HELIOS MAGAZINE
Rivista bimestrale
di scienze, cultura e società
Registrazione Tribunale di Reggio Cal. Nr. 3/96
Direttore Responsabile
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Direttore Editoriale
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Elisa Cutullè, Giorgio Neri,
Salvatore Romeo, Kreszenzia Gehrer
Corrispondenti:
Giancarlo Calciolari, Faiyz Barakat Almahasneh
Editore:
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In copertina: “Pathos”
Maurizio Dei, 2011
Dedicato ai migranti annegati in mare
Sul sito web: http://www.heliosmag.it troverete tutti i
numeri precedenti e le ricerche del Centro Studi Sociali
e-mail: [email protected]
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volontariamente e a titolo gratuito.
In questo numero:
Editoriale - Società - Paure ed egoismo
La crisi della “società liquida”
(di Pino Rotta)
Società - Giorgio Agamben, Stasis.
La guerra civile come paradigma politico.
(di Giancarlo Calciolari)
Economia - Un masterplan per il Sud
(di Domenico Marino e Pietro Stilo)
Economia - Economia Sommersa e il
Lavoro non Regolare (di Sergio V. Morabito)
Esteri - Brasile – Criminalità: La mano armata
della legge (di Domenico Grillone)
Esteri - Grecia: un futuro che non si vede
pag. 2
pag. 3
pag. 5
pag. 6
pag. 7
(di Giorgio Apostolopulos )
pag. 8
Società - La buona, la Brutta e la Cattiva scuola
(di Luisa Nucera)
pag. 9
Società – La fascinazione del linguaggio sociale
(di Salvatore Romeo)
pag. 10
Società – Il peso della felicità: nuove emergenze
nei disturbi della nutrizione e dell’alimentazione
(di Maria Laura Falduto)
pag. 11
Pensiero - Jean-Luc Nancy: la comunità sconfessata
(di Gianluca Romeo)
pag. 12
Pensiero - Intelligenza Artificiale: nuove frontiere
per le macchine nella società contemporanea.
(di Domenico Rosaci)
pag. 13
Arte - Quando il cinema incontra il teatro
Il Live cinema di Klaus Gehre
(di Elisa Cutullè)
pag. 14
Arte - I semi della tradizione
(di Kreszenzia Gehrer)
pag. 15
Arte - Klimt e l’Albero della Vita
(di Demetrio Libri)
pag. 16
Fuori sommario:
- Società - Gerard Haddad, dans la main droit de dieu,
psycanalyse du fanastisme (di Pino Rotta)
- Poesia - Premio Letterario Internazionale "Alda Merini Katia Colica si piazza al secondo posto con la poesia "Fibula"
(redazionale)
HELIOS magazine 2015 n. 3-4
L
Paure ed egoismo
La crisi della “società liquida”
di Pino Rotta
’Occidente sta vivendo l’epoca postmoderna
senza paradigmi di riferimento forti ed univoci
da cercare guardando nel suo passato.
In un certo senso tutte le crisi che stiamo vivendo
sono fenomeni già conosciuti nella nostra storia.
Storie di guerre, crisi economiche, immigrazioni ed
emigrazioni di massa. E a questi fenomeni si associano altre manifestazioni sociali ed individuali che pure
abbiamo conosciuto nel passato. Razzismo, xenofobia, suicidi, omicidi seriali, regressione dei diritti e
del ruolo delle donne e degli omosessuali e sul piano
politico, lo sfaldamento di classi dirigenti e della
coesione nazionale a cui oggi si aggiunge anche lo
sfaldamento del sogno degli Stati Uniti d’Europa.
Tutto già visto. Tutto già successo. I singoli fenomeni li possiamo analizzare e contestualizzare perché ne
conosciamo cause ed effetti. Quello che ci sfugge è la
comprensione della complessità e della “contemporaneità” di questi fenomeni e quindi ci sfugge l’individuazione delle soluzioni per gestirne gli effetti sia psicologici che socioeconomici. Come mai?
E’ evidente che, se si analizza la società approfonditamente, i singoli fenomeni assumono dimensioni
meno catastrofiche di quelle che invece complessivamente vengono percepite. Da un lato ciò è dovuto alla
trasformazione della velocità e del modo di diffusione delle informazioni. L’effetto dell’azione dei media
globali (televisioni satellitari, testate online, social
network, connessione continua tramite i nostri dispositivi tascabili) amplifica e rende sempre “presente e
vicina” la minaccia e mentre viene diffusa questa sensazione viene anche offerta la scelta di posizione da
assumere: a favore o contro. Ma qualunque sia la reazione, l’omologazione delle scelte, non importa in
quale senso, determina una ulteriore amplificazione
della pressione sociale alla ricerca di soluzioni rapide
ed efficaci, corrispondenti al mezzo con cui le sensazioni, le emozioni e le informazioni vengono condivise. Anche a livello della psicologia individuale si
hanno effetti di tipo analogo. La percezione della
minaccia incombente induce gli individui, anche
quelli che di fatto non sono e non potrebbero essere
2
Editoriale
fattualmente in uno stato di pericolo, ad una reazione
emotiva impropria.
D’altro canto, in Occidente, vi è una reale trasformazione della struttura produttiva e degli assetti geopolitici che negli ultimi venti anni hanno disintegrato i
precedenti assetti che, con tutte le contraddizioni
uscite dalla guerra fredda, erano diventati “consueti”
e punti di riferimento conosciuti e psicologicamente
gestibili dalla collettività e dagli individui.
Quindi oltre ad un fenomeno di percezione c’è effettivamente in atto una trasformazione reale della
società. Avvenuta in termpi più lunghi, circa il periodo che va dal 1990 ad oggi, ma i cui effetti vengono
percepiti da pochi anni a causa della concomitanza
delle crisi umanitarie e della crisi economica. Questi
tempi e questi modi nella percezione e nella gestione
della realtà sociale e privata sono nuovi ed ancora
poco esplorati e determinano uno stato costante di
incertezza e di ansia.
La cosiddetta Globalizzazione, che altro non è che la
ristrutturazione del capitalismo a livello mondiale,
spostando i territori di interesse dai paesi tradizionalmente capitalisti dell’Occidente in altri di grande
potenziale per il profitto, quali India, Cina, America
Latina, ha realmente spostato risorse economiche (a
volte legalmente, con lo spostamento di intere aziende nei nuovi paesi emergenti e impoverendo il paese
che lasciavano, e il più delle volte illegalmente con il
trasferimento del frutto dell’evasione fiscale e con i
proventi dei traffici della criminalità organizzata
diventata Holding internazionale) e causato conflitti
su larga scala per la conquista delle nuove posizioni
HELIOS magazine 2015 n. 3-4
Società
strategiche sia nel campo energetico che politico. La guerra è uno strumento reale dell’espansione del capitalismo, lo è sempre stata solo che l’Occidente, che ha vissuto mezzo secolo di pace interna, lo aveva dimenticato. E come accadde dopo la Prima e la Seconda Guerra mondiale, la gente
colpita da questa violenza scappa verso quei paesi che sa essere comunque
migliori in termini di sopravvivenza e protezione. Nessun muro fermerà la
disperazione.
Ma tutto questo crea di fatto la rinascita di nazionalismi, egoismi protezionistici, motivazioni unilaterali di Governi che, non essendo in grado di
gestire i problemi, cercano di andare incontro agli umori della massa con
proclami altisonanti che non solo non risolvono i problemi ma che alla
lunga si ritorcono contro in termini di consenso in una continua rincorsa
alla linea più dura e “decisionista”.
Si rialzano non solo muri fisici tra le nazioni, rinasce il senso di appartenenza ad un’etnia nella realtà inesistente
ma sorretta su mitici valori tradizionali, ma rinasce soprattutto il “muro psicologico”, cioè rinasce la ricerca di
una via d’uscita egoistica ed individualistica, che di fatto è una delle concause della crisi. La società “liquida”
teorizzata da Zygmut Bauman, torna ad irrigidirsi sia in termini politici, che economici (l’abbandono dell’Euro
da tanti invocato!) che in termini di coscienza individuale.
La disfatta dell’Occidente può essere realmente causata dalla retorica della paura. Non sarà certo il Capitalismo
a crollare ma il sistema di valori civili e democratici e le garanzie sociali che sono stati il fondamento dell’Unità
Europea, dell’essere Europeo e da questa sorte catastrofica per tutti gli occidentali, non solo europei, solo la
ripresa del processo di Unità politica dell’Europa può avviare un processo di inversione e di rinascita. n
Giorgio Agamben, Stasis.
G
La guerra civile come paradigma politico.
Homo sacer, II,2, Bollati Boringhieri, 2015
di Giancarlo Calciolari
iorgio Agamben, per alcuni il filosofo italiano
più noto all’estero, in particolare in Francia,
dove è molto citato, e che ha un debito formativo mai estinto con Martin Heidegger, ha ripreso
la questione della teoria della guerra civile il cui nome
nella Grecia antica è stasis.
Parte dalla constatazione di un altro autore, Roman
Schnur, che nel 1986 annotava che mancava – e
manca tutt’ora – una dottrina della guerra civile.
Aggiungeva pure che la disattenzione nei confronti
della guerra civile andava di pari passo al progredire
della guerra civile mondiale.
Giorgio Agamben interrogandosi anche sull’ademia,
sull’assenza di popolo, trova la questione dell’origine
della guerra civile né nella famiglia né nella città, né
nell’oikos né nella polis, ma nel funzionamento inter-
no tra le due, ben che la sua origina la reperisca nella
famiglia, ma si sviluppi in combinazione con la città.
Si dovrebbe dire che la
stasis nasce in famiglia e
si consacra nella città.
