GRUPPO 4 – LA SFIDA DELLA FEDELTÀ E DELLA PERSEVERANZA NELL’ETÀ ADULTA
ALLEGATO 3
C. SECONDO LE SCRITTURE
Fragilità di Dio e fragilità dell’uomo
Riflessioni a partire dal libro “La fragilità di Dio” a cura di B. SALVARANI, EDB, 2013
La fragilità è diventata oggi un tabù. E' una condizione che si considera momentanea, transitoria e
anche un po' vergognosa. Una condizione da nascondere, celare, minimizzare, spesso negare e, per i più
evoluti, casomai risolvere il prima possibile, per eliminarla. La pastiglia, la meditazione, il personal trainer:
dobbiamo diventare tutti forti, impeccabili, monolitici e inattaccabili. La vecchiaia, la malattia, la morte,
sono negate, ignorate, relegate, nascoste; si usano eufemismi pietosi, quando non ridicoli, per definirle:
“terza età”, “un brutto male”, come se esistesse un male “bello”... Questo lo sperimentiamo per quanto
riguarda l'aspetto, il corpo, la parte materiale del nostro essere, ma anche per le fragilità della nostra
anima. Non possiamo concederci la paura, l'incertezza, la disapprovazione dello sguardo altrui (M. CAVANI,
p. 57-58).
Secondo la Scrittura due sono le fragilità profonde dell'uomo che emergono fin dalle prime pagine
della Genesi, fondamento dell'antropologia biblica: la fragilità “creaturale” e quella “morale” o peccatrice.
C'è innanzitutto la caducità strutturale della creatura, precarietà legata al nostro essere prigionieri del
tempo che finisce e dello spazio che ci circoscrive. Molte sono le immagini che tratteggiano questa fragilità
radicale dell'essere umano, prima fra tutte quella dell'erba che germoglia al mattino e alla sera è falciata e
dissecca (Cfr. Sl 90, 5-6; Is 40, 6-7; 1Pt 1, 24-25), ma la Bibbia parla anche dell'esistenza umana come un
soffio che va e non ritorna, come ombra che passa (cfr. Sl 39, 6-7; 62,10; 78,39; 144,4), e ancora dell'essere
profondo, spirituale e intellettuale dell'uomo come “deposto in una tenda d'argilla” (Sap 9,15) o come “un
tesoro in vasi di creta” (2Cor 4,7). L'altro aspetto della fragilità umana è legato alla sua “peccaminosità”.
Costitutivo dell'essere “Adamo-uomo” è anche la “frattura” delle tre relazioni fondamentali umane, ossia
quella che intercorre con Dio, dal quale si riceve la vita, la libertà e la coscienza; il rapporto con il proprio
simile, incarnato dalla donna; infine il nesso con la materia, col creato, con gli animali. La fragilità peccatrice
lambisce tutta l'umanità e la storia biblica è una lunga vicenda di debolezze, di miserie, di fallimenti, di
tradimenti, come peraltro sarà la trama costante della storia umana. Tuttavia non bisogna mai dimenticare
che l'ultima parola divina nei confronti della fragilità creaturale e morale dell'umanità non è mai la
condanna aspra e implacabile. Nessuno è mai perduto, purché si lasci liberare e risollevare da Colui che è
venuto proprio per cercare chi era perduto, che è giunto in mezzo a noi non per badare ai sani, ma ai
malati, ai deboli, ai peccatori (G. RAVASI, p. 18-23).
Una cosa è la fragilità di un manufatto, altra cosa è la fragilità di una persona. In un vaso di
porcellana, la fragilità è tale per cui, se cade, il vaso va in frantumi e dunque è irrimediabilmente perduto.
Diverso è quando si parla della fragilità di una persona. Ci sono fragilità diverse nella persona, ma se ci si
colloca al livello più profondo dell'esistenza, badando alle qualità della persona vista nell'esercizio del suo
relazionarsi agli altri, la fragilità può diventare addirittura una qualità positiva, perché dice che uno è
capace di condivisione e di lasciarsi modificare. Dice anzi che egli non è insensibile, ma vulnerabile, cioè
disposto a lasciarsi ferire. Per vivere e crescere in una relazione bella e giusta con l'altro e con gli altri, in
effetti, bisogna mettere in conto la possibilità della “ferita dell'altro” (P. CODA, pag. 64).
