Breve storia dello stato sociale

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DOCUMENTI
DELLA STORIA DELLA SICUREZZA SUL LAVORO
1. BERNARDINO RAMAZZINI
Medico italiano, sopportato 3 novembre 1633, Carpi, ducato di Modena; morto 5 novembre
1714, Padova, Repubblica di Venezia.
Bernardino Ramazzini è considerato un fondatore della medicina di occupational/industrial. I
suoi studi sulle malattie professionali e l'avvocatura delle misure di difesa per gli operai hanno
consigliato al passaggio finali sicurezza della fabbrica e leggi della compensazione dei
lavoratori. Nel 1700 ha scritto il primo libro importante su le malattie professionali e
salubrità.
Il figlio del bourgeoisie del petite
Ramazzini era il figlio di Bartolomeo e Catarina Ramazzini, a bene-$$$- non specialmente ma
coppie rispettate del bourgeoisie del petite. Dopo la ricezione della sua prima formazione da
Jesuits, in 1652 ha entrato nell'università di Parma, che era stata fondata dal duca Rainutio I in
1599. Dopo avere studiato la filosofia per tre anni, ha cominciato lo studio sulla medicina in
1655. In 1659 era medico conferito di filosofia e della medicina a Parma. Allora è andato a
Roma continuare i suoi studi sotto Antonio Maria Rossi (1588-1671), figlio di Gerolamo
Rossi, medico di vita al papa Clemens VIII. Piccolo è conosciuto circa i giorni di
Ramazzini?s a Roma, ma sappiamo che la conoscenza che ha acquistato dei commerci di
questa città era importante al suo lavoro successivo su medicina del lavoro, diatriba di
artificum del De morbis.
Oltre ad addestramento Ramazzini, Antonio Maria Rossi anche ottenuto per lui una posizione
come medico della città in Canino nel ducato (Kirchenstaat-Fürstentum) di Castro, una scarsa
provincia circa nord di viaggio giorno della condizione di Papal. Questa zona è stata guidata
con malaria e Ramzzini è caduto malato. Muovendosi verso Marta, un'altra piccola città nella
stessa provincia, ha migliorato il suo stato, ma presto si è depositato nella sua città natale di
Carpi. Qui ha trovato il tempo per gli inseguimenti intellettuali, come la letteratura
dell'oggetto d'antiquariato della lettura.
Il professor a Modena
In Ramazzini 1671 lasciato il Carpi provinciale e spostato verso Modena, in cui inizialmente è
stato opposto pesante dall'istituzione academic. Tuttavia, in 1682, il duca Francesco II di
Modena gli ha dato l'assegnazione di stabilizzazione del servizio medico all'università e gli ha
fornito il titolo dei?medicinae theoricae. del professore? Quando il Academie il San Carlo è
stato aperto ufficialmente il seguente anno, Ramazzini ha dato i instaurationis di Oratio di
indirizzo.
Durante i seguenti anni ha lavorato molto attentamente con il suo collega Francesco Torti
(1658-1741) ed inoltre ha parlato su pratica medica, anche se Torti da solo era formalmente
responsabile dei practicae di medicinae.
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Ciò era il periodo in cui l'uso della corteccia di chinchona (da quale la chinina dell'alcaloide è
derivata), è stato introdotto come nuovo superdrug nel trattamento di malaria. Ramazzini era
un fautore forte di tale trattamento, riconoscente l'introduzione di questo medicamento come
evento rivoluzionario nella storia della medicina, completante il downfall delle teorie mediche
del Galen greco classico del medico sostenente la gestione dei purgatives nel trattamento della
malattia. Eppure, tuttavia, la collaborazione, se non l'amicizia fra Ramazzini e Torti sono
caduto a parte quando Torti ha pubblicato una carta da propaganda per il nuovi superdrug e
startet che la prescrivono su vasta scala. Ramazzini ha trovato questo un abuso ed ha scritto
così.
Il tempo di Ramazzini a Modena era uno di lavoro scientifico diligente e caratterizzato tramite
un frequente contatto scritto con alcuni degli uomini più istruiti nel suo tempo. Stava
corrispondendo a Marcello Malpighi (1628-1694), Antonio Valisnieri (1661-1730), Giovanni
Batista Morgagni (1682-1771), Giovanni Maria Lancisi (1654-1720), Gottfried Wilhelm
Freiherr von Leibniz (1646-1716) e parecchi altri contemporanei.
Come molti medici prominenti del suo giorno, Ramazzini era un individuo altamente versatile
- clinico, epidemiologo, igienista, poet, filosofo ed erudito. A Modena era un cittadino distinto
della città, invitato frequentemente dal duca a dare gli indirizzi e un membro del corpo Degli
Dissonanti dell'elitista a Modena. dovuto la sua reputazione, in 1693 è stato accettato come
membro del curiosorum tedesco di naturae di Caesareo-Leopoldina dell'accademia del corpo,
sotto il byname di Hippocrates III. Era il primo membro italiano di questa società.
Impianti in anticipo
Nel 1690s Ramazzini ha fatto i primi impianti epidemiologici che dovevano renderli famoso
oltre i bordi dell'Italia. Il primo di loro era M. DC.lxxxx (impianti, 1690) di anni del De
constitutione. In esso Ramzzaini dà una descrizione acribic delle malattie epidemiche
dell'uomo e dell'animale nella zona rurale intorno a Modena. Ramazzini ha valutato i couses
di tutte le malattie epidemiche della zona secondo Hippocrates, basate su terreno, sul clima,
sull'acqua e, soprattutto, sull'aria. Suo studia l'avvelenamento incluso del cece (1690) e la
malaria (1690-1695).
Dopo che un lavoro sul rifornimento idrico di Modena in 1694, in 1698 lui pubblichi sulle
miniere dell'olio di Monte Zibino. Ciò era una continuazione di un lavoro iniziato fin da
dentro 1462 sull'iniziativa del d?Este del duca Borso e continuato da Francesco Ariosto, di cui
il manoscritto era stato stampato in 1690. Non satisified con appena stuff vecchio di
modificazione, Ramazzini ha studiato la materia egli stesso, producendo una dissertazione
completamente nuova sopra, tra l'altro, il valore terapeutico di petrolio.
Malattie professionali
Non è conosciuto quando Ramazzini ha cominciato il lavoro sul suo diatriba di artificum del
De morbis (malattie degli operai), ma è conosciuto che ha parlato su questo soggetto fin da
1690. Pubblicato in 1700, questa è il primo lavoro completo sulle malattie professionali e una
pietra nella storia di medicina del lavoro.
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Il diatriba di artificum del De morbis descrive i rischi per la salute dei prodotti chimici
irritanti, della polvere, dei metalli e di altri agenti abrasivi incontrati dagli operai in 52
occupazioni. Fra loro erano i minatori, i vasai, i masons, i wrestlers, i coltivatori, le
infermiere, i soldati e molti altri. Persino ha discusso il soggetto delle menti tassate
eccessivamente fra?learned gli uomini? Nella discussione dell'eziologia, il trattamento e la
prevenzione di queste malattie Ramazzini va spesso di nuovo a Hippocrates, Celsus e Galen e,
dopo la ricapitolazione delle loro osservazioni, collega la sua propria esperienza con le varie
malattie. Ramazzini persino si è interessato delle malattie professionali delle donne. In questa
sezione si pronuncia le precauzioni contro le infezioni sifilitiche, così come pulizia fra le
ostetriche.
Da Modena a Padova
Ramazzini è rimasto a Modena per diciotto anni, fino al 1700. Quell'anno ha accettato un
invito alla sedia della medicina pratica a Padova, in cui la Repubblica di Venezia ha avuta la
facoltà di medicina più reputata nel paese. Ha tenuto il suo?in inaugurale Patavineo Ateneo di
indirizzo? il 12 dicembre. Hanno partecipato gli insegnanti e gli allievi da tutte le facoltà.
Durante il suo tempo a Padova Ramazzini era uno degli scienziati medici celebrati di Europa.
In 1706 è stato invitato come membro del degli romano Arcadi e la società prussiana reale di
Accademia a Berlino.
Ramazzini ha sostenuto il denuncia dell'astrologia dagli autori quale il della Mirandola (14631494) di Pico. Su questa base Ramazzini ha rifiutato?astral? spiegazioni per le epidemie in
uomo ed in animale, come l'epidemia della peste bovina nella Repubblica veneziana in 17101711.
Attualmente la sua età bagan prendere il relativo tributo. Ha sofferto dai problemi del cuore e
della circolazione e dell'emicrania. Malgrado questo, in 1709 il consiglio di Venezia ha reso
lui il primario di medicinae del professore, ma a?with la libertà che lui è stato obbligato
soltanto ad insegnare quando il suo stato così ha consentito? Malgrado la sua salute indisposta
(finalmente è caduto ciechi), tuttavia, ha scritto un libro dei advices sulla vita sana al d’Este
ereditario del principe Francesco. In 1713, l'anno prima della sua morte, ha fatto un'edizione
modificata ed ampliata del suo oeuvre principale.
Ramazzini è morto dell'apoplessia il 5 novembre 1714. La sua ricerca post mortem è stata
fatta da Giovanni Battista Morgagni, che ha incluso il protocollo nel suo lavoro principale De
sedibus et in morborum di causis.
"[ ho visto ] operai in quale determinati affetti morbosi risultano gradualmente da una certa
posizione particolare delle membra o dei movimenti artificiali del corpo denominato per
mentre funzionano. Tali sono gli operai che tutto il giorno si levano in piedi o si siedono,
curvano o sono doppio piegato, che fa funzionare o guida o esercita i loro corpi in tutte le
specie dei sensi [ eccedenti ]."
" . . . the harvest of diseases reaped by certain workers . . .[from] irregular motions in
unnatural postures of the body."
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2. DIMOSTRAZIONI POPOLARI E REPRESSIONI
Nel 1888 il governo creò a favore degli operai la Cassa nazionale per gli infortuni sul lavoro e
la Cassa nazionale per la vecchiaia e invalidità. Seguì la legislazione a tutela del lavoro delle
donne e dei ragazzi nelle fabbriche e poi la Cassa nazionale per la maternità delle donne
lavoratrici. Furono tutte conquiste raggiunte con fatica, grazie soprattutto alla pressione dei
primi movimenti socialisti e delle organizzazioni operaie.
In Italia, il timore della borghesia per la diffusione delle idee socialiste e anarchiche e le
sollevazioni popolari contro la povertà spinsero i governi di fine secolo a prendere
provvedimenti autoritari.
Alcune rivolte divamparono in Puglia e in Romagna, a causa dei prezzi elevati del grano e
della farina. Un'altra, più grave, scoppiò a Milano nel 1898. I popolani milanesi innalzarono
barricate e il comandante militare, generale Bava-Beccaris, un ufficiale di vecchio stampo
tanto autoritario quanto incapace di comprendere la realtà che aveva di fronte, li affrontò nel
timore di una vera e propria rivoluzione anarchica o socialista. Si trattava, invece, soltanto di
una sollevazione contro il carovita.
Contro i dimostranti Bava-Beccaris fece intervenire l'esercito: la cavalleria caricò nelle
piazze, mentre i cannoni facevano fuoco contro le barricate. La repressione costò quasi cento
morti; e molti oppositori, compresi alcuni deputati socialisti, furono i arrestati. Il governo e il
re approvarono l'inutile crudeltà di Bava-Beccaris, al quale fu concessa un' onorificenza.