Questo aspetto che per
Agamben è un risultato è
invece da leggere, da
porre in questione, come
la coppia citata di Carl
Schmitt di amico-nemico, che nasce nella
Repubblica di Platone.
La stasis starebbe al posto della soglia, della porta,
dell’apertura: sarebbe la soglia delle congiunzioni e
delle disgiunzioni, ossia la negazione dell’apertura
3
HELIOS magazine 2015 n. 3-4
come giuntura e separazione. La separazione non è
una disgiunzione. Quella che Giorgio Agamben chiama la guerra civile mondiale è la questione chiusa in
estensione. La questione chiusa risiede nei tre principi aristotelici, in particolare nel principio del terzo
escluso, che è anche il terzo rappresentato nella dicotomia amico-nemico.
E la guerra civile è la negazione della guerra intellettuale, che è arte della guerra in Niccolò Machiavelli.
E poi non è la guerra civile a chiamarsi stasis nella
Grecia antica: è stasis nella Grecia antica a tradursi
oggi con guerra civile.
E guerra appartiene a una costellazione linguistica
che non è quella di stasis. Werra è stato il dispositivo
germanico che è riuscito a scalzare il regno del dispositivo romano, bellum. La guerra è dispositivo, non
convenzionale, sul quale l’impero è franato: ogni
impero e ogni suo ricordo. Anche il terzo impero, il
terzo Reich. Anche l’impero americano e oggi gli
emergenti imperi asiatici.
La guerra intellettuale procede dalla questione aperta
e dissipa ogni immaginazione e ogni credenza nel discorso della morte, che rimane tale anche nel testo di
Giorgio Agamben, preso nell’ontologia dell’animale
e in quello della famiglia e della città.
La famiglia che procede dal discorso greco è la famiglia tragica e così la città che procede dal discorso
greco è la città tragica, la città del capro, del tragos,
della vittima.
E qual è il regno, l’impero del discorso greco? È quello della paura. Le sue quattro forme sono il terrorismo, l’unica forma citata dal filosofo, l’orrorismo
(che non è il corollario di cui parla Adriana
Cavarero), lo spaventismo e il panicismo.
E dinanzi alla paura non serve né battere in ritirata,
come fanno i presunti comuni mortali, né affrontarla
come fanno i rari come Martin Heidegger. La paura
va dissipata ciascuna volta. Non va accettata.
A ciascuno, non a ognuno, spetta di non prendere
parte alla guerra civile, a costo di essere privato dei
diritti politici, come capita.
Occorre trovarsi disarmati, senza più armi convenzionali, senza più una cartuccia da sparare nel circo della
società dello spettacolo.
Come si è trovato Francesco Petrarca dinanzi all’amore. Il disarmo è l’analisi, l’assenza di soluzione.
Non è la soluzione perfetta alla guerra civile mondiale che pare dominare la scena con il terrorismo e la
sua lotta contro.
Ora il confronto con la punta dell’elaborazione teori4
Società
ca della psicanalisi non c’è in Agamben, che non sembra nemmeno sfiorato dall’opera del giurista e psicanalista Pierre Legendre, che incrocia spessissimo i
suoi campi d’indagine e ha un’opera considerevole e
importante, anche se noi non gli abbiamo risparmiato
le nostre obiezioni.
E non c’è il confronto con la cifrematica di Armando
Verdiglione, l’ultra-psicanalisi, per parafrasare l’ultra-filosofia di Giacomo Leopardi.
Ancora un cenno al disarmo: non è l’inoperosità di
Agamben che vorrebbe disinnescare la macchina del
potere.
Occorre il disarmo come
analisi, come dissipazione delle soluzioni offerte
da ogni dottrina del potere, che in questo libro si
specifica quale guerra
civile come paradigma
politico.
La politica del fare, la
sessualità e non la guerra
erotica uomosessuale,
non
ha
paradigmi.
Nessuna logica della politica. La politica è l’altra
faccia della logica: la
richiede ma non è declinabile logicamente. La filosofia, e quindi anche la
filosofia politica, è il tentativo impossibile di scrivere
una logica della politica, da Platone a Foucault, da
Aristotele a Agamben.
La prolessi della vita, l’anticipo che dovrebbe offrire
la logica della politica (leggibile su un nastro di zero
e uno sul quale Alan Turing stesso avrebbe potuto
leggervi il suo suicidio) si realizza come metessi della
vita, ossia una procastinazione di ogni elemento originario per sopravvivere nelle finzioni personali e
sociali.
I teologi più radicali e assoluti, come anche
Maimonide, si accorgono che la via della filosofia è
quella degli smarriti.
Quindi più nessuna ontologia della guerra civile e
della sua dottrina, che ancora insegue Giorgio
Agamben.
Occorre che ciascuno dissipi la credenza nella guerra
sostanziale e mentale, di cui la guerra civile ne è solo
un aspetto.
La guerra intellettuale è quella del disarmo, che solo
l’amore può dare. n
HELIOS magazine 2015 n. 3-4
Economia
Un masterplan per il Sud
I
di Domenico Marino e Pietro Stilo (*)
l Premier Matteo Renzi ha lanciato nei mesi scorsi l’idea di un masterplan per il Sud. Un’idea valida per
riportare alla luce una questione vecchia e mai risolta, la
Questione Meridionale che però per essere compresa in
pieno e soprattutto per essere aggredita con politiche
opportune deve assurgere al ruolo di “Questione
Nazionale”. Da qui dunque la necessità di trovare il modo
per far riagganciare la parte Sud del paese al resto d’Italia,
necessità simile a quella del Sud dell’Europa o degli Stati
Uniti d’America (con i dovuti distinguo) dove vi è la necessità di amalgamare le zone periferiche con il centro-nord.
Negli Usa ad esempio vi è un sistema che direttamente
demanda al Governo Federale la ripartizione delle risorse
ed il trasferimento alle aree meno competitive, ad esempio
dal Minnesota verso il Mississippi o dall’Illinois per il
South Carolina giusto per fare qualche esempio.
Nell’Unione Europea, dove ci sono stati con competitività
differenti, questo ruolo dovrebbe essere giocato dai Fondi
Strutturali, il cui effetti, però, in questi anni è stato “a macchia di leopardo” e i differenziali di sviluppo generalmente
non sono stati colmati, le differenze tra Grecia e Germania
sono l’esempio più evidente in tal senso, ma anche gran
parte delle regioni meridionali hanno oggi indicatori peggiori di quelli greci. Il tentativo di industrializzazione del
Mezzogiorno attraverso finanziamenti a pioggia negli anni
’70 non ha prodotto risultati, ma è stato solo un costo dui
cui hanno beneficiato in pochi. Il Sud Italia ha la necessità
invece di politiche innovative per la sua ripresa, partendo
da pochi ma importanti progetti strategici. Si tratta a nostro
avviso di porre dei confini ideali oltre che reali verso i quali
guardare, come una frontiera culturale, oltre che fisica, che
trasformi i punti di debolezza in opportunità, abbiamo bisogno di trampolini e e non di stampelle. L’essere periferia
deve essere un punto di forza e non di debolezza, il Sud è
al centro del Mediterraneo uno dei contesti più dinamici del
pianeta, solo questo basta a far capire la sua importanza. Il
Mezzogiorno non è solo il confine Sud d’Italia ma
d’Europa, questo messaggio deve passare a Roma così
come a Bruxelles, bisogna quindi creare le condizioni affinché sia strutturalmente capace di camminare alla stessa
velocità del resto del paese. Questa è una sfida culturale
prima che politica o economica. Il primo punto in agenda in
questa idea mediterraneocentrica del Mezzogiorno deve
essere la Zona Economica Speciale di Gioia Tauro, collegando il porto ad un sistema che non lo rileghi a “balcone”
sul mare, ma che invece sia potenziato da un sistema intermodale e logistico che consenta di farlo integrare al tessuto economico e territoriale sia locale che nazionale. Da qui
quindi la necessità di un sistema infrastrutturale adeguato.
Se a ciò aggiungiamo la necessità di investire in cultura, in
una terra dove disponiamo di un patrimonio unico al
mondo per dimensioni e varietà, vediamo come le potenzialità del Mezzogiorno sono tutte da inventare e da sfruttare, in un quadro nazionale ed europeo di riferimento, dal
quale non si può prescindere dal corretto utilizzo dei Fondi
Strutturali comunitari. Il tema della Competitività è un
tema nazionale e al suo interno dobbiamo affrontare la
Questione Meridionale. I ritardi che ritroviamo quasi ovunque, infatti, nella seconda edizione dell’Indice di
Competitività Regionale (ICR) dell’UE (2013), tra le prime
100 non ritroviamo nessuna
regione italiana. Per trovare la
prima italiana bisogna scorrere
la graduatoria fino alla 128a
posizione dove ritroviamo la
Lombardia, la Calabria invece
la troviamo nella 233a posizione su un totale di 262 regioni
d’Europa.
Da qui la non procrastinabile
necessità di colmare questi gap, attraverso uno sviluppo
necessario nel senso più ampio del termine, economico,
sociale, culturale, digitale. Si quest’ultimo aspetto altamente innovativo può essere individuato come l’elemento chiave per la modernizzazione dei processi produttivi, evitando
tra l’altro, la dispersione delle risorse in mille rivoli come
purtroppo si è spesso fatto in passato, in modo non solo da
superare il sopracitato gap, ma creare anche quelle economie di scala, proprie dei processi digitali, positive per i territori ed ormai divenute elemento necessario (non l’unico
ovviamente) per poter affrontare al meglio le sfide e le
opportunità che il processo di globalizzazione pone, in una
competizione globale che vede molto spesso i paesi di
“vecchia” industrializzazione superati dagli emergenti e
questi a loro volta da “nuovi” emergenti o “esordienti” dell’economia globale in una gara senza fine e senza confine,
che vede estromessi tutti coloro che non sanno intercettare
ed utilizzare la modernità intesa nella sua piena e positiva
accezione come strumento di innovazione. In questo senso
Mezzogiorno e Resto d’Italia sono indissolubilmente legati, con buona pace dei legisti, nel senso che difficilmente
una parte del paese potrà crescere ed essere competitiva se
non cresce e diventa competitiva anche l’altra. n
*) Domenico Marino, Professore associato di politica economica
università Mediterranea di Reggio Calabria.
