HELIOS MAGAZINE Rivista bimestrale di scienze, cultura e società Registrazione Tribunale di Reggio Cal. Nr. 3/96 Direttore Responsabile Pino Rotta Direttore Editoriale Gianni Ferrara Comitato di redazione: Valentina Arcidiaco, Katia Colica, Elisa Cutullè, Giorgio Neri, Salvatore Romeo, Kreszenzia Gehrer Corrispondenti: Giancarlo Calciolari, Faiyz Barakat Almahasneh Editore: Centro Studi Sociali Club Ausonia Presidente: Roberto Pirrello Sede legale: via Pio XI nr. 291 89132 Reggio Calabria (I) Redazione: via Pio XI nr. 291 – 89132 Reggio Calabria (I) Tel. SMS 388 7927621 partita IVA 01482330808 Tipografia: Rosato (RC) 320.0898776 In copertina: “Pathos” Maurizio Dei, 2011 Dedicato ai migranti annegati in mare Sul sito web: http://www.heliosmag.it troverete tutti i numeri precedenti e le ricerche del Centro Studi Sociali e-mail: [email protected] Helios Magazine è edita dall’associazione socio-culturale Club Ausonia (no-profit) Per sostenerci pubblica le tue inserzioni pubblicitarie o versa un contributo volontario sul Conto corrente nr. 193 - Banca Nazionale del Lavoro - intestato al Club Ausonia IBAN: IT81O 0100516300000000000193 I contributi in testo e in immagini sono prestati volontariamente e a titolo gratuito. In questo numero: Editoriale - Società - Paure ed egoismo La crisi della “società liquida” (di Pino Rotta) Società - Giorgio Agamben, Stasis. La guerra civile come paradigma politico. (di Giancarlo Calciolari) Economia - Un masterplan per il Sud (di Domenico Marino e Pietro Stilo) Economia - Economia Sommersa e il Lavoro non Regolare (di Sergio V. Morabito) Esteri - Brasile – Criminalità: La mano armata della legge (di Domenico Grillone) Esteri - Grecia: un futuro che non si vede pag. 2 pag. 3 pag. 5 pag. 6 pag. 7 (di Giorgio Apostolopulos ) pag. 8 Società - La buona, la Brutta e la Cattiva scuola (di Luisa Nucera) pag. 9 Società – La fascinazione del linguaggio sociale (di Salvatore Romeo) pag. 10 Società – Il peso della felicità: nuove emergenze nei disturbi della nutrizione e dell’alimentazione (di Maria Laura Falduto) pag. 11 Pensiero - Jean-Luc Nancy: la comunità sconfessata (di Gianluca Romeo) pag. 12 Pensiero - Intelligenza Artificiale: nuove frontiere per le macchine nella società contemporanea. (di Domenico Rosaci) pag. 13 Arte - Quando il cinema incontra il teatro Il Live cinema di Klaus Gehre (di Elisa Cutullè) pag. 14 Arte - I semi della tradizione (di Kreszenzia Gehrer) pag. 15 Arte - Klimt e l’Albero della Vita (di Demetrio Libri) pag. 16 Fuori sommario: - Società - Gerard Haddad, dans la main droit de dieu, psycanalyse du fanastisme (di Pino Rotta) - Poesia - Premio Letterario Internazionale "Alda Merini Katia Colica si piazza al secondo posto con la poesia "Fibula" (redazionale) HELIOS magazine 2015 n. 3-4 L Paure ed egoismo La crisi della “società liquida” di Pino Rotta ’Occidente sta vivendo l’epoca postmoderna senza paradigmi di riferimento forti ed univoci da cercare guardando nel suo passato. In un certo senso tutte le crisi che stiamo vivendo sono fenomeni già conosciuti nella nostra storia. Storie di guerre, crisi economiche, immigrazioni ed emigrazioni di massa. E a questi fenomeni si associano altre manifestazioni sociali ed individuali che pure abbiamo conosciuto nel passato. Razzismo, xenofobia, suicidi, omicidi seriali, regressione dei diritti e del ruolo delle donne e degli omosessuali e sul piano politico, lo sfaldamento di classi dirigenti e della coesione nazionale a cui oggi si aggiunge anche lo sfaldamento del sogno degli Stati Uniti d’Europa. Tutto già visto. Tutto già successo. I singoli fenomeni li possiamo analizzare e contestualizzare perché ne conosciamo cause ed effetti. Quello che ci sfugge è la comprensione della complessità e della “contemporaneità” di questi fenomeni e quindi ci sfugge l’individuazione delle soluzioni per gestirne gli effetti sia psicologici che socioeconomici. Come mai? E’ evidente che, se si analizza la società approfonditamente, i singoli fenomeni assumono dimensioni meno catastrofiche di quelle che invece complessivamente vengono percepite. Da un lato ciò è dovuto alla trasformazione della velocità e del modo di diffusione delle informazioni. L’effetto dell’azione dei media globali (televisioni satellitari, testate online, social network, connessione continua tramite i nostri dispositivi tascabili) amplifica e rende sempre “presente e vicina” la minaccia e mentre viene diffusa questa sensazione viene anche offerta la scelta di posizione da assumere: a favore o contro. Ma qualunque sia la reazione, l’omologazione delle scelte, non importa in quale senso, determina una ulteriore amplificazione della pressione sociale alla ricerca di soluzioni rapide ed efficaci, corrispondenti al mezzo con cui le sensazioni, le emozioni e le informazioni vengono condivise. Anche a livello della psicologia individuale si hanno effetti di tipo analogo. La percezione della minaccia incombente induce gli individui, anche quelli che di fatto non sono e non potrebbero essere 2 Editoriale fattualmente in uno stato di pericolo, ad una reazione emotiva impropria. D’altro canto, in Occidente, vi è una reale trasformazione della struttura produttiva e degli assetti geopolitici che negli ultimi venti anni hanno disintegrato i precedenti assetti che, con tutte le contraddizioni uscite dalla guerra fredda, erano diventati “consueti” e punti di riferimento conosciuti e psicologicamente gestibili dalla collettività e dagli individui. Quindi oltre ad un fenomeno di percezione c’è effettivamente in atto una trasformazione reale della società. Avvenuta in termpi più lunghi, circa il periodo che va dal 1990 ad oggi, ma i cui effetti vengono percepiti da pochi anni a causa della concomitanza delle crisi umanitarie e della crisi economica. Questi tempi e questi modi nella percezione e nella gestione della realtà sociale e privata sono nuovi ed ancora poco esplorati e determinano uno stato costante di incertezza e di ansia. La cosiddetta Globalizzazione, che altro non è che la ristrutturazione del capitalismo a livello mondiale, spostando i territori di interesse dai paesi tradizionalmente capitalisti dell’Occidente in altri di grande potenziale per il profitto, quali India, Cina, America Latina, ha realmente spostato risorse economiche (a volte legalmente, con lo spostamento di intere aziende nei nuovi paesi emergenti e impoverendo il paese che lasciavano, e il più delle volte illegalmente con il trasferimento del frutto dell’evasione fiscale e con i proventi dei traffici della criminalità organizzata diventata Holding internazionale) e causato conflitti su larga scala per la conquista delle nuove posizioni HELIOS magazine 2015 n. 3-4 Società strategiche sia nel campo energetico che politico. La guerra è uno strumento reale dell’espansione del capitalismo, lo è sempre stata solo che l’Occidente, che ha vissuto mezzo secolo di pace interna, lo aveva dimenticato. E come accadde dopo la Prima e la Seconda Guerra mondiale, la gente colpita da questa violenza scappa verso quei paesi che sa essere comunque migliori in termini di sopravvivenza e protezione. Nessun muro fermerà la disperazione. Ma tutto questo crea di fatto la rinascita di nazionalismi, egoismi protezionistici, motivazioni unilaterali di Governi che, non essendo in grado di gestire i problemi, cercano di andare incontro agli umori della massa con proclami altisonanti che non solo non risolvono i problemi ma che alla lunga si ritorcono contro in termini di consenso in una continua rincorsa alla linea più dura e “decisionista”. Si rialzano non solo muri fisici tra le nazioni, rinasce il senso di appartenenza ad un’etnia nella realtà inesistente ma sorretta su mitici valori tradizionali, ma rinasce soprattutto il “muro psicologico”, cioè rinasce la ricerca di una via d’uscita egoistica ed individualistica, che di fatto è una delle concause della crisi. La società “liquida” teorizzata da Zygmut Bauman, torna ad irrigidirsi sia in termini politici, che economici (l’abbandono dell’Euro da tanti invocato!) che in termini di coscienza individuale. La disfatta dell’Occidente può essere realmente causata dalla retorica della paura. Non sarà certo il Capitalismo a crollare ma il sistema di valori civili e democratici e le garanzie sociali che sono stati il fondamento dell’Unità Europea, dell’essere Europeo e da questa sorte catastrofica per tutti gli occidentali, non solo europei, solo la ripresa del processo di Unità politica dell’Europa può avviare un processo di inversione e di rinascita. n Giorgio Agamben, Stasis. G La guerra civile come paradigma politico. Homo sacer, II,2, Bollati Boringhieri, 2015 di Giancarlo Calciolari iorgio Agamben, per alcuni il filosofo italiano più noto all’estero, in particolare in Francia, dove è molto citato, e che ha un debito formativo mai estinto con Martin Heidegger, ha ripreso la questione della teoria della guerra civile il cui nome nella Grecia antica è stasis. Parte dalla constatazione di un altro autore, Roman Schnur, che nel 1986 annotava che mancava – e manca tutt’ora – una dottrina della guerra civile. Aggiungeva pure che la disattenzione nei confronti della guerra civile andava di pari passo al progredire della guerra civile mondiale. Giorgio Agamben interrogandosi anche sull’ademia, sull’assenza di popolo, trova la questione dell’origine della guerra civile né nella