2002-2005, che all’art. 6 prevede un Comitato Paritetico sul fenomeno mobbing, i cui compiti, per le finalità partecipative del personale dipendente, sono certamente rilevanti. Così come un notevole contributo hanno apportato le numerose proposte di legge giacenti in Parlamento, fra le quali talune certamente pregevoli: esse affrontano i temi della prevenzione e delle iniziative da assumere nei posti di lavoro, delle responsabilità e delle relative sanzioni, del coinvolgimento diretto dei lavoratori e dei loro rappresentanti: ottimo risultato di approfondimenti di precedenti esperienze normative, dottrinarie, giurisprudenziali, con riferimento anche al vasto panorama europeo: purtroppo, però, esse non offrono un progetto complessivo che possa utilmente essere recepito in una proposta legislativa che colmi il vuoto, e trovi composizione in sede di recepimento di una auspicabile normativa sul mobbing. Particolare attenzione, però, merita la proposta di legge contro la violenza DOTTRINA morale o psichica in occasione di lavoro: la proposta ha il pregio di offrire un progetto completo di lotta al mobbing, certamente valido a colmare il vuoto legislativo che, purtroppo, ancora lamentiamo. Nella proposta vengono recepiti i principi fondamentali validi per la tutela dei lavoratori contro la violenza morale o psichica in occasione di lavoro, precisandosi: a) la definizione del mobbing e la conseguente individuazione delle relative azioni mobbizzanti; b) le modalità per diagnosticare le sindromi correlate alle azioni mobbizzanti, diagnosi da effettuare in base ad un protocollo cui fare riferimento e secondo le indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità; c) che le diagnosi (e l’eventuale terapia) dei disturbi correlabili a violenza morale o psichica, vengono effettuate in appositi centri o istituti specializzati di diritto pubblico, interconnessi a livello nazionale, operanti mercé il lavoro di figure professionali specializzate, oltre ad un medico legale, uno psichiatra ed uno psicologo clinico o del lavoro; d) che all’esito degli accertamenti i centri certificano la esistenza di una sindrome correlata, ed, ovviamente, o non correlata o non sufficientemente correlabile; e) che richiamando le disposizioni del d.lgs. 626/94 e successive modifiche, si individuano le condizioni per l’attività di prevenzione cui sono tenuti i datori di lavoro; f) che viene ritenuta la nullità degli atti o patti riconducibili a violenza morale o psichica in occasione di lavoro; g) le azioni in giudizio (hanno il pregio di battere in rapidità e pregnanza quelle della procedura prevista dall’art. 28 della legge 300) innanzi al Tribunale in funzione di Giudice del lavoro, prevedendosi, altresì, il ricorso al Giudice Amministrativo nei rapporti di lavoro di cui all’art. 3 della legge 165/2001; h) la previsione, infine, della liquidazione equitativa e della riparazione del danno. Indubbiamente, quindi, una proposta che offre la possibilità di realizzare un progetto completo sul fenomeno mobbing, dalla prevenzione all’accertamento, alle sanzioni, al ristoro del danno: una proposta che per la sua completezza sembra unica ed avente anche il pregio di dare valide risposte ai quesiti posti dalla Comunità Europea. Proposta, peraltro, che potrebbe anche recepire validi suggerimenti che 93 DOTTRINA 94 potrebbero pervenire facendo riferimento ad altre normative, segnatamente a quella francese che è la più recente e la più avanzata: la legge 17/1/2002 “La Modernizzazione Sociale” ha migliorato, infatti, notevolmente, la posizione delle vittime del mobbing nell’assolvimento dell’onere della prova, poiché la vittima deve solo affermare la veridicità dei fatti che denunzia, incombendo alla parte convenuta l’onere di provare che la propria condotta non costituisce molestia e che i comportamenti assunti sono supportati da giustificazioni oggettive: praticamente l’inversione dell’onere della prova. Orbene, considerando che all’art. 3, comma 3 della proposta, è previsto che “all’esito degli accertamenti svolti, i centri di cui al comma 1 (va tenuto conto che dovrebbe trattarsi di centri o istituti specializzati di diritto pubblico, addirittura interconnessi a livello nazionale) comunicano al lavoratore interessato una delle seguenti diagnosi: sindrome correlata, sindrome non correlata o sindrome allo stato non sufficientemente correlabile”, e considerando ancora che le certificazioni delle diagnosi dovrebbero essere effettuate all’esito di accertamenti della cui obiettività sarebbe difficile dubitare, poiché riferibili a precisi protocolli e giusta le indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, c’è da supporre che la diagnosi di sindrome correlata avrebbe, almeno, tutti i requisiti della obiettività, della completezza e della valenza delle indagini che la supportano. Se, quindi, la certificazione di sindrome correlata offrisse tutte le certezze prima accennate, perché, integrando l’art. 5 della proposta (azioni in giudizio), non prevedere che sia posto a carico del convenuto la contestazione della fondatezza della certificazione? L’ipotesi potrebbe significare un ulteriore rafforzamento della tutela del mobbizzato ed una ulteriore remora, arricchendo la prevenzione dalle insidie del mobbing e, certamente, sul piano processuale, avrebbe un effetto positivo sulla celerità dell’azione in giudizio. Ma la normativa francese, detta “Modernizzazione sociale”, sul piano della esecuzione, va a raccordarsi con una ordinaria previsione dell’ordinamento francese: l’astreinte, che assicura l’efficacia effettiva della pronuncia giudiziale, attraverso un valido meccanismo di coazione indiretta1. L’astreinte consiste, infatti, in una condanna pecuniaria emanata da parte del Giudice onde costringere il debitore ad adempiere l’obbligazione (nella specie il facere o il non facere infungibili) tratto ad oggetto della ordinanza cautelare o della sentenza. Considerato che tale condanna pecuniaria sarebbe determinata in misura Luciano Tamburro, Mobbing e tutela cautelare. L’inadeguatezza degli attuali strumenti normativi. 1 DOTTRINA fissa, o giornaliera, o settimanale, o mensile, e sarebbe correlata al perdurare dell’inadempimento, con sottile umorismo Tamburro può ancora affermare di ritenere tale “misura afflittiva idonea a piegare la resistenza del recalcitrante, soprattutto tenuto conto della particolare italica attenzione verso la tasca”. Condividendo il pensiero di Tamburro, è possibile ritenere che, anche l’astrainte, se recepita nell’ordinamento italiano, essendo noti i tempi dei giudizi in Italia, potrebbe rappresentare un ulteriore rafforzamento della tutela del mobbizzato, arricchendo di un altro valido strumento la prevenzione dalle insidie del mobbing. 95 DOTTRINA Gli spazi della contrattazione collettiva nella disciplina del mobbing di Valerio Talamo* 97 1. L’oggetto di questo breve scritto è costituito da una riflessione sugli spazi negoziali riservabili al mobbing, o, più correttamente, sul ruolo possibile o probabile della contrattazione collettiva nella disciplina dell’istituto con riferimento all’assetto del lavoro pubblico. In questo specifico contesto è pressoché inimmaginabile non estendere l’ambito della riflessione alla prima disciplina del mobbing nel lavoro pubblico, determinata in forza di una norma collettiva, prevista nell’ambito del contratto del comparto ministeri relativo al quadriennio 2002-2005, sulla base di uno specifico indirizzo impartito all’ARAN dal Governo. Si passerà, quindi, di seguito ad analizzare i contenuti degli indirizzi governativi in materia e della sistemazione negoziale fornita dalle parti collettive sulla base di quegli indirizzi. 2. Si inizierà con una domanda che potrebbe sembrare una provocazione, ma che, invece, costituisce una buona premessa per questa noterella: ma siamo proprio sicuri che il mobbing sia una materia che possa costituire oggetto di una coerente regolamentazione contrattuale? O, detto diversamente, è possibile che il contratto collettivo possa aggiungere alcunché rispetto a quanto non sia già previsto dall’ordinamento per la tutela dal mobbing? Generalmente le ipotesi di comportamento, in qualche modo riconducibili a ciò che comunemente viene inteso come mobbing, o sono riconoscibili in fattispecie cui l’ordinamento già connette sanzioni e tutele, ovvero possono concretizzarsi in un contesto di azioni che intanto hanno un’incidenza penalizzante sul lavoratore in quanto si collegano a situazioni e disfunzioni di tipo organizzativo e, quindi, in quanto tali, o non sono illegittime o sono estranee alla sfera del contrattabile (mobbing derivante da disfunzioni di tipo organizzativo). *Direttore Servizio contrattazione collettiva, Dipartimento della Funzione Pubblica. DOTTRINA 98 Nel primo caso, per esempio, alcune ipotesi di mobbing potrebbero riconoscersi in forme di esercizio illegittimo del c.d. ius variandi, già tutelato ai sensi dell’art. 2013 c.c., ovvero in ipotesi di illegittime mancate promozioni, da ascrivere alla categoria della perdita di chance. So bene che in questa maniera il problema si sposta su uno dei dati che, assiomaticamente, avevo dato per acquisito, cioè quello del fondamento giuridico dell’istituto e della sua qualificazione, ovvero sul problema dell’esatta individuazione della fattispecie giuridica del mobbing, sia dal punto di vista della condotta oggettivamente considerata, sia sotto il profilo dell’elemento soggettivo. In effetti, il mobbing rappresenta un concetto “contenitore”, una categoria “aperta”, che sociologi, psichiatri e psicologi hanno potuto ricostruire con gli strumenti posti loro a disposizione dalle rispettive scienze, ma al quale i giuristi con un certo grado di approssimazione hanno ricondotto una 1 pluralità di situazioni, talora del tutto eterogenee . Tali situazioni eterogenee, in quanto si configurino come condotte illecite, sembrano già trovare nell’ordinamento, vale a dire nelle norme civili e penali, la propria disciplina. Ancora, riprendendo l’elencazione: la dequalificazione o l’adozione di sanzioni disciplinari illegittime sono già espressamente vietate dal legislatore (anche nella forma dell’abuso del potere disciplinare). Altre condotte rientrano nel più generale contesto della lesione della salute psico-fisica del lavoratore, sanzionata dall’art. 2087 c.c. In altri casi, qualora il comportamento del datore di lavoro sia censurabile in via generica, in quanto concreti un’illegittima prevaricazione, sarebbe sufficiente invocare la violazione delle clausole generali di correttezza e buona fede che si costituiscono quali norme di chiusura, sussidiarie ed integrative di tutto il 2 sistema del lavoro alle dipendenze altrui (artt. 1175 e 1375 c.c.) . La domanda da cui sono partito esige, quindi, che sia preliminarmente affrontata un’ulteriore questione che si pone a monte: c’è davvero bisogno nel nostro ordinamento di una nozione giuridica di mobbing cui connettere tutele specifiche? C. Zoli, Il mobbing: brevi osservazioni in tema di fattispecie ed effetti, dattiloscritto. Cfr., ancora, tutte le ipotesi di “abuso di potere” (art. 7 legge n. 300 del 1970) e discriminatorie (art. 15 della legge n. 300 del 1970) e quelle di molestie sessuali (legge n. 66 del 1996). V. anche gli artt. 2043 cc. (responsabilità aquilana), che tutela il lavoratore in quanto individuo da “ogni fatto ingiusto che cagioni un danno”; e 2087 (responsabilità contrattuale), che obbliga il datore di lavoro a preservare il lavoratore sotto l’aspetto fisico e morale; nonché gli artt. 1175 e 1375 c.c. (dovere di correttezza e buona fede). Una specifica tutela delle condizioni di lavoro, sotto lo specifico aspetto dell’igiene, salubrità e sicurezza, è contenuta nella legge n. 626 del 1994. 1 2 DOTTRINA Solo se si risponde affermativamente a questa domanda, delimitando il campo di analisi, potremo passare al quesito oggetto di indagine e relativo alla definizione degli spazi negoziali. Ed a questa domanda occorre fornire risposta positiva, perché il mobbing, come viene comunemente inteso dalle scienze mediche, sociologiche e giuridiche, non si esaurisce nella sommatoria di comportamenti già vietati dalle norme, ma postula ed esige un elemento aggiuntivo, caratterizzato da una connotazione complessiva che rende vietati comportamenti altrimenti leciti, ed aggrava il significato giuridico e sociale di comportamenti già vietati per i quali l’ordinamento già assicura tutela (ma si tratta di una tutela indiretta attraverso le disposizioni appartenenti a contesti normativi fra loro diversi e che tutelano forme specifiche di illecito). Alla base del mobbing vi è, infatti, un elemento psicologico, una ratio discriminatoria, che costituisce un quid pluris in grado di connotare una tipologia di comportamenti di per se stessi non sempre illeciti, ma che, in quanto convergenti verso un fine ultimo vessatorio, ed organizzati in sequela (sono cioè reiterati e continuativi nel tempo), oltre ad arrecare un maggior danno, divengono comportamenti concretanti mobbing, perché perseguono un intento di degrado che il singolo atto non sarebbe altrimenti in grado di conseguire. Penso al caso classico dello spostamento fisico reiterato del dipendente o a particolari regimi di orario che potrebbero altrimenti configurare anche un legittimo, razionale e coerente esercizio del potere organizzativo da parte del datore di lavoro. In questi ultimi casi, a ben vedere, è indispensabile riconoscere in concreto la ratio discriminante dei comportamenti che, in se considerati, sarebbero altrimenti del tutto legittimi, anche se magari giudicabili poco opportuni da altre scienze o tecniche che non sono il diritto. Una volta ammessa la necessità di una configurazione giuridica del mobbing, la tipizzazione degli illeciti, dei comportamenti costituenti mobbing, o, più precisamente, la costruzione degli indici sintomatici della sussistenza di una situazione di mobbing in atto e la verifica dell’esistenza della specifica intenzione vessatoria non può che essere un compito della giurisprudenza, mentre al legislatore spetta definire normativamente la figura 3 tipica di reato da mobbing ed il relativo sistema delle sanzioni . Spetta cioè 3 Che il mobbing possa costituire già attualmente fattispecie di reato, anche se non autonoma e tipica, in assenza di normativa specifica, non si può revocare in dubbio, attesa la protezione penalistica per il reato di maltrattamenti (art. 572 cp.), quella di lesioni personali (art. 590 c.p.), ingiuria (594 c.p.), diffamazione (595 c.p.), l’abuso di ufficio (323 c.p.) e la violenza privata, vera norma di chiusura di tutto il sistema, generica e sussidiaria, cui il lavoratore può ricorrere in tutti 99 DOTTRINA 100 alla giurisprudenza verificare che il comportamento datoriale risponda a logiche di razionalità e coerenza rispetto ai fini organizzativi perseguiti ovvero se lo stesso sia espressione di un atteggiamento ostile o penalizzante nei confronti del lavoratore eventualmente pretermesso in modo ingiustificato, ovvero, ancora, se lo stesso comportamento sia inquadrabile nell’ambito della normale conflittualità connaturata ad un luogo ad alta densità emotiva quale è l’ambiente di lavoro. In questi casi, il giudice dovrà verificare nell’ordine: se il comportamento sia legittimo o meno alla luce dell’attuale quadro legale; se il comportamento illegittimo sia sanzionabile in forza della tutela offerta dalle norme generali, non essendo assimilabile a mobbing; se il comportamento di per sé legittimo sia comunque inserito in una strategia mobbizzante e divenga per ciò stesso sviato rispetto al fine cui è fisiologicamente preposto e, quindi, antigiuridico. Qui c’è da indagare un animus, un aspetto soggettivo che però, in quanto tale, per essere giuridicamente sanzionabile si deve concretare in una voluta afflizione del lavoratore. Ma questo è, appunto, un compito della giurisprudenza e non della contrattazione: di una giurisprudenza creativa come quella che si è esercitata in questo settore fin dalle prime pronunce, che hanno riconosciuto che oltre e sopra l’atto lesivo, in sé considerato, vi può essere altro, cioè il mobbing come categoria unitaria, in cui si ricompongono 4 le molteplici condotte autonomamente sanzionabili . Allora in questo contesto già giuridificato (o ancora da giuridificare in forza di leggi che introducano il reato di mobbing), ed in cui alla giurisprudenza spetta il compito più delicato, il ruolo della contrattazione sarà quello di evidenziare e censire il fenomeno, mediare, diffondere conoscenze, formare per promuovere culture di consapevolezza e solidarietà, molto più che quello di predisporre tutele integrative. 3. Ma passiamo al secondo caso, quello che ho definito mobbing derivante da disfunzioni organizzative (utilizzo solo per comodità di sintesi questa definizione, colpevolmente inesatta, ma ambiguamente comoda). In queste ipotesi, a ben vedere, il mobbing non c’entra per nulla sul piano giuridico formale, perché l’animus o l’intento afflittivo è obiettivamente assente. i casi di violazione della sua libertà di autodeterminazione (610 c.p.). Tutela penale indiretta contro il mobbing è assicurata anche dalla legge contro i reati sessuali (legge n. 66 del 1996), qualora i comportamenti mobbizzanti incidano sulla sfera sessuale del dipendente. 4 La prima sentenza in assoluto, che ha riconosciuto la risarcibilità del danno psichico da mobbing, sussumendo la nozione del mobbing in azienda nel quadro delle circostanze appartenenti al “fatto notorio”, è del Tribunale di Torino, 16 ottobre 1999, n. 5050. DOTTRINA Qualora il mobbing derivi da disfunzioni organizzative o da comportamenti incolpevoli, esso condivide con il mobbing in senso proprio la caratteristica afflittiva, ma è anche il riflesso – a volte inconsapevole – di una forma di malessere organizzativo in senso lato. Allora occorre intervenire sull’organizzazione e sulla sua cultura. Ma, come sappiamo, ogni intervento sull’organizzazione amministrativa nel pubblico impiego, per la nota e tradizionale riserva di atto unilaterale pubblicistico, è precluso alla contrattazione collettiva che denuncia, quindi, ab inizio, la propria incompetenza. Più precisamente, per mobbing da disfunzioni organizzative, intendo quella gamma di situazioni organizzative e personali nelle quali non è riconoscibile alcun intento afflittivo né alcuna ratio discriminatoria: non si tratta quindi di condotte antigiuridiche, ma l’effetto ultimo di tali situazioni è pressoché analogo a quello che si verifica nei casi conclamati di mobbing, con i connessi costi sociali ed umani spesso drammatici. Tale malessere organizzativo può essere determinato da comportamenti inconsapevoli del dirigente o del funzionario ovvero da situazioni strutturali e organizzative rispetto alle quali il dirigente o il funzionario sono incapaci di influire (nel senso che un intervento non è nella loro disponibilità). Allora, occorre intervenire sulle strutture, sull’organizzazione, se il male è, per così dire, strutturale, perché non è possibile assicurare un buon livello di processualità organizzativa con certe strutture esistenti nella pubblica amministrazione. Occorre, invece, intervenire sulla cultura del funzionario e del dirigente pubblico se questi è inconsapevole. Nel primo caso, il ruolo della contrattazione, laddove necessitino interventi strutturali sull’organizzazione, quale è? Penso alle ipotesi, tutt’altro che residuali, di eccessivi carichi di lavoro, dovuti ad un aggravio complessivo di lavoro che ricade sulla struttura (senza che sia configurabile un 5 comportamento colpevole del datore di lavoro o di condizioni di lavoro non idonee, per esempio ambienti non confortevoli, che pure non violino i limiti previsti dalla legge 626/1994 ecc). La funzione della contrattazione collettiva può essere solo quella di stimolo, conoscenza e ricognizione, proposta, mediazione. Nel secondo caso, qualora cioè il comportamento sia inconsapevole, il tema si connette con quello della convivenza organizzativa. La contrattazione collettiva può incentivare percorsi formativi per promuovere cultura, solidarietà e consapevolezza, perché la convivenza fra Cass, 5 febbraio 2000, n. 1307. 5 101 DOTTRINA 102 datore di lavoro e dipendente va gestita costantemente e costantemente rinegoziata. Non è certo sufficiente disporre di un apparato gerarchico per disciplinare la convivenza, perché la gerarchia, il comando, il controllo non proteggono certo il lavoratore dall’alienazione dal contesto lavorativo di riferimento, determinata spesso dalla mancanza di condivisione dei processi, in cui lo stesso a fortiori viene immesso, né tantomeno insegnano al dirigente a gestire e riconoscere il disagio e le sue cause. Il rischio alto derivante dal disagio della convivenza è che, se protratto, si strutturi, producendo danni, a volte, difficilmente eliminabili. Evidentemente tutto è complicato dagli obiettivi dati che, comunque, il dirigente è tenuto a raggiungere. In questo specifico contesto viene pienamente in luce il doppio attrito che pesa sul dirigente pubblico, stretto da un lato dai risultati che si impegna a raggiungere e da cui dipende la riconferma nell’incarico ricoperto, ed i mezzi scarsi di cui dispone. Il rischio, tutt’altro che teorico, è che lo stesso dirigente eserciti pressioni sulla struttura la quale però, in quanto tale, è sostanzialmente indifferente rispetto al conseguimento degli obiettivi dati. In conclusione, anche quando non sono riconoscibili comportamenti sanzionabili, possono determinarsi gli effetti del mobbing perché le pubbliche amministrazioni, spesso, non dispongono di strutture sufficienti per produrre benessere organizzativo. Ed il dirigente, stretto tra l’obiettivo da raggiungere e la mancanza di strumenti sufficienti, deve necessariamente (nel suo stesso interesse, o, meglio, nell’interesse del risultato che persegue) essere o divenire un esperto di convivenza: e quest’ultima va continuamente rinegoziata coi dipendenti, per ricostituire nel benessere l’ambiente organizzativo. Deve stringere un patto che non può essere gestito con gli strumenti del diritto, nell’ottica tradizionale della catena comando (gerarchia) controllo (sanzione disciplinare); deve saper essere, prima ancora che sapere e saper fare, perché la conoscenza è propedeutica all’abilità e l’abilità è propedeutica all’essere manager. Ma chi insegna al dirigente a percepire i disagi e chi lo educa a negoziare la convivenza organizzativa (per esempio promovendo la condivisione e la cultura del confronto, perché la mancanza di condivisione determina naturalmente attriti, in quanto dirigenti e dipendenti possono divenire portatori di esigenze in conflitto fra loro)? Ecco, infine, il ruolo, ad adiuvandum, della contrattazione collettiva. Questi obiettivi, connessi al benessere organizzativo, sono e devono essere necessariamente frutto di una modifica culturale delle tecniche di gestione su cui la contrattazione può influire attivando processi di conoscenza e di DOTTRINA formazione nell’interesse dell’organizzazione ancora prima che dei suoi dipendenti. 4. Se questo è il quadro, potremmo convenire che la contrattazione, quanto meno nelle P.A., ha competenze limitate e circoscritte e che spetta ad altre scienze, nonché all’elaborazione legislativa, dottrinaria e giurisprudenziale, costruire istituti e fattispecie. Ma è un dato di fatto che, proprio dalla contrattazione collettiva del pubblico impiego relativa al quadriennio 200205, è scaturita una prima regolamentazione preordinata alla tutela dal mobbing che non ha precedenti significativi nemmeno nell’impiego privato 6 nel nostro Paese (tranne qualche accordo di clima o codice di condotta ). Si tratta di una serie di norme contenute nel contratto collettivo relativo al quadriennio 2002-2005 per i dipendenti non dirigenti del Comparto Ministeri, introdotte sulla base di uno specifico indirizzo emanato dal competente comitato di settore che, per il comparto in questione, è costituito dal Governo (e ciò rende ancora più significativa la regolamentazione contrattuale raggiunta sulla base di quell’indirizzo). Più precisamente, l’intero sesto paragrafo dell’atto di indirizzo per il rinnovo contrattuale di categoria, inviato all’ARAN il 5 agosto 2002, è dedicato alla tutela contro il mobbing. E pare interessante esaminarlo, perché gli atti di indirizzo, più che documentazione “grigia”, costituiscono documentazione riservata, almeno fino alla stipulazione del contratto collettivo, in quanto fondano lo specifico mandato per la missione negoziale pubblica (per definizione precluso alla conoscenza diffusa). Ma ora il contratto è definitivamente chiuso avendo esaurito, con la certificazione 7 della Corte dei Conti e la definitiva sottoscrizione, l’iter procedimentale . L’atto di indirizzo definisce il mobbing come quella “forma di violenza morale e di persecuzione psicologica reiterata nel tempo, posta in essere dal datore di lavoro o da altri colleghi nei confronti del lavoratore, secondo una serie di comportamenti diversi e di difficile catalogazione, tutti accomunati dalla modalità aggressiva e vessatoria e dalla finalità di esclusione della vittima dal contesto lavorativo di riferimento”. Si tratta più precisamente di un atteggiamento ostile e non etico, posto in essere in forma sistematica e non occasionale o episodica, che determina nel 6 Cfr., il Codice di condotta per la tutela e la dignità delle lavoratrici e dei lavoratori del Comune di Palermo; il Regolamento anti mobbing della Provincia di Ragusa; il codice di condotta della Azienda USL 10 di Firenze; l’Accordo di clima dell’Azienda torinese mobilità. 7 Il CCNL è stato sottoscritto in via definitiva il 12 giugno 2003. 103 DOTTRINA 104 soggetto interessato una condizione indifesa, mentre l’alta frequenza del comportamento ostile può determinare considerevoli sofferenze morali, 8 psicosomatiche e sociali” . Per il verificarsi della fattispecie si richiede quindi la reiterazione nel tempo dei comportamenti (nella duplice accezione di frequenza e di continuità, ché, altrimenti, il mobbing non sarebbe diverso da un qualunque conflitto temporaneo ed occasionale sul lavoro, che non postula in quanto tale necessariamente condotte antigiuridiche). Tali comportamenti “violenti” a loro volta non debbono essere fini a se stessi, ma finalizzati alla progressiva emarginazione del mobbed dal contesto lavorativo. Accentuando il carattere dell’“animus” sembrano rimanere fuori da questa definizione tutte le ipotesi di mobbing da disfunzione organizzativa, che sono tuttavia contemplate successivamente dallo stesso atto di indirizzo e che trovano, infine, rappresentazione nelle norme del contratto collettivo stipulato. Viene successivamente riconosciuta l’antisocialità del mobbing ed i costi organizzativi connessi al verificarsi della fattispecie, diffusa anche nel pubblico impiego dove, il fenomeno anzi, data la traslazione spesso meccanica di metodologie, logiche e filosofie organizzative e gestionali privatistiche, senza attenzione per il contesto di riferimento, si manifesta in 9 crescita . Viene quindi riconosciuto che un problema esiste e va interessando progressivamente anche la P.A., che tale fenomeno è particolarmente odioso ed ha gravi conseguenze individuali e sociali, che non è tutelato in modo univoco ed esige, quindi, un particolare livello di attenzione, attesa l’assenza di una normativa generale e di concrete prese di posizione in sede contrattuale. Si riconosce più precisamente che, allo stato, la tutela del lavoratore si risolve nell’utilizzo di norme e principi appartenenti a eterogenei rami del diritto, segnatamente quello penale e quello civile, attraverso l’azione civile da responsabilità ed il risarcimento, sempre più di frequente riconosciuto in giurisprudenza, del danno da mobbing. Nella consapevolezza che la risposta a queste condotte illecite non può essere delegata allo strumento negoziale, l’atto di indirizzo disegna un preciso ruolo della contrattazione collettiva, che appare più di supporto che sostitutivo di una legge che non c’è. Più precisamente, le azioni da parte 8 La definizione riprende l’elaborazione concettuale dello psicologo e ricercatore tedesco Heinz Leymann, pioniere della ricerca in materia di mobbing, ma anche talune definizioni accolte in sede di progettazione legislativa statale e regionale, come lo stesso atto si premura di avvertire. 9 Si fa anzi riferimento al cosiddetto “doppio mobbing”, che è quello che si verifica, di riflesso, nell’ambito familiare. DOTTRINA dell’autonomia collettiva dovrebbero collocarsi “in un’ottica di informazione, di prevenzione e di emersione attiva delle situazioni illecite”. Si chiama, quindi, a soccorso l’autonomia collettiva, ipotizzando interventi specifici e mirati. In primo luogo per approntare quegli strumenti di tipo culturale, funzionali alla promozione della cultura del benessere, che non si esaurisce, pur comprendendola, nella tutela dal mobbing in senso proprio. A tale fine, alla contrattazione collettiva spetterebbe promuovere, “anche a livello di contrattazione integrativa, l’attività di formazione ed aggiornamento del personale in materia, con particolare riferimento al management di amministrazione”. In secondo luogo si suggerisce l’“istituzione, anche a livello integrativo, di organismi paritetici con il compito di raccogliere dati sul mobbing nelle amministrazioni del comparto … e di formulare proposte in ordine alla prevenzione e alla repressione del fenomeno”. Viene, quindi, compiutamente in rilievo il secondo ruolo della contrattazione collettiva: quello di attivare strutture critiche di conoscenza, con funzione di ricognizione, studio, stimolo propositivo, nella dimensione anche della mediazione organizzativa. In terzo luogo, compito della contrattazione collettiva, secondo l’indirizzo governativo, è quello della creazione di sportelli o centri di ascolto, a gestione bilaterale, per l’accoglienza, l’assistenza e la consulenza psicologica e giuridica di cui il mobbed necessita, anche al fine di “consentire al dipendente il discernimento degli atti di legittimo esercizio del potere datoriale, da quelli di abuso”. Tutto ciò nella logica della prevenzione, dell’assistenza e della diffusione della cultura organizzativa. Nulla si aggiunge sul piano giuridico e sanzionatorio, ferma restando ovviamente la competenza in materia di sanzioni disciplinari del contratto collettivo. In ultima analisi, la convinzione del mandante governativo è che il ruolo della mediazione sindacale può rivelarsi decisivo, considerata l’istituzionale possibilità di intervenire nel rapporto di lavoro e in talune dinamiche organizzative e gestionali. 5. Sulla base dell’invito a contrattare, effettuato dall’atto di indirizzo all’ARAN del 5 agosto 2002, il CCNL relativo al quadriennio normativo 20022005 ed al primo biennio economico 2002-2003 ha provato a dettare una Si rinvia sul punto più diffusamente alle osservazioni contenute nel saggio di Elvira Gentile, in questo stesso volume. 11 Il mobbing per il CCNL va inteso quale “forma di violenza morale o psichica in occasione di lavoro - attuato dal datore di lavoro o da altri dipendenti - nei confronti di un lavoratore”. 12 Posto in essere dal superiore gerarchico (cd. bossing). 10 105 DOTTRINA 106 logica regolamentazione della materia. 10 In estrema sintesi , il contratto riconosce la rilevanza sociale del mobbing, 11 ne tenta una definizione in coerenza con l’atto di indirizzo , accorpando in 12 un'unica fattispecie le ipotesi di mobbing verticale , e quelle di mobbing 13 orizzontale , e prova a tipizzare i comportamenti tipici che concretano mobbing, consistenti in una “serie di atti, atteggiamenti o comportamenti, diversi e ripetuti nel tempo in modo sistematico ed abituale, aventi connotazioni aggressive, denigratorie e vessatorie tali da comportare un degrado delle condizioni di lavoro, idonei a compromettere la salute o la professionalità o la dignità del lavoratore stesso nell'ambito dell'ufficio di appartenenza o, addirittura, tali da escluderlo dal contesto lavorativo di riferimento”. Dunque per il CCNL il mobbing è quello in cui è riconoscibile una strategia denigratoria (la serie di atti o comportamenti ripetuti nel tempo), cui è 14 comune l’effetto lesivo (con il quale anzi deve sussistere un nesso causale , ma anche l’intenzione e soprattutto la non episodicità od occasionalità del comportamento. Dopo la presa d’atto dell’esistenza, anche nelle P.A. del fenomeno, il contratto avverte circa la necessità di intervenire attraverso idonee iniziative “al fine di contrastare la diffusione di tali situazioni, che assumono rilevanza sociale, nonché di prevenire il verificarsi di possibili conseguenze pericolose per la salute fisica e mentale del lavoratore interessato e, più in generale, migliorare la qualità e la sicurezza dell'ambiente di lavoro”. L’intervento, dunque, non è solo repressivo ma anche e più correttamente preventivo, in quanto una volta verificatesi le fattispecie concretanti mobbing, l’intervento repressivo si pone perlopiù nella logica del risarcimento del danno (patrimoniale, biologico, morale, esistenziale). Gli strumenti previsti sono gli specifici comitati a paritetici, da istituire entro 60 giorni dall'entrata in vigore dello stesso contratto, presso ciascuna 15 amministrazione , con diversi compiti che rispondono a diverse finalità: Posto in essere da dipendenti del medesimo livello gerarchico. Cfr. tutta la giurisprudenza in tema di mobbing, a partire a Tribunale di Torino,16 novembre 1999, n. 5050. 15 Il Comitato è composto da un componente designato da ciascuna delle organizzazioni sindacali di comparto firmatarie del CCNL e da un pari numero di rappresentanti dell'amministrazione. Il Presidente del Comitato viene designato tra i rappresentanti dell'amministrazione ed il vicepresidente dai componenti di parte sindacale. Di essi fa parte anche un rappresentante del Comitato per le pari opportunità appositamente designato da quest'ultimo. I Comitati rimangono in carica per un quadriennio con prorogatio fino ai successivi rinnovi e, comunque, fino alla costituzione dei nuovi Comitati. I componenti dei Comitati possono essere rinnovati nell'incarico per un solo mandato. 13 14 DOTTRINA a) la raccolta dei dati relativi all'aspetto quantitativo e qualitativo del fenomeno del mobbing (funzione di ricognizione); b) l’individuazione delle possibili cause del fenomeno, con particolare riferimento alla verifica dell'esistenza di condizioni di lavoro o ai fattori organizzativi e gestionali che possano determinare l'insorgere di situazioni persecutorie o di violenza morale. Evidentemente questa funzione è connessa e presupposta dalla prima (ricognizione dei dati) e consiste nell’approfondimento degli elementi di conoscenza assunti attraverso la raccolta dei dati significativi, i quali vanno elaborati al fine di permettere l’individuazione delle diverse cause che possono dare luogo a mobbing, spesso determinate da fattori di tipo organizzativo. Il disagio psichico determinato dal mobbing, infatti, come meglio si è evidenziato prima, può essere causato anche da situazioni non illecite ma derivanti da condizioni di lavoro o fattori organizzativi e gestionali che incidono sul clima organizzativo ( mobbing da derivante da disfunzioni organizzative); c) la formulazione di proposte di azioni positive in ordine alla prevenzione e alla repressione delle situazioni di criticità, anche al fine di realizzare misure di tutela del dipendente interessato. Viene, quindi, pienamente in luce il carattere di mediazione sindacale dei Comitati ex art. 6, ma anche l’analogia con le funzione dei Comitati di parità della legge n. 125 del 1991, sul cui modello i primi sono costituiti; d) la formulazione di proposte per la definizione dei codici di condotta. Si lascia quindi uno spazio significativo per la giuridificazione dei comportamenti configurabili come vessatori, censurabili in sede di codice di comportamento che, a norma dell’art. 55 del d.lgs n. 165 del 2001 definisce i doveri dei dipendenti pubblici (rectius gli obblighi), con facoltà per i CCNL di stabilire la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni (anzi, viene data espressa indicazione all’ARAN affinché il codice sia recepito nei contratti ed i suoi principi vengano coordinati con le previsioni sulla responsabilità disciplinare). E, anzi, già lo stesso contratto collettivo, nelle norme disciplinari, sanziona in maniera significativa talune ipotesi di mobbing orizzontale, che possono determinare anche il Cfr. l’art. 13, commi 3, lett. j; 4, lett. e e 5, lett. f. Il mobbing orizzontale, consistente in “sistematici atti o comportamenti aggressivi, ostili o denigratori che assumano forme di violenza morale o persecuzione psicologica nei confronti di altro dipendente” è sanzionato con la sospensione dal servizio e la privazione della retribuzione fino ad un massimo di dieci giorni, protraibili fino a 6 mesi qualora la stessa condotta sia mirante “a procurare un danno in ambito lavorativo o addirittura di escludere (il mobbizzato) dal contesto lavorativo”. Nei casi di recidiva (anche nei confronti di persona diversa) è possibile il licenziamento con preavviso. 16 107 DOTTRINA 16 108 licenziamento del dipendente mobbers ; e) la redazione di una relazione annuale sull'attività svolta, in modo da permettere la diffusione e l’implementazione delle esperienze, nonché l’adattamento dei comportamenti organizzativi; f) l’attuazione, nell'ambito dei piani generali per la formazione, di idonei interventi formativi e di aggiornamento del personale. Gli spazi della formazione possono essere finalizzati, tra l'altro, all’affermazione di una cultura organizzativa che comporti una maggiore consapevolezza della gravità del fenomeno e delle sue conseguenze individuali e sociali ed allo sviluppo della coesione e della solidarietà dei dipendenti, attraverso una più specifica conoscenza dei ruoli e delle dinamiche interpersonali all'interno degli uffici, anche al fine di incentivare il recupero della motivazione e dell'affezione all'ambiente lavorativo da parte del personale. Viene, quindi, finalmente in luce il ruolo della formazione nella prevenzione del fenomeno ed il ruolo di mediazione fra i conflitti organizzativi, per prevenire e per promuovere il benessere organizzativo, poiché la cultura del benessere organizzativo non può che passare attraverso un’idonea attività di formazione. Inoltre il CCNL immagina una procedimentalizzazione preordinata all’implementazione delle proposte dei comitati e vincola (parte dispositiva del CCNL) le P.A. ad alcuni adempimenti. Così le proposte formulate dai comitati devono sempre essere presentate alle amministrazioni per i conseguenti adempimenti, alcuni dei quali sono obbligatori (costituzione e 17 funzionamento di sportelli di ascolto nell'ambito delle strutture esistenti ); istituzione della figura del consigliere/consigliera di fiducia; definizione dei codici, sentite le organizzazioni sindacali firmatarie). Si tratta, evidentemente, di obblighi la cui violazione concreterebbe un vero e proprio inadempimento contrattuale. Sulla P.A. ricade, inoltre, il generico obbligo di favorire l’operatività dei comitati, in particolare valorizzando e pubblicizzando con ogni mezzo, nell'ambito lavorativo, i risultati del lavoro svolto dagli stessi. Rimane da spiegare più correttamente l’accostamento (esplicito), previsto La costituzione ed il funzionamento di sportelli di ascolto deve avvenire nell'ambito delle strutture esistenti, in quanto il funzionamento dell’istituto deve essere a costo “0” (il contratto non stanzia all’uopo risorse). Si tratta di un “vizio genetico” del contratto in oggetto, che ha destinato le risorse contrattuali al recupero dell’inflazione maturata nel precedente biennio (2000-01) ed all’anticipazione dell’inflazione programmata del biennio contrattuale 2002-03, ciò secondo le scadenze previste dall’Accordo del Luglio 1993, nonché alla doppia strategia: recupero della produttività/incentivazione, da contrattare in sede integrativa, ed anticipo “in conto recupero” di parte dell’inflazione reale (e non solo programmata), maturata nell’anno 2002. 17 DOTTRINA dal CCNL, fra Commissione pari opportunità e Comitati per la prevenzione e la repressione del mobbing. Perché questo accostamento? Esso è dovuto alla speranza che si verifichi un’azione sinergica, atteso che spesso il mobbing si associa ad ipotesi di molestie sessuali? Ovvero si vuole favorire una disseminazione ed un travaso di esperienze, anche organizzative, fra il primo organismo, ormai radicato nelle prassi amministrative, ed il secondo, che deve ancora imporsi nel variegato humus organizzativo delle P.A.? O, ancora, si vuole evidenziare il carattere non specificamente sindacale, ma generale, nell’interesse anche e soprattutto delle P.A., del costituendo organismo? In realtà il CCNL fa riferimento alle finalità di raccordo tra le attività dei due comitati, finalità che sembrano sublimare, ricomprendendoli, tutti gli scopi prima descritti. 6. Le linee di intervento ipotizzate dal CCNL per la tutela dal mobbing sono modulari ed integrate: dalla conoscenza del fenomeno, allo studio delle cause ed alla disseminazione delle conoscenze; dalla formazione mirata, alla proposta di azioni positive per prevenire e reprimere; infine all’assistenza psicologico-giuridica. Se esiste un problema, occorre, evidentemente, conoscerlo in tutte le sue sfumature, misurarne le proporzioni, costruire strategie integrate di intervento, educare tutti gli attori delle P.A. ad ammetterlo ed identificarlo. L’approccio è modulare perché mirante a promuovere conoscenze, culture organizzative ed a diffonderle in modo integrato; le norme sono miti ed hanno un impatto mite, perché attente a non eccitare nuovi conflitti organizzativi. Le norme contrattuali si limitano alla proposta per eliminare le disfunzioni, promovendo, nel contempo, la trasformazione culturale che è elemento imprescindibile per la rimozione degli elementi di patologia dei sistemi organizzativi, anche se una prima ipotesi di tutela viene avanzata nelle ipotesi di mobbing orizzontale fra dipendenti attraverso la previsione di sanzioni disciplinari (cfr. l’art. 13, commi 3, lett.j e 4, lett.e). La contrattazione ha, in definitiva, il ruolo di fiancheggiare le tutele, locate In altri Paesi sono, invece, molto avanti. La Svezia si è dotata di una legge ad hoc già dal 1993, la Francia nel 2002. In Germania la regolamentazione è perlopiù di origine negoziale. Nel nostro Paese ha legiferato, invece, la Regione Lazio, con la legge n.16 del 11 luglio 2002, suscitando più di un interrogativo in relazione al nuovo sistema di riparto di competenze fra Stato e Regioni, così come determinato a seguito della modifica del Titolo V, parte II della Costituzione. La legge in esame coinvolge infatti materie che potrebbero alternativamente ritenersi ricomprese nell’ “ordinamento civile” (di competenza esclusiva dello Stato) ovvero nell’ambito della “tutela della salute” e “della tutela e sicurezza sul lavoro” (attribuite dalla nuova formulazione dell’art. 117 Cost alla competenza concorrente di Stato e Regioni). Nell’assenza di norme di principio in tali materie, ed attesa la competenza esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile (nonché 18 109 DOTTRINA 110 però al di fuori della contrattazione, per creare l’humus organizzativo e promuovere le culture, le consapevolezze e le solidarietà, e ciò nell’attesa che si giunga alla definizione di quella legge generale sul mobbing che manca nel 18 nostro ordinamento , ma per la quale i tempi sembrano essere ormai 19 sufficientemente maturi , anche per l’esplicita sussunzione della 20 problematica nella sede comunitaria . Non si tratta però di un ruolo minore. Si tratta invece della certezza che del mobbing – fenomeno tipico della società industriale post-fordista, che, con le necessità della produzione competitiva ed il massiccio ricorso a tecnologie, rischia di dimenticare la figura del lavoratore, dissolvendone l’identità e relegandolo nuovamente ad entità “economica” – bisogna innanzitutto parlarne. Secondo una nota affermazione, individuare i problemi esistenti significa aver semplificato anche i problemi stessi: nel caso del mobbing riconoscerne l’esistenza significa già un po’ sconfiggerlo, perché esso si cala nelle inconsapevolezze e, a volte, nell’interesse a nasconderlo sotto la parvenza di comportamenti legittimi assunti nel superiore interesse organizzativo. Attualmente la patologia sociale del mobbing sembra essere stata esportata anche nel settore pubblico. Agiscono qui le logiche di immedesimazione con il settore privato, spesso acritiche ed irrazionali, le nuove necessità del servizio pubblico competitivo e concorrenziale, ma, soprattutto, le dinamiche istaurate dall’introduzione di nuovi modelli manageriali. Il nuovo management pubblico risponde del raggiungimento degli obiettivi dati, nella logica del coinvolgimento con i risultati attesi dalla comunità e del rapporto fiduciario con l’organo politico, ora competente alla sua nomina, rimozione, mancata conferma. Quest’effetto di precarizzazione, oltre a fungere da fattore potenzialmente mobbizzante per lo stesso dirigente pubblico, lo spinge fatalmente a pressioni sulla struttura che dirige, in un circuito che rischia di divenire vizioso, non solo per la divergenza degli interessi in campo (fra dirigente proteso al risultato e dipendente che ne è potenzialmente indifferente), ma, anche, per l’incompetenza organizzativa dello stesso manager pubblico, addestrato spesso al diritto ma non alla gestione delle risorse umane ed alla convivenza organizzativa. del coinvolgimento, tramite la legge sub iudice, di datori di lavoro operanti in strutture amministrative dello Stato, non facenti parte degli apparati regionali, ma nei confronti dei quali si eserciterebbe il potere coercitivo discendente dall’attuazione dei procedimenti previsti dalla medesima legge), il Governo ha sollevato questione di costituzionalità (su tale tematica vedi Caterina Cordella, in questo volume, pag. 75). 19 Solo nella XIV legislatura sono stati presentati complessivamente 14 progetti di legge. 20 Cfr. la Risoluzione del Parlamento europeo del 20 settembre 2001. DOTTRINA Il mobbing nel CCNL del personale del Comparto Ministeri 2002-2005 di Elvira Gentile* 111 1. Negli ultimi anni si è registrata un’ampia diffusione delle situazioni di mobbing anche nelle pubbliche amministrazioni, per cui da più parti è emersa l’esigenza di una definizione normativa di misure idonee ad evitare l’estensione del fenomeno ed a garantire la tutela dei dipendenti interessati. In tale scenario di forte attenzione al problema espresso non solo dalle istituzioni europee e governative, ma anche dalle parti sociali, il rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro per la tornata contrattuale 2002-2005 del Comparto Ministeri ha costituito l’occasione per un intervento della fonte negoziale pubblica sulla materia e, sotto tale profilo, l’attuazione della specifica disciplina contrattuale costituisce il segnale più evidente della sensibilità espressa al riguardo anche da parte di tutti i soggetti coinvolti nel complesso sistema di contrattazione collettiva pubblica. In particolare, l’esigenza di affrontare la tematica è stata rappresentata sia dalle organizzazioni sindacali, mediante l’inserimento di una specifica richiesta nelle loro piattaforme, sia anche dalle amministrazioni del Comparto, che, attraverso il relativo Comitato di settore, hanno manifestato il loro intendimento di assumere delle iniziative al riguardo. In proposito, va del resto precisato che i Comitati di settore, nella loro qualità di organismi rappresentativi delle istanze associative delle P.A., esercitano il potere di inviare atti di indirizzo all’Agenzia negoziale, al fine di fornire indicazioni circa i contenuti del contratto, pur nel pieno rispetto dell’autonomia collettiva. Ed è proprio nell’atto di indirizzo per il Comparto dei Ministeri del 5 agosto 2002 che si segnala la necessità di affrontare il tema della tutela dei dipendenti contro il mobbing, ritenendo decisivo, in mancanza di una organica disciplina legislativa, l’approccio contrattuale, al fine di creare uno spazio di mediazione sindacale alla materia. *Responsabile Comparto Ministeri dell’ARAN. DOTTRINA 112 2. Nel quadro di tale ampia convergenza di interessi, quindi l’ARAN e le organizzazioni sindacali hanno affrontato il delicato compito di tradurre in termini normativi le numerose istanze di intervento sulla materia, individuandone le relative soluzioni tecniche nell’ambito delle competenze conferite dalla legge alla fonte negoziale. Il progetto è stato fin dall’inizio quello di indirizzare la disciplina contrattuale verso un duplice obiettivo: da una parte, definire modalità per favorire una più generale sensibilizzazione personale circa l’esistenza del fenomeno nell’ottica di prevenirne l’estensione, dall’altra individuare forme più incisive di controllo delle situazioni di mobbing, anche attraverso la predisposizione di appositi meccanismi, per così dire, di repressione. Nell’ottica del perseguimento di tali finalità, però, le parti hanno dovuto anche tener conto della peculiarità della tematica in esame che, da un lato, investe aspetti comportamentali e direttamente attinenti alla sfera personale dei lavoratori e dall’altro, invece, incide su elementi legati all’ambiente di lavoro, con la conseguente necessità di operare anche interventi di tipo organizzativo e gestionale, che esulano dalle competenze della contrattazione per investire più direttamente i poteri di organizzazione dell’amministrazione. Va pertanto chiarito che, in base alle vigenti disposizioni del d. lgs. n. 165 del 2001, il contratto si configura come la fonte di regolazione di tutte le materie del rapporto di lavoro e delle relazioni sindacali, mentre non è nella disponibilità delle parti l’assunzione di iniziative di tipo organizzativo, che spettano alle amministrazioni o alla legge. Si è trattato pertanto di costruire un sistema che, pur rimanendo nell’ambito delle competenze proprie dello strumento negoziale, consentisse, in una prospettiva di lungo termine, di recuperare le indicazioni anche di tipo organizzativo e gestionale derivanti dalla risoluzione del Parlamento europeo o dai lavori della Commissione governativa. Sotto tale profilo il modello negoziale delineato è riuscito nell’intento di contemperare le diverse esigenze, predisponendo, in modo efficace, una articolata serie di soluzioni. 