- Pietro Stilo, dottore di ricerca in Scienze economiche e metodi
quantitativi, attualmente svolge attività di ricerca presso il
Centro Studi di politiche economiche e territoriali Ir-Consult
dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria.
5
HELIOS magazine 2015 n. 3-4
L
Economia Sommersa e
il Lavoro non Regolare
di Sergio V. Morabito
a Fondazione Studi Consulenti del Lavoro - su
dati del Ministero del Lavoro, Inps e Inail
2014/2015 - ha elaborato e pubblicato uno studio
sul costo del lavoro nero per la collettività: è stata stimata l’incredibile cifra di 25 miliardi di euro di mancato gettito nelle casse dello Stato. La stima del mancato
gettito si basa sulla media delle giornate sottratte agli
oneri sociali.
In media un lavoratore ha 241 giornate l’anno di lavoro
retribuite e la retribuzione media giornaliera è pari a
86,80 euro (come si può leggere nell’ultimo Rapporto
coesione sociale 2013, prodotto da Ministero del
Lavoro, Inps e Istat). Se consideriamo che la retribuzione annua non assoggetta a oneri ammonta a 41,8 MLD
di euro, il mancato gettito previdenziale è di 14,6 MLD
di euro (aliquota del 35% calcolata in media tra le classi di contribuzione), il mancato gettito fiscale è di 9,3
MLD di euro (aliquota media del 24,5% al netto di
detrazioni fiscali) e il mancato gettito Inail è di 1,2 MLD
euro (aliquota media del 27‰).
In Italia sono presenti circa 6 milioni di imprese registrate alle Camere di commercio, oltre a 1 milione di
ulteriori aziende e/o organismi non iscritti. Nel corso del
2014 sono state ispezionate 221.476 aziende da
Ministero del Lavoro, Inps e Inail. Da quest’attività di
vigilanza sono stati scoperti 77.387 rapporti di lavoro
non denunciati, quindi gestiti “in nero”. Si tratta di una
percentuale del 34,94%. Nel primo semestre 2015 è
andata un po’ meglio, ma su 106.849 imprese ispezionate da Ministero del Lavoro, Inps e Inail, sono stati individuati circa 31.394 lavoratori totalmente “in nero”,
ossia il 29,38%. In media ogni tre aziende ispezionate si
scopre un lavoratore totalmente non registrato. Tenuto
conto dei sopracitati dati forniti da Ministero del
Lavoro, Inps e Inail, la stima nazionale è di oltre 2 milioni di soggetti che ogni anno lavorano completamente in
nero. Si tratta di lavoratori completamente sconosciuti
alle autorità.
I dati 2014/2015 risultano in linea con quanto diffuso
ufficialmente negli anni precedenti. “Sono dati che
devono fare riflettere sia dal punto di vista della sicurezza sociale che dal punto di vista economico-finanziario”,
commenta Rosario De Luca, Presidente Fondazione
Studi Consulenti del Lavoro. “Avere rapporti di lavoro
regolari crea certamente una limitazione ai casi di tragico sfruttamento, d’attualità purtroppo non solo in questi
giorni. E metterebbe a disposizione della collettività
cifre molto importanti, vicine a quelle di una Legge di
6
Economia
Stabilità. Al decisore politico spetta creare le condizioni
normative per incentivare le assunzioni, ad esempio con
la riduzione strutturale del costo del lavoro; agli imprenditori di regolarizzare i propri dipendenti”, conclude De
Luca.
Ad essere colpite dal mancato gettito ci sono anche le
regioni. Portando ad esempio la Calabria, vediamo che
al 31 dicembre 2014 le risorse economiche sottratte a
vario titolo all’erario regionale sono pari a 2 miliardi di
euro l’anno. Questo è un dato diffuso dalla
Commissione
regionale per l’emersione del lavoro
non regolare, presieduta
da
Benedetto
Di
Iacovo. La stessa
commissione
ha
prodotto un rapporto sull’argomento, in collaborazione con il Centro Studi
delle Politiche Economiche e Territoriali dell’Università
Mediterranea di Reggio Calabria, diretto da Domenico
Marino.
Nel X rapporto sull’Economia Sommersa e il Lavoro
non Regolare in Calabria, spiega una nota, “viene anche
tracciato il quadro strutturale dell’economia e del mercato del lavoro calabrese. Il lavoro nero e l’economia
non regolare costituiscono, come si è ampiamente detto
fino ad oggi e nei precedenti rapporti, un indicatore di
un utilizzo non efficiente dei fattori produttivi, di evasione fiscale e contributiva di disagio economico e
sociale”. Inoltre, “il lavoro sommerso comporta tutta un
serie di costi sociali che uniti a quelli economici lo rende
una piaga da combattere con forza”, afferma la nota.
Il rapporto suggerisce anche la realizzazione di “politiche per governare i processi di cambiamento e di innovazione che, necessariamente, dovranno caratterizzare
la regione nei prossimi anni per aumentarne il livello di
competitività”. La Calabria deve innovare e crescere
economicamente “se si vuole assicurare ai giovani non
un lavoro qualsiasi o contagiato da forme irregolari o
elusive delle norme contrattuali, ma un lavoro regolare e
di qualità”.
Il lavoro nero, e lo sfruttamento che ne discende, sono lo
specchio di un Paese che non perdona ai giovani la pretesa di voler essere indipendenti e il desiderio di un futuro meno precario. n
HELIOS magazine 2015 n. 3-4
Esteri
“
Brasile – Criminalità:
La mano armata della legge
di Domenico Grillone
Bandido bom è bandido morto”. Secondo un recente sondaggio di Datafolha, l’istituto di ricerca del
“Grupo Folha”, richiesto dal “Forum brasileiro de
Segurança Publica”, il 50 per cento degli intervistati
concorda con la frase (un buon bandito è un bandito
morto) che simbolizza le esecuzioni tout court, quelle
extragiudiziali o, per meglio intendere, gli omicidi eseguiti per vendetta, magari dopo un “assalto”, così chiamano i brasiliani gli atti di violenza contro le persone, o
una rapina. A questo si aggiungono gli ultimi dati ufficiali pubblicati dal quotidiano Folha de Sao Paolo” che
indicano in 3.022 le persone uccise in Brasile nel 2014
per mano di poliziotti, militari e civili. La violenza in
Brasile, ma in genere in tutto il continente sudamericano, ha raggiunto picchi davvero preoccupanti se è vero
che sono più di 50mila l’anno gli assassinii registrati nel
paese verde oro. E delle 50 città più violente della terra,
16 sono brasiliane, secondo uno studio realizzato dalla
Ong messicana Consejo Ciudadano para la Seguridad
Pública y la Justicia Penal. Dati che potrebbero essere
ancora più tragici: lo studio, infatti, considera soltanto le
città con popolazione superiore a 300 mila abitanti,
escludendo completamente quelle più piccole del
Nordest, dove la situazione è ancora più grave.
Insomma, è come se il Brasile fosse in piena guerra civile. Ma nessuno lo dice apertamente. Basti pensare che
dal 2011 al 2014 in Brasile, sono state assassinate quasi
200 mila persone. Un tasso di omicidi tra i più alti del
mondo: 27,5 morti ogni cento mila abitanti, secondo le
stime del governo di Brasilia. Nello stesso periodo la
guerra civile in Siria ha provocato la morte di circa 100150 mila persone; gli attentati e le violenze in Iraq hanno
prodotto circa 20 mila decessi e sono state uccise circa 2
mila persone nei disordini scoppiati in Libia dopo la
caduta di Gheddafi. Per non parlare delle donne (nel
2012 il Brasile è stato il settimo paese al mondo, in una
lista di 84, per numero di femminicidi, secondo la
“Mappa della Violenza”), per le quali la presidente
Dilma Roussef ha proposto, e poi fatto approvare dal
parlamento, una legge che aggrava le conseguenze e la
pena per chi commette una qualsiasi violenza, di genere
o domestica, verso le donne e le ragazze.
Quindi, confrontando i numeri, si nota facilmente come
la violenza in Brasile sia endemica. Il problema, indicato da tutti gli studi, è che esiste una vera e propria cultura della violenza in Brasile, molto radicata principalmente nei segmenti più poveri ed emarginati della socie-
tà, a cominciare dalle favelas. Un fenomeno che, paradossalmente, incoraggia il ritorno degli “Squadroni della
morte”, tristemente famosi nell’epoca della dittatura,
impiegati in operazioni di “Limpeza social” (pulizia
sociale). Fenomeno, quest’ultimo, alimentato dalla quasi
totale assenza del potere pubblico in vaste aree urbane e
suburbane, dalla mancanza di commissariati di polizia
civile o caserme di polizia militare negli stati del
Nordest o dell’interno del Brasile. Succede così che i
parenti di vittime di omicidi non hanno modo di rivolgersi alle autorità.
Facile pensare di
farsi giustizia con
le proprie mani.