La tensione politica crebbe. Per vendicare i morti di Milano, il 29 luglio 1900, a Monza,
l'anarchico Gaetano Bresci uccise il re Umberto I. Ma il giovane successore, Vittorio
Emanuele III, seppe mantenere la calma: proclamato re d'Italia, chiamò al governo il
tollerante ed equilibrato Giuseppe Zanardelli, che aveva curato il nuovo Codice penale. Un
relativo ordine si ristabilì nel paese.
Negli anni successivi, i più forti contrasti politici si sarebbero risolti o attenuati grazie all'
azione di un uomo politico di grandi capacità: Giovanni Giolitti.
Breve storia dello stato sociale
In Italia, l'intervento dello Stato nelle politiche sociali ed assistenziali avvenne essenzialmente
in due direzioni: l'una volta a limitare l'influenza della Chiesa, con la legge per la confisca dei
beni delle associazioni ecclesiastiche impegnate nel campo assistenziale nel 1866 e con la
sottomissione al controllo pubblico del sistema delle Opere Pie e la loro trasformazione in
Ipab con la legge Crispi del 1990. L'altra per favorire l'inserimento e l'integrazione nello stato
della classe operaia e del movimento operaio nel suo complesso, con mirate politiche di
intervento pubblico. Contrariamente a quanto pensano i più, non furono i movimenti socialisti
legati alla classe operaia ad inventare lo Stato Sociale. Invece un suoa primo esempio
concreto nientemeno a Otto Von Bismark, "cancelliere di ferro" della Prussia. Di stampo
conservatore, forte accentratore, nemico giurato del federalismo, appartenente alla casta degli
"Junker", i proprietari terrieri prussiani, combatte duramente il partito socialista. Ma proprio
per batterlo sul suo stesso terreno, nel contempo elaborò ed emanò una legislazione sociale
avanzatissima per quel tempo. Ma l'intervento dello Stato nell'economia e nel sociale ebbe
maggiore visibilità nella seconda metà del '900. L'atto di maggior riferimento per i paesi
europei, è il cosiddetto piano Beveridge del 1948, approvato in Inghilterra. Lord William
Beveridge, direttore della London School of Economics, mise a punto un sistema di
protezione sociale che ha in seguito ispirato il National Healt Service del partito laburista
nell'immediato dopoguerra. Le idee "sociali" di Lord Beveridge, si compenetravano con
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quelle dell'economista Sir John Majnard Kejnes, il quale sosteneva che il governo può e deve
intervenire sull'occupazione, quando questa è insufficiente, aumentando la domanda
attraverso una politica di bassi tassi di interesse e di investimenti pubblici. Il Welfare State era
ispirato ai principi dell'universalismo ugualitario: a tutti i cittadini era garantito un trattamento
minimo uniforme, per far fronte alle necessità e alle difficoltà della vita. I sistemi di
protezione sociale negli anni successivi alle intuizioni di Beveridge e di Kejnes conobbero
una notevole espansione anche in Italia, giustificata in un primo momento dalla forte crescita
economica e successivamente per coprire gli effetti negativi della crisi petrolifera. Non si può
negare, stando a quello che si vede pure nel nostro paese, che il sistema di stato sociale
andrebbe rivisto e ripensato, e anche "snellito" alla luce degli avvenimenti accaduti in questi
anni. Bisogna anche tener conto del fatto che l'invecchiamento della popolazione e la bassa
natalità stanno diventando dei problemi seri che prima o poi occorrerà affrontare seriamente
con posizioni ed interventi netti e definitivi, e non certo con palliativi. Gli abbondanti flussi di
denaro erogati dallo stato favoriscono determinate categorie di cittadini, trascurandone altri,
come i giovani in particolare, alimentando così il fenomeno della crescente esclusione sociale.
Per di più questi interventi dello Stato, soprattutto in Italia, seguivano logiche e percorsi poco
trasparenti. Nelle pieghe dello Stato Sociale si sono insinuati spesso i clientelismi, rendendo
meno efficiente e più costoso l'intervento dello Stato. Basti pensare al nostro deficit pubblico
che ci portiamo ancora dietro dalla "prima repubblica". Il terzo settore, detto anche No-profit
o privato sociale, è ormai una realtà consolidata nel nostro paese e in continua espansione. In
molti casi, le organizzazioni che fanno parte del privato sociale si sono dimostrate più
efficienti dello stato, perché godono di una situazione di migliore informazione riguardo ai
bisogni sociali. La loro piccola dimensione garantisce una maggiore flessibilità e quindi una
politiche di intervento più efficaci. Quando si parla del terzo settore, non ci riferisce soltanto
ad enti che operano nei tradizionali campi di intervento del Welfare State: sotto la definizione
di privato sociale sono comprese anche le associazioni sportive e culturali, ricreative ed
ambientaliste. La nostra Costituzione, in base agli articoli 2, 18, 49, 39, riconosce e legittima
le formazioni sociali intermedie come luogo in cui viene esplicato la personalità dell'individuo
e la libera associazione fra le persone. Anche dove viene previsto l'intervento dello Stato
nell'offerta e nella gestione dei servizi, specificatamente negli articoli 32, 33, 34, 38, i nostri
"padri costituenti" si sono premurati, diciamo così, di rendere possibile l'intervento dei privati
nel sociale, stabilendone i limiti e i modi.
3. CENNI STORICI SULLO SVILUPPO DELLO STATO SOCIALE NEI
VARI PAESI
Più che darne una definizione è utile vedere lo Stato Sociale come costruzione storica. Esso
nasce e si sviluppa in Europa con il sorgere degli Stati nazionali (assoluti, costituzionali e poi
repubblicani). Lo stato sociale nasce nel Settecento e si sviluppa a partire dalla Rivoluzione
Francese, che proclamò i diritti sociali della muova era democratica, e con le varie riforme
introdotte nel corso dell'Ottocento per risolvere la "questione sociale". Sono tre le fasi
storiche, che rappresentano anche tre modelli, attraverso i quali lo Stato Sociale si perfeziona:
- MODELLO PATERNALISTICO 1700-1800 - MODELLO ASSICURATIVO (della
sicurezza sociale) 1883-1940 - MODELLO INTERVENTISTA 1945-1989 - MODELLO
PATERNALISTICO 1700-1800 A partire dal Sei- Settecento, lo spopolamento delle
campagne e le nuove forme di sfruttamento del lavoro creano problemi sociali senza
precedenti. Spesso si dice che è in Inghilterra che il moderno Welfare State ha i suoi prodromi
nella forma paternalistica più classica; ma se si guarda al panorama europeo del Settecento, i
modelli continentali non hanno nulla da invidiare all'Inghilterra in termini di costruzione di
apparati di controllo sociale. Nel corso del Settecento e di tutto l'Ottocento, lo Stato Sociale è
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la bandiera della lotta contro la povertà. Le misure di intervento per i poveri vengono
progressivamente sottratte alla Chiesa e alle varie forme di mutualità e beneficenza e in
qualche modo statalizzate. Si fa strada l'idea di produrre un controllo totale dell'ordine. Le
attività assistenziali vengono erogate come spese a fondo perduto dei bilanci del sovrano e dei
suoi governi centrali e locali. - MODELLO ASSICURATIVO (della sicurezza sociale) 18831940 Con il procedere dell'industrializzazione, la "questione operaia" dilaga in un conflitto
aperto tra il proletariato e la borghesia in tutta Europa. Nascono nuovi movimenti di rivolta e
di rivendicazione, che rendono instabili tutti i sistemi politici. Per rimediare a questa
instabilità, alla fine dell'Ottocento, Bismark introduce quelle che vengono considerate le
prime vere misure di uno Stato Sociale moderno: le assicurazioni obbligatorie contro i
maggiori rischi di povertà. Tra queste rientrano le assicurazioni contro la malattia (1883), gli
infortuni sul lavoro (1884) e la vecchiaia (1889). Con questa invenzione nasce un tipo di
Welfare State diverso da quello precedente. La finalità primaria del modello bismarkiano non
è più il controllo sociale della povertà, ma mira soprattutto a garantire il minimo di
sopravvivenza. Questo modello che ha avuto inizio negli anni Ottanta del 1800, si espande
fino alla seconda guerra mondiale. Successivamente incontrerà nuovi sviluppi. A poco a poco
vengono introdotte nuove riforme, soprattutto in campo assicurativo, in parte obbligatorie e in
parte volontarie. In seguito con il famoso piano di Lord Beveridge, lo Stato assume un ruolo
redistributivo e garantistico e non strettamente contributivo. - MODELLO INTERVENTISTA
1945-1989 La grande depressione del 1949, la seconda guerra mondiale e il procedere
dell'industrializzazione e dei suoi effetti sono gli eventi che fanno nascere l'esigenza di una
nuova politica sociale. Tutto ciò avviene attorno agli anni Trenta. La teoria di J. M. Keynes e i
piani di sicurezza sociale di Lord Beveridge ricevono ampio consenso. Questo modello si
propone di garantire uno standard di vita come diritto sociale, assicurando un'assistenza
sociale adeguata alle esigenze degli individui. Il modello interventista si propone di coprire
queste spese attraverso un sistema fiscale efficiente e ricorrendo all'indebitamento. Questo
modello si diffonde e si sviluppa per circa quarant'anni. Il Welfare State si espande nel mondo
occidentale e soltanto impropriamente può essere riferito ai Paesi comunisti. Nel secondo
dopoguerra lo Stato Sociale non viene messo in pericolo fino a quando esso mostra limiti
insuperabili
Nell'800 si affermano esperienze di autotutela, con l'istituzione di `società di mutuo soccorso',
in tempi in cui la previdenza pubblica non esisteva, con la nascita di banche popolari e di
casse rurali, con il moltiplicarsi di iniziative nel campo dell'educazione e dell'istruzione
scolastica e professionale. Nella seconda metà dell'800 gli interventi legislativi che si
susseguono tendono ad eliminare e a regolamentare una parte considerevole delle
organizzazioni operanti nel sociale. Nasce lentamente la legislazione sociale.
Nel frattempo si allarga il conflitto sociale e nascono i sindacati, i partiti socialisti, le
cooperative.
Bisogna ricordare, inoltre, che l'idea del Welfare non è una conquista dal basso, ma già ne
parla Tocqueville, ed i padri dello Stato Sociale sono considerati Bismark e lord Beveridge,
non socialisti che hanno tentato esclusivamente di mettere al riparo dalle conseguenze dello
scontro sociale lo Stato liberale e liberista.
Ottone von Bismarck e la Confederazione della Germania del Nord
Ottone von Bismark fu primo ministro in Prussia dal 1862. Bismark div enne Cancelliere
Federale della Confederazione della Germania del Nord che comprendeva tutti gli stati
tedeschi a nord del Meno. Il Presidente della Confederazione era il re di Prussia.
Il Reich tedesco
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La Prussia nel 1871 sottrasse alla Francia i territori dell'Alsazia e della Lorena. Con
l'entusiasmo della vittoria, gli stati della Germania meridionale si unirono alla Confederazione
del Nord. Era stato un altro successo di Bismarck. A Versailles, il 18 gennaio 1871, il re
Guglielmo I di Prussia venne proclamato Imperatore tedesco. Nasce il Reich tedesco,
confederazione
di
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Stati
sotto
l'egemonia
prussiana.