famiglia né nella città, né nell’oikos né nella polis, ma nel funzionamento inter- no tra le due, ben che la sua origina la reperisca nella famiglia, ma si sviluppi in combinazione con la città. Si dovrebbe dire che la stasis nasce in famiglia e si consacra nella città. Questo aspetto che per Agamben è un risultato è invece da leggere, da porre in questione, come la coppia citata di Carl Schmitt di amico-nemico, che nasce nella Repubblica di Platone. La stasis starebbe al posto della soglia, della porta, dell’apertura: sarebbe la soglia delle congiunzioni e delle disgiunzioni, ossia la negazione dell’apertura 3 HELIOS magazine 2015 n. 3-4 come giuntura e separazione. La separazione non è una disgiunzione. Quella che Giorgio Agamben chiama la guerra civile mondiale è la questione chiusa in estensione. La questione chiusa risiede nei tre principi aristotelici, in particolare nel principio del terzo escluso, che è anche il terzo rappresentato nella dicotomia amico-nemico. E la guerra civile è la negazione della guerra intellettuale, che è arte della guerra in Niccolò Machiavelli. E poi non è la guerra civile a chiamarsi stasis nella Grecia antica: è stasis nella Grecia antica a tradursi oggi con guerra civile. E guerra appartiene a una costellazione linguistica che non è quella di stasis. Werra è stato il dispositivo germanico che è riuscito a scalzare il regno del dispositivo romano, bellum. La guerra è dispositivo, non convenzionale, sul quale l’impero è franato: ogni impero e ogni suo ricordo. Anche il terzo impero, il terzo Reich. Anche l’impero americano e oggi gli emergenti imperi asiatici. La guerra intellettuale procede dalla questione aperta e dissipa ogni immaginazione e ogni credenza nel discorso della morte, che rimane tale anche nel testo di Giorgio Agamben, preso nell’ontologia dell’animale e in quello della famiglia e della città. La famiglia che procede dal discorso greco è la famiglia tragica e così la città che procede dal discorso greco è la città tragica, la città del capro, del tragos, della vittima. E qual è il regno, l’impero del discorso greco? È quello della paura. Le sue quattro forme sono il terrorismo, l’unica forma citata dal filosofo, l’orrorismo (che non è il corollario di cui parla Adriana Cavarero), lo spaventismo e il panicismo. E dinanzi alla paura non serve né battere in ritirata, come fanno i presunti comuni mortali, né affrontarla come fanno i rari come Martin Heidegger. La paura va dissipata ciascuna volta. Non va accettata. A ciascuno, non a ognuno, spetta di non prendere parte alla guerra civile, a costo di essere privato dei diritti politici, come capita. Occorre trovarsi disarmati, senza più armi convenzionali, senza più una cartuccia da sparare nel circo della società dello spettacolo. Come si è trovato Francesco Petrarca dinanzi all’amore. Il disarmo è l’analisi, l’assenza di soluzione. Non è la soluzione perfetta alla guerra civile mondiale che pare dominare la scena con il terrorismo e la sua lotta contro. Ora il confronto con la punta dell’elaborazione teori4 Società ca della psicanalisi non c’è in Agamben, che non sembra nemmeno sfiorato dall’opera del giurista e psicanalista Pierre Legendre, che incrocia spessissimo i suoi campi d’indagine e ha un’opera considerevole e importante, anche se noi non gli abbiamo risparmiato le nostre obiezioni. E non c’è il confronto con la cifrematica di Armando Verdiglione, l’ultra-psicanalisi, per parafrasare l’ultra-filosofia di Giacomo Leopardi. Ancora un cenno al disarmo: non è l’inoperosità di Agamben che vorrebbe disinnescare la macchina del potere. Occorre il disarmo come analisi, come dissipazione delle soluzioni offerte da ogni dottrina del potere, che in questo libro si specifica quale guerra civile come paradigma politico. La politica del fare, la sessualità e non la guerra erotica uomosessuale, non ha paradigmi. Nessuna logica della politica. La politica è l’altra faccia della logica: la richiede ma non è declinabile logicamente. La filosofia, e quindi anche la filosofia politica, è il tentativo impossibile di scrivere una logica della politica, da Platone a Foucault, da Aristotele a Agamben. La prolessi della vita, l’anticipo che dovrebbe offrire la logica della politica (leggibile su un nastro di zero e uno sul quale Alan Turing stesso avrebbe potuto leggervi il suo suicidio) si realizza come metessi della vita, ossia una procastinazione di ogni elemento originario per sopravvivere nelle finzioni personali e sociali. I teologi più radicali e assoluti, come anche Maimonide, si accorgono che la via della filosofia è quella degli smarriti. Quindi più nessuna ontologia della guerra civile e della sua dottrina, che ancora insegue Giorgio Agamben. Occorre che ciascuno dissipi la credenza nella guerra sostanziale e mentale, di cui la guerra civile ne è solo un aspetto. La guerra intellettuale è quella del disarmo, che solo l’amore può dare. n HELIOS magazine 2015 n. 3-4 Economia Un masterplan per il Sud I di Domenico Marino e Pietro Stilo (*) l Premier Matteo Renzi ha lanciato nei mesi scorsi l’idea di un masterplan per il Sud. Un’idea valida per riportare alla luce una questione vecchia e mai risolta, la Questione Meridionale che però per essere compresa in pieno e soprattutto per essere aggredita con politiche opportune deve assurgere al ruolo di “Questione Nazionale”. Da qui dunque la necessità di trovare il modo per far riagganciare la parte Sud del paese al resto d’Italia, necessità simile a quella del Sud dell’Europa o degli Stati Uniti d’America (con i dovuti distinguo) dove vi è la necessità di amalgamare le zone periferiche con il centro-nord. Negli Usa ad esempio vi è un sistema che direttamente demanda al Governo Federale la ripartizione delle risorse ed il trasferimento alle aree meno competitive, ad esempio dal Minnesota verso il Mississippi o dall’Illinois per il South Carolina giusto per fare qualche esempio. Nell’Unione Europea, dove ci sono stati con competitività differenti, questo ruolo dovrebbe essere giocato dai Fondi Strutturali, il cui effetti, però, in questi anni è stato “a macchia di leopardo” e i differenziali di sviluppo generalmente non sono stati colmati, le differenze tra Grecia e Germania sono l’esempio più evidente in tal senso, ma anche gran parte delle regioni meridionali hanno oggi indicatori peggiori di quelli greci. Il tentativo di industrializzazione del Mezzogiorno attraverso finanziamenti a pioggia negli anni ’70 non ha prodotto risultati, ma è stato solo un costo dui cui hanno beneficiato in pochi. Il Sud Italia ha la necessità invece di politiche innovative per la sua ripresa, partendo da pochi ma importanti progetti strategici. Si tratta a nostro avviso di porre dei confini ideali oltre che reali verso i quali guardare, come una frontiera culturale, oltre che fisica, che trasformi i punti di debolezza in opportunità, abbiamo bisogno di trampolini e e non di stampelle. L’essere periferia deve essere un punto di forza e non di debolezza, il Sud è al centro del Mediterraneo uno dei contesti più dinamici del pianeta, solo questo basta a far capire la sua importanza. Il Mezzogiorno non è solo il confine Sud d’Italia ma d’Europa, questo messaggio deve passare a Roma così come a Bruxelles, bisogna quindi creare le condizioni affinché sia strutturalmente capace di camminare alla stessa velocità del resto del paese. Questa è una sfida culturale prima che politica o economica. Il primo punto in agenda in questa idea mediterraneocentrica del Mezzogiorno deve essere la Zona Economica Speciale di Gioia Tauro, collegando il porto ad un sistema che non lo rileghi a “balcone” sul mare, ma che invece sia potenziato da un sistema intermodale e logistico che consenta di farlo integrare al tessuto economico e territoriale sia locale che nazionale. Da qui quindi la necessità di un sistema infrastrutturale adeguato. Se a ciò aggiungiamo la necessità di investire in cultura, in una terra dove disponiamo di un patrimonio unico al mondo per dimensioni e varietà, vediamo come le potenzialità del Mezzogiorno sono tutte da inventare e da sfruttare, in un quadro nazionale ed europeo di riferimento, dal quale non si può prescindere dal corretto utilizzo dei Fondi Strutturali comunitari. Il tema della Competitività è un tema nazionale e al suo interno dobbiamo affrontare la Questione Meridionale. I ritardi che ritroviamo quasi ovunque, infatti, nella seconda edizione dell’Indice di Competitività Regionale (ICR) dell’UE (2013), tra le prime 100 non ritroviamo nessuna regione italiana. Per trovare la prima italiana bisogna scorrere la graduatoria fino alla 128a posizione dove ritroviamo la Lombardia, la Calabria invece la troviamo nella 233a posizione su un totale di 262 regioni d’Europa. Da qui la non procrastinabile necessità di colmare questi gap, attraverso uno sviluppo necessario nel senso più ampio del termine, economico, sociale, culturale, digitale. Si quest’ultimo aspetto altamente innovativo può essere individuato come l’elemento chiave per la modernizzazione dei processi produttivi, evitando tra l’altro, la dispersione delle risorse in mille rivoli come purtroppo si è spesso fatto in passato, in modo non solo da superare il sopracitato gap, ma creare anche quelle economie di scala, proprie dei processi digitali, positive per i territori ed ormai divenute elemento necessario (non l’unico