Un sentimento di
vendetta alimentato anche dalla
presenza abbondante di armi da fuoco: si stima, infatti, che ne circolino
circa 20 milioni, la metà delle quali illegali. Per questo
motivo il Brasile è il campione mondiale di omicidi
commessi con armi da fuoco: circa 35 mila l´anno. Ma,
a differenza di altre aree geografiche dove i conflitti si
basano essenzialmente su motivi etnici, geopolitici o
religiosi, in Brasile l’elemento scatenante può essere
facilmente ricondotto alle terribili condizioni sociali,
caratterizzate da differenze abissali di reddito e di qualità della vita tra le diverse fasce della popolazione. E
nonostante il Paese negli ultimi trent’anni ha attuato
imponenti programmi per la promozione sociale per i
più svantaggiati, il numero di omicidi è continuato a
salire. Insomma, per molti studiosi ed esperti brasiliani
si tratta di una questione di salute pubblica, “di una
grave e continua violazione dei diritti umani, che opprime e sconvolge una società, famosa per la sua allegria e
ospitalità” che andrebbe affrontata in maniera determinata, al pari di come si vorrebbe affrontare la crisi economica che sta coinvolgendo tutto il paese. Una violenza che impedisce ad una parte significativa dei giovani
brasiliani di godere dei progressi sociali ed economici
raggiunti negli ultimi anni. E che è causa di una tragica
perdita di talenti, fondamentali per il futuro sviluppo del
paese. n
7
HELIOS magazine 2015 n. 3-4
Esteri
Grecia: un futuro che non si vede
E
di Giorgio Apostolopulos
ora? In massiccia paralisi la popolazione, oberati di lavoro da insonnia e stremato dalla
assunzione di cancellazione cercando di ingoiare l’indicibile. Sì, abbiamo perso, ma che cosa?
Guerra, battaglia, le impressioni, la coscienza di giudicare in modo chiaro, la nostra fede che può fare
diventare forte i deboli, la speranza, la prospettiva,
l’orgoglio, la vendetta?
Come se avesse paralizzato tutto il mondo nelle ultime 48 ore , e si è occupato esclusivamente con l’edizione greca.
On line l’intero pianeta con la Grecia e il ragazzino
con le banche chiuse e aperti tutti i midia del terrorismo è stato entro cinque mesi Primo Ministro del
61%, mediando la scansione di tutti gli indicatori.
Ha detto fin dall’inizio che questa soluzione o sarà
politica o non esisterà affatto. Si e contrattatto con gli
usurai del estero, ballando da solo con i lupi della
politica, con il suo herpes in primo piano e i serpenti
locali del club locale “Geroun fermezza” a combaterlo fino alla fine per applicazioni di un governo particolare.
In cinque mesi ha internazionalizzato il ??problema
greco, ancora una volta ha portato la politica in primo
piano, ha mostrato il totalitarismo del sacerdotismo e
il deficit democratico in Europa, ha evidenziato la
patogenesi della zona euro, ha dichiarato l’arroganza
tedesca ha causato una spaccatura in Europa e mobilitato popoli e governi in modo che mai prima d’ora
era succeso nella storia europea moderna.
E tutto il mondo è in piedi per la Grecia.
In hashtag #ThisIsACoup (si tratta di un colpo di
stato) in twitter, ha registrato 150 milioni di tweets
cittadini provenienti da tutto il mondo, per protestare
contro l’atteggiamento della Germania contro la
Grecia.
E allora? che è successo?
Sappiamo che Alexis Tsipras è stato maltrattato senza
pietà in Europa. Ci siamo identificati con lui, e abbiamo sentito il “morire come Paese” più vicino che mai.
Intorno alle 06:00 di quel giorno ha ottenuto la chia8
ve che poteva, se fatta girare far saltare in aria la
Germania e l’Europa. Che cosa è successo lì? Cosa si
è trascorso? Che cosa si è qualificato? Il male necessario di fedeltà, o hanno bisogno di una buona capitolazione dolorosa che darà forma al trattato per il
prossimo progetto ?
Se in quel momento avesse sbattuto tutto in aria e,
girando le spale, fosse tornato ad Atene a mani vuote
ma con il petto pieno di orgoglio, due milioni di persone ci sarebbero trovate all’aeroporto per portarlo in
trionfo come un Dio del Olimpo.
E il giorno dopo? Nessuna risposta da chiunque.
Quello che è successo è una misto tra colpo di stato e
il trattato di Versailles.
Le misure selvaggiamente insopportabili , non possono e non devono essere attuate. Syriza è il primo
Governo che ha modellato le sue linee politiche definitivamente dalle richieste e dalle esigenze della
società. Non esiste senza ciò osmosi.
Finora non ci sono risposte concrete circa la nuova
architettura che è arrivata da Bruxelles. E’ molto brutto per essere vero però Tsiprasè troppo giovane per un
suicidio politico.
Così ricorriamo temporaneamente ai necessari cliché
della consolazione, con l’intuizione che si può ed è la
visione del prossimo futuro.
Tutto andrà bene alla fine. E se non andrà bene significa che non è la fine. n
HELIOS magazine 2015 n. 3-4
Società
La buona, la Brutta e la Cattiva scuola
L
di Luisa Nucera
’uomo è sempre in dubbio di fronte alle verità. O alle
presunte verità. Nulla è come sembra infatti dato che
esistono tante verità.Il problema è dibattutissimo in filosofia dove si mettono in campo quasi sempre verità e realtà,
fantasia e immaginazione. Esistono le cose vere e le cose false;
le buone e le cattive, le belle e le brutte. Chi di noi non ha
incontrato, almeno una volta, le false amicizie, i falsi miti, i
falsi pregiudizi. Tuttavia esistono l’amicizia, il mito e il pregiudizio. Persistono nel tempo nelle loro svariate manifestazioni; belle brutte, vere, false.. E poi c’è l’arte di governare le
società che chiamiamo politica e che domina ogni aspetto della
vita umana. Una politica che sin dalla sua comparsa vuole
apparire vera, buona e bella ma che si rivela spesso, cattiva,
brutta e falsa. In democrazia nessun fatto di vita si sottrae alla
politica. A tal proposito, discutendo di filosofia e politica,non
dobbiamo rimuovere, un fattore semantico importante e interessante. Le parole democrazia e libertà non sono sinonimi. Ci
può essere democrazia senza libertà e libertà senza democrazia. E se manca la libertà la politica non è buona. Se è assente
la democrazia, intesa come sistema di governo in cui la sovranità è esercitata dal popolo, la politica diventa brutta e cattiva
perché gestita dai più potenti che non appartengono al popolo.
C’è poi chi incarna la falsa politica modificando così alcuni
obiettivi originari come il raggiungimento di eguaglianze di
opportunità e lo stimolo al riscatto morale, finalità ricercate in
una sana politica e valide in ogni tempo. In democrazia nessun
fatto di vita si sottrae alla politica. La politica che si studia a
scuola e che perfeziona la scuola per potere meglio apprendere. Questo ci si aspetta dall’istituzione per antonomasia, simbolo di rivoluzione culturale Ma il dubbio resta; anch’esso
umano. Umano troppo umano. La scuola italiana che ha
dimenticato di essere il veicolo più importante di diffusione
formazione umana-culturale, va avanti a brandelli, bistrattata,
deturpata, umiliata e truffata. Forse è colpa della politica.
Almeno quella degli ultimi anni e che ha toccato l’apice quando il nostro Presidente del Consiglio ha osato, col suo disegno
legge, battezzarla la Buona Scuola. Da qui la perplessità sull’aggettivo “buona”. Quasi una beffa. Una presa per i fondelli… Una scuola sulla quale hanno promesso riforme, stanziamento di fondi, miglioramenti. False promesse. Una lotta continua contro la precarietà e l’austerità. Il Capo del Governo è
convinto di aver messo un punto a queste due criticità. Peccato
però che sia solo lui a crederci. Procedere nel percorso di
sostanziale privatizzazione del sistema formativo non è affatto
gradevole e elimina la meta dell’istruzione pubblica accessibile a tutti; significa frantumare il sistema scolastico pubblico
al pari di quello universitario. L’Italia dell’istruzione pubblica
e obbligatoria è questa. Ma c’è di più. L’introduzione dei sistemi di valutazione e merito diventano strumenti di feroce selezione per far competere sulla miseria, mentre l’intera gestione,
centralizzata nelle mani del preside-manager, determina la
qualità della scuola legata al contesto territoriale, sociale ed
economico. Riemerge il dubbio di fronte alla realtà. Qual è la
vera e buona scuola? La politica governativa non ha come
priorità la risoluzione positiva delle diseguaglianze? Alla luce
dei fatti sembrerebbe accettarle compiacente rendendo così
l’intera istruzione appetibile agli interessi dei privati. Meno
male che la fantasia e l’immaginazione aiutano a sognare sperando che un giorno si possa spiccare il volo. Allora i professori aspettano tempi migliori. Come gli uccelli migratori che,
in diversi periodi dell’anno compiono spostamenti. Poi, dopo
un lungo percorso, ritornano nelle loro zone; acquisiscono
competenze e tornano a casa. Forse a questo scenario pensavano i Ministri dell’istruzione quando hanno ideato il progetto
legge in base al quale numerosissimi insegnanti, precari da
decenni, e non più in giovane età, spesso con famiglie a carico, sarebbero obbligati, per continuare a svolgere la loro professione a tempo indeterminato, a cambiare regione persino a
moltissimi kilometri di distanza. Non è previsto alcun rimborso per coloro che coraggiosamente si sono lanciati in questa
sfida temeraria e scriteriata. Insegnanti che per anni hanno
fatto i pendolari dedicandosi al processo educativo con amore
e vocazione costretti a sentirsi commessi viaggiatori, operai e
free-lance che rispondono justin-time alla produzione della
macchina scolastica. In cambio
di un modesto stipendio.
Alcuni non hanno avuto scelta.
Non hanno avuto la libertà di
scegliere. Sopravvivenza e
bisogno interiore che li trasforma in pacchi postali a servizio
del MIUR. Legge approvata tra proteste e disperazione collettiva.Hanno però realizzato il loro sogno. Uomini migratori che
dovrebbero sentirsi come gli uccelli che hanno spiccato il volo.