Guglielmo II e la prima guerra mondiale
Nel 1890 il giovane imperatore, Kaiser Guglielmo II, licenziò il Cancelliere Bismarck. Sotto
il suo regno la Germania avviò la sua "politica” di espansione di influenza nel resto del
mondo,
così
come
avevano
fatto
grandi
potenze
europee.
Il conflitto scoppiato nel 1914 tra Austria e Serbia fu l'occasione per la Germania di entrare in
guerra e il gioco delle alleanze da una parte e la contrapposizione degli interessi di ciascuna
nazione dall'altra estesero il conflitto anche alla Russia, Francia, Inghilterra, Italia.
La Germania fu sconfitta e alla disfatta militare si aggiunse il crollo politico. L'imperatore
Guglielmo II abbandonò il potere, cadde la monarchia e in Germania venne proclamata la
repubblica.
4. INDUSTRIALIZZAZIONE E STATO SOCIALE
Con l'industrializzazione s'è prodotta una crescente concentrazione della popolazione nelle
città a motivo del costo di produzione, che divenne per vari motivi più basso in città che in
campagna. Il fatto che le città fossero la principale fonte o concentrazione di domanda di
lavoro, portò alla migrazione della popolazione dalle campagne alle città. E' ben evidente che
nelle prime fasi dell'industrializzazione le città non riproducevano la propria popolazione:
cioè il tasso d'incremento naturale era probabilmente negativo, a causa delle malsane
condizioni delle città antiche; così un flusso continuo dalla campagna era essenziale per la
stabilità della popolazione. Ma, data la crescente domanda di lavoro, con l'industrializzazione
venne a crescere l'immigrazione della popolazione; e, quando l'immigrazione ebbe raggiunto
un certo livello nelle città, allora il tasso d'incremento naturale cominciò ad assumere
maggiori proporzioni. Così le città comiciarono a crescere di forza propria, così
l'urbanizzazione fu un modo più efficiente di organizzare una popolazione per continui
aumenti di produzione.
I "pensatori sociali" cominciarono a criticare l'origine di continui miglioramenti del benessere
dal solo meccanismo del mercato; e quindi chiesero interventi statali che restringessero la
libertà di operare del mercato. In Gran Bretagna divenne molto noto il lavoro di una persona
come Robert Owen, in Francia si ebbe il "socialismo utopico", socialisti che fanno lo stesso
genere di critiche e chiedono mutamenti per controllare l'economia di mercato. Karl Marx,
con l'esperienza inglese davanti agli occhi, pensava che non vi fosse aiuto in un'economia di
mercato: al contrario bisognava cercare di portarla al più presto possibile alla fine, in una
nuova era di socialismo. Ma in Germania la speranza era che le previsioni di Marx non
fossero vere, e che non ce ne fosse bisogno. Non c'era rischio che si realizzassero, se si fosse
agito in tal modo da moderare le tempeste dell'economia di mercato, forzando, diciamo, i
datori di lavoro ad impiegare solo lavoratori adulti, a ridurre l'impiego di donne delle nelle
fabbriche, a ridurre le ore di lavoro, ed ad introdurre dei sostegni, sostegni automatici, per i
lavoratori nei momenti difficili. I "pensatori sociali", in altre parole, chiedevano interventi
statali o meccanismi cooperativi che permettessero alla popolazione di superare meglio le
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difficltà di vivere in un insicuro ambiente industriale urbano. In Germania emerse un gruppo
di studiosi che furono detti "Kathedersozialisten" (socialisti cattedratici), che pensavano che
se lo Stato fosse intervenuto sul mercato del lavoro, sulla sanità per gli anziani, sulle
condizioni di lavoro, la minaccia dell'instabilità sarebbe stata eliminata. E questa era una delle
motivazioni dei "socialisti cattedratici": volevano migliorare il tenore di vita della
popolazione ed indebolirne o demolirne le disuguaglianze, non solo perché ciò era eticamente
giusto e retto, ma perché ciò avrebbe eliminato od indebolito il rischio della rivoluzione.
Uno dei mutamenti che ha avuto luogo è che nella seconda metà del'Ottocento, nella maggior
parte dei paesi europei in cui s'avviava l'industrializzazione, si ebbe la classe operaia urbana
chiese — attraverso i sindacati, ed in qualche misura attraverso la formazione, l'inizio della
formazione di partiti politici — di aver voce nelle decisioni politiche, inclusa la politica
sociale, e di conseguenza chiese l'antica sicurezza come un diritto. Ed i borghesi che
controllavano l'amministrazione locale nelle città, almeno per la politica sociale di cui
diciamo, risposero a ciò cominciando a badare con più cura ai costi e benefici di tale politica
sociale. E di conseguenza si generarono pressioni a livello locale per trasferire tali problemi a
livello amministrativo più alto. Dove quindi di nuovo c'erano i partiti politici, e per spostare
od aggirare la possibilità che i partiti della classe operaia divenissero una forza importante di
governo, a vari livelli, parve saggio alle classi dominanti pensare di sviluppare le politiche
sociali ad un livello più generale. Il caso classico fu l'esempio di Bismark, in Germania, di
legislazione sociale, che emerse tra il 1870 ed il 1890. Tale tipo di legislazione divenne un
modello per molti altri paesi. Abbiamo già discusso il fatto che il problema sociale era sempre
più, nel trascorrere dell'Ottocento, un fenomeno urbano, in quanto la classe operaia era
sempre più concentrata e rappresentava una minaccia potenziale al sistema sociale e politico.
Ed in tal senso l'obiettivo era la classe operaia urbana, i poveri delle città; ma era al contempo
indebolire il radicalismo, indebolire il desiderio della popolazione operaia, dei poveri delle
città per una soluzione sociale radicale. In qualche misura ci si accorse che il distacco tra il
tenore di vita delle classi alte e medie ed il resto della società non avrebbe dovuto divenire
troppo largo, poiché in un contesto urbano tali differenze erano ben visibili.
L'inizio dello Stato previdenziale può essere ricondotto all'accentuazione dei problemi sociali
associati ad urbanizzazione ed industrializzazione, e ciò da presto: se si guarda alla Gran
Bretagna negli anni venti e trenta dell'Ottocento, le città già cominciano a rispondere ai
problemi di pauperizzazione della popolazione, del lavoro infantile, della sanità pubblica in
particolare; un tratto molto importante fu che ad intervalli esplosero epidemie: colera, tifo e
così via. Ed all'improvviso i notabili cittadini responsabili delle decisioni divennero ben
consci di essere di fronte ad un problema, ed allora fu avviato un meccanismo progettato per
eliminare tale problema. Il fatto fu che le amministrazioni cittadine si trovarono in un brutto
momento tra il 1840 ed il 1860, quando il ciclo economico si era volto al basso, ed esse
trovarono che addirittura il venti o trenta per cento della popolazione aveva bisogno di
assistenza per povertà, che le finanze delle città erano svuotate dal carico dei pagamenti per
assistenza che dovevano fare, e tale fenomeno ebbe luogo in tutta Europa. Io considero la
risposta tedesca una pietra miliare: in Germania, sebbene al livello locale — al livello
dell'impresa, al livello della città — c'era una politica sociale che era stata assunta in risposta
ai problemi di urbanizzazione, congestione, sanità e così via, è solo negli anni che seguono il
1880 — quando viene asssunta la legislazione di Bismark — che l'introduzione
dell'assicurazione contro gli infortuni che pone l'onere della prova sui datori di lavoro quando
han luogo incidenti sul lavoro, e l'introduzione sebbene modesta di previdenza per la
vecchiaia, pongono davvero una pietra miliare nello sviluppo dello Stato previdenziale, per lo
sviluppo della previdenza contro le malattie dal 1880, per il fatto che con essa lo Stato prese
la responsabilità di fornire certi servizi minimi in ogni caso, senza curarsi delle previdenze
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che fossero state accumulate di diritto nel passato. La legislazione di Bismark fu all'inizio
modesta, ed in effetti ebbe un aspetto senza dubbio di finanziamento per le casse dello Stato,
poché molti che furono inclusi nel programma di assicurazione sociale pagarono più di quelli
che ricevevano benefici, almeno all'inizio; nondimeno, in termini d'incertezza sul futuro, fu
del tutto un miglioramento per un buon settore della popolazione, cosicché il modello, dato il
fatto che pareva aver positivi effetti nello stabilizzare la società, venne adottato in altri paesi:
la Gran Bretagna introdusse una legislazione simile all'inizio del Novecento.
Guardando al tenore di vita della popolazione europea nel lungo periodo, vediamo che hanno
avuto la tendenza a migliorare nel corso dell'industrializzazione. Ed a causa del fatto che le
fluttuazioni dell'economia sono divenute più evidenti in concentrazioni di popolazione ove si
viva vicini gli uni agli altri, ed a causa della crescente dipendenza dall'economia di mercato in
cui si deve avere una merce — sia del lavoro, sia un bene, sia un servizio — che possa esser
venduta per un prezzo, e dato il fatto che non vi è stato alcun coordinamento centralizzato di
tali transazioni, l'insicurezza ha teso a divenire un tratto più significativo della vita. Quindi
quel che si potrebbe dire è che, sebbene nel lungo periodo il tenore di vita è migliorato, è
cresciuta l'incertezza su come continuerà a mutare. Vi è anche sempre meno affidamento alla
famiglia come fonte di sicurezza sociale; vi è anche sempre maggior coscienza delle
differenze nel tenore di vita tra parti diverse della popolazione. Il Novecento è diverso
dall'Ottocento. In tal senso c'è in qualche misura un salto qualitativo: emerge il problema della
disoccupazione. Penso che il termine disoccupazione sia stato inventato, come categoria
sociopolitica, all'inizio del Novecento. Comincia ad essere sentita come responsabilità dello
Stato dopo la Prima Guerra Mondiale, in un paese dopo l'altro, in particolare col bisogno
d'integrare i soldati che tornano dalla guerra, col tremendo peso delle previdenze di disabilità,
coi pericoli connessi. Nella stessa Germania, in séguito alla Prima Guerra Mondiale vi fu una
rivoluzione, per venire incontro alla quale i rappresentanti del padronato furono d'accordo ad
offrire agli operai un certo minimo di paga, un minimo garantito di benefici previdenziali, di
sicurezza sociale per vecchiaia e salute, ed anche il giorno lavorativo di otto ore, in cambio
del riconoscimento, da parte delle forze di lavoro organizzate, del sistema del capitalismo
privato, della proprietà privata dei mezzi di produzione. Così la rivoluzione fu apertamente
evitata, o fu stornato il rischio della rivoluzione, con l'introduzione di un meccanismo
previdenziale che conteneva apertamente l'intento di fornire sicurezza sociale alla maggior
parte della classe operaia. La disoccupazione è divenuta un problema cronico; era esistita ad
intervalli prima della Prima Guerra Mondiale, e con maggiore o minor severità nella forma di
sottoccupazione: oggi è divenuta un problema di aperta disoccupazione, ed un problema per
cui i governi progettano programmi assicurativi. Ciò s'interruppe momentaneamente sotto i
colpi della depressione mondiale degli anni trenta, ma il problema rimane, ed è probabilmente
dopo la Seconda Guerra Mondiale che se ne nota un riconoscimento generale. Nella crisi
degli anni trenta, malgrado l'emergenza del keynesismo come una forma di statalismo
previdenziale, se si vuole in risposta al rischio della disoccupazione, malgrado l'arrivo del
concetto e del riconoscimento della disoccupazione di massa negli anni trenta, nella maggior
parte dei paesi non vi fu un tentativo concordato di alleviare la disoccupazione dall'inizio con
programmi d'indennità. E siccome la crisi prese proporzioni tanto gigantesche in paesi come
Belgio, Olanda, Germania, Stati Uniti e Gran Bretagna riguardo a ciò, dopo la Seconda
Guerra Mondiale i politici responsabili della ricostruzione dei loro rispettivi paesi in Europa
sono stati d'accordo che la politica economica non avrebbe solo compreso incentivi agli
investimenti che costruissero, aprissero mercati per espandere le esportazioni, alimentassero i
mutamenti di produttività ed i progressi tecnologici, ma avrebbe anche fornito un meccanismo
per garantire la piena occupazione. In parecchi paesi europei, l'idea è ormai che lo Stato sia
responsabile di stabilizzare i cicli economici e di garantire piena occupazione e così via: in tal
senso nel 1945, 1946 e 1947 si ha un quadro diverso; e fu così che lo statalismo assistenziale
9
è emerso come un preciso elemento dell'insieme di fini politici che si richieda allo Stato di
perseguire.