3. Innanzitutto l’art. 6 del CCNL si apre con una definizione delle connotazioni salienti del fenomeno, che viene individuato come forma di violenza morale o psichica attuata nei confronti di un lavoratore dal datore di lavoro o da altri dipendenti e caratterizzata da una serie di atti, atteggiamenti o comportamenti, diversi e ripetuti nel tempo in modo sistematico ed abituale, aventi connotazioni aggressive, denigratorie e vessatorie tali da comportare un degrado delle condizioni di lavoro, DOTTRINA compromettere la salute, la professionalità o la dignità del lavoratore stesso nell’ambito dell’ufficio di appartenenza oppure, addirittura, escluderlo dal contesto lavorativo. Entrando, poi, nel merito della disciplina, il testo contrattuale, nel seguire lo schema prevenzione/repressione, riporta soluzioni tipologicamente differenziate sotto il profilo applicativo, in relazione alla finalità perseguita: infatti, per quanto attiene alla prevenzione, è stato privilegiato il ruolo di mediazione del sindacato attraverso l’istituzione di un Comitato paritetico ad hoc con compiti di analisi e propositivi, mentre, sotto il profilo della repressione, si è optato per la scelta, indubbiamente più operativa, di prevedere, nell’ambito del codice disciplinare, specifiche sanzioni per i dipendenti responsabili di atti di mobbing. L’elemento centrale del progetto negoziale è costituito, senza dubbio, dal Comitato Paritetico, che è sembrato, del resto, non solo coerente con l’attuale assetto contrattuale, fortemente partecipativo, ma anche particolarmente opportuna dal punto di vista operativo, in quanto individua uno spazio di confronto con le organizzazioni sindacali, che consente di pervenire all’elaborazione congiunta, e pertanto condivisa, di eventuali proposte. In altri termini, il Comitato si configura come momento di verifica delle posizioni del sindacato e delle amministrazioni, al fine di pervenire ad un punto di equilibrio tra le stesse per la predisposizione di iniziative comuni, che in quanto tali assumono maggiore peso anche ai fini di una successiva e concreta attuazione da parte dell’amministrazione. Del resto, l’attenzione manifestata dalle parti per una soluzione partecipata, risulta essere anche conforme allo spirito della riforma del pubblico impiego, avviata con il d. lgs. n. 29 del 1993 e proseguita con i successivi decreti di modifica, ora accorpati nel d. lgs. n. 165 del 2001, che ha individuato uno dei suoi cardini nella definizione di un articolato e moderno sistema di relazioni sindacali, che lungi dal ripristinare elementi di cogestione, ormai definitivamente superati, costituisse un forte supporto al cambiamento, sulla base del principio che il processo di trasformazione e, quindi, di privatizzazione del rapporto di lavoro potesse essere attuato in tempi rapidi e con esito positivo, solo se condiviso anche dai lavoratori, piuttosto che imposto in modo unilaterale. 4. Sotto il profilo giuridico, tale Comitato trova il suo fondamento nell’art. 44 del d. lgs. n. 165 del 2001, che prevede specifiche forme e procedure di partecipazione sindacale all’organizzazione del lavoro, la cui disciplina viene demandata alla disponibilità collettiva. 113 DOTTRINA 114 I Comitati sono privi di funzioni negoziali, ma con precise competenze preordinate alla raccolta di dati e alla formulazione di proposte su specifiche tematiche riguardanti l’organizzazione del lavoro, nel pieno rispetto delle prerogative dell’amministrazione. Nell’ambito della generale disciplina pattizia di tali organismi, che si colloca nella parte del CCNL dedicata alle relazioni sindacali, si distingue, sicuramente per la specifica regolamentazione contrattuale, il Comitato per le pari opportunità, già operativo da tempo nelle amministrazioni pubbliche. Anche per il Comitato sul mobbing il CCNL individua una disciplina dettagliata che ne definisce con precisione i compiti, la composizione ed il funzionamento. Un aspetto interessante dell’attività dei Comitati è costituito, senza dubbio, dalla possibilità di effettuare l’analisi dell’entità e della diffusione del fenomeno, attraverso l’acquisizione e l’elaborazione di tutti i dati informativi. Il CCNL si preoccupa anche di orientare l’indagine conoscitiva verso l’individuazione delle possibili cause, con particolare riferimento alla verifica dell’esistenza di condizioni di lavoro o di fattori organizzativi e gestionali che possano determinare l’insorgere di situazioni persecutorie o di violenza morale. Sul versante della funzione propositiva del Comitato, la norma contrattuale offre una serie di indicazioni che tendono a riproporre talune iniziative di tipo organizzativo, già presenti nei documenti di altre istituzioni, europee, governative o parlamentari, come già sopra precisato, con particolare riferimento alla costituzione e al funzionamento di sportelli di ascolto, all’istituzione della figura del consigliere/consigliera, nonché alla definizione di eventuali codici di comportamento. È evidente che la norma contrattuale tende a dare ampio rilievo al ruolo propulsivo del Comitato, la cui efficacia si misura proprio nella capacità degli stessi di stimolare le amministrazioni, pur nel rispetto della loro autonomia e la responsabilità, a far proprie alcune iniziative di tipo organizzativo e gestionale, che costituiscono i fattori operativi della tutela dei dipendenti da eventuali azioni di mobbing. 5. Nel quadro delle misure volte a prevenire il verificarsi del fenomeno del mobbing, il CCNL attribuisce un ruolo rilevante alla formazione che viene esplicitamente individuata come elemento di indubbie potenzialità nel quadro delle iniziative per la prevenzione del fenomeno. Il tema generale della formazione, per quanto attiene alle linee fondamentali, già costituisce materia di confronto con le organizzazioni DOTTRINA sindacali nell’ambito della contrattazione integrativa, ma la previsione di un intervento propositivo del Comitato paritetico si fonda sull’opportunità, condivisa dalle parti, di attivare per il mobbing un tipo di formazione specialistica, diretta a fornire gli opportuni elementi informativi teorici e pratici sul fenomeno, che consenta al personale di distinguerne le peculiari connotazioni persecutorie. Gli obiettivi di tale attività didattica sono orientati, altresì, a favorire l’apprendimento del corretto svolgimento dei rapporti interpersonali all’interno dell’ambiente di lavoro, soprattutto in relazione all’acquisizione della piena consapevolezza delle proprie competenze e delle proprie responsabilità. Una formazione mirata agli aspetti relazionali e comportamentali potrebbe, del resto, avere effetti positivi anche nella prospettiva della realizzazione di un maggiore coinvolgimento del personale nell’ambiente lavorativo e di una maggiore coesione all’interno degli uffici, tutti elementi che si configurano come presupposti indispensabili per evitare il diffondersi delle situazioni di mobbing. 6. Al fine di dare maggiore incisività al progetto contrattuale, viene stabilito, per l’istituzione dei Comitati paritetici, il termine di sessanta giorni dal momento dell’entrata in vigore del CCNL. Essi sono costituiti da un componente designato da ciascuna delle organizzazioni sindacali di comparto firmatarie del presente CCNL e da un pari numero di rappresentanti dell’amministrazione. Il Presidente del Comitato, per ovvi motivi di organizzativi e logistici, viene designato tra i rappresentanti dell’amministrazione ed il vicepresidente dai componenti di parte sindacale. Per ogni componente effettivo è previsto un componente supplente. Pur confermando la composizione paritetica dei Comitati, la norma contrattuale prevede che di essi faccia parte anche un rappresentante del Comitato per le pari opportunità, appositamente designato da quest’ultimo, allo scopo di garantire il raccordo tra le attività dei due organismi. Tale collegamento è diretto a favorire un’auspicabile sinergia di azioni positive, anche al fine di garantire l’omogeneità delle proposte e dei comportamenti. Per quanto attiene alla durata, i Comitati rimangono in carica per un quadriennio e, comunque, fino alla costituzione dei nuovi. I componenti dei Comitati possono essere rinnovati nell’incarico per un solo mandato. Con riferimento agli aspetti logistici, viene inoltre previsto un adeguato supporto all’attività dei Comitati da parte delle Amministrazioni, che sono 115 DOTTRINA 116 tenute a favorire l’operatività degli stessi e a garantire tutti gli strumenti idonei al loro funzionamento. Al fine di fornire tutti i presupposti per la più ampia diffusione dei risultati dell’attività dei Comitati nell’ambito lavorativo, il CCNL prevede, da parte dell’amministrazione interessata, una idonea attività di valorizzazione e di pubblicizzazione della loro attività, che risulta indispensabile per perseguire quegli obiettivi di sensibilizzazione e di denuncia dell’esistenza del fenomeno e delle conseguenze negative della sua diffusione, su cui si fonda la scelta contrattuale di istituire i Comitati. I Comitati stessi sono, del resto, tenuti a svolgere una relazione annuale sull’attività svolta. 7. Come già accennato, oltre all’aspetto della prevenzione delle situazioni di mobbing, CCNL ha voluto dare un segnale forte anche per quanto attiene alle iniziative di “repressione” dei comportamenti illeciti e, riprendendo alcune proposte presentate nei disegni di legge presentati al Parlamento, individua, all’art. 13, nell’ambito del codice disciplinare alcune specifiche sanzioni per quei dipendenti che si rendono responsabili di atti di mobbing. Come è ovvio, la materia disciplinare è di diretta pertinenza dell’autonomia negoziale e quindi è stato possibile mettere a punto interventi immediatamente operativi. Nel quadro di una revisione del sistema delle sanzioni, determinato dalla necessità di adeguare la precedente regolamentazione alle recenti disposizioni legislative intervenute sulla materia, l’elencazione delle infrazioni è stata integrata con il riferimento alle situazioni di mobbing, per le quali vengono previste, anche il relazione alla gravità delle azioni commesse, delle sanzioni ad esse proporzionali. Pertanto, coerentemente con quanto previsto per tutto il codice disciplinare, anche per i casi in esame è stato riaffermato il principio della gradualità e proporzionalità delle misure disciplinari, che sono classificate a seconda della gravità dei comportamenti. In particolare, in considerazione delle conseguenze negative che le situazioni di mobbing determinano, sia sull’andamento dell’ufficio che sulla personalità del lavoratore interessato, si è ritenuto di non prevedere misure disciplinari di lieve entità, come il rimprovero o la multa, ma solo sanzioni di maggior spessore, che vengono articolate dalla sospensione dal servizio per 10 giorni al licenziamento, tenendo anche conto delle possibili recidive. 8. Si ritiene che in mancanza di un riferimento legislativo che presuppone un più ampio ed organico intervento sulla materia, la contrattazione non DOTTRINA poteva fare di più, anche in considerazione degli ambiti di competenza che le sono conferiti, come sopra rappresentato: in una prospettiva futura, il modello attuato potrà essere rivisto e completato. In tale ottica sarebbe auspicabile un’analisi più precisa delle connotazioni che va assumendo tale fenomeno nelle pubbliche amministrazioni, che potrebbe costituire un interessante presupposto conoscitivo per orientare gli eventuali sviluppi negoziali sulla materia. 117 DOTTRINA Bibliografia sul mobbing 119 Amato, F., Casciano, M.V., Lazzeroni, L., Loffredo, A., Il mobbing - Aspetti lavoristici: nozione, responsabilità, tutele, Giuffrè, 2002. American psychiatric Association, Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi mentali, quarta edizione, Masson, Milano, 1996. Anonimo, Il mio Mobbing, 1999. Arcidiacono C., a cura di Empowerment Sociale, Il futuro della solidarietà. Modelli di psicologia di comunità, F. Angeli, Milano, 1996. Ascenzi, A., Bergaglio, G.L., Il Mobbing. Il marketing sociale come strumento per combatterlo, Giappichelli Editore, Torino, 2000. Ascenzi, A., Bergagio, G.L., Mobbing: riflessioni sulla pelle, Giappichelli Editore, 2002. Balducci, C. 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Nell’ambito del rapporto di lavoro l’assegnazione del lavoratore a mansioni in concreto inferiori comporta un’illegittima dequalificazione che non è esclusa dall’identità del livello di inquadramento professionale né dal mantenimento del trattamento economico di base; in tal caso, il danno al patrimonio professionale causato dall’impossibilità per il lavoratore di svolgere le precedenti mansioni costituisce “fatto notorio” che il giudice, in base all’art. 115 c.p.c., può porre a fondamento della decisione senza bisogno di prova (fattispecie in cui il giudice ha riconosciuto il demansionamento di un dipendente T.I.M., con obbligo di risarcire il connesso danno alla professionalità). In caso di demansionamento e di conseguente danno alla professionalità, la determinazione dello stesso va compiuta in via equitativa con riferimento alla quota della retribuzione complessiva nel periodo di demansionamento corrispondente alla parte di retribuzione che compensa la capacità professionale del lavoratore. Tra l’altro, l’assegnazione a mansioni diverse e inferiori non produce danno da perdita di chances quando la promozione a un livello superiore a quello attribuito prima del demansionamento non sia GIURISPRUDENZA automatica (nel caso di specie è stato riconosciuto solo il danno alla professionalità nella misura pari al 72% della retribuzione mensile per ogni mese di demansionamento). Tribunale di Pisa, 10 aprile 2002 (Est. Nisticò) 128 Riferimenti normativi: art. 2087 c.c. Rapporto di lavoro - mobbing - art. 2087 c.c. - tutela della personalità morale del lavoratore - sussistenza - rilevanza autonoma rispetto ad altri potenziali effetti negativi del mobbing (lesioni patrimoniali, cd. danno biologico, danno morale). Nell’ambito del rapporto di lavoro il danno derivante dalla lesione alla personalità morale del lavoratore, come costruito dall’art. 2087 c.c., ha rilevanza autonoma rispetto al danno patrimoniale ed al c.d. danno biologico (ed anche rispetto al danno morale). La disposizione in esame, infatti, vieta ex se la molestia morale, indipendentemente dall’eventuale (e concorrente) pregiudizio che possa altrimenti derivare per il lavoratore (sia alla sua dimensione patrimoniale che a quella riferibile alla vita di relazione), per configurare un obbligo risarcitorio determinato dal comportamento tipizzato che non presuppone alcuna lesione comportante una deminutio materiale o psicologica. Il mobbing può anche cagionare una diversa lesione patrimoniale 0 alla vita di relazione e così scemare la capacità reddituale o quella relazionale, ma può anche esaurirsi in sé stesso, provocando, come nel caso di specie, il solo disagio derivante dalla “pressione” (indebita) del datore di lavoro e dunque la compromissione oggettiva della personalità del lavoratore. La legge, infatti, non tutela (solo) l’integrità psicologica del lavoratore, ma la sua personalità morale, che è cosa diversa e di diversi contenuti; ed il mancato rispetto di tale obbligo di tutela, dunque, comporta il risarcimento del danno al solo verificarsi della fattispecie vietata. Danno che in questo caso si configura come danno esistenziale la cui valutazione sarà stimata equitativamente dal giudice (nella fattispecie è stato riconosciuto il risarcimento del danno ex art. 2087 c.c.). GIURISPRUDENZA Tribunale di Torino, 18 dicembre 2002 (Est. Sanlorenzo) Rapporto di lavoro - mobbing - distinzione tra mobbing verticale (o bossing) e orizzontale - criteri - art. 2103 c.c. - demansionamento cd. quantitativo definizione - danno alla professionalità - sussiste in re ipsa. 129 Il mobbing è una serie ripetuta e coerente di atti e comportamenti materiali che trovano una ratio unificatrice nell’intento di isolare, di emarginare, e fors’anche di espellere, la vittima dall’ambiente di lavoro. Si suddivide tra il mobbing cd. “verticale”, quando esso viene attuato da un capo verso i sottoposti, e quando è l’intera azienda che mette in atto una strategia diretta o indiretta per rendere impossibile la vita a un dipendente sgradito in modo da costringerlo a licenziarlo (il fenomeno in questione viene anche denominato, da certi studiosi, come bossing), opposto al mobbing cd. “orizzontale”, che si verifica quando un certo numero di colleghi emarginano qualcuno che, per qualche motivo, il gruppo non vuole (nel caso di specie il giudice non ha ravvisato la sussistenza di un situazione di mobbing nei confronti della dipendente ritenendo, tra l’altro, consone al suo livello d’inquadramento le mansioni assegnatele e, più in generale, gli episodi elencati frutto di una visione parziale e prevenuta nei confronti dell’ambiente di lavoro). Sussiste demansionamento cd. quantitativo se al dipendente viene sottratta buona parte dei compiti lavorativi svolti fino a quel momento, anche se non vi è in capo al datore di lavoro l’animus nocendi; in tali casi il danno alla professionalità sussiste in re ipsa con una quantificazione che tenga conto della effettiva presenza in azienda. Tribunale di Forlì, 6 febbraio 2003 (Est. Sorgi) Riferimenti normativi: artt. 2, 35 e 97 Cost.; artt. 2043 e 2087 c.c. Rapporto di lavoro - mobbing - necessità di condotte illecite - esclusione condotta di per sé lecita posta in essere da un collega - responsabilità contrattuale in capo al collega mobbizzante - sussistenza - responsabilità extracontrattuale in capo alla P.A. datrice di lavoro - sussistenza - presupposti. Il mobbing si configura anche quando, pur operando con condotte di per sé GIURISPRUDENZA 130 lecite, il mobber realizza comunque, complessivamente, le condizioni per un ambiente mobbizzante. Quando la condotta mobbizzante si realizza tra colleghi – nella specie medico specializzato e primario – il mobber risponde a titolo di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., essendo la responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c. configurabile solo in capo al datore di lavoro. Ai sensi degli artt. 2087 c.c., 2-35-97 Cost., sussiste in capo alla P.A. datrice di lavoro l’obbligo giuridico di tutelare la dignità professionale e umana dei propri dipendenti anche attraverso la risoluzione di situazioni di conflittualità tra colleghi. Tale obbligo, se non adempiuto, può determinare l’insorgere di un danno esistenziale nel soggetto “ferito” nella propria professionalità, risarcibile in via equitativa. Tribunale di Lecce, ord. 31 agosto 2001 (Pres. Invitto - Rel. Buffa) Riferimenti normativi: artt. 1228, 2049 e 2087 c.c. Rapporto di lavoro - mobbing - comportamento vessatorio ed illecito da parte di un dirigente sovraordinato (cd. bossing) - diritto del lavoratore a non essere dequalificato - sussistenza - obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c. gravante sulla P.A. datrice di lavoro - conseguente dovere per la P.A. di impedire comportamenti vessatori di alcuni lavoratori su altri - sussistenza. Quando non si è in presenza di una mera dequalificazione, bensì di un comportamento vessatorio ed illecito nei confronti del dipendente, vittima di vero e proprio bossing aziendale ad opera di un dirigente a lui sovraordinato, la legge tutela il diritto del lavoratore a non essere dequalificato e a svolgere effettivamente le mansioni formalmente spettatigli. La P.A. datrice di lavoro, in quanto titolare dell’obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c. nei confronti dei dipendenti nonché responsabile, come tale, anche del comportamento vessatorio ed illecito dei suoi dipendenti nei confronti di altri (artt. 1228 e 2049 c.c.), ha il preciso dovere di intervenire per rimuovere una situazione non più tollerabile all’interno dell’ufficio e di evitare un’ulteriore lesione della personalità fisica e morale del lavoratore. Correttamente, dunque, l’azione cautelare è incardinata solo nei confronti della P.A.; per converso il dipendente autore delle condotte vessatorie ed illecite non è litisconsorte necessario del rapporto dedotto in giudizio, GIURISPRUDENZA potendosi verso quest’ultimo azionare altri rimedi civilistici. Non sussiste il difetto di giurisdizione del g.o. relativamente ai provvedimenti incidenti sull’organizzazione della P.A.: infatti, nell’assetto normativo disegnato dal d. lgs. n. 29/93 (come modificato dal d. lgs. n. 80/98 e 387/98) la P.A. agisce “con i poteri e le capacità del privato datore di lavoro” e il giudice ordinario “può adottare nei confronti dell’amministrazione tutti i provvedimenti richiesti dalla natura del diritto tutelato”. Tribunale di Venezia, 15 gennaio 2003 (Est. Ferretti) Riferimenti normativi: artt. 2087 e 2935 c.c. Rapporto di lavoro - mobbing attuato da un dipendente sovraordinatodefinizione - diritto al risarcimento danni (sub specie di lesione patrimoniale, lesione alla personalità morale, danno biologico, perdita di chance) - sussistenza - prescrizione - decorrenza - momento in cui la condotta mobbizzante è cessata. Il comportamento adottato dal superiore nei confronti del dipendente a lui sotto-ordinato può essere qualificato come mobbing in relazione alla durata del fenomeno e alla pluralità di atti e provvedimenti tendenti ad indurre nel destinatario situazioni di disagio, difficoltà e disistima verso se stesso; sono tali: la privazione di poteri normalmente conferiti alla posizione professionale, il trasferimento “punitivo” e la dequalificazione professionale, la vigilanza eccessiva, il demansionamento, gli atteggiamenti umilianti. Il dies a quo di decorrenza della prescrizione ex art. 2935 del diritto al risarcimento dei danni conseguenti al comportamento mobbizzante e immediatamente prodottisi nella sfera giuridica del mobbizzato in termini di danno patrimoniale, di lesione della sua personalità morale, di danno biologico per le malattie verificatesi, di perdita di chances, coincide con il momento in cui la condotta mobbizzante è cessata. 131 GIURISPRUDENZA Tribunale di Forlì, 15 marzo 2001 Riferimenti normativi: artt. 2043 e 2087 c.c. Rapporto di lavoro - mobbing - onere della prova - ripartizione. 132 Allorquando, in caso di mobbing, sul datore di lavoro sussista sia responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c. sia responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., l’onere della prova deve essere ripartito nel modo più favorevole al dipendente, quindi adottando il regime contrattuale, in base al quale incombe sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver posto in essere tutte le misure necessarie alla tutela dell’integrità psicofisica del dipendente, mentre incombe sul lavoratore l’onere di dimostrare l’esistenza del nesso di causalità tra comportamento del datore di lavoro ed evento lesivo. Tribunale di Forlì, 15 marzo 2001 Rapporto di lavoro - mobbing - definizione - danno esistenziale - presupposti valutazione equitativa - criteri. Integrano un’ipotesi di mobbing, in particolare di cd. bullyng, comportamenti posti in essere da un lavoratore sovra-ordinato quali l’ingiustificato trasferimento, il demansionamento, il difetto di confronto con i superiori, l’eliminazione di particolari “status”, il sistematico disconoscimento datoriale. Questi comportamenti vessatori possono provocare lesioni psico-somatiche, pregiudicando le condizioni si salute della vittima: se non sia possibile altra qualificazione risarcitoria, dovrà parlarsi di danno esistenziale, quantificabile, nell’ambito di una valutazione equitativa del danno o della sofferenza patita, in base ai parametri del tempo e della retribuzione. Tribunale di Como, 22 maggio 2001 Riferimenti normativi: artt. 32 e 41 cost.; artt. 1226, 2056 e 2087 c.c. Rapporto di lavoro - mobbing - definizione - danno esistenziale - presupposti - valutazione equitativa - criteri. GIURISPRUDENZA L’individuazione in concreto dei comportamenti che integrano il mobbing, in quanto volti a respingere dal contesto lavorativo il soggetto mobbizzato (il quale può riportare anche conseguenze negative di ordine fisico), deve essere compiuta in base ai risultati della psicologia del lavoro internazionale e nazionale. Questo fenomeno può causare un danno esistenziale o danno alla vita di relazione, di natura sia contrattuale che extracontrattuale, ogniqualvolta l’aggressione alla sfera della dignità del lavoratore non possa ricevere una diversa qualificazione risarcitoria: in tal caso, il danno potrà essere liquidato in via equitativa, ex artt. 1226 e 2056 c.c., in base ai parametri del tempo e della retribuzione. Tribunale di Milano, 11 febbraio 2002 Riferimenti normativi: art. 2087 c.c. Rapporto di lavoro - mobbing - definizione. Costituisce mobbing una serie di fatti e comportamenti posti in essere dal datore di lavoro al fine di vessare il lavoratore, rendendone penosa la prestazione. Va escluso, quindi, che ricorra mobbing nel caso di comportamenti del datore di lavoro comunque giustificabili, ad esempio alla luce di oggettive situazioni aziendali di dissesto, ovvero di gravi inadempimenti contrattuali del dipendente. Tribunale di Milano, 20 maggio 2000 Riferimenti normativi: art. 1225 c.c. Rapporto di lavoro - mobbing - onere di provare l’esistenza e la potenzialità lesiva del fatto - sussistenza. Sul lavoratore che invochi il risarcimento del danno derivante da mobbing, incombe l’onere di provare l’esistenza del fatto e la sua potenzialità lesiva. (Nella specie il tribunale ha riformato la decisione di primo grado, ritenendo che l’assenza di sistematicità e la scarsità degli episodi lamentati, nonché la loro oggettiva attinenza alla vita di tutti i giorni all’interno di un contesto produttivo – che come tale è anche luogo di contatto e di scontro umano – esclude che i comportamenti lamentati possano integrare il mobbing). 133 GIURISPRUDENZA Tribunale di Taranto, 7 marzo 2002 Riferimenti normativi: artt. 56 e 610 c.p. Rapporto di lavoro - mobbing - configurabilità del reato di violenza privata ammissibilità - limiti. 134 È configurabile il reato di tentata violenza privata, ex art. 610 c.p., in ipotesi di c.d. mobbing, quando la costante pressione di una minaccia determina nella vittima una condizione patologica caratterizzata da una sensazione di timore, associata a segni somatici indicativi di iperattività del sistema nervoso autonomo, tale da sfociare poi in una sindrome postraumatica da stress, quando l’esposizione all’evento traumatico dura oltre sei mesi. Tribunale di Venezia, 26 aprile 2001 Rapporto di lavoro - mobbing - richiesta risarcimento danni da dequalificazione professionale - prescrizione - decorrenza. Non essendo rinvenibile nell’ordinamento una fattispecie legale di mobbing, più domande di risarcimento per i danni da dequalificazione professionale non possono essere unificate, poiché non riconducibili a un illecito contrattuale permanente consistente in comportamenti persecutori sistematici. La prescrizione delle richieste di risarcimento dei danni da dequalificazione professionale, quindi, decorre dalla manifestazione di ogni singolo evento dannoso. GIURISPRUDENZA Sentenze massimate con testo integrale 135 Corte di Cassazione, sezione lavoro, 22 febbraio 2003, n. 2763 (Pres. ed Est. Dell’Anno) Riferimenti normativi: art. 2103 c.c. Rapporto di lavoro - mansioni e qualifiche - art. 2103 c.c. - diritto del lavoratore allo svolgimento effettivo della propria prestazione - sussistenzaconseguenze - diritto al risarcimento del danno professionale causato dalla negazione o dall’impedimento allo svolgimento delle mansioni. L’art. 2103 attribuisce al lavoratore nei confronti del datore di lavoro il diritto all’effettivo svolgimento della propria prestazione professionale, con la conseguenza che la lesione di tale diritto da parte del datore di lavoro costituisce inadempimento contrattuale e determina, oltre a quello di corrispondere le retribuzioni dovute, l’obbligo di risarcire il danno da dequalificazione professionale. Tale danno (detto anche danno professionale) può assumere aspetti diversi, essendo configurabile sia quale danno patrimoniale derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, sia quale pregiudizio subito per perdita di chance ossia di ulteriori possibilità di guadagno sia, infine, in una lesione del diritto del lavoratore all’integrità fisica o, più in generale, alla salute ovvero all’immagine o alla vita di relazione. In particolare, la negazione o l’impedimento allo svolgimento delle mansioni, al pari del demansionamento professionale, ridondano in lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore anche nel luogo di lavoro, determinando un pregiudizio che incide sulla vita GIURISPRUDENZA 136 professionale e di relazione dell’interessato, con una indubbia dimensione patrimoniale che rende il pregiudizio medesimo suscettibile di risarcimento e di valutazione anche in via equitativa. (Nel caso di specie, in applicazione degli accennati principi, la Corte ha cassato la sentenza di merito che, pur avendo accertato la circostanza della “scarsissima attività o totale inattività” da parte del lavoratore, aveva tuttavia ritenuto che tale circostanza non poteva legittimare una condanna al risarcimento di danni da dequalificazione, non avendo comportato una decurtazione della retribuzione né una diminuzione delle attitudini lavorative del soggetto). SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con ricorso al tribunale di Milano del 22 dicembre 1998, Z. S. espose che: a) la società B. I., alle dipendenze della quale prestava attività lavorativa quale dirigente, avendo costituito la società B. S. per la realizzazione di un programma di investimenti nelle regioni meridionali italiane, gli aveva proposto di assumere in questa le funzioni di vice direttore generale e che tale proposta era stata da lui accettazione venendogli assicurato il rientro in posizione adeguata; b) dopo un iniziale periodo, emerse un graduale disimpegno della società B. I. nei confronti della attività della seconda e, a partire dal 1° giugno 1994, si operò una progressiva sua dequalificazione tanto che, pur essendo stato nominato direttore generale, di fatto venne escluso dallo svolgimento delle mansioni primarie proprie di tale figura; c) con lettera del 22 febbraio 1995, gli venne comunicato dal Consiglio di amministrazione della società che era stata abolita la posizione di direttore generale e con altra del giorno successivo, la B. I. gli aveva proposto il rientro presso essa con le funzioni di responsabile del personale della direzione della assistenza tecnica; d) aveva svolto, a partire dal 1° aprile 1995, le inferiori mansioni fino a tutto l’anno successivo, restando inattivo per il periodo successivo fino alla data del 30 aprile 1998, in cui accettò la proposta di una risoluzione consensuale del rapporto di lavoro. Ciò premesso, lo Z. convenne in giudizio la società B. I., chiedendone la condanna al risarcimento del danno morale, di immagine e biologico conseguente alla dequalificazione, all’indennità sostitutiva del preavviso e a quella supplementare con riferimento alle dimissioni – da qualificarsi come licenziamento – con successiva riassunzione, al risarcimento dei danni per mancata corresponsione degli incentivi e per la unilaterale riduzione delle ferie dall’anno 1996 in poi. Costituitosi il contraddittorio, il tribunale, in composizione monocratica, rigettò la domanda con pronuncia del 12 GIURISPRUDENZA novembre 1999. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di Appello di Milano ha ritenuto infondata l’impugnazione dello Z., rilevando che: 1. la pretesa di qualificare come licenziamento la risoluzione del rapporto con la società B. S. era ingiustificata, essendo incontestabilmente risultato che essa era conseguita a un concorde atto di volontà delle parti che manifestarono il loro reciproco consenso su tutti gli aspetti della questione, ivi compresi quelli di natura economica venendo riconosciute al dipendente particolari e cospicue indennità, a nulla rilevando che la relativa lettera non fosse stata formalmente sottoscritta dallo Z. ed essendo rimaste totalmente indimostrate le affermazioni dello stesso circa una violenza morale su lui esercitata, smentite del resto dalla condizione del rientro presso la società capo-gruppo all’atto della accettatone della proposta del passaggio alla società controllata; 2. era da escludersi la sussistenza della asserita dequalificazione per il periodo trascorso presso la società B. S., mai essendo stato utilizzato lo Z. in mansioni non proprie di un dirigente; 3. il nuovo rapporto con la società B. I. trovava la sua origine non nel contratto con la società B. S., ma nell’atto di assunzione del 27 marzo 1995 da parte della prima nel quale erano assenti specifiche pattuizioni, dovendo la società esclusivamente rispettare l’impegno di “assicurare allo Z. (come dallo stesso, del resto, sostenuto) una posizione adeguata al background professionale maturato”, il che significava solo che dovesse essere assunto con qualifica dirigenziale, come era avvenuto, e non per ricoprire la stessa posizione precedente; 4. se era vero che per l’ultimo periodo di sedici mesi il dipendente restò privo di mansioni e quindi inattivo, tuttavia il fatto, pur avendo potuto provocare un certo disagio e disadattamento, non poteva essere configurato come presupposto per una condanna al risarcimento di danni da dequalificazione, non avendo comportato una decurtazione della retribuzione né una diminuzione delle attitudini lavorative del soggetto, non essendo neanche stato prospettato che, per effetto di ciò, allo stesso si rese impossibile un avanzamento di carriera nella azienda o che si fossero ricercate altre scelte di inserimento professionale che vennero ostacolate da una presunta intervenuta diminuzione della attività lavorativa; 5. quanto agli incentivi, era risultata provata la loro natura eventuale e discrezionale, mentre, con riferimento alla indennità sostitutiva di ferie non godute, essa non può ritenersi dovuta a un dirigente che, per sua stessa scelta – come nella specie – rinunci al riposo annuale. Della decisione viene chiesta la cassazione dallo Z. con ricorso sostenuto da tre motivi e illustrato con memoria. La società intimata resiste con controricorso. 137 GIURISPRUDENZA MOTIVI DELLA DECISIONE 138 Con il primo motivo – denunciando violazione e falsa applicazione degli articoli 2118, 2119, 2697 e 1362 del codice civile, omessa, insufficiente, e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia – il ricorrente deduce che erroneamente la Corte di Appello di Milano ha ritenuto che non dovesse qualificarsi come licenziamento l’allontanamento dello Z. dalla società B. S., limitandosi a osservare che, formalmente, dalla lettera del 27 marzo 1995 (non sottoscritta dal dipendente), con la quale si comunicava la risoluzione del rapporto, si evinceva che questa era dovuta a una concorde volontà delle parti, e ciò in contrasto con la tesi difensiva di un recesso unilaterale da parte dell’impresa, non confortata da alcun elemento probatorio. Secondo il ricorrente, il giudice di merito avrebbe totalmente trascurato di valutare le circostanze, non contestate dalla controparte, che in senso opposto inequivocabilmente deponevano, in quanto dimostravano che il protrarsi della sua presenza presso la società costituiva un ostacolo al realizzarsi dell’intendimento dei responsabili della capo-gruppo all’affidamento delle responsabilità della conduzione della azienda ad altre persone di maggiore gradimento e che l’adesione alla proposta, di una risoluzione consensuale era stata imposta – e necessitatamente subita – quale unica alternativa al licenziamento. In una tale situazione, avendo lo Z. fornito la prova della sua estromissione dal rapporto, incombeva sul datore di lavoro l’onere di dimostrare che questa non era dovuta all’allegato licenziamento ma era stata la conseguenza di una consensuale risoluzione dello stesso. La censura è infondata. E invero, la Corte di Appello, con argomentazioni logicamente e giuridicamente corrette, ha fornito ragione del perché dovesse ritenersi per provato che nella specie la cessazione del rapporto tra lo Z. e la società B. S. si pose come fatto terminale, e ampiamente previsto, di un complesso regolamento negoziale che ebbe il suo avvio sin nel momento in cui il primo accettò di transitare nella seconda alla condizione di un suo rientro presso la B. I., il che puntualmente si verifica contestualmente alla sua uscita dalla B. S., venendo concordato il riconoscimento di “particolari e cospicue indennità”. D’altra parte, a fronte delle prove documentali attestanti una consensuale risoluzione del rapporto, il ricorrente si limita ad opporre una diversa ricostruzione della vicenda affidata esclusivamente ad affermazioni svolte in maniera totalmente assertoria. Con il secondo e articolato motivo, lo Z. lamenta violazione e falsa applicazione degli articoli 2103, 1218, 1226 e 2043 del codice civile nonché GIURISPRUDENZA vizi della motivazione nelle parti in cui il giudice del merito ha ritenuto che non potesse trovare accoglimento la domanda, di risarcimento dei danni causatigli dal demansionamento delle funzioni di dirigente pervicacemente operato a suo carico nel corso della attività prestata sia presso la B. S. che presso la B. I. nel periodo successivo al suo rientro in questa, nel corso del quale restò totalmente inattivo per tutti i sedici mesi antecedenti alle dimissioni finali. La censura è fondata con riferimento solo a quest’ultima parte per la quale le ragioni, che hanno indotto la Corte di Appello di Milano al rigetto della richiesta di risarcimento dei danni subiti dallo Z. a causa della mancanza di attività alla quale il datore di lavoro avrebbe dovuto assegnarlo, appaiono insufficienti dal punto di vista sia logico che giuridico. Va infatti osservato che il giudice di merito, pur avendo dato atto che la circostanza della “scarsissima attività o totale inattività” da parte dello Z. per l’intero periodo di cui sopra era rimasta non solo incontestabilmente provata ma anche “lealmente ammessa” dalla stessa società, ha tuttavia ritenuto che essa, pur avendo potuto provocare un certo disagio e disadattamento, non poteva legittimare una condanna al risarcimento di danni da dequalificazione, non avendo comportato una decurtazione della retribuzione né una diminuzione delle attitudini lavorative del soggetto, per non essere risultato che, per effetto di ciò, allo stesso si rese impossibile un avanzamento di carriera nella azienda o che altre scelte di un diverso inserimento professionale fossero state ostacolate da una intervenuta diminuzione delle attitudini lavorative. Così argomentando, il giudice del merito ha ignorato i principi costantemente affermati da questa Corte, che ha ripetutamente avuto modo di sottolineare che dall’articolo 2103 del codice civile si desume che sussiste il diritto del lavoratore all’effettivo svolgimento della propria prestazione professionale e che la lesione di tale diritto da parte del datore di lavoro costituisce inadempimento contrattuale e determina, oltre all’obbligo di corrispondere le retribuzioni dovute, l’obbligo del risarcimento del danno da dequalificazione professionale, che può assumere aspetti diversi in quanto può consistere non solo nel danno patrimoniale derivante dall’ impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità o nel pregiudizio subito per perdita di chance ossia di ulteriori possibilità di guadagno, ma anche – e tali aspetti, nella specie, sono stati completamente trascurati – in una lesione del diritto del lavoratore alla integrità fisica o, più in generale, alla salute ovvero alla immagine o alla vita di relazione (per tutte, Cass., 14 novembre 2001, n. 14199). Più in particolare ancora, occorre ribadire che la negazione o 139 GIURISPRUDENZA 140 l’impedimento allo svolgimento delle mansioni, al pari del demansionamento professionale, ridondano in lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore anche nel luogo di lavoro, determinando un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di relazione dell’interessato, con una indubbia dimensione patrimoniale che rende il pregiudizio medesimo suscettibile di risarcimento e di valutazione anche in via equitativa (Cass. 2 gennaio 2002, n. 10). Entro questi limiti il motivo di ricorso appare fondato, sicché si impone un nuovo esame della questione, nel rispetto dei principi sopra enunciati, da parte del giudice di rinvio che accerterà anche se l’infarto subito dallo Z. debba porsi in relazione causale con l’inadempimento contrattuale del datore di lavoro, ampiamente dimostrato. Lo stesso motivo è invece manifestamente infondato per quanto attiene alle censura nei confronti della motivazione della sentenza per la parte nella quale il giudice di merito ha ritenuto che dovesse escludersi il denunciato demansionamento durante il periodo in cui la attività lavorativa venne prestata. E invero, a questo proposito sembra sufficiente osservare che lo stesso ricorrente non lamenta che in punto di fatto egli sarebbe state adibito a mansioni non dirigenziali e diverse da quelle appartenenti a un dirigente dal ruolo formalmente attribuitogli negli organigrammi aziendali, esaurendosi invece a dolersi del fatto che non tutte tali funzioni sarebbero state da lui esplicate essendo state talune di esse assegnate ad altre persone, nel che peraltro, con tutta evidenza, non può, in punto di fatto, configurarsi ipotesi di demansionamento, appartenendo alla discrezione dell’imprenditore la possibilità di assegnare a più preposti le responsabilità che pure, nella prassi, sono affidate a un unico incaricato. Con il terzo motivo, vengono denunciate violazione e falsa applicazione dell’articolo 2897 del codice civile, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia per la parte in cui si è rigettata la domanda alla indennità sostitutiva delle ferie non godute. Il rilievo è fondato, dovendo rilevarsi che – se è vero che, come si legge nella sentenza impugnata, il dirigente, che, per propria libera scelta, rinunci autonomamente a giovare dei giorni previsti contrattualmente per il riposo, non ha diritto a corrispettivi economici sostitutivi – pur tuttavia la indennità in questione spetta anche al dirigente che fornisca la prova che furono obiettive necessità aziendali a ostare alla fruizione delle ferie (Cass. 27 agosto 1996, n, 7883). Orbene, a tale fine sarebbe stato necessario esaminare se, almeno per il periodo cui fa riferimento la lettera del 9 marzo 1994 a firma di GIURISPRUDENZA tale Baggiani, che nel motivo è trascritta, l’eventuale (circostanza da accertarsi in punto di fatto) mancato godimento di giorni di ferie dipese non da scelta dello Z. ma da necessità di adeguarsi alle direttive dell’imprenditore. Limitatamente quindi ai due punti sopra indicati (domanda di risarcimento dei danni da inattività forzata e di indennità sostitutiva delle ferie per il periodo interessato dal documento citato) si impone la cassazione della sentenza impugnata con rinvio ad altro giudice che si designa, nella Corte di appello di Brescia, alla quale si demanda di provvedere sulle spese dell’intero processo. P. Q. M. la Corte rigetta il primo motivo del ricorso e accoglie, per quanto di ragione, il secondo e il terzo; cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Appello di Brescia. 