Donne che ahimè , al loro ritorno, ,non troveranno il cielo
come casa, ma le terre le cui porte si chiudono dopo il primo
volo. E siccome tale emigrazione è inevitabilmente avvenuta
da Sud a Nord, aspettiamoci qualche tweet da qualche esponente politico di turno contro l’invasione scolastica dei professori terroni. Perché lo spostamento equivale ad una vera e propria emigrazione necessaria a migliorare il loro tenore di vita.
Legge attuata. Emigrazione intellettuale.Docenti che conserveranno il senso del territorialismo e di appartenenza alle loro
radici nella speranza che esso possa, al loro rientro, rideterminare le sorti della storia. E’ pur vero che la loro angoscia
rimanda un po’ alle antiche deportazioni. Una sorta di elemosina del corpo docente cui un’Italia fragile ed instabile riduce.
A discapito di una minoranza che ha scelto di rinunciare al
ruolo considerandolo una specie di illusione metafisica. Perciò
ha assunto, in una vita che ci sfugge, il ruolo quotidiano di
conservare decoro e dignità. E’ questo forse il ruolo di ogni
uomo, prima ancora che di intellettuale. n
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HELIOS magazine 2015 n. 3-4
Società
La fascinazione del linguaggio
sociale
E
di Salvatore Romeo (*)
sistono due tipi di comunicazione: una che si richiama alla logica e alla realtà dei fatti, un’altra che
invece fa appello alla fascinazione e all’illusione.
La prima è quella che in gran parte utilizziamo nelle nostre
attività comuni e quotidiane, rapportandoci con un interlocutore che riteniamo razionale e in grado di adoperare in
modo maturo tutti gli strumenti del libero arbitrio per
discernere ed elaborare oggettivamente ciò di cui si parla.
In questo caso l’interlocutore non rappresenta certamente
un essere irrazionale e immaturo, sulla cui ingenuità giocare per ammaliarlo e convincerlo della verità di cui stiamo argomentando, bensì un individuo capace, emancipato
e in possesso delle umane funzioni di critica e di giudizio.
In una parola l’interlocutore è a tutti gli effetti un essere
intelligente e pensante, dal momento che critica e giudizio
sono espressioni raffinate, rispettivamente, del pensiero e
dell’intelligenza, funzioni con le quali possiamo discernere sia il vero dal falso che l’oggettivo dall’arbitrario.
La seconda forma di comunicazione si basa, invece, sull’assunto che l’interlocutore sia, più o meno, un individuo
illogico, irresponsabile e impreparato sulla cui semplicità
di pensiero e di intelligenza agire per condizionarlo e convincerlo della veridicità delle nostre tesi.
Nel linguaggio politico e massmediale odierno (non mi
sento di definirlo moderno o postmoderno) la comunicazione logica e razionale si è quasi completamente eclissata e non si fonda minimamente sull’esposizione di programmi più o meno dettagliati, su dati oggettivi o su ragionamenti consequenziali che avrebbero tutte le carte in
regola per “convincere” la gente sulla base della reale evidenza dei fatti. La qualcosa significherebbe, in fondo e
confidando sulla bontà delle nostre idee, affidarsi al buon
senso e al libero arbitrio di un interlocutore ritenuto pensante e intelligente.
La comunicazione fascinosa e impressionistica del linguaggio attuale si rivolge, invece, essenzialmente al nostro
inconscio, bypassando le nostre facoltà razionali e critiche.
I sentimenti e le idee vengono orientati in un’unica direzione e gli interlocutori divengono un’anima collettiva
suggestionabile, alla quale è possibile dipingere una realtà
manipolata e funzionale ai propri scopi.
Di fronte a un’evidenza dei fatti virtuale e artefatta, condivisa dalla maggioranza, ogni diversità verrà interpretata
come un limite ed ogni atteggiamento critico, che potrebbe a buon ragione germogliare nell’intimo pensare del singolo, verrà soffocato e represso. Su questa strada l’idea
differente rappresenterà pertanto un ostacolo e la massa si
uniformerà ad un pensiero unico che, in fondo, costituisce
10
la dissoluzione sostanziale della libertà e della democrazia.
In Italia questa forma di comunicazione ha, negli ultimi
tempi, fatto passare come indici di modernità, di sviluppo
e di evoluzione temi che francamente sarebbero risultati
inaccettabili se posti in altri termini.
Nel quadro di una comunicazione suggestiva e analogica le
parole e gli argomenti impiegati per promuovere un’idea
non hanno poi tanto valore se non nella misura in cui suscitano un’immagine, un’atmosfera globale che fa leva sull’emotività, su valori e su situazioni rappresentati come
ineludibili e scontati, specialmente se il messaggio viene
veicolato mediante un atteggiamento semplice e impressionistico e reiterato nel breve e medio termine. Qualsiasi
contenuto, anche il più debole e inaccettabile, acquisisce
col tempo carattere di veridicità se continuamente ripetuto
e, spesso, rinforzato da prove tautologiche.
Un esempio, tra i tanti, è la riforma del lavoro. Si può essere favorevoli o contrari ad essa, non entro nel merito, ma è
indubbio che essa sia
stata realizzata manipolando socialmente la
forma di comunicazione
e dove si parlava di
diritti dei lavoratori si è
cominciato a parlare,
invece, di privilegi.
Nell’immaginario collettivo la riforma, di conseguenza,
non è andata nella direzione della cancellazione di diritti
conquistati attraverso decenni di lotte e di confronti, bensì
verso l’abolizione di privilegi… Mentre la realtà dei fatti è
che siano stati cancellati dei diritti acquisiti, il messaggio
che si è lasciato passare è invece quello secondo cui sono
stati eliminati dei benefici arbitrari.
Questo tipo di comunicazione, in ultima analisi, parte dalla
convinzione, ahimè, che la gente rappresenti semplicemente una massa irrazionale da condizionare e manipolare
al meglio agendo sulla sua sfera emozionale. La propaganda, in questo senso, prende il posto dell’oggettività ed è in
grado di capovolgere ogni dato della realtà, rappresentando quest’ultima in funzione degli obiettivi che si vogliono
raggiungere. Non è più una comunicazione sociale che
mira palesemente alla manipolazione dell’individuo, ma
una trasmissione di messaggi che disegna una realtà soggettiva e virtuale all’interno della quale l’individuo si ritrova inconsapevolmente ad operare scelte e ad elaborare opinioni indirettamente condizionate. n
(*) psichiatra
HELIOS magazine 2015 n. 3-4
Società
I
Il peso della felicità:
nuove emergenze nei disturbi della
nutrizione e dell’alimentazione
di Maria Laura Falduto (*)
disturbi dell’alimentazione e della nutrizione sono alcuni
dei disagi sempre più frequenti tra i giovanissimi che sollevano al clinico, agli educatori ed alle famiglie interrogativi importanti che oltre all’atteggiamento nei confronti
del cibo (rifiuto, restrizioni eccessiva attenzione, abbuffate
ecc.), riguardano l’ essere in relazione; il Ministero della
Salute avverte “troviamo oggi, in numero sempre maggiore,
casi di bambini e preadolescenti con alterazioni del comportamento alimentare e relativi quadri clinici molto simili a
quelli che fino a poco tempo fa si osservavano solo nell’adolescente e nell’adulto, come l’Anoressia e la Bulimia
Nervosa. Gli studi epidemiologici internazionali mettono in
evidenza una incidenza di nuovi casi dei DCA nella fascia
femminile tra i 12 e i 25 anni e stimano nei paesi occidentali, compresa l’Italia, la prevalenza dell’Anoressia nervosa
intorno allo 0,2 - 0,8%, quello della Bulimia nervosa intorno
al 3%, quella del Binge Eating tra l’8 e il 10% e quella dei
Disturbi del Comportamento Alimentare Non Altrimenti
Specificati (DCA - NAS) tra il 3,7 e il 6,4% e che l’età di
esordio per lo più cade tra i 10 e i 30 anni, con una età media
di insorgenza intorno ai 17 anni. La patologia appare dunque
in continuo aumento per quanto riguarda la Bulimia e il
Disturbo da Alimentazione Incontrollata o BED (Binge
Eating Disorders)”. Secondo il DSM-5 Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, i disturbi della
Nutrizione e dell’Alimentazione (prima disturbi dell’alimentazione e del comportamento alimentare) sono caratterizzati
da un persistente disturbo dell’alimentazione oppure da
comportamenti inerenti l’alimentazione che hanno come
risultato un alterato consumo o assorbimento di cibo e che
compromettono significativamente la salute fisica o il funzionamento psicosociale. Tra le cause, le analisi scientifiche
e sociologiche concordano sull’interdipendenza dei fattori
genetici, individuali e familiari ma anche su quelli culturali
e sociali dovuti al rapido processo di occidentalizzazione, a
tal riguardo è importante ricordare il concetto culture-bond
secondo cui i disturbi del comportamento alimentare risentono molto delle influenze culturali come dimostra la loro
assenza nei paesi più poveri dell’Asia, dell’Africa e
dell’America Latina per es. Non si può prescindere dal fatto
che nei paesi industrializzati i cambiamenti sociali, abbiano
comportato un notevole slittamento dei ruoli familiari che
appaiono oggi confusi e più in generale, un sostanziale cambiamento nei ritmi strutturali ed in quelli psico-affettivi del
sistema famiglia. Uno degli effetti quotidianamente osservabili è che la rete virtuale ha preso il posto della rete interpersonale con un conseguente appiattimento affettivo ed