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Il dolore, la sofferenza, la tragedia, la crisi sono solo aspetti della vita, istintivamente sgradevoli,
eppure importanti. L'ideogramma cinese che indica il concetto di crisi, significa anche “opportunità”, il che
la dice lunga su come ogni aspetto della vita sia duplice. Scorgere la possibilità, la potenzialità insita nella
crisi non è facile, ma è l'unico modo per affrontare la vita in modo nuovo e creativo. Le crisi hanno la
funzione di rompere un equilibrio per spingerci a un equilibrio superiore, che a sua volta dovrà essere
messo in crisi, e così all'infinito. Tutto cambia, tutto si modifica e deve modificarsi; se così non è, non vi è
vita. E questo vale a livello naturale, così come a livello spirituale ed esistenziale. La crisi è un duro,
durissimo aiuto a uscire dai nostri schematismi, dai nostri attaccamenti, dalle nostre rigidità (M.VALLI, p.
178-181).
Tutto è fragile e caduco in questo mondo, tranne Dio, che resta; tutto è precario e mutevole, tranne
Dio, che è fedele e stabile in perpetuo. Chi ha familiarità con la Bibbia sa che Dio è spesso paragonato a una
rocca o a una roccia: “L'eterno è la mia rocca e la mia fortezza, il mio liberatore”, dice Davide nel suo canto
(2Sam 22,2) e il salmista si chiede: “Chi è rocca fuori del nostro Dio?” (Sl 18,31); Dio è la rocca del mio cuore
(Sl 73,26), della mia e della nostra salvezza (Sl 89,26; 95,1), perciò sale dal cuore l'invocazione: “Sii per me
una forte rocca, una fortezza dove tu mi porti in salvo” (Sl 31,3). Dio dunque non è solo forte, stabile come
una roccia, non è solo potente, ma onnipotente. Così lo confessa la fede cristiana nel primo articolo del suo
Credo: è più potente di qualsiasi potenza umana e terrena, ma anche delle potenze del male. Tutto questo
è vero e resta vero...eppure si può parlare anche del Dio biblico e cristiano come di un Dio “debole” o
“fragile”, senza paura di contraddirci, perché in Dio l'onnipotenza e la debolezza non sono alternativi, ma
due facce della stessa medaglia. La chiave di lettura ce la dà l'apostolo Paolo, quando ai Corinti scrive: “La
pazzia di Dio è più savia degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Cor1,25) Che cosa
siano pazzia e debolezza è chiaro dal contesto: sono la croce del suo Figlio. E così è in effetti: Dio è tanto
pazzo (d'amore) da sacrificare il Figlio, per riconciliare il mondo a sé. Dio non è mai tanto debole come
quando nel suo Figlio muore sulla croce: la morte è per chiunque debolezza estrema e irrimediabile. Il “Dio
debole” è il “Dio crocifisso” che costituisce, insieme alla risurrezione, il cuore della Rivelazione cristiana. Ma
la debolezza di Dio si era già manifestata il giorno in cui Gesù nacque da una ragazza madre di nome Maria
di Nazaret. Nulla al mondo, come sappiamo, è più fragile di un neonato. Così la debolezza di Dio non
caratterizza solo la fase finale del mistero terreno di Gesù, ma anche quella iniziale. E' come se Dio avesse
voluto che l'itinerario terreno di suo Figlio fosse racchiuso in due esperienze di debolezza radicale: la
nascita e la morte. E infatti Gesù, in tutta la sua vita, dall'inizio alla fine, manifesta i tratti di un “Dio
debole”: fa miracoli come Dio, ma nessuno in favore suo, soprattutto non fa quel miracolo risolutivo e
decisivo che avrebbe fugato tutti i dubbi sull'identità divina, che avrebbe spianato la via alla fede in lui
anche da parte di coloro che finora lo avevano contestato. Il “Dio debole” appare anche nel fatto che Gesù
non è un “sacerdote”, non occupa gli spazi della religione, quelli che lo renderebbero “evidente” nella sua
“divinità”, ma un “laico” qualunque, che vive la sua identità nella profanità della vita di tutti i giorni, in
maniera per così dire nascosta, lasciando che siano gli uomini a scoprirlo attraverso la relazione profonda
con lui. Infine il Dio debole appare nel fatto che Gesù non cancella la debolezza degli uomini con la sua
potenza, ma la condivide, vivendola lui stesso con noi, soffrendo con l'uomo che soffre, portando su di sé
tutto il dolore del mondo (P. RICCA, p. 141-156).