Se si guarda a come sia mutata la definizione di Stato previdenziale, penso che una causa
della crescita dello stato previdenziale sia che quando i redditi di una popolazione aumentano
le sue preferenze cambiano, la domanda per certi beni pubblici diviene più forte, ed uno di
questi benipubblici è la protezione dell'ambiente, e l'idea che sia conservato per i posteri.
Penso che questo sia un processo che è destinato a continuare ad allargarsi, così prevedo — e
non è per iente originale — un allargamento dello Stato previdenziale, ed insieme una crescita
della burocrazia, a vari livelli amministrativi, che si occupi di politiche previdenziali: questo è
un fenomeno continuo. Negli anni ottanta, con lo sviluppo di thatcherismo e reaganismo, si
potrebbe aver avuta l'impressione che lo Stato previdenziale sarebbe stato respinto indietro.
Vi sono stati tanti discorsi sul fatto che la misura della spesa pubblica nella produzione totale
di un'economia avesse raggiunto un livello massimo e che avrebbe dovuto tornare indietro. E
la discussione continua, ma gli anni ottanta sono passati, ed oggi siamo negli anni novanta, e
mi pare che siamo in un'altra fase in cui va crescendo la domanda per un allargamento della
responsibilità statale. Possiamo solo sperare che la torta economica sia in grado di finanziare
le crescenti domande per servizi che riguardano quanto lo Stato previdenziale fornisce, che la
torta continui a crescere, che l'economia continui ad esser in grado di fornirci quelle risorse;
ed è ipotesi per ciascuno come e quanto sarà mantenuto un equilibrio tra mezzi e fini.
Tratto dall'intervista: "Industrializzazione e origini dello stato sociale" - Milano, Università
Bocconi, 15 settembre 1994
5. LA SECONDA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE
Legato al rinnovato sviluppo della seconda rivoluzione industriale è il fenomeno che passa
sotto il nome di produzione di massa, per con cui si immette sul mercato una grande quantità
di manufatti con buone possibilità di vendita grazie alle accresciute capacità di acquisto dei
consumatori. Cosicché diventa fondamentale per ogni azienda conquistare una fetta
consistente di mercato e quindi investire grandi risorse nei settori della pubblicità, delle
ricerche di mercato, della commercializzazione e distribuzione dei prodotti. Si crea così il
rapporto tra industria e consumatori e nascono le tecniche di persusione e di controllo
caratteristiche della vita di questi ultimi anni. Questo fenomeno consiste nella trasformazione
del modo e della scala di produzione.
Con il termine produzione di massa gli storici dell'economia e gli studiosi di sociologia
industriale si riferiscono a due distinti processi. Un primo significato concerne la
razionalizzazione dei metodi produttivi secondo una linea implicita fin dall'inizio della
tecnologia di fabbrica nell'ambito delle condizioni capitalistiche di produzione, tendenza già
pienamente evidenziata da Marx nell'analisi del primo sviluppo industriale. Tale tendenza ha
un salto di qualità negli Stati Uniti già anteriormente alla prima guerra mondiale. Alla vigilia
del conflitto mondiale le auto uscivano dalla linea al fantastico ritmo di una ogni due minuti,
un tempo che fu più tardi dimezzato. Nel 1914 fu prodotta complessivamente l'incredibile
quantità di oltre 300 mila vetture Ford modello T, e nel 1915 più di 500 mila
Queste considerazioni ci introducono al secondo significato di produzione di massa, cioè il
largo mercato di beni di consumo connesso alla crescita dei redditi nei paesi economicamente
progrediti a cominciare dagli Stati Uniti. Ma anche in Europa tra il 1870 e il 1913 si ha un
notevole incremento dei redditi pro capite e dei salari reali. Concorsero a questo risultato la
caduta dei prezzi a1imentari per l'importazione di grano dal Nord America e dalla Russia e
delle carni dall'Argentina, la modernizzazione dell'agricoltura in alcune aree europee, la
diminuzione del costo dei manufatti per i miglioramenti tecnologici e per il progresso dei
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trasporti. Tutto ciò avvenne in un quadro di rapporti sociali nel quale la presenza ormai
consolidata di forti organizzazioni di lavoratori impediva di trasformare automaticamente
l'abbassamento dei costi in decurtazione dei salari.
Taylor fu un ingegnere americano che, attraverso l'osservazione dei processi industriali,
formulò il primo principio sulla razionalizzazione del lavoro di fabbrica e cioè il principio
della catena di montaggio.
Questo principio si basava sull'osservazione sistematica dei movimenti degli operai e nella
rilevazione cronometrica dei tempi impiegati dagli operai per svolgere le loro mansioni con lo
scopo di fissare le leggi che stabilissero il modo migliore di lavorare. In questo modo fu
possibile stabilire il giusto salario per una giusta giornata di lavoro.
Tra i fenomeni di maggiore importanza dell’età dell’industrializzazione è da ricordare il
graduale spostamento dei lavoratori dalle campagne alla città, dall’agricoltura agli altri settori
dell’attività. Si diffonde inoltre in maniera sempre più decisa il settore terziario, mentre con
i termini di piccola e media borghesia, ceti medi, classi medie, viene indicato un soggetto
sociale che appare sempre più numeroso nella società moderna. Uno dei protagonisti della
società e dell'economia del primo '900 è tuttavia l'operaio.Nella prima fase
dell’industrializzazione si era affermata una nuova figura di operaio di fabbrica che non
coincideva più con l’artigiano che lavorava a mano con gli utensili tradizionali ma si era
trasformato nell'operaio di mestiere formato attraverso un tirocinio di fabbrica, che sapeva
manovrare macchine polivalenti capaci di compiere molte operazioni.
Questa nuova figura sociale assunse un sempre crescente prestigio legato alla specializzazione
del suo lavoro. La concentrazione di masse considerevoli di operai in uno stesso luogo di
lavoro, la loro compresenza e la rigidità degli orari di lavoro consentì la progressiva crescita
di una coscienza di classe tra i lavoratori e la diffusione presso di loro di scritti a carattere
ideologico
La Seconda Rivoluzione Industriale quindi aveva maggiori caratteri scientifici ed era meno
dipendente da quelle invenzioni che non avevano o avevano poca base scientifica. A questo
proposito, e cioè riguardo alle invenzioni e innovazioni, fu molto complessa la questione dei
brevetti.
Questa fase non era tanto diretta a migliorare o accrescere i prodotti già esistenti quanto a
introdurre dei nuovi. Per questi motivi non poteva più essere chiamata la rivoluzione del
carbone e del ferro ma dal 1870 iniziava l'età dell'acciaio, dell'elettricità, del petrolio e della
chimica.
Grazie ai contributi dei già citati Taylor e Gilbreth, che realizzarono il principio della catena
di montaggio, la fabbrica al proprio interno andò rinnovandosi passando da luogo di
produzione a quello di macchina di produzionedi massa. Il risultato di tutte queste innovazioni
è l'aumento di produttività delle aziende
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6. LA CARTA DEL LAVORO
I.
La Nazione italiana è un organismo avente fini, vita, mezzi di azione superiori per potenza
e durata a quelli degli individui divisi o raggruppati che la
compongono. È una unità morale, politica ed economica, che si realizza integralmente nello
Stato fascista.
II.
Il lavoro, sotto tutte le sue forme organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche, manuali
è un dovere sociale. A questo titolo, e solo a questo titolo,
è tutelato dallo Stato.
Il complesso della produzione è unitario dal punto di vista nazionale; i suoi obiettivi sono
unitari e si riassumono nel benessere dei singoli e nello
sviluppo della potenza nazionale.
III.
L’organizzazione sindacale o professionale è libera. Ma solo il sindacato, legalmente
riconosciuto e sottoposto al controllo dello Stato, ha il diritto di
rappresentare legalmente tutta la categoria di datori di lavoro o di lavoratori, per cui è
costituito; di tutelarne, di fronte alle Stato e alle altre associazioni
professionali, gli interessi; di stipulare contratti collettivi di lavoro obbligatori per tutti gli
appartenenti alla categoria, di imporre loro contributo e di
esercitare, rispetto ad essi, funzioni delegate di interesse pubblico.
IV.
Nel contratto collettivo di lavoro trova la sua espressione concreta la solidarietà tra i vari
fattori della produzione, mediante la conciliazione degli
opposti interessi dei datori di lavoro e dei lavoratori, e la loro subordinazione agli interessi
superiori della produzione.
V.
La magistratura del lavoro è l’organo con cui lo Stato interviene a regolare le controversie
del lavoro, sia che vertano sull’osservanza dei patti e delle
altre norme esistenti, sia che vertano sulla determinazione di nuove condizioni del lavoro.
VI.
Le associazioni professionali legalmente riconosciute assicurano l’uguaglianza giuridica tra
i datori di lavoro e i lavoratori, mantengono la disciplina
della produzione e del lavoro e ne promuovono il perfezionamento.
Le Corporazioni costituiscono l’organizzazione unitaria delle forze della produzione e ne
rappresentano integralmente gli interessi.
In virtú di questa integrale rappresentanza, essendo gli interessi della produzione interessi
nazionali, le Corporazioni sono dalla legge riconosciute come
organi di Stato.
Quali rappresentanti degli interessi unitari della produzione, le Corporazioni possono
dettar norme obbligatorie sulla disciplina dei rapporti di lavoro e
anche sul coordinamento della produzione tutte le volte che ne abbiano avuto i necessari
poteri dalle associazioni collegate.
VII.
Lo Stato corporativo considera l’iniziativa nel campo della produzione come lo strumento
piú efficace e piú utile nell’interesse della Nazione.