emotivo e soprattutto una maggiore predisposizione, soprattutto fra i giovanissimi, ai fattori di rischio (messaggi disfunzionali lanciati dai media, adeguamento agli stereotipi
culturali, condizionamenti esterni e limitanti, aspettative
disfunzionali ed irrealistiche riguardo il proprio corpo,
insoddisfazione corporea ecc). Le interpretazioni psicoanalitiche riconducono il disturbo alimentare a situazioni in cui
spesso abbonda l’oggetto (il cibo appunto) ma scarseggia
l’amore. “Se sono malattie della relazione, allora è chiaro
che l’educazione alimentare, seppure svolga un ruolo importante nella formazione dei giovani alle buone pratiche, non è
sufficiente anzi, se non incrementata ad un alto livello
rischia di produrre gli effetti opposti. Fare diagnosi di anoressia o obesità non è sufficiente, da un punto di vista clinico sarebbe la semplice registrazione di un dato di fatto evidente. E’ importante invece per fare diagnosi, scendere in
profondità, riuscire a dettagliare la struttura di personalità
che il fenomeno monocromatico dell’anoressia ricopre”
(M.Recalcati), quelli che sono i disturbi in comorbidità e le
dinamiche relazionali. Per
fare questo, il lavoro del
singolo specialista non
basta: l’ incidenza sempre
più frequente dei disturbi
della nutrizione e dell’alimentazione, rappresenta
un’emergenza che richiede un’ aggiornamento e
una formazione continua
poiché molti di questi disagi se trascurati o non adeguatamente trattati, conducono
a condizioni psicopatologiche complesse oltre che a danni
organici e metabolici importanti: le conseguenze della
denutrizione riguardano tutti gli organi e apparati del corpo,
i comportamenti di eliminazione inoltre compromettono l’
apparato gastrointestinale, l’attività elettrolitica e la funzionalità renale. Pazienti con anoressia grave possono presentare specifici deficit nutrizionali: carenze vitaminiche, deficit
di aminoacidi o di acidi grassi essenziali, modificazioni
endocrine (amenorrea diminuita produzione di ormoni tiroidei). E’ necessario pertanto definire un protocollo che preveda una parte di prevenzione inerente la sensibilizzazione e la
formazione coinvolgendo soprattutto medici di base e pediatri , visto il preoccupante abbassamento d’insorgenza di tali
disturbi, ed una parte operativa che riguardi in primis la
valutazione delle complicanze mediche e dello stato di salute generale del soggetto ed attraverso un lavoro di équipe
multidisciplinare (neuropsichiatra infantile, psichiatra, psicologo, terapista della psicomotricità, nutrizionista, educatore, medici internisti), l’ implementazione di percorsi personalizzati, tali da garantire interventi modulari a seconda
delle diverse specificità, sia per tipologia clinica che relativa
gravità, sia per età, condizione sociale, familiare. n
(*) psicologa
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HELIOS magazine 2015 n. 3-4
D
Jean-Luc Nancy:
la comunità sconfessata
di Gianluca Romeo
el rapporto fra filosofia e politica ha discusso, nel corso
del Colloquio internazionale di studi tenutosi a Messina
lo scorso 3 settembre, il filosofo francese Jean-Luc
Nancy, voce fra le più autorevoli del panorama culturale internazionale. L’evento è stato presieduto da Giulio Maria Chiodi,
Presidente del Centro europeo di studi su mito e simbolo
(CESMiS) e da Caterina Resta, ordinario di Filosofia teoretica
presso l’Università degli studi di Messina e Direttore del
CESMiS. L’occasione per il colloquio è stata fornita dall’uscita
del libro, ancora non tradotto in lingua italiana, La Communauté
désavouée, una comunità, come ci suggerisce il titolo, “sconfessata”. Il testo rappresenta la risposta, a distanza di oltre trent’anni, all’opera La Comunità inconfessabile di Maurice Blanchot,
altro letterato e filosofo d’Oltralpe scomparso qualche anno
addietro. Il testo di Blanchot, uscito nel 1983, era stato pensato a
sua volta come una risposta alle riflessioni epocali contenute ne
La comunità inoperosa, opera fra le più influenti di Jean-Luc
Nancy. Al di là del complesso gioco di rimandi fra i due autori,
queste nuove considerazioni di Nancy sulla comunità sembrano
suggerire come, dopo molti anni, i problemi a suo tempo posti sia
ne La comunità inoperosa che ne La comunità inconfessabile,
siano ancora di stringente attualità: in primis l’esigenza di ripensare la comunità dopo il fallimento del comunismo storicamente
realizzato ma anche l’opportunità di rimettere in discussione la
Politica oltre le classiche categorie mediante le quali la comunità
si è rivelata come necessaria messa in opera di un progetto politico. La comunità di Nancy, proprio per questo carattere “inoperoso”, fa resistenza ad ogni tentativo di traduzione dell’essere-incomune in una qualsivoglia forma politica. Jean-Luc Nancy non
ha risparmiato, nel corso dell’incontro, delle riserve sulle nuove
costruzione politiche che, dopo il crollo del muro di Berlino,
avrebbero dovuto colmare il vuoto lasciato in eredità dall’ordinamento bipolare. Estremamente significativo, proprio in apertura
del suo intervento, è stato il porre l’accento sulle attuali tragedie
connesse ai fenomeni migratori, giusto per ricordare che la comunità in quanto fusione in un’unità interna con la conseguente
immunizzazione dall’esterno, sia la negazione stessa dell’esserein-comune. L’essere-con, al contrario, garantisce l’apertura verso
la dimensione dell’alterità ed evita la chiusura totalitaria della
comunità su basi identitarie, biologistiche e territoriali. Nelle
politiche identitarie, ci ricorda Nancy, la dimensione dell’alterità
è pensata, al contrario, secondo la figura dello straniero minaccioso, dunque mediante la classica coppia hospes/hostis. Il tentativo filosofico di Nancy è, ancora oggi, quello di evitare l’identificazione fra comunità e politica, nel senso di non con-fondere la
comunità con una qualsiasi figura che sia uno Stato, una Nazione
un Popolo. Per impedire ciò occorre sottrare la comunità ad ogni
forma di sostanzializzazione e ad ogni ipotesi fondativa; è necessario dissociarla, quindi, dall’idea che essa sia un’opera da realizzare ad ogni costo, ripudiando la logica per cui, in nome della
comunità, è possibile arrivare a sacrificare finanche l’esistenza
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Pensiero
umana. Il terreno più proprio della politica, spogliata da ogni
determinazione e paradossalmente destituita da ogni fondamento, è dunque quello ontologico dell’essere-con (non certo quello
dell’onto-teo-logia tradizionale), dove il “con” non è una proprietà aggiunta all’essere ma l’essere è già direttamente e subito
essere-in-comune o, se vogliamo utilizzare il titolo di un’altra
opera capitale di Nancy, è fin da subito Essere singolare-plurale.
L’essere perdendo così ogni sostanzialità ed ogni carattere monadico, come suggerisce Nancy, è movimento del divenire, cifra di
un rapporto che non può mai entificarsi e dunque cristallizzarsi in
una forma data una volta per tutte. Per questo motivo la comunità rischia, come già successe nel pensiero di Martin Heidegger, di
scivolare su un terreno assai pericoloso. In Heidegger, ricorda
Nancy, convive, già in Essere e Tempo, la paradossale duplicità
sia dell’essere inteso come Mitsein
cioè “con essere”, che rompeva
con il solipsismo ego-logico della
tradizione filosofica, sia la declinazione dell’essere come destino e
comunità di popolo, che rappresentava, invece, un pericoloso punto
di tangenza con il totalitarismo
nazionalsocialista. Questa problematica, per Nancy, ha direttamente
a che fare con le questioni recentemente riaperte dalla pubblicazione dei Quaderni neri, testi che ripropongono il tema del sinistro rapporto fra Heidegger e la politica del suo tempo. L’invito
decisivo di Nancy è, dunque, quello di non smettere, ancora oggi,
di pensare più essenzialmente il rapporto fra filosofia e politica.
Non è stato casuale il richiamo, giunto quasi in conclusione del
suo intervento, della cosiddetta “tentazione di Siracusa”, a cui l’amico Jacques Derrida dedicò un memorabile discorso ad inizio
del nuovo millennio, proprio nella città siciliana. Per Derrida,
come evidentemente per Nancy, occorre superare il paradigma
secondo il quale la filosofia debba fornire necessariamente una
teoria alla politica ed i filosofi incarnare, platonicamente, il vertice supremo dello Stato o, più modernamente, agire all’ombra del
Sovrano nella speranza di poterlo dirigere. Nancy, che spesso
nelle sue opere si serve di suggestive immagini geofilosofiche,
invita ad andare oltre questa concezione della politica e lo fa proprio in Sicilia, nella terra in cui è nata e si è fondata, con i viaggi
di Platone, la “tentazione” della filosofia politica occidentale. Il
senso della politica, ci suggerisce il filosofo francese, invece non
è nient’altro che il senso del mondo stesso: «immediatamente
mondo, spazio pubblico, corpo, essere-in-comune, estensione
dell’anima – distanza del più prossimo, e non: passaggio. Dal dire
al fare, dalla roccia grezza al Campidoglio, da Scilla a Cariddi, da
un estremo all’altro, da un muro all’altro, da un labbro all’altro,
da voi a me, da un tempo all’altro». n
J.L. Nancy, Il senso del mondo, Lanfranchi, Milano 1997, pag. 87
HELIOS magazine 2015 n. 3-4
Pensiero
Intelligenza Artificiale: nuove frontiere per
N
le macchine nella società contemporanea.