141 GIURISPRUDENZA Corte di Cassazione, sezione lavoro, 9 aprile 2003, n. 5539 (Pres. Sciarelli; Rel. Vidiri) Riferimenti normativi: artt. 2043 c.c.; artt. 40 e 41 c.p. 142 Responsabilità civile - causalità (nesso di) - condizioni ambientali e fattori naturali - sufficienza nella causazione del danno - responsabilità dell’agente - esclusione - fondamento - concorso tra una causa naturale e una causa umana imputabile- diminuzione percentuale della responsabilità - esclusione - fondamento- fattispecie. In materia di rapporto di causalità nella responsabilità extracontrattuale, in base ai principi di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., qualora le condizioni ambientali od i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento imputabile dell'uomo siano sufficienti a determinare l’evento di danno indipendentemente dal comportamento medesimo, l’autore dell’azione o della omissione resta sollevato per intero da ogni responsabilità dell’evento, non avendo posto in essere alcun antecedente dotato in concreto di efficienza causale; qualora invece quelle condizioni non possano dar luogo, senza l’apporto umano, all’evento di danno, l’autore del comportamento imputabile è responsabile per intero di tutte le conseguenza da esso scaturenti secondo normalità, atteso che in tal caso non può operarsi una riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile. (Nella specie la S.C. ha cassato la sentenza d’appello che, avendo accertato che gli illegittimi provvedimenti del datore di lavoro erano responsabili, sul piano eziologico, del 50% del danno biologico riscontrato nel lavoratore essendo esso ascrivibile per l’altro 50% ad una predisposizione fisica e a infermità pregresse - aveva posto a carico del datore di lavoro non la totalità dei danni subiti dal lavoratore, bensì solo il 50% di essi). (massima e sommario ufficiali) SVOLGIMENTO DEL PROCESSO R. M. con un primo ricorso depositato in data 20 maggio 1995 adiva il GIURISPRUDENZA Pretore di Genova lamentando che la (omissis), dalla quale era stato formalmente assunto, pur avendo di fatto prestato attività lavorativa per la (omissis), gli aveva attribuito mansioni inferiori rispetto a quelle svolte e contenute nella stessa lettera di assunzione, con un illegittimo provvedimento di dequalificazione (lettera del 14 febbraio 1995). Rivendicava, quindi, la qualifica di primo o, in subordine, di secondo livello in base al c.c.n.l. per il personale dipendente delle imprese di spedizione. Le due società si costituivano negando la debenza e, reciprocamente, la propria legittimazione. Con successivo ricorso depositato in data 7 novembre 1995, il M. adiva nuovamente il Pretore di Genova esponendo, questa volta, che, a causa del demansionamento sofferto, era caduto in grave crisi depressiva che lo aveva costretto ad una pesantissima terapia farmacologica e che durante lo stato di malattia era stato licenziato con lettere inviategli sia dalla (omissis), (25 settembre 1995) sia dalla (omissis), (29 settembre 1995), da lui impugnate con comunicazione del 4 ottobre 1995, contenente anche richiesta dei motivi. In tale secondo ricorso instava per l’accertamento della illegittimità e/o inefficacia del licenziamento, con ogni conseguenza di legge nonchè per il risarcimento del danno biologico sofferto a causa dei comportamenti illegittimi posti in essere dalla parte datoriale. Il Pretore di Genova con sentenza non definitiva del 29 luglio 1996, ritenuto esistente un rapporto di lavoro subordinato tra le due società e il M., condannava le suddette società al pagamento delle differenze retributive, riconoscendo al lavoratore il secondo livello e, dichiarata l’inefficacia del licenziamento comunicato dalla (omissis), e l’illegittimità di quello intimato dalla (omissis), condannava sempre le due società a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro, disponendo la prosecuzione del giudizio con riguardo alla domanda di risarcimento del danno biologico. Le società convenute formulavano riserva di appello. Con sentenza definitiva del 9 febbraio 1998, il Pretore accoglieva anche la domanda di risarcimento del danno biologico e condannava le società convenute in solido a risarcire il danno alla salute da accertare in separato giudizio. Avverso tali decisioni proponevano appello la (omissis), e la (omissis) ribadendo tutte le argomentazioni spiegate in primo grado, soffermandosi in particolare sulla pretesa infondatezza della decisione in punto di danno biologico. In sede di appello il Tribunale di Genova con sentenza parziale del 23 ottobre 1998 respingeva il gravame delle società, con riguardo al 143 GIURISPRUDENZA 144 demansionamento ed alla dichiarata illegittimità del licenziamento, disponendo la prosecuzione del giudizio in ordine alla domanda di danno biologico in relazione al quale disponeva nuova consulenza d’ufficio. All’esito dell’istruttoria il Tribunale con sentenza definitiva dell’11 dicembre 2000, in accoglimento della domanda di risarcimento del danno biologico ed in conformità della espletata consulenza, riteneva che il M. fosse affetto da sindrome ansiosa depressiva e da obesità, con conseguente danno alla salute quantificato nella misura del 50% di invalidità, di cui il 25% attribuito a causa lavorativa ed in particolare all’intimato licenziamento del 1995. Il suddetto danno era quantificabile in complessive lire 174.250.000 (lire 8.500.000 quale valore di ciascun punto di invalidità moltiplicare per 50, il totale dei punti di invalidità, moltiplicando ancora il risultato per 0,820 quale coefficiente per l’età il M. aveva all’epoca del licenziamento 37 anni e dividendo il risultato per due), somma sulla quale andava computata la rivalutazione dal 18 settembre 1998 (data alla quale si riferivano le tabelle utilizzate) e sulla quale decorrevano gli interessi legali dal 1 ottobre 1995, così come indicato in dispositivo. Avverso tale sentenza R. M. propone ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo. Resiste la (omissis), con controricorso, nel quale riferisce che la (omissis),. e la (omissis), in data 18 dicembre 1998, con atto per notar dott. G.B. del 18 dicembre 1998 rep. n. 699243 avevano conferito i propri complessi aziendali nella (omissis), e che quest’ultima era di diritto titolare dei rapporti di cui al presente giudizio. R. M. ha depositato memoria difensiva ex art. 378 c.p.c. MOTIVI DELLA DECISIONE Con il ricorso R. M. deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 c.c., 2055 c.c., 1227 c.c. nonché dell’art. 40 e 41 c.p. in ordine alla incidenza sull’ammontare del danno risarcibile del concorso tra causa umana e causa naturale. In particolare sostiene che il Tribunale di Genova ha errato nel dare rilevanza alla concausa naturale nella determinazione del danno risarcibile, disattendendo sul punto l’indirizzo giurisprudenziale dei giudici di legittimità secondo cui non deve essere posto a carico del danneggiato una parte del danno quando la sua verificazione non sia a lui imputabile. Nel caso di specie doveva, pertanto, prescindersi dal fatto che il modo di essere di esso ricorrente (la “predisposizione fisica”) avesse avuto una efficacia eziologica, dal punto di vista oggettivo, nella determinazione dell’evento dannoso. In conclusione, sostiene il ricorrente che anche dalla lettera dell’art. 1227 c.c. e GIURISPRUDENZA del 2055 c.c. si evince che l’evento della predisposizione fisica del soggetto rispetto alla patologia insorta per effetto del comportamento illegittimo ed illecito di altro soggetto (datore di lavoro) pur costituendo un antecedente condizionante o concausa naturale nella produzione dell’evento dannoso, non incide però sulla responsabilità risarcitoria del danneggiante non valendo a ridurla proporzionalmente talché il danneggiante stesso (datore di lavoro) è tenuto a risarcire il danno nel suo intero ammontare. Il ricorso è fondato e, pertanto, va accolto. Questa Corte ha più volte affermato che in materia di rapporto di causalità nella responsabilità extracontrattuale, in base ai principi di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., qualora le condizioni ambientali od i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento imputabile dell’uomo siano sufficienti a determinare l’evento di danno indipendentemente dal comportamento medesimo, l’autore dell’azione o della omissione resta sollevato, per intero, da ogni responsabilità dell’evento, non avendo posto in essere alcun antecedente dotato in concreto di efficienza causale; qualora, invece, quelle condizioni non possano dar luogo, senza l’apporto umano, all’evento di danno, l’autore del comportamento imputabile è responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo normalità. In tal caso, infatti, non può operarsi una riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile (cfr. in tali sensi: Cass. 16 febbraio 2001 n. 2335; Cass. 27 maggio 1995 n. 5924; Cass. 1 febbraio 1991 n. 981). La valutazione di una situazione di concorso tra cause naturali non imputabili e cause umane imputabili può sfociare, così, alternativamente, o in giudizio di responsabilità totale per l’autore della causa umana, o in un giudizio di totale assolvimento da ogni sua responsabilità, a seconda che il giudice ritenga essere rimasto operante, nel primo caso (ai sensi del primo comma dell’art. 41 c.p.) oppure essere venuto meno nel secondo caso (ai sensi del secondo comma dell’art. 41 c.p.) il nesso di causalità tra detta causa umana imputabile e l’evento (cfr. in motivazione in tali sensi: Cass. 1 febbraio 1991 n. 981 cit.). In altri termini solo nel caso in cui sia stato accertata l’effettiva operatività del nesso causale tra comportamento imputabile del danneggiante e pregiudizio arrecato rimane esclusa ogni possibilità di graduare in termini percentuali con riferimento alla concausa naturale la responsabilità 145 GIURISPRUDENZA 146 dell’autore della condotta colposa, essendo quest’ultimo responsabile per l’intero dei danni cagionati. Un siffatto indirizzo che trova sicuro fondamento normativo sia nel disposto degli artt. 1227 e dell’art. 2056 c.c. (da cui si evince che in caso di concorso di cause è consentita una riduzione del risarcimento solo in presenza di condotta colposa del creditore) che in quello dell’art. 2055 c.c. (da cui si evince che la graduazione e riduzione della responsabilità non è concepibile neppure in presenza di cause umane, azioni od omissioni imputabili a soggetti diversi dal danneggiato e diversi tra loro, stante il principio della responsabilità solidale il quale non opera soltanto in sede di regresso; cfr. così: Cass. 16 febbraio 2001 n. 2335 cit.; Cass. 1 febbraio 1991 n. 981 cit.) viene condiviso da autorevole dottrina, la quale precisa che, come per una concausa naturale, anche in presenza del fatto non colposo del danneggiato, prevale l’esigenza che il danneggiato sia integralmente risarcito del danno che egli non avrebbe comunque subito senza l’inadempimento o l’illecito. In questa ottica ricostruttiva la dottrina aggiunge anche che il danneggiato che “danneggia o concorre a danneggiare se stesso” non compie alcun illecito e non può essere sanzionato alla stregua dell’autore del danno ingiusto. Nessuna incertezza può permanere sull’applicabilità degli suddetti principi in materia giuslavoristica nella quale ogni pure infondata riserva sulla loro validità è destinata a disvelare la propria inconsistenza solo che si considerino gli obblighi a tutela della salute dei propri dipendenti facenti capo sull’imprenditore di cui è significativa espressione il disposto dell’art. 2087 c.c. e solo che si tenga anche conto della ormai acquisita generale consapevolezza della possibilità di pregiudizievoli ricadute sulla salute dei lavoratori, specialmente se non dotati di piena integrità psico fisica, scaturenti da illegittimi provvedimenti datoriali di demansionamento o di recesso dal rapporto lavorativo. Corollario di quanto sinora detto è che il Tribunale, dopo avere correttamente riconosciuto, sulla base delle risultanze della consulenza in atti, che gli illegittimi provvedimenti societari (ed in particolar modo il licenziamento) erano responsabili sul piano eziologico della misura del 50% del danno biologico riscontrato nel M., non ha da tale situazione fatto scaturire le dovute conseguenze. Ed invero il giudice d’appello, in violazione dei principi innanzi enunciati, ha liquidato i danni da corrispondere al lavoratore, escludendo da detto risarcimento la percentuale cinquanta per cento di quelli che per la consulenza medico legali erano eziologicamente ricollegabili ad una “predisposizione fisica” del M. ed a sue infermità GIURISPRUDENZA pregresse. Il Tribunale di Genova, sempre alla stregua di quanto innanzi detto, avrebbe dovuto, invece, porre a carico delle società la totalità dei danni cagionati al lavoratore in ragione dell’accertato concorso nella fattispecie in esame tra causa imputabile, appunto, a dette società (provvedimenti di illegittima dequalificazione e, soprattutto, di illegittimo licenziamento) e causa (predisposizione organica e infermità pregresse) non imputabile al lavoratore, destinata come ogni causa naturale a non concorrere nella determinazione dei danni, da addossare nella loro totalità all’autore della condotta imputabile. Alla stregua di quanto sinora detto il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata. Ai sensi dell’art. 384 c. p. c., non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa va decisa nel merito, con la condanna della (omissis), (che, come va ribadito, in controricorso ha affermato senza alcuna contestazione in tutti gli atti difensivi di controparte di essere di diritto titolare dei rapporti di cui al presente giudizio per conferimento dei propri complessi aziendali da parte della (omissis) e (omissis), al pagamento a favore di R. M. di euro 179.985,22 (equivalenti a lire 174.250.000 x 2, stante la responsabilità della società anche per la percentuale,quantificata nel 50% dei danni ricollegabili alle pregresse condizioni psicofisiche del M.), oltre interessi e rivalutazione monetaria determinati giusta i criteri già fissati dal Tribunale di Genova. In relazione alle spese dell’intero processo mentre deve rimanere ferma la statuizione per quelle dei giudizi di merito, in relazione a quelle di questo grado va, invece, disposta la condanna della (omissis), a corrispondere a favore di R. M. le spese di questo giudizio di cassazione, liquidate unitamente agli onorari difensivi come in dispositivo. P. Q. M. la Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito condanna la (omissis), a corrispondere a R. M. la complessiva somma di euro 179.985,22 (centosettantanovemilanovecentoottantacinque/22), oltre interessi e rivalutazione monetaria determinati giusta i criteri fissati dal Tribunale di Genova. Mantiene ferma la statuizione sulle spese dei giudici di merito e condanna la società controricorrente al pagamento a favore del M. delle spese di questo giudizio di cassazione, che liquida in euro 10,00 oltre euro 4.000,00 (quattromila/00) per onorari difensivi. 147 GIURISPRUDENZA Corte di Cassazione, sezione lavoro, 2 gennaio 2002, n. 10 (Pres. Mercurio; Rel. Coletti) Riferimenti normativi: artt. 2043, 2103 c.c. 148 Lavoro - lavoro subordinato - categorie e qualifiche dei prestatori di lavoro mansioni - diverse da quelle dell’assunzione - negazione o impedimento delle mansioni - lesione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità anche nel luogo di lavoro - sussistenza conseguente diritto al risarcimento del danno - configurabilità - liquidazione in via equitativa - ammissibilità. La negazione o l’impedimento allo svolgimento delle mansioni, al pari del demansionamento professionale, ridondano in lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore anche nel luogo di lavoro, determinando un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di relazione dell’interessato, con una indubbia dimensione patrimoniale che rende il pregiudizio medesimo suscettibile di risarcimento e di valutazione anche in via equitativa. (Nella specie, alla stregua del principio enunciato in massima, la S.C. ha confermato la decisione del Tribunale che aveva accolto la domanda di risarcimento avanzata nei confronti della RAI da un soggetto che, dopo essere stato assunto dal predetto ente per lo svolgimento delle mansioni di attore di terza categoria, regolarmente svolte per i primi tre anni, nei successivi sedici anni, pur continuando a ricevere la retribuzione, non era stato impiegato in alcuna attività). (massima e sommario ufficiali) (omissis) SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con ricorso al pretore di Roma D. P. esponeva che dal 1970 al 1973 aveva lavorato come attore alle dipendenze della Rai Spa; che dal 1973 al 1989 la Rai, pur retribuendolo, non lo aveva fatto più lavorare sicché era responsabile dei danni derivanti: da inattività protrattasi per sedici anni; da perdita dell’equo compenso ex articolo 80 della legge sul diritto d’autore; da mancata GIURISPRUDENZA conclusione di contratti artistici con terzi; da mancata percezione degli aumenti di merito di cui all’articolo 8 del regolamento contrattuale; da lesione del diritto alla notorietà. Nel contraddittorio con la Rai, il pretore, con sentenza non definitiva del 15 luglio 1992, dichiarava il diritto del P. ad essere utilizzato sia nella produzione radiofonica che televisiva e rimetteva la causa sul ruolo per la determinazione delle inadempienze della Rai e per la quantificazione dell’eventuale danno. Quindi, con sentenza definitiva del 22 aprile 1994 condannava la società datrice di lavoro a pagare al P. la somma di lire 100 milioni a titolo di risarcimento del danno per inattività. Contro le due sentenze proponevano appello entrambe le parti evidenziandone l’erroneità sotto più profili. Disposta la riunione dei giudizi, con sentenza del 7 settembre 1998, il Tribunale di Roma ha accolto parzialmente l’appello del P. (precisamente, in punto di liquidazione delle spese di lite e di correzione di errore materiale della sentenza non definitiva del 15 luglio 1992) e ha respinto quello della Rai. In motivazione il giudice del gravame ha osservato che infondate erano le eccezioni (litispendenza, nullità dell’appello del P., mancata sospensione del giudizio sul quantum in attesa della definizione di quello sull’an) sollevate dalla Rai. Nel merito, ha accertato che il P. era stato assunto dalla Rai nel 1970 per lo svolgimento di mansioni di attore di terza categoria e che, in base al contratto intervenuto tra le parti, era tenuto a rendere una prestazione giornaliera di cinque ore per la produzione di programmi radiofonici, ovvero di sei ore e trenta per i programmi televisivi, per sei giorni la settimana. Ha quindi affermato che la sostanziale inattività del P. nell’arco di sedici anni, a partire dal 1973, era un dato provato in giudizio come imputabile alla Rai e integrava violazione dell’art. 2103 c.c., nonché del fondamentale diritto al lavoro, inteso quale mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino. Ha proseguito osservando che la violazione, protratta per anni, di quel diritto fondamentale, aveva certamente leso la professionalità e l’immagine del P., cioè il bene definito in ricorso come “notorietà”, producendogli per ciò stesso un danno che correttamente era stato quantificato nella somma indicata in via equitativa dal pretore utilizzando come parametro la retribuzione percepita dal lavoratore mese per mese nel periodo di demansionamento. Quanto poi alla asserita (dalla Rai) non imputabilità dell’inadempimento, il Tribunale ha affermato che l’assunto appariva del tutto inadeguato a fronte di un’attività disimpegnabile dal dipendente in produzioni, radiofoniche e televisive, nelle quali la società era impegnata giornalmente per 24 ore e su 149 GIURISPRUDENZA 150 più reti; e comunque era rimasto del tutto indimostrato con riferimento ad entrambi i profili dedotti a giustificazione del comportamento datoriale, non essendo state avanzate né reiterate sul punto richieste istruttorie. Ha disatteso, inoltre, la doglianza della Rai relativa all’aggravamento del danno professionale per comportamento colposo del dipendente, e passando ad esaminare le (altre) voci di danno pretese dal P. (equo compenso, mancata conclusione di contratti, aumenti di merito) ha evidenziato: quanto alla prima, che mancava del tutto la prova del fatto costitutivo del vantato diritto; quanto alla seconda, che la stessa era del pari sfornita di prova e comunque contraddetta dalle deduzioni di cui al punto 8) del ricorso introduttivo; quanto alla terza, che gli aumenti di merito erano rimessi alla discrezionalità del datore di lavoro e non potevano ritenersi perciò conseguenza normale e diretta dell’inadempimento. Il P. chiede la cassazione di questa sentenza con ricorso fondato su cinque motivi. La società Rai, nel controricorso, propone, a sua volta, ricorso incidentale affidato a tre motivi, ai quali resiste il P. Le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c. MOTIVI DELLA DECISIONE Il ricorso principale e quello incidentale devono essere riuniti ai sensi dell’articolo 335 c.p.c. perché proposti contro la stessa sentenza. Con il primo motivo del ricorso principale D. P. censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c., degli artt. 1362 e seguenti c.c., nonché per vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, con riferimento alla interpretazione del contratto di lavoro (art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.). Sostiene che il Tribunale non ha considerato la intenzione delle parti di stipulare un contratto di scrittura artistica, contratto che si qualifica per l’interesse dell’artista interprete ad eseguire le attività concordate, in quanto il suo lavoro – e quindi la sua “notorietà” – si arricchiscono sempre più con l’interpretazione e con i conseguenti riconoscimenti di critica e di pubblico. Conseguentemente il danno provocato dalla esclusione di esso ricorrente da qualsiasi parte, doveva essere risarcito in modo consono alla sua personalità, alla sua fama e alle sue immense possibilità di impiego come attore, ossia con una determinazione “qualificata”. Non corretta, pertanto, sarebbe la quantificazione del danno operata con il semplice calcolo dell’aumento del 50% (rectius 29%) delle retribuzioni percepite, in quanto il giudice del merito, visto il gravissimo inadempimento del datore di lavoro, avrebbe GIURISPRUDENZA dovuto considerare e valutare sia gli elementi specifici del contratto in essere tra le parti, sia i programmi in cui il P. avrebbe dovuto e/o potuto essere impiegato come attore (anche con riferimento alle prove richieste sul punto) e quantificare, seppure in via equitativa ma tenendo conto comunque di questi specifici elementi, il danno da risarcire. Con il secondo motivo e con denuncia di vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione (articolo 360 numero 5 c.p.c.) assume il ricorrente che il Tribunale ha omesso di pronunciarsi sulla sua richiesta di mezzi istruttori, che gli avrebbero consentito di quantificare il danno subito tenendo in doveroso conto le proprie capacità artistiche e professionali e le “parti” che avrebbe potuto e dovuto effettuare come attore se la Rai non si fosse resa inadempiente agli obblighi contrattuali. Il Tribunale, a tal fine, avrebbe dovuto: a) ammettere le prove testimoniali richieste con l’atto introduttivo; b) disporre la esibizione dei palinsesti Rai dal 1973 al 1989; c) disporre la esibizione degli orari di lavoro di esso ricorrente dal 1973 al 1989; d) disporre Ctu al fine di accertare in quali e quante programmazioni il P. poteva essere impiegato; e) disporre che la Rai esibisse l’elenco degli attori a tempo indeterminato e gli spettacoli delle reti televisive e radiofoniche in cui erano stati impegnati, nonché una panoramica di tutti gli spettacoli e produzioni, dal 1973 al 1989, in cui il P. doveva essere impiegato in forza dell’articolo 11 del contratto artistico di lavoro; f) disporre la esibizione di tutti gli appalti artistici delle reti televisive e radiofoniche concessi a ditte esterne con la indicazione dei compensi versati agli attori non Rai. Con il terzo motivo e sempre con denuncia di vizio di motivazione omessa insufficiente e contraddittoria (art. 360 n. 5 c.p.c.) il P. sostiene che l’affermazione, secondo la quale il danno era stato liquidato in misura pari al 50% della retribuzione da lui percepita nel periodo di cui è causa, è contraddetta dal fatto che la Rai, in tale periodo, ebbe a corrispondergli la somma di lire 309 milioni ed il 50% di tale somma ammonta evidentemente a 154 milioni e non a 100 milioni come liquidato dai giudici a quo. In sostanza il Tribunale ha commesso un errore causato da una inesatta determinazione dei presupposti numerici di un’operazione che si risolve in un vizio logico di motivazione della impugnata sentenza. Con il quarto motivo, lamentando violazione e falsa applicazione degli art. 2120 e 2115 c.c. e delle leggi in materia pensionistica, in relazione agli artt. 1226 c.c e 432 c.p.c., nonché vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria 151 GIURISPRUDENZA 152 motivazione (art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.), assume il ricorrente il Tribunale, pur avendo accertato la sussistenza del suo diritto all’aumento retributivo, non ha poi provveduto a determinare le somme a lui spettanti per l’incidenza di tale aumento nel trattamento di fine rapporto e a dichiarare, altresì, il suo diritto alle “spettanze pensionistiche” corrispondenti alle maggiori retribuzioni dovutegli. Con il quinto motivo e con denuncia di violazione e falsa applicazione dell’art. 80 L.d.a, degli articoli 1175 e 1375 c.c. nonché di vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo (art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.), lamenta il ricorrente che il Tribunale abbia omesso di valutare il comportamento inadempiente della Rai alla stregua delle regole di correttezza e buona fede nel decidere sulla domanda di risarcimento dei danni per la perdita del diritto all’equo compenso di cui all’articolo 80 della legge sul diritto d’autore e per la mancata corresponsione degli aumenti di merito. Il P., infatti, avrebbe potuto recitare nelle numerosissime opere e programmi realizzati dalla società e godere dei diritti nascenti dalla diffusione delle recitazioni eseguite (tra i quali, quello a percepire l’equo compenso). Sul punto, sin dal primo grado, erano stati richiesti numerosi mezzi istruttori, sicché il Tribunale ha errato a ritenere non provato il fatto costitutivo delle asserite perdite o possibilità di guadagno. Quanto poi agli aumenti di merito, assume che, ove il contratto preveda (come, nel caso, il regolamento Rai all’articolo 8) la loro attribuzione come elemento costitutivo della retribuzione, gli stessi possono essere considerati come semplice liberalità, ma assumono valore di corrispettivo, soggetto, quindi, al controllo del giudice che deve verificare la discrezionalità del datore di lavoro secondo i principi di correttezza e buona fede. Con il primo motivo del proprio ricorso incidentale la società Rai censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 2103, 1223, 1226 e 1227 c.c., dell’art. 112 c.p.c., nonché per omessa insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.), per avere il Tribunale ritenuto la sussistenza di un danno risarcibile in conseguenza della lesione della professionalità e dell’immagine del P. sulla base di sole presunzioni, benché (contraddittoriamente) giudicate inidonee a sopperire al mancato assolvimento dell’onere probatorio. Inoltre, il giudice a quo avrebbe violato l’art. 112 c.p.c. con l’affermare che l’inadempimento della Rai avrebbe “leso la professionalità e l’immagine del ricorrente” perché il P. aveva domandato unicamente il risarcimento del danno per la lesione del “diritto di notorietà”. La motivazione della sentenza d’appello sarebbe, altresì, contraddittoria nella parte in cui, da un lato, riconosce la esistenza del danno e, per altro GIURISPRUDENZA verso, osserva che il P. aveva ricevuto alcune importanti proposte di lavoro, da lui rifiutate in ossequio al contratto che lo legava alla Rai; la circostanza, invero, dimostrerebbe che, comunque, nessun effetto pregiudizievole aveva prodotto l’asserita inattività. Censura, infine, le considerazioni con le quali il giudice di appello ha escluso la rilevanza del comportamento del P. nell’aggravamento del danno professionale, osservando che in due sole occasioni (non già “più volte”) il lavoratore aveva chiesto di essere utilizzato, e che l’aver proposto l’azione giudiziaria dopo più di quindici anni dall’inizio dell’inattività integrava una condotta acquiescente e omissiva che non poteva essere negata con la mera argomentazione che “la decisione di agire in giudizio … necessita di adeguata meditazione”. Con il secondo motivo e con deduzione di violazione e falsa applicazione dell’art. 2118 c.c. (recte 1218 c.c.), nonché del vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.) la sentenza del Tribunale è censurata per aver ritenuto del tutto indimostrato l’assunto della Rai circa la non imputabilità dell’inadempimento, disattendendo gli elementi acquisiti al processo e ignorando che il pretore, nella sentenza non definitiva, aveva ravvisato la indispensabilità di un’indagine approfondita circa la gravità dell’inadempimento (a tal fine rimettendo la causa sul ruolo) e prospettato la indispensabilità di disporre una Ctu per stabilire un quadro delle opere in cui il P. era validamente collocabile. Con il terzo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione dell’articolo 414 numero 4 c.p.c. in relazione all’art. 434 c.p.c., nonché del vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.), la ricorrente assume che erroneamente il Tribunale ha escluso la nullità dell’atto di appello proposto dal P., posto che lo stesso mancava del requisito della esposizione dei fatti, non recano menzione dello svolgimento del processo, del contenuto degli atti di parte né dei fatti che sarebbero stati a fondamento del ricorso, così da non consentire la individuazione certa dei termini della controversia. Il ricorso incidentale della società Rai va esaminato per primo prospettando questioni logicamente preliminari a quelle poste con il ricorso principale, e la verifica della fondatezza del terzo dei tre motivi di impugnazione precede la valutazione degli altri, dal momento che le censure ivi proposte investono la stessa validità dell’appello del P. Tali censure sono, peraltro, infondate. La Corte ha, infatti, più volte chiarito (vedi, in particolare, Cass. 6312/99, 1156/95, 11971/95, 9316/94), che il requisito della “sommaria esposizione dei fatti” richiesto dall’articolo 342 c.p.c. (e, nel rito del lavoro, dall’art. 434 153 GIURISPRUDENZA 154 c.p.c.) è funzionale alla individuazione delle censure mosse dall’appellante e, in quanto tale, non esige una parte espositiva formalmente autonoma e unitaria, ma può emergere indirettamente dalle argomentazioni svolte a sostegno dei motivi di appello, ove questi forniscano gli elementi idonei a consentire l’individuazione dell’oggetto della controversia e delle ragioni del gravame. Il giudizio da rendere al riguardo deve essere, quindi, formulato sulla base del contenuto complessivo dell’atto, con apprezzamento del giudice del merito sindacabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione. Vizi che, nel caso, non sussistono, apparendo in tutto coerente con il ricordato principio la valutazione del Tribunale che ha escluso la nullità osservando che il ricorso in appello del P. presentava tutti i requisiti di legge necessari per il raggiungimento dello scopo cui l’atto è preordinato e conteneva, in particolare, una esaustiva esposizione dei fatti e delle ragioni di diritto. Ma infondati sono anche il primo e il secondo motivo del ricorso incidentale. Quanto al primo motivo, osserva la corte che il Tribunale, una volta accertato che il P. era stato lasciato in condizione di inattività per lunghissimo tempo, a fronte dell’obbligo assunto della Rai di farlo lavorare ogni giorno per cinque o sei ore (a seconda del tipo di prestazione, radiofonica o televisiva), ha ritenuto che il comportamento datoriale non solo violava la norma di cui all’art. 2103 c.c., ma era al tempo stesso lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell’immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza. In sostanza con tale affermazione il giudice di appello ha enunciato un concetto di lesione di un bene immateriale per eccellenza, qual è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo, e ha ritenuto che tale lesione produca automaticamente un danno (non economico ma comunque) rilevante sul piano patrimoniale (per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore), anche se determinabile necessariamente solo in via equitativa. La corte non ritiene censurabile la statuizione, che è conforme alla ricostruzione del danno da demansionamento professionale data dalla giurisprudenza di legittimità nella sua più recente evoluzione. In diverse, significative, pronunce questo giudice ha, infatti, rilevato che la modifica in peius (ovvero la negazione o l’impedimento) delle mansioni dà luogo ad una pluralità di pregiudizi, solo in parte incidenti sulla potenzialità economica del lavoratore. Infatti il demansionamento non solo viola lo specifico divieto GIURISPRUDENZA di cui all’articolo 2103 c.c., ma ridonda in lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, determinando un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di relazione dell’interessato, con una indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche in via equitativa (Cass. 11727/99, 14443/00). L’affermazione di un valore superiore della professionalità, direttamente collegato a un diritto fondamentale del lavoratore e costituente sostanzialmente un bene a carattere immateriale, in qualche modo supera e integra la precedente affermazione che la mortificazione della professionalità del lavoratore potesse dar luogo a risarcimento solo ove venisse fornita la prova dell’effettiva sussistenza di un danno patrimoniale (cfr. le sentenze 7905/98, 1026/97, 3686/96 e 8835/91). Prova, viceversa, che, secondo le ricordate pronunce, rimane necessaria per quanto riguarda l’eventuale danno materiale, il pregiudizio economico cioè subito dal lavoratore anche in termini di guadagno non conseguito per effetto della perdita di concreti vantaggi necessariamente legati allo svolgimento delle mansioni negate. Con ciò, rimangono in ogni caso superate (limitandosi la Corte a correggere la motivazione nell’esercizio dei poteri di cui all’art. 384, comma 1, c.p.c.) le contraddizioni che si dicono esistenti nel ragionamento svolto dal giudice del merito in punto di prova della sussistenza di un danno risarcibile. Non sussiste, inoltre, la denunciata violazione dell’art. 112 c.p.c., posto che parlando di lesione della professionalità e della immagine del lavoratore il Tribunale ha ben spiegato che, con tale espressione, intendeva dare contenuto al bene definito nel ricorso introduttivo come “notorietà”. Neppure è censurabile la motivazione con la quale è stata negata rilevanza al comportamento del P. nell’aggravamento del danno professionale, non riscontrandosi illogicità e contraddizioni nelle valutazioni in fatto operate dal giudice del merito, laddove i rilievi svolti dalla società ricorrente, senza evidenziare il mancato esame di elementi e circostanza decisivi, appaiono intesi a sollecitare un nuovo apprezzamento di merito che, secondo i principi, è inammissibile in sede di legittimità. Quanto, infine, al secondo motivo di ricorso incidentale, è sufficiente osservare, per ritenerne la infondatezza, che la società ricorrente non specifica quali fossero gli elementi probatori acquisiti a dimostrazione del suo assunto e che sarebbero stati trascurati dal Tribunale; il che impedisce alla corte di verificarne la decisività, l’idoneità cioè a comportare con ragionevole certezza una decisione diversa da quella adottata (esigenza cui l’art. 360 n. 5 c.p.c. allude col riferimento al “punto decisivo”) e di ritenere, 155 GIURISPRUDENZA 156 perciò, sussistenti i denunciati vizi di motivazione. Il riferimento, poi, alla sentenza non definitiva del pretore è inconsistente, essendo la stessa superata dalla sentenza definitiva che, avendo condannato la Rai al risarcimento del danno da inadempimento contrattuale, ne aveva, con tutta evidenza, presupposto la imputabilità. Passando quindi all’esame del primo motivo del ricorso principale, osserva la corte che, diversamente da quanto nello stesso si sostiene, il giudice di appello, nel procedere alla liquidazione, in via equitativa, del danno correlato alla lesione della personalità del lavoratore, ha doverosamente tenuto conto della specificità e delle caratteristiche della prestazione lavorativa oggetto del contratto di scrittura artistica intervenuto tra le parti – ponendo in evidenza come la stessa potesse arricchirsi di riconoscimenti e consensi solo con il suo esercizio costante – nonché del dimostrato, notevole grado di notorietà acquisito dal P. negli anni immediatamente precedenti l’accantonamento illegittimamente impostogli dal datore di lavoro. Neppure arbitrario ed illogico appare il ricorso in via parametrica alla retribuzione (anche) per una quantificazione “qualificata” del danno alla professionalità del lavoratore, non potendo negarsi che la retribuzione costituisce espressione (per qualità e quantità, ai sensi dell’articolo 36 della Costituzione) anche del contenuto professionale della prestazione, nel caso in esame concretamente non accettata dalla Rai (e tuttavia ugualmente retribuita come se fosse stata eseguita). Quanto alle censure di cui al secondo motivo si osserva che è principio costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità quello secondo cui il mancato esame di una istanza istruttoria integra un vizio della sentenza impugnata, idoneo a determinarne la cassazione, solo se e in quanto le circostanze che costituivano oggetto della richiesta di parte siano decisive, siano tali cioè che, se valutate ed esaminate correttamente avrebbero potuto condurre ad una decisione di merito diversa da quella in concreto adottata. Peraltro, il controllo sulla ricorrenza del detto requisito della “decisività” non può essere esercitato autonomamente dalla Corte di cassazione attraverso il diretto esame degli atti e degli scritti difensivi dei precedenti gradi di giudizio, ma, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, deve poter essere compiuto sulla sola base delle deduzioni contenute nel ricorso stesso, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative. Costituisce, dunque, un preciso onere della parte indicare specificamente nel ricorso – se del caso mediante la loro integrale trascrizione – le circostanze che intendeva dimostrare con la deduzione probatoria della quale lamenta la GIURISPRUDENZA omessa considerazione (vedi, tra tante, Cass. 1203/00, 3494/96, 381/95). Nel caso, l’onere suddetto è rimasto inadempiuto perché il ricorrente ha omesso di indicare le circostanze che costituivano oggetto della richiesta prova testimoniale, essendosi limitato a fare un mero e del tutto generico riferimento al fatto che la stessa avrebbe chiarito le modalità di quantificazione del danno. Ma neppure la sentenza impugnata può costituire oggetto di censura per non avere il giudice del merito ordinato la esibizione della documentazione in possesso del datore di lavoro, ovvero per non aver disposto la richiesta consulenza tecnica di ufficio. Noto è infatti il principio, espresso dalla del tutto prevalente giurisprudenza di questa corte (vedi Cass. 1092/95, 2019/95, 9715/95, 6769/98, 15983/00) che l’ordine di esibizione di documenti, ex art. 210 c.p.c., costituisce una facoltà discrezionale rimessa al prudente apprezzamento del giudice del merito, che non è tenuto a specificare le ragioni per le quali ritiene di non avvalersene. Ne consegue che il mancato esercizio della suddetta facoltà non è sindacabile in sede di legittimità, neppure sotto il profilo del difetto di motivazione. Del pari, fermo restando che la consulenza tecnica non costituisce un mezzo di prova (come sembra sostenere il ricorrente) ma uno strumento per la valutazione della prova acquisita (a parte il caso in cui si risolva nell’accertamento di fatti rilevabili unicamente con l’ausilio di specifiche cognizioni o strumentazioni tecniche, il che, nella specie, non è dedotto), va considerato che rientra nel potere discrezionale del giudice la decisione di ricorrere o meno all’assistenza di un consulente tecnico, salvo il dovere di motivare adeguatamente il rigetto della istanza di ammissione proveniente da una delle parti, quando in essa siano state indicate le ragioni della indispensabilità delle indagini tecniche ai fini della decisione (Cass. 14979/00). Nel caso concreto, peraltro, il ricorrente non spiega in che cosa consistessero tali ragioni, né fa cenno al fatto di averle adeguatamente rappresentata al giudice a quo, la cui mancata pronuncia sulla istanza in questione non può, conseguentemente, costituire ragione di cassazione della impugnata sentenza sotto il profilo del vizio di motivazione. Anche il secondo motivo, dunque, è privo di giuridico fondamento. Con riferimento, poi, ai rilievi svolti nel terzo motivo, è sufficiente osservare, per ritenerne la totale infondatezza, che il Tribunale (pagina 30 della sentenza) afferma testualmente che “la liquidazione effettuata in via equitativa dal pretore appare corretta, corrispondendo quasi integralmente a metà della 157 GIURISPRUDENZA 158 retribuzione”; dove è evidente che parlare di liquidazione corrispondente “quasi integralmente a metà della retribuzione” non equivale a dire che si tratta di liquidazione corrispondente “a metà (ossia al 50%) della retribuzione”. Oltretutto la circostanza che la Rai avrebbe corrisposto al P. la somma di lire 309 milioni, quali effettive e totali retribuzioni del periodo controverso, appare dedotta inammissibilmente per la prima volta in questa sede, in quanto nel ricorso non si fa cenno a un’avvenuta allegazione della stessa in sede di merito. Il quarto motivo, a sua volta, è per certo privo di fondamento sol che si consideri che il diritto del lavoratore accertato in sede di merito non è quello all’attribuzione di maggiori retribuzioni, ma al risarcimento del danno derivante dalla violazione, da parte del datore di lavoro, di precisi obblighi contrattuali, un diritto cioè che trova titolo nella riconosciuta sussistenza di un’obbligazione risarcitoria, in tutto estranea al sinallagma lavoro-retribuzione. Né il ricorrente sostiene di aver proposto (anche) una domanda di condanna del datore di lavoro alla corresponsione di emolumenti non percepiti, e neppure afferma che il giudice dl merito avrebbe mancato di esaminarla (la violazione dell’art. 112 c.p.c. non è dedotta); si tratta, quindi di questioni prospettate per la prima volta in questa sede e che, in quanto modificano il tema di indagine e di decisione proprio del giudizio di merito, involgendo altresì la necessità di accertamenti di fatto, sono da considerare inammissibili (giurisprudenza costante: per tutte, Cass. 1496/98, 4900/98, 9711/98). Esaminando, infine, il quinto motivo, non può non riaffermare la Corte quanto più sopra considerato a proposito della necessità, per il lavoratore che domandi, come nel caso di specie, il risarcimento del danno consistente nel mancato conseguimento di un trattamento economico dipendente, in via eventuale, dallo svolgimento delle prestazioni negate, di allegare i fatti attraverso i quali il risultato economico preteso si sarebbe realizzato, nonché il rapporto di necessità tra gli stessi fatti e il demansionamento, e di fornire, altresì, la prova della ricorrenza in concreto di quei fatti e di quella necessità attraverso la combinazione dei quali solamente può dirsi venuto in essere il diritto fatto valere. Questo significa, in relazione al mancato conseguimento dell’equo compenso, previsto dall’articolo 80 della legge 633/41 sul diritto di autore a favore dell’artista-attore per il caso di ulteriore utilizzazione dell’opera, che il ricorrente doveva dimostrare che, ove non fosse rimasto inattivo a causa dell’inadempimento del datore di lavoro, per certo avrebbe acquisito il diritto a quel guadagno e, a tal fine, avrebbe dovuto fornire indicazione e prova delle singole opere e trasmissioni (radiofoniche e televisive) in concreto realizzate GIURISPRUDENZA dalla Rai, nelle quali sicuramente avrebbe potuto e dovuto essere impiegato, evidenziando, altresì, le ragioni per le quali tale impiego si sarebbe verificato. Sul punto il Tribunale ha affermato che mancava del tutto la prova del fatto costitutivo di questa pretesa voce di danno, non avendo il ricorrente formulato al riguardo alcuna richiesta istruttoria. Il P. assume oggi, che sin dal primo grado del giudizio, erano stati richiesti numerosi mezzi istruttori, senza peraltro chiarire in che cosa consistessero, né quali fossero i fatti e le circostanze che gli stessi tendevano a dimostrare. Se poi, come sembra, tali mezzi istruttori erano quelli cui fanno riferimento le censure svolte nel secondo motivo di ricorso, valgono le considerazioni che la corte ha al riguardo già espresso per ritenerne la inammissibilità e comunque la infondatezza. Da ultimo, non appare in nulla censurabile la decisione del giudice del merito di negare al P. gli aumenti di merito, anch’essi richiesti dal ricorrente quale ulteriore voce di danno. Una volta, infatti, che il Tribunale ha accertato che la corresponsione di tali emolumenti era rimessa alla discrezionalità del datore di lavoro, la loro mancata attribuzione non può, per certo, essere configurata quale pregiudizio economico conseguente all’inadempimento. A sua volta, la deduzione secondo cui quell’accertamento sarebbe errato, perché la disciplina negoziale del rapporto (contenuta nell’articolo 8 del regolamento Rai) configurerebbe gli aumenti suddetti come elemento costitutivo della retribuzione, è priva di rilievo, in quanto il ricorso non contiene alcuna specifica denuncia di violazione delle regole legali di ermeneutica di cui agli articoli 1362 c.c., né lascia comprendere in quali vizi di motivazione sarebbe incorsa la impugnata sentenza nel trarre dalla interpretazione di quella disciplina negoziale le diverse conclusioni cui è pervenuta. In conclusione, sia il ricorso principale che quello incidentale devono essere rigettati. Le spese del presente giudizio di cassazione sono compensate tra le parti. P. Q. M. la Corte riunisce i ricorsi e li rigetta; compensa tra le parti le spese del presente giudizio. 159 GIURISPRUDENZA Corte di Cassazione, sezione lavoro, 1 giugno 2002, n. 7967 (Pres. Sciarelli; Rel. De Matteis) Riferimenti normativi: artt. 2103, 2043, 1226 e 2697 c.c.; art. 360 c.p.c. 160 Lavoro - lavoro subordinato - categorie e qualifiche dei prestatori di lavoro mansioni - diverse da quelle dell’assunzione - demansionamento professionale del lavoratore - conseguente diritto al risarcimento danni liquidazione - determinazione equitativa - riferimento all’entità della retribuzione - ammissibilità. In caso di demansionamento professionale del lavoratore in violazione dell’art. 2103 c.c. (nella specie, per rilevante riduzione quantitativa delle mansioni), la determinazione del danno patrimoniale giudizialmente accertato (alla quale il giudice è tenuto, in presenza di una specifica domanda di risarcimento da parte dello stesso lavoratore) può avvenire anche in via equitativa, eventualmente con riferimento all’entità della retribuzione risultante dalle buste paga prodotte in giudizio. (massima e sommari ufficiali) (omissis) SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con ricorso al Pretore di Roma, giudice del lavoro, in data 6 maggio 1990, P. R. L., dirigente della s.p.a. S., ora A. s.p.a. in liquidazione, ha impugnato l’ordine di servizio 16 maggio 1990, con il quale egli veniva destinato a nuove mansioni deducendo la preordinazione del provvedimento ad incidere sulle sue funzioni sindacali e la sua oggettiva portata dequalificante. Si costituiva la S. resistendo alla domanda. Espletato interrogatorio libero delle parti, avendo il R. L. rinunziato alla domanda concernente la pretesa antisindacalità del provvedimento, il Pretore accoglieva la tesi di merito dichiarando la natura dequalificante dell’incarico assegnatogli: condannava la S. alla reintegrazione del R. L. nelle mansioni precedenti e rinviava a separato giudizio la liquidazione del danno conseguente. Contro questa sentenza proponeva appello principale la S., contestando la GIURISPRUDENZA sussistenza della dequalificazione, nonché la scissione della decisione sul quantum della pretesa risarcitoria in mancanza di richiesta espressa dell’attore e comunque la carenza di prova del pregiudizio subito. Il R. L. spiegava appello incidentale, chiedendo la liquidazione in via equitativa dei danni; evidenziava la cessazione della materia del contendere sulla domanda di reintegra nelle mansioni a causa del suo sopravvenuto licenziamento. Il Tribunale confermava la pretesa natura dequalificante dell’incarico; dichiarava cessata la materia del contendere sulla domanda di reintegrazione, e rigettava la domanda di risarcimento danni, perché, pur ritenendo provata la dequalificazione, il ricorrente non avrebbe fornito gli elementi necessari per la valutazione equitativa del danno. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione il R. L., con due motivi. La intimata sì è costituita con controricorso, resistendo; ha proposto ricorso incidentale, contestando la sussistenza della dequalificazione. MOTIVI DELLA DECISIONE Vanno preliminarmente riuniti il ricorso principale ed il ricorso incidentale proposti avverso la stessa sentenza, ai sensi dell’art. 335 c.p.c. Vanno esaminati per primi, in ordinato iter logico i due motivi del ricorso incidentale, con i quali la A., deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 1226, 2103 e 2697 c.c., omessa e insufficiente motivazione su punto decisivo della controversia (art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c.), censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha confermato la dequalificazione del dirigente in ragione della affermata pochezza degli incarichi speciali dopo il 1 giugno 1990. Rileva che, non avendo il ricorrente contestato la natura dirigenziale degli incarichi speciali affidatigli, la differenza, meramente quantitativa e non qualitativa di questi, non poteva integrare dequalificazione professionale. Si duole inoltre che il Tribunale abbia dedotto la pochezza degli incarichi dal tempo trascorso fra l’ordine di servizio 1.6.1990 n. 1182 impugnato e la presentazione del ricorso nel settembre del 1991, erroneamente ritenendo che i tre incarichi speciali riferiti dal direttore generale nel suo libero interrogatorio fossero gli unici assegnati al R., ed imputa a questi di non avere provato di avere avuto altri incarichi. I due motivi, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, non sono fondati. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, l’art. 2103 c.c. fonda un diritto del lavoratore all’effettivo svolgimento della propria prestazione di lavoro (Cass. 15 giugno 1983 n. 4106; Cass. 6 giugno 1995 n. 161 GIURISPRUDENZA 162 3372; Cass. 10 febbraio 1988 n. 1437; Cass. 13 agosto 1991 n. 8835; Cass. 13 novembre 1991 n. 12098; Cass. 15 luglio 1995 n. 7709; Cass. 4 ottobre 1995 n. 10405; Cass. 14 novembre 2001 n. 14199); e motiva tale suo convincimento sia con il tenore testuale della norma citata, la quale dispone che il prestatore di. lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, sia con la funzione del lavoro, che costituisce non solo un mezzo di sostentamento e di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità del lavoratore, ai sensi degli artt. 2, 1° comma, 4, 1° comma, e 35, 1° comma, Cost. La lesione di tale interesse della persona, che assurge a diritto soggettivo con la stipulazìone del contratto di lavoro prevedente una determinata prestazione, costituisce un inadempimento contrattuale da parte del datore di lavoro e determina, oltre all’obbligo di corrispondere la retribuzioni dovute, l’obbligo del risarcimento del danno da dequalificazione professionale. Tale principio di diritto, benché non condiviso da una parte della dottrina, deve essere qui ribadito, perché esso trova sicuro fondamento giuridico in molteplici valutazioni giuridiche: il carattere del rapporto di lavoro subordinato, che non è puramente di scambio, ai sensi degli artt. 1174 e 1321 c.c., coinvolgendo la persona del lavoratore; e che costituisce altresì un contratto di organizzazione (art. 2094 c.c.), sicché la disciplina degli aspetti patrimoniali e la collaborazione nell’impresa devono necessariamente coniugarsi con i precetti costituzionali di tutela della persona dell’uomo che lavora; il principio di esecuzione in buona fede del contratto di assunzione (art. 1375 c.c.); infine l’attuale evoluzione del mercato del lavoro, che, enfatizzando la formazione continua come essenziale caratteristica dell’attuale momento storico-economico valorizza la funzione della prestazione lavorativa in tal senso. Da quanto precede deriva che, diversamente da quanto opina la ricorrente incidentale, non solo una riduzione qualitativa, ma anche quantitativa delle mansioni, in una misura significativa il cui apprezzamento è rimesso al giudice del merito, può comportare dequalificazione. È evidente poi che ove il lavoratore deduca una dequalificazione per rilevante riduzione quantitativa delle mansioni, l’onere processuale di dedurre e provare lo svolgimento di mansioni significative di mancata dequalificazione compete al convenuto datore di lavoro, che l’eccepisce, in base all’art. 2697, 2° comma c.c., del quale erroneamente la ricorrente incidentale deduce violazione. Quanto ai pretesi vizi di motivazione si deve rilevare che il Tribunale ha fondato il proprio convincimento, confermativo di quello del primo giudice, GIURISPRUDENZA sulla prova testimoniale, la cui valutazione è rimessa al giudice del merito e che la ricorrente non censura specificamente, attestante la pochezza e brevità degli incarichi (tipicamente di “ricerche di marcato”), giungendo alla conclusione che il R. è rimasto praticamente inattivo per quasi un anno. Peraltro il Tribunale ha altresì rilevato la novità, perché proposta per la prima volta in appello, e quindi in modo inammissibile, della deduzione datoriale secondo cui il R. avrebbe tenuto un comportamento inattivo e negligente nell’espletamento degli incarichi speciali, il che spiegherebbe il breve tempo impiegato nel loro espletamento. Il ricorso incidentale va quindi rigettato. Con il primo motivo il ricorrente principale, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 1226 c.c.; 432, 115, 2° comma, 112 c.p.c.; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia (art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c.) censura la sentenza impugnata perché, pur avendo ribadito l’esistenza della dequalificazione accertata dal Pretore, ha negato la liquidazione del relativo danno, sull’erroneo presupposto che non risultavano provati in causa elementi di valutazione e parametri di liquidazione omogenei ed utilizzabili in una generalità di casi analoghi Sostiene che gli artt. 1226 c.c. e 432 c.p.c., che costituisce una specificazione del primo precetto nel processo del lavoro, richiedono ai fini della loro applicazione, che risulti provata l’esistenza del danno e che la sua entità non sia obiettivamente provabile, o sia di rilevante difficoltà probatoria. Contesta che le norme invocate richiedano, come affermato dal Tribunale, che la parte fornisca anche la prova di elementi di valutazione e parametri di liquidazione omogenei ed utilizzabili in una generalità di casi analoghi, utili per l’esercizio del potere-dovere della liquidazione equitativa del danno da parte del giudice. Con il secondo motivo il ricorrente principale, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c. e 437, 2° comma, c.p.c., (art. 360, n. 3 c.p.c.) censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto preclusa la possibilità di produrre in grado di appello due buste paga, che il ricorrente intendeva fare valere come parametro per la valutazione equitativa. I due motivi, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, sono fondati. La sentenza impugnata ha ritenuto provato in causa il danno da dequalificazione, inteso come danno al patrimonio professionale in senso stretto. Essa così si è espressa: “…Orbene ove si consideri che in ipotesi di dequalificazione professionale la sussistenza del danno discende direttamente dallo stesso fatto del depauperamento, in quanto lesivo di beni primari della persona del lavoratore, rappresentandone una logica ed 163 GIURISPRUDENZA 164 ineluttabile conseguenza, sicché suole parlarsi di danno in re ipsa per la cui esistenza non occorre fornire alcuna prova, o che comunque lo stesso può desumersi presuntivamente dalle modalità del fatto attesa la evidente natura diabolica di una rigorosa prova, risulta all’evidenza che nella fattispecie si era raggiunta la prova della esistenza del danno, anche se non della sua determinazione quantitativa…nell’ambito generico del danno alla professionalità da demansionamento si è distinto il danno al patrimonio professionale in senso stretto, in quanto effetto inevitabile e in re ipsa di un significativo demansionamento, il danno alla personalità e alla dignità del lavoratore, quando la dequalificazione assume anche modalità lesive di tali beni e danno alla vita di relazione ed eventuale danno biologico, quando i comportamenti lesivi siano tali da creare pregiudizio a tali sfere della persona. Con riferimento al primo di essi o ai primi due, anche a non condividere la tesi del danno in re ipsa, se è pur vero che la sussistenza e l’entità di tale danno varia in relazione alla delicatezza, complessità delle mansioni svolte e al grado di responsabilità, e alla loro obsolescibilità, in relazione alla concreta situazione strutturale, risultando maggiormente apprezzabile nelle mansioni di più elevata qualificazione professionale in realtà dinamiche di maggiore evoluzione tecnologica, non può negarsi la sussistenza dello stesso in relazione alla c.d. carenza di prova della effettiva esistenza del danno, attesa la natura a volte diabolica della medesima e la sua rilevabilità e accertabilità, viceversa, presuntivamente soprattutto in relazione al tipo di lesione e conseguentemente al maggiore o minor divario tra le mansioni precedenti e le nuove nell’ambito dei valori di riferimento diffusi nel contesto contrattuale nel quale si svolge il rapporto. E nel caso di specie tale danno emerge presuntivamente dal raffronto tra le funzioni/mansioni svolte dal R. L. e lo stato di totale inattività che impoverisce, con modalità ingravescenti con il passare del tempo, la sua professionalità non solo sotto il profilo del mancato esercizio e del mancato aggiornamento ma anche sotto il profilo di ulteriore sviluppo professionale e di possibilità di collocamento nel mercato…”. Ciò posto sul piano sostanziale della natura e della prova del danno, il Tribunale ha poi affermato, sul piano processuale, che il Pretore ha errato nell’emettere sentenza di condanna generica, rinviando la liquidazione del danno a separato giudizio, perché tale sdoppiamento del processo non è consentito nei casi in cui, come il presente, la parte aveva richiesto una condanna specifica con valutazione equitativa del danno; ma ha concluso che la domanda doveva essere rigettata in toto, perché la parte che richieda una valutazione equitativa del danno deve fornire gli elementi di riscontro, GIURISPRUDENZA quale ad es. l’ammontare della retribuzione, che il giudice possa impiegare per applicare i parametri di liquidazione omogenei e utilizzabili in una generalità di casi analoghi. Dallo stesso tenore testuale della motivazione sopra riportata risalta la contraddizione tra premesse, corrette, e conclusioni, errate. È corretto, e corrispondente alla giurisprudenza di questa Corte, che il danno da dequalificazione professionale può assumere aspetti diversi, in quanto può consistere sia nel danno patrimoniale derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, sia nel pregiudizio subito per perdita di chance ossia di ulteriori possibilità di guadagno, sia in una lesione del diritto del lavoratore all’integrità fisica o, più in generale, alla salute ovvero all’immagine o alla vita di relazione (Cass. 14.11.2001 n. 14199; Cass. 6.11.2000 n. 14443; Cass. 18.10.1999 n. 11727). Non è dubbio che la prova di tali aspetti di danno debba essere data dal lavoratore (Cass. 11.8.1998, n. 7905; Cass. 19.4.1996 n. 3696), e possa essere articolata in relazione al tipo di danno preteso, e quindi data anche mediante la prova presuntiva (Cass. 2.11.2001 n. 13580), sufficiente di per sé sola a sorreggere la decisione (Cass. 18.1.2000 n. 491: Cass. 3.2.1999 n. 914). Così, se per il danno biologico è necessaria la prova della lesione dell’integrità psicofisica, nella quale si sostanzia il danno (Corte Cost. sent. 372/1994; Cass. 11.1.2001 n. 333), per la perdita della capacità concorrenziale sul mercato del lavoro può essere sufficiente la allegazione e la prova di circostanze di fatto gravi, precise e concordanti (art. 2729 c.c.) dalle quali il giudice del merito possa dedurre l’esistenza di tale danno patrimoniale. Nel caso di specie il Tribunale, con motivazione articolata e rispondente ai principi di diritto sopra cennati, e che per tale motivo supera il vaglio di legittimità, ha statuito che la lunghezza dell’inattività (circa un anno), la elevata qualità professionale delle mansioni, le caratteristiche concorrenziali del mercato del lavoro, siano indizi sufficienti per dedurre l’esistenza di un danno professionale. La sentenza impugnata ha quindi ben risolto il primo quesito che la causa gli poneva, e cioè di come si provi il danno da dequalificazione. Una volta provata l’esistenza del danno, che costituisce il necessario presupposto per la valutazione equitativa, il giudice che abbia accertato, in relazione alle particolarità della fattispecie, l’impossibilità o la rilevante difficoltà di provare il danno nel suo preciso ammontare non può sottrarsi dall’obbligo della sua valutazione equitativa, ed incorre in violazione dell’art. 1226 c.c. ed in vizio logico di motivazione la sentenza che respinga la 165 GIURISPRUDENZA 166 domanda sul mero rilievo che le prove fornite non sono sufficientemente precise (Cass. 10.3.2000 n. 2796). Il Tribunale ha rigettato la domanda ritenendo che sia onere della parte, una volta provata l’esistenza del danno fornire gli elementi di riscontro, quali l’ammontare della retribuzione, perché il giudice possa utilizzare parametri di valutazione omogenei ed impiegabili in una generalità di casi analoghi, ma non ha consentito la produzione delle buste paga in appello, ritenendoli documenti nuovi. L’elaborazione di parametri di valutazione omogenei ed impiegabili in una generalità di casi analoghi per la determinazione del danno in via equitativa è compito della giurisprudenza (con l’ausilio della dottrina). Così, ad es., ove la parte richieda il risarcimento del danno biologico oggettivo, ella dovrà provare la lesione della integrità psico fisica e la sua gravità mediante appropriata certificazione medica, eventualmente verificabile con consulenza tecnica d’ufficio medico legale; sarà poi il giudice del merito ad elaborare i criteri omogenei per la sua valutazione equitativa (ex plurimis Cass. 8.5.2001 n. 6396); ove poi chieda il danno biologico soggettivo, dovrà provare altresì quelle particolari abitudini di vita che la lesione ha inciso peggiorando la qualità della vita stessa. Poiché nella presente causa è chiesto il danno da dequalificazione professionale che comprende anche una componente patrimoniale, il Tribunale non poteva negare al ricorrente la possibilità processuale, ove ritualmente esercitata, di offrire un elemento di riscontro (la retribuzione), per la valutazione equitativa di tale danno. La giurisprudenza di questa corte si è consolidata nel ritenere che nel rito del lavoro, la disciplina restrittiva sull’ammissione delle nuove prove non si applica alla produzione di nuovi documenti, che può avvenire senza necessità di una preventiva valutazione, ad opera del collegio, della loro indispensabilità, sempre che essi siano specificamente indicati nel ricorso dell’appellante o nella memoria difensiva dell’appellato e depositati contestualmente a tali atti e comunque prima dell’udienza di discussione, e senza che sia influente la circostanza che la parti avrebbero potuto o dovuto esibirli nel primo grado di giudizio (ex plurimis: Cass. 5.6.2000 n. 10335). Poiché nella specie non è mai stato affermato che la produzione dei documenti nuovi in appello sia stata effettuata al di fuori delle condizioni richieste dalla giurisprudenza di legittimità citata, il ricorso principale va accolto, la sentenza impugnata cassata, e gli atti rimessi al giudice del rinvio, che si designa nella Corte d’Appello di Firenze, la quale deciderà la controversia attenendosi al seguente principio di diritto: “Ove la parte abbia GIURISPRUDENZA chiesto, con domanda di condanna specifica, la liquidazione del danno da dequalificazione, il giudice del merito che abbia accertato, anche tramite la prova presuntiva, l’esistenza di un danno patrimoniale da dequalificazione (nella specie per significativa riduzione quantitativa della mansioni), non può sottrarsi all’obbligo di una sua determinazione, anche in via equitativa, per la quale può costituire utile elemento di riferimento l’entità della retribuzione, che la parte stessa abbia ritualmente chiesto di provare mediante produzione di buste paga”. Il giudice del rinvio provvederà altresì alle spese del presente giudizio. P. Q. M. accoglie il ricorso principale per quanto di ragione, rigetta l’incidentale, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Appello di Firenze. 167 GIURISPRUDENZA Corte di Cassazione, sezione lavoro, 2 novembre 2001, n. 13580 (Pres. Saggio; Rel. De Matteis) Riferimenti normativi: artt. 2103, 2043, 1226 e 2697 c.c.; art. 360 c.p.c. 168 Lavoro - lavoro subordinato - categorie e qualifiche dei prestatori di lavoro mansioni - diverse da quelle dell’assunzione - demansionamento professionale del lavoratore - conseguente diritto al risarcimento danni prova del danno - accertamento del giudice di merito - incensurabilità in cassazione - limiti - liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c. - ammissibilità. In caso di accertato demansionamento professionale del lavoratore in violazione dell’art. 2103 c.c., il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l’esistenza del relativo danno, determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico-giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla durata della qualificazione e alle altre circostanze del caso concreto. (Massima e sommari ufficiali) (omissis) SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con ricorso in opposizione ex art. 209 L.F. depositato il 12.9.1995 l’ing. P. A. ha convenuto in giudizio, innanzi al Tribunale di Roma Sezione Fallimentare, la B. P. e C. s.p.a. in liquidazione coatta amministrativa, chiedendo che venisse riconosciuto il suo diritto all’ammissione al passivo, in via privilegiata, di L. 501.785.718, per i seguenti crediti di lavoro: - indennità c.d. supplementare (prevista dal contratto dei dirigenti di azienda), pari al corrispettivo del preavviso + n. 2 mensilità aggiuntive L. 149.928.482; - idem: aumento in funzione dell’età L. 42.836.748; - risarcimento del danno per dequalificazione (18 mensilità) L. 257.020.488; - differenza gratifica contrattuale L. 52.000.000, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali. Con sentenza 2-23 luglio 1997 n. 14560 il Tribunale di Roma ha dichiarato GIURISPRUDENZA il diritto dello stesso all’ammissione, in via privilegiata, nello stato passivo della società B. P. e C. in liquidazione coatta amministrativa per la somma di L. 128.660.000, di cui 98 milioni per risarcimento del danno alla professionalità, cosi quantificato in via equitativa, e L. 30.660.000 per gratifica di bilancio, oltre interessi e rivalutazione, i primi sino alla liquidazione dell’attivo, la seconda sino al deposito dello stato passivo; ha respinto la richiesta di indennità supplementare; ha compensato per metà le spese processuali. Avverso detta sentenza hanno proposto appello principale il P., dolendosi del mancato riconoscimento dell’indennità supplementare, ed appello incidentale la B., per ottenere la dichiarazione di insussistenza del diritto del P. al risarcimento del danno alla professionalità e all’ammissione allo stato passivo della somma di L. 128.600.000. Con sentenza 1-19 luglio 1999 n. 2325 la Corte d’Appello di Roma ha respinto entrambi gli appelli, compensando le spese del grado. Avverso tale sentenza, depositata il 19.7.1999 e non notificata, ha proposto ricorso per Cassazione la B. P. e C. s.p.a. in liquidazione coatta amministrativa, notificato il 18 luglio 2000, con due motivi. L’intimato si è costituito con controricorso, resistendo, e proponendo ricorso incidentale per il riconoscimento della indennità supplementare, sotto due profili. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c. MOTIVI DELLA DECISIONE Vanno preliminarmente riuniti il ricorso principale ed il ricorso incidentale proposti avverso la stessa sentenza, ai sensi dell’art. 335 c.p.c. Con il primo motivo la ricorrente principale si duole del riconoscimento del danno alla professionalità in totale carenza di prova, anche nell’entità; deduce omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia (art. 360, nn. 5 c.p.c.). Assume che il danno alla professionalità presuppone la dequalificazione, ma è una entità distinta ed ulteriore rispetto alla prima. Lamenta che il giudice di appello abbia riconosciuto il danno senza motivare sul punto. Il motivo non è fondato. Nella giurisprudenza di questa Corte convivono due orientamenti sul punto, uno più antico, per il quale “Il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico) 169 GIURISPRUDENZA 170 subito a causa della lesione del- proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, lesione idonea a determinare una dequalificazione del dipendente stesso, deve fornire la prova dell’esistenza di tale danno, la quale costituisce presupposto indispensabile per una sua valutazione equitativa. Tale danno non si pone infatti quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella sopraindicata categoria, onde non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, facendo carico al lavoratore che denunzi il danno subito fornirne la prova in base alla regola generale dell’art. 2697 c.c. (Cass. 11 agosto 1998 n. 7905; Cass. 18 aprile 1996 n. 3686). L’altro, più recente, secondo il quale il demansionamento professionale di un lavoratore non solo viola lo specifico divieto di cui all’art. 2103 c.c. ma ridonda in lesione del diritto fondamentale, da riconoscere al lavoratore anche in quanto cittadino, alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro con la conseguenza che il pregiudizio correlato a siffatta lesione, spiegandosi nella vita professionale e di relazione dell’interessato, ha una indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche equitativa, secondo quanto previsto dall’art. 1226 c.c. (Cass. 18 ottobre 1999 n. 11727, che ha cassato la sentenza impugnata la quale aveva respinto la domanda di risarcimento del danno proposta dal lavoratore demansionato sull’assunto del mancato assolvimento, da parte dello stesso, dell’onere probatorio relativo alla sussistenza di un danno patrimoniale in qualche modo risarcibile; Cass, 6 novembre 2000 n. 14443). Nel caso di specie la B. aveva censurato con l’appello incidentale la sentenza del Tribunale perché avrebbe arbitrariamente statuito l’obbligo di risarcire i danni al P. per la presunta forzata inattività e inoperosità cui era stato costretto, laddove il medesimo dal gennaio 1994 non era stato inattivo e non aveva pertanto subito alcun danno alla professionalità. Il giudice di appello ha replicato che le risultanze testimoniali sono favorevoli alla sussistenza dei presupposti per il risarcimento per la riduzione dei poteri di dirigente e non sono smentite dalla documentazione prodotta in grado di appello. Il giudice del merito, con accertamento in fatto a lui demandato, ha quindi statuito che, in relazione alla durata della inoperosità, ed alle altre circostanze di fatto relative, sussistono i presupposti per il risarcimento del danno, così superando la problematica dualistica posta dalla ricorrente. Infatti il giudice del merito, accertata l’esistenza di una dequalificazione, può desumere l’esistenza del relativo danno, determinandone anche l’entità GIURISPRUDENZA in via equitativa, con processo logico giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva (sufficiente di per sé sola a sorreggere la decisione: Cass. 18 gennaio 2000 n. 491), in base agli elementi di fatto relativi alla durata della dequalificazione, e alle altre circostanze relative al caso concreto. In tali termini la sentenza impugnata non appare censurabile. Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente, deducendo insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia (art. 360, nn. 5 c.p.c.) censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha riconosciuto la gratifica di bilancio senza motivare sul punto. Il motivo è inammissibile. La sentenza impugnata ha rigettato l’appello incidentale della B., odierna ricorrente principale, la quale censurava il riconoscimento delle differenze sulla gratifica natalizia obiettando che la gratifica era annuale, proporzionata al periodo lavorato, e condizionata all’approvazione dei bilanci che negli anni 1993 e 1994 non erano stati approvati. Il giudice d’appello ha ritenuto adeguata la motivazione del Tribunale, che ha riconosciuto le gratifiche di bilancio complessivamente in L. 36.660.000, di cui 12.000.000 relativamente all’anno 1993 e L. 18.660.000 per il periodo di lavoro nell’anno 1994, quali anticipi da conguagliare al momento della definitiva liquidazione, “secondo quanto previsto dall’allegato alla lettera di assunzione del 26 giugno 1991”. A fronte di tale motivazione che dà conto, concisamente come richiesto dall’art. 132 c.p.c. dei motivi dell’impugnazione e di quelli della decisione, era onere della ricorrente, a pena di ammissibilità dell’ impugnazione, contestare la ragione della decisione tratta dalla clausola del contratto di assunzione. Con il primo motivo il ricorrente incidentale, deducendo omessa motivazione su punto decisivo della controversia (art. 360, n. 5 c.p.c.), censura la sentenza impugnata nella parte in cui non ha riconosciuto la indennità supplementare. Egli pretende di averne diritto in base alla teoria della c.d. efficacia reale del preavviso, secondo la quale nel contratto di lavoro a tempo indeterminato la dichiarazione di recesso ha efficacia non nel momento in cui viene emessa ma nel momento in cui viene a scadere il termine del preavviso, che nella specie sarebbe scaduto 8 mesi dopo il 31 luglio 1994, quando era già entrato in vigore il comma 2bis L. 27 dicembre 1994, n. 738 (conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 22 novembre 1994, n. 643, recante norme di :interpretazione e di modificazione del D.L. 19 dicembre 1992, n. 487, convertito, con modificazioni, dalla L. 17 febbraio 1993, n. 33 e successive integrazioni, concernente la soppressione dell’EFIM) il quale consente ai 171 GIURISPRUDENZA 172 dirigenti delle società finanziarie caposettore, delle società di servizi e delle società di servizi finanziari, controllate dall’EFIM, di usufruire dei trattamenti indicati nell’articolo 3, comma 2 quater, del decreto-legge 19 dicembre 1992, n. 487, convertito, con modi-ficazioni, dalla legge 3-7 febbraio 1993, n. 33, come previsto per i dirigenti EFIM. Il Tribunale di Roma ha affermato che il rapporto di lavoro è cessato il 31 luglio 1994, quando la B. ha disposto il licenziamento del P. con effetto immediato, con dispensa dal lavoro per il periodo di preavviso, pagandogli contestualmente la relativa indennità sostitutiva del preavviso. Il P. ha censurato tale affermazione davanti al giudice d’appello, deducendo di avere impugnato tempestivamente la quietanza liberatoria. Il giudice d’appello ha rilevato che il P. con la lettera inviata alla B. il 17 ottobre 1994, dando atto di aver ricevuto le indennità di fine rapporto e l’indennità sostitutiva del preavviso e dichiarando di impugnare la quietanza liberatoria sottoscritta in occasione del pagamento con la quale aveva affermato di non aver nulla a pretendere, rivolse solo l’istanza per ottenere il riconoscimento dell’indennità supplementare e del risarcimento danni, ma non impugnò la risoluzione del rapporto né la durata dello stesso cosicché la percezione dell’indennità sostitutiva del preavviso ha determinato l’interruzione del rapporto di lavoro al 31 luglio 1994. Il ricorrente incidentale contesta di avere ricevuto la indennità sostitutiva del preavviso al momento del recesso, e dichiara di avere impugnato con lettera 17.10.1994 la quietanza liberatoria del pagamento del trattamento di fine rapporto e del preavviso, avvenuta successivamente al recesso. Il motivo non è fondato. Il preavviso di licenziamento comporta la prosecuzione del rapporto di lavoro e di tutte le connesse obbligazioni fino alla scadenza del termine di preavviso solo nell’ipotesi in cui il lavoratore continui nella prestazione della sua attività, mentre si verifica l’immediata interruzione del rapporto quando intervenga fra le parti un accordo in proposito, anche manifestato per fatti concludenti, come nell’ipotesi di accettazione senza riserve da parte del lavoratore dell’indennità sostitutiva del preavviso (Cass. 29 luglio 1999 n. 8256). L’esistenza del consenso tramite l’accettazione della indennità sostitutiva del preavviso costituisce accertamento di fatto, che il giudice di appello, con motivazione immune da vizi logici, ha compiuto distinguendo tra contestazione della somma ricevuta e mancata contestazione della cessazione immediata della prestazione lavorativa. Con il secondo motivo di ricorso incidentale il P. deduce che in ogni caso, GIURISPRUDENZA la indennità supplementare gli è dovuta perché direttamente prevista dal contratto collettivo per dirigenti industriali (la cui applicazione al rapporto di lavoro del ricorrente è richiamata nella lettera di assunzione), per il caso di cessazione del rapporto del dirigente a seguito di “ristrutturazione, riorganizzazione, riconversione, ovvero crisi settoriale o aziendale”, ipotesi per la quale è stata motivata la cessazione del rapporto di lavoro con il ricorrente, come si evince dalla lettera di licenziamento datata 28.7.94, che cosi si esprime: “... Tale situazione ha determinato una inevitabile riduzione e riorganizzazione delle attività societarie con conseguente ridimensionamento e soppressione di alcune posizioni. Nell’ambito di detto piano rientra anche la funzione da Lei occupata...”. Il ricorrente deduce che il licenziamento non è stato determinato dalla cessazione della attività della B. C. e P. (come sostenuto dalla convenuta), ma proprio nell’ambito di quella ristrutturazione alla quale il Ccnl ricollega il pagamento della indennità supplementare. Anche questo ultimo motivo è infondato. Come riferito dal ricorrente e non contestato da controparte, il contratto collettivo per i dirigenti industriali prevede a loro favore una indennità supplementare per il caso di cessazione dei rapporto del dirigente nelle distinte ipotesi di “ristrutturazione, riorganizzazione, riconversione, ovvero crisi settoriale o aziendale”. Il giudice di appello, con statuizione non censurata, ha escluso che nel caso in esame ricorresse l’ipotesi di crisi aziendale. Il ricorrente appunta le sue censure sull’ipotesi di riorganizzazione delle attività societarie, rientrante nella previsione contrattuale, e con la quale è stato motivato il suo licenziamento. Ma anche questa ipotesi è stata esclusa dal giudice di merito, con accertamento in fatto a lui demandato, secondo il quale la liquidazione coatta amministrativa non ha implicato di per sé i processi previsti dalla norma contrattuale invocata. In conclusione il Collegio ritiene che il giudice del merito abbia risolto con equilibrata decisione il conflitto tra le contrapposte pretese, nel che risiede la funzione giudiziaria, nel rispetto delle norme legali e contrattuali applicabili; il che costituisce altresì motivo per la totale compensazione delle spese processuali del presente giudizio. P .Q. M. riunisce i ricorsi e li rigetta. Spese del presente giudizio compensate. 173 GIURISPRUDENZA Corte di Cassazione, sezione lavoro, 12 novembre 2002, n. 15868 (Pres. Ciciretti; Rel. Prestipino) Riferimenti normativi: artt. 1226, 2103 e 2043 c.c. 174 Lavoro - lavoro subordinato - categorie e qualifiche dei prestatori di lavoro mansioni - diverse da quelle dell’assunzione - provvedimento di assegnazione a mansioni inferiori - illegittimità - conseguenze - diritto del dipendente al risarcimento del danno - sussistenza Risarcimento del danno - valutazione e liquidazione - criteri equitativi fattispecie in tema di demansionamento - allegazione di specifici elementi di prova - necessità - esclusione - elementi presuntivi acquisiti al giudizio sufficienza. Dalla illegittima attribuzione ad un lavoratore di mansioni inferiori rispetto a quelle assegnategli al momento della assunzione in servizio può derivare non solo la violazione dell’art. 2103 cod. civ., ma anche la violazione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 1 e 2 della Costituzione, da cui consegue il diritto dell’interessato al risarcimento del danno. In materia di risarcimento del danno per attribuzione al lavoratore di mansioni inferiori rispetto a quelle in relazione alle quali era stato assunto, l’ammontare di tale risarcimento può essere determinato dal giudice facendo ricorso ad una valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 cod. civ., anche in mancanza di uno specifico elemento di prova da parte del danneggiato, in quanto la liquidazione può essere operata in base all’apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio e relativi alla natura, all’entità e alla durata del demansionamento, nonché alle altre circostanze del caso concreto. (massime e sommari ufficiali) (omissis) SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con ricorso del 16 maggio 1991 G. P. conveniva davanti al Pretore del GIURISPRUDENZA lavoro di Milano la s.p.a. P. T. M., della quale era dipendente, ed esponeva che con sentenza emessa dal medesimo Pretore di Milano il 6 aprile 1990 e passata in giudicato era stato accertato che nel periodo dal 1° febbraio 1988 al 30 maggio 1990, durante il quale era stato disposto prima il suo trasferimento da Milano a Bologna e, poi, da Bologna a Lucernate di Rho, la società lo aveva adibito a mansioni inferiori a quelle per le quali lo aveva assunto (quale corrispondente di lingua greca) e, inoltre, che analogo demansionamento gli era stato imposto anche nel periodo successivo, vale a dire dal 1° giugno 1990 in poi. Il ricorrente chiedeva, quindi, che la convenuta, previa declaratoria dell’illegittimo comportamento dalla stessa posto in essere anche nel secondo periodo, fosse condannata a risarcirgli i danni da lui subiti in entrambi i periodi. Instauratosi il contraddittorio, il Pretore con sentenza del 30 ottobre 1991 accoglieva il ricorso e condannava la società P. a pagare al P., a titolo di risarcimento dei danni, la complessiva somma di L. 20.000.000. Questa pronuncia, impugnata dalla società P., veniva riformata dal Tribunale di Milano con sentenza del 20 ottobre 1993, con la quale veniva rigetta la domanda proposta dal P. A seguito di ricorso proposto da quest’ultimo, questa Corte con sentenza n. 10196 del 18 ottobre 1997 cassava la decisione impugnata e rinviava la causa al Tribunale di Lodi. Riassunto il giudizio dal P., il giudice del rinvio, con sentenza del 29 marzo 1999, in riforma della pronuncia resa nel giudizio di primo grado dal Pretore di Milano, rigettava la domanda di risarcimento dei danni proposta dal lavoratore e condannava lo stesso a restituire alla società P. la somma di danaro erogatagli in esecuzione della sentenza appellata, oltre agli interessi al tasso legale. Il Tribunale di Lodi osservava riguardo al primo periodo - in relazione al quale il demansionamento subito dal lavoratore era stato oggetto di accertamento con sentenza passata in giudicato - che, non avendo il P. dimostrato in concreto il danno subito, non poteva essere accolta la domanda di risarcimento, dato che, nella ricorrenza di “una assoluta carenza probatoria”, non poteva essere condiviso “l’automatismo operato in prime cure” mediante la disposta liquidazione equitativa; e, quanto al secondo periodo, che dalle deposizioni testimoniali erano risultate smentite le allegazioni del P. circa lo svolgimento di mansioni inferiori a quelle assegnategli al momento dell’assunzione in servizio. Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione il P. in base a due motivi. La società P. ha resistito con controricorso. 175 GIURISPRUDENZA MOTIVI DELLA DECISIONE 176 Con il primo motivo del ricorso il P. denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2909, 2103, 1226 c.c. e il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, in relazione all’art. 360, primo comma n. 3 e 5, c.p.c. e sostiene che il Tribunale non avrebbe applicato i principi di diritto più volte enunciati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di risarcimento del danno conseguente al demansionamento subito dal lavoratore, giacché, una volta definitivamente accertato – con efficacia di giudicato, come aveva rilevato la Corte di Cassazione nella sentenza n. 10196 del 1997 – che nel periodo dal 1° febbraio 1988 al 30 maggio 1990 gli erano state attribuite mansioni inferiori a quelle per le quali era stato assunto, occorreva valutare il comportamento posto in essere dal datore di lavoro, per verificare se il fatto in sé dell’assegnazione alle inferiori mansioni, oltre a provocare un concreto pregiudizio alla sua vita di relazione, avesse causato la lesione dei valori della sua personalità, in modo da consentire la liquidazione equitativa del complessivo danno da lui patito. Questo motivo è fondato. La censura dedotta dal P., come va subito rilevato per disattendere la corrispondente eccezione preliminare formulata dalla società controricorrente, non supera l’ambito del sindacato della Corte di Cassazione sulla sentenza del giudice del rinvio, ponendosi la stessa, viceversa, proprio nel solco tracciato dalla precedente pronuncia di legittimità. Come si legge in tale pronuncia, il Tribunale di Milano aveva stigmatizzato l’operato del primo giudice, il quale aveva collegato in maniera automatica il risarcimento al demansionamento, perché non era stato tenuto conto del fatto che “non era stata acquisita la prova in ordine alle effettive mansioni per svolgere le quali il dipendente era stato assunto”; e il P. aveva censurato questa motivazione in base al rilievo che il giudice di appello, “pur riconoscendo che quella pronunciata il 6 aprile 1990 dal Pretore di Milano aveva acquisito forza di giudicato in ordine alla dequalificazione delle mansioni attribuitegli, ne aveva poi disconosciuto l’efficacia vincolante ai fini risarcitori, rilevando una presunta deficienza probatoria relativamente alle mansioni che con il contratto di assunzione erano state affidate al lavoratore”. Questa censura, come aveva rilevato la Corte, era fondata, dato che nella precedente sentenza ormai passata in giudicato il Pretore di Milano, dopo aver individuato tanto le originarie mansioni assegnate al lavoratore quanto GIURISPRUDENZA quelle attribuitegli in un momento successivo, aveva concluso per la non equivalenza delle prime in relazione alle seconde; sicché, in forza dei principi enunciati dalla giurisprudenza relativamente alla formazione del giudicato e alla efficacia oggettiva che ne consegue, il giudice di appello non poteva “rimettere in discussione sia le mansioni oggetto della assunzione in servizio che quelle successivamente svolte in occasione dei due precedenti trasferimenti e il carattere deteriore di queste rispetto alle prime”. Come risulta da queste argomentazioni e al contrario di quanto sostiene la società resistente, la doglianza ora dedotta dal P. è perfettamente aderente al tema discusso nella precedente sentenza emanata da questa Corte, la cui motivazione non solo era stata per intero rivolta proprio a sindacare la decisione, impugnata dal lavoratore, con la quale dal Tribunale di Milano era stata rigettata la domanda di risarcimento del danno, ma addirittura già conteneva – a ben vedere, proprio per aver fatto riferimento all’elemento oggettivo del demansionamento – i criteri direttivi ai quali il giudice del rinvio avrebbe dovuto attenersi nella liquidazione del danno (e ai quali, come si vedrà, lo stesso non si è uniformato). Ciò premesso, riconosciuta l’ammissibilità della censura, per rilevarne la fondatezza va richiamata la sentenza n. 13299, emanata da questa Corte il 16 dicembre 1992, alla quale ha fatto riferimento il P. nel ricorso per cassazione e che, in effetti, ha costituito punto fermo per la successiva elaborazione giurisprudenziale in tema di conseguenze derivanti dalla violazione dell’art. 2103 c.c. da parte del datore di lavoro. In tale sentenza è stato affermato che l’illegittima assegnazione del lavoratore a mansioni diverse e di minor qualificazione rispetto a quelle anteriori non solo viola lo specifico divieto posto dalla disposizione di legge, ma integra la lesione di un diritto fondamentale dello stesso lavoratore, quale cittadino, in ordine alla esplicazione della sua personalità anche nel luogo di lavoro – garantita dagli artt. 1 e 2 della Costituzione – con la conseguenza che il pregiudizio correlato a tale lesione, spiegandosi nella vita professionale e di relazione dell’interessato, ha una indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento, per la cui determinazione può trovare applicazione l’art. 1226 c.c. che consente al giudice di procedere alla liquidazione del danno con criterio equitativo. Avuto riguardo a questo fondamentale principio direttivo - sempre poi interamente recepito, come sopra è stato detto, dalla giurisprudenza di legittimità (v., fra le altre sentenze, Cass. 18 ottobre 1999 n. 11727, Cass. 16 novembre 2000 n. 14443 e Cass. 2 novembre 2001 n. 13580) affetta dai vizi denunciati dal ricorrente – deve essere considerata la motivazione che 177 GIURISPRUDENZA 178 sorregge la sentenza impugnata su questo punto della controversia, dato che il Tribunale di Lodi, venendo meno a quello che era un suo precipuo dovere, non ha compiuto alcun accertamento in ordine alla lesione del diritto alla esplicazione della personalità del Pournos nel luogo di lavoro, con riflessi nella sua vita professionale e di relazione, né ha considerato che la mancata allegazione di uno specifico elemento di prova diretta in merito al pregiudizio derivante da tale lesione non valeva ad escludere la valutazione equitativa del danno. Per quanto concerne, in particolare, questo secondo vizio che inficia la sentenza impugnata, è noto che il potere discrezionale assegnato dall’art. 1226 c.c. al giudice del merito presuppone la ricorrenza di una duplice condizione e cioè che sia certa l’esistenza del danno e che sia impossibile o sommamente difficile provarne il preciso ammontare (cfr., fra le tante sentenze, Cass. 11 febbraio 1998 n. 1382 e Cass. 12 gennaio 1996 n. 188) e, a tal fine, vanno tenuti presenti i seguenti criteri: a) poiché la liquidazione equitativa del danno va effettuata soprattutto quando, in relazione alla peculiarità del fatto dannoso, riesca difficoltosa la precisa determinazione del pregiudizio subito dal danneggiato, il giudice, pur essendo tenuto a dare conto degli elementi di fatto presi in considerazione per pervenire alla decisione finale, non è però obbligato a fornire una dimostrazione minuziosa e particolareggiata del rapporto di consequenzialità fra gli elementi esaminati e l’ammontare del danno liquidato, sufficiente essendo che il suo accertamento scaturisca dall’apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio e “da un esame della situazione processuale globalmente considerata” (Cass. 15 gennaio 2000 n. 409 e Cass. 25 settembre 1998 n. 9588); b) la liquidazione equitativa, proprio riguardo alla specifica materia oggetto del presente giudizio, deve essere compiuta anche quando sia addirittura mancata la dimostrazione, in via diretta, dell’esistenza di un effettivo pregiudizio patrimoniale (Cass. 16 novembre 2000 n. 14443), dato che la prova presuntiva va ricavata dagli elementi di fatto relativi alla durata del demansionamento e dalle altre circostanze del caso concreto (Cass. 2 novembre 2001 n. 13580). Tenuto conto di tutti questi rilievi, non può essere tenuta ferma la sentenza impugnata nella parte in cui è stato escluso il risarcimento del danno derivante dal demansionamento (ormai definitivamente) acclarato nella sentenza passata in giudicato, avendo il giudice del rinvio, senza svolgere alcuna indagine in ordine alla concreta lesione patita dall’interessato e in base a una non attenta lettura della sentenza di annullamento pronunciata da questa Corte, preteso che da parte del danneggiato venisse fornita la prova rigorosa di un danno il GIURISPRUDENZA cui ammontare era sommamente difficoltoso dimostrare. Con il secondo motivo dell’impugnazione il ricorrente deduce un ulteriore vizio di violazione di legge (artt. 2909, 2103, 1226 c.c.) e di motivazione su punti decisivi della controversia, in relazione all’art. 360, primo comma n. 3 e 5, c.p.c., e lamenta che il Tribunale di Lodi abbia ritenuto che fosse carente la prova in ordine all’attuato demansionamento anche nel secondo periodo (dal 1° giugno 1990 al 16 maggio 1991) . Sostiene il P. che il Tribunale ha lasciato intendere che le successive mansioni erano inferiori a quelle originarie e che l’errore di fondo che inficia la sentenza impugnata consiste nell’assunto secondo cui bene aveva fatto la società datrice di lavoro ad attribuire al lavoratore tali inferiori mansioni per essere state soppresse quelle in precedenza assegnategli (di traduttore dalla lingua greca). Questo motivo non può essere oggetto di esame e di decisione da parte della Corte, giacché, come bene deduce la società resistente, la questione relativa al suddetto secondo periodo era ormai preclusa – e sulla stessa, per conseguenza, non doveva essere svolta alcuna indagine da parte del giudice del rinvio – non avendo il P. a suo tempo censurato davanti a questa Corte, su questo punto della controversia, la sentenza emessa dal Tribunale di Milano. Come risulta dal precedente ricorso per cassazione nonché dal contenuto della sentenza emessa da questa Corte il 18 ottobre 1997, il P. con il suddetto ricorso aveva investito la sentenza di appello solamente nella parte in cui era stata rigettata la sua domanda di danni relativa al primo periodo, ma non aveva dedotto alcuna specifica doglianza riguardo al mancato riconoscimento del demansionamento per il periodo dal 1° giugno 1990 al 16 maggio 1991: tanto è vero che la Corte nella decisione sopra indicata non aveva speso alcuna parola per argomentare su tale secondo periodo, avendo conclusivamente rilevato, a compendio di tutte le considerazioni esposte per sindacare la decisione impugnata, che, una volta “rilevate le conclusioni raggiunte con il precedente giudicato, al giudice di appello era inibito rimettere in discussione sia le mansioni oggetto della assunzione che quelle successivamente svolte in occasione dei due precedenti trasferimenti e il carattere deteriore di queste rispetto alle prime”. Pertanto, per effetto della intervenuta preclusione nella precedente fase del giudizio, il processo su questo punto della controversia non poteva proseguire davanti al giudice del rinvio, il quale, lungi dal deciderla nel merito, avrebbe dovuto dichiarare l’inammissibilità della relativa questione dedotta dall’interessato, non più prospettabile, per conseguenza, con l’impugnazione per cassazione. 179 GIURISPRUDENZA 180 Avuto riguardo a tutte le argomentazioni che precedono, in accoglimento del primo motivo del ricorso e pronunciando sul secondo motivo, la sentenza impugnata deve essere cassata. La cassazione – in applicazione, rispettivamente, degli artt. 383, primo comma, e 382, terzo comma, secondo periodo, c.p.c. – deve essere seguita dal rinvio della causa ad un altro giudice per la parte relativa al primo periodo del dedotto demansionamento (1° febbraio 1988-30 maggio 1990) e senza rinvio per la parte relativa al secondo periodo (1° giugno 1990-16 maggio 1991). Il giudice del rinvio, che deve essere designato nella Corte di Appello di Brescia, dovrà uniformarsi al seguente principio di diritto: “posto che dalla attribuzione al lavoratore di mansioni inferiori a quelle assegnategli al momento della assunzione in servizio può derivare non solo la violazione dell’art, 2103 c.c., ma anche la lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, garantito dagli artt. 1 e 2 della Costituzione, e posto che il pregiudizio correlato a siffatta lesione, promanantesi nella vita professionale e di relazione dell’interessato e avente indubbia natura patrimoniale, è suscettibile, di per sé, di risarcimento, l’ammontare di tale risarcimento può essere determinato dal giudice del merito mediante valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., anche in mancanza della allegazione di uno specifico elemento di prova da parte del danneggiato, la liquidazione dovendo essere effettuata in base all’apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio e relativi alla natura, alla entità e alla durata del demansionamento nonché alle altre circostanze del caso concreto”. Il giudice del rinvio dovrà anche provvedere sulle spese del presente giudizio di legittimità. P. Q. M. la Corte accoglie il primo motivo del ricorso, cassa la sentenza impugnata per la parte relativa al primo periodo del dedotto demansionamento (1° febbraio 1988-30 maggio 1990) e rinvia la causa alla Corte di Appello di Brescia. Pronunciando sul secondo motivo, cassa senza rinvio la sentenza impugnata per la parte relativa al secondo periodo (1° giugno 1990-16 maggio 1991). Il giudice del rinvio pronuncerà anche sulle spese di questo giudizio di legittimità. GIURISPRUDENZA Corte di Cassazione, sezione sesta penale, 12 marzo 2001, n. 10090 (Pres. Sansone; Rel. Garribba) Riferimenti normativi: artt. 572 e 571 c.p. Reati contro la famiglia - delitti contro l’assistenza familiare - maltrattamenti in famiglia - in genere - condotta attuata con modalità vessatorie verso dipendenti al fine del loro sfruttamento - elemento oggettivo del reato di cui all’art. 572 cod. pen. - sussistenza - abuso di mezzi di correzione o di disciplina (art. 571 cod. pen.) - esclusione. Integra il delitto di maltrattamenti previsto dall’art. 572 cod. pen., e non invece quello di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina (art. 571 cod. pen.), la condotta del datore di lavoro e dei suoi preposti che, nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, abbiano posto in essere atti volontari, idonei a produrre uno stato di abituale sofferenza fisica e morale nei dipendenti, quando la finalità perseguita dagli agenti non sia la loro punizione per episodi censurabili ma lo sfruttamento degli stessi per motivi di lucro personale (fattispecie relativa a un datore di lavoro e al suo preposto che, in concorso fra loro, avevano sottoposto i propri subordinati a varie vessazioni, accompagnate da minacce di licenziamento e di mancato pagamento delle retribuzioni pattuite, corrisposte su libretti di risparmio intestati ai lavoratori ma tenuti dal datore di lavoro, al fine di costringerli a sopportare ritmi di lavoro intensissimi). (massima e sommario ufficiali) (omissis) MOTIVI DELLA DECISIONE Con sentenza del 1° febbraio 1999 la Corte d’appello di Milano confermava le condanne alle pene di anni cinque e anni quattro di reclusione rispettivamente inflitte dal Pretore a E. O. e C. C., dichiarati colpevoli: - il primo, dei reati continuati di cui agli artt. 572 e 610 cod. pen., per avere, quale capogruppo responsabile di zona per le vendite porta a porta di prodotti per la casa per conto della ditta gestita da C. C., maltrattato, con atti 181 GIURISPRUDENZA 182 di vessazione fisica e morale, alcuni giovani sottoposti alla sua autorità nello svolgimento della attività lavorativa e, inoltre, per avere, con i medesimi atti di violenza fisica e morale, costretto i predetti giovani a intensificare l’impegno lavorativo oltre ogni limite di accettabilità; - il secondo, del reato continuato di cui all’art. 610 cod. pen., per avere, quale titolare della ditta predetta, avvalendosi del clima di intimidazione creato dai suoi capigruppo e omettendo di reprimere i loro eccessi, costretto gli anzidetti giovani ad aumentare l’impegno lavorativo oltre il tollerabile. Avverso tale sentenza entrambi gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione. E. denuncia violazione della legge penale e vizio di motivazione: in ordine alla ritenuta responsabilità per il reato di maltrattamenti, deducendo: l’insussistenza di un elemento costitutivo del reato, perché il rapporto di lavoro non può essere assimilato al rapporto di convivenza familiare previsto dall’art. 572 cod. pen.; che non sarebbe stato provato il dolo, perché gli isolati episodi di violenza sarebbero stati commessi con dolo d’impeto; in ordine al reato di violenza privata, deducendo che non sarebbe stata dimostrata la pretesa coazione, dato che i giovani erano assolutamente liberi di interrompere il rapporto di lavoro quando l’avessero voluto; in ordine alla pena inflitta, lamentando che essa sarebbe eccessiva non essendosi tenuto conto della condotta positiva susseguente al reato. Cominciando dall’esame del primo motivo, si osserva che, anche se l’ipotesi di reato di più frequente verificazione è quella che dà il nome alla rubrica dell’art. 572 cod. pen. (maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli), la norma incriminatrice prevede altresì le ipotesi di chi commette maltrattamenti in danno di persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, per l’esercizio di una professione o di un’arte. Si tratta di ipotesi di reato, in questi ultimi casi, in cui non è richiesta, a differenza della prima, la coabitazione o convivenza tra il soggetto attivo e quello passivo, ma solo un rapporto continuativo dipendente da cause diverse da quella familiare. Venendo al caso in esame, non v’è dubbio che il rapporto intersoggettivo che si instaura tra datore di lavoro e lavoratore subordinato, essendo caratterizzato dal potere direttivo e disciplinare che la legge attribuisce al datore nei confronti del lavoratore dipendente, pone quest’ultimo nella condizione, specificamente prevista dalla norma penale testé richiamata, di persona sottoposta alla sua autorità, il che, sussistendo gli altri elementi previsti dalla legge, permette di configurare a carico del datore di lavoro il reato di maltrattamenti in danno dal lavoratore dipendente. Vi è da GIURISPRUDENZA aggiungere che nel caso di specie il rapporto interpersonale che legava autore del reato e vittime era particolarmente intenso, poiché, a parte il contatto quotidiano dovuto a ragioni di lavoro, nel corso delle lunghe trasferte, viaggiando su un unico pulmino, consumando insieme i pasti e alloggiando nello stesso albergo, si realizzava tra le parti un’assidua comunanza di vita. Ma l’aspetto saliente della presente vicenda sta nel fatto, diffusamente illustrato dai giudici del merito, che l’imputato, con ripetute e sistematiche vessazioni fisiche e morali, consistite in schiaffi, calci, pugni, morsi, insulti, molestie sessuali e, non ultima, la ricorrente minaccia di troncare il rapporto di lavoro senza pagare le retribuzioni pattuite (minaccia assai cogente, dato che il lavoro era svolto in nero e le retribuzioni venivano depositate su libretti di risparmio intestati ai lavoratori, ma tenuti dal datore di lavoro), aveva ridotto i suoi dipendenti, tra i quali una minorenne, in uno stato di penosa sottomissione e umiliazione, al fine di costringerli a sopportare ritmi di lavoro forsennati, essendo il profitto dell’impresa direttamente proporzionale al volume delle vendite effettuate. Ne risulta, dunque, una serie di atti volontari, idonei a produrre quello stato di abituale sofferenza fisica e morale, lesivo della dignità della persona, che la legge penale designa col termine di maltrattamenti. Per quanto attiene poi all’elemento psicologico del reato, la sentenza impugnata ha posto in rilievo non soltanto la sussistenza del dolo, concentratosi nella coscienza e volontà di ledere in modo abituale l’integrità fisica e morale dei soggetti passivi, ma anche il movente, individuato nella ricerca del massimo profitto, che, al di là di ogni dubbio, prova il disegno sottostante ai singoli fatti di violenza e minaccia, che risultano quindi cementati da una volontà unitaria e persistente, che va oltre il singolo episodio. Il motivo di ricorso è quindi infondato. Il secondo motivo è manifestamente infondato, dato che la sentenza impugnata, proprio per rispondere alla deduzione difensiva già proposta con i motivi d’appello, ha spiegato che l’asserita libertà delle vittime, di licenziarsi in qualsiasi momento l’avessero voluto, era puramente apparente, perché, atteso il meccanismo del pagamento posticipato delle retribuzioni e del deposito delle relative somme su libretti di risparmio trattenuti dal datore di lavoro, esse temevano che, andandosene, si sarebbe verificato quanto era stato loro minacciato, cioè la perdita delle retribuzioni già maturate. È manifestamente infondato anche il terzo motivo, perché il giudice di merito ha indicato a quali dei parametri elencati dall’art. 133 cod. pen. si è attenuto nell’esercizio del potere discrezionale di determinazione della pena (la gravità dei fatti, la durata nel tempo della condotta delittuosa, il numero 183 GIURISPRUDENZA 184 degli episodi e delle vittime), e tale scelta, essendo adeguatamente motivata, non è censurabile in sede di legittimità. Con motivo nuovo presentato ai sensi dell’art. 585 comma 4 cod. proc. pen., la difesa del ricorrente E. denuncia altro profilo di violazione della legge penale, sostenendo che i fatti contestati avrebbero dovuto essere qualificati come abuso dei mezzi di correzione e disciplina a mente dell’art. 571 cod. pen., perché la violazione e minacce costituivano manifestazione, seppure abnorme, del potere disciplinare che competeva al ricorrente quale responsabile dell’attività produttiva delle vittime. Anche questo motivo è palesemente infondato. L’abuso punito dall’art. 571 cod. pen. ha per presupposto logico necessario l’esistenza di un uso lecito dei poteri di correzione e disciplina, e quindi si verifica quando l’uso è effettuato fuori dei casi consentiti o con mezzi e modalità non ammesse dall’ordinamento. Venendo al caso concreto, si rammenta che lo Statuto dei lavoratori ha bandito ogni ricorso alla violenza da parte del datore di lavoro nei confronti del lavoratore subordinato, per cui le violenze nella fattispecie commesse non possono rientrare nella previsione dell’art. 571 cit. Non solo, ma alla sussistenza dei fatti nella fattispecie legale prevista dall’art. 571 osta la finalità perseguita dagli autori del reato nell’esercizio del preteso ius corrigendi. Come hanno rimarcato i giudici di merito, gli imputati perpetrarono sui giovani dipendenti le vessazioni fisiche e morali sopra descritte, non come punizione per l’erronea esecuzione del lavoro o per episodi di indisciplina o per altri fatti inerenti al corretto svolgimento dell’attività lavorativa, ma per costringerli a sopportare ritmi di lavoro altrimenti intollerabili, riducendoli di tal guisa in una condizione di sfruttamento di tipo schiavistico. La condotta afflittiva posta in essere dagli imputati non perseguiva dunque il fine educativo-correttivo che deve contraddistinguere l’uso dei mezzi di correzione, ma mirava soltanto a scopi di lucro personale. Il ricorso di E. deve dunque essere rigettato. C. denuncia mancanza e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta colpevolezza, sostenendo che no sarebbe stata fornita la dimostrazione ch’egli sapesse o incoraggiasse la condotta illecita dei suoi capigruppo, che, anzi, sarebbe risultato che, ogni qualvolta fu informato dei loro eccessi, egli intervenne per reprimerli. Si duole infine dell’entità della pena irrogata e del diniego delle circostanze attenuanti generiche. Il ricorrente C. è stato ritenuto colpevole del reato di violenza privata continuata in applicazione del principio stabilito dall’art. 40 cod. pen., secondo cui non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di GIURISPRUDENZA impedire, equivale a cagionarlo. Infatti, argomenta la sentenza impugnata, egli, quale imprenditore, era tenuto in forza dal disposto di cui all’art. 2087 cod. civ. ad adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, per cui, omettendo di porre fine alle vessazioni attuate dai capigruppo sui lavoratori dipendenti, se ne rese corresponsabile. Quanto al dolo, la Corte di merito, con motivazione coerente con le risultanze probatorie e logicamente ineccepibile, ha spiegato che il ricorrente era perfettamente consapevole dei metodi vessatori usati dai capigruppo (e anzi li condivideva, essendo personalmente interessato al massimo sfruttamento dei dipendenti, i cui libretti di deposito tratteneva a fini ricattatori), e, sebbene ripetutamente sollecitato dalle povere vittime a intervenire, nulla aveva fatto per reprimere o interrompere la condotta antigiuridica dei capigruppo. Le censure sollevate dalla difesa su questo punto sono dunque infondate, al pari di quelle concernenti il diniego delle circostanze attenuanti generiche (peraltro connesse dal primo giudice) e la misura della pena inflitta, che il giudice d’appello ha ritenuto di confermare, sottolineando, con valutazione discrezionale insindacabile, la notevole gravità dei fatti. P. Q. M la Corte di Cassazione rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento in solido delle spese processuali. 