L’organizzazione privata della produzione essendo una funzione di interesse nazionale,
l’organizzatore dell’impresa è responsabile dell’indirizzo della
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produzione di fronte allo Stato. Dalla collaborazione delle forze produttive deriva fra esse
reciprocità di diritti e di doveri. Il prestatore d’opera, tecnico,
impiegato od operaio, è un collaboratore attivo dell’impresa economica, la direzione della
quale spetta al datore di lavoro che ne ha la responsabilità.
VIII.
Le associazioni di datori di lavoro hanno l’obbligo di promuovere in tutti i modi l’aumento,
il perfezionamento della produzione e la riduzione dei
costi. Le rappresentanze di coloro che esercitano una libera professione o un’arte e le
associazioni di pubblici dipendenti concorrono alla tutela degli
interessi dell’arte, della scienza e delle lettere, al perfezionamento della produzione e al
conseguimento dei fini morali dell’ordinamento corporativo.
IX.
L’intervento dello Stato nella produzione economica ha luogo soltanto quando manchi o sia
insufficiente l’iniziativa privata o quando siano in giuoco
interessi politici dello Stato. Tale intervento può assumere la forma del controllo,
dell’incoraggiamento e della gestione diretta.
X.
Nelle controversie collettive del lavoro l’azione giudiziaria non può essere intentata se
l’organo corporativo non ha prima esperito il tentativo di
conciliazione.
Nelle controversie individuali concernenti l’interpretazione e l’applicazione dei contratti
collettivi di lavoro, le associazioni professionali hanno facoltà
di interporre i loro uffici per la conciliazione.
La competenza per tali controversie è devoluta alla magistratura ordinaria, con l’aggiunta
di assessori designati dalle associazioni professionali
interessate.
XI.
Le associazioni hanno l’obbligo di regolare, mediante contratti collettivi, i rapporti di
lavoro per le categorie di datori di lavoro e di lavoratori, che
rappresentano.
Il contratto collettivo di lavoro si stipula fra associazioni di primo grado, sotto la guida e il
controllo delle organizzazioni centrali, salva la facoltà di
sostituzione da parte dell’associazione di grado superiore, nei casi previsti dalla legge o dagli
statuti.
Ogni contratto collettivo di lavoro, sotto pena di multa, deve contenere norme precise sui
rapporti disciplinari, sul periodo di prova, sulla misura e sul
pagamento della retribuzione, sull’orario di lavoro.
XII.
L’azione del sindacato, l’opera conciliativa degli organi corporativi e la sentenza della
magistratura del lavoro garantiscono la corrispondenza del
salario alle esigenze normali di vita, alle possibilità della produzione e al rendimento del
lavoro. La determinazione del salario è sottratta a qualsiasi
norma generale e affidata all’accordo delle parti nei contratti collettivi.
XIII.
Le conseguenze delle crisi di produzione e dei fenomeni monetari devono equamente
13
ripartirsi fra tutti i fattori della produzione.
I dati rilevati dalle pubbliche amministrazioni, dall’istituto centrale di statistica e dalle
associazioni professionali legalmente riconosciute, circa le
condizioni della produzione e del lavoro e la situazione del mercato monetario, e le variazioni
del tenore di vita dei prestatori d’opera, coordinati ed
elaborati dal Ministero delle Corporazioni, daranno il criterio per contemperare gli interessi
delle varie categorie e delle classi fra di loro e di queste
coll’interesse superiore della produzione.
XIV.
La retribuzione deve essere corrisposta nella forma piú consentanea alle esigenze del lavoro
e dell’impresa.
Quando la retribuzione sia stabilita a cottimo, e la liquidazione dei cottimi sia fatta a
periodi superiori alla quindicina, sono dovuti adeguati acconti
quindicinali o settimanali.
Il lavoro notturno, non compreso in regolari turni periodici, viene retribuito con una
percentuale in piú, rispetto al lavoro diurno.
Quando il lavoro sia retribuito a cottimo, le tariffe di cottimo debbono essere determinate
in modo che all’operaio laborioso, di normale capacità
lavorativa, sia consentito di conseguire un guadagno minimo oltre la paga base.
XV.
Il prestatore di lavoro ha diritto al riposo settimanale in coincidenza con le domeniche. I
contratti collettivi applicheranno il principio tenendo conto
delle norme esistenti, delle esigenze tecniche delle imprese, e nei limiti di tali esigenze
procureranno altresí che siano rispettate le festività civili e
religiose secondo le tradizioni locali. L’orario di lavoro dovrà essere scrupolosamente e
intensamente osservato dal prestatore d’opera.
XVI.
Dopo un anno di ininterrotto servizio il prestatore d’opera, nelle imprese a lavoro continuo,
ha diritto ad un periodo annuo di riposo feriale retribuito.
XVII.
Nelle imprese a lavoro continuo il lavoratore ha diritto, in caso di cessazione dei rapporti di
lavoro per licenziamento senza sua colpa, ad una
indennità proporzionata agli anni di servizio. Tale indennità è dovuta anche in caso di morte
del lavoratore.
XVIII.
Nelle imprese a lavoro continuo, il trapasso dell’azienda non risolve il contratto di lavoro, e
il personale ad essa addetto conserva i suoi diritti nei
confronti del nuovo titolare. Egualmente la malattia del lavoratore, che non ecceda una
determinata durata, non risolve il contratto di lavoro. Il richiamo
alle armi o in servizio della MVSN non è causa di licenziamento.
XIX.
Le infrazioni alla disciplina e gli atti che perturbino il normale andamento dell’azienda,
commessi dai prenditori di lavoro, sono puniti, secondo la
gravità della mancanza, con la multa, con la sospensione dal lavoro e, per i casi piú gravi, col
licenziamento immediato senza indennità.
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Saranno specificati i casi in cui l’imprenditore può infliggere: la multa o la sospensione o il
licenziamento immediato senza indennità.
XX.
Il prestatore di opera di nuova assunzione è soggetto ad un periodo di prova, durante il
quale è reciproco il diritto alla risoluzione del contratto, col
solo pagamento della retribuzione per il tempo in cui il lavoro è stato effettivamente prestato.
XXI.
Il contratto collettivo di lavoro estende i suoi benefici e la sua disciplina anche ai lavoratori
a domicilio. Speciali norme saranno dettate dallo Stato
per assicurare la polizia e l’igiene del lavoro a domicilio.
XXII.
Lo Stato accerta e controlla il fenomeno della occupazione e della disoccupazione dei
lavoratori, indice complessivo delle condizioni della
produzione e del lavoro.
XXIII.
Gli uffici di collocamento sono costituiti a base paritetica sotto il controllo degli organi
corporativi dello Stato. I datori di lavoro hanno l’obbligo di
assumere i prestatori d’opera pel tramite di detti uffici. Ad essi è data facoltà di scelta
nell’ambito degli iscritti negli elenchi con preferenza a coloro che
appartengono al Partito e ai Sindacati fascisti, secondo la anzianità di iscrizione.
XXIV.
Le associazioni professionali di lavoratori hanno l’obbligo di esercitare un’azione selettiva
fra i lavoratori, diretta ad elevarne sempre di piú la
capacità tecnica e il valore morale.
XXV.
Gli organi corporativi sorvegliano perché siano osservate le leggi sulla prevenzione degli
infortuni e sulla polizia del lavoro da parte dei singoli
soggetti alle associazioni collegate.
XXVI.
La previdenza è un’alta manifestazione del principio di collaborazione. Il datore di lavoro e
il prestatore d’opera devono concorrere
proporzionalmente agli oneri di essa. Lo Stato, mediante gli organi corporativi e le
associazioni professionali, procurerà di coordinare e di unificare,
quanto piú è possibile, il sistema e gli istituti della previdenza.
XXVII.
Lo Stato fascista si propone:
1) il perfezionamento dell’assicurazione infortuni;
2) il miglioramento e l’estensione dell’assicurazione maternità;
3) l’assicurazione delle malattie professionali e della tubercolosi come avviamento
all’assicurazione generale contro tutte le malattie;
4) il perfezionamento dell’assicurazione contro la disoccupazione involontaria;
5) l’adozione di forme speciali assicurative dotalizie pei giovani lavoratori.
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XXXVIII.
È compito delle associazioni di lavoratori la tutela dei loro rappresentanti nelle pratiche
amministrative e giudiziarie, relative all’assicurazione
infortuni e alle assicurazioni sociali.
Nei contratti collettivi di lavoro sarà stabilita, quando sia tecnicamente possibile, la
costituzione di casse mutue per malattia col contributo dei datori
di lavoro e dei prestatori di opera, da amministrarsi da rappresentanti degli uni e degli altri,
sotto la vigilanza degli organi corporativi.
XXIX.
L’assistenza ai propri rappresentanti, soci e non soci, è un diritto e un dovere delle
associazioni professionali. Queste debbono esercitare
direttamente le loro funzioni di assistenza, né possono delegarle ad altri enti od istituti, se non
per obiettivi d’indole generale, eccedenti gli interessi delle
singole categorie.
XXX.
L’educazione e l’istruzione, specie la istruzione professionale, dei loro rappresentanti, soci
e non soci, è uno dei principali doveri delle associazioni
professionali. Esse devono Dopolavoro e alle altre iniziative di educazione. affiancare
l’azione delle Opere nazionali relative al
7. LO STATAUTO DEI LAVORATORI
TITOLO I
DELLA LIBERTA' E DIGNITA' DEL LAVORATORE
ART. 1 - Libertà di opinione.
I lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto,
nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nei
rispetto dei principi della costituzione e delle norme della presente legge.
ART. 2 - Guardie giurate.
Il datore di lavoro può impiegare le guardie particolari giurate, di cui agli artt. 133 e seguenti
del T.U. approvato con R.D.
18 giugno 1931, n. 773, soltanto per scopi di tutela del patrimonio aziendale.
Le guardie giurate non possono contestare ai lavoratori azioni o fatti diversi da quelli che
attengono alla tutela del patrimonio aziendale.
È fatto divieto al datore di lavoro di adibire alla vigilanza sull'attività lavorativa le guardie di
cui al primo comma, le quali non possono accedere nei locali dove si svolge tale attività,
durante lo svolgimento della stessa, se non eccezionalmente per specifiche e motivate
esigenze attinenti ai compiti di cui al primo comma.
In caso di inosservanza da parte di una guardia particolare giurata delle disposizioni di cui al
presente articolo,
l'Ispettorato del lavoro ne promuove presso il questore la sospensione dal servizio, salvo il
provvedimento di revoca della licenza da parte del prefetto nei casi più gravi.
16
ART. 3 - Personale di vigilanza.
I nominativi e le mansioni specifiche del personale addetto alla vigilanza dell'attività
lavorativa debbono essere comunicati ai lavoratori interessati.
ART. 4 - Impianti audiovisivi.
È vietato l'uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a
distanza dell'attività dei lavoratori.
Gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e
produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di
controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, possono essere installati soltanto previo
accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la
commissione interna.
In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l'Ispettorato del lavoro,
dettando, ove occorra, le modalità per l'uso di tali impianti.
Per gli impianti e le apparecchiature esistenti, che rispondono alle caratteristiche di cui al
secondo comma del presente articolo, in mancanza di accordo con le rappresentanze sindacali
aziendali o con la commissione interna, l'Ispettorato del lavoro provvede entro un anno
dall'entrata in vigore della presente legge, dettando all'occorrenza le prescrizioni per
l'adeguamento e le modalità di uso degli impianti suddetti.