di Domenico Rosaci (*)
oi definiamo la nostra specie “Homo Sapiens” perché caratterizziamo l’umanità attraverso la facoltà
chiamata “Intelligenza”. Essa è la capacità di percepire sé stessi e la realtà (coscienza), elaborare le informazioni possedute (pensiero) e quindi acquisire e memorizzare i risultati di tali elaborazioni (conoscenza). Per millenni
l’uomo si è interrogato su come l’Intelligenza opera, ovvero sui modi mediante i quali sentiamo, pensiamo e conosciamo. L’AI va oltre questi scopi. Essa si propone di
costruire macchine intelligenti. Ma in che senso una macchina può essere intelligente? Alan Turing fornì nel 1950
una celebre definizione “operazionale”: una macchina è
intelligente se, interrogata da una persona umana, fornisce
delle risposte tali che l’interrogante non riesce a distinguere se si tratti di un uomo o di una macchina. Dal 1950,
numerosi tentativi sono stati operati per costruire macchine
che passassero il Test di Turing, organizzando competizioni a cui partecipano macchine in grado di fornire risposte a
domande scritte, ovvero di sostenere una conversazione
testuale. Un giudice pone delle domande ad un programma
e ad un essere umano, e dalle risposte date il giudice deve
riconoscere qual è la risposta fornita dal programma. Una
di queste competizioni si tenne a Milton Keynes nel 2012,
e fu vinta dalla macchina denominata Eugene Goostman,
programmata da Veseloc e da Demchenko per simulare la
personalità di un ucraino tredicenne. Il programma convinse il 29 per cento dei giudici di essere una persona umana,
e migliorò questa percentuale in un altro test presso la
Royal Society di Londra nel 2014, portandola al 33 per
cento. Questo risultato, benché significativo, non è stato
considerato dalla comunità scientifica come un concreto
passaggio del Test, perché non c’è accordo su quale debba
essere la percentuale di “successo” da considerarsi sufficiente. Ma la contestazione principale che molti esperti del
settore pongono riguarda proprio l’attendibilità del Test di
Turing per attribuire intelligenza a una macchina. C’è chi,
come il filosofo John Searle, ha osservato che un programma per computer può sembrare che comprenda un linguaggio, ma questo non prova che lo comprenda realmente. In
altre parole, si può affermare davvero che l’Intelligenza
coincide con la semplice imitazione, per quanto efficace,
dell’Intelligenza stessa? La Scienza moderna si sta attualmente orientando sia a creare macchine che esibiscono
comportamenti intelligenti, sia a comprendere i meccanismi che caratterizzano le intelligenze biologiche. I sostenitori della cosiddetta “AI debole” si limitano a interessarsi
solo al primo orientamento, mentre i rappresentanti della
“AI forte” ambiscono a creare macchine in cui il funzionamento stesso emuli quello biologico. Per intanto, proliferano robot intelligenti capaci di operare in modo simili agli
esseri umani negli ambiti più disparati. E’ il caso di
ASIMO, un robot androide sviluppato dall’azienda giapponese Honda, in grado di camminare, correre, ballare,
salire le scale, e persino giocare a calcio, ma anche di riconoscere volti e voci e seguire oggetti in movimento. Ancora
più sorprendente è il robot HIRO, capace di apprendere
ricercando autonomamente sul Web le informazioni di cui
necessita per risolvere un determinato problema, utilizzando una rete neurale SOINN (Self-Organizing Incremental
Neural Network). Tuttavia né ASIMO né HIRO sono
“coscienti”, cioè non avvertono la propria esistenza. E’ qui
che si innesta quella che può davvero essere considerata la
frontiera dell’AI, ovvero la cosiddetta “Coscienza
Artificiale” (Artificial Consciousness, AC). Gli studiosi di
questo settore, che ha origine da alcune teorie presentate
alla fine del secolo XX, quali ad esempio quelle di Bernard
Baars e Igor Aleksander, ipotizzano che sia possibile realizzare manufatti dell’ingegneria che manifestino
capacità coscienti. Lo
scienziato cognitivo David
Chalmers osserva che l’organizzazione del cervello
umano potrebbe essere
riprodotta in linea di principio cambiando i “materiali”
fisici (ad esempio, usando
silicio) e si dovrebbe supporre che le capacità
coscienti non cambino perché comunque l’organizzazione
rimarrebbe identica. Questi sviluppi estremi dell’AI, oltre
che affascinare, seminano anche dubbi nella comunità
scientifica. Secondo il cosmologo Stephen Hawking, «lo
sviluppo di un’AI completa potrebbe portare alla fine della
razza umana. Le forme più primitive di intelligenza artificiale realizzate finora si sono dimostrate molto utili, ma
sono preoccupato dalle conseguenze che si avrebbero
creando qualcosa che possa eguagliare o sorpassare gli
esseri umani». Davvero questa possibilità andrebbe vista
come un pericolo? n
*) Domenico Rosaci è docente di Ingegneria del Web presso
l’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Conduce da
circa vent’anni ricerche nel campo dell’Intelligenza Artificiale,
dove ha pubblicato oltre un centinaio di articoli scientifici su
riviste ed atti di conferenze internazionali del settore. Oltre
all’attività scientifica, coltiva un personale interesse per la
Filosofia e la Storia delle Religioni. E’ autore dei romanzi “Il
Sentiero dei Folli” e “La Zingara di Metz”, e del saggio
“Arcana Memoria: Storia dell’Esoterismo”.
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HELIOS magazine 2015 n. 3-4
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Quando il cinema incontra il teatro
Il Live cinema di Klaus Gehre
di Elisa Cutullè
laus Gehre, già noto al pubblico di Saarbrücken per la
sua versione di “The Blade Runner” nella scorsa stagione teatrale (2014/2015), è un regista del XXI secolo a titolo pieno. Con alla spalle uno studio in medicina,
Filosofia e Letteratura, da 5 anni ha deciso di intraprendere la
carriere di regista con specializzazione in Live-Film. Finora i
suoi progetti sono stati messi in scena in diverse città della
Germania oltre a Saarbrücken: Francoforte sul meno,
Dortmund, Friburgo in Bresgovia e Heidelberg. L’ex-studente di medicina, filosofia e letteratura da un lustro lavora come
regista con focus su live-film abbinato al teatro. Le sue opere
sono intese come vie di confine tra la creazione dell’opera e
quello che sta dietro, come processi e limiti o possibilità tecniche Ma cosa si intende quando si parla di “Live-Film”? Si
tratta, nella fattispecie, di messa in scena del momento in cui
nasce un film: una sorta di teatro che si trova in una posizione non ben definita tra il desiderio dell’intermodalità mediatica e la ricerca delle grandi verità filosofiche. Cosa aspetta lo
spettatore? Chi è cresciuto negli anni Ottanta ricorderà certo il
film di Ridley Scott, The Blade Runner, che vedeva Harrison
Ford nei panni del poliziotto Rick Deckard che in una Los
Angeles del 2019 (a pochi anni da adesso, ahimè), si ritrovava a cacciare e cercare di riprendere dei replicanti evasi.
Nonostante la critica all’inizio fosse divisa, nel 1993 è stato
scelto per essere conservato nella Biblioteca del Congresso e
nel 2007 rientra tra i 100 film più meritevoli degli ultimi 100
anni. Sarà stato questo stato di peso mediatico e culturale ad
affascinare Klaus Gehre? La storia, in questo contesto, si
riduce a fungere da corollario, a passare in secondo piano.
Non esiste un palco, non esiste una scena: gli spettatori vengono quasi bombardati da informazioni e prospettive: devono
rimanere attenti, voltarsi, immaginare e lasciarsi andare. I
costumi di Freya John ripropongono l’immaginario dei primi
film di fantascienza per taglio e colori, con dettagli però
alquanto moderni e maliziosi, come gli stiletto ammiccanti di
Nina Schopka, interprete della replicante Rachel. Il poliziotto
Deckard poco ha del giovane Harrison Ford: la sua presentazione e il suo atteggiamento sono un misto tra Kojak,
Colombo e uno dei classici poliziotti delle serie tedesche.
Protagonisti inaspettati e, sui generis, sono le Barbie e i Ken
che fungono da commentatori e voci della coscienza e che, nei
momenti più importanti prendono vita grazie alle voci dei protagonisti. Lo spettatore si ritrova ad ascoltare i consigli della
Barbie che legge Roland Barthes, a guardare macchine in
scala che diventano mezzi di trasporto improbabili o case di
bambole che ripropongono un set.
In “Titanic” lo spettatore viene messo a confronto con i miti
del XX/XXI secolo: la cieca fiducia nella tecnologia e l’influenzabilità dell’essere umano. Così Gehre decide di combinare la storia d’amore raccontata da Cameron con il formato
Trash TV “ Bachelorette”, versione tedesca dei tronisti. I
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costumi scelti per i protagonisti Rose , Jack e Cal sono costumi atemporali che richiamano il secolo passato, ma che
potrebbero adattarsi benissimo al gusto dell’abbigliamento
televisivo.