La fragilità di Dio, che trova la sua manifestazione più alta nel mistero di Cristo, è l'essenza stessa
del Dio biblico che fin dall'inizio, nell'atto della Creazione, facendo essere l'altro da sé – il mondo e l'uomo si autolimita e rinuncia al proprio potere; abbandona l'onnipotenza e si rende partecipe della fragilità
umana. Fin dalle prime battute, il Dio biblico vive di relazione: tesse legami, sperimenta la dipendenza, il
dover fare i conti con l'altro. Già l'atto creativo da cui sorge il mondo rivela questo aspetto divino: egli crea
l'intera creazione chiamandola all'esistenza. Il racconto poetico della nascita del mondo ci rivela un Dio che
cerca la relazione, che strappa al caos il mondo chiamandolo. Dio non è autonomo e autosufficiente. Ha
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bisogno delle sue creature, ha bisogno della nostra fede, di stabilire con noi un rapporto. Su questo è
davvero fatto a immagine e somiglianza umana: è fragile come noi. Noi lo siamo, perché i nostri giorni sono
brevi, perché la malattia può devastarci e la morte afferrarci; Dio lo è perché ha scelto di legare la sua
esistenza alla nostra. Egli è tessuto di relazione: ama. E chiunque ama sa che l'amore non è mai ferma
certezza, solida costruzione. Chi ama conosce gli abissi, l'instabilità, il rischio della perdita, come anche
l'estasi del cielo. Ami e dipendi dall'altro. Se i suoi occhi si posano su di te, tu sperimenti il paradiso; ma se il
suo sguardo ti attraversa senza vederti, ecco che tu precipiti nell'abisso e il tuo mondo va in frantumi. Lo sa
bene il Dio biblico: quando Israele si dimostra indifferente, Dio si arrabbia, manda i profeti per farsi
ascoltare e attirare l'attenzione, minaccia di andarsene, alza la voce, ma non riesce a recidere quel legame
che lo tiene vincolato al suo popolo. Dio è fragile, è debole, perché ama e l'amore rende vulnerabili, esposti
al rischio di essere rifiutati. Dio è fragile. Non può contare sulla nostra adesione incondizionata. E'
sottoposto alla severa verifica del suo operato, alle nostre valutazioni sui vantaggi della relazione con lui. E
quando i conti non tornano, perché Dio ci delude e risulta inadempiente, noi non gli rinnoviamo il
contratto. Le ragioni di tale licenziamento in tronco possono essere serissime; e tuttavia il fatto di poter
decidere di smettere di credere in lui e di poter recidere il patto, mette in chiara luce come sia inadeguata
l'immagine classica di un Dio Onnipotente. Egli è piuttosto un lavoratore precario, costretto a rinegoziare
continuamente il contratto stabilito con noi. Dio è fragile: la sua immagine in noi può esplodere in mille
frammenti, quando attraversiamo le tempeste della vita (L. MAGGI, p. 81-83).