Contro i provvedimenti dell'Ispettorato dei lavoro, di cui ai precedenti secondo e terzo
comma, il datore di lavoro, le rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza di queste, la
commissione interna, oppure i sindacati dei lavoratori di cui al successivo art. 19 possono
ricorrere, entro 30 giorni dalla comunicazione del provvedimento, al Ministro per il lavoro e
la previdenza sociale.
ART. 5. - Accertamenti sanitari.
Sono vietati accertamenti da parte del datore di lavoro sulla idoneità e sulla infermità per
malattia o infortunio del lavoratore dipendente.
Il controllo delle assenze per infermità può essere effettuato soltanto attraverso i servizi
ispettivi degli istituti previdenziali competenti, i quali sono tenuti a compierlo quando il
datore di lavoro lo richieda.
Il datore di lavoro ha facoltà di far controllare la idoneità fisica del lavoratore da parte di enti
pubblici ed istituti specializzati di diritto pubblico.
ART. 6. - Visite personali di controllo.
Le visite personali di controllo sul lavoratore sono vietate fuorché nei casi in cui siano
indispensabili ai fini della tutela del patrimonio aziendale, in relazione alla qualità degli
strumenti di lavoro o delle materie prime o dei prodotti.
In tali casi le visite personali potranno essere effettuate soltanto a condizione che siano
eseguite all'uscita dei luoghi di lavoro, che siano salvaguardate la dignità e la riservatezza del
lavoratore e che avvengano con l'applicazione di sistemi di selezione automatica riferiti alla
collettività o a gruppi di lavoratori.
Le ipotesi nelle quali possono essere disposte le visite personali, nonché, ferme restando le
condizioni di cui al secondo comma del presente articolo, le relative modalità debbono essere
concordate dal datore di lavoro con le rappresentanze sindacali aziendali oppure, in mancanza
di queste, con la commissione interna.
In difetto di accordo su istanza del datore di lavoro, provvede l' ispettorato del lavoro.
Contro i provvedimenti dell'ispettorato del lavoro di cui al precedente comma, il datore di
lavoro, le rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza di queste, la commissione
interna, oppure i sindacati dei lavoratori di cui al successivo art. 19 possono ricorrere, entro
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30 giorni dalla comunicazione del provvedimento, al Ministro per il lavoro e la previdenza
sociale.
ART. 7. - Sanzioni disciplinari.
Le norme disciplinari relative alle sanzioni alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di
esse può essere applicata ed alle procedure di contestazione delle stesse, devono essere portate
a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti.
Esse devono applicare quanto in materia é stabilito da accordi e contratti di lavoro ove
esistano.
Il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del
lavoratore senza avergli preventivamente contestato l'addebito e senza averlo sentito a sua
difesa.
Il lavoratore potrà farsi assistere da un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce
o conferisce mandato.
Fermo restando quanto disposto dalla legge 15 luglio 1966, n. 604, non possono essere
disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro;
inoltre la multa non può essere disposta per un importo superiore a quattro ore della
retribuzione base e la sospensione dal servizio e dalla retribuzione per più di dieci giorni.
In ogni caso, i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possano essere
applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che
vi ha dato causa.
Salvo analoghe procedure previste dai contratti collettivi di lavoro e ferma restando la facoltà
di adire l'autorità giudiziaria, il lavoratore al quale sia stata applicata una sanzione disciplinare
può promuovere, nei venti giorni successivi, anche per mezzo dell'associazione alla quale sia
iscritto ovvero conferisca mandato, la costituzione, tramite l'ufficio provinciale del lavoro e
della massima occupazione, di un collegio di conciliazione ed arbitrato, composto da un
rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro scelto di comune accordo o, in
difetto di accordo, nominato dal direttore dell'ufficio del lavoro.
La sanzione disciplinare resta sospesa fino alla pronuncia da parte del collegio.
Qualora il datore di lavoro non provveda, entro dieci giorni dall'invito rivoltogli dall'ufficio
del lavoro, a nominare il proprio rappresentante in seno al collegio di cui al camma
precedente, la sanzione disciplinare non ha effetto.
Se il datore di lavoro adisce l' autorità giudiziaria, la sanzione disciplinare resta sospesa fino
alla definizione del giudizio.
Non può tenersi conto ad alcun effetto delle sanzioni disciplinari decorsi due anni dalla loro
applicazione.
ART. 8. - Divieto di indagini sulle opinioni.
E' fatto divieto al datore di lavoro, ai fini dell'assunzione, come nel corso dello svolgimento
del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche,
religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione
dell'attitudine professionale del lavoro.
ART. 9. - Tutela della salute e dell'integrità fisica.
I lavoratori, mediante loro rappresentanze, hanno diritto di controllare l'applicazione delle
norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la
ricerca, l'elaborazione e l'attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro
integrità fisica.
ART. 10. - Lavoratori studenti.
I lavoratori studenti, iscritti e frequentanti corsi regolari di studio in scuole di istruzione
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primaria, secondaria e di qualificazione professionale, statali, pareggiate o legalmente
riconosciute o comunque abilitate al rilascio di titoli di studio legali, hanno diritto a turni di
lavoro che agevolino la frequenza ai corsi e la preparazione agli esami e non sono obbligati a
prestazioni di lavoro straordinario o durante i riposi settimanali.
I lavoratori studenti, compresi quelli universitari, che devono sostenere prove di esame, hanno
diritto a fruire di permessi giornalieri retribuiti.
Il datore di lavoro potrà richiedere la produzione delle certificazioni necessarie all'esercizio
dei diritti di cui al primo e secondo comma.
ART. 11. - Attività culturali, ricreative e assistenziali.
Le attività culturali, ricreative ed assistenziali promosse nell'azienda sono gestite da organismi
formati a maggioranza dai rappresentanti dei lavoratori.
Le rappresentanze sindacali aziendali, costituite a norma dell'art. 19, hanno diritto di
controllare la qualità del servizio di mensa secondo modalità stabilite dalla contrattazione
collettiva.
ART. 12. - Istituti di patronato.
Gli istituti di patronato e di assistenza sociale, riconosciuti dal Ministero del lavoro e della
previdenza sociale, per l'adempimento dei compiti di cui al decreto legislativo del Capo
provvisorio dello Stato 29 luglio 1947, n. 804, hanno diritto di svolgere, su un piano di parità,
la loro attività all'interno dell'azienda, secondo le modalità da stabilirsi con accordi aziendali.
ART. 13. - Mansioni del lavoratore.
L'art. 2103 del codice civile è sostituito dal seguente:
"Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle
corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a
mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della
retribuzione.
Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento
corrispondente all'attività svolta, e l'assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima
non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del
posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi.
Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un'altra se non per comprovate
ragioni tecniche, organizzative e produttive.
Ogni patto contrario è nullo."
TITOLO II DELLA LIBERTA' SINDACALE
ART. 14. - Diritto di associazione e di attività sindacale.
Il diritto di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività sindacale, è
garantito a tutti i lavoratori all'interno dei luoghi di lavoro.
ART. 15. - Atti discriminatori.
È nullo qualsiasi patto od atto diretto a:
a) subordinare l'occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad
una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte;
b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei
trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della
sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero.
19
Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di
discriminazione politica o religiosa.
ART. 16. - Trattamenti economici collettivi discriminatori.
È vietata la concessione di trattamenti economici di maggior favore aventi carattere
discriminatorio a mente dell'art. 15.
Il pretore, su domanda dei lavoratori nei cui confronti è stata attuata la discriminazione di cui
al comma precedente o delle associazioni sindacali alle quali questi hanno dato mandato,
accertati i fatti, condanna il datore di lavoro al pagamento, a favore del Fondo adeguamento
pensioni, di una somma pari all'importo dei trattamenti economici di maggior favore
illegittimamente corrisposti nel periodo massimo di un anno.
ART. 17. - Sindacati di comodo.
È fatto divieto ai datori di lavoro e alle associazioni di datori di lavoro di costituire o
sostenere, con mezzi finanziari o altrimenti, associazioni sindacali di lavoratori.
ART. 18. - Reintegrazione nel posto di lavoro.
(*) I primi 5 commi hanno così sostituito i commi primo e secondo per effetto dell’art.1 – Legge n.
108/1990
Ferma restando l'esperibilità delle procedure previste dall'articolo 7 della legge 15 luglio
1966, n. 604, il giudice con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi
dell'articolo 2 della predetta legge o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o
giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore
di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio
o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più
di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo, di
reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Tali disposizioni si applicano altresì ai datori di
lavoro, imprenditori e non imprenditori, che nell'ambito dello stesso comune occupano più di
quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano
più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non
raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che
occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro.
Ai fini del computo del numero dei prestatori di lavoro di cui primo comma si tiene conto
anche dei lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro, dei lavoratori assunti con
contratto a tempo indeterminato parziale, per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo
conto, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative fa riferimento all'orario previsto
dalla contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge ed i parenti del datore
di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale.
Il computo dei limiti occupazionali di cui al secondo comma non incide su norme o istituti
che prevedono agevolazioni finanziarie o creditizie.
Il giudice con la sentenza di cui al primo comma condanna il datore di lavoro al risarcimento
del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata l'inefficacia o
l'invalidità stabilendo un'indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno
del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi
assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell'effettiva
reintegrazione; in ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque
mensilità di retribuzione globale di fatto.
Fermo restando il diritto al risarcimento del danno così come previsto al quarto comma, al
prestatore di lavoro è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro in sostituzione della
reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a quindici mensilità di retribuzione
globale di fatto. Qualora il lavoratore entro trenta giorni dal ricevimento dell'invito del datore
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di lavoro non abbia ripreso il servizio, né abbia richiesto entro trenta giorni dalla
comunicazione del deposito della sentenza il pagamento dell'indennità di cui al presente
comma, il rapporto di lavoro si intende risolto allo spirare dei termini predetti.
La sentenza pronunciata nel giudizio di cui al primo comma è provvisoriamente esecutiva.
Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, su istanza congiunta del
lavoratore e del sindacato cui questi aderisce o conferisca mandato, il giudice, in ogni stato e
grado del giudizio di merito, può disporre con ordinanza, quando ritenga irrilevanti o
insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro, la reintegrazione del lavoratore
nel posto di lavoro.
L'ordinanza di cui al comma precedente può essere impugnata con reclamo immediato al
giudice medesimo che l'ha pronunciata. Si applicano le disposizioni dell'articolo 178, terzo,
quarto, quinto e sesto comma del codice di procedura civile.
L'ordinanza può essere revocata con la sentenza che decide la causa.
Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, il datore di lavoro che non
ottempera alla sentenza di cui al primo comma ovvero all'ordinanza di cui al quarto comma,
non impugnata o confermata dal giudice che l'ha pronunciata, è tenuto anche, per ogni giorno
di ritardo, al pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari
all'importo della retribuzione dovuta al lavoratore.
TITOLO III DELL'ATTIVITA' SINDACALE
ART. 19. - Costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali.
Rappresentanze sindacali aziendali possano essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in
ogni unità produttiva nell'ambitodelle associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti
collettivi di lavoro applicati nella unità produttiva.
Nell'ambito di aziende con più unità produttive le rappresentanze sindacali possono istituire
organi di coordinamento.