ovviamente) per poter affrontare al meglio le sfide e le opportunità che il processo di globalizzazione pone, in una competizione globale che vede molto spesso i paesi di “vecchia” industrializzazione superati dagli emergenti e questi a loro volta da “nuovi” emergenti o “esordienti” dell’economia globale in una gara senza fine e senza confine, che vede estromessi tutti coloro che non sanno intercettare ed utilizzare la modernità intesa nella sua piena e positiva accezione come strumento di innovazione. In questo senso Mezzogiorno e Resto d’Italia sono indissolubilmente legati, con buona pace dei legisti, nel senso che difficilmente una parte del paese potrà crescere ed essere competitiva se non cresce e diventa competitiva anche l’altra. n *) Domenico Marino, Professore associato di politica economica università Mediterranea di Reggio Calabria. - Pietro Stilo, dottore di ricerca in Scienze economiche e metodi quantitativi, attualmente svolge attività di ricerca presso il Centro Studi di politiche economiche e territoriali Ir-Consult dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria. 5 HELIOS magazine 2015 n. 3-4 L Economia Sommersa e il Lavoro non Regolare di Sergio V. Morabito a Fondazione Studi Consulenti del Lavoro - su dati del Ministero del Lavoro, Inps e Inail 2014/2015 - ha elaborato e pubblicato uno studio sul costo del lavoro nero per la collettività: è stata stimata l’incredibile cifra di 25 miliardi di euro di mancato gettito nelle casse dello Stato. La stima del mancato gettito si basa sulla media delle giornate sottratte agli oneri sociali. In media un lavoratore ha 241 giornate l’anno di lavoro retribuite e la retribuzione media giornaliera è pari a 86,80 euro (come si può leggere nell’ultimo Rapporto coesione sociale 2013, prodotto da Ministero del Lavoro, Inps e Istat). Se consideriamo che la retribuzione annua non assoggetta a oneri ammonta a 41,8 MLD di euro, il mancato gettito previdenziale è di 14,6 MLD di euro (aliquota del 35% calcolata in media tra le classi di contribuzione), il mancato gettito fiscale è di 9,3 MLD di euro (aliquota media del 24,5% al netto di detrazioni fiscali) e il mancato gettito Inail è di 1,2 MLD euro (aliquota media del 27‰). In Italia sono presenti circa 6 milioni di imprese registrate alle Camere di commercio, oltre a 1 milione di ulteriori aziende e/o organismi non iscritti. Nel corso del 2014 sono state ispezionate 221.476 aziende da Ministero del Lavoro, Inps e Inail. Da quest’attività di vigilanza sono stati scoperti 77.387 rapporti di lavoro non denunciati, quindi gestiti “in nero”. Si tratta di una percentuale del 34,94%. Nel primo semestre 2015 è andata un po’ meglio, ma su 106.849 imprese ispezionate da Ministero del Lavoro, Inps e Inail, sono stati individuati circa 31.394 lavoratori totalmente “in nero”, ossia il 29,38%. In media ogni tre aziende ispezionate si scopre un lavoratore totalmente non registrato. Tenuto conto dei sopracitati dati forniti da Ministero del Lavoro, Inps e Inail, la stima nazionale è di oltre 2 milioni di soggetti che ogni anno lavorano completamente in nero. Si tratta di lavoratori completamente sconosciuti alle autorità. I dati 2014/2015 risultano in linea con quanto diffuso ufficialmente negli anni precedenti. “Sono dati che devono fare riflettere sia dal punto di vista della sicurezza sociale che dal punto di vista economico-finanziario”, commenta Rosario De Luca, Presidente Fondazione Studi Consulenti del Lavoro. “Avere rapporti di lavoro regolari crea certamente una limitazione ai casi di tragico sfruttamento, d’attualità purtroppo non solo in questi giorni. E metterebbe a disposizione della collettività cifre molto importanti, vicine a quelle di una Legge di 6 Economia Stabilità. Al decisore politico spetta creare le condizioni normative per incentivare le assunzioni, ad esempio con la riduzione strutturale del costo del lavoro; agli imprenditori di regolarizzare i propri dipendenti”, conclude De Luca. Ad essere colpite dal mancato gettito ci sono anche le regioni. Portando ad esempio la Calabria, vediamo che al 31 dicembre 2014 le risorse economiche sottratte a vario titolo all’erario regionale sono pari a 2 miliardi di euro l’anno. Questo è un dato diffuso dalla Commissione regionale per l’emersione del lavoro non regolare, presieduta da Benedetto Di Iacovo. La stessa commissione ha prodotto un rapporto sull’argomento, in collaborazione con il Centro Studi delle Politiche Economiche e Territoriali dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria, diretto da Domenico Marino. Nel X rapporto sull’Economia Sommersa e il Lavoro non Regolare in Calabria, spiega una nota, “viene anche tracciato il quadro strutturale dell’economia e del mercato del lavoro calabrese. Il lavoro nero e l’economia non regolare costituiscono, come si è ampiamente detto fino ad oggi e nei precedenti rapporti, un indicatore di un utilizzo non efficiente dei fattori produttivi, di evasione fiscale e contributiva di disagio economico e sociale”. Inoltre, “il lavoro sommerso comporta tutta un serie di costi sociali che uniti a quelli economici lo rende una piaga da combattere con forza”, afferma la nota. Il rapporto suggerisce anche la realizzazione di “politiche per governare i processi di cambiamento e di innovazione che, necessariamente, dovranno caratterizzare la regione nei prossimi anni per aumentarne il livello di competitività”. La Calabria deve innovare e crescere economicamente “se si vuole assicurare ai giovani non un lavoro qualsiasi o contagiato da forme irregolari o elusive delle norme contrattuali, ma un lavoro regolare e di qualità”. Il lavoro nero, e lo sfruttamento che ne discende, sono lo specchio di un Paese che non perdona ai giovani la pretesa di voler essere indipendenti e il desiderio di un futuro meno precario. n HELIOS magazine 2015 n. 3-4 Esteri “ Brasile – Criminalità: La mano armata della legge di Domenico Grillone Bandido bom è bandido morto”. Secondo un recente sondaggio di Datafolha, l’istituto di ricerca del “Grupo Folha”, richiesto dal “Forum brasileiro de Segurança Publica”, il 50 per cento degli intervistati concorda con la frase (un buon bandito è un bandito morto) che simbolizza le esecuzioni tout court, quelle extragiudiziali o, per meglio intendere, gli omicidi eseguiti per vendetta, magari dopo un “assalto”, così chiamano i brasiliani gli atti di violenza contro le persone, o una rapina. A questo si aggiungono gli ultimi dati ufficiali pubblicati dal quotidiano Folha de Sao Paolo” che indicano in 3.022 le persone uccise in Brasile nel 2014 per mano di poliziotti, militari e civili. La violenza in Brasile, ma in genere in tutto il continente sudamericano, ha raggiunto picchi davvero preoccupanti se è vero che sono più di 50mila l’anno gli assassinii registrati nel paese verde oro. E delle 50 città più violente della terra, 16 sono brasiliane, secondo uno studio realizzato dalla Ong messicana Consejo Ciudadano para la Seguridad Pública y la Justicia Penal. Dati che potrebbero essere ancora più tragici: lo studio, infatti, considera soltanto le città con popolazione superiore a 300 mila abitanti, escludendo completamente quelle più piccole del Nordest, dove la situazione è ancora più grave. Insomma, è come se il Brasile fosse in piena guerra civile. Ma nessuno lo dice apertamente. Basti pensare che dal 2011 al 2014 in Brasile, sono state assassinate quasi 200 mila persone. Un tasso di omicidi tra i più alti del mondo: 27,5 morti ogni cento mila abitanti, secondo le stime del governo di Brasilia. Nello stesso periodo la guerra civile in Siria ha provocato la morte di circa 100150 mila persone; gli attentati e le violenze in Iraq hanno prodotto circa 20 mila decessi e sono state uccise circa 2 mila persone nei disordini scoppiati in Libia dopo la caduta di Gheddafi. Per non parlare delle donne (nel 2012 il Brasile è stato il settimo paese al mondo, in una lista di 84, per numero di femminicidi, secondo la “Mappa della Violenza”), per le quali la presidente Dilma Roussef ha proposto, e poi fatto approvare dal parlamento, una legge che aggrava le conseguenze e la pena per chi commette una qualsiasi violenza, di genere o domestica, verso le donne e le ragazze. Quindi, confrontando i numeri, si nota facilmente come la violenza in Brasile sia endemica. Il problema, indicato da tutti gli studi, è che esiste una vera e propria cultura della violenza in Brasile, molto radicata principalmente nei segmenti più poveri ed emarginati della socie- tà, a cominciare dalle favelas. Un fenomeno che, paradossalmente, incoraggia il ritorno degli “Squadroni della morte”, tristemente famosi nell’epoca della dittatura, impiegati in operazioni di “Limpeza social” (pulizia sociale). Fenomeno, quest’ultimo, alimentato dalla quasi totale assenza del potere pubblico in vaste aree urbane e suburbane, dalla mancanza di commissariati di polizia civile o caserme di polizia militare negli stati del Nordest o dell’interno del Brasile. Succede così che i parenti di vittime di omicidi non hanno modo di rivolgersi alle autorità. Facile pensare di farsi giustizia con le proprie mani. Un sentimento di vendetta alimentato anche dalla presenza abbondante di armi da fuoco: si stima, infatti, che ne circolino circa 20 milioni, la metà delle quali illegali. Per questo motivo il Brasile è il campione mondiale di omicidi commessi