È un confine sottile quello su cui si muovono i protagonisti:
con la sala che diventa palco sono costretti non solo a muoversi da un lato all’altro della stanza, ma anche ad interagire
con il pubblico e a rimanere seri quando devono interpretare i
personaggi degli effetti
speciali. Il pubblico non
può non sorridere alla tronista che decide di mettere
alla prova i due pretendenti portandoli con se in crociera per decidere chi avrà
diritto alla sua ultima rosa
e, quindi al suo amore. Il
gioco che però inizia è
Klaus Gehre
alquanto strano, in quanto
decide di riuscire a conoscere meglio i due pretendenti obbligandoli ad assumere false identità. Quale può essere la speranza che in un mondo fatto di bugie e di falsità, la verità e la
vera natura umana possa avere la meglio? Lo spettatore segue
l’evoluzione della storia, dei giochi di seduzione, del prendere o lasciare dei protagonisti con un’attenzione voyeristica,
proprio come davanti allo schermo della televisione. Quando
la nave da crociera si scontra con l’iceberg e si dovrebbe verificare al fine della storia, Jack, sottolinea che RTL (il tycoon
televisivo proprietario
del format) non permetterebbe mai una cosa del
genere (sarebbe fatale
per gli ascolti) e che il
tutto sia una era messa in
scena per aumentare,
effettivamente, gli indici
d’ascolto. Il dubbio si fa
certezza quando, nella scena finale, Rose, decide a chi dare la
rosa e, dopo il suo sproloquio, non contenta del risultato, chiede alla produzione di ripetere la ripresa. Da un lato, dunque,
Gehre, critica il formato TV trash che è , eppure, tanto seguito e, dall’altro riesce ad inserire tema seri come la questione
dei profughi che devono essere accolti con benevolenza se
hanno il coraggio di mettere la propria vita a rischio per giungere nel paese dell’Europa. Velati riferimenti anche ad un altro
tragico evento collegato ad una nave di crociera. Rimane
sospeso nel dubbio se tale decisione sia casuale o voluta. Cosa
è vero, cosa è finto: non c’è distinzione tra realtà e finzione,
tra tecnica e risultato. Ci si ritrova, senza esserne coscienti. In
un universo parallelo in cui si assiste alla storia e, parallelamente si da uno sguardo dietro le quinte, quasi a monito che
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tutto ciò che si vede e in realtà finzione e solo mezzo atto allo scopo della realizzazione. Eppure nulla stona, a parte qualche risata fuoriposto di qualche spettatore divertito o commenti di dissenso da parte di chi si aspettava una semplice trasposizione teatrale della storia. Lo spettacolo è un esempio di riuscita fusione tra cinema, teatro, tradizione innovazione che lascia, a chi ha
assistito, il dubbio a voler verificare di non trovarsi in una matrice e la volontà di voler credere a ciò che si vede. Una serata,
intellettualmente stimolante e rilassante allo stesso tempo: risate e riflessioni si alternano e, alla fine, il pensiero del pubblico
rimane uno solo: è finito troppo presto. n
I semi della tradizione
I
di Kreszenzia Daniela Gehrer
l 22 agosto si è tenuta a Cataforìo, Reggio Calabria, la
second edition di CatArTica, evento inserito nel più ampio
contenitore di U Stegg (edizione estiva) e con l’apporto
curatoriale di Valentina Tebala. Obiettivo dell’esposizione –
raggiunto – promuovere la provincia non soltanto come centro nevralgico per la trasmissione della tradizione musicale e
coreutica della Valle del Sant’Agata, ma anche come luogo di
libera espressione creativa. Versione ironico-dialettale de “Lo
Stage”, U Stegg-Stage itinerante di danza e strumenti
dell’Aspromonte Meridionale nasce alla fine degli anni
Ottanta a salvaguardia della dignità della cultura popolare e
della memoria storica. Promuovere il territorio. Come? La
pratica è semplice: mettendo all’opera i talenti, senza palchi,
frizzi, lazzi e costruzioni ciclopiche, ma con le più tradizionali “feste a ballu” nei vicoli e nelle strade “all’usu anticu”.
Da questa idea “semplice” ne discende un’altra altrettanto
“semplice”, ma rigorosissima: CatArTica. Cioè, Cataforio e
Arte. Come legare due concetti e farne un neologismo.
Cataforio-Catarsi-Arte. Purificazione tutta nostrana dalle
boiate del contemporaneo. Una Wunderkammer all’interno
di un’antica abitazione privata in disuso (bella idea da suggerire all’Ammisistrazione) “che si trasforma in una sorta di
microcosmo acronico e temporale insieme interagente con lo
spazio circostante del cortile e delle cosiddette rughe, dove è
stato allestito un “osservatorio contemporaneo” sull’antichissimo medium scultoreo, che completa il percorso. Tema dell’esposizione: I semi della tradizione. “Seme” – si legge nel
foglio di sala – indica il Principio, l’origine, la fonte, la causa
ma anche gli Avi, gli antenati, la stirpe, la discendenza” Il
seme è quindi vita in potenza e vita in atto. “Il seme che genererà altra nuova semenza, sarà parte di un ciclo vitale che non
si esaurirà mai. I Semi della Tradizione sono parte di noi”,
sono la memoria collettiva il cui lascito r(i)esiste nel presente e delinea il futuro.
Ed eccoli qui i semi della tradizione. Tutti calabresi. Tranne
Kreszenzia, che è senza pedigree.
Roberto Giriolo per questa esposizione ha proposto un’installazione che fa parte di un progetto sviluppato in serie
sull’atto quotidiano e ritualistico della Cena: “qui il punctum è dettato dall’incomunicabilità dei commensali – ‘disabituandi’ ai rapporti umani reali sempre più scalzati da
quelli virtuali – rappresentata dal muro di mattoni che divi-
de la tavola imbandita.” Il {movimentomilc}, duo di filmmaker e artisti visivi composto da Michele Tarzia e
Vincenzo Vecchio, ha realizzato Ritratti di una giovane
comunità: “L’emigrazione nella sua dimensione di viaggio,
in opposizione alla staticità di una comunità che rimane
chiusa nei propri luoghi rinunciando ad essere contagiata da
luoghi e culture diverse.”
Per Davide Negro e Giuseppe Guerrisi (?081), l’indagine
s’incentra sulle complesse dinamiche che dirigono la società odierna, in particolare sul rapporto Uomo-Natura, “convinti della primordiale ed eterna esigenza dell’uomo di
(ri)stabilire un contatto con le proprie origini identitarie”,
tentando comunque di stringere un’alleanza con la tecnologia, rigorosamente ecologica. Per Luigi Scopelliti, la
“semenza” passa attraverso i materiali, plasmando il ferro,
il gesso, la pietra o il legno,
fino al più comune materiale
di recupero, strappato a volte
alla discarica. Con i suoi
lavori affronta il fenomeno
capitalista del land grabbing, dei cibi (transgenici e
OGM), “della loro subdola
snaturalizzazione e del drammatico sradicamento dell’uomo dalla terra e dalle sue radici”. Ci racconta Luigi attraverso le parole di Vandana Shiva: “L’idea che il diritto su
un seme sia proprietà privata, è inaccettabile. Non si deve
poter brevettare e privatizzare una pianta – o addirittura
generazioni di piante – così come non si deve poterlo fare
con la vita umana”
Kreszenzia Gehrer ci ha raccontato del sordo allontanarsi
dell’individuo dal fondo originario: il cemento come rappresentazione nuda delle colossali macerie della modernità,
emblema tangibile della rottura dell’alleanza tra uomo e
terra e ammonizione all’umanità, richiamata a un’etica
della responsabilità e alla cura intergenerazionale”.
Tonino Denami e Antonio Costantino, giovani scultori,
hanno infine “abitato” gli spazi all’aperto antistanti la residenza, realizzando in estemporanea i loro lavori, in dialogo
con gli artisti all’interno della casa e soprattutto con il pubblico. n
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Klimt e l’Albero della Vita
Di Demetrio Libri
’Albero è un simbolo universale, antichissimo che accomuna le culture di innumerevoli popoli, gli egizi, i mesopotamici, i
sudamericani, gli indiani nordamericani, gli ebrei,
i bizantini…
Nella cultura ebraica e cristiana, l’Albero è plasticamente simmetrico caratterizzato da elementi
di elevata valenza simbolica.
In linea di massima, visualizza il senso biblico del
“L’albero della conoscenza”.
“ Se voi conoscerete la Verità, la Verità vi farà
Liberi” L’Ignoranza è uno schiavo, la Conoscenza
è libertà.
“ Se noi riconosceremo la Verità, ritroveremo i
Frutti della Verità in noi stessi. Se ci uniremo
con essa, essa produrrà il nostro perfezionamento
Vangelo di Filippo, Vers. 123
Gustav Klimt realizzò nel 1907 l’opera, suddivisa
in tre pannelli: a tutti gli effetti, un trittico.
E’ una composizione multi materica: mosaico di
marmi, pietre dure, maioliche e corallo.
La parte centrale del trittico racchiude i temi cari
all’Autore: i fiori, la donna, la morte della vegetazione, la rinascita per opera del ciclo delle stagioni, la rigenerazione e l’energia vitale.
Sull’Albero troviamo un uccello, che richiama la
minaccia della morte che è avversata e resa debole dalla ricchezza dei rami; lo sviluppo della chioma arborea e il materiale che la compone (l’oro),
fa si che la Morte (uccello) non possa scalfirla,
tanto da,come già detto, sminuire tale minaccia.
I rami carichi di frutti costituiscono la congiunzione con le figure dei pannelli laterali.
A sinistra una figura femminile, forse danzante,
che rappresenta l’ATTESA.
Come lo stilo egizio è dipinta di profilo: le mani
e il volto, invece, sono rappresentate in maniera
naturalistica e contrastano con la figura che ci
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appare priva di profondità prospettica.
Quello dell’attesa è un atteggiamento che Klimt
dipinge ricorrentemente nella figura femminile.
Il terzo pannello, quello a destra, ci mostra la
RICONCILIAZIONE, rappresentata magistralmente dal celebre “ abbraccio “.
Lo sfondo dorato dal quale si staccano le due
figure, dona a questo pannello un deciso carattere
di preziosità.
“ L’abbraccio “, inoltre, ci fa apprezzare la naturalezza del volto femminile con gli occhi chiusi,
il volto maschile è celato.
La Terra e il Cielo pregnano l’Albero della Vita,
la donna attende l’amato, l’attesa termina con
l’abbraccio che sancisce l’unione fra anima, spirito e materia.
L’Albero, invece, riunisce, alchemicamente, le
due figure ai suoi lati: rappresenta l’Amore, il
Bene che non può essere confinato nello spazio e
nel tempo.
L’opera, nella sua interezza, rappresenta il Bene
oltre tutte le manchevolezze dell’umana natura. n