ART. 20. - Assemblea.
I lavoratori hanno diritto di riunirsi, nella unità produttiva in cui prestano la loro opera, fuori
dell'orario di lavoro, nonché durante l'orario di lavoro, nei limiti di dieci ore annue, per le
quali verrà corrisposta la normale retribuzione.
Migliori condizioni possono essere stabilite dalla contrattazione collettiva.
Le riunioni - che possono riguardare la generalità dei lavoratori o gruppi di essi - sono indette,
singolarmente o congiuntamente, dalle rappresentanze sindacali aziendali nell'unità
produttiva, con ordine del giorno su materie di interesse sindacale o del lavoro e secondo
l'ordine di precedenza delle convocazioni, comunicate al datore di lavoro.
Alle riunioni possono partecipare, previo preavviso al datore di lavoro, dirigenti esterni del
sindacato che ha costituito la rappresentanza sindacale aziendale.
Ulteriori modalità per l'esercizio del diritto di assemblea possono essere stabilite dai contratti
collettivi di lavoro, anche aziendali.
ART. 21. - Referendum.
Il datore di lavoro deve consentire nell'ambito aziendale lo svolgimento, fuori dell'orario di
lavoro, di referendum, sia generali che per categoria, su materie inerenti all'attività sindacale,
indetti da tutte le rappresentanze sindacali aziendali tra i lavoratori, con diritto di
partecipazione di tutti i lavoratori appartenenti alla unità produttiva e alla categoria
particolarmente interessata.
Ulteriore modalità per lo svolgimento del referendum possono essere stabilite dai contratti
collettivi di lavoro anche aziendali.
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ART. 22. - Trasferimento dei dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali.
Il trasferimento dell'unità produttiva dei dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali di
cui al precedente art. 19, dei candidati e dei membri di commissione interna può essere
disposto solo previo nulla osta delle associazioni sindacali di appartenenza.
Le disposizioni di cui al comma precedente ed ai commi quarto, quinto, sesto e settimo
dell'art. 18 si applicano sino alla fine del terzo mese successivo a quello in cui è stata eletta la
commissione interna per i candidati nelle elezioni della commissione stessa e sino alla fine
dell'anno successivo a quello in cui è cessato l'incarico per tutti gli altri.
ART. 23. - Permessi retribuiti.
I dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali di cui all'art. 19 hanno diritto, per
l'espletamento del loro mandato, a permessi retribuiti.
Salvo clausole più favorevoli dei contratti collettivi di lavoro hanno diritto ai permessi di cui
al primo comma almeno:
a) un dirigente per ciascuna rappresentanza sindacale aziendale nelle unità produttive che
occupano fino a 200 dipendenti della categoria per cui la stessa è organizzata;
b) un dirigente ogni 300 o frazione di 300 dipendenti per ciascuna rappresentanza sindacale
aziendale nelle unità produttive che occupano fino a 3.000 dipendenti della categoria per cui
la stessa è organizzata;
c) un dirigente ogni 500 o frazione di 500 dipendenti della categoria per cui è organizzata la
rappresentanza
sindacale aziendale nelle unità produttive di maggiori dimensioni, in aggiunta al numero
minimo di cui alla precedente lett. b).
I permessi retribuiti di cui al presente articolo non potranno essere inferiori a otto ore mensili
nelle aziende di cui alle lett.
b) e c) del comma precedente; nelle aziende di cui alla lett. a) i permessi retribuiti non
potranno essere inferiori ad un'ora all'anno per ciascun dipendente.
Il lavoratore che intende esercitare il diritto di cui al primo comma deve darne comunicazione
scritta al datore di lavoro di regola 24 ore prima, tramite le rappresentanze sindacali aziendali.
ART. 24. - Permessi non retribuiti.
I dirigenti sindacali aziendali di cui all'art. 23 hanno diritto a permessi non retribuiti per la
partecipazione a trattative sindacali o a congressi e convegni di natura sindacale, in misura
non inferiore a otto giorni all'anno.
I lavoratori che intendano esercitare il diritto di cui al comma precedente devono darne
comunicazione scritta al datore di lavoro di regola tre giorni prima, tramite le rappresentanze
sindacali aziendali.
ART. 25. - Diritto di affissione.
Le rappresentanze sindacali aziendali hanno diritto di affiggere, su appositi spazi, che il datore
di lavoro ha l'obbligo di predisporre in luoghi accessibili a tutti i lavoratori all'interno
dell'unità produttiva, pubblicazioni, testi e comunicati inerenti a materie di interesse sindacale
e del lavoro.
ART. 26. - Contributi sindacali.
I lavoratori hanno diritto di raccogliere contributi e di svolgere opera di proselitismo per le
loro organizzazioni sindacali all'interno dei luoghi di lavoro, senza pregiudizio del normale
svolgimento dell'attività aziendale.
22
ART. 27. - Locali delle rappresentanze sindacali aziendali.
Il datore di lavoro nelle unità produttive con almeno 200 dipendenti pone permanentemente a
disposizione delle rappresentanze sindacali aziendali, per l'esercizio delle loro funzioni, un
idoneo locale comune all'interno della unità produttiva o nelle immediate vicinanze di essa.
Nelle unità produttive con un numero inferiore di dipendenti le rappresentanze sindacali
aziendali hanno diritto di usufruire, ove ne facciano richiesta, di un locale idoneo per le loro
riunioni.
TITOLO IV DISPOSIZIONI VARIE E GENERALI
ART. 28. - Repressione della condotta antisindacale.
Qualora il datore di lavoro ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare
l'esercizio della libertà e della attività sindacale nonché del diritto di sciopero, su ricorso degli
organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse, il pretore del
luogo ove è posto in essere il comportamento denunziato, nei due giorni successivi, convocate
le parti ed assunte sommarie informazioni, qualora ritenga sussistente la violazione di cui al
presente comma, ordina al datore di lavoro, con decreto motivato ed immediatamente
esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti.
L'efficacia esecutiva del decreto non può essere revocata fino alla scadenza con cui il
tribunale definisce il giudizio instaurato a norma del comma successivo.
Contro il decreto che decide sul ricorso è ammessa, entro 15 giorni dalla comunicazione del
decreto alle parti, opposizione davanti al tribunale che decide con sentenza immediatamente
esecutiva.
Il datore di lavoro che non ottempera al decreto, di cui al primo comma, o alla sentenza
pronunciata nel giudizio di opposizione è punito ai sensi dell'art. 650 del codice penale.
L'autorità giudiziaria ordina la pubblicazione della sentenza penale di condanna nei modi
stabiliti dall'art. 36 del codice penale.
ART. 29. - Fusione delle rappresentanze sindacali aziendali.
Quando le rappresentanze sindacali aziendali di cui all'art. 19 si siano costituite nell'ambito di
due o più delle associazioni di cui alle lett. a) e b) del primo comma dell'articolo predetto,
nonché nella ipotesi di fusione di più rappresentanze sindacali, i limiti numerici stabiliti
dall'art. 23, secondo comma, si intendono riferiti a ciascuna delle associazioni sindacali
unitariamente rappresentante nella unità produttiva.
Quando la formazione di rappresentanze sindacali unitarie consegua alla fusione delle
associazioni di cui alle lett. a) e b) del primo comma dell'art. 19, i limiti numerici della tutela
accordata ai dirigenti di rappresentanze sindacali aziendali, stabiliti in applicazione dell'art.
23, secondo comma, ovvero del primo comma del presente articolo, restano immutati.
ART. 30. - Permessi per i dirigenti provinciali e nazionali.
I componenti degli organi direttivi, provinciali e nazionali, delle associazioni di cui all'art. 19
hanno diritto a permessi retribuiti, secondo le norme dei contratti di lavoro, per la
partecipazione alle riunioni degli organi suddetti.
ART. 31 - Aspettativa dei lavoratori chiamati a funzioni pubbliche elettive o a ricoprire
cariche sindacali provinciali e nazionali.
I lavoratori che siano eletti membri del Parlamento nazionale o di assemblee regionali ovvero
siano chiamati ad altre funzioni pubbliche elettive possono, a richiesta, essere collocati in
aspettativa non retribuita, per tutta la durata del loro mandato.
La medesima disposizione si applica ai lavoratori chiamati a ricoprire cariche sindacali
provinciali e nazionali.
23
I periodi di aspettativa di cui ai precedenti commi sono considerati utili, a richiesta
dell'interessato, ai fini del riconoscimento del diritto e della determinazione della misura della
pensione a carico della assicurazione generale obbligatoria di cui al R.D.L. 4 ottobre 1935, n.
1827, e successive modifiche ed integrazioni, nonché a carico di enti, fondi, casse e gestioni
per forme obbligatorie di previdenza sostitutive della assicurazione predetta, o che ne
comportino comunque l'esonero.
Durante i periodi di aspettativa l'interessato, in caso di malattia, conserva il diritto alle
prestazioni a carico dei competenti enti preposti alla erogazione delle prestazioni medesime.
Le disposizioni di cui al terzo e al quarto comma non si applicano qualora a favore dei
lavoratori siano previste forme previdenziali per il trattamento di pensione e per malattia, in
relazione all'attività espletata durante il periodo di aspettativa.
ART. 32. - Permessi ai lavoratori chiamati a funzioni pubbliche elettive.
I lavoratori eletti alla carica di consigliere comunale o provinciale che non chiedano di essere
collocati in aspettativa sono, a loro richiesta, autorizzati ad assentarsi dal servizio per il tempo
strettamente necessario all'espletamento del mandato, senza alcuna decurtazione della
retribuzione.
I lavoratori eletti alla carica di sindaco o di assessore comunale, ovvero di presidente di giunta
provinciale o di assessore provinciale, hanno diritto anche a permessi non retribuiti per un
minimo di trenta ore mensili.
TITOLO V NORME SUL COLLOCAMENTO
ART. 33. - Collocamento.
La commissione per il collocamento, di cui all'art. 26 della legge 29 aprile 1949, n. 264, è
costituita obbligatoriamente presso le sezioni zonali, comunali e frazionali degli Uffici
provinciali del lavoro e della massima occupazione, quando ne facciano richiesta le
organizzazioni sindacali dei lavoratori più rappresentative.
Alla nomina della commissione provvede il direttore dell'Ufficio provinciale del lavoro e
della massima occupazione, il quale, nel richiedere la designazione dei rappresentanti dei
lavoratori e dei datori di lavoro, tiene conto del grado di rappresentatività delle organizzazioni
sindacali e assegna loro un termine di 15 giorni, decorso il quale provvede d'ufficio.
La commissione è presieduta dal dirigente della sezione zonale, comunale, frazionale, ovvero
da un suo delegato, e delibera a maggioranza dei presenti, in caso di parità prevale il voto del
presidente.
La commissione ha il compito di stabilire e di aggiornare periodicamente la graduatoria delle
precedenze per l'avviamento al lavoro, secondo i criteri di cui al quarto comma dell'art. 15
della legge 29 aprile 1949, n. 264.
Salvo il caso nel quale sia ammessa la richiesta nominativa, la sezione di collocamento, nella
scelta del lavoratore da avviare al lavoro, deve uniformarsi alla graduatoria di cui al comma
precedente, che deve essere esposta al pubblico presso la sezione medesima e deve essere
aggiornata ad ogni chiusura dell'ufficio con la indicazione degli avviati.