con armi da fuoco: circa 35 mila l´anno. Ma, a differenza di altre aree geografiche dove i conflitti si basano essenzialmente su motivi etnici, geopolitici o religiosi, in Brasile l’elemento scatenante può essere facilmente ricondotto alle terribili condizioni sociali, caratterizzate da differenze abissali di reddito e di qualità della vita tra le diverse fasce della popolazione. E nonostante il Paese negli ultimi trent’anni ha attuato imponenti programmi per la promozione sociale per i più svantaggiati, il numero di omicidi è continuato a salire. Insomma, per molti studiosi ed esperti brasiliani si tratta di una questione di salute pubblica, “di una grave e continua violazione dei diritti umani, che opprime e sconvolge una società, famosa per la sua allegria e ospitalità” che andrebbe affrontata in maniera determinata, al pari di come si vorrebbe affrontare la crisi economica che sta coinvolgendo tutto il paese. Una violenza che impedisce ad una parte significativa dei giovani brasiliani di godere dei progressi sociali ed economici raggiunti negli ultimi anni. E che è causa di una tragica perdita di talenti, fondamentali per il futuro sviluppo del paese. n 7 HELIOS magazine 2015 n. 3-4 Esteri Grecia: un futuro che non si vede E di Giorgio Apostolopulos ora? In massiccia paralisi la popolazione, oberati di lavoro da insonnia e stremato dalla assunzione di cancellazione cercando di ingoiare l’indicibile. Sì, abbiamo perso, ma che cosa? Guerra, battaglia, le impressioni, la coscienza di giudicare in modo chiaro, la nostra fede che può fare diventare forte i deboli, la speranza, la prospettiva, l’orgoglio, la vendetta? Come se avesse paralizzato tutto il mondo nelle ultime 48 ore , e si è occupato esclusivamente con l’edizione greca. On line l’intero pianeta con la Grecia e il ragazzino con le banche chiuse e aperti tutti i midia del terrorismo è stato entro cinque mesi Primo Ministro del 61%, mediando la scansione di tutti gli indicatori. Ha detto fin dall’inizio che questa soluzione o sarà politica o non esisterà affatto. Si e contrattatto con gli usurai del estero, ballando da solo con i lupi della politica, con il suo herpes in primo piano e i serpenti locali del club locale “Geroun fermezza” a combaterlo fino alla fine per applicazioni di un governo particolare. In cinque mesi ha internazionalizzato il ??problema greco, ancora una volta ha portato la politica in primo piano, ha mostrato il totalitarismo del sacerdotismo e il deficit democratico in Europa, ha evidenziato la patogenesi della zona euro, ha dichiarato l’arroganza tedesca ha causato una spaccatura in Europa e mobilitato popoli e governi in modo che mai prima d’ora era succeso nella storia europea moderna. E tutto il mondo è in piedi per la Grecia. In hashtag #ThisIsACoup (si tratta di un colpo di stato) in twitter, ha registrato 150 milioni di tweets cittadini provenienti da tutto il mondo, per protestare contro l’atteggiamento della Germania contro la Grecia. E allora? che è successo? Sappiamo che Alexis Tsipras è stato maltrattato senza pietà in Europa. Ci siamo identificati con lui, e abbiamo sentito il “morire come Paese” più vicino che mai. Intorno alle 06:00 di quel giorno ha ottenuto la chia8 ve che poteva, se fatta girare far saltare in aria la Germania e l’Europa. Che cosa è successo lì? Cosa si è trascorso? Che cosa si è qualificato? Il male necessario di fedeltà, o hanno bisogno di una buona capitolazione dolorosa che darà forma al trattato per il prossimo progetto ? Se in quel momento avesse sbattuto tutto in aria e, girando le spale, fosse tornato ad Atene a mani vuote ma con il petto pieno di orgoglio, due milioni di persone ci sarebbero trovate all’aeroporto per portarlo in trionfo come un Dio del Olimpo. E il giorno dopo? Nessuna risposta da chiunque. Quello che è successo è una misto tra colpo di stato e il trattato di Versailles. Le misure selvaggiamente insopportabili , non possono e non devono essere attuate. Syriza è il primo Governo che ha modellato le sue linee politiche definitivamente dalle richieste e dalle esigenze della società. Non esiste senza ciò osmosi. Finora non ci sono risposte concrete circa la nuova architettura che è arrivata da Bruxelles. E’ molto brutto per essere vero però Tsiprasè troppo giovane per un suicidio politico. Così ricorriamo temporaneamente ai necessari cliché della consolazione, con l’intuizione che si può ed è la visione del prossimo futuro. Tutto andrà bene alla fine. E se non andrà bene significa che non è la fine. n HELIOS magazine 2015 n. 3-4 Società La buona, la Brutta e la Cattiva scuola L di Luisa Nucera ’uomo è sempre in dubbio di fronte alle verità. O alle presunte verità. Nulla è come sembra infatti dato che esistono tante verità.Il problema è dibattutissimo in filosofia dove si mettono in campo quasi sempre verità e realtà, fantasia e immaginazione. Esistono le cose vere e le cose false; le buone e le cattive, le belle e le brutte. Chi di noi non ha incontrato, almeno una volta, le false amicizie, i falsi miti, i falsi pregiudizi. Tuttavia esistono l’amicizia, il mito e il pregiudizio. Persistono nel tempo nelle loro svariate manifestazioni; belle brutte, vere, false.. E poi c’è l’arte di governare le società che chiamiamo politica e che domina ogni aspetto della vita umana. Una politica che sin dalla sua comparsa vuole apparire vera, buona e bella ma che si rivela spesso, cattiva, brutta e falsa. In democrazia nessun fatto di vita si sottrae alla politica. A tal proposito, discutendo di filosofia e politica,non dobbiamo rimuovere, un fattore semantico importante e interessante. Le parole democrazia e libertà non sono sinonimi. Ci può essere democrazia senza libertà e libertà senza democrazia. E se manca la libertà la politica non è buona. Se è assente la democrazia, intesa come sistema di governo in cui la sovranità è esercitata dal popolo, la politica diventa brutta e cattiva perché gestita dai più potenti che non appartengono al popolo. C’è poi chi incarna la falsa politica modificando così alcuni obiettivi originari come il raggiungimento di eguaglianze di opportunità e lo stimolo al riscatto morale, finalità ricercate in una sana politica e valide in ogni tempo. In democrazia nessun fatto di vita si sottrae alla politica. La politica che si studia a scuola e che perfeziona la scuola per potere meglio apprendere. Questo ci si aspetta dall’istituzione per antonomasia, simbolo di rivoluzione culturale Ma il dubbio resta; anch’esso umano. Umano troppo umano. La scuola italiana che ha dimenticato di essere il veicolo più importante di diffusione formazione umana-culturale, va avanti a brandelli, bistrattata, deturpata, umiliata e truffata. Forse è colpa della politica. Almeno quella degli ultimi anni e che ha toccato l’apice quando il nostro Presidente del Consiglio ha osato, col suo disegno legge, battezzarla la Buona Scuola. Da qui la perplessità sull’aggettivo “buona”. Quasi una beffa. Una presa per i fondelli… Una scuola sulla quale hanno promesso riforme, stanziamento di fondi, miglioramenti. False promesse. Una lotta continua contro la precarietà e l’austerità. Il Capo del Governo è convinto di aver messo un punto a queste due criticità. Peccato però che sia solo lui a crederci. Procedere nel percorso di sostanziale privatizzazione del sistema formativo non è affatto gradevole e elimina la meta dell’istruzione pubblica accessibile a tutti; significa frantumare il sistema scolastico pubblico al pari di quello universitario. L’Italia dell’istruzione pubblica e obbligatoria è questa. Ma c’è di più. L’introduzione dei sistemi di valutazione e merito diventano strumenti di feroce selezione per far competere sulla miseria, mentre l’intera gestione, centralizzata nelle mani del preside-manager, determina la qualità della scuola legata al contesto territoriale, sociale ed economico. Riemerge il dubbio di fronte alla realtà. Qual è la vera e buona scuola? La politica governativa non ha come priorità la risoluzione positiva delle diseguaglianze? Alla luce dei fatti sembrerebbe accettarle compiacente rendendo così l’intera istruzione appetibile agli interessi dei privati. Meno male che la fantasia e l’immaginazione aiutano a sognare sperando che un giorno si possa spiccare il volo. Allora i professori aspettano tempi migliori. Come gli uccelli migratori che, in diversi periodi dell’anno compiono spostamenti. Poi, dopo un lungo percorso, ritornano nelle loro zone; acquisiscono competenze e tornano a casa. Forse a questo scenario pensavano i Ministri dell’istruzione quando hanno ideato il progetto legge in base al quale numerosissimi insegnanti, precari da decenni, e non più in giovane età, spesso con famiglie a carico, sarebbero obbligati, per continuare a svolgere la loro professione a tempo indeterminato, a cambiare regione persino a moltissimi kilometri di distanza. Non è previsto alcun rimborso per coloro che coraggiosamente si sono lanciati in questa sfida temeraria e scriteriata. Insegnanti che per anni hanno fatto i pendolari dedicandosi al processo educativo con amore e vocazione costretti a sentirsi commessi viaggiatori, operai e free-lance che rispondono justin-time alla produzione della macchina scolastica. In cambio di un modesto stipendio. Alcuni non hanno avuto scelta. Non hanno avuto la libertà di scegliere. Sopravvivenza e bisogno interiore che li