185 GIURISPRUDENZA Corte di Cassazione, sezione lavoro, 19 gennaio 1999, n. 475 (Pres. Sommella; Rel. Miani Canevari) Riferimenti normativi: artt. 1223, 1226, 2043, 2056 e 2059 c.c. 186 Risarcimento del danno - patrimoniale e non patrimoniale (danni morali) liquidazione equitativa del danno morale - criteri - determinazione della somma dovuta in una frazione dell’importo riconosciuto per il danno biologico - liceità. Risarcimento del danno - patrimoniale e non patrimoniale (danni morali) danno biologico e danno patrimoniale - distinzione - criteri - riferimento rispettivamente, per il primo, alla gravità dell’inabilità e, per il secondo, alla riduzione della capacità di guadagno - necessità - fattispecie. La liquidazione del danno morale da fatto illecito, pur rimessa alla valutazione equitativa del giudice, deve essere compiuta rispettando l’esigenza di una razionale correlazione tra l’entità’ oggettiva del danno e l’equivalente pecuniario, sicché solo nella effettiva considerazione del danno concreto (risultante dalla motivazione della sentenza) e al di fuori di ogni automatismo, può considerarsi legittimo il ricorso al criterio di determinazione della somma dovuta per il risarcimento in questione in una frazione dell’importo riconosciuto per il danno biologico. Nella determinazione del danno alla persona il danno biologico e quello patrimoniale (considerato cioè per i riflessi della lesione sul piano economico reddituale) attengono a due distinte sfere di riferimento, dovendosi avere riguardo per il secondo alla riduzione della capacità di guadagno, e, per il primo, prevalentemente alla gravità dell’inabilità. (Nel caso di specie, la S.C. ha ritenuto non conforme a diritto, in relazione a tale principio, e privo di giustificazione logica il criterio seguito dai giudici di merito che avevano liquidato il risarcimento del danno alla capacità reddituale nella misura di un terzo di quanto attribuito a titolo di ristoro del danno biologico). (massime e sommari ufficiali) (omissis) GIURISPRUDENZA SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con ricorso al Pretore di Lecce G. C., già dipendente della società E., deduceva l’illegittimità del comportamento della datrice di lavoro che l’aveva sottoposta a continue vessazioni, tra l’altro con la richiesta sistematicamente ripetuta di visite di controllo del suo stato di malattia, determinando l’aggravamento dello stato patologico consistente in una sindrome ansioso depressiva di natura reattiva; chiedeva quindi, oltre all’accertamento del proprio diritto alle ferie e ai riposi, la condanna della convenuta al risarcimento dei danni, anche morali, subiti e subendi, da liquidarsi a prudente criterio del giudicante. Il Pretore adito pronunciava su questa domanda condannando la convenuta al pagamento della somma di lire 45.375.000 a titolo di risarcimento del danno biologico, oltre a rivalutazione ed interessi. Su appello proposto da entrambe le parti, il Tribunale di Lecce con sentenza del 9 agosto 1996 riformava parzialmente tale decisione, condannando la società convenuta in primo grado al pagamento di ulteriori somme a titolo di risarcimento dei danni alla capacità lavorativa, del lucro cessante in relazione alle retribuzioni perdute e del danno morale, oltre rivalutazione ed interessi. Il Tribunale, dopo aver disatteso l’eccezione di nullità del ricorso introduttivo del giudizio, ha affermato la responsabilità della datrice di lavoro per il danno cagionato alla dipendente con l’aggravamento e la definitiva stabilizzazione della malattia (prima emendabile e derivata da disturbi della personalità), ravvisando un elemento scatenante della patologia riscontrata nelle continue visite fiscali cui la C. fu sottoposta su richiesta della datrice di lavoro, con frequenza quotidiana; l’intento persecutorio della società era dimostrato anche dal fatto che questa aveva sistematicamente ignorato i risultati delle visite di controllo, con le quali era stata sempre confermata la persistenza della malattia, continuando a richiedere ogni giorno una nuova visita. Il giudice dell’appello, dopo aver confermato la statuizione del Pretore in ordine alla liquidazione del danno biologico, affermava che la responsabilità risarcitoria si estendeva al pregiudizio conseguente alla parziale perdita della capacità lavorativa, al danno per lucro cessante e al danno morale. Avverso questa sentenza la soc. E. propone ricorso per cassazione affidato a quattro motivi. G. C. resiste con controricorso. 187 GIURISPRUDENZA MOTIVI DELLA DECISIONE 188 1. Con il primo motivo la società ricorrente denuncia i vizi di violazione e falsa applicazione dell’art. 414, nn. 3, 4 e 5 e dell’art. 164 c.p.c., nonché omessa insufficiente motivazione, censurando la statuizione di rigetto delle eccezioni di nullità del ricorso introduttivo. Rileva l’assoluta inderminatezza della generica richiesta di risarcimento dei danni, in assenza di indicazioni sulle singole voci di danno e di una necessaria quantificazione del risarcimento richiesto (che non può essere demandata all’impulso dell’organo giudicante e ai risultati di una consulenza tecnica); deduce inoltre che l’attrice in primo grado non ha specificato gli elementi di diritto posti a fondamento della domanda, qualificando il titolo giuridico della pretesa responsabilità della convenuta (riferibile ad una responsabilità contrattuale o extracontrattuale) e prospettando, quanto al danno morale, la sussistenza di una fattispecie penalmente rilevante. Il motivo appare infondato. Nel rito del lavoro, per aversi nullità del ricorso introduttivo del giudizio, ai sensi dell’art. 414, n. 3 e n. 4, c.p.c., in relazione all’art. 156 dello stesso codice, occorre che il petitum, sotto il profilo sostanziale e processuale (ossia il bene della vita richiesto ed il provvedimento giudiziale invocato), nonché le ragioni della domanda siano del tutto omessi ed assolutamente incerti, al punto che non sia possibile rilevarli attraverso l’esame complessivo dell’atto, la cui interpretazione è riservata al giudice del merito; l’onere della determinazione dell’oggetto della domanda può ritenersi poi assolto anche in difetto di quantificazione monetaria della pretesa dedotta, quando di questa siano indicati i titoli (giurisprudenza costante: v. per tutte Cass. 17 marzo 1986, n. 4413; Cass. 14 febbraio 1987, n. 1654; Cass. 18 novembre 1987, n. 8456, Cass. 27 febbraio 1998, n. 2205). D’altro canto, una volta dedotta la situazione di fatto che giustifica la garanzia attribuita dalla legge, la individuazione del fondamento normativo che la sorregge attiene ad una questione di qualificazione giuridica, che il giudice deve compiere – senza essere condizionato dalla formula adottata dalla parte – tenendo conto dei contenuto sostanziale della pretesa e del provvedimento chiesto in concreto (cfr. Cass. 22 giugno,1995, n. 7080; Cass. 2 febbraio 1996, n. 900). Nella fattispecie, le ragioni poste dall’attrice a fondamento della domanda sono identificate con l’allegazione di un danno alla persona dovuto ad un comportamento della datrice di lavoro, fonte di responsabilità risarcitoria; la richiesta del risarcimento dei “danni, anche morali, subiti e subendi” “da liquidarsi a prudente criterio del giudicante” appare, così come formulata, GIURISPRUDENZA certamente esaustiva, in quanto idonea a comprendere tutti i profili del pregiudizio subito (cfr. Cass. 27 luglio 1995, n. 8216) rilevanti ai fini della determinazione dell’oggetto della domanda. 2. Con il secondo motivo si eccepisce (per la prima volta in questa sede) il difetto di competenza del giudice adito, rilevandosi che la signora C. non ha invocato l’applicazione dell’art. 2087 c.c., e che la sussistenza del rapporto di lavoro è stata “degradata ... a mera occasione della commissione di un delitto”; la controversia doveva ritenersi quindi devoluta alla cognizione del tribunale secondo le regole ordinarie della competenza e non del giudice del lavoro. Il motivo appare inammissibile, perché l’incompetenza per materia dei giudice del lavoro non può essere dedotta per la prima volta in sede di legittimità ove la relativa questione, ancorché non preclusa dal giudicato, implichi l’esame di elementi e profili di fatto non ritualmente prospettati nelle pregresse fasi di merito; né, comunque, sussiste l’interesse a sollevare la relativa questione, quando la parte non alleghi alcuno specifico pregiudizio processuale derivato dalla mancata adozione del diverso rito (Cass. 20 settembre 1996, n. 8368). 3. Con il terzo motivo, che reca il titolo “violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2056 c.c., nonché degli artt. 2087, 1218, 1223, 1225, 1226 e 1227 c.c. ed altresì degli artt. 2059 c.c. e 185 c.p. – omessa insufficiente e contraddittoria motivazione” la sentenza impugnata viene censurata sotto diversi profili, che devono essere analiticamente esaminati tenendo conto delle loro connessioni. 3.1. L’apprezzamento in ordine al nesso causale tra l’aggravamento della malattia della signora C. e il comportamento della società datrice di lavoro viene criticato con i seguenti rilievi: - il Tribunale ha fondato il suo convincimento sulla deposizione del teste S., marito dell’attrice in primo grado, che non poteva essere ritenuto attendibile, anche perché riferiva su quanto appreso dalla moglie; - non era stato dimostrato l’intento persecutorio del datore di lavoro, né il suddetto nesso causale con le richieste all’Inps di visite di controllo; inoltre, il giudice dell’appello non ha tenuto conto della condotta dell’ente previdenziale, che avrebbe comunque dato un considerevole apporto alla determinazione dell’evento; - il danno risarcibile doveva essere limitato all’aggravamento riconducibile al comportamento datoriale, posto che (come riconosciuto nella sentenza impugnata) la signora C. era già portatrice di una patologia stabilizzata. 3.2. Con riguardo ai criteri adottati per la liquidazione delle singole voci di 189 GIURISPRUDENZA 190 danno, la ricorrente deduce che il risarcimento del danno biologico è stato determinato sulla base delle c.d. “tabelle milanesi” e quindi con riferimento ad una realtà socio economica che non corrisponde a quella dell’area territoriale del Mezzogiorno dove si è svolto il rapporto; che gli importi derivati dal calcolo tabellare sono stati “inspiegabilmente rivalutati” e che la valutazione è comunque eccessiva. 3.3. E poi sproporzionata la liquidazione del danno morale, calcolato in “poco più della metà del danno biologico”: la quantificazione al livello massimo rispetto ai criteri di solito seguiti è priva di motivazione, e potrebbe essere giustificata solo dalla commissione di gravi reati. 3.4. Quanto al danno alla capacità reddituale, si contesta che la signora C. abbia subito un danno permanente rilevante sotto questo aspetto; non si comprende poi in base a quali parametri il Tribunale abbia potuto rapportare l’importo spettante ad un terzo di quanto liquidato per il danno biologico. Risulta del resto una duplicazione del risarcimento, perché nelle tabelle di liquidazione è compreso anche il danno, alla capacità lavorativa generica. 3.5. Quanto al risarcimento del lucro cessante, si deduce che l’attuale resistente “non è tornata al lavora per sua libera scelta” perché se avesse seguito le terapie indicate nella consulenza tecnica avrebbe potuto riprendere la sua attività; si prospetta così un “concorso del creditore nella produzione dell’evento”. Sotto il profilo della responsabilità contrattuale, si deduce poi che “nessun danno era ragionevolmente prevedibile” e che comunque il risarcimento doveva essere. proporzionalmente ridimensionato; doveva essere anche considerato il fatto che la patologia sofferta dalla dipendente non era stata sino ad allora conosciuta dalla società. 4. Le censure meritano accoglimento nei limiti qui specificati. Il Tribunale, con un giudizio di fatto sorretto da adeguata e logica motivazione (che fa riferimento anche ai risultati dell’indagine peritale) ha accertato che la ricorrente in primo grado era affetta da “sindrome ansioso-depressiva in una organizzazione di personalità abnorme”; lo stato patologico connesso al disturbo della personalità era, fino ad una certa epoca, comunque compatibile con lo svolgimento normale dell’attività lavorativa, nonostante una situazione di equilibrio instabile. Quando peraltro la signora C. si assentò dal servizio per malattia, la società datrice di lavoro determinò l’aggravamento dello stato patologico con un atteggiamento persecutorio, consistente nella ripetuta richiesta di visite mediche di controllo; la sentenza parla in proposito di un continuo ed immotivato stillicidio di queste visite, che secondo un ordine di un dirigente GIURISPRUDENZA della società dovevano essere eseguite continuamente e quotidianamente, anche di sabato e domenica (deposizione teste C.), senza alcuna giustificazione perché in ogni occasione era stata confermata la diagnosi relativa alla personalità riscontrata ed era stata formulata la medesima prognosi di durata dell’infermità. L’intento persecut6rio era così chiaramente dimostrato, perché nonostante i risultati degli accertamenti la datrice di lavoro aveva insistito nelle richieste di controllo ignorando sistematicamente le certificazioni dei medici dell’Inps. Tale comportamento aveva determinato un aggravamento della malattia, tale da portare ad una invalidità permanente corrispondente ad una riduzione della capacità lavorativa del 20 per cento: la datrice di lavoro è responsabile dello stato di definitiva stabilizzazione della malattia (con postumi permanenti) e quindi dell’intera percentuale di invalidità riconosciuta, dato che la situazione preesistente consentiva una normale vita lavorativa. 4.1. Queste valutazioni si sottraggono alle critiche riportate nel precedente punto 3.1., formulate in modo del tutto generico per quanto riguarda l’accertamento della responsabilità della datrice di lavoro (senza l’indicazione di specifiche circostanze insufficientemente esaminate); il convincimento espresso non si basa dei resto sulle dichiarazioni del teste S., alle quali non si assegna valore decisivo rispetto alle altre risultanze valutate. Anche la deduzione relativa al mancato apprezzamento della condotta dell’ente previdenziale è formulata in termini del tutto generici, ed appare comunque priva di rilevanza giuridica in relazione alla identificazione della condotta dell’attuale ricorrente come antecedente necessario del fatto lesivo, in applicazione della regola generale della equivalenza delle cause che comporta l’inclusione nel risarcimento di tutti i danni che si presentano come effetto normale di tale condotta, rientrando nella serie delle conseguenze ordinarie cui essa dà origine). 4.2. Ugualmente generica appare la censura di cui al punto 3.2., che attiene alla liquidazione del danno biologico effettuata dai giudici di merito secondo il sistema del c.d. punto di invalidità, nel quale – come precisato nella sentenza impugnata – la quantificazione del danno prescinde da qualsiasi parametro legato ad aspetti patrimoniali. Secondo un costante orientamento giurisprudenziale (v. Cass. 13 luglio 1995, n. 4255; Cass. 8 ottobre 1996, n. 8784. Cass. 2 luglio 1997, n. 5949; Cass. 16 luglio 1997, n. 6516; Cass. 22 maggio 1998, n. 5134) si tratta di un valido criterio di liquidazione equitativa, la cui adozione da parte del giudice del merito non è sindacabile in sede di legittimità, se sorretta da congrua motivazione in ordine all’adeguamento del valore medio del punto alle particolarità della singola fattispecie. La 191 GIURISPRUDENZA 192 ricorrente non formula alcuna critica specifica in ordine alla determinazione del parametro adottato nel caso concreto, e le deduzioni relative all’area territoriale da considerare non hanno alcuna rilevanza ai fini dell’applicazione del suddetto criterio, che prescinde dai riflessi della lesione subita sulla sfera patrimoniale. Analogo rilievo vale per la deduzione secondo cui gli importi liquidati sarebbero stati inspiegabilmente rivalutati, pur essendo stati utilizzati nel computo parametri e coefficienti “attualizzati”: l’assenza di indicazioni in ordine agli specifici elementi che il giudice dell’appello avrebbe erroneamente utilizzato non consente di verificare in questa sede la fondatezza della critica. 4.3. Per quanto riguarda la condanna al risarcimento del danno morale, i presupposti della relativa statuizione ricorrono quando il giudice civile ravvisi nel fatto generatore del danno un’ipotesi di reato: nella specie, tale accertamento è stato compiuto dal Tribunale con il rilievo (non sottoposto a censura) della configurabilità di fattispecie di lesioni personali volontarie penalmente rilevanti. Il Tribunale non indica peraltro le ragioni per cui il risarcimento è stato stabilito nella misura di metà di quanto attribuito a titolo di danno biologico; risulta così violato il principio secondo cui la liquidazione del danno morale da fatto illecito, pur rimessa alla valutazione equitativa del giudice, deve essere compiuta rispettando l’esigenza di una razionale correlazione tra l’entità oggettiva del danno e l’equivalente pecuniario, sicché solo nella effettiva considerazione di ogni aspetto del caso concreto (risultante dalla motivazione della sentenza) e al di fuori di ogni automatismo, può considerarsi legittimo il ricorso al criterio di determinazione della somma dovuta per il risarcimento in questione in una frazione dell’importo riconosciuto per il danno biologico (Cass. 21 maggio 1996, n. 467 1; Cass. 29 maggio 1998, n. 5366). Sotto questo profilo è quindi fondata la denuncia di vizio di motivazione di cui al punto 3.3. 4.4. Merita poi accoglimento la successiva censura di cui al punto 3.4. Il giudice dell’appello, dopo aver correttamente distinto il danno alla salute inteso nel senso sopra indicato - dalla lesione della capacità di produrre reddito, riferita agli accertati postumi invalidanti, ha liquidato questa voce di danno (prendendo a base gli stessi calcoli effettuati per il danno biologico) nella misura di un terzo della somma riconosciuta per tale titolo. La sentenza non indica le ragioni poste a base di questa statuizione, che si pone in evidente contrasto con la premessa enunciata e con gli stessi principi correttamente richiamati. Nella determinazione del danno alla persona il GIURISPRUDENZA danno biologico e quello patrimoniale (considerato cioè per i riflessi della lesione sul piano economico reddituale) attengono a due distinte sfere di riferimento, dovendosi avere riguardo per il secondo alla riduzione della capacità di guadagno e, per il primo, prevalentemente alla gravità della inabilità; per la stessa ragione il danno patrimoniale derivante dalla riduzione della capacità lavorativa generica è risarcibile autonomamente dal danno biologico soltanto se vi è la prova che il soggetto leso svolgesse – o fosse presumibilmente in procinto di svolgere – un’attività lavorativa produttiva di reddito (v. per tutte Cass. 15 aprile 1996, n. 3539; Cass. 15 novembre 1996, n. 10015). Non trova dunque alcuna giustificazione logica la liquidazione del danno alla capacita reddituale secondo un parametro del tutto eterogeneo, indipendente dal ruolo che i requisiti ed attributi biologici della persona sono in grado di svolgere sulle capacità di reddito, e collegato alla sfera di incidenza non patrimoniale di essi. La Corte osserva che il risarcimento del danno in questione doveva essere invece stabilito accertando in concreto in relazione l’incidenza dell’invalidità, in relazione ai redditi conseguibili in assenza della menomazione subita; tale aspetto non è stato affatto esaminato, mentre non risulta neppure rispettato (data l’impostazione adottata) il criterio da applicare perché il risarcimento del danno sia completo e per altro verso non si traduca in un arricchimento senza causa. A tal fine, secondo la costante giurisprudenza, le liquidazioni delle due distinte voci di danno devono essere tenute presenti contemporaneamente affinché la liquidazione complessiva sia corrispondente al danno nella sua globalità che costituisce l’oggetto del risarcimento, riferibile alla proiezione negativa nel futuro di un medesimo evento (v. Cass. 19 aprile 1996, n. 3727; Cass. 22 aprile 1998, n. 4071). 4.5. Le somme attribuite a titolo di lucro cessante sono riferibili ad una voce di danno diversa rispetto a quella da ultimo esaminata, cosi da escludere una duplicazione di risarcimento, in quanto il pregiudizio connesso ai riflessi proiettati nel futuro dell’invalidità permanente sulla capacità di guadagno sia concettualmente distinto da quello in concreto verificatosi a seguito dell’interruzione delle prestazioni della ricorrente in primo grado nell’ambito del rapporto di lavoro instaurato tra le parti e conclusosi con il recesso della signora C. Di tale danno la sentenza impugnata ha tenuto conto riconoscendo il diritto della lavoratrice all’equivalente delle retribuzioni spettanti per l’intero periodo di assenza, sul rilievo che questa si era protratta per fatto e colpa dell’azienda stessa. Tale statuizione sfugge alle critiche mosse (v. punto 3.5), in cui il dedotto concorso del danneggiato nella 193 GIURISPRUDENZA 194 produzione dell’evento non trova alcun supporto nella ricostruzione della vicenda compiuta dai giudici del merito: l’accertata situazione di invalidità permanente esclude infatti l’emendabilità con terapie e la possibilità di una piena ripresa dell’attività lavorativa senza riduzione di capacità di guadagno. Gli ulteriori rilievi in ordine alla prevedibilità dell’evento lesivo e alla conoscenza della malattia trovano ugualmente confutazione nel medesimo apprezzamento di fatto (in particolare, per la circostanza della prosecuzione dei continui controlli quando i dati sulla situazione patologica erano già stati acquisiti); si deve d’altro canto rilevare che il criterio della prevedibilità di cui all’art. 1225 c.c. coincide tendenzialmente con quello della regolarità causale, nel senso di comprendere del danno risarcibile le conseguenze pregiudizievoli dell’inadempimento che di questo rappresentino effetti immediati e diretti o effetti mediati e indiretti rientranti comunque nella serie delle conseguenze normali ed ordinarie dell’inadempimento medesimo, in base ad un giudizio di probabile verificazione rapportato all’apprezzamento dell’uomo di media diligenza; ai fini dell’applicazione che limita il risarcimento a quello l’obbligazione, è sufficiente la consapevolezza di dovere una determinata prestazione ed omettere di darvi esecuzione intenzionalmente, senza che occorra altresì il requisito della consapevolezza del danno (Cass. 30 ottobre 1984, n. 5566; Cass. 25 marzo 1987, n. 2899). 5. Con l’ultimo motivo la ricorrente denuncia “inadeguatezza e nullità della c.t.u.”, affermando la totale inadeguatezza dell’indagine peritale, che avrebbe dovuto offrire al giudice la possibilità di distinguere ed individuare in modo ben preciso la limitazione della responsabilità datoriale. La consulenza tecnica “è nulla” perché la risposta ai quesiti posti dal giudicante è estremamente generica: il c.t.u. ha quantificato nella misura del 20 per cento il grado di invalidità determinatosi, senza specificare però “se la medesima invalidità fosse espressione di un danno biologico strettamente considerato, e se intendesse ricomprendere accanto al danno alla capacità lavorativa generica del soggetto anche quella specifica, ancora se abbia inteso quantificare il solo danno biologico, il solo danno alla capacità reddituale o entrambe le voci di danno”. La censura – che avrebbe dovuto essere rivolta direttamente alla valutazione da parte del giudice delle risultanze dell’indagine – non merita accoglimento, per quanto finora rilevato a proposito del terzo motivo di ricorso. Il grado di invalidità permanente determinato nella consulenza tecnica costituisce infatti un parametro per l’accertamento del danno biologico, da GIURISPRUDENZA riferire alla salute intesa come bene in sé, indipendentemente dalla capacità del danneggiato di produrre reddito ed a prescindere da questo; l’apprezzamento compiuto sul punto sfugge, come si è visto, alle critiche della parte ricorrente. Lo stesso elemento fornisce d’altro canto la necessaria base per la determinazione dei riflessi pregiudizievoli della lesione sulla capacità reddituale; sotto questo profilo, l’errore rilevato nella decisione impugnata non riguarda l’utilizzazione del suddetto elemento, ma l’adozione di un criterio di liquidazione che non considera la concreta incidenza dell’invalidità sui redditi conseguibili con l’attività lavorativa. La sentenza impugnata deve essere quindi annullata in relazione ai profili di censura accolti (v. punti 4.3. e 4.4.) con rinvio della causa ad altro giudice – designato nel Tribunale di Brindisi – che procederà a nuovo esame attenendosi ai principi sopra enunciati e provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità. (omissis) 195 GIURISPRUDENZA Tribunale di Roma, ord. 8 marzo 2002 (Giudice Di Sario) Riferimenti normativi art. 700 c.p.c. 196 Questioni processuali - demansionamento - decorso di un rilevante lasso temporale tra la proposizione dell’azione cautelare e i fatti dedotti in giudizio - inammissibilità del procedimento ex art. 700 c.p.c. per difetto del periculum in mora. Non è esperibile la procedura ex art. 700 c.p.c. per difetto del requisito dell’urgenza quando si vuole far fronte a comportamenti illeciti che, stante l’ampio tempo trascorso, hanno esaurito i loro effetti pregiudizievoli (nel caso di specie il Tribunale ha respinto il ricorso del lavoratore presentato all’inizio del 2002 per presunta dequalificazione professionale attuata a partire dal 1994, con conseguente patologia cardiaca nel 1996 e stato ansioso depressivo del 2001). Il giudice a scioglimento della riserva che precede; letti gli atti; premesso che con ricorso ex art. 700 c.p.c. L. S. ha chiesto al giudice di ordinare in via d’urgenza a Telecom Italia s.p.a. di assegnare ad esso ricorrente le mansioni corrispondenti alla sua qualifica professionale; che fissata l’udienza di comparizione delle parti, si costituiva Telecom Italia s.p.a. contestando il ricorso e chiedendone il rigetto; osserva: Presupposti necessari per la concessione della tutela d’urgenza sono la verosimiglianza circa l’esistenza del diritto azionato e la sussistenza del pericolo di un pregiudizio nelle more della conclusione del giudizio ordinario. Nel caso di specie difetta l’imprescindibile requisito del periculum in mora. Il ricorrente lamenta di avere subito a decorrere dal 1994 una dequalifacazione professionale per essere stato adibito ad attività di mera fotocopiatura di atti e documenti, mansione non corrispondente alla qualifica riconosciutagli dalla convenuta (V liv.), nonché di avere patito a decorrere dal maggio 2000 un totale demansionamento, protrattosi anche dopo l’ottobre 2000, quando era rimasto l’unico addetto alla sede di viale Parco dei Medici, nonché successivamente all’assegnazione, nel novembre 2001, alla sede di via Val Cannuta n.182. GIURISPRUDENZA Il lungo lasso di tempo trascorso tra i fatti denunciati e l’esercizio dell’azione è con ogni evidenza incompatibile con il carattere d’urgenza del procedimento ex art. 700 c.p.c., in particolare con l’imprescindibile presupposto del pregiudizio imminente ed irreparabile, che deve essere valutato necessariamente nell’immediatezza del verificarsi della situazione antigiuridica denunciata. La tutela cautelare trova la sua ragione d’essere nella urgenza, cioè nella necessita di evitare un pregiudizio imminente che non permette di attendere la conclusione del giudizio ordinano. La pronuncia sommaria, propria della tutela invocata, è giustificata essenzialmente dalla necessità di un intervento del giudice volto ad evitare, con una misura immediatamente esecutoria di segno contrario l’evento dannoso paventato o comunque gli effetti pregiudizievoli che devono “incombere con vicina probabilità”. Ne discende, allora, l’inammissibilità della tutela d’urgenza per fronteggiare comportamenti illeciti che, come nel caso di specie, stante l’ampio tempo trascorso, hanno esaurito i loro effetti pregiudizievoli. In tali casi essendosi già verificato e consumato il danno vi è spazio esclusivamente per la tutela risarcitoria, ma non certo per quella cautelare. Quest’ultima potrebbe trovare ingresso qualora fossero addotte circostanze ulteriori e tali da aggravare irrimediabilmente il danno già patito, ma una tale allegazione e dimostrazione difetta nel caso di specie. Ed invero il ricorrente in ordine al requisito del periculum si è limitato a dedurre di avere subito non solo un danno biologico ma anche un danno esistenziale e professionale, a fronte dei quali sarebbe necessario concedere un provvedimento ex art. 700 c.p.c. Per quanto concerne il danno alla salute (un infarto miocardio ed uno stato ansioso depressivo), innanzitutto difetta la prova del nesso causale tra le lamentate patologie e i fatti denunciati. Dalla documentazione sanitaria prodotta non è dato evincere alcun idoneo elemento al riguardo, stante la genericità delle indicazioni ivi contenute, né appare utile la prodotta relazione di parte redatta dal dott. F., nella quale l’affermata sussistenza del nesso di causalità è fondata esclusivamente sul racconto del ricorrente. Anche a volere prescindere dalla mancata dimostrazione del nesso causale, va evidenziato che la patologia cardiaca si è verificata nel 1996 e lo stato ansioso depressivo è stato diagnosticato nel luglio 2001 e dagli atti non è dato evincere alcun elemento che consenta di affermare che il tempo necessario a fare valere il diritto in sede ordinaria possa ulteriormente ed irrimediabilmente aggravare le descritte condizioni sanitarie. Neppure il consulente di parte ha espresso alcuna valutazione in merito; anzi il tenore delle conclusioni della relazione inducono a ritenere stabilizzato il danno 197 GIURISPRUDENZA 198 patito dal ricorrente, tant’è che risultano quantificati con precisione non solo l’entità delle conseguenze a carattere permanente, ma anche i periodi di inabilità temporanea totale e di inabilità temporanea parziale. In ordine al danno c.d. esistenziale è lo stesso ricorrente ad affermare di avere cessato ogni attività sociale, culturale e di relazione interpersonale sin dal 1996. Il lungo lasso di tempo trascorso è inconciliabile con l’invocata tutela, né sono stati fomiti elementi diversi e sopravvenuti tali da giustificare un intervento d’urgenza. Analoga considerazione vale per l’asserito danno alla professionalità da ricondurre alla dequalificazione del 1994 ed al demansionamento assoluto del maggio 2000. Al riguardo va innanzitutto osservato che, pur ritenendo violato il disposto dell’art. 2103 c.c., non in tutte le ipotesi di demansionamento o, comunque di mancata attribuzione al lavoratore di mansioni corrispondenti al proprio acquisito bagaglio professionale, può dirsi sussistere quel pregiudizio imminente e irreparabile che la legge pone come requisito indefettibile, da accertare caso per caso, per ottenere il provvedimento cautelare. Perché possa parlarsi di lesione irreparabile della protesa professionalità è necessario che il lavoratore alleghi e dimostri che il mancato esercizio delle proprie mansioni per effetto dell’illegittimo comportamento datoriale abbia come sicura conseguenza un depauperamento irreversibile del proprio bagaglio professionale oppure che lo sviluppo di quest’ultimo sia irrimediabilmente compromesso nelle more del giudizio, ciò che è logicamente ipotizzabile solo con riferimento a mansioni di particolare ed elevato contenuto tecnico, soggette a rapidissima obsolescenza o richiedenti l’utilizzo di specifiche tecnologie in costante e rapida evoluzione. Con riferimento alla fattispecie in esame, il ricorrente si è limitato ad affermare che il danno da dequalificazione è in re ipsa e ciò non è sufficiente per poter accogliere il ricorso, non apparendo le mansioni in precedenza svolte dal L. connotate dai requisiti sopra indicati. Inoltre l’amplissimo lasso di tempo trascorso ben avrebbe consentito al ricorrente di agire in via ordinaria per l’accertamento del proprio diritto e rende assolutamente ingiustificabile il ricorso alla tutela d’urgenza. L’assenza del periculum solleva dall’esame del fumus e delle ulteriori deduzioni contenute nel ricorso inerenti a quest’ultimo profilo. La natura della questione giustifica la compensazione delle spese di lite. P. Q. M. rigetta il ricorso; compensa le spese. GIURISPRUDENZA Tribunale di Roma, ord. 4 luglio 2002 (pres. Cortesani; est. Luna) [accoglie il reclamo avverso Tribunale di Roma, ord. 8 marzo 2002] (Giudice Di Sario) Riferimenti normativi: art. 2103 c.c.; art. 700 c.p.c 199 Questioni processuali - provvedimenti di urgenza - periculum in mora valutazione. Per la configurabilità di un pregiudizio grave e irreparabile ai fini dell’emissione di un provvedimento ex art. 700 c.p.c. bisogna considerare non il momento in cui ha inizio la condotta dannosa bensì il momento in cui il pregiudizio rischia di diventare irreparabile (nella fattispecie il Tribunale ha accolto il reclamo del dipendente che lamentava un demansionamento iniziato nel 1994 e culminato nel 2001 in una sindrome ansioso-depressiva). Con ricorso ex art. 700 c.p.c., depositato il 1° febbraio 2002, L. S., dipendente della Telecom Italia s.p.a., con inquadramento nel 6° livello contrattuale, premesso di aver sempre svolto fino al 1994 le sue mansioni partecipando alla realizzazione di filmati promozionali dell'immagine della soc. Italcable, poi incorporata nella Telecom, stabilendo i contatti con le ditte appaltatrici per le riprese e trattando le condizioni economiche e contrattuali delle forniture, nell'ambito del budget di spesa assegnategli dai preposti e dirigenti del settore, ha esposto che, dal 1994, le sue mansioni sono state progressivamente ridotte, essendogli stati assegnati inizialmente meri compiti d'ordine come fotocopiatura di documenti; che nel 1996 ha subito un infarto; che nel maggio 2000 un funzionario della società ha assegnato tutti i suoi compiti ad un suo collega; sicché egli è rimasto del tutto privo di ogni incarico; che mentre i suoi colleghi sono stati trasferiti in altra sede, egli è rimasto da solo senza ricevere alcuna disposizione; che nel corso del 2001, nonostante le assicurazioni ricevute da alcuni funzionari, ha continuato a rimanere del tutto privo di mansioni ed ha ricevuto pressioni per dar seguito ad una procedura di mobilità; che alla fine del mese del mese del luglio 2001, nonostante le assicurazioni ricevute da alcuni funzionari, ha continuato a rimanere del tutto privo di mansioni ed ha ricevuto pressioni per dar seguito ad una procedura di mobilità; che alla fine del mese del luglio 2001 si è ammalato di sindrome ansioso-depressiva ed ha dovuto iniziare un ciclo di GIURISPRUDENZA 200 psicoterapia presso il Centro mobbing della ASL Roma "E"; che nel novembre del 2001 ha ottenuto il trasferimento nella sede cui sono stati assegnati i suoi colleghi, ma neppure colà gli era stato conferito alcun incarico e la sua scrivania è rimasta vuota e neppure dotata di un telefono e di un computer. Il ricorrente, sostenendo che il datore di lavoro lo abbia illegittimamente privato delle sue mansioni, ha chiesto che sia ordinato alla società di adibirlo nuovamente a mansioni di impiegato di V livello secondo la definizione del contratto collettivo di settore. La società, costituitasi in giudizio, ha contestato la veridicità dei fatti esposti dal lavoratore evidenziando che il L. era stato solo contattato nel giugno 2000 ai fini di una eventuale volontaria adesione all'inserimento nelle liste di mobilità; che, essendo le richieste superiori alla disponibilità, non è stato possibile dare esecuzione alla manifestazione di volontà del lavoratore; che, nella seconda metà del 2000, riorganizzate alcune funzioni, il L. ha chiesto di essere assegnato ad una sede da lui ritenuta più comoda; che il ricorrente non si è mai lamentato delle mansioni affidate ed anzi parlava in termini estremamente positivi della possibilità di essere collocato in mobilità e quindi di cessare il rapporto nel corso del 2001; che alla fine del 2001, dopo numerose sollecitazioni da parte dell'azienda, egli ha predisposto quanto necessario per essere trasferito alla sede cui sono stati assegnati i suoi colleghi; che nel corso degli anni 2000-2001 i suoi superiori hanno incontrato spesso difficoltà nel coinvolgere il L. nelle attività di settore, essendo egli poco collaborativo e disinteressato; che solo di recente è stato inserito in un progetto relativo ai pannelli pubblicitari collocati all'interno delle sedi aziendali; e che la linea telefonica gli è stata attribuita mentre per il computer dovrebbe attivarsi egli stesso per chiedere un nuovo apparecchio. La resistente, quindi, negando che vi sia stato demansionamento e che possa esservi nesso di causa tra le patologie denunciate e l'attività lavorativa, ha chiesto il rigetto del ricorso. II giudice, con ordinanza 8 marzo 2002, n. 8222 reg. cron. ha respinto la domanda ritenendo carente il requisito del periculum in mora stante il lungo tempo trascorso tra i fatti denunciati e l'esercizio dell'azione, non essendo consentito ricorrere alla tutela d'urgenza per fronteggiare comportamenti illeciti che avevano ormai esaurito i loro effetti pregiudizievoli. Il lavoratore, con atto depositato il 19 aprile 2002, ha proposto reclamo ribadendo le proprie tesi e contestando in fatto e in diritto le motivazioni addotte dal primo giudice. La società resiste al reclamo. Tanto premesso, questo Collegio reputa fondato il reclamo. GIURISPRUDENZA Il reclamante sostiene che non può escludersi il periculum facendo riferimento al tempo intercorso tra il momento in cui il danno ha cominciato a manifestarsi, giacché, stando alle allegazioni contenute nel ricorso, in realtà, solo nel momento attuale gli illegittimi comportamenti del datore di lavoro, sono divenuti, per il loro successivo perdurare e per essersi configurati come volti alla totale privazione di mansioni, idonei non solo ad esporre la professionalità e la dignità del lavoratore al rischio di un danno grave ed irreparabile, ma anche a ledere il diritto alla salute, offeso specificamente e gravemente soltanto dal mese di agosto del 2001, epoca in cui egli, rientrato in servizio a seguito di malattia, non ha ricevuto alcun tipo di incarico sicché le sue condizioni di salute, già compromesse a causa dello stress lavorativo, sono progressivamente peggiorate fino a giungere al momento attuale in cui è posta in pericolo la sua stessa vita, tenuto conto degli esiti dell'infarto. Questo Collegio ritiene condivisibile la considerazione secondo cui, al fine di valutare la sussistenza del periculum, non deve aversi riguardo all'intervallo di tempo intercorrente tra il momento in cui il danno si sarebbe concretizzato e quello in cui viene proposto il ricorso in via d'urgenza, bensì, in conformità alla formulazione dell'art. 700 c.p.c., al tempo presumibilmente occorrente per la definizione del giudizio di merito, valutando la situazione in cui si trova l'interessato al momento in cui propone il giudizio cautelare nella prospettiva di giungere ad una definizione di merito. Proprio il trascorrere del tempo, invero, può far sì che una situazione "non pericolosa" in un certo momento, lo diventi per effetto del protrarsi della condizione asseritamene lesiva venutasi a creare. Nella fattispecie, invero, la situazione pregiudizievole, iniziata a verificarsi – secondo le allegazioni del lavoratore nel 1994 – avrebbe, in realtà, assunto consistenza soltanto dal maggio del 2000, quando si sarebbe verificata la totale privazione di mansioni ed avrebbe raggiunto un rilevante livello di gravità appena dal mese di agosto 2001 quando appunto il lavoratore ha iniziato a soffrire di sindrome ansioso-depressiva. Appare quindi evidente che, comunque, il pregiudizio grave ed irreparabile si è manifestato solo pochi mesi prima dell’inizio del procedimento cautelare e tale pregiudizio, nella prospettiva di un giudizio di cognizione che potrebbe non esaurirsi in breve tempo, appare vieppiù grave per il pericolo che le condizioni di salute del lavoratore peggiorino proprio a causa del protrarsi della situazione lesiva. Per quanto riguarda il fumus boni iuris, questo ben può allo stato ravvisarsi, salvo diversa valutazione riservata alla sede di merito, in quanto la società 201 GIURISPRUDENZA 202 non contesta tanto il fatto che il L. sia rimasto privo di mansioni, ma imputa all'atteggiamento poco collaborativo e disinteressato del lavoratore, il fatto di essere rimasto nella precedente sede mentre gli altri colleghi erano già stati trasferiti nella nuova, ed il fatto di non partecipare alle attività del settore cui era assegnato. Appare quantomeno singolare che il datore di lavoro, di fronte ad un atteggiamento meramente inerte del lavoratore, non si attivi in qualche modo per far valere il proprio diritto di ricevere la prestazione, ad esempio formulando espressi ordini di servizio se non altro a fine di contestare successivamente al lavoratore l'omesso adempimento. Può quindi ritenersi che, effettivamente, il L., nell'ultimo periodo, sia stato lasciato di fatto senza alcuna mansione. Tale situazione verosimilmente ha cagionato la sindrome ansiosodepressiva attestata dal medico curante nel luglio 2001 e confermata dal medico legale, Dott. F. con la relazione in atti, nella quale appunto si legge che "le condizioni di salute del L., alla fine del mese di luglio 2001 … sono progressivamente peggiorate, soprattutto con riguardo al profilo psicologico, essendo stato riscontrato un rilevante stato d'ansia, via via di crescente entità, con notevole grado di somatizzazione, disturbi depressivi incentrati sulla perdita della propria immagine professionale con sentimenti di sfiducia, pessimismo, incertezza sul futuro e idee di autosvalutazione; tale quadro si è di recente ulteriormente aggravato in relazione alle condizioni di continuo stress lavorativo". Né appare condivisibile, dato il carattere sommario della cognizione, l'affermazione del primo giudice secondo cui l'affermazione del nesso di causalità tra la situazione creatasi nel luogo di lavoro e le condizioni di salute è stata fondata sul mero racconto del paziente, giacché il medico non si limita a registrare ciò che il suo paziente gli riferisce, ma compie appunto una valutazione tecnica, quanto meno di verosimiglianza, tra i fatti riferiti ed i dati oggettivi riscontrati. Non del tutto privo di rilievo è poi il fatto che il lavoratore è in cura, dal settembre 2001, presso il Centro mobbing della ASL Roma E, giacché può presumersi che i sanitari di tale struttura abbiano riscontrato una situazione patologica cagionata dalla situazione lavorativa. Può quindi ritenersi sussistente la situazione di pericolo di un danno grave ed irreparabile per interessi di rilievo costituzionale (dignità alla persona, diritto al lavoro e diritto alla salute) che, in quanto attinenti alla sfera della tutela della persona, non sono suscettibili di integrale, effettivo ristoro per equivalente. GIURISPRUDENZA Deve pertanto ordinarsi alla società resistente di assegnare al L., mansioni corrispondenti alla sua qualifica professionale. Le spese della presente fase saranno regolate all'esito del giudizio di merito. P. Q. M. il Tribunale, pronunciando sul reclamo proposto dal L. S., avverso l'ordinanza del Giudice del Lavoro di Roma 8 marzo 2002, n. 8222 reg. cron., così provvede: 1. ordina alla Telecom Italia s.p.a. di assegnare a L. S. mansioni corrispondenti alla sua qualifica professionale; 2. fissa il termine di giorni 30 dalla comunicazione della presente ordinanza per l'inizio del giudizio di merito; 3. spese al definitivo. 203 CAPITOLO 3 DOCUMENTAZIONE 205 DOCUMENTAZIONE 207 Relazioni esplicative degli artt. 3, 5 e 6 della bozza di legge contro il mobbing Articolo 3 L’art. 3 al comma 1 tiene conto delle competenze regionali riguardanti l’assistenza e la prevenzione in materia di salute e, quindi, la diagnosi e la terapia dei disturbi correlati a violenza morale o psichica in occasione di lavoro. È parso pertanto indispensabile proporre di istituire appositi Centri Pubblici (regionali specializzati o di Diritto Pubblico specializzati, Università etc.) al fine di: a) certificare la diagnosi di sindrome correlata, sindrome non correlata o sindrome allo stato non sufficientemente correlabile, b) impostare tutti quei provvedimenti terapeutici necessari per la remissione della patologia. Al comma 2 si ravvisa la necessità della interconnessione dei Centri a livello nazionale in cui devono essere utilizzati spazi e personale specialisticamente formato ed esclusivamente dedicato, riconoscendo le figure professionali minime ed uniche per la diagnosi, che non può non essere frutto di una attività pluridisciplinare, rappresentate dal medico legale, medico del lavoro, psichiatra o psichiatra forense, psicologo clinico o del lavoro. Viene lasciata all’organizzazione interna dei Centri la possibilità di utilizzare tutte le specialità mediche, con il modello della consulenza, ma non della formulazione e formalizzazione della diagnosi finale. La necessità della interconnessione dei Centri è considerato requisito indispensabile al fine di evitare consultazioni continue in vari centri senza che tale attività venga di volta in volta riferita. DOCUMENTAZIONE 208 La interconnessione consente di non ripetere tutte le attività testologiche che per definizione non possono essere ripetute prima di un tempo minimo. La interconnessione consente il monitoraggio del fenomeno. Al comma 3 si vuole garantire il lavoratore circa il rispetto della privacy e della possibilità di utilizzare la diagnosi richiesta nei modi che ritiene più opportuni. Al comma 4, trattandosi di patologie non psicopatologicamente autonome e non essendo inquadrabili in sindromi cliniche specifiche, ma rientrando di volta in volta ed a seconda della personalità del soggetto colpito in sindromi già note, la terapia può essere affrontata oltre che presso gli stessi centri anche presso quelli già esistenti nei Dipartimenti di Salute Mentale distribuiti sul territorio. Articolo 5 Premessa La norma è intesa a offrire uno specifico strumento di tutela in via d’urgenza al lavoratore che abbia subito atti, atteggiamenti o comportamenti di violenza morale o psichica in occasione di lavoro da qualificarsi, ai sensi della bozza di legge in commento, come mobbing. Si è optato per l’introduzione di un procedimento ad hoc per soddisfare uno degli obiettivi prefissati dalla presente bozza di legge, e cioè quello di assicurare al lavoratore una tutela più immediata ed efficace rispetto a quella ordinaria (anche in via d’urgenza), nei casi in cui già sia intervenuto da parte dei Centri all’uopo deputati (e disciplinati dal precedente art. 3) un accertamento preliminare circa la sussistenza di un pregiudizio alla salute del lavoratore e circa la correlabilità delle condizioni di salute alla situazione lavorativa, in base ai parametri fissati con il protocollo allegato. In questi casi, il lavoratore potrà ottenere dal giudice adito competente, in termini ristrettissimi, un decreto immediatamente esecutivo che, se non opposto (secondo il meccanismo già collaudato con l’art. 28 della legge 20 maggio 1970 n. 300), diventerà definitivo senza bisogno di successivi accertamenti giudiziali a cognizione piena, come invece avviene in caso di tutela cautelare ai sensi dell’art. 700 c.p.c. Ovviamente in tutti gli altri casi (in cui il lavoratore non si sia rivolto al Centro o l’accertamento compiuto dal Centro non si sia concluso con una diagnosi di sindrome correlata) la tutela invocabile dal lavoratore sarà quella ordinaria (art. 700 c.p.c. e artt.413 e ss. c.p.c.). DOCUMENTAZIONE Comma primo Come si è detto, viene delineata una fase sommaria di competenza del giudice del lavoro. La legittimazione attiva per instaurare tale procedimento speciale spetta esclusivamente al lavoratore che abbia ottenuto dai Centri regionali di cui all’art. 3 una diagnosi di “sindrome correlata”. Non si è ritenuto di estendere la legittimazione ad altri soggetti (rappresentante per la sicurezza o organizzazioni sindacali) stante la delicatezza della materia, che coinvolge aspetti della personalità insuscettibili di valutazione da parte di estranei . Quanto alla legittimazione passiva, trattandosi di procedimento speciale finalizzato ad una tutela immediata di situazioni pregiudizievoli anche rispetto alla salute del lavoratore, si è ritenuto, in ossequio all’impianto della presente bozza legge (che detta precisi obblighi in capo al datore di lavoro) e, soprattutto, a quello della legge di riferimento (d.lgs. n. 626/94, espressamente richiamata nel precedente art. 1), di limitarla al datore di lavoro, ovviamente da intendersi alla stregua della definizione già contenuta nell’art. 2, lett. B) d.lgs. n. 626/94 (datore di lavoro: il soggetto titolare del rapporto di lavoro o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’organizzazione dell’impresa, ha la responsabilità dell’impresa stessa ovvero dell’unità produttiva, quale definita ai sensi della lettera i), in quanto titolare di poteri decisionali e di spesa. Nelle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest’ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale). Tale disposizione legislativa, che individua nel dirigente (o nel funzionario all’uopo preposto) il datore di lavoro per tutte le amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, T.U. n. 165/2001, sembra consentire il superamento di ogni dubbio circa la insussistenza della legittimazione passiva in capo al Ministro, anche in caso di rapporti di lavoro non privatizzati ai sensi dell’art. 3 T.U. n. 165/2001. Quanto ai rapporti di lavoro pubblico soggetti alla cd. privatizzazione, valgono le nuove norme sulla legittimazione introdotte dall’art. 16, lettera f) del T.U. 30 marzo 2001 n. 165, che attribuiscono al dirigente dell’ufficio dirigenziale generale il potere di promuovere e resistere alle liti, comportando il definitivo superamento del previgente regime di legittimazione degli organi dello Stato, come delineato dall’art. 52 del T.U. 30 ottobre 1933 n. 1611, novellato dalla legge n. 260 del 1958. 