La Bibbia parla del “Dio che parla”, narra il Dio che costruisce pazientemente la sua storia con gli
uomini attraverso la parola: “In Principio era la Parola”. In ogni principio, sempre. Nel principio della
Creazione, nella vicenda di Abramo, di ogni credente. Il Dio che parla è il Dio che chiama, che invoca, che
prega, che cerca qualcuno che lo ascolti. Ci si chiede sempre se Dio, nella sua potenza, esaudisca l'uomo, e
assai poco se Dio, nella sua fragilità, sia esaudito nella sua ricerca di un cuore che lo ascolti, di un volto che
ne voglia riflettere il sorriso benedicente. Il Dio che affida il suo essere alla fragilità della parola è il Dio che
si espone all'alterità dell'uomo e cerca comunicazione e relazione con lui. Fin dal principio Dio è un
mendicante di ascolto: chiede all'uomo di fargli la carità di un'accoglienza, di dargli vita entrando in
relazione con lui. Perché Dio stesso vive di relazione. Senza l'uomo, egli non è. La forza di Dio è nella sua
debolezza, nel coraggio di condividere la propria debolezza, di farsi prossimo all'uomo senza imporgli la
propria prossimità, ma mendicando la sua vicinanza e accettando il suo rifiuto: “La Parola venne tra i suoi,
ma i suoi non l'hanno accolta” (Gv 1,11). Non accolta, la Parola non cessa tuttavia di parlare. Il Dio
inascoltato, resta il Dio che parla. La forma del suo parlare, infatti, è il promettere. Il Dio che promette dà
forma al futuro, impegna se stesso al futuro. Promettere è sempre promettere se stessi. Che altro è la
storia del popolo di Israele se non la storia della promessa di Dio, fragile eppure sempre rinnovata? E
dunque sempre risorgente dalle proprie ceneri? Dio come promessa: ecco la potenza fragile del Dio biblico.
Ecco la parola che trae forza dalla propria fragilità. La parola che assume il negativo e il male della storia e
dell'uomo e non se ne lascia scoraggiare, ma continua a dirsi al di là di ogni fine, risorgendo dopo ogni
morte. Dal principio della rivelazione, quando Dio al Sinai si rivela con le parole “Io sono colui che sarò” (Es
3,14), al principio dell'Incarnazione, quando Dio si manifesta come Emanuele, “Dio con noi” (Mt 1,23), fino
all'ultima pagina della rivelazione biblica, che si chiude sulle parole di colui che dice: “Sì, io vengo presto”
(Ap 22,20), aprendo la strada ad un nuovo principio, il principio del mondo redento, Dio si rivela come
parola di futuro, come promessa. Parola che è al principio di ogni umano ri-cominciamento, di ogni re-inizio
(L.MANICARDI, p. 107-111).
Lo sguardo di Dio sulla nostra fragilità (che noi non vogliamo accettare) è quello che Gesù rivolge
all'adultera, alla samaritana al pozzo o al giovane ricco: uno sguardo d'amore, che accoglie la fragilità, che
conosce anche nell'intimo ogni esitazione, ogni sbavatura, ogni errore e ogni deviazione e ama a partire da
quelle stesse caratteristiche che noi vorremmo negare, in primo luogo a noi stessi. E' lo sguardo di un Diofratello che sceglie la via dello stare accanto e del mostrare, per insegnarci l'amore, la vita. Ci disturba un
Dio-fratello, perché abbiamo il desiderio del Dio super-eroe, che arriva e con poteri sovrumani risolve,
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sistema, evita, guarisce, conserva e ferma, un Dio che ci impedisce di essere adulti, liberi davanti alle scelte
più difficili, che ci tiene sottomessi ricompensando questa prigionia con l'assenza della responsabilità, ma
anche con una perfezione cristallizzata: la non azione che diventa non errore. Il mio Dio fragile è nel fratello
fragile; io sono pienamente figlia quando sono sorella fino in fondo, perché so che quel fratello incarna, per
me oggi e qui, il volto del Padre eterno che ci ama non nonostante il nostro limite, ma a partire da esso.
Anche quando siamo incapaci di usare con i fratelli questa misura così conveniente per noi (M. CAVANI, p.
58-61).
L'esperienza della fragilità, se la leggiamo con gli occhi di Gesù, ci avvicina a Dio. Anzi ci fa entrare
nel mistero del suo amore, che è amicizia e libertà. E' questo, a ben vedere, che la fede cristiana esprime
confessando che Dio è Trinità e cioè amore donato, accolto e a piene mani, senza distinzioni, ovunque, e in
ogni caso testimoniato (Cfr.1 Gv 4, 9-12) (P. CODA, p.69).
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