trasforma in pacchi postali a servizio del MIUR. Legge approvata tra proteste e disperazione collettiva.Hanno però realizzato il loro sogno. Uomini migratori che dovrebbero sentirsi come gli uccelli che hanno spiccato il volo. Donne che ahimè , al loro ritorno, ,non troveranno il cielo come casa, ma le terre le cui porte si chiudono dopo il primo volo. E siccome tale emigrazione è inevitabilmente avvenuta da Sud a Nord, aspettiamoci qualche tweet da qualche esponente politico di turno contro l’invasione scolastica dei professori terroni. Perché lo spostamento equivale ad una vera e propria emigrazione necessaria a migliorare il loro tenore di vita. Legge attuata. Emigrazione intellettuale.Docenti che conserveranno il senso del territorialismo e di appartenenza alle loro radici nella speranza che esso possa, al loro rientro, rideterminare le sorti della storia. E’ pur vero che la loro angoscia rimanda un po’ alle antiche deportazioni. Una sorta di elemosina del corpo docente cui un’Italia fragile ed instabile riduce. A discapito di una minoranza che ha scelto di rinunciare al ruolo considerandolo una specie di illusione metafisica. Perciò ha assunto, in una vita che ci sfugge, il ruolo quotidiano di conservare decoro e dignità. E’ questo forse il ruolo di ogni uomo, prima ancora che di intellettuale. n 9 HELIOS magazine 2015 n. 3-4 Società La fascinazione del linguaggio sociale E di Salvatore Romeo (*) sistono due tipi di comunicazione: una che si richiama alla logica e alla realtà dei fatti, un’altra che invece fa appello alla fascinazione e all’illusione. La prima è quella che in gran parte utilizziamo nelle nostre attività comuni e quotidiane, rapportandoci con un interlocutore che riteniamo razionale e in grado di adoperare in modo maturo tutti gli strumenti del libero arbitrio per discernere ed elaborare oggettivamente ciò di cui si parla. In questo caso l’interlocutore non rappresenta certamente un essere irrazionale e immaturo, sulla cui ingenuità giocare per ammaliarlo e convincerlo della verità di cui stiamo argomentando, bensì un individuo capace, emancipato e in possesso delle umane funzioni di critica e di giudizio. In una parola l’interlocutore è a tutti gli effetti un essere intelligente e pensante, dal momento che critica e giudizio sono espressioni raffinate, rispettivamente, del pensiero e dell’intelligenza, funzioni con le quali possiamo discernere sia il vero dal falso che l’oggettivo dall’arbitrario. La seconda forma di comunicazione si basa, invece, sull’assunto che l’interlocutore sia, più o meno, un individuo illogico, irresponsabile e impreparato sulla cui semplicità di pensiero e di intelligenza agire per condizionarlo e convincerlo della veridicità delle nostre tesi. Nel linguaggio politico e massmediale odierno (non mi sento di definirlo moderno o postmoderno) la comunicazione logica e razionale si è quasi completamente eclissata e non si fonda minimamente sull’esposizione di programmi più o meno dettagliati, su dati oggettivi o su ragionamenti consequenziali che avrebbero tutte le carte in regola per “convincere” la gente sulla base della reale evidenza dei fatti. La qualcosa significherebbe, in fondo e confidando sulla bontà delle nostre idee, affidarsi al buon senso e al libero arbitrio di un interlocutore ritenuto pensante e intelligente. La comunicazione fascinosa e impressionistica del linguaggio attuale si rivolge, invece, essenzialmente al nostro inconscio, bypassando le nostre facoltà razionali e critiche. I sentimenti e le idee vengono orientati in un’unica direzione e gli interlocutori divengono un’anima collettiva suggestionabile, alla quale è possibile dipingere una realtà manipolata e funzionale ai propri scopi. Di fronte a un’evidenza dei fatti virtuale e artefatta, condivisa dalla maggioranza, ogni diversità verrà interpretata come un limite ed ogni atteggiamento critico, che potrebbe a buon ragione germogliare nell’intimo pensare del singolo, verrà soffocato e represso. Su questa strada l’idea differente rappresenterà pertanto un ostacolo e la massa si uniformerà ad un pensiero unico che, in fondo, costituisce 10 la dissoluzione sostanziale della libertà e della democrazia. In Italia questa forma di comunicazione ha, negli ultimi tempi, fatto passare come indici di modernità, di sviluppo e di evoluzione temi che francamente sarebbero risultati inaccettabili se posti in altri termini. Nel quadro di una comunicazione suggestiva e analogica le parole e gli argomenti impiegati per promuovere un’idea non hanno poi tanto valore se non nella misura in cui suscitano un’immagine, un’atmosfera globale che fa leva sull’emotività, su valori e su situazioni rappresentati come ineludibili e scontati, specialmente se il messaggio viene veicolato mediante un atteggiamento semplice e impressionistico e reiterato nel breve e medio termine. Qualsiasi contenuto, anche il più debole e inaccettabile, acquisisce col tempo carattere di veridicità se continuamente ripetuto e, spesso, rinforzato da prove tautologiche. Un esempio, tra i tanti, è la riforma del lavoro. Si può essere favorevoli o contrari ad essa, non entro nel merito, ma è indubbio che essa sia stata realizzata manipolando socialmente la forma di comunicazione e dove si parlava di diritti dei lavoratori si è cominciato a parlare, invece, di privilegi. Nell’immaginario collettivo la riforma, di conseguenza, non è andata nella direzione della cancellazione di diritti conquistati attraverso decenni di lotte e di confronti, bensì verso l’abolizione di privilegi… Mentre la realtà dei fatti è che siano stati cancellati dei diritti acquisiti, il messaggio che si è lasciato passare è invece quello secondo cui sono stati eliminati dei benefici arbitrari. Questo tipo di comunicazione, in ultima analisi, parte dalla convinzione, ahimè, che la gente rappresenti semplicemente una massa irrazionale da condizionare e manipolare al meglio agendo sulla sua sfera emozionale. La propaganda, in questo senso, prende il posto dell’oggettività ed è in grado di capovolgere ogni dato della realtà, rappresentando quest’ultima in funzione degli obiettivi che si vogliono raggiungere. Non è più una comunicazione sociale che mira palesemente alla manipolazione dell’individuo, ma una trasmissione di messaggi che disegna una realtà soggettiva e virtuale all’interno della quale l’individuo si ritrova inconsapevolmente ad operare scelte e ad elaborare opinioni indirettamente condizionate. n (*) psichiatra HELIOS magazine 2015 n. 3-4 Società I Il peso della felicità: nuove emergenze nei disturbi della nutrizione e dell’alimentazione di Maria Laura Falduto (*) disturbi dell’alimentazione e della nutrizione sono alcuni dei disagi sempre più frequenti tra i giovanissimi che sollevano al clinico, agli educatori ed alle famiglie interrogativi importanti che oltre all’atteggiamento nei confronti del cibo (rifiuto, restrizioni eccessiva attenzione, abbuffate ecc.), riguardano l’ essere in relazione; il Ministero della Salute avverte “troviamo oggi, in numero sempre maggiore, casi di bambini e preadolescenti con alterazioni del comportamento alimentare e relativi quadri clinici molto simili a quelli che fino a poco tempo fa si osservavano solo nell’adolescente e nell’adulto, come l’Anoressia e la Bulimia Nervosa. Gli studi epidemiologici internazionali mettono in evidenza una incidenza di nuovi casi dei DCA nella fascia femminile tra i 12 e i 25 anni e stimano nei paesi occidentali, compresa l’Italia, la prevalenza dell’Anoressia nervosa intorno allo 0,2 - 0,8%, quello della Bulimia nervosa intorno al 3%, quella del Binge Eating tra l’8 e il 10% e quella dei Disturbi del Comportamento Alimentare Non Altrimenti Specificati (DCA - NAS) tra il 3,7 e il 6,4% e che l’età di esordio per lo più cade tra i 10 e i 30 anni, con una età media di insorgenza intorno ai 17 anni. La patologia appare dunque in continuo aumento per quanto riguarda la Bulimia e il Disturbo da Alimentazione Incontrollata o BED (Binge Eating Disorders)”. Secondo il DSM-5 Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, i disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione (prima disturbi dell’alimentazione e del comportamento alimentare) sono caratterizzati da un persistente disturbo dell’alimentazione oppure da comportamenti inerenti l’alimentazione che hanno come risultato un alterato consumo o assorbimento di cibo e che compromettono significativamente la salute fisica o il funzionamento psicosociale. Tra le cause, le analisi scientifiche e sociologiche concordano sull’interdipendenza dei fattori genetici, individuali e familiari ma anche su quelli culturali e sociali dovuti al rapido processo di occidentalizzazione, a tal riguardo è importante ricordare il concetto culture-bond secondo cui i disturbi del comportamento alimentare risentono molto delle influenze culturali come dimostra la loro assenza nei paesi più poveri dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina per es. Non si può prescindere dal fatto che nei paesi industrializzati i cambiamenti sociali, abbiano comportato un notevole slittamento dei ruoli familiari che appaiono oggi confusi e più in generale, un sostanziale cambiamento nei ritmi strutturali ed in quelli psico-affettivi del sistema famiglia. Uno degli effetti quotidianamente osservabili è che la rete virtuale ha preso il posto della rete