209 DOCUMENTAZIONE 210 Inoltre, essendo il presente procedimento speciale finalizzato alla inibitoria dei comportamenti vessatori, è sembrato più efficace evocare in giudizio il soggetto responsabile della organizzazione e della gestione dei rapporti di lavoro, in quanto non solo ad esso è comunque riconducibile l’attività dei propri dipendenti (che siano eventualmente gli esecutori materiali dei comportamenti vessatori), ma anche perché il dirigente in questione è l’unico soggetto titolare dei poteri necessari per poter attivare contromisure efficaci. Non può, infine, non rilevarsi come il lavoratore sia comunque facilitato nell’individuazione del soggetto da evocare in giudizio, soprattutto in quelle situazioni di vessazioni collettive, purtroppo non infrequenti nelle situazioni di cd. mobbing. Quanto al rito, il procedimento speciale in commento, analogamente al procedimento di cui all’art. 28 della legge 20 maggio 1970 n. 300 ed alle azioni di cui alle leggi 9 dicembre 1977 n. 903 e 10 aprile 1991 n. 125, è articolato in una prima fase di carattere urgente e sommario ed in una seconda fase, solo eventuale, a cognizione piena ed esauriente, che si svolge negli ordinari gradi di giudizio. La prima fase è caratterizzata dalla sommarietà dell’accertamento del giudice circa la sussistenza dei fatti dedotti dal ricorrente, da compiersi nel contraddittorio delle parti (è, infatti, prevista la convocazione delle parti), e si conclude con il decreto del giudice, immediatamente esecutivo, con cui viene accolto o respinto il ricorso. L’oggetto della tutela accordabile in questa fase è limitata alla inibitoria dei comportamenti ritenuti illegittimi ed alla rimozione dei relativi effetti, al fine di evitare il protrarsi e l’aggravarsi della situazione pregiudizievole lamentata, fatta salva, ovviamente, la proposizione in sede di opposizione o autonomamente delle azioni risarcitorie eventualmente conseguenti. Il termine breve di cinque giorni dal deposito del ricorso per l’emissione del provvedimento è, al pari degli altri termini (di due giorni) già previsti negli analoghi procedimenti speciali sopra richiamati, di natura ordinatoria; peraltro, pur non comportando l’inosservanza del termine alcuna illegittimità del provvedimento tardivo, l’espressa previsione di un termine breve vuole essere indicativa dell’assoluta tempestività con cui tale procedimento deve necessariamente concludersi. Sempre analogamente a quanto previsto nell’art. 28 L. n. 300/70, il decreto ha efficacia esecutiva ope legis e questa esecutività conserva fino all’esaurimento del giudizio di opposizione in primo grado. La particolare rilevanza degli interessi coinvolti, infatti, richiede che lo strumento di tutela accordato in sede cautelare possa essere revocato solo all’esito degli DOCUMENTAZIONE approfondimenti istruttori del giudizio di cognizione ordinario; non vi è dunque durante il giudizio di opposizione possibilità di sospensione dell’esecutività del decreto. Comma secondo Il presente comma disciplina il passaggio dalla fase sommaria a quella eventuale di opposizione, a cognizione piena ed esauriente. Legittimata a proporre opposizione è la parte soccombente nella fase sommaria; l’opposizione apre un ordinario processo di cognizione, articolato nei normali gradi di giudizio e con le forme del rito speciale del lavoro, espressamente richiamato dalla norma. Comma terzo Si è voluto espressamente specificare la possibilità per il lavoratore di introdurre nel giudizio di opposizione l’azione di risarcimento del danno, ampliando così l’oggetto del giudizio rispetto a quello già oggetto dell’accertamento sommario. Comma quarto Si è riproposto il comma quarto dell’art. 28 della legge 20 maggio 1970 n. 300, quale mezzo di coazione indiretta per il datore di lavoro all’osservanza del provvedimento reso all’esito del procedimento in commento. Comma quinto Nelle ipotesi in cui la controversia attenga a rapporti di lavoro rimasti sottoposti alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (ai sensi dell’art. 63, comma 4 del T.U. n. 165/2001) si è previsto che un procedimento analogo a quello di cui al primo comma possa essere instaurato davanti al tribunale amministrativo regionale. Il comma ripropone il medesimo schema già utilizzato dal legislatore nella l.n. 146/90, che aveva inserito, così codificando l’orientamento della giurisprudenza, due commi ulteriori all’art. 28 L. n. 300/70, nei quali si disciplinava il procedimento nei casi in cui il comportamento antisindacale avesse anche leso il diritto di un dipendente pubblico. Peraltro, essendo tali 211 DOCUMENTAZIONE 212 due commi stati abrogati (in virtù della devoluzione al giudice ordinario delle controversie sul pubblico impiego) dall’art. 4, L. n. 83/2000, si è posto il problema della sopravvivenza di tale disciplina relativamente ai rapporti di lavoro non contrattualizzati, e quindi rimasti sottoposti alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. A fronte di tali dubbi interpretativi, si è ritenuto opportuno reintrodurre espressamente nella norma che regola il procedimento speciale in questione la possibilità, per il dipendente pubblico non privatizzato, di proporre il ricorso d’urgenza avanti al tribunale amministrativo regionale, il quale provvederà con procedura speciale analoga a quella seguita avanti al giudice ordinario. Comma sesto Si è ritenuto di introdurre questa norma stante la peculiarità del procedimento speciale in commento rispetto alle ordinarie controversie di lavoro. Diversamente opinando, occorrerebbe introdurre una norma che regoli il rapporto tra il termine perentorio di 15 giorni per proporre opposizione e la procedibilità della domanda, in analogia a quanto disposto dall’art. 669 octies quarto comma c.p.c. per la causa di merito da instaurarsi all’esito del provvedimento ex art. 700 c.p.c. Articolo 6 La disposizione in esame recepisce le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza e dalla dottrina in merito ai danni risarcibili ai lavoratori che abbiano subito la lesione dei beni individuati dal combinato disposto di cui agli artt. 41, 2° comma, Cost. e 2087 c.c. (salute, dignità, personalità morale). Si osservi in particolare che viene recepita dal progetto di legge l’idea del danno esistenziale come categoria autonoma e distinta dal danno biologico, inquadramento questo fatto proprio dalla Sezione Lavoro della Suprema corte (Cass., sez. lav., 3 luglio 2001, n. 9009) e da diversi giudici di merito (cfr. ad esempio Trib. Pisa, sez. lav., 3 ottobre 2001; Trib. Forlì, sez. lav., 15 marzo 2001). L’opportunità di una tale impostazione discende dall’esigenza di mantenere disgiunte le due categorie di danno in questione, poiché, come anche rilevato dalla Cassazione, esse si differenziano, oltre che per i rispettivi contenuti, in relazione alla loro prova: DOCUMENTAZIONE - da un lato per il danno biologico, come anche recita l’art. 13 del decreto legislativo n. 38/2000, è necessaria la dimostrazione di una lesione dell’integrità psicofisica suscettibile di valutazione medico legale; - dall’altro lato, il danno esistenziale, incardinandosi sulla lesione di beni quali la personalità e la dignità del lavoratore non suscettibili di valutazione medico legale, non richiede la prova di pregiudizi della salute, bensì la dimostrazione, su un piano oggettivo, che la vittima abbia effettivamente sperimentato la compromissione di detti beni attraverso la frustrazione della sua persona sul luogo di lavoro. Siffatta impostazione della norma non implica tuttavia che ogni evento che rilevi ai fini della presente legge debba dare automaticamente luogo alla liquidazione di due poste risarcitorie, né che si dia così luogo a indesiderabili duplicazioni dei risarcimenti. Infatti la precisazione “anche disgiuntamente”, unitamente al riferimento alla valutazione equitativa, è finalizzata proprio ad evitare automatismi od inutili sovrapposizioni: - in primo luogo, il giudicante, con specifico riferimento alle prove acquisite sull’esistenza dei danni oggetto della richiesta risarcitoria, è tenuto a motivare la sua eventuale scelta di liquidare disgiuntamente le due poste risarcitorie; - in secondo luogo, la valutazione equitativa impone di coordinare il quantum riconosciuto ad ogni singola posta risarcitoria affinché la somma liquidata sia equa nella sua globalità. 213 DOCUMENTAZIONE Interventi per la prevenzione e tutela delle lavoratrici e dei lavoratori da molestie morali e psicologiche nei luoghi di lavoro CONSIGLIO REGIONALE DEL VENETO progetto di legge n. 221 214 PROPOSTA DI LEGGE d’iniziativa dei Consiglieri Nadir Welponer, Flavio Zanonato, Elder Campion, Adriana Costantini, Giovanni Gallo, Giampietro Marchese, Claudio Rizzato e Lucio Tiozzo Presentato alla Presidenza del Consiglio il 29 novembre 2001 RELAZIONE Premessa È stata definita una “patologia sociale dilagante”. Genera una sindrome composita, con sintomi migranti, che spesso inducono lo spaesato medico di famiglia ad annoverare tra i suoi assistiti un ennesimo apparente ipocondriaco. Questa sindrome, però, è la causa del 15% dei suicidi nel nostro Paese. E volendo essere cinici, non è questo il male peggiore, poiché ben più numerose e costose in termini produttivi, sociali e sanitari sono le sofferenze che essa causa. È la sindrome di chi viene fatto oggetto di mobbing. La parola è semplicemente una definizione che descrive una strategia, l’accerchiamento, ma dice poco dell’ansia e dell’angoscia, della paura, dello sconforto, della rabbia, del senso di impotenza, della disistima di se stessi, del desiderio insano di rivalsa e vendetta, della rassegnazione, della sfiducia negli amici ai quali non si riesce a raccontare e nel coniuge che non riesce a capire profondamente. Il mobbing è un subdolo modo per sbriciolare le certezze di una persona, per fargli credere di essere tanto debole da dover cedere per forza, incapace ormai di mettere in pratica tutto ciò che credeva di sapere. Spesso chi è stato vittima di mobbing – e mediamente i fenomeni durano circa cinque anni – non è più in grado di trovare un nuovo lavoro a livello di quello precedente, poiché mette ormai egli stesso in dubbio le proprie capacità, o perché è sfiduciato. DOCUMENTAZIONE Invece, ci dicono studi di comprovato prestigio, frequentemente il mobbizzato è il più preparato sul piano professionale, e diviene vittima di uno o più individui che per realizzarsi hanno bisogno di umiliare gli altri, o che per esistere hanno bisogno di distruggere una persona. O, semplicemente, di chi – fatto un semplicistico calcolo economico – constata come sia meno costoso eliminare un collaboratore mobbizzandolo che licenziandolo se e come previsto dai contratti nazionali. È infatti anche un fenomeno frequentissimo, ad esempio, nei casi di fusioni aziendali, quando inevitabilmente all’interno di una compagine vengono a trovarsi dei “doppioni” dal punto di vista dei ruoli. Il mobbing viene sempre esercitato su una vittima designata, sgradita per i motivi più disparati, che viene costretta in condizione di debolezza e aggredita più o meno palesemente da una o più persone in modo sistematico e per tempo prolungato, con lo scopo e/o la conseguenza di estrometterla. Talvolta, e il termine bossing lo definisce, la vittima viene invece attaccata con le medesime modalità esclusivamente dal superiore o dalla direzione con azioni spadroneggianti e di vessazione. Il mobbing è quindi una condotta impropria, che reca offesa alla personalità, alla dignità e all’integrità fisica o psichica di una persona. Si può tradurre in semplici abusi di potere o piuttosto in manipolazioni perverse e ambigue, che causano per questo danni maggiori creando altalenanti dubbi e conflitti continuamente smentiti o avvalorati, appositamente causati per destabilizzare una personalità. Infatti può presentarsi travestito da blandizia, da lusinga anche di tipo amoroso, da proposta di miglioramento. Spesso la molestia si instaura quando una vittima reagisce all’autoritarismo di un capo e rifiuta di lasciarsi asservire, diventando un bersaglio proprio per la sua capacità di resistere malgrado le pressioni. Ma quanto costa la resistenza in termini di salute? E quanto a lungo bisogna resistere se si ha famiglia? Se si desidera difendere la propria rispettabilità in casa e in società e non far sapere? Se non si accetta l’ingiustizia? Se si crede inizialmente che siano malintesi che si chiariranno? L’aurea regola del divide et impera coinvolge facilmente corresponsabili che sono più o meno costretti alla connivenza – quanto meno del silenzio – alla nostra attuale legge, che non prevede una definizione specifica per comportamenti di questa portata e non facilita la correlazione tra eventi riferibili ad un unico fenomeno. Esistono invece Paesi europei nei quali il mobbing è considerato e sanzionato come reato penale, e nei quali già da molti anni è codificato un 215 DOCUMENTAZIONE 216 comportamento, tanto da parte delle aziende come dei dipendenti, ormai quasi soltanto di prevenzione, essendo divenuta cultura comune la massima imperativa del rispetto della dignità e la tutela della salute anche psichica. Peraltro il mobbing non causa soltanto disturbi da affrontare con terapia psicologica o psichiatrica, bensì anche gravi patologie di tipo gastrointestinale, cardiologico, dermatologico, e ulteriori svariate reazioni psicosomatiche che sempre cronicizzano. Esistono costi sociali e sanitari assolutamente considerevoli in conseguenza di azioni di mobbing. Le conseguenze ricadono sulla famiglia e sui suoi equilibri, sull’azienda e sulla sua produttività, sugli istituti di previdenza sociale e sul sistema sanitario. Se il Veneto è la seconda regione italiana per produttività, è però quella con il più pesante disavanzo di costi sanitari. Noi riteniamo che il nesso sia inconfutabile, e da questa considerazione è nata l’esigenza morale e pratica di dare un apporto fattivo ad una situazione generalizzata per la quale si può prevedere esclusivamente una recrudescenza in valori esponenziali e in tempi sempre più brevi vista la vitalità produttiva del nostro territorio. Riteniamo infatti che, individuando grazie ad un’apposita legge di tutela e prevenzione i casi di effettivo mobbing, quantificando i costi che generano nel corso della loro evoluzione cosicché siano imputabili per rivalsa a chi li ha causati, sarà inizialmente possibile un consistente recupero in attivo delle spese sanitarie. Ed una volta creata la cultura della prevenzione, creato il concetto stesso di “patologia da mobbing” ed equiparandola ad una malattia professionale perché correlata al lavoro, le spese sanitarie saranno senza dubbio meno elevate. Si giungerà ad eliminare quel farraginoso intreccio di diagnosi “di copertura” che giustificano – attualmente in modo scorretto o inconsapevole – un alto tasso di assenteismo che probabilmente non è tale. Perché oggi sappiamo che malattia professionale è anche quella psicologica. Inoltre la produttività ad ogni livello sarà incrementata, poiché assolutamente ingenti sono i danni palesi e occulti che un mobbing consentito o non riconosciuto causa nell’ambito di un luogo di lavoro. In Italia, nonostante ancora il fenomeno non venga analizzato con procedure omogenee, si rileva una presenza dichiarata e constatata del 15% dei lavoratori che subiscono il mobbing. In realtà pubbliche o in grandi aziende, come ad esempio la scuola, le banche, le assicurazioni, si raggiungono punte del 45%. In presenza di casi di mobbing la produttività in DOCUMENTAZIONE azienda cala del 60%. Da indagini europee sappiamo che in Germania, ad esempio, un lavoratore mobbizzato costa all’azienda 150 milioni di Lire all’anno per perdite dovute all’assenza o al minor rendimento. Il 50% dei lavoratori colpiti è in malattia 6 settimane l’anno; il 31% è in malattia dal mese e mezzo a oltre tre mesi. L’assenteismo generale sale in azienda dal 23 al 34%. I riflessi sul prodotto interno lordo sono eclatanti: la municipalità di Ginevra ha calcolato che per molestie morali le aziende pubbliche e private della Confederazione perdono 2.400 miliardi di Lire all’anno. In Inghilterra si perdono 80 milioni di giorni lavorativi e 6.000 miliardi di Lire all’anno. In Germania la perdita di prodotto interno lordo è valutata in 220.000 1 miliardi di Lire, mentre negli Stati Uniti in 400.000 miliardi di Lire. Per l’Italia si può considerare per difetto una perdita di 100.000 miliardi di Lire all’anno. Se si considera che il 48% dei mobbizzati ha tra i 41 ed i 50 anni, che il 45% sono uomini ed il 55% donne, è spontanea per chiunque la valutazione di quanta sana, matura ed esperta forza-lavoro venga accantonata: nessuno può ritenersi estraneo al problema o alla eventualità passata presente o futura di coinvolgimento diretto o personale in un caso di mobbing. DESCRIZIONE L’art. 1 collega la presente proposta di legge agli articoli 1, 2, 3, 4, 32, 35, 41 della Costituzione Italiana e agli articoli 3, 4, 5 dello Statuto della Regione Veneto. Essa recepisce i contenuti del Trattato dell’Unione Europea e sue integrazioni del 30 maggio 2001, nonché le indicazioni della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea del 20 settembre 2000 e, in ultimo ma importantissime per l’attualità e le sollecitazioni, le indicazioni della Risoluzione della Commissione Affari Sociali del Parlamento Europeo del 20 settembre 2001. Caratteristica della presente legge è di supportare e integrare, con la sua applicazione, quanto già contenuto nell’art. 2087 del Codice Civile, e negli articoli 437, 451, 582, 590, 660 del Codice Penale, nonché nell’art. 13 della L. 300/1970 e nel D.L. 626/94. 1998: ricerca dell’Ufficio Internazionale del lavoro e ricerca Health & Safety Executive Britannica; 1997 ricerca Panse e Stegmann. 1 217 DOCUMENTAZIONE 218 L’art. 2 annovera i più palesi comportamenti a cui si applica la presente legge. Le violazioni amministrativamente sanzionabili dalla presente legge sono differenziate in base alla presenza di uno stato di malattia del lavoratore, a un evento di mobbing in assenza di malattia, agli interventi per la prevenzione da attuare da parte del datore di lavoro. Così come tra le funzioni del previsto Osservatorio regionale (art. 8) vi è l’attività di divulgazione di quanto stabilito per la tutela e per il raggiungimento di una comune cultura della prevenzione, agli operatori a ogni titolo coinvolti si raccomanda di diffondere l’informazione che gli strumenti ed i servizi istituiti dalla presente legge sono per l’interesse comune, tanto del lavoratore come del datore di lavoro, e pertanto fruibili da entrambi. Negli artt. 3, 4 e 5, al fine di perseguire il primario obiettivo della legge, che consiste nel diffondere una cultura di prevenzione del fenomeno “mobbing”, si auspica la più fattiva collaborazione tra le parti a qualsiasi titolo coinvolte: - le aziende sanitarie locali - le organizzazioni sindacali - le associazioni dei datori di lavoro - l’ispettorato del lavoro - gli istituti di previdenza. Si raccomanda che queste operino in sinergia, concordando gli interventi di massima sulla base di capitolati comuni, e il più possibile riferendosi al coordinamento del preposto Osservatorio istituito dalla presente legge. Poiché si ritiene che nella maggioranza dei casi di mobbing il lavoratore si rivolga in prima istanza al proprio medico, va posta estrema cura nella sensibilizzazione dei medici di base, che dovranno impegnarsi in un colloquio di anamnesi che comprenda ricerca di informazioni sull’ambito socio-lavorativo del paziente. Inoltre, per favorire la precoce individuazione dei casi di mobbing, sarà di particolare utilità la diligente denuncia di sospetti casi di malattia correlata al lavoro: un tempestivo riconoscimento delle situazioni a rischio, ancor prima che si manifestino sintomatologie accentuate, consentono un recupero del paziente tanto dal punto di vista medico che socio-lavorativo, mentre per contro situazioni misconosciute generano conseguenze gravi e croniche. L’art. 6 individua l’organo di vigilanza nell’esistente SPISAL (L. Reg. 54/82 e L. 626/94) competente territorialmente. Allo scopo di intervenire tempestivamente nel caso di malattia del lavoratore, e limitare i danni tanto personali quanto socio-sanitari derivanti da una situazione di mobbing, l’attività di vigilanza dispone del nuovo strumento del “collegio medico”, da DOCUMENTAZIONE convocare con urgenza previa constatazione della fondatezza della segnalazione ricevuta, e al fine di indirizzare eventualmente al più presto il lavoratore al medico specialista. L’art. 7 sancisce uno dei principi fondamentali della presente legge nell’intento di fondare una cultura della prevenzione basata su principi omogenei. A questo proposito si raccomanda che le organizzazioni sindacali in particolare, e ogni altro ente o associazione coinvolto nell’applicazione o divulgazione della presente legge, partecipino attivamente alla diffusione capillare della stessa, e che inaugurino sportelli di ascolto condotti da personale appositamente formato, per il quale l’Osservatorio potrà svolgere funzione di centro di riferimento. In particolare si raccomanda che, qualora vi sia da parte di terzi un impegno nel lavoro di sondaggio o statistica, si utilizzino questionari diffusi dall’Osservatorio o realizzati in collaborazione con lo stesso, al fine di non ingenerare equivoco nell’analisi dei dati che emergano da campagne di indagine o sensibilizzazione, e con lo scopo di utilizzare i dati stessi per una statistica comune sul territorio. L’art. 8 introduce lo strumento dell’ “Osservatorio regionale” descrivendone i compiti e determinandone la composizione. L’Osservatorio vuole essere il raccordo tra le parti coinvolte, il centro di raccolta e ridistribuzione delle risorse e delle conoscenze, il punto di riferimento per tutto quanto in futuro verrà stabilito nel recepimento definitivo delle indicazioni già emanate dalla Comunità Europea in materia di mobbing. L’art. 9 determina gli importi delle sanzioni amministrative per le violazioni agli obblighi imposti dalla presente legge. Rappresenta l’innovazione rispetto agli strumenti finora per legge disponibili, poiché introduce una fattispecie di evento finora non codificato in un concetto descritto e circoscritto. Va peraltro sottolineata in modo particolare l’attenzione posta nella prescrizione di applicare le sanzioni per entità commisurata, tra l’altro, alle dimensioni dell’attività economica. L’art. 10, attraverso la norma finanziaria, indica la volontà politica e amministrativa di affrontare nel modo più concreto e fondante il problema sociale del mobbing, sempre tenendo in prospettiva a media e lunga scadenza l’obiettivo di favorire la cultura della prevenzione. L’art. 11 fissa la data del 1° ottobre 2002 come scadenza idonea per rendere operativi gli strumenti stabiliti dalla presente legge. 219 DOCUMENTAZIONE Articolo 1 Finalità 220 1. La Regione del Veneto, nel rispetto dei principi costituzionali e comunitari, riconosce la funzione sociale del lavoro, si impegna per la sua tutela nel rispetto dell’integrità psicofisica della persona, e promuove le azioni e le iniziative atte a prevenire e risolvere fenomeni di molestie morali e persecuzioni psicologiche nel luogo di lavoro, di seguito denominate mobbing. Articolo 2 Ambito di applicazione 1. La presente legge riguarda gli atti ed i comportamenti di natura vessatoria o persecutoria, protratti nel tempo, posti in essere da parte del datore di lavoro e tali da creare un danno all’integrità psicofisica del lavoratore o collaboratore ai sensi della L. 142/2001, anche in assenza di uno stato di malattia del medesimo. 2. Ai fini della presente legge si intendono posti in essere dal datore di lavoro anche gli atti e comportamenti di cui al comma 1 che siano posti in essere, nella consapevolezza del datore di lavoro, da tutti i soggetti, con rapporto di lavoro subordinato e non, che collaborano in via continuativa nell’esercizio dell’impresa e/o comunque nell’esercizio dell’attività economica e nello svolgimento dell’attività aziendale; normalmente la consapevolezza del datore di lavoro si presume in via relativa, ma la presunzione è assoluta allorché il datore di lavoro non abbia ottemperato ad uno degli obblighi previsti nel seguente comma 3. 3. Il datore di lavoro ha l’obbligo di: a) redigere un documento contenente la descrizione dell’organizzazione aziendale nonché il codice interno di corretto comportamento che deve essere consegnato ad ogni lavoratore e che, commisurato alla propria organizzazione aziendale, deve contenere quanto meno il divieto di porre in essere: - strumentali e comunque immotivati atteggiamenti ostili - calunnie sistematiche al lavoratore o alla sua famiglia - maltrattamenti verbali e offese personali - linguaggio volgare o blasfemo - atti e/o comportamenti diretti ad intimorire e/o ad avvilire la persona, anche in forma velata o indiretta DOCUMENTAZIONE - critiche immotivate o esagerate - sabotaggio o impedimento deliberato dell’esecuzione del lavoro - impedimento all’accesso a notizie e informazioni inerenti l’attività lavorativa o fornitura di informazioni non corrette o incomplete - privazione degli strumenti necessari a svolgere l’attività - controllo dell’operato del lavoratore senza che egli ne sia informato e con l’intento di danneggiarlo - esclusione o emarginazione dai compiti abituali - delegittimazione dell’immagine privata e/o professionale anche di fronte a estranei - attribuzione di compiti eccessivi, sovraccarico di lavoro, attribuzione di lavori inutili, richiesta continua di lavoro straordinario non motivato o alternativamente sottrazione di lavoro - attribuzione di compiti dequalificanti - esclusione da iniziative di formazione o riqualificazione professionale - deliberato isolamento fisico del lavoratore; b) organizzare un’attività di formazione interna di almeno 4 ore annue sulla base delle indicazioni fornite dall’Osservatorio regionale di cui all’articolo 8. Articolo 3 Interventi regionali 1. La Regione, attraverso i dipartimenti di prevenzione delle unità locali sociosanitarie ed in collaborazione con le parti sociali interessate, promuove attività di informazione, formazione e ricerca volte a prevenire azioni di mobbing. 2. La Regione organizza appositi corsi di formazione per gli incaricati dei servizi di prevenzione e sicurezza degli ambienti di lavoro (SPISAL) del dipartimento di prevenzione. 3. In particolare, la Regione promuove e incentiva studi e ricerche su: a) l’incidenza dei costi sanitari, previdenziali, aziendali e sociali riferibili alle patologie da mobbing; b) le patologie psicosomatiche e sui trattamenti terapeutici, ovvero sulle conseguenze in ambito sociale e famigliare per le vittime del mobbing; c) il contenzioso legale in caso di mobbing. 221 DOCUMENTAZIONE Articolo 4 Azioni positive 222 1. Allo scopo di prevenire e limitare l’insorgenza e la diffusione del fenomeno del mobbing e le sue conseguenze negative, la Regione, in collaborazione con le parti sociali interessate, realizza azioni positive per la tutela e il sostegno del lavoratore e della sua famiglia: 2. In particolare le azioni positive consistono in: a) divulgazione di studi e ricerche sul mobbing attraverso l’Osservatorio regionale; b) realizzazione annuale, per i primi sei anni, di una campagna di informazione sociale su televisioni e stampa locali al fine di pubblicizzare la presente legge ed i servizi ad essa connessi; c) realizzazione di strumenti permanenti di documentazione e informazione con il coordinamento dell’Osservatorio regionale; d) incentivi per la realizzazione di supporti e terapie psicologiche di sostegno e riabilitazione per il lavoratore ed i suoi famigliari nonché, all’occorrenza, per l’autore delle azioni mobbizzanti; e) incentivi per la realizzazione di centri di ascolto presso organizzazioni sindacali, associazioni senza scopo di lucro, enti locali, associazioni di categoria, affinché in ogni realtà e dimensione lavorativa le vittime di mobbing abbiano garantite consulenza, assistenza legale e sostegno psicologico. Articolo 5 Programmazione degli interventi e delle azioni 1. Le azioni e gli interventi previsti dalla presente legge sono realizzati in base ad un piano triennale articolato su base annuale per il primo e secondo triennio, ed in seguito su base triennale. 2. Il Piano triennale è predisposto dall’Osservatorio regionale ed è approvato dalla Giunta regionale su proposta dell’Assessore regionale delle politiche dell’occupazione e della formazione, di concerto con l’Assessore regionale alle politiche sanitarie e l’Assessore regionale alle politiche sociali. 3. Con le medesime modalità di cui al comma 2 vengono approvati i programmi annuali del primo e secondo triennio per tutti gli interventi da realizzare in sinergia con enti locali, istituzioni, parti sociali e associazioni. 4. Il programma annuale esplica la parte attuativa nei dettagli, stabilendo direttive generali e particolari che verranno riprese ed aggiornate nei DOCUMENTAZIONE successivi piani triennali sulla base dei dati forniti dall’Osservatorio regionale. Articolo 6 Attività di vigilanza 1. L’attività di vigilanza nei luoghi di lavoro è attribuita agli SPISAL opportunamente integrati da medici e psicologi esperti in materia di mobbing. 2. Lo SPISAL, sulla base delle segnalazioni ricevute e previa valutazione della loro fondatezza, effettua apposite ispezioni nel luogo di lavoro, per accertare l’esistenza di azioni di mobbing, l’eventuale stato di malattia e l’assolvimento degli obblighi previsti dall’art. 2 comma 3. 3. Presso ogni SPISAL è istituito un collegio medico composto da un medico specialista in medicina del lavoro, da un medico specialista in medicina legale, da uno psicologo esperto in organizzazione del lavoro con il compito di confermare lo stato di malattia e di accertare la connessione tra stato di malattia ed azioni di mobbing. 4. Lo SPISAL, qualora accerti azioni di mobbing e uno stato di malattia, convoca il collegio medico di cui al comma 3 il quale decide entro 30 giorni dalla costituzione, salvo la possibilità di prorogare di altri 15 giorni per motivate esigenze; alle sedute del collegio medico possono presenziare un medico indicato dal lavoratore ed un medico indicato dal datore di lavoro. Articolo 7 Formazione degli operatori 1. Gli operatori coinvolti dall’attuazione della presente legge devono ricevere una formazione omogenea e comune. Tale formazione avviene, per i primi tre anni dall’entrata in vigore della legge, tramite gli appositi corsi istituiti dall’Osservatorio regionale di cui all’articolo 8, in collaborazione con le parti interessate. 2. Per i cicli triennali successivi i corsi sono stabiliti per l’integrazione sulla base dei dati forniti dall’Osservatorio regionale. 3. La Regione può bandire, attraverso l’Osservatorio regionale, borse di studio nelle materie oggetto della presente legge. 4. La Giunta regionale detta disposizioni attuative su quanto previsto ai commi 1 e 2 e 3. 223 DOCUMENTAZIONE Articolo 8 Osservatorio regionale 224 1. È istituito presso l’Assessorato regionale alle politiche dell’occupazione e della formazione, un Osservatorio regionale sulle molestie morali e le persecuzioni psicologiche nei luoghi di lavoro. 2. L’Osservatorio è un organo consultivo e di coordinamento, e svolge le seguenti attività: a) partecipa alla stesura del piano triennale e del programma annuale, fornendo man mano dati, informazioni e valutazioni su quanto svolto ad ogni scadenza per il perseguimento della finalità della legge; b) partecipa alla stesura del piano triennale per la Prevenzione sanitaria della Regione; c) provvede alla redazione dei criteri di valutazione dello stato di malattia riferibile a comportamenti e atti di cui all’articolo 2 e alla sua diffusione presso gli organi e gli operatori competenti; d) provvede alla redazione del questionario da inoltrare ai lavoratori in collaborazione con i dipartimenti di prevenzione delle ULSS e le organizzazioni sindacali per il censimento del fenomeno mobbing. e) offre attività di assistenza nei confronti di organi regionali e locali, enti pubblici, istituzioni, aziende sanitarie, aziende private, che adottino progetti e sviluppino iniziative in sintonia con le finalità della presente legge; f) effettua il monitoraggio sul territorio attraverso la raccolta del questionario e dei dati bio-statistici; g) mantiene i contatti e funge da fulcro per le attività sinergiche tra Università, ULSS, INAIL, Ispettorato del Lavoro e qualsiasi operatore a qualsiasi titolo coinvolto nell’attuazione della legge; h) programma e coordina i corsi di formazione continui necessari agli operatori come descritto all’articolo 7; 3. L’Osservatorio, presieduto dall’assessore regionale alle politiche dell’occupazione e della formazione o da un suo delegato, è costituito da: a) due rappresentanti dalle associazioni dei datori di lavoro maggiormente rappresentative a livello regionale; b) due rappresentanti dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello regionale; c) il responsabile della struttura regionale competente in materia di prevenzione sanitaria o suo delegato; d) un rappresentante di associazioni di volontariato che svolgano attività di centro di ascolto in materia di mobbing; DOCUMENTAZIONE e) un consigliere regionale. 4. I rappresentanti dell’Osservatorio sono nominati dal Consiglio Regionale, durano in carica per la legislatura e possono essere riconfermati. 5. L’Osservatorio può avvalersi della consulenza di un medico del lavoro, di uno psicologo di organizzazione del lavoro, di un medico legale, di un avvocato esperto di diritto del lavoro, di uno studioso in materia di mobbing, in qualità di riconosciuti esperti. 6. Ai componenti l’osservatorio si applicano le disposizioni di cui all’articolo 187 della legge regionale 10 giugno 1991, n. 12 e successive modificazioni. 7. Esercita le funzioni di segretario dell’Osservatorio un dipendente regionale di categoria non inferiore alla categoria direttiva. La Giunta regionale con propria deliberazione determina modalità e criteri di funzionamento. Articolo 9 Sanzioni 1. Per le violazioni delle disposizioni della presente legge si applicano le seguenti sanzioni amministrative: a) la violazione da parte del datore di lavoro di quanto previsto dall’art. 2, commi 1 o 2, è punita, in presenza di uno stato di malattia, con la sanzione amministrativa da Lire 10.000.000 a Lire 50.000.000; b) la violazione da parte del datore di lavoro di quanto previsto dall’art. 2, commi 1 o 2, è punita, in assenza di uno stato di malattia, con la sanzione amministrativa da Lire 5.000.000 a Lire 30.000.000; c) la violazione da parte del datore di lavoro di quanto previsto dall’art. 2, comma 3, lettera a) o lettera b), è punita, ciascuna violazione, con la sanzione amministrativa da Lire 5.000.000 a Lire 20.000.000. 2. L’applicazione delle sanzioni deve avvenire con provvedimento motivato che nella determinazione dell’entità tenga conto in via principale dell’intensità del dolo, del grado della colpa e delle dimensioni dell’attività economica. 3. Le sanzioni previste al comma 1 sono comminate dallo SPISAL territorialmente competente e sono destinate per il 50% al Dipartimento di Prevenzione della ULSS territorialmente competente per l’attività prevista all’articolo 6, e per il restante 50% agli scopi di formazione e prevenzione previsti dall’Osservatorio regionale. 225 DOCUMENTAZIONE Articolo 10 Norma finanziaria 226 1. Agli oneri derivanti dall’applicazione della presente legge, quantificati per l’anno 2002 in Lire 1,5 miliardi, si provvede mediante imputazione al Fondo globale spese correnti UO185 del Bilancio di previsione 2002 alla Partita: Interventi per la “Prevenzione e tutela delle lavoratrici e dei lavoratori da molestie morali e psicologiche nei luoghi di lavoro”. Articolo 11 Norma finale Le disposizioni della presente legge si applicano a decorrere dal 1° ottobre 2002. DOCUMENTAZIONE L.R. 11 luglio 2002, n. 16 Disposizioni per prevenire e contrastare il fenomeno del mobbing nei luoghi di lavoro IL PRESIDENTE DELLA GIUNTA REGIONALE DEL LAZIO Promulga la seguente legge: Articolo 1 Finalità 1. La Regione, in attuazione dei princìpi costituzionali enunciati negli articoli 2, 3, 4, 32, 35 e 37 della Costituzione, nel rispetto della normativa statale vigente e nelle more dell’emanazione di una disciplina organica dello Stato in materia, interviene con la presente legge al fine di prevenire e contrastare l’insorgenza e la diffusione del fenomeno del mobbing nei luoghi di lavoro. 2. La Regione individua nella crescita e nello sviluppo di una cultura del rispetto dei diritti dei lavoratori da parte di tutte le componenti del mondo del lavoro gli elementi fondamentali per il raggiungimento delle finalità indicate al comma 1 e per un’ottimale utilizzazione delle risorse umane nei luoghi di lavoro. Articolo 2 Definizione del mobbing 1. Ai fini della presente legge per mobbing s’intendono atti e comportamenti discriminatori o vessatori protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di lavoratori dipendenti, pubblici o privati, da parte del datore di lavoro o da soggetti posti in posizione sovraordinata ovvero da altri colleghi, e che si caratterizzano come una vera e propria forma di persecuzione psicologica o di violenza morale. 2. Gli atti ed i comportamenti di cui al comma 1 possono consistere in: a) pressioni o molestie psicologiche; b) calunnie sistematiche; c) maltrattamenti verbali ed offese personali; d) minacce od atteggiamenti miranti ad intimorire ingiustamente od avvilire, anche in forma velata ed indiretta; e) critiche immotivate ed atteggiamenti ostili; 227 DOCUMENTAZIONE 228 f) delegittimazione dell’immagine, anche di fronte a colleghi ed a soggetti estranei all’impresa, ente od amministrazione; g) esclusione od immotivata marginalizzazione dall’attività lavorativa ovvero svuotamento delle mansioni; h) attribuzione di compiti esorbitanti od eccessivi, e comunque idonei a provocare seri disagi in relazione alle condizioni fisiche e psicologiche del lavoratore; i) attribuzione di compiti dequalificanti in relazione al profilo professionale posseduto; j) impedimento sistematico ed immotivato all’accesso a notizie ed informazioni inerenti l’ordinaria attività di lavoro; k) marginalizzazione immotivata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e di aggiornamento professionale; l) esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo nei confronti del lavoratore, idonee a produrre danni o seri disagi; m) atti vessatori correlati alla sfera privata del lavoratore, consistenti in discriminazioni sessuali, di razza, di lingua e di religione. Articolo 3 Organi paritetici 1. Gli organi paritetici previsti dall’articolo 20 del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626 (Attuazione delle direttive 89/391/CEE, 89/654/CEE, 89/655/CEE, 89/656/CEE, 90/269/CEE, 90/270/CEE, 90/394/CEE, 90/679/CEE, 93/88/CEE e 1999/38/CE riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro) e successive modifiche, nell’ambito delle attribuzioni ad essi conferite in materia di formazione dei lavoratori, assumono iniziative e programmano interventi per sensibilizzare tutte le componenti del mondo del lavoro sulle problematiche di cui alla presente legge. Articolo 4 Istituzione di centri anti-mobbing 1. Le aziende sanitarie locali istituiscono o promuovono l’istituzione, anche mediante convenzioni con associazioni senza fini di lucro, di appositi centri, opportunamente dislocati sul territorio in relazione ai livelli occupazionali esistenti nell’ambito pubblico e privato, che forniscano adeguata assistenza al lavoratore oggetto di discriminazioni. I centri, nel caso DOCUMENTAZIONE in cui accertino l’effettiva esistenza di elementi atti a configurare le fattispecie di cui all’articolo 2, assumono, entro sessanta giorni dalla richiesta del lavoratore, iniziative a tutela del medesimo, ed in particolare: a) forniscono una prima consulenza in ordine ai diritti del lavoratore; b) avviano, qualora la situazione lo richieda, primi interventi di sostegno psicologico; c) nel caso in cui riscontrino la probabile avvenuta insorgenza di stati patologici determinati od aggravati dal mobbing, indirizzano il lavoratore, con il suo consenso, al servizio sanitario specialistico; d) segnalano al datore di lavoro, pubblico o privato, la situazione di disagio del lavoratore, invitandolo ad assumere i provvedimenti idonei per rimuoverne le cause. 2. Nel caso in cui il centro non accerti elementi atti a configurare le fattispecie di cui all’articolo 2, il lavoratore interessato può rivolgersi all’Osservatorio previsto all’articolo 6, richiedendo un’audizione. 3. Ciascun centro deve, in ogni caso, prevedere nel proprio ambito le seguenti figure professionali: a) un avvocato esperto in diritto del lavoro; b) un medico specialista in igiene pubblica; c) uno psicologo o psicoterapeuta; d) un sociologo; e) un assistente sociale. 4. I centri provvedono a trasmettere periodicamente all’Osservatorio di cui all’articolo 6 dati ed informazioni relative ai casi trattati, nel rispetto della normativa vigente in materia di tutela dei dati personali, al fine di consentire il monitoraggio e l’analisi dell’incidenza del fenomeno del mobbing. Articolo 5 Iniziative degli enti locali 1. Le province ed i comuni assumono iniziative per diffondere l’informazione sul fenomeno del mobbing e per prevenirne l’insorgenza. 2. Nell’ambito delle contrattazioni collettive decentrate integrative per il comparto regione - enti locali, le parti pubbliche e quelle sindacali verificano le possibilità e le modalità per l’adozione di idonee misure, al fine di prevenire e contrastare l’insorgenza di fenomeni di mobbing, anche attraverso la partecipazione dei dirigenti e degli altri dipendenti ad appositi corsi di formazione e di aggiornamento. 229 DOCUMENTAZIONE Articolo 6 Osservatorio regionale sul mobbing 230 1. È istituito l’Osservatorio regionale sul mobbing, con sede presso l’assessorato competente in materia di lavoro. 2. L’Osservatorio svolge i seguenti compiti: a) attività di consulenza nei confronti degli organi regionali, nonché degli enti pubblici, delle associazioni od enti privati e delle aziende sanitarie che adottino progetti o che sviluppino iniziative per le finalità di cui alla presente legge; b) monitoraggio ed analisi del fenomeno del mobbing; c) promozione di studi e ricerche, nonché di campagne di sensibilizzazione e d’informazione, in raccordo con le amministrazioni, gli enti e gli organismi destinatari delle norme di cui alla presente legge. 3. L’Osservatorio è composto da: a) il direttore del dipartimento competente in materia di lavoro, o suo delegato, che lo presiede; b) i direttori dei dipartimenti competenti in materia di sanità e di qualità della vita, o loro delegati; c) un rappresentante della commissione consiliare permanente competente in materia di lavoro; d) il responsabile della struttura regionale competente in materia di lotta alle diseguaglianze; e) un rappresentante del Ministero del Lavoro; f) tre rappresentanti designati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello regionale; g) tre rappresentanti designati dalle organizzazioni imprenditoriali maggiormente rappresentative a livello regionale; h) un sociologo, due psicologi e due avvocati esperti in diritto del lavoro, scelti dall’Amministrazione nell’ambito di terne di nominativi forniti dai rispettivi ordini o associazioni professionali. 4. L’Osservatorio è costituito con decreto del Presidente della Giunta regionale. Il suo funzionamento è disciplinato da apposito regolamento interno, adottato a maggioranza assoluta dei componenti. Le funzioni di segreteria sono svolte dalla competente struttura dell’assessorato. 5. I componenti dell’Osservatorio di cui al comma 3, lettere e), f), g) e h) restano in carica tre anni e possono essere riconfermati. 6. Ai componenti l’Osservatorio è corrisposto il trattamento economico determinato ai sensi della normativa regionale vigente. DOCUMENTAZIONE Articolo 7 Norma finanziaria 1. Per le finalità di cui gli articoli 4 e 5 della presente legge si provvede con deliberazione della Giunta regionale, ai sensi dell’articolo 28, comma 2, della legge regionale 20 novembre 2001, n. 25 e all’istituzione nel bilancio per l’esercizio 2002 di appositi capitoli da iscrivere all’UPB H13 concernenti: a) “Contributi alle ASL per l’istituzione di centri anti mobbing” con lo stanziamento di euro 20 mila per ciascuno degli anni 2002, 2003 e 2004; b) “Contributo agli enti locali per le iniziative di cui all’articolo 5” con lo stanziamento di euro 30 mila per ciascuno degli anni 2002, 2003 e 2004. 2. Alla copertura dell’onere di cui al comma 1 si provvede, in conto competenza, mediante riduzione dei corrispondenti importi di euro 50 mila degli stanziamenti, per ciascuno degli esercizi 2002, 2003 e 2004, di cui all’elenco 4 del bilancio di previsione 2002, capitolo T27501, lettera E); alla copertura di cassa per l’esercizio 2002 si fa fronte mediante riduzione del complessivo importo di euro 50 mila dell’UPB T25. 3. Alla spesa per la corresponsione dei compensi ai componenti dell’Osservatorio di cui alle lettere e), f), g) e h) del comma 3 dell’articolo 6 si fa fronte con i fondi previsti all’UPB R21 del bilancio regionale di previsione per l’esercizio 2002 e alla corrispondente UPB del bilancio relativo agli esercizi successivi. La presente legge regionale sarà pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione. È fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge della Regione Lazio. 231 DOCUMENTAZIONE Contratto collettivo nazionale di lavoro relativo al personale del Comparto Ministeri per il quadriennio normativo 2002-2005 e biennio economico 2002-2003 (estratto) CAPO II 232 FORME DI PARTECIPAZIONE Articolo 6 Comitato paritetico sul fenomeno del mobbing 1. Le parti prendono atto che nelle pubbliche amministrazioni sta emergendo, sempre con maggiore frequenza, il fenomeno del mobbing, inteso come forma di violenza morale o psichica in occasione di lavoro – attuato dal datore di lavoro o da altri dipendenti – nei confronti di un lavoratore. Esso è caratterizzato da una serie di atti, atteggiamenti o comportamenti, diversi e ripetuti nel tempo in modo sistematico ed abituale, aventi connotazioni aggressive, denigratorie e vessatorie tali da comportare un degrado delle condizioni di lavoro, idoneo a compromettere la salute o la professionalità o la dignità del lavoratore stesso nell'ambito dell'ufficio di appartenenza o, addirittura, tale da escluderlo dal contesto lavorativo di riferimento. 2. In relazione al comma 1, le parti, anche con riferimento alla risoluzione del Parlamento Europeo del 20 settembre 2001 riconoscono la necessità di avviare adeguate ed opportune iniziative al fine di contrastare la diffusione di tali situazioni, che assumono rilevanza sociale, nonché di prevenire il verificarsi di possibili conseguenze pericolose per la salute fisica e mentale del lavoratore interessato e, più in generale, migliorare la qualità e la sicurezza dell'ambiente di lavoro. 3. Nell'ambito delle forme di partecipazione previste dall'art. 6, lett. d) del CCNL del 16 febbraio 1999 sono, pertanto, istituiti, entro sessanta giorni dall'entrata in vigore del presente contratto, specifici Comitati Paritetici presso ciascuna amministrazione con i seguenti compiti: a) raccolta dei dati relativi all'aspetto quantitativo e qualitativo del fenomeno del mobbing in relazione alle materie di propria competenza; b) individuazione delle possibili cause del fenomeno, con particolare riferimento alla verifica dell'esistenza di condizioni di lavoro o fattori organizzativi e gestionali che possano determinare l'insorgere di situazioni persecutorie o di violenza morale; DOCUMENTAZIONE c) formulazione di proposte di azioni positive in ordine alla prevenzione e alla repressione delle situazioni di criticità, anche al fine di realizzare misure di tutela del dipendente interessato; d) formulare proposte per la definizione dei codici di condotta. 