interpersonale con un conseguente appiattimento affettivo ed emotivo e soprattutto una maggiore predisposizione, soprattutto fra i giovanissimi, ai fattori di rischio (messaggi disfunzionali lanciati dai media, adeguamento agli stereotipi culturali, condizionamenti esterni e limitanti, aspettative disfunzionali ed irrealistiche riguardo il proprio corpo, insoddisfazione corporea ecc). Le interpretazioni psicoanalitiche riconducono il disturbo alimentare a situazioni in cui spesso abbonda l’oggetto (il cibo appunto) ma scarseggia l’amore. “Se sono malattie della relazione, allora è chiaro che l’educazione alimentare, seppure svolga un ruolo importante nella formazione dei giovani alle buone pratiche, non è sufficiente anzi, se non incrementata ad un alto livello rischia di produrre gli effetti opposti. Fare diagnosi di anoressia o obesità non è sufficiente, da un punto di vista clinico sarebbe la semplice registrazione di un dato di fatto evidente. E’ importante invece per fare diagnosi, scendere in profondità, riuscire a dettagliare la struttura di personalità che il fenomeno monocromatico dell’anoressia ricopre” (M.Recalcati), quelli che sono i disturbi in comorbidità e le dinamiche relazionali. Per fare questo, il lavoro del singolo specialista non basta: l’ incidenza sempre più frequente dei disturbi della nutrizione e dell’alimentazione, rappresenta un’emergenza che richiede un’ aggiornamento e una formazione continua poiché molti di questi disagi se trascurati o non adeguatamente trattati, conducono a condizioni psicopatologiche complesse oltre che a danni organici e metabolici importanti: le conseguenze della denutrizione riguardano tutti gli organi e apparati del corpo, i comportamenti di eliminazione inoltre compromettono l’ apparato gastrointestinale, l’attività elettrolitica e la funzionalità renale. Pazienti con anoressia grave possono presentare specifici deficit nutrizionali: carenze vitaminiche, deficit di aminoacidi o di acidi grassi essenziali, modificazioni endocrine (amenorrea diminuita produzione di ormoni tiroidei). E’ necessario pertanto definire un protocollo che preveda una parte di prevenzione inerente la sensibilizzazione e la formazione coinvolgendo soprattutto medici di base e pediatri , visto il preoccupante abbassamento d’insorgenza di tali disturbi, ed una parte operativa che riguardi in primis la valutazione delle complicanze mediche e dello stato di salute generale del soggetto ed attraverso un lavoro di équipe multidisciplinare (neuropsichiatra infantile, psichiatra, psicologo, terapista della psicomotricità, nutrizionista, educatore, medici internisti), l’ implementazione di percorsi personalizzati, tali da garantire interventi modulari a seconda delle diverse specificità, sia per tipologia clinica che relativa gravità, sia per età, condizione sociale, familiare. n (*) psicologa 11 HELIOS magazine 2015 n. 3-4 D Jean-Luc Nancy: la comunità sconfessata di Gianluca Romeo el rapporto fra filosofia e politica ha discusso, nel corso del Colloquio internazionale di studi tenutosi a Messina lo scorso 3 settembre, il filosofo francese Jean-Luc Nancy, voce fra le più autorevoli del panorama culturale internazionale. L’evento è stato presieduto da Giulio Maria Chiodi, Presidente del Centro europeo di studi su mito e simbolo (CESMiS) e da Caterina Resta, ordinario di Filosofia teoretica presso l’Università degli studi di Messina e Direttore del CESMiS. L’occasione per il colloquio è stata fornita dall’uscita del libro, ancora non tradotto in lingua italiana, La Communauté désavouée, una comunità, come ci suggerisce il titolo, “sconfessata”. Il testo rappresenta la risposta, a distanza di oltre trent’anni, all’opera La Comunità inconfessabile di Maurice Blanchot, altro letterato e filosofo d’Oltralpe scomparso qualche anno addietro. Il testo di Blanchot, uscito nel 1983, era stato pensato a sua volta come una risposta alle riflessioni epocali contenute ne La comunità inoperosa, opera fra le più influenti di Jean-Luc Nancy. Al di là del complesso gioco di rimandi fra i due autori, queste nuove considerazioni di Nancy sulla comunità sembrano suggerire come, dopo molti anni, i problemi a suo tempo posti sia ne La comunità inoperosa che ne La comunità inconfessabile, siano ancora di stringente attualità: in primis l’esigenza di ripensare la comunità dopo il fallimento del comunismo storicamente realizzato ma anche l’opportunità di rimettere in discussione la Politica oltre le classiche categorie mediante le quali la comunità si è rivelata come necessaria messa in opera di un progetto politico. La comunità di Nancy, proprio per questo carattere “inoperoso”, fa resistenza ad ogni tentativo di traduzione dell’essere-incomune in una qualsivoglia forma politica. Jean-Luc Nancy non ha risparmiato, nel corso dell’incontro, delle riserve sulle nuove costruzione politiche che, dopo il crollo del muro di Berlino, avrebbero dovuto colmare il vuoto lasciato in eredità dall’ordinamento bipolare. Estremamente significativo, proprio in apertura del suo intervento, è stato il porre l’accento sulle attuali tragedie connesse ai fenomeni migratori, giusto per ricordare che la comunità in quanto fusione in un’unità interna con la conseguente immunizzazione dall’esterno, sia la negazione stessa dell’esserein-comune. L’essere-con, al contrario, garantisce l’apertura verso la dimensione dell’alterità ed evita la chiusura totalitaria della comunità su basi identitarie, biologistiche e territoriali. Nelle politiche identitarie, ci ricorda Nancy, la dimensione dell’alterità è pensata, al contrario, secondo la figura dello straniero minaccioso, dunque mediante la classica coppia hospes/hostis. Il tentativo filosofico di Nancy è, ancora oggi, quello di evitare l’identificazione fra comunità e politica, nel senso di non con-fondere la comunità con una qualsiasi figura che sia uno Stato, una Nazione un Popolo. Per impedire ciò occorre sottrare la comunità ad ogni forma di sostanzializzazione e ad ogni ipotesi fondativa; è necessario dissociarla, quindi, dall’idea che essa sia un’opera da realizzare ad ogni costo, ripudiando la logica per cui, in nome della comunità, è possibile arrivare a sacrificare finanche l’esistenza 12 Pensiero umana. Il terreno più proprio della politica, spogliata da ogni determinazione e paradossalmente destituita da ogni fondamento, è dunque quello ontologico dell’essere-con (non certo quello dell’onto-teo-logia tradizionale), dove il “con” non è una proprietà aggiunta all’essere ma l’essere è già direttamente e subito essere-in-comune o, se vogliamo utilizzare il titolo di un’altra opera capitale di Nancy, è fin da subito Essere singolare-plurale. L’essere perdendo così ogni sostanzialità ed ogni carattere monadico, come suggerisce Nancy, è movimento del divenire, cifra di un rapporto che non può mai entificarsi e dunque cristallizzarsi in una forma data una volta per tutte. Per questo motivo la comunità rischia, come già successe nel pensiero di Martin Heidegger, di scivolare su un terreno assai pericoloso. In Heidegger, ricorda Nancy, convive, già in Essere e Tempo, la paradossale duplicità sia dell’essere inteso come Mitsein cioè “con essere”, che rompeva con il solipsismo ego-logico della tradizione filosofica, sia la declinazione dell’essere come destino e comunità di popolo, che rappresentava, invece, un pericoloso punto di tangenza con il totalitarismo nazionalsocialista. Questa problematica, per Nancy, ha direttamente a che fare con le questioni recentemente riaperte dalla pubblicazione dei Quaderni neri, testi che ripropongono il tema del sinistro rapporto fra Heidegger e la politica del suo tempo. L’invito decisivo di Nancy è, dunque, quello di non smettere, ancora oggi, di pensare più essenzialmente il rapporto fra filosofia e politica. Non è stato casuale il richiamo, giunto quasi in conclusione del suo intervento, della cosiddetta “tentazione di Siracusa”, a cui l’amico Jacques Derrida dedicò un memorabile discorso ad inizio del nuovo millennio, proprio nella città siciliana. Per Derrida, come evidentemente per Nancy, occorre superare il paradigma secondo il quale la filosofia debba fornire necessariamente una teoria alla politica ed i filosofi incarnare, platonicamente, il vertice supremo dello Stato o, più modernamente, agire all’ombra del Sovrano nella speranza di poterlo dirigere. Nancy, che spesso nelle sue opere si serve di suggestive immagini geofilosofiche, invita ad andare oltre questa concezione della politica e lo fa proprio in Sicilia, nella terra in cui è nata e si è fondata, con i viaggi di Platone, la “tentazione” della filosofia politica occidentale. Il senso della politica, ci suggerisce il filosofo francese, invece non è nient’altro che il senso del mondo stesso: «immediatamente mondo, spazio pubblico, corpo, essere-in-comune, estensione dell’anima – distanza del più prossimo, e non: passaggio. Dal dire al fare, dalla roccia grezza al Campidoglio, da Scilla a Cariddi, da un estremo all’altro, da un muro all’altro, da un labbro all’altro, da voi a me, da un tempo all’altro». n J.L. Nancy, Il senso del mondo, Lanfranchi, Milano 1997, pag. 87 HELIOS magazine 2015 n. 3-4 Pensiero Intelligenza Artificiale: nuove frontiere per N le macchine nella società contemporanea. di Domenico Rosaci (*) oi definiamo la nostra specie “Homo Sapiens” perché caratterizziamo