4. Le proposte formulate dai Comitati vengono presentate alle Amministrazioni per i conseguenti adempimenti tra i quali rientrano, in particolare, la costituzione ed il funzionamento di sportelli di ascolto, nell'ambito delle strutture esistenti, l'istituzione della figura del consigliere/consigliera di fiducia nonchè la definizione dei codici, sentite le organizzazioni sindacali firmatarie. 5. In relazione all'attività di prevenzione del fenomeno di cui al comma 3, i Comitati valuteranno l'opportunità di attuare, nell'ambito dei piani generali per la formazione, previsti dall'art. 26 del CCNL del 16 febbraio 1999, idonei interventi formativi e di aggiornamento del personale, che possono essere finalizzati, tra l'altro, ai seguenti obiettivi: a) affermare una cultura organizzativa che comporti una maggiore consapevolezza della gravità del fenomeno e delle sue conseguenze individuali e sociali; b) favorire la coesione e la solidarietà dei dipendenti, attraverso una più specifica conoscenza dei ruoli e delle dinamiche interpersonali all'interno degli uffici, anche al fine di incentivare il recupero della motivazione e dell'affezione all'ambiente lavorativo da parte del personale. 6. I Comitati sono costituiti da un componente designato da ciascuna delle organizzazioni sindacali di comparto firmatarie del presente CCNL e da un pari numero di rappresentanti dell'amministrazione. Il Presidente del Comitato viene designato tra i rappresentanti dell'amministrazione ed il vicepresidente dai componenti di parte sindacale. Per ogni componente effettivo è previsto un componente supplente. Ferma rimanendo la composizione paritetica dei Comitati, di essi fa parte anche un rappresentante del Comitato per le pari opportunità , appositamente designato da quest'ultimo, allo scopo di garantire il raccordo tra le attività dei due organismi. 7. Le Amministrazioni favoriscono l'operatività dei Comitati e garantiscono tutti gli strumenti idonei al loro funzionamento. In particolare valorizzano e pubblicizzano con ogni mezzo, nell'ambito lavorativo, i risultati del lavoro svolto dagli stessi. I Comitati sono tenuti a svolgere una relazione annuale sull'attività svolta. 8. I Comitati di cui al presente articolo rimangono in carica per la durata di un quadriennio e comunque fino alla costituzione dei nuovi. I componenti dei Comitati possono essere rinnovati nell'incarico per un solo mandato. 233 DOCUMENTAZIONE Articolo 13 Codice disciplinare 234 1. Nel rispetto del principio di gradualità e proporzionalità delle sanzioni in relazione alla gravità della mancanza e in conformità di quanto previsto dall'art. 55 del d.lgs. n. 165/2001 e successive modificazioni ed integrazioni, sono fissati i seguenti criteri generali: a) il tipo e l'entità di ciascuna delle sanzioni sono determinati anche in relazione: - alla intenzionalità del comportamento, alla rilevanza della violazione di norme o disposizioni; - al grado di disservizio o di pericolo provocato dalla negligenza imprudenza o imperizia dimostrate, tenuto conto anche della prevedibilità dell'evento; - all'eventuale sussistenza di circostanze aggravanti o attenuanti; - alle responsabilità derivanti dalla posizione di lavoro occupata dal dipendente; - al concorso nella mancanza di più lavoratori in accordo tra loro; - al comportamento complessivo del lavoratore, con particolare riguardo ai precedenti disciplinari, nell'ambito del biennio previsto dalla legge; - al comportamento verso gli utenti; b) Al lavoratore che abbia commesso mancanze della stessa natura già sanzionate nel biennio di riferimento, è irrogata, a seconda della gravità del caso e delle circostanze, una sanzione di maggiore entità prevista nell'ambito del medesimo comma. c) Al dipendente responsabile di più mancanze compiute in un'unica azione od omissione o con più azioni o omissioni tra loro collegate ed accertate con un unico procedimento, è applicabile la sanzione prevista per la mancanza più grave se le suddette infrazioni sono punite con sanzioni di diversa gravità. 2. La sanzione disciplinare dal minimo del rimprovero verbale o scritto al massimo della multa di importo pari a 4 ore di retribuzione si applica al dipendente per: a) inosservanza delle disposizioni di servizio, anche in tema di assenze per malattia, nonché dell'orario di lavoro; b) condotta non conforme ai principi di correttezza verso altri dipendenti o nei confronti del pubblico; c) negligenza nella cura dei locali e dei beni mobili o strumenti a lui affidati o sui quali, in relazione alle sue responsabilità, debba espletare azione di vigilanza; DOCUMENTAZIONE d) inosservanza delle norme in materia di prevenzione degli infortuni e di sicurezza sul lavoro nel caso in cui non ne sia derivato un pregiudizio al servizio o agli interessi dell'amministrazione o di terzi; e) rifiuto di assoggettarsi a visite personali disposte a tutela del patrimonio dell'amministrazione, nel rispetto di quanto previsto dall'art. 6 della L. 300 del 1970; f) insufficiente rendimento; L'importo delle ritenute per multa sarà introitato dal bilancio dell'amministrazione e destinato ad attività sociali. 3. La sanzione disciplinare della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino ad un massimo di 10 giorni si applica per: a) recidiva nelle mancanze che abbiano comportato l'applicazione del massimo della multa oppure quando le mancanze previste nel comma 2 presentino caratteri di particolare gravità; b) assenza ingiustificata dal servizio fino a 10 giorni o arbitrario abbandono dello stesso; in tali ipotesi l'entità della sanzione è determinata in relazione alla durata dell'assenza o dell'abbandono dal servizio, al disservizio determinatosi, alla gravità della violazione degli obblighi del dipendente, agli eventuali danni causati all'amministrazione, agli utenti o ai terzi; c) ingiustificato ritardo, non superiore a 10 giorni, a trasferirsi nella sede assegnata dall'amministrazione; d) svolgimento di altre attività lavorative durante lo stato di malattia o di infortunio; e) rifiuto di testimonianza oppure testimonianza falsa o reticente in procedimenti disciplinari; f) minacce, ingiurie gravi, calunnie o diffamazioni verso il pubblico o altri dipendenti; alterchi con vie di fatto negli ambienti di lavoro, anche con utenti; g) manifestazioni ingiuriose nei confronti dell'amministrazione, tenuto conto del rispetto della libertà di pensiero e di espressione ai sensi dell'art. 1 L. 300 del 1970; h) qualsiasi comportamento da cui sia derivato danno grave all'amministrazione o a terzi; i) dignità della persona; j) sistematici e reiterati atti o comportamenti aggressivi, ostili e denigratori che assumano forme di violenza morale o di persecuzione psicologica nei confronti di un altro dipendente. 4. La sanzione disciplinare della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da 11 giorni fino ad un massimo di 6 mesi si applica per: 235 DOCUMENTAZIONE 236 a) recidiva nel biennio delle mancanze previste nel comma precedente quando sia stata comminata la sanzione massima oppure quando le mancanze previste al comma 3 presentino caratteri di particolare gravità; b) assenza ingiustificata dal servizio oltre 10 giorni e fino a 15 giorni; c) occultamento di fatti e circostanze relativi ad illecito uso, manomissione, distrazione di somme o beni di spettanza o di pertinenza dell'amministrazione o ad essa affidati, quando, in relazione alla posizione rivestita, il lavoratore abbia un obbligo di vigilanza o di controllo; d) insufficiente persistente scarso rendimento dovuto a comportamento negligente; e) esercizio, attraverso sistematici e reiterati atti e comportamenti aggressivi ostili e denigratori, di forme di violenza morale o di persecuzione psicologica nei confronti di un altro dipendente al fine di procurargli un danno in ambito lavorativo o addirittura di escluderlo dal contesto lavorativo; f) atti, comportamenti o molestie, anche di carattere sessuale, di particolare gravità che siano lesivi della dignità della persona. Nella sospensione dal servizio prevista dal presente comma, il dipendente è privato della retribuzione fino al decimo giorno mentre, a decorrere dall'undicesimo, viene corrisposta allo stesso una indennità pari al 50% della retribuzione indicata all'art. 25, comma 2, primo alinea, del CCNL del 16 maggio 2001 nonchè gli assegni del nucleo familiare ove spettanti. Il periodo di sospensione non è, in ogni caso, computabile ai fini dell'anzianità di servizio. 5. La sanzione disciplinare del licenziamento con preavviso si applica per: a) recidiva plurima, almeno tre volte nell'anno, in una delle mancanze previste ai commi 3 e 4, anche se di diversa natura, o recidiva, nel biennio, in una mancanza che abbia comportato l'applicazione della sanzione massima di 6 mesi di sospensione dal servizio e dalla retribuzione, salvo quanto previsto al comma 6, lett. a); b) recidiva nell'infrazione di cui al comma 4, lettera d); c) ingiustificato rifiuto del trasferimento disposto dall'Amministrazione per riconosciute e motivate esigenze di servizio nel rispetto delle vigenti procedure in relazione alla tipologia di mobilità attivata; d) mancata ripresa del servizio nel termine prefissato dall'amministrazione quando l'assenza arbitraria ed ingiustificata si sia protratta per un periodo superiore a quindici giorni. Qualora il dipendente riprenda servizio si applica la sanzione di cui al comma 4; e) continuità, nel biennio, dei comportamenti attestanti il perdurare di una DOCUMENTAZIONE situazione di insufficiente scarso rendimento dovuta a comportamento negligente ovvero per qualsiasi fatto grave che dimostri la piena incapacità ad adempiere adeguatamente agli obblighi di servizio; f) recidiva nel biennio, anche nei confronti di persona diversa, di sistematici e reiterati atti e comportamenti aggressivi ostili e denigratori e di forme di violenza morale o di persecuzione psicologica nei confronti di un collega al fine di procurargli un danno in ambito lavorativo o addirittura di escluderlo dal contesto lavorativo; g) recidiva nel biennio di atti, comportamenti o molestie, anche di carattere sessuale, che siano lesivi della dignità della persona; h) condanna passata in giudicato per un delitto che, commesso in servizio o fuori dal servizio ma non attinente in via diretta al rapporto di lavoro, non ne consenta la prosecuzione per la sua specifica gravità. 6. La sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso si applica per: a) terza recidiva nel biennio di minacce, ingiurie gravi, calunnie o diffamazioni verso il pubblico o altri dipendenti, alterchi con vie di fatto negli ambienti di lavoro, anche con utenti; b) condanna passata in giudicato per un delitto commesso in servizio o fuori servizio che, pur non attenendo in via diretta al rapporto di lavoro, non ne consenta neanche provvisoriamente la prosecuzione per la sua specifica gravità; c) accertamento che l'impiego fu conseguito mediante la produzione di documenti falsi e, comunque, con mezzi fraudolenti ovvero che la sottoscrizione del contratto individuale di lavoro sia avvenuta a seguito di presentazione di documenti falsi; d) commissione in genere – anche nei confronti di terzi – di fatti o atti dolosi, che, pur non costituendo illeciti di rilevanza penale, sono di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro. e) condanna passata in giudicato: 1. per i delitti indicati nell' art. 1, commi 1 e 4 septies, lettere a), b) limitatamente all'art. 316 del codice penale, c), ed e) della legge n. 16 del 1992; 2. quando alla condanna consegua comunque l'interdizione perpetua dai pubblici uffici; 3. per i delitti previsti dall'art. 3, comma 1 della legge n. 97 del 2001. 7. Le mancanze non espressamente previste nei commi da 2 a 6 sono comunque sanzionate secondo i criteri di cui al comma 1, facendosi riferimento, quanto all'individuazione dei fatti sanzionabili, agli obblighi dei lavoratori di cui all'art. 23 del CCNL del 16 maggio 1995, come modificato dal 237 DOCUMENTAZIONE 238 presente CCNL quanto al tipo e alla misura delle sanzioni, ai principi desumibili dai commi precedenti. 8. Al codice disciplinare di cui al presente articolo, deve essere data la massima pubblicità mediante affissione in ogni posto di lavoro in luogo accessibile a tutti i dipendenti. Tale forma di pubblicità è tassativa e non può essere sostituita con altre. 9. L'art. 25 del CCNL del 16 maggio 1995 è disapplicato. Di conseguenza tutti i riferimenti al medesimo art. 25 devono intendersi all'art. 25 come rinovellato dal presente contratto. DOCUMENTAZIONE Direttiva 2002/73/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 settembre 2002, che modifica la direttiva 76/207/CEE del Consiglio relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro (GUCE L 269 del 5 ottobre 2002) 239 IL PARLAMENTO EUROPEO E IL CONSIGLIO DELL’UNIONE EUROPEA, visto il trattato che istituisce la Comunità europea, in particolare l’articolo 141, paragrafo 3, 1 vista la proposta della Commissione , 2 visto il parere del Comitato economico e sociale , 3 deliberando secondo la procedura di cui all’articolo 251 del trattato , visto il progetto comune approvato il 19 aprile 2002 dal comitato di conciliazione, considerando quanto segue: 1. A norma dell’articolo 6 del trattato dell’Unione europea, l’Unione europea si fonda sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dello stato di diritto, principi che sono comuni agli Stati membri, e rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario. 2. Il diritto all’eguaglianza dinanzi alla legge ed alla tutela contro la discriminazione per tutti gli individui costituisce un diritto universale riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, dalla GU C 337 E del 28.11.2000 pag. 204 e GU C 270 E del 25.9.2001 pag. 9. GU C 123 del 25.9.2001 pag. 81 3 Parere del Parlamento europeo del 31 maggio 2001 (GU C 47 del 21.2.2002, Pag. 19), posizione comune del Consiglio del 23 luglio 2001 (GU C 307 del 31.10.2001, pag. 5) e decisione del Parlamento europeo del 24 ottobre 2001 (GU C 112 E del 9.5.2002, pag. 14). Decisione del Parlamento europeo del 12 giugno 2002 e decisione del Consiglio del 13 giugno 2002. 1 2 DOCUMENTAZIONE 240 Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, dalla Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, dai patti delle Nazioni Unite relative ai diritti civili e politici e ai diritti economici, sociali e culturali, nonché dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, di cui tutti gli Stati membri sono firmatari. 3. La presente direttiva rispetta i diritti fondamentali ed osserva i principi riconosciuti, in particolare, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. 4. La parità fra uomini e donne è un principio fondamentale ai sensi dell’articolo 2 e dell’articolo 3, paragrafo 2, del Trattato CE, nonché ai sensi della giurisprudenza della Corte di Giustizia. Le suddette disposizioni del Trattato sanciscono la parità fra uomini e donne quale “compito” e “obiettivo” della Comunità e impongono l’obbligo concreto della sua promozione in tutte le sue attività. 5. L’articolo 141 del Trattato, ed in particolare il paragrafo 3, affronta specificamente la parità di trattamento e di opportunità per uomini e donne in materia di occupazione e condizioni di lavoro. 4 6. La direttiva 76/207/CEE del Consiglio non dà una definizione della nozione di discriminazione diretta o indiretta. Il Consiglio ha adottato, sulla base dell’articolo 13 del trattato, la direttiva 2000/43/CE, del 29 giugno 2000, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone 5 indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica e la direttiva del Consiglio 2000/78/CE, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di 6 condizioni di lavoro , in cui si dà una definizione di discriminazione diretta ed indiretta. È pertanto appropriato inserire definizioni coerenti con le suddette direttive in materia di genere. 7. La presente direttiva lascia impregiudicata la libertà di associazione compreso il diritto di ogni individuo di fondare sindacati insieme con altri e di aderirvi per la difesa dei propri interessi. Misure ai sensi dell’articolo 141, paragrafo 4, del Trattato possono includere l’adesione o la continuazione dell’attività di organizzazioni o sindacati il cui scopo principale sia la promozione, nella pratica, del principio della parità di trattamento fra uomini e donne. 8. Le molestie legate al sesso di una persona e le molestie sessuali sono GU L 39 del 14.2.1976, pag. 40. GU L 180 del 19.7.2000, pag. 22. 6 GU L 303 del 2.12.2000, pag. 16. 4 5 DOCUMENTAZIONE contrarie al principio della parità di trattamento fra uomini e donne; è pertanto opportuno definire siffatte nozioni e vietare siffatte forme di discriminazione. A tal fine va sottolineato che queste forme di discriminazione non si producono soltanto sul posto di lavoro, ma anche nel quadro dell’accesso all’impiego e alla formazione professionale, durante l’impiego e l’occupazione. 9. In questo contesto, occorrerebbe incoraggiare i datori di lavoro e i responsabili della formazione professionale a prendere misure per combattere tutte le forme di discriminazione sessuale e, in particolare, a prendere misure preventive contro le molestie e le molestie sessuali sul posto di lavoro, in conformità del diritto e della prassi nazionale. 10. La valutazione dei fatti sulla base dei quali si può dedurre che ci sia stata discriminazione diretta o indiretta è una questione di competenza dell’organo giurisdizionale nazionale o di altro organo competente secondo norme del diritto o della prassi nazionale. Tali norme possono prevedere in particolare che la discriminazione indiretta sia accertata con qualsiasi mezzo, compresa l’evidenza statistica. Secondo la giurisprudenza della Corte di 7 giustizia una discriminazione consiste nell’applicazione di norme diverse a situazioni comparabili o nell’applicazione della stessa norma a situazioni diverse. 11. Le attività professionali che gli Stati membri possono escludere dal campo di applicazione della direttiva 76/207/CEE dovrebbero essere ristrette a quelle che necessitano l’assunzione di una persona di un determinato sesso data la natura delle particolari attività lavorative in questione, purché l’obiettivo ricercato sia legittimo e soggetto al principio di proporzionalità 8 come stabilisce la giurisprudenza della Corte di giustizia . 12. La Corte di giustizia ha coerentemente riconosciuto la legittimità, per quanto riguarda il principio della parità di trattamento, della protezione della condizione biologica della donna durante e dopo la maternità; ha inoltre costantemente decretato che qualsiasi trattamento sfavorevole nei confronti della donna in relazione alla gravidanza o alla maternità costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso. La presente direttiva non pregiudica pertanto la direttiva 92/85/CEE del Consiglio, del 19 ottobre 1992 concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in 9 periodo di allattamento (decima direttiva particolare ai sensi dell’articolo 16, Causa C-394/96 Brown, Racc. 1988, pag. I-4185, Causa C-342/93 Gillespie, Racc. 1996, pag. I-475 Causa C-222/84 Johnston, Racc. 1986, pag. 1651, Causa C-273/97 Sirdar, Racc. 1999, pag. I-7403 e Causa C-285/98 Kreil, Racc. 2000, pag. I-69. 9 GU L 348 del 28.11.1992, pag. 1. 7 8 241 DOCUMENTAZIONE 242 paragrafo 1, della direttiva 89/391/CEE) che intende garantire la protezione dello stato fisico e mentale delle donne gestanti, puerpere o in periodo di allattamento. Alcuni, considerando della direttiva 92/85/CEE, affermano che la protezione della sicurezza e della salute delle lavoratrici gestanti, puerpere e in periodo di allattamento non dovrebbe svantaggiare le donne sul mercato del lavoro né pregiudicare le direttive in materia di parità di trattamento tra gli uomini e le donne. La Corte di giustizia ha riconosciuto la tutela dei diritti delle donne sul piano del lavoro, in particolare per quanto riguarda il loro diritto a riprendere lo stesso lavoro o un lavoro equivalente, con condizioni lavorative non meno favorevoli, nonché di beneficiare di qualsiasi miglioramento delle condizioni di lavoro alle quali avrebbero avuto diritto durante la loro assenza. 13. Nella risoluzione del Consiglio e dei Ministri incaricati dell’occupazione e della politica sociale, riuniti in sede di Consiglio, del 29 giugno 2000, concernente la partecipazione equilibrata delle donne e degli 10 uomini all’attività professionale e alla vita familiare , gli Stati membri sono incoraggiati a prendere in considerazione la possibilità che i rispettivi ordinamenti giuridici riconoscano ai lavoratori uomini un diritto individuale e non trasferibile al congedo di paternità, pur mantenendo i propri diritti inerenti al lavoro. In tale contesto, è importante sottolineare che spetta agli Stati membri determinare se concedere o meno un tale diritto e determinare inoltre tutte le condizioni, a parte il licenziamento e il ritorno al lavoro, che sono al di fuori del campo di applicazione della presente direttiva. 14. Gli Stati membri hanno la facoltà, ai sensi dell’articolo 141, paragrafo 4, del Trattato, di mantenere o di adottare misure che prevedono vantaggi specifici volti a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato oppure a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali. Data la situazione attuale e tenendo conto della dichiarazione 28 allegata al Trattato di Amsterdam, gli Stati membri dovrebbero, innanzitutto, mirare a migliorare la situazione delle donne nella vita lavorativa. 15. Il divieto di discriminazione non dovrebbe pregiudicare il mantenimento o l’adozione di misure volte a prevenire o compensare gli svantaggi incontrati da un gruppo di persone di uno dei due sessi. Tali misure autorizzano l’esistenza di organizzazioni di persone di tale sesso se il loro principale obiettivo è la promozione di necessità specifiche delle persone stesse e la promozione della parità tra donne e uomini. 16. Il principio della parità di retribuzione tra gli uomini e le donne è già 10 GU C 218 del 31.7.2000, pag. 5. DOCUMENTAZIONE fermamente stabilito dall’articolo 141 del Trattato e dalla direttiva 75/117/CEE del Consiglio, del 10 febbraio 1975, per il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative all’applicazione del principio della parità delle 11 retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile ed è costantemente sostenuto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia: questo principio costituisce una parte essenziale e imprescindibile dell’acquis comunitario in materia di discriminazioni basate sul sesso. 17. La Corte di giustizia ha stabilito che, vista la natura fondamentale del diritto all’effettiva tutela giurisdizionale, i dipendenti godono di tale tutela 12 anche dopo la fine del rapporto di lavoro . La stessa tutela andrebbe assicurata a ogni dipendente che difenda, o testimoni in favore di una persona tutelata ai sensi della presente direttiva. 18. La Corte di giustizia ha stabilito che, per essere efficace, il principio della parità di trattamento comporta, qualora sia disatteso, che l’indennizzo riconosciuto al dipendente discriminato debba essere adeguato al danno subito. Ha inoltre specificato che stabilire un massimale a priori può precludere un risarcimento efficace e che non è consentito escludere il 13 riconoscimento di interessi per compensare la perdita subita . 19. Secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, le norme nazionali relative ai termini per agire in giudizio sono ammissibili, a condizione che esse non siano meno favorevoli di quelle relative ai termini previsti per analoghe azioni del sistema processuale nazionale e che non rendano in pratica impossibile l’esercizio di diritti conferiti dalla normativa comunitaria. 20. Le vittime di discriminazioni fondate sul sesso dovrebbero disporre di mezzi adeguati di protezione legale. Al fine di assicurare un livello più efficace di protezione, anche alle associazioni, organizzazioni e altre persone giuridiche dovrebbe essere conferito il potere di avviare una procedura, secondo le modalità stabilite dagli Stati membri, per conto o a sostegno delle vittime, fatte salve norme procedurali nazionali relative alla rappresentanza e alla difesa in giudizio. 21. Gli Stati membri dovrebbero promuovere il dialogo fra le parti sociali e, nel quadro della prassi nazionale, con organizzazioni non governative, al fine di affrontare e combattere varie forme di discriminazione fondate sul sesso nei luoghi di lavoro. 22. Gli Stati membri dovrebbero prevedere sanzioni efficaci, GU L 45 del 19.2.1975, pag. 19 Causa C-185/97, Coote, Racc. 1998, pag. I-5199. 13 Causa C-180/95, Draehmpaehl, Racc. 1997 pag. I-2195, Causa C-271/91, Marshall Racc. [1993] pag. I-4367. 11 12 243 DOCUMENTAZIONE 244 proporzionate e dissuasive in caso di mancata ottemperanza agli obblighi derivanti dalla direttiva 76/207/CEE. 23. Poiché gli scopi dell’azione proposta non possono essere realizzati in misura sufficiente dagli Stati membri e possono dunque essere realizzati meglio a livello comunitario, la Comunità può intervenire in base al principio di sussidiarietà sancito dall’articolo 5 del Trattato. La presente direttiva si limita a quanto è necessario per conseguire tali scopi in ottemperanza al principio di proporzionalità enunciato nello stesso articolo. 24. La direttiva 76/207/CEE dovrebbe pertanto essere modificata, HANNO ADOTTATO LA PRESENTE DIRETTIVA: Articolo 1 La direttiva 76/207/CE è modificata come segue: 1. All’articolo 1 è inserito il seguente paragrafo: “1 bis. Gli Stati membri tengono conto dell’obiettivo della parità tra gli uomini e le donne nel formulare ed attuare leggi, regolamenti, atti amministrativi, politiche e attività nei settori di cui al paragrafo 1.” 2. L’articolo 2 è sostituito dal seguente: “Articolo 2 1. Ai sensi delle seguenti disposizioni il principio di parità di trattamento implica l’assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, direttamente o indirettamente, in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia. 2. Ai sensi della presente direttiva si applicano le seguenti definizioni: - discriminazione diretta: situazione nella quale una persona è trattata meno favorevolmente in base al sesso di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga, - discriminazione indiretta: situazione nella quale una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una situazione di particolare svantaggio le persone di un determinato sesso, rispetto a persone dell’altro sesso, a meno che detta disposizione, criterio o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità DOCUMENTAZIONE legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari, - molestie: situazione nella quale si verifica un comportamento indesiderato connesso al sesso di una persona avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di tale persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo, - molestie sessuali: situazione nella quale si verifica un comportamento indesiderato a connotazione sessuale, espresso in forma fisica, verbale o non verbale, avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona, in particolare creando un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo. 3. Le molestie e le molestie sessuali, ai sensi della presente direttiva, sono considerate discriminazioni fondate sul sesso e sono pertanto vietate. Il rifiuto di, o la sottomissione a tali comportamenti da parte di una persona non possono essere utilizzati per prendere una decisione riguardo a detta persona. 4. L’ordine di discriminare persone a motivo del sesso è considerato una discriminazione ai sensi della presente direttiva. 5. Gli Stati membri incoraggiano, in conformità con il diritto, gli accordi collettivi o le prassi nazionali, i datori di lavoro e i responsabili dell’accesso alla formazione professionale a prendere misure per prevenire tutte le forme di discriminazione sessuale e, in particolare, le molestie e le molestie sessuali sul luogo di lavoro. 6. Per quanto riguarda l’accesso all’occupazione, inclusa la formazione preventiva, gli Stati membri possono stabilire che una differenza di trattamento basata su una caratteristica specifica di un sesso non costituisca discriminazione laddove, per la particolare natura delle attività lavorative di cui trattasi o per il contesto in cui esse vengono espletate, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e il requisito proporzionato. 7. La presente direttiva non pregiudica le misure relative alla protezione della donna, in particolare per quanto riguarda la gravidanza e la maternità. Alla fine del periodo di congedo per maternità, la donna ha diritto di riprendere il proprio lavoro o un posto equivalente secondo termini e condizioni che non le siano meno favorevoli, e a beneficiare di eventuali miglioramenti delle condizioni di lavoro che le sarebbero spettati durante la sua assenza. Ai sensi della presente direttiva un trattamento meno favorevole riservato 245 DOCUMENTAZIONE 246 ad una donna per ragioni collegate alla gravidanza o al congedo per maternità ai sensi della direttiva 92/85/CEE costituisce una discriminazione. La presente direttiva lascia altresì impregiudicate le disposizioni della direttiva 96/34/CE del Consiglio, del 3 giugno 1996, concernente l’accordo 14 quadro sul congedo parentale concluso all’UNICE, dal CEEP e dalla CES , e della direttiva 92/85/CEE del Consiglio, del 19 ottobre 1992, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento (decima direttiva particolare ai sensi dell’articolo 16, 15 paragrafo 1, della direttiva 89/391/CEE) . La presente direttiva lascia altresì impregiudicata la facoltà degli Stati membri di riconoscere diritti distinti di congedo di paternità e/o adozione. Gli Stati membri che riconoscono siffatti diritti adottano le misure necessarie per tutelare i lavoratori e le lavoratrici contro il licenziamento causato dall’esercizio di tali diritti e per garantire che alla fine di tale periodo di congedo essi abbiano diritto di riprendere il proprio lavoro o un posto equivalente secondo termini e condizioni che non siano per essi meno favorevoli, e di beneficiare di eventuali miglioramenti delle condizioni di lavoro che sarebbero loro spettati durante la loro assenza. 8. Gli Stati membri possono mantenere o adottare misure ai sensi dell’articolo 141, paragrafo 4, del Trattato volte ad assicurare nella pratica la piena parità tra gli uomini e le donne.” 3. L’articolo 3 è sostituito dal seguente: “Articolo 3 1. L’applicazione del principio della parità di trattamento tra uomini e donne significa che non vi deve essere discriminazione diretta o indiretta in base al sesso nei settori pubblico o privato, compresi gli Enti di diritto pubblico, per quanto attiene: a) alle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomo, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione indipendentemente dal ramo di attività e a tutti i livelli della gerarchia professionale, nonché alla promozione; b) all’accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione 14 15 GU L 145 del 19.6.1996, pag. 4. GU L 348 del 28.11.1992, pag. 1. DOCUMENTAZIONE professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali; c) all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione come previsto dalla direttiva 75/117/CEE; d) all’affiliazione e all’attività in un’organizzazione di lavoratori o datori di lavoro, o in qualunque organizzazione i cui membri esercitino una particolare professione, nonché alle prestazioni erogate da tali organizzazioni. 2. A tal fine gli Stati membri prendono le misure necessarie per assicurare che: a) tutte le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative contrarie al principio della parità di trattamento siano abrogate; b) tutte le disposizioni contrarie al principio della parità di trattamento c ontenute nei contratti di lavoro o nei contratti collettivi, nei regolamenti interni delle aziende o nelle regole che disciplinano il lavoro autonomo e le organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro siano o possano essere dichiarate nulle e prive di effetto oppure siano modificate.” 4) Gli articoli 4 e 5 sono soppressi. 5) L’articolo 6 è sostituito dal seguente: “Articolo 6 1. Gli Stati membri provvedono affinché tutte le persone che si ritengono lese, in seguito alla mancata applicazione nei loro confronti del principio della parità di trattamento, possano accedere, anche dopo la cessazione del rapporto che si lamenta affetto da discriminazione, a procedure giurisdizionali e/o amministrative, comprese, ove lo ritengono opportuno, le procedure di conciliazione finalizzate all’esecuzione degli obblighi derivanti dalla presente direttiva. 2. Gli Stati membri introducono nei rispettivi ordinamenti giuridici nazionali le misure necessarie per garantire un indennizzo o una riparazione reale ed effettiva che essi stessi stabiliscono per il danno subito da una persona lesa a causa di una discriminazione contraria all’articolo 3, in modo tale da risultare dissuasiva e proporzionata al danno subito; tale indennizzo o riparazione non può avere un massimale stabilito a priori, fatti salvi i casi in cui il datore di lavoro può dimostrare che l’unico danno subito 247 DOCUMENTAZIONE 248 dall’aspirante a seguito di una discriminazione ai sensi della presente direttiva è costituito dal rifiuto di prendere in considerazione la sua domanda. 3. Gli Stati membri riconoscono alle associazioni, organizzazioni o altre persone giuridiche che, conformemente ai criteri stabiliti dalle rispettive legislazioni nazionali, abbiano un legittimo interesse a garantire che le disposizioni della presente direttiva siano rispettate, il diritto di avviare, in via giurisdizionale e/o amministrativa, per conto o a sostegno della persona che si ritiene lesa e con il suo consenso, una procedura finalizzata all’esecuzione degli obblighi derivanti dalla presente direttiva. 4. I paragrafi 1 e 3 lasciano impregiudicate le norme nazionali relative ai termini per la proposta di azioni relative al principio della parità di trattamento.” 6) L’articolo 7 è sostituito dal seguente: “Articolo 7 Gli Stati membri introducono nei rispettivi ordinamenti giuridici le disposizioni necessarie per proteggere i lavoratori, inclusi i rappresentanti dei dipendenti previsti dalle leggi e/o prassi nazionali, dal licenziamento o da altro trattamento sfavorevole da parte del datore di lavoro, quale reazione ad un reclamo all’interno dell’impresa o ad un’azione legale volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento.” 7) Sono inseriti i seguenti articoli: “Articolo 8 bis 1. Gli Stati membri designano uno o più organismi per la promozione, l’analisi, il controllo e il sostegno delle parità di trattamento di tutte le persone senza discriminazioni fondate sul sesso. Tali organismi possono far parte di agenzie, incaricate, a livello nazionale, della difesa dei diritti umani o della salvaguardia dei diritti individuali. 2. Gli Stati membri assicurano che nella competenza di tali organismi rientrino: a) l’assistenza indipendente alle vittime di discriminazioni nel dare seguito alle denunce da essi inoltrate in materia di discriminazione, fatto salvo il diritto delle vittime e delle associazioni, organizzazioni o altre persone DOCUMENTAZIONE giuridiche di cui all’articolo 6, paragrafo 3; b) lo svolgimento di inchieste indipendenti in materia di discriminazione; c) la pubblicazione di relazioni indipendenti e la formulazione di raccomandazioni su questioni connesse con tali discriminazioni. Articolo 8 ter 1. Gli Stati membri, conformemente alle tradizioni e prassi nazionali, prendono le misure adeguate per incoraggiare il dialogo tra le parti sociali al fine di promuovere il principio della parità di trattamento, fra l’altro attraverso il monitoraggio delle prassi nei luoghi di lavoro, contratti collettivi, codici di comportamento, ricerche o scambi di esperienze e di buone pratiche. 2. Laddove ciò sia conforme alle tradizioni e prassi nazionali, gli Stati membri incoraggiano le parti sociali, lasciando impregiudicata la loro autonomia, a promuovere la parità tra le donne e gli uomini e a concludere al livello appropriato accordi che fissino regole antidiscriminatorie negli ambiti di cui all’articolo 1 che rientrano nella sfera della contrattazione collettiva. Tali accordi rispettano i requisiti minimi fissati dalla presente direttiva e dalle relative misure nazionali di attuazione. 3. Gli Stati membri, in conformità con la legislazione, i contratti collettivi o le prassi nazionali, incoraggiano i datori di lavoro a promuovere in modo sistematico e pianificato la parità di trattamento tra uomini e donne sul posto di lavoro. 4. A tal fine, i datori di lavoro sono incoraggiati a fornire, ad intervalli regolari appropriati, ai lavoratori e/o ai rappresentanti dei lavoratori informazioni adeguate sulla parità di trattamento tra uomini e donne nell’impresa. Tali informazioni possono includere dati statistici sulla distribuzione di uomini e donne ai vari livelli dell’impresa e proposte di misure atte a migliorare la situazione in cooperazione con i rappresentanti dei dipendenti. Articolo 8 quater Al fine di promuovere il principio della parità di trattamento, gli Stati membri incoraggiano il dialogo con le competenti organizzazioni non governative che, conformemente alle rispettive legislazioni e prassi nazionali, hanno un legittimo interesse a contribuire alla lotta contro le discriminazioni fondate sul sesso. 249 DOCUMENTAZIONE Articolo 8 quinquies 250 Gli Stati membri stabiliscono le norme relative alle sanzioni da irrogare in caso di violazione delle disposizioni nazionali di attuazione della presente direttiva e prendono tutti i provvedimenti necessari per la loro applicazione. Le sanzioni, che possono prevedere un risarcimento dei danni, devono essere effettive, proporzionate e dissuasive. Gli Stati membri notificano le relative disposizioni alla Commissione entro il 5 ottobre 2005 e provvedono poi a notificare immediatamente le eventuali modificazioni successive. Articolo 8 sexies 1. Gli Stati membri possono introdurre o mantenere, per quanto riguarda il principio della parità di trattamento, disposizioni più favorevoli di quelle fissate nella presente direttiva. 2. L’attuazione della presente direttiva non può in alcun caso costituire motivo di riduzione del livello di protezione contro la discriminazione già predisposto dagli Stati membri nei settori di applicazione della presente direttiva.” DISPOSIZIONI D’ATTUAZIONE Articolo 2 1. Gli Stati membri mettono in vigore le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative necessarie per conformarsi alla presente direttiva entro il 5 ottobre 2005 o fanno sì che entro questa data i datori di lavoro e i lavoratori introducano le disposizioni richieste tramite accordi. Gli Stati membri adottano tutte le iniziative necessarie per essere in grado in ogni momento di garantire i risultati previsti dalla presente direttiva. Essi ne informano immediatamente la Commissione. Quando gli Stati membri adottano queste disposizioni, esse contengono un riferimento alla presente direttiva o sono corredate di un siffatto riferimento all’atto della pubblicazione ufficiale. Le modalità di tale riferimento sono decise dagli Stati membri. 2. Gli Stati membri comunicano alla Commissione entro tre anni dall’entrata in vigore della presente direttiva tutte le informazioni necessarie per consentire alla Commissione di redigere una relazione al Parlamento europeo e al Consiglio sull’applicazione della presente direttiva. DOCUMENTAZIONE 3. Salvo il disposto del paragrafo 2, gli Stati membri sottopongono ogni quattro anni alla Commissione il testo delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative riguardanti eventuali misure adottate in base all’articolo 141, paragrafo 4, del Trattato nonché relazioni su tali misure e sulla loro attuazione. Sulla base di tali informazioni, la Commissione adotta e pubblica ogni quattro anni una relazione di valutazione comparativa di tali misure, alla luce della Dichiarazione n. 28 allegata all’Atto finale del Trattato di Amsterdam. Articolo 3 La presente direttiva entra in vigore il giorno della pubblicazione nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee. Articolo 4 Gli Stati membri sono destinatari della presente direttiva. 251 DOCUMENTAZIONE Risoluzione A5-0283 del Parlamento europeo del 20 settembre 2001 in tema di mobbing sul posto di lavoro IL PARLAMENTO EUROPEO, 252 - visti gli articoli 2, 3, 13, 125-129, 136-140 e 143 del trattato CE, - viste le sue risoluzioni del 13 aprile 1999 sulla comunicazione della Commissione “Modernizzare l’organizzazione del lavoro – Un atteggiamento positivo nei confronti dei cambiamenti”, del 24 ottobre 2000 su “Orientamenti a favore dell’occupazione per il 2001 – Relazione congiunta sull’occupazione 2000”e del 25 ottobre 2000 sull’Agenda per la politica sociale, - viste le parti pertinenti delle conclusioni del Consiglio Europeo in occasione dei vertici di Nizza e di Stoccolma, - visto l’articolo 163 del suo regolamento, - visti la relazione della commissione per l’occupazione e gli affari sociali e il parere della commissione per i diritti della donna e le pari opportunità (A5-0283/2000) a) considerando che, secondo un sondaggio svolto tra 21.500 lavoratori dalla Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro (Fondazione di Dublino), nel corso degli ultimi 12 mesi l’8% dei lavoratori dell’Unione europea, pari a 12 milioni di persone, è stato vittima di mobbing sul posto di lavoro, e che si può presupporre che il dato sia notevolmente sottostimato, b) considerando che l’incidenza di fenomeni di violenza e molestie sul lavoro, tra cui la Fondazione include il mobbing, presenta sensibili variazioni tra gli Stati membri e che ciò è dovuto, secondo la Fondazione, al fatto che in alcuni paesi soltanto pochi casi vengono dichiarati, che in altri la sensibilità verso il fenomeno è maggiore e che esistono differenze tra i sistemi giuridici nonché differenze culturali; che la precarietà dell’impiego costituisce una delle cause principali dell’aumento della frequenza di suddetti fenomeni, c) considerando che la Fondazione di Dublino rileva che le persone esposte al mobbing subiscono uno stress notevolmente più elevato rispetto agli altri lavoratori in generale e che le molestie costituiscono dei rischi potenziali per la salute che spesso sfociano in patologie associate allo stress; che i dati nazionali sul mobbing nella vita professionale, DOCUMENTAZIONE disaggregati per generi, non offrono, secondo l’Agenzia, un quadro uniforme della situazione; d) considerando che dai dati provenienti da uno degli Stati membri risulta che i casi di mobbing sono di gran lunga più frequenti nelle professioni caratterizzate da un elevato livello di tensione, professioni esercitate più comunemente da donne che da uomini e che hanno conosciuto una grande espansione nel corso degli anni 90, e) considerando che gli studi e l’esperienza empirica convergono nel rilevare un chiaro nesso tra, da una parte, il fenomeno del mobbing nella vita professionale e, dall’altra, lo stress o il lavoro ad elevato grado di tensione, l’aumento della competizione, la riduzione della sicurezza dell’impiego nonché l’incertezza dei compiti professionali, f) considerando che tra le cause del mobbing vanno ad esempio annoverate le carenze a livello di organizzazione lavorativa, di informazione interna e di direzione; che problemi organizzativi irrisolti e di lunga durata si traducono in pesanti pressioni sui gruppi di lavoro e possono condurre all’adozione della logica del “capro espiatorio” e al mobbing; che le conseguenze per l’individuo e per il gruppo di lavoro possono essere rilevanti, così come i costi per i singoli, le imprese e la società; 1. ritiene che il mobbing, fenomeno di cui al momento non si conosce la reale entità, costituisca un grave problema nel contesto della vita professionale e che sia opportuno prestarvi maggiore attenzione e rafforzare le misure per farvi fronte, inclusa la ricerca di nuovi strumenti per combattere il fenomeno; 2. richiama l’attenzione sul fatto che il continuo aumento dei contratti a termine e della precarietà del lavoro, in particolare tra le donne, crea condizioni propizie alla pratica di varie forme di molestia; 3. richiama l’attenzione sugli effetti devastanti del mobbing sulla salute fisica e psichica delle vittime, nonché delle loro famiglie, in quanto essi impongono spesso il ricorso ad un trattamento medico e psicoterapeutico e conducono generalmente a un congedo per malattia o alle dimissioni; 4. richiama l’attenzione sul fatto che, secondo alcune inchieste, le donne sono più frequentemente vittime che non gli uomini dei fenomeni di mobbing, che si tratti di molestie verticali: discendenti (dal superiore al subordinato) o ascendenti (dal subordinato al superiore), di molestie orizzontali (tra colleghi di pari livello) o di molestie miste; 5. richiama l’attenzione sul fatto che false accuse di mobbing possono trasformarsi a loro volta in un temibile strumento di mobbing; 6. pone l’accento sul fatto che le misure contro il mobbing sul luogo di 253 DOCUMENTAZIONE 254 lavoro vanno considerate una componente importante degli sforzi finalizzati all’aumento della qualità del lavoro e al miglioramento delle relazioni sociali nella vita lavorativa; ritiene che esse contribuiscano altresì a combattere l’esclusione sociale, il che può giustificare l’adozione di misure comunitarie e risulta in sintonia con l’Agenda sociale e gli orientamenti in materia di occupazione dell’Unione Europea; 7. rileva che i problemi di mobbing sul posto di lavoro vengono probabilmente ancora sottovalutati in molti settori all’interno dell’UE e che vi sono molti argomenti a favore di iniziative comuni a livello dell’Unione, quali ad esempio la difficoltà di trovare strumenti efficaci per prevenire e contrastare il fenomeno, il fatto che gli orientamenti sulle misure per combattere il mobbing sul posto di lavoro possano produrre effetti normativi ed influire sugli atteggiamenti e che l’adozione di tali orientamenti comuni sia giustificata anche da ragioni di equità; 8. esorta la Commissione a prendere ugualmente in considerazione, nelle sue comunicazioni relative a una strategia comune in materia di salute e sicurezza sul lavoro e al rafforzamento della dimensione qualitativa della politica occupazionale e sociale nonché nel libro verde sulla responsabilità sociale delle imprese, fattori psichici, psicosociali e sociali connessi all’ambiente lavorativo, inclusa l’organizzazione lavorativa, invitandola pertanto ad attribuire importanza a misure di miglioramento dell’ambiente lavorativo che siano lungimiranti, sistematiche e preventive, finalizzate tra l’altro a combattere il mobbing sul posto di lavoro e a valutare l’esigenza di iniziative legislative in tal senso; 9. esorta il Consiglio e la Commissione ad includere indicatori quantitativi relativi al mobbing sul posto di lavoro negli indicatori relativi alla qualità del lavoro, che dovranno essere definiti in vista del Consiglio europeo di Laeken; 10. esorta gli Stati membri a rivedere e, se del caso, a completare la propria legislazione vigente sotto il profilo della lotta contro il mobbing e le molestie sessuali sul posto di lavoro, nonché a verificare e ad uniformare la definizione della fattispecie del mobbing; 11. sottolinea espressamente la responsabilità degli Stati membri e dell’intera società per il mobbing e la violenza sul posto di lavoro, ravvisando in tale responsabilità il punto centrale di una strategia di lotta a tale fenomeno; 12 raccomanda agli Stati membri di imporre alle imprese, ai pubblici poteri nonché alle parti sociali l’attuazione di politiche di prevenzione efficaci, l’introduzione di un sistema di scambio di esperienze e l’individuazione di procedure atte a risolvere il problema per le vittime e ad DOCUMENTAZIONE evitare sue recrudescenze; raccomanda, in tale contesto, la messa a punto di un’informazione e di una formazione dei lavoratori dipendenti, del personale di inquadramento, delle parti sociali e dei medici del lavoro, sia nel settore privato che nel settore pubblico; ricorda a tale proposito la possibilità di nominare sul luogo di lavoro una persona di fiducia alla quale i lavoratori possono eventualmente rivolgersi; 13. esorta la Commissione ad esaminare la possibilità di chiarificare o estendere il campo di applicazione della direttiva quadro per la salute e la sicurezza sul lavoro oppure di elaborare una nuova direttiva quadro, come strumento giuridico per combattere il fenomeno delle molestie, nonché come meccanismo di difesa del rispetto della dignità della persona del lavoratore, della sua intimità e del suo onore; sottolinea pertanto che è importante che la questione del miglioramento dell’ambiente di lavoro venga affrontata in modo sistematico e con l’adozione di misure preventive; 14. sottolinea che una base statistica migliore può agevolare e ampliare la conoscenza e la ricerca e segnala il ruolo che l’Eurostat e la Fondazione di Dublino possono svolgere in tale contesto; esorta la Commissione, la Fondazione di Dublino e l’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro a prendere iniziative affinché vengano condotti studi approfonditi in materia di mobbing; 15. sottolinea l’importanza di studiare più da vicino il fenomeno del mobbing sul posto di lavoro in relazione sia agli aspetti attinenti all’organizzazione del lavoro sia a quelli legati a fattori quali genere, età, settore e tipo di professione; chiede che lo studio in questione comprenda un’analisi della situazione particolare delle donne vittime di mobbing; 16. constata che uno Stato membro ha già adottato una normativa mirante a lottare contro il mobbing sul posto di lavoro e che altri Stati sono impegnati nella ratifica di una legislazione volta a reprimere tale fenomeno, richiamandosi il più delle volte alle legislazioni adottate per reprimere le molestie sessuali; esorta gli Stati membri a prestare attenzione al problema del mobbing sul luogo di lavoro e a tenerne conto nel contesto delle rispettive legislazioni nazionali e di altre azioni; 17. esorta le istituzioni europee a fungere da modello sia per quanto riguarda l’adozione di misure per prevenire e combattere il mobbing all’interno delle loro stesse strutture che per quanto riguarda l’aiuto e l’assistenza a individui o gruppi di lavoro, prevedendo eventualmente un adeguamento dello statuto dei funzionari nonché un’adeguata politica di sanzioni; 18. constata che le persone esposte al mobbing nelle istituzioni europee 255 DOCUMENTAZIONE 256 beneficiano attualmente di un aiuto insufficiente e si compiace al riguardo con l’amministrazione per aver istituito da tempo un corso destinato in particolare alle donne amministratrici intitolato “La gestione al femminile” e, più recentemente, un comitato consultivo sul mobbing; 19. chiede che si esamini in quale misura la consultazione a livello comunitario tra le parti sociali può contribuire a combattere il mobbing sul posto di lavoro e ad associare a tale lotta le organizzazioni dei lavoratori; 20. esorta le parti sociali negli Stati membri a elaborare, tra di loro e a livello comunitario, strategie idonee di lotta contro il mobbing e la violenza sul luogo di lavoro, procedendo altresì a uno scambio di esperienze in merito secondo il principio delle “migliori pratiche”; 21. ricorda che il mobbing comporta altresì conseguenze nefaste per i datori di lavoro per quanto riguarda la redditività e l’efficienza economica dell’impresa a causa dell’assenteismo che esso provoca, della riduzione della produttività dei lavoratori indotta dal loro stato di confusione e di difficoltà di concentrazione nonché dalla necessità di erogare indennità ai lavoratori licenziati; 22. sottolinea l’importanza di ampliare e chiarire la responsabilità del datore di lavoro per quanto concerne la messa in atto di misure sistematiche atte a creare un ambiente di lavoro soddisfacente; 23. chiede che abbia luogo una discussione in merito alle modalità di sostegno alle reti e organizzazioni di volontariato impegnate nella lotta al mobbing; 24. invita la Commissione a presentare, entro il marzo 2002, un libro verde recante un’analisi dettagliata della situazione relativa al mobbing sul posto di lavoro in ogni Stato membro e, sulla base di detta analisi, a presentare successivamente, entro l’ottobre 2002, un programma d’azione concernente le misure comunitarie contro il mobbing sul posto di lavoro; chiede che tale piano d’azione venga corredato di uno scadenzario; 25. incarica la sua Presidente di trasmettere la presente risoluzione alla Commissione, al Consiglio, alla Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro ed all’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro. DOCUMENTAZIONE Decreto legislativo n. 215/03 del 9 luglio 2003 recante attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica visti gli articoli 76 e 87 della Costituzione; vista la direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro; vista la legge 1° marzo 2002, n. 39, ed in particolare l’Allegato B; vista la legge 20 maggio 1970, n. 300, recante “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”; visto il testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, approvato con decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286; vista la preliminare deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 28 marzo 2003; acquisiti i pareri delle Commissioni della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica; vista la deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 3 luglio 2003; sulla proposta del Ministro per le Politiche Comunitarie, del Ministro del lavoro e delle Politiche Sociali e del Ministro per le Pari Opportunità, di concerto con il Ministro degli Affari Esteri, con il Ministro della Giustizia e con il Ministro dell’Economia e delle Finanze; emana il seguente decreto legislativo: Articolo 1 Oggetto 1. Il presente decreto reca le disposizioni relative all’attuazione della parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, disponendo le misure necessarie affinché le differenze di razza o di origine etnica non siano causa di discriminazione, anche in un’ottica che tenga conto del diverso impatto che le stesse forme di discriminazione possono avere su donne e uomini, nonché dell’esistenza di forme di razzismo a carattere culturale e religioso. 