l’umanità attraverso la facoltà chiamata “Intelligenza”. Essa è la capacità di percepire sé stessi e la realtà (coscienza), elaborare le informazioni possedute (pensiero) e quindi acquisire e memorizzare i risultati di tali elaborazioni (conoscenza). Per millenni l’uomo si è interrogato su come l’Intelligenza opera, ovvero sui modi mediante i quali sentiamo, pensiamo e conosciamo. L’AI va oltre questi scopi. Essa si propone di costruire macchine intelligenti. Ma in che senso una macchina può essere intelligente? Alan Turing fornì nel 1950 una celebre definizione “operazionale”: una macchina è intelligente se, interrogata da una persona umana, fornisce delle risposte tali che l’interrogante non riesce a distinguere se si tratti di un uomo o di una macchina. Dal 1950, numerosi tentativi sono stati operati per costruire macchine che passassero il Test di Turing, organizzando competizioni a cui partecipano macchine in grado di fornire risposte a domande scritte, ovvero di sostenere una conversazione testuale. Un giudice pone delle domande ad un programma e ad un essere umano, e dalle risposte date il giudice deve riconoscere qual è la risposta fornita dal programma. Una di queste competizioni si tenne a Milton Keynes nel 2012, e fu vinta dalla macchina denominata Eugene Goostman, programmata da Veseloc e da Demchenko per simulare la personalità di un ucraino tredicenne. Il programma convinse il 29 per cento dei giudici di essere una persona umana, e migliorò questa percentuale in un altro test presso la Royal Society di Londra nel 2014, portandola al 33 per cento. Questo risultato, benché significativo, non è stato considerato dalla comunità scientifica come un concreto passaggio del Test, perché non c’è accordo su quale debba essere la percentuale di “successo” da considerarsi sufficiente. Ma la contestazione principale che molti esperti del settore pongono riguarda proprio l’attendibilità del Test di Turing per attribuire intelligenza a una macchina. C’è chi, come il filosofo John Searle, ha osservato che un programma per computer può sembrare che comprenda un linguaggio, ma questo non prova che lo comprenda realmente. In altre parole, si può affermare davvero che l’Intelligenza coincide con la semplice imitazione, per quanto efficace, dell’Intelligenza stessa? La Scienza moderna si sta attualmente orientando sia a creare macchine che esibiscono comportamenti intelligenti, sia a comprendere i meccanismi che caratterizzano le intelligenze biologiche. I sostenitori della cosiddetta “AI debole” si limitano a interessarsi solo al primo orientamento, mentre i rappresentanti della “AI forte” ambiscono a creare macchine in cui il funzionamento stesso emuli quello biologico. Per intanto, proliferano robot intelligenti capaci di operare in modo simili agli esseri umani negli ambiti più disparati. E’ il caso di ASIMO, un robot androide sviluppato dall’azienda giapponese Honda, in grado di camminare, correre, ballare, salire le scale, e persino giocare a calcio, ma anche di riconoscere volti e voci e seguire oggetti in movimento. Ancora più sorprendente è il robot HIRO, capace di apprendere ricercando autonomamente sul Web le informazioni di cui necessita per risolvere un determinato problema, utilizzando una rete neurale SOINN (Self-Organizing Incremental Neural Network). Tuttavia né ASIMO né HIRO sono “coscienti”, cioè non avvertono la propria esistenza. E’ qui che si innesta quella che può davvero essere considerata la frontiera dell’AI, ovvero la cosiddetta “Coscienza Artificiale” (Artificial Consciousness, AC). Gli studiosi di questo settore, che ha origine da alcune teorie presentate alla fine del secolo XX, quali ad esempio quelle di Bernard Baars e Igor Aleksander, ipotizzano che sia possibile realizzare manufatti dell’ingegneria che manifestino capacità coscienti. Lo scienziato cognitivo David Chalmers osserva che l’organizzazione del cervello umano potrebbe essere riprodotta in linea di principio cambiando i “materiali” fisici (ad esempio, usando silicio) e si dovrebbe supporre che le capacità coscienti non cambino perché comunque l’organizzazione rimarrebbe identica. Questi sviluppi estremi dell’AI, oltre che affascinare, seminano anche dubbi nella comunità scientifica. Secondo il cosmologo Stephen Hawking, «lo sviluppo di un’AI completa potrebbe portare alla fine della razza umana. Le forme più primitive di intelligenza artificiale realizzate finora si sono dimostrate molto utili, ma sono preoccupato dalle conseguenze che si avrebbero creando qualcosa che possa eguagliare o sorpassare gli esseri umani». Davvero questa possibilità andrebbe vista come un pericolo? n *) Domenico Rosaci è docente di Ingegneria del Web presso l’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Conduce da circa vent’anni ricerche nel campo dell’Intelligenza Artificiale, dove ha pubblicato oltre un centinaio di articoli scientifici su riviste ed atti di conferenze internazionali del settore. Oltre all’attività scientifica, coltiva un personale interesse per la Filosofia e la Storia delle Religioni. E’ autore dei romanzi “Il Sentiero dei Folli” e “La Zingara di Metz”, e del saggio “Arcana Memoria: Storia dell’Esoterismo”. 13 HELIOS magazine 2015 n. 3-4 K Quando il cinema incontra il teatro Il Live cinema di Klaus Gehre di Elisa Cutullè laus Gehre, già noto al pubblico di Saarbrücken per la sua versione di “The Blade Runner” nella scorsa stagione teatrale (2014/2015), è un regista del XXI secolo a titolo pieno. Con alla spalle uno studio in medicina, Filosofia e Letteratura, da 5 anni ha deciso di intraprendere la carriere di regista con specializzazione in Live-Film. Finora i suoi progetti sono stati messi in scena in diverse città della Germania oltre a Saarbrücken: Francoforte sul meno, Dortmund, Friburgo in Bresgovia e Heidelberg. L’ex-studente di medicina, filosofia e letteratura da un lustro lavora come regista con focus su live-film abbinato al teatro. Le sue opere sono intese come vie di confine tra la creazione dell’opera e quello che sta dietro, come processi e limiti o possibilità tecniche Ma cosa si intende quando si parla di “Live-Film”? Si tratta, nella fattispecie, di messa in scena del momento in cui nasce un film: una sorta di teatro che si trova in una posizione non ben definita tra il desiderio dell’intermodalità mediatica e la ricerca delle grandi verità filosofiche. Cosa aspetta lo spettatore? Chi è cresciuto negli anni Ottanta ricorderà certo il film di Ridley Scott, The Blade Runner, che vedeva Harrison Ford nei panni del poliziotto Rick Deckard che in una Los Angeles del 2019 (a pochi anni da adesso, ahimè), si ritrovava a cacciare e cercare di riprendere dei replicanti evasi. Nonostante la critica all’inizio fosse divisa, nel 1993 è stato scelto per essere conservato nella Biblioteca del Congresso e nel 2007 rientra tra i 100 film più meritevoli degli ultimi 100 anni. Sarà stato questo stato di peso mediatico e culturale ad affascinare Klaus Gehre? La storia, in questo contesto, si riduce a fungere da corollario, a passare in secondo piano. Non esiste un palco, non esiste una scena: gli spettatori vengono quasi bombardati da informazioni e prospettive: devono rimanere attenti, voltarsi, immaginare e lasciarsi andare. I costumi di Freya John ripropongono l’immaginario dei primi film di fantascienza per taglio e colori, con dettagli però alquanto moderni e maliziosi, come gli stiletto ammiccanti di Nina Schopka, interprete della replicante Rachel. Il poliziotto Deckard poco ha del giovane Harrison Ford: la sua presentazione e il suo atteggiamento sono un misto tra Kojak, Colombo e uno dei classici poliziotti delle serie tedesche. Protagonisti inaspettati e, sui generis, sono le Barbie e i Ken che fungono da commentatori e voci della coscienza e che, nei momenti più importanti prendono vita grazie alle voci dei protagonisti. Lo spettatore si ritrova ad ascoltare i consigli della Barbie che legge Roland Barthes, a guardare macchine in scala che diventano mezzi di trasporto improbabili o case di bambole che ripropongono un set. In “Titanic” lo spettatore viene messo a confronto con i miti del XX/XXI secolo: la cieca fiducia nella tecnologia e l’influenzabilità dell’essere umano. Così Gehre decide di combinare la storia d’amore raccontata da Cameron con il formato Trash TV “ Bachelorette”, versione tedesca dei tronisti. I 14 Arte costumi scelti per i protagonisti Rose , Jack e Cal sono costumi atemporali che richiamano il secolo passato, ma che potrebbero adattarsi benissimo al gusto dell’abbigliamento televisivo. È un confine sottile quello su cui si muovono i protagonisti: con la sala che diventa palco sono costretti non solo a muoversi da un lato all’altro della stanza, ma anche ad interagire con il pubblico e a rimanere seri quando devono interpretare i personaggi degli effetti speciali. Il pubblico non può non sorridere alla tronista che decide di mettere alla prova i due pretendenti portandoli con se in crociera per decidere chi avrà diritto alla sua ultima rosa e, quindi al suo amore. Il gioco che però inizia è Klaus Gehre alquanto strano, in quanto decide di riuscire a conoscere meglio i due pretendenti obbligandoli ad assumere false identità. Quale può essere la speranza che in un mondo fatto di bugie e di falsità, la verità e la vera natura umana possa avere la meglio? Lo spettatore segue