257 DOCUMENTAZIONE Articolo 2 Nozione di discriminazione 258 1. Ai fini del presente decreto e salvo quanto disposto dall’articolo 3, commi da 3 a 6, per principio di parità di trattamento si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale. Tale principio comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta, così come di seguito definite: a) discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga; b) discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone. 2. È fatto salvo il disposto dell’articolo 43, commi 1 e 2 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, approvato con decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286; 3. Sono, altresì, considerate come discriminazioni, ai sensi del comma 1, anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per uno dei motivi di cui all’articolo 1, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di un persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo. 4. L’ordine di discriminare persone a causa della religione, delle convinzioni personali, dell’handicap, dell’età o delle tendenze sessuali è considerata una discriminazione ai sensi del comma 1. Articolo 3 Ambito di applicazione 1. Il principio di parità di trattamento senza distinzione di religione, di convinzioni personali, di handicap, di età e di orientamento sessuale si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile di tutela giurisdizionale secondo le forme previste dall’articolo 4, con DOCUMENTAZIONE specifico riferimento alle seguenti aree: a) accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione; b) occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento; c) accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali; d) affiliazione e attività nell’ambito di organizzazioni di lavoratori, di datori di lavoro o di altre organizzazioni professionali e prestazioni erogate dalle medesime organizzazioni. 2. La disciplina di cui al presente decreto fa salve tutte le disposizioni vigenti in materia di: a) condizioni di ingresso, soggiorno ed accesso all’occupazione, all’assistenza e alla previdenza dei cittadini dei Paesi terzi e degli apolidi nel territorio dello Stato; b) sicurezza e protezione sociale; c) sicurezza pubblica, tutela dell’ordine pubblico, prevenzione dei reati e tutela della salute; d) stato civile e prestazioni che ne derivano; e) forze armate, limitatamente ai fattori di età e di handicap. 3. Nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, nell’ambito del rapporto di lavoro o dell’esercizio dell’attività di impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni personali, all’handicap, all’età o all’orientamento sessuale di una persona, qualora, per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima. Parimenti, non costituisce atto di discriminazione la valutazione delle caratteristiche suddette ove esse assumano rilevanza ai fini dell’idoneità allo svolgimento delle funzioni che le forze armate e i servizi di polizia, penitenziari o di soccorso possono essere chiamati ad esercitare. 4. Sono, comunque, fatte salve le disposizioni che prevedono accertamenti di idoneità al lavoro per quanto riguarda la necessità di una idoneità ad uno specifico lavoro e le disposizioni che prevedono la possibilità di trattamenti differenziati in merito agli adolescenti, ai giovani, ai lavoratori anziani e ai lavoratori con persone a carico, dettati dalla particolare natura del rapporto e dalle legittime finalità di politica del 259 DOCUMENTAZIONE 260 lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale. 5. Non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 le differenze di trattamento basate sulla professione di una determinata religione o di determinate convinzioni personali che siano praticate nell’ambito di enti religiosi o altre organizzazioni pubbliche o private, qualora tale religione o tali convinzioni personali, per la natura delle attività professionali svolte da detti enti o organizzazioni o per il contesto in cui esse sono espletate, costituiscano requisito essenziale, legittimo e giustificato ai fini dello svolgimento delle medesime attività. 6. Non costituiscono, comunque, atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 quelle differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari. In particolare, resta ferma la legittimità di atti diretti all’esclusione dallo svolgimento di attività lavorativa che riguardi la cura, l’assistenza, l’istruzione e l’educazione di soggetti minorenni nei confronti di coloro che siano stati condannati in via definitiva per reati che concernono la libertà sessuale dei minori e la pornografia minorile. Articolo 4 Tutela giurisdizionale dei diritti 1. All’articolo 15, comma 2, della legge 20 maggio 1970, n. 300, dopo la parola “sesso” sono aggiunte le seguenti: “, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali”. 2. La tutela giurisdizionale avverso gli atti e i comportamenti di cui all’articolo 2 si svolge nelle forme previste dall’articolo 44, commi da 1 a 6, 8 e 11, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, approvato con decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286; 3. Chi intende agire in giudizio per il riconoscimento della sussistenza di una delle discriminazioni di cui all’articolo 2 e non ritiene di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, può promuovere il tentativo di conciliazione ai sensi dell’articolo 410 del codice di procedura civile o, nell’ipotesi di rapporti di lavoro con le amministrazioni pubbliche, ai sensi dell’articolo 66 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, anche tramite le rappresentanze locali di cui all’articolo 5. 4. Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno, può dedurre in giudizio, anche sulla base DOCUMENTAZIONE di dati statistici, elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti, che il giudice valuta ai sensi dell’articolo 2729, primo comma, del codice civile. 5. Con il provvedimento che accoglie il ricorso il giudice, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, ordina la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio, ove ancora sussistente, nonché la rimozione degli effetti. Al fine di impedirne la ripetizione, il giudice può ordinare, entro il termine fissato nel provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate. 6. Il giudice tiene conto, ai fini della liquidazione del danno di cui al comma 5, che l’atto o comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento. 7. Il giudice può ordinare la pubblicazione delle sentenza di cui ai commi 5 e 6, a spese del convenuto, per una sola volta su un quotidiano di tiratura nazionale. 8. Resta salva la giurisdizione del giudice amministrativo per il personale di cui all’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165. Articolo 5 Legittimazione ad agire 1. Le rappresentanze locali delle organizzazioni nazionali maggiormente rappresentative a livello nazionale, in forza di delega, rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata, a pena di nullità, sono legittimate ad agire ai sensi dell’articolo 4, in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, contro la persona fisica o giuridica cui è riferibile il comportamento o l’atto discriminatorio. 2. Le rappresentanze locali di cui al comma 1 sono, altresì, legittimate ad agire nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione. Articolo 6 Relazione 1. Entro il 2 dicembre 2005 e successivamente ogni cinque anni, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali trasmette alla Commissione 261 DOCUMENTAZIONE Europea una relazione contenente le informazioni relative all’applicazione del presente decreto. Articolo 7 Copertura finanziaria 262 1. Dall’attuazione del presente decreto non derivano oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato. DOCUMENTAZIONE Relazione al decreto legislativo attuativo della direttiva 2000/43/CE Il presente decreto legislativo recepisce la direttiva 2000/43/CE del Consiglio del 29 giugno 2000, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica. Tale direttiva mira a stabilire un quadro per la lotta alle discriminazioni fondate sulla razza o l’origine etnica, al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento. A tale scopo, la direttiva dà una precisa definizione di discriminazione diretta e indiretta, delimita il campo di applicazione, prevede la giustificazione di alcune discriminazioni, stabilisce l’accesso a procedure giurisdizionali e/o amministrative, anche attraverso associazioni, organizzazioni ed altre persone giuridiche. L’articolo 29 della legge comunitaria 1° marzo 2002, n. 39, elenca i principi e i criteri direttivi per l’attuazione della delega. La direttiva è contenuta nell’Allegato B della legge comunitaria e, pertanto, sullo schema di decreto legislativo di recepimento è stato acquisito il parere delle competenti Commissioni parlamentari. Il termine di recepimento della direttiva, di un anno dalla data di entrata in vigore della legge comunitaria, è stato prorogato di ulteriori novanta giorni poiché il termine previsto per il parere delle Commissioni scadeva nei trenta giorni che precedono la scadenza del termine per il recepimento. Lo schema di decreto legislativo è stato deliberato in via preliminare dal Consiglio dei ministri nella riunione del 28 marzo 2003. La materia del decreto legislativo attiene alla competenza esclusiva dello Stato, in quanto inerente ai diritti fondamentali delle persone. Si passa ad illustrare lo schema di decreto legislativo, che si compone 8 articoli. L’articolo 1 definisce l’oggetto del decreto legislativo, relativo all’attuazione della parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, disponendo le misure necessarie per impedire che le differenze di razza e di origine etnica siano causa di discriminazione. L’articolo 2, facendo salvo il disposto dell’articolo 43, commi 1 e 2, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, approvato con d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286, definisce innanzi tutto la discriminazione diretta e quella indiretta. A tale scopo si è fatto preciso riferimento a quanto contenuto nella direttiva. Quanto alla nozione di discriminazione indiretta, si ritiene di dover 263 DOCUMENTAZIONE 264 recepire solo parzialmente i rilievi formulati dalla XIV Commissione per le politiche dell’Unione Europea della Camera dei Deputati, in quanto nella recente tendenza evolutiva del diritto comunitario (direttive 2000/43/CE, 2000/78/CE, 2002/73/CE) la nozione di discriminazione si riferisce solamente ad una situazione di “particolare svantaggio” in cui i soggetti colpiti da discriminazione indiretta possono trovarsi rispetto ad altri. È assente, perciò, nel concetto comunitario di discriminazione indiretta ogni riferimento al criterio di “proporzionalità”. L’introduzione di un tale criterio nella fase di attuazione della direttiva, nel richiedere che la discriminazione si riferisca ad una quota rilevante di persone, finirebbe, difatti, per restringere l’ambito dei comportamenti rilevanti ai fini dell’accertamento della discriminazione stessa entro confini più circoscritti di quelli previsti dal legislatore comunitario e rischierebbe, a sua volta, di esporre il nostro ordinamento a censure in sede europea. Nell’articolo 2 si definiscono, inoltre, come discriminazioni le molestie e l’ordine di discriminare. Per quanto riguarda specificamente la definizione di molestie, si è ritenuto di dover confermare l’impostazione originaria, nonostante i rilievi formulati dalla XIV Commissione per le politiche dell’Unione Europea della Camera dei Deputati, poiché vi è la necessità di dare corretta e piena attuazione alla direttiva comunitaria. La nozione di molestia proposta da quest’ultima, infatti, opera un riferimento ad un criterio di carattere soggettivo che incentra la molestia sulla percezione della vittima, unitamente ad un concetto di “molestia ambientale” connesso alla creazione di un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante ed offensivo. Invece, la definizione contenuta nella legge comunitaria circoscrive la molestia entro confini assai più angusti, poiché richiede la persistenza del comportamento a fronte della inequivoca dichiarazione dell’offensività dello stesso da parte della vittima. Se si considera che la stessa nozione comunitaria è stata ribadita da altre fonti (v. le direttive n. 73 del 2002 e n. 78 del 2000, per la cui attuazione non era previsto alcun criterio di delega), si capisce come esigenze di conformità al diritto comunitario consiglino di non esporsi a censure in sede europea. L’articolo 3 delimita il campo di applicazione del decreto legislativo, secondo quanto stabilito dalla direttiva. In particolare, il principio di parità di trattamento come precedentemente definito si applica a tutte le persone dei settori pubblici e privati, per quanto concerne l’accesso all’occupazione, al lavoro, all’orientamento e alla formazione professionale, l’occupazione e le condizioni di lavoro, l’affiliazione e le attività nelle organizzazioni di lavoratori e datori di lavoro, DOCUMENTAZIONE o di altre organizzazioni professionali, la protezione sociale, l’assistenza sanitaria, le prestazioni sociali, l’istruzione e l’accesso a beni e servizi. Si fanno, inoltre, salve tutte le disposizioni vigenti inerenti le condizioni di ingresso, soggiorno e accesso all’occupazione, all’assistenza e alla previdenza dei cittadini dei Paesi terzi e degli apolidi nel territorio dello Stato e le disposizioni che prevedono differenze di trattamento basate sulla nazionalità. Si prevedono, infine, alcuni casi in cui le differenze di trattamento non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2. L’articolo 4 disciplina la tutela giurisdizionale dei diritti. Al fine di creare strumenti omogenei di tutela, si prevede l’applicazione della procedura di cui all’articolo 44, commi da 1 a 6, 8 e 11, del decreto legislativo n. 286 del 1998. Tale articolo disciplina una particolare azione civile contro la discriminazione, dotata di snellezza ed efficacia. Si prevedono, inoltre, altri strumenti correlati: la possibilità di esperire il tentativo di conciliazione previsto dal codice civile e dal decreto legislativo n. 165 del 2001, il regime probatorio secondo il sistema della prova presuntiva, la possibilità per il giudice di risarcire il danno anche non patrimoniale, di ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio, nonché la rimozione degli effetti e di ordinare l’adozione di un piano di rimozione, di tenere conto, ai fini della liquidazione del danno, che l’atto o il comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività, di ordinare la pubblicazione della sentenza. Recependo le osservazioni emerse dai pareri parlamentari (Giunta per gli affari delle Comunità europee del Senato della Repubblica), si è provveduto a coordinare la disciplina sulla tutela giurisdizionale con le disposizioni di cui all’articolo 44 del decreto legislativo n. 286 del 1998, richiamando espressamente solo alcuni commi di esso, al fine di evitare eventuali sovrapposizioni e dubbi interpretativi. Circa il regime delle prove, è stata parzialmente recepita l’osservazione della I Commissione del Senato della Repubblica; tuttavia, la previsione di una radicale inversione dell’onere della prova è apparsa non strettamente conforme ai principi del nostro ordinamento giuridico. Posto che nel nostro sistema il principio dell’inversione dell’onere della prova esiste solo in alcune precise e tassative ipotesi previste dalla legge (articolo 1988 del codice civile), la legge comunitaria ha optato, più genericamente, per un regime di prova presuntiva per il quale non vi è una vera e propria inversione dei carichi probatori, ma semplicemente un principio di favore per la parte debole che agisce in giudizio: a fronte di elementi di fatto idonei a fondare in 265 DOCUMENTAZIONE 266 termini precisi e concordanti la presunzione dell’esistenza di atti o comportamenti discriminatori, il convenuto viene onerato della prova liberatoria circa l’insussistenza della discriminazione. Viene così introdotto un regime bilanciato per il quale, pur non esonerando espressamente il ricorrente dall’onere della prova, si considera necessaria e sufficiente la prova presuntiva, con l’ausilio aggiuntivo dei dati statistici, i quali, come è stato più volte affermato dalla Corte di Giustizia delle Comunità europee, rappresentano un importante meccanismo nell’accertamento della sussistenza di discriminazioni indirette. È significativo notare che in tal senso si è espressa anche la giurisprudenza sull’onere probatorio di cui all’articolo 4, comma 6, della legge 10 aprile 1991, n. 125, laddove, anche in presenza di una disposizione il cui tenore letterale faceva propendere per una vera e propria inversione dell’onere della prova, i giudici hanno ritenuto di dover limitare il regime probatorio entro i più cauti confini dell’articolo 2729 del codice civile. L’articolo 5 disciplina la legittimazione ad agire, prevedendo l’intervento delle associazioni anche nell’ipotesi di discriminazione collettiva, qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione. Circa il sistema della legittimazione ad agire, l’articolo 29, comma 1, lettere e) ed f), della legge comunitaria prevede che, nei casi di discriminazione, debba essere riconosciuta la facoltà di agire in giudizio anche ad associazioni rappresentative degli interessi lesi. A tal fine, si riconosce la legittimazione ad agire alle associazioni ed agli enti che sono individuati con apposito decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali e del Ministro per le Pari Opportunità, prevedendo la previa iscrizione degli stessi al registro di cui all’art. 52, comma 1, lett. a), del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, o al registro istituito dall’articolo 6 del presente schema di decreto legislativo. Come prevede l’articolo 5, la legittimazione attiva deve riguardare sia i casi di discriminazione individuale che collettiva. Nel primo caso, le associazioni possono agire in forza di delega rilasciata dal soggetto passivo della discriminazione per iscritto, a pena di nullità, per atto pubblico o scrittura privata; nel secondo caso, invece, le associazioni possono agire anche in assenza di una delega, proprio perché non sono individuabili in modo diretto ed immediato le persone lese dalla discriminazione. L’articolo 6 prevede l’istituzione di un apposito albo presso il Dipartimento per le Pari Opportunità cui possono iscriversi le associazioni che hanno un’esperienza consolidata nella materia della lotta alle discriminazioni. DOCUMENTAZIONE L’articolo 7 istituisce presso la Presidenza del Consiglio - Dipartimento per le Pari Opportunità - l’Ufficio per la promozione della parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni fondate sulla razza o sull’origine etnica. A tal proposito, la direttiva comunitaria si basa sulla considerazione che il rafforzamento della protezione contro le discriminazioni in ciascuno Stato membro può passare solo attraverso la costituzione di un organismo ad hoc, che sia specificamente incaricato di analizzare i problemi relativi alla materia della lotta alle discriminazioni, di studiare e proporre le possibili soluzioni e fornire assistenza concreta alle vittime. Come previsto dall’articolo 29, comma 1, lett. i), della legge comunitaria, infatti, la costituzione dell’Ufficio mira alla istituzione, nell’ordinamento interno, di un presidio di riferimento per il controllo e la garanzia della parità di trattamento e dell’operatività degli strumenti di tutela. Funzione generale dell’Ufficio è quella di svolgere attività di promozione della parità e di rimozione di qualsiasi discriminazione fondata sulla razza o sull’origine etnica, tenendo in particolar conto che, spesso, le forme di discriminazione sono amplificate quando all’elemento di diversità costituito dalla razza o dall’origine etnica si aggiungono altri fattori di genere, religione e cultura. È risaputo, difatti, come spesso le donne costituiscano le principali vittime di comportamenti fortemente discriminatori. In relazione a questa funzione di presidio e garanzia, particolare rilievo assumono i compiti specificati dall’articolo 7, comma 2, laddove si prevede che l’Ufficio provveda a: fornire assistenza alle vittime di comportamenti discriminatori nei procedimenti intrapresi da queste ultime sia in sede amministrativa che giurisdizionale; svolgere inchieste al fine di verificare l’esistenza di fenomeni discriminatori; promuovere l’adozione di progetti di azioni positive; diffondere la massima conoscenza possibile degli strumenti di tutela vigenti mediante azioni di sensibilizzazione e campagne di comunicazione; formulare raccomandazioni e pareri sulle questioni connesse alla discriminazione per razza ed origine etnica; redigere due relazioni annuali, rispettivamente, per il Parlamento e per il Presidente del Consiglio dei Ministri; infine, promuovere studi, ricerche, corsi di formazione e scambi di esperienze, anche in collaborazione con le associazioni e le altre organizzazioni non governative che operano nel settore e, spesso, ne costituiscono la linfa vitale. Circa l’organizzazione ed il funzionamento dell’Ufficio, si rinvia ad un apposito decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. Secondo quanto previsto dalla legge comunitaria, si prevede che l’Ufficio sia diretto da un responsabile nominato dal Presidente del Consiglio dei 267 DOCUMENTAZIONE 268 Ministri o da un Ministro delegato, e che si avvalga, oltre che di personale di altre amministrazioni, anche di un contingente di esperti e consulenti esterni, dotati di elevata professionalità ed esperienza nella materia. Circa la disposizione (comma 8) che fa salve le competenze delle regioni e delle province autonome, in relazione al rilievo formulato dalla XIV Commissione della Camera dei Deputati, si precisa che il riferimento al termine ‘regioni’ include in modo inequivoco sia le regioni a statuto ordinario che quelle a statuto speciale. Analogamente, il concetto di competenze comprende l’intero ambito delle attribuzioni regionali secondo i rispettivi statuti, norme di attuazione e leggi regionali. L’articolo 8, infine, contiene la disposizione sulla copertura finanziaria già prevista dall’articolo 29, comma 2, della legge comunitaria n. 39 del 2002, con la clausola di salvaguardia che prevede che dall’attuazione del decreto non deriva alcun ulteriore onere a carico del bilancio dello Stato rispetto a quelli derivanti dall’istituzione e funzionamento dell’Ufficio di cui all’articolo 7. DOCUMENTAZIONE Decreto legislativo n. 216/03 del 9 luglio 2003 recante attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro visti gli articoli 76 e 87 della Costituzione; vista la direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro; vista la legge 1° marzo 2002, n. 39, ed in particolare l’Allegato B; vista la legge 20 maggio 1970, n. 300, recante “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”; visto il testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, approvato con decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286; vista la preliminare deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 28 marzo 2003; acquisiti i pareri delle Commissioni della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica; vista la deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 3 luglio 2003; sulla proposta del Ministro per le Politiche Comunitarie, del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali e del Ministro per le Pari Opportunità, di concerto con il Ministro degli Affari Esteri, con il Ministro della Giustizia e con il Ministro dell’Economia e delle Finanze; EMANA il seguente decreto legislativo: Articolo 1 Oggetto 1. Il presente decreto reca le disposizioni relative all’attuazione della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dall’orientamento sessuale, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro, disponendo le misure necessarie affinché tali fattori non siano causa di discriminazione, in un’ottica che tenga conto anche del diverso impatto che le stesse forme di discriminazione possono avere su donne e uomini. 269 DOCUMENTAZIONE Articolo 2 Nozione di discriminazione 270 1. Ai fini del presente decreto e salvo quanto disposto dall’articolo 3, commi da 3 a 6, per principio di parità di trattamento si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale. Tale principio comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta, così come di seguito definite: a) discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga; b) discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone. 2. È fatto salvo il disposto dell’articolo 43, commi 1 e 2 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, approvato con decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286; 3. Sono, altresì, considerate come discriminazioni, ai sensi del comma 1, anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per uno dei motivi di cui all’articolo 1, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di un persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo. 4. L’ordine di discriminare persone a causa della religione, delle convinzioni personali, dell’handicap, dell’età o delle tendenze sessuali è considerata una discriminazione ai sensi del comma 1. Articolo 3 Ambito di applicazione 1. Il principio di parità di trattamento senza distinzione di religione, di convinzioni personali, di handicap, di età e di orientamento sessuale si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile di tutela giurisdizionale secondo le forme previste dall’articolo 4, con DOCUMENTAZIONE specifico riferimento alle seguenti aree: a) accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione; b) occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento; c) accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali; d) affiliazione e attività nell’ambito di organizzazioni di lavoratori, di datori di lavoro o di altre organizzazioni professionali e prestazioni erogate dalle medesime organizzazioni. 2. La disciplina di cui al presente decreto fa salve tutte le disposizioni vigenti in materia di: a) condizioni di ingresso, soggiorno ed accesso all’occupazione, all’assistenza e alla previdenza dei cittadini dei Paesi terzi e degli apolidi nel territorio dello Stato; b) sicurezza e protezione sociale; c) sicurezza pubblica, tutela dell’ordine pubblico, prevenzione dei reati e tutela della salute; d) stato civile e prestazioni che ne derivano; e) forze armate, limitatamente ai fattori di età e di handicap. 3. Nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, nell’ambito del rapporto di lavoro o dell’esercizio dell’attività di impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni personali, all’handicap, all’età o all’orientamento sessuale di una persona, qualora, per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima. Parimenti, non costituisce atto di discriminazione la valutazione delle caratteristiche suddette ove esse assumano rilevanza ai fini dell’idoneità allo svolgimento delle funzioni che le forze armate e i servizi di polizia, penitenziari o di soccorso possono essere chiamati ad esercitare. 4. Sono, comunque, fatte salve le disposizioni che prevedono accertamenti di idoneità al lavoro per quanto riguarda la necessità di una idoneità ad uno specifico lavoro e le disposizioni che prevedono la possibilità di trattamenti differenziati in merito agli adolescenti, ai giovani, ai lavoratori anziani e ai lavoratori con persone a carico, dettati dalla particolare natura del rapporto e dalle legittime finalità di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di 271 DOCUMENTAZIONE 272 formazione professionale. 5. Non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 le differenze di trattamento basate sulla professione di una determinata religione o di determinate convinzioni personali che siano praticate nell’ambito di enti religiosi o altre organizzazioni pubbliche o private, qualora tale religione o tali convinzioni personali, per la natura delle attività professionali svolte da detti enti o organizzazioni o per il contesto in cui esse sono espletate, costituiscano requisito essenziale, legittimo e giustificato ai fini dello svolgimento delle medesime attività. 6. Non costituiscono, comunque, atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 quelle differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari. In particolare, resta ferma la legittimità di atti diretti all’esclusione dallo svolgimento di attività lavorativa che riguardi la cura, l’assistenza, l’istruzione e l’educazione di soggetti minorenni nei confronti di coloro che siano stati condannati in via definitiva per reati che concernono la libertà sessuale dei minori e la pornografia minorile. Articolo 4 Tutela giurisdizionale dei diritti 1. All’articolo 15, comma 2, della legge 20 maggio 1970, n. 300, dopo la parola "sesso" sono aggiunte le seguenti: ", di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali". 2. La tutela giurisdizionale avverso gli atti e i comportamenti di cui all’articolo 2 si svolge nelle forme previste dall’articolo 44, commi da 1 a 6, 8 e 11, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, approvato con decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286; 3. Chi intende agire in giudizio per il riconoscimento della sussistenza di una delle discriminazioni di cui all’articolo 2 e non ritiene di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, può promuovere il tentativo di conciliazione ai sensi dell’articolo 410 del codice di procedura civile o, nell’ipotesi di rapporti di lavoro con le amministrazioni pubbliche, ai sensi dell’articolo 66 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, anche tramite le rappresentanze locali di cui all’articolo 5. 4. Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno, può dedurre in giudizio, anche sulla base di DOCUMENTAZIONE dati statistici, elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti, che il giudice valuta ai sensi dell’articolo 2729, primo comma, del codice civile. 5. Con il provvedimento che accoglie il ricorso il giudice, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, ordina la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio, ove ancora sussistente, nonché la rimozione degli effetti. Al fine di impedirne la ripetizione, il giudice può ordinare, entro il termine fissato nel provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate. 6. Il giudice tiene conto, ai fini della liquidazione del danno di cui al comma 5, che l’atto o comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento. 7. Il giudice può ordinare la pubblicazione delle sentenza di cui ai commi 5 e 6, a spese del convenuto, per una sola volta su un quotidiano di tiratura nazionale. 8. Resta salva la giurisdizione del giudice amministrativo per il personale di cui all’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165. Articolo 5 Legittimazione ad agire 1. Le rappresentanze locali delle organizzazioni nazionali maggiormente rappresentative a livello nazionale, in forza di delega, rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata, a pena di nullità, sono legittimate ad agire ai sensi dell’articolo 4, in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, contro la persona fisica o giuridica cui è riferibile il comportamento o l’atto discriminatorio. 2. Le rappresentanze locali di cui al comma 1 sono, altresì, legittimate ad agire nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione. Articolo 6 Relazione 1. Entro il 2 dicembre 2005 e successivamente ogni cinque anni, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali trasmette alla Commissione Europea una relazione contenente le informazioni relative all’applicazione del presente decreto. 273 DOCUMENTAZIONE Articolo 7 Copertura finanziaria 1. Dall’attuazione del presente decreto non derivano oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato. 274 DOCUMENTAZIONE Relazione al decreto legislativo attuativo della direttiva 2000/78/CE Il presente decreto legislativo recepisce la direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. Tale direttiva mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o l’orientamento sessuale, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro, al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento. A tale scopo, la direttiva dà una precisa definizione di discriminazione diretta e indiretta, delimita il campo di applicazione, prevede la giustificazione di alcune discriminazioni, stabilisce l’accesso a procedure giurisdizionali e/o amministrative, anche attraverso associazioni, organizzazioni ed altre persone giuridiche. La direttiva è contenuta nell’Allegato B della legge comunitaria 1° marzo 2002, n. 39, e, sulla base di quanto stabilito nell’articolo 1, comma 3, della stessa, è stato necessario acquisire sullo schema di decreto legislativo il parere delle competenti Commissioni parlamentari. Il termine di recepimento della direttiva, di un anno dalla data di entrata in vigore della legge comunitaria, è stato prorogato di ulteriori novanta giorni poiché il termine per il parere delle Commissioni scadeva nei trenta giorni che precedono la scadenza del termine per il recepimento. Lo schema di decreto legislativo è stato deliberato in via preliminare dal Consiglio dei Ministri nella riunione del 28 marzo 2003. La materia oggetto di recepimento attiene alla competenza esclusiva dello Stato, in quanto inerente ai diritti fondamentali delle persone. Si passa ad illustrare lo schema di decreto legislativo, che si compone di 7 articoli. L’articolo 1 definisce l’oggetto del decreto legislativo, relativo all’attuazione della parità di trattamento indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dall’orientamento sessuale, disponendo le misure necessarie affinché tali fattori non siano causa di discriminazione. L’articolo 2, facendo salvo il disposto dell’articolo 43, commi 1 e 2, del decreto legislativo n. 286 del 1998, definisce innanzi tutto la discriminazione diretta e quella indiretta. A tale scopo si è fatto preciso riferimento a quanto contenuto nella direttiva. Quanto alla nozione di discriminazione indiretta, si ritiene di dover 275 DOCUMENTAZIONE 276 recepire solo parzialmente i rilievi formulati dalla XI Commissione della Camera dei Deputati, in quanto nella recente tendenza evolutiva del diritto comunitario (direttive 2000/43/CE, 2000/78/CE, 2002/73/CE) la nozione di discriminazione si riferisce solamente ad una situazione di “particolare svantaggio” in cui i soggetti colpiti da discriminazione indiretta possono trovarsi rispetto ad altri. È assente, perciò, nel concetto comunitario di discriminazione indiretta ogni riferimento al criterio di “proporzionalità”. L’introduzione di un tale criterio nella fase di attuazione della direttiva, nel richiedere che la discriminazione si riferisca ad una quota rilevante di persone, finirebbe, difatti, per restringere l’ambito dei comportamenti rilevanti ai fini dell’accertamento della discriminazione stessa entro confini più circoscritti di quelli previsti dal legislatore comunitario e rischierebbe, a sua volta, di esporre il nostro ordinamento a censure in sede europea. Nell’articolo 2 si definiscono, inoltre, come discriminazioni anche le molestie e l’ordine di discriminare. Per quanto riguarda specificamente la definizione di molestie, si è ritenuto di dover confermare l’impostazione originaria, nonostante i rilievi formulati dalla XI Commissione della Camera dei Deputati, poiché vi è la necessità di dare corretta e piena attuazione alla direttiva comunitaria. La nozione di molestia proposta da quest’ultima, infatti, opera un riferimento ad un criterio di carattere soggettivo che incentra la molestia sulla percezione della vittima, unitamente ad un concetto di “molestia ambientale” connesso alla creazione di un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante ed offensivo. Invece, la definizione contenuta nella legge comunitaria circoscrive la molestia entro confini assai più angusti, poiché richiede la persistenza del comportamento a fronte della inequivoca dichiarazione dell’offensività dello stesso da parte della vittima. Se si considera che la stessa nozione comunitaria è stata ribadita da altre fonti (v. la direttiva n. 73 del 2002), si capisce come esigenze di conformità al diritto comunitario consiglino di non esporsi a censure in sede europea. L’articolo 3 delimita il campo di applicazione dello schema di decreto legislativo, secondo quanto stabilito dalla direttiva. In particolare, il principio di parità di trattamento come precedentemente definito si applica a tutte le persone dei settori pubblici e privati, per quanto concerne l’accesso all’occupazione, al lavoro, all’orientamento e alla formazione professionale, l’occupazione e le condizioni di lavoro, l’affiliazione e le attività nelle organizzazioni di lavoratori e datori di lavoro o di altre organizzazioni professionali. Si fa, inoltre, salva tutta la normativa nazionale inerente le condizioni di ingresso, soggiorno ed accesso all’occupazione, all’assistenza e alla DOCUMENTAZIONE previdenza dei cittadini dei Paesi terzi e degli apolidi nel territorio dello Stato, la sicurezza e la protezione sociale, la sicurezza pubblica, la tutela dell’ordine pubblico e della salute, la prevenzione dei reati, lo stato civile e le prestazioni che ne derivano, le forze armate limitatamente ai fattori di età e di handicap. Si prevedono, infine, alcuni casi in cui le differenze di trattamento non costituiscono atti di discriminazione ai sensi di quanto stabilito nell’articolo 2. Relativamente alla materia lavoristica, si fanno, inoltre, salve le disposizioni che prevedono accertamenti di idoneità al lavoro e le disposizioni che attuano trattamenti differenziati in merito agli adolescenti, ai giovani, ai lavoratori anziani e ai lavoratori con persone a carico. Sono, inoltre, fatte salve le differenze di trattamento che escludono persone che siano state condannate per reati in danno di minori dalla possibilità di svolgere attività lavorative che li portino ad avere contatto con i minori stessi. L’articolo 4 disciplina la tutela giurisdizionale dei diritti. Innanzi tutto, si apporta una modifica all’articolo 15, comma 2, della legge n. 300 del 1970, recante “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”. In tale modo, si rendono nulli gli atti e i patti del datore di lavoro diretti a fini di discriminazione anche per motivi di handicap, di età, di orientamento sessuale o di convinzioni personali. Relativamente alla tutela giurisdizionale dei diritti, al fine di creare strumenti omogenei di tutela, si prevede l’applicazione dell’articolo 44, commi da 1 a 6, 8 e 11, del decreto legislativo n. 286 del 1998. Tale articolo prevede una particolare azione civile contro la discriminazione, dotata di snellezza ed efficacia. Si prevedono, inoltre, altri strumenti correlati: la possibilità di esperire il tentativo di conciliazione previsto dal codice civile e dal decreto legislativo n. 165 del 2001, l’operatività dell’articolo 2729 del codice civile in materia di presunzioni, la possibilità per il giudice di risarcire il danno non patrimoniale, di ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio, nonché la rimozione degli effetti e di ordinare un piano di rimozione delle discriminazioni accertate, di tenere conto, ai fini della liquidazione del danno, che l’atto o il comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività, di ordinare la pubblicazione della sentenza. Recependo le osservazioni della XI Commissione della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica, si è provveduto a coordinare la 277 DOCUMENTAZIONE 278 disciplina sulla tutela giurisdizionale con le disposizioni di cui all’articolo 44 del decreto legislativo n. 286 del 1998, richiamando espressamente solo alcuni commi di esso, al fine di evitare inutili sovrapposizioni e dubbi interpretativi. Circa il regime delle prove, è stata parzialmente recepita l’osservazione della Commissione Giustizia del Senato della Repubblica; tuttavia, la previsione di una radicale inversione dell’onere della prova è apparsa non strettamente conforme ai principi del nostro ordinamento giuridico. Posto che nel nostro sistema il principio dell’inversione della prova esiste solo in alcune precise e tassative ipotesi previste dalla legge (articolo 1988 del codice civile), la legge comunitaria ha optato, più genericamente, per un regime di prova presuntiva per il quale non vi è una vera e propria inversione dei carichi probatori, ma semplicemente un principio di favore per la parte debole che agisce in giudizio: a fronte di elementi di fatto idonei a fondare in termini precisi e concordanti la presunzione dell’esistenza di atti o comportamenti discriminatori, il convenuto viene onerato della prova liberatoria circa l’insussistenza della discriminazione. Viene introdotto, così, un regime bilanciato per il quale, pur non esonerando espressamente il ricorrente dall’onere della prova, si considera necessaria e sufficiente la prova presuntiva, con l’ausilio aggiuntivo dei dati statistici, i quali, come è stato più volte affermato dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee, rappresentano un importante meccanismo nell’accertamento della sussistenza delle discriminazioni indirette. È significativo notare che in tal senso si è espressa anche la giurisprudenza sull’onere probatorio di cui all’articolo 4, comma 6, della legge 10 aprile 1991, n. 125, laddove, anche in presenza di una disposizione il cui tenore letterale faceva propendere per una vera e propria inversione dell’onere della prova, i giudici hanno ritenuto di dover limitare il regime probatorio entro i più cauti confini dell’articolo 2729 del codice civile. In ordine all’osservazione della Giunta per gli affari delle Comunità Europee relativa alla tutela più rigorosa dell’articolo 11 della direttiva rispetto al comma 6 del presente schema di decreto, si fa presente che nel nostro ordinamento esistono già disposizioni volte a proteggere i lavoratori dal licenziamento illegittimo. L’articolo 5 legittima le rappresentanze locali delle organizzazioni nazionali maggiormente rappresentative ad agire in giudizio in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, anche nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione. DOCUMENTAZIONE In merito all’osservazione della XI Commissione del Senato della Repubblica volta a valutare la possibilità di indicare più specificamente le tipologie associative interessate, come ad esempio le associazioni degli anziani, si ritiene che, trattandosi di discriminazioni relative al mondo del lavoro, le organizzazioni sindacali siano gli organismi più idonei allo svolgimento del compito demandato dalla direttiva. L’articolo 6 prevede la redazione da parte del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali di una relazione contenente le informazioni sullo stato di attuazione delle disposizioni del presente decreto da trasmettere alla Commissione Europea. Relativamente all’osservazione della XI Commissione del Senato della Repubblica e della XI Commissione della Camera dei Deputati in merito alla possibilità di recepire le disposizioni della direttiva di cui agli articoli 7 (azione positiva e misure specifiche), 12 (diffusione delle informazioni), 13 (dialogo sociale) e 14 (dialogo con le organizzazioni non governative), si fa presente che le misure stesse sono già previste all’interno del nostro ordinamento giuridico. L’articolo 7 precisa che l’applicazione del decreto legislativo non comporta oneri a carico del bilancio dello Stato. Infine, quanto all’invito formulato dalla XI Commissione della Camera dei Deputati a redigere un testo unico legislativo che recepisca tutte le direttive comunitarie in materia di parità di trattamento e divieti di discriminazione, si rileva che, stante l’imminente scadenza della delega, l’urgenza di recepire la direttiva in oggetto indice a preferire l’attuazione separata delle singole direttive. Un eventuale lavoro di riordino può essere, pertanto, rinviato ad un momento successivo. Circa l’organizzazione ed il funzionamento dell’Ufficio, si rinvia ad un apposito decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. Secondo quanto previsto dalla legge comunitaria, si prevede che l’Ufficio sia diretto da un responsabile nominato dal Presidente del Consiglio dei Ministri o da un Ministro delegato, e che si avvalga, oltre che di personale di altre amministrazioni, anche di un contingente di esperti e consulenti esterni, dotati di elevata professionalità ed esperienza nella materia. Circa la disposizione (comma 8) che fa salve le competenze delle regioni e delle province autonome, in relazione al rilievo formulato dalla XIV Commissione della Camera dei Deputati, si precisa che il riferimento al termine ‘regioni’ include in modo inequivoco sia le regioni a statuto ordinario che quelle a statuto speciale. Analogamente, il concetto di competenze comprende l’intero ambito delle attribuzioni regionali secondo i rispettivi statuti, norme di attuazione e leggi regionali. 279 DOCUMENTAZIONE L’articolo 8, infine, contiene la disposizione sulla copertura finanziaria già prevista dall’articolo 29, comma 2, della legge comunitaria n. 39 del 2002, con la clausola di salvaguardia che prevede che dall’attuazione del decreto non deriva alcun ulteriore onere a carico del bilancio dello Stato rispetto a quelli derivanti dall’istituzione e funzionamento dell’Ufficio di cui all’articolo 7. 280 Formez Area Editoria e Documentazione via Rubicone 18, 00198 Roma tel. +39 06 84892244 Formez Centro di Formazione Studi Presidenza e Direzione Generale via Salaria 229, 00199 Roma tel. 06 84891 www.formez.it Stampa Tipografia Edigraf Finito di stampare nel mese di settembre 2003 Pubblicazione non in vendita