l’evoluzione della storia, dei giochi di seduzione, del prendere o lasciare dei protagonisti con un’attenzione voyeristica, proprio come davanti allo schermo della televisione. Quando la nave da crociera si scontra con l’iceberg e si dovrebbe verificare al fine della storia, Jack, sottolinea che RTL (il tycoon televisivo proprietario del format) non permetterebbe mai una cosa del genere (sarebbe fatale per gli ascolti) e che il tutto sia una era messa in scena per aumentare, effettivamente, gli indici d’ascolto. Il dubbio si fa certezza quando, nella scena finale, Rose, decide a chi dare la rosa e, dopo il suo sproloquio, non contenta del risultato, chiede alla produzione di ripetere la ripresa. Da un lato, dunque, Gehre, critica il formato TV trash che è , eppure, tanto seguito e, dall’altro riesce ad inserire tema seri come la questione dei profughi che devono essere accolti con benevolenza se hanno il coraggio di mettere la propria vita a rischio per giungere nel paese dell’Europa. Velati riferimenti anche ad un altro tragico evento collegato ad una nave di crociera. Rimane sospeso nel dubbio se tale decisione sia casuale o voluta. Cosa è vero, cosa è finto: non c’è distinzione tra realtà e finzione, tra tecnica e risultato. Ci si ritrova, senza esserne coscienti. In un universo parallelo in cui si assiste alla storia e, parallelamente si da uno sguardo dietro le quinte, quasi a monito che HELIOS magazine 2015 n. 3-4 Arte tutto ciò che si vede e in realtà finzione e solo mezzo atto allo scopo della realizzazione. Eppure nulla stona, a parte qualche risata fuoriposto di qualche spettatore divertito o commenti di dissenso da parte di chi si aspettava una semplice trasposizione teatrale della storia. Lo spettacolo è un esempio di riuscita fusione tra cinema, teatro, tradizione innovazione che lascia, a chi ha assistito, il dubbio a voler verificare di non trovarsi in una matrice e la volontà di voler credere a ciò che si vede. Una serata, intellettualmente stimolante e rilassante allo stesso tempo: risate e riflessioni si alternano e, alla fine, il pensiero del pubblico rimane uno solo: è finito troppo presto. n I semi della tradizione I di Kreszenzia Daniela Gehrer l 22 agosto si è tenuta a Cataforìo, Reggio Calabria, la second edition di CatArTica, evento inserito nel più ampio contenitore di U Stegg (edizione estiva) e con l’apporto curatoriale di Valentina Tebala. Obiettivo dell’esposizione – raggiunto – promuovere la provincia non soltanto come centro nevralgico per la trasmissione della tradizione musicale e coreutica della Valle del Sant’Agata, ma anche come luogo di libera espressione creativa. Versione ironico-dialettale de “Lo Stage”, U Stegg-Stage itinerante di danza e strumenti dell’Aspromonte Meridionale nasce alla fine degli anni Ottanta a salvaguardia della dignità della cultura popolare e della memoria storica. Promuovere il territorio. Come? La pratica è semplice: mettendo all’opera i talenti, senza palchi, frizzi, lazzi e costruzioni ciclopiche, ma con le più tradizionali “feste a ballu” nei vicoli e nelle strade “all’usu anticu”. Da questa idea “semplice” ne discende un’altra altrettanto “semplice”, ma rigorosissima: CatArTica. Cioè, Cataforio e Arte. Come legare due concetti e farne un neologismo. Cataforio-Catarsi-Arte. Purificazione tutta nostrana dalle boiate del contemporaneo. Una Wunderkammer all’interno di un’antica abitazione privata in disuso (bella idea da suggerire all’Ammisistrazione) “che si trasforma in una sorta di microcosmo acronico e temporale insieme interagente con lo spazio circostante del cortile e delle cosiddette rughe, dove è stato allestito un “osservatorio contemporaneo” sull’antichissimo medium scultoreo, che completa il percorso. Tema dell’esposizione: I semi della tradizione. “Seme” – si legge nel foglio di sala – indica il Principio, l’origine, la fonte, la causa ma anche gli Avi, gli antenati, la stirpe, la discendenza” Il seme è quindi vita in potenza e vita in atto. “Il seme che genererà altra nuova semenza, sarà parte di un ciclo vitale che non si esaurirà mai. I Semi della Tradizione sono parte di noi”, sono la memoria collettiva il cui lascito r(i)esiste nel presente e delinea il futuro. Ed eccoli qui i semi della tradizione. Tutti calabresi. Tranne Kreszenzia, che è senza pedigree. Roberto Giriolo per questa esposizione ha proposto un’installazione che fa parte di un progetto sviluppato in serie sull’atto quotidiano e ritualistico della Cena: “qui il punctum è dettato dall’incomunicabilità dei commensali – ‘disabituandi’ ai rapporti umani reali sempre più scalzati da quelli virtuali – rappresentata dal muro di mattoni che divi- de la tavola imbandita.” Il {movimentomilc}, duo di filmmaker e artisti visivi composto da Michele Tarzia e Vincenzo Vecchio, ha realizzato Ritratti di una giovane comunità: “L’emigrazione nella sua dimensione di viaggio, in opposizione alla staticità di una comunità che rimane chiusa nei propri luoghi rinunciando ad essere contagiata da luoghi e culture diverse.” Per Davide Negro e Giuseppe Guerrisi (?081), l’indagine s’incentra sulle complesse dinamiche che dirigono la società odierna, in particolare sul rapporto Uomo-Natura, “convinti della primordiale ed eterna esigenza dell’uomo di (ri)stabilire un contatto con le proprie origini identitarie”, tentando comunque di stringere un’alleanza con la tecnologia, rigorosamente ecologica. Per Luigi Scopelliti, la “semenza” passa attraverso i materiali, plasmando il ferro, il gesso, la pietra o il legno, fino al più comune materiale di recupero, strappato a volte alla discarica. Con i suoi lavori affronta il fenomeno capitalista del land grabbing, dei cibi (transgenici e OGM), “della loro subdola snaturalizzazione e del drammatico sradicamento dell’uomo dalla terra e dalle sue radici”. Ci racconta Luigi attraverso le parole di Vandana Shiva: “L’idea che il diritto su un seme sia proprietà privata, è inaccettabile. Non si deve poter brevettare e privatizzare una pianta – o addirittura generazioni di piante – così come non si deve poterlo fare con la vita umana” Kreszenzia Gehrer ci ha raccontato del sordo allontanarsi dell’individuo dal fondo originario: il cemento come rappresentazione nuda delle colossali macerie della modernità, emblema tangibile della rottura dell’alleanza tra uomo e terra e ammonizione all’umanità, richiamata a un’etica della responsabilità e alla cura intergenerazionale”. Tonino Denami e Antonio Costantino, giovani scultori, hanno infine “abitato” gli spazi all’aperto antistanti la residenza, realizzando in estemporanea i loro lavori, in dialogo con gli artisti all’interno della casa e soprattutto con il pubblico. n 15 HELIOS magazine 2015 n. 3-4 L Klimt e l’Albero della Vita Di Demetrio Libri ’Albero è un simbolo universale, antichissimo che accomuna le culture di innumerevoli popoli, gli egizi, i mesopotamici, i sudamericani, gli indiani nordamericani, gli ebrei, i bizantini… Nella cultura ebraica e cristiana, l’Albero è plasticamente simmetrico caratterizzato da elementi di elevata valenza simbolica. In linea di massima, visualizza il senso biblico del “L’albero della conoscenza”. “ Se voi conoscerete la Verità, la Verità vi farà Liberi” L’Ignoranza è uno schiavo, la Conoscenza è libertà. “ Se noi riconosceremo la Verità, ritroveremo i Frutti della Verità in noi stessi. Se ci uniremo con essa, essa produrrà il nostro perfezionamento Vangelo di Filippo, Vers. 123 Gustav Klimt realizzò nel 1907 l’opera, suddivisa in tre pannelli: a tutti gli effetti, un trittico. E’ una composizione multi materica: mosaico di marmi, pietre dure, maioliche e corallo. La parte centrale del trittico racchiude i temi cari all’Autore: i fiori, la donna, la morte della vegetazione, la rinascita per opera del ciclo delle stagioni, la rigenerazione e l’energia vitale. Sull’Albero troviamo un uccello, che richiama la minaccia della morte che è avversata e resa debole dalla ricchezza dei rami; lo sviluppo della chioma arborea e il materiale che la compone (l’oro), fa si che la Morte (uccello) non possa scalfirla, tanto da,come già detto, sminuire tale minaccia. I rami carichi di frutti costituiscono la congiunzione con le figure dei pannelli laterali. A sinistra una figura femminile, forse danzante, che rappresenta l’ATTESA. Come lo stilo egizio è dipinta di profilo: le mani e il volto, invece, sono rappresentate in maniera naturalistica e contrastano con la figura che ci 16 Arte appare priva di profondità prospettica. Quello dell’attesa è un atteggiamento che Klimt dipinge ricorrentemente nella figura femminile. Il terzo pannello, quello a destra, ci mostra la RICONCILIAZIONE, rappresentata magistralmente dal celebre “ abbraccio “. Lo sfondo dorato dal quale si staccano le due figure, dona a questo pannello un deciso carattere di preziosità. “ L’abbraccio “, inoltre, ci fa apprezzare la naturalezza del volto femminile con gli occhi chiusi, il volto maschile è celato. La Terra e il Cielo pregnano l’Albero della Vita, la donna attende l’amato, l’attesa termina con l’abbraccio che sancisce l’unione fra anima, spirito e materia. L’Albero, invece, riunisce, alchemicamente, le due figure ai suoi lati: rappresenta l’Amore, il Bene che non può essere confinato nello spazio e nel tempo. L’opera, nella sua interezza, rappresenta il Bene oltre tutte le manchevolezze dell’umana natura. n