Devono altresì essere esposte al pubblico le richieste numeriche che pervengono dalle ditte.
La commissione ha anche il compito di rilasciare il nulla osta per l'avviamento al lavoro ad
accoglimento di richieste nominative o di quelle di ogni altro tipo che siano disposte dalle
leggi o dai contratti di lavoro.
Nei casi di motivata urgenza, l'avviamento è provvisoriamente autorizzato dalla sezione di
collocamento e deve essere convalidato dalla commissione di cui al primo comma del
presente articolo entro dieci giorni.
Dei dinieghi di avviamento al lavoro per richiesta nominativa deve essere data motivazione
scritta su apposito verbale in duplice copia, una da tenere presso la sezione di collocamento e
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l'altra presso il direttore dell'Ufficio provinciale del lavoro.
Tale motivazione scritta deve essere immediatamente trasmessa al datore di lavoro
richiedente.
Nel caso in cui la commissione neghi la convalida ovvero non si pronunci entro venti giorni
dalla data della comunicazione di avviamento, gli interessati possono inoltrare ricorso al
direttore dell'Ufficio provinciale del lavoro, il quale decide in via definitiva, su conforme
parere della commissione di cui all'art. 25 della legge 29 aprile 1949, n. 264.
I turni di lavoro di cui all'art. 16 della legge 29 aprile 1949, n. 264, sono stabiliti dalla
commissione e in nessun caso possono essere modificati dalla sezione.
Il direttore dell'Ufficio provinciale del lavoro annulla d'ufficio i provvedimenti di avviamento
e di diniego di avviamento al lavoro in contrasto con le disposizioni di legge.
Contro le decisioni del direttore dell'Ufficio provinciale del lavoro è ammesso ricorso al
Ministro per il lavoro e la previdenza sociale.
Per il passaggio del lavoratore dall'azienda nella quale è occupato ad un'altra occorre il nulla
osta della sezione di collocamento competente.
Ai datori di lavoro che non assumono i lavoratori per il tramite degli uffici di collocamento,
sono applicate le sanzioni previste dall'art. 38 della presente legge.
Le norme contenute nella legge 29 aprile 1949, n. 264, rimangono in vigore in quanto non
modificate dalla presente legge.
ART. 34. - Richieste nominative di manodopera.
A decorrere dal novantesimo giorno all'entrata in vigore della presente legge, le richieste,
nominative di manodopera da avviare al lavoro sono ammesse esclusivamente per i
componenti del nucleo familiare del datore di lavoro, per i lavoratori di concetto e per gli
appartenenti a ristrette categorie di lavoratori altamente specializzati. da stabilirsi con decreto
del Ministro per il lavoro e la previdenza sociale, sentita la commissione centrale di cui alla
legge 29 aprile 1949, n. 264.
TITOLO VI DISPOSIZIONI FINALI E PENALI
ART. 35. - Campo di applicazione.
Per le imprese industriali e commerciali, le disposizioni dell'art. 18 e del titolo III, ad
eccezione del primo comma dell'art. 27, della presente legge si applicano a ciascuna sede,
stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo che occupa più di quindici dipendenti.
Le stesse disposizioni si applicano alle imprese agricole che occupano più di cinque
dipendenti.
Le norme suddette si applicano, altresì, alle imprese industriali e commerciali che nell'ambito
dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel
medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti.
Le norme suddette si applicano, altresì, alle imprese industriali e commerciali che nell'ambito
dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel
medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti anche se ciascuna unità
produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti.
Ferme restando le norme di cui agli artt. 1 8, 9, 14, 15, 16 e 17, i contratti collettivi di lavoro
provvedono ad applicare i principi di cui alla presente legge alle imprese di navigazione per il
personale navigante.
ART. 36. - Obblighi dei titolari di benefici accordati dallo Stato e degli appaltatori di opere
pubbliche.
Nei provvedimenti di concessione di benefici accordati ai sensi delle vigenti leggi dello Stato
a favore di imprenditori che esercitano professionalmente un'attività economica organizzata e
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nei capitolati di appalto attinenti all'esecuzione di opere pubbliche, deve essere inserita la
clausola esplicita determinante l'obbligo per il beneficiario o appaltatore di applicare o di far
applicare nei confronti dei lavoratori dipendenti condizioni non inferiori a quelle risultanti dai
contratti collettivi di lavoro della categoria e della zona.
Tale obbligo deve essere osservato sia nella fase di realizzazione degli impianti o delle opere
che in quella successiva, per tutto il tempo in cui l'imprenditore benefica delle agevolazioni
finanziarie e creditizie concesse dallo Stato ai sensi delle vigenti disposizioni di legge.
Ogni infrazione al suddetto obbligo che sia accertata dall'Ispettorato del lavoro viene
comunicata immediatamente ai Ministri nella cui amministrazione sia stata disposta la
concessione del beneficio o dell'appalto.
Questi adotteranno le opportune determinazioni, fino alla revoca del beneficio, e nei casi più
gravi o nel caso di recidiva potranno decidere l'esclusione del responsabile, per un tempo fino
a cinque anni, da qualsiasi ulteriore concessione di agevolazione finanziarie o creditizie
ovvero da qualsiasi appalto.
Le disposizioni di cui ai commi precedenti si applicano anche quando si tratti di agevolazioni
finanziarie o creditizie ovvero di appalti concessi da enti pubblici, ai quali l'ispettorato del
lavoro comunica direttamente le infrazioni per l'adozione delle sanzioni.
ART. 37. - Applicazione ai dipendenti da enti pubblici.
Le disposizioni della presente legge si applicano anche ai rapporti di lavoro e di impiego dei
dipendenti da enti pubblici che svolgono esclusivamente o prevalentemente attività
economica.
Le disposizioni della presente legge si applicano altresì ai rapporti di impiego dei dipendenti
dagli altri enti pubblici, salvo che la materia sia diversamente regolata da norme speciali.
ART. 38. - Disposizioni penali.
Le violazioni degli artt. 2, 4, 5, 6, 8 e 15 primo comma, lett. a), sono punite, salvo che il fatto
non costituisca più grave reato, con l'ammenda da lire 100.000 a lire un milione o con l'arresto
da 15 giorni ad un anno.
Nei casi più gravi le pene dell'arresto e dell'ammenda sono applicate congiuntamente.
Quando, per le condizioni economiche del reo, l'ammenda stabilita nel primo comma può
presumersi inefficace anche se applicata nel massimo, il giudice ha facoltà di aumentarla fino
al quintuplo.
Nei casi previsti dal secondo comma, l'autorità giudiziaria ordina la pubblicazione della
sentenza penale di condanna nei modi stabiliti dall'art. 36 del codice penale.
ART. 39. - Versamento delle ammende al Fondo adeguamento pensioni.
L'importo delle ammende è versato al Fondo adeguamento pensioni dei lavoratori.
ART. 40. - Abrogazione delle disposizioni contrastanti.
Ogni disposizione in contrasto con le norme contenute nella presente legge è abrogata.
Restano salve le condizioni dei contratti collettivi e degli accordi sindacali più favorevoli ai
lavoratori.
ART. 41 - Esenzioni fiscali.
Tutti gli atti e documenti necessari per la attuazione della presente legge e per l'esercizio dei
diritti connessi, nonché tutti gli atti e documenti relativi ai giudizi nascenti dalla sua
applicazione sono esenti da bollo, imposte di registro o di qualsiasi altra specie e da tasse.
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8. Storia DONNA E LAVORO
Molto tempo è passato e molte cose sono cambiate da quando August Babel, uomo politico
tedesco vissuto nella seconda metà del 1800, scriveva: “la donna proletaria è tre volte schiava,
nell’officina, nella famiglia, nella società che le nega ogni diritto politico e la pienezza anche
dei diritti civili”. Lotte per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, nonché per il
diritto al voto e mutamenti di regime costituzionale hanno influito sulla produzione legislativa
in relazione al ruolo assegnato alla donna nella famiglia e nella società civile.
Gli studi più recenti sul lavoro delle donne nel nostro Paese pongono sempre più l’accento
sulla parità uomo-donna, in maniera da superare quella oramai anacronistica normativa
“protettiva” contenuta nelle prime leggi emanate in epoca liberale e, successivamente, dal
regime fascista. Diritto al lavoro e parità di trattamento non sono, invero, rivendicazioni
recenti del movimento femminile; già le femministe del secolo IXX° avevano individuato in
essi alcuni degli obiettivi fondamentali per poter realizzare la loro emancipazione.(1).
Invero, la condizione femminile nel mondo produttivo è stata inizialmente e per un lungo
periodo di tempo ancorata ad una concezione distorta delle sue peculiarità fisiche e sociali;
sulla base delle teorizzazioni di scienziati come Moebius, Lombroso e Ferreo, che parlavano
della “inferiorità fisica e mentale della donna” come di fatto naturale e immutabile, essa è
stata considerata anche dal nostro legislatore come un soggetto “debole”, quasi simile ai
fanciulli e , perciò, bisognoso di tutela. Ne è derivata, di conseguenza, quell’impostazione
protettiva che ha caratterizzato la prima disciplina del lavoro femminile, rendendolo
particolarmente <<rigido>> e costoso, pertanto soggetto a limitazioni nell’accesso
all’occupazione e a discriminazioni specie nel trattamento salariale, cercando così di
neutralizzare gli oneri derivanti alle imprese dalla tutela della maternità.
D’altro canto, la paura della dissocupazione costituiva una forte remora per i lavoratori di
sesso maschile a fare fronte comune con le lavoratrici; del resto già i conservatori ed i liberali
– nel dibattito alla Camera sulla legge Carcano del 1902 – avevano sostenuto che
<<l’invasione delle donne in tanti lavori ed in tante industrie prima riservate agli uomini
soltanto è un danno grave che riesce a detrimento dell’economia generale… perché la piaga
della dissocupazione verrà ogni giorno diventando più acerba ed acuta…>>(2). In seguito il
regime fascista ha accentuato la propria posizione contro l’occupazione femminile extradomestica, esaltando il ruolo della donna come <<angelo del focolare>> e, quindi, la sua
attività nell’ambito delle pareti domestiche, evitando la concorrenza del lavoro femminile con
quello maschile; perciò, sono stati escogitati mestieri <<tipicamente femminili>> e apposite
mansioni sono state riservate alle donne, estromesse dalle attività più qualificate e sempre
sotto-pagate rispetto agli uomini, pur nell’ambito delle stesse attività.
Con la caduta del fascismo e l’avvento della Repubblica, si incomincia a delineare una svolta
verso assetti più favorevoli alle rivendicazioni delle donne per il riconoscimento della loro
uguaglianza di diritti nei confronti degli uomini. Questa troverà la sua consacrazione più alta
nell’ambito di alcuni articoli della Carta Costituzionale che sanciscono la parità fra i due
sessi, come l’art. 3, che riconosce pari dignità sociale e l’uguaglianza davanti alla legge a tutti
i cittadini indipendentemente dal sesso, nonché l’art. 51, che afferma la possibilità per tutti i
cittadini – uomini e donne – di accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in
condizioni di uguaglianza. Con specifico riguardo al lavoro l’art. 37 sancisce: << la donna
lavoratrice ha gli stessi diritti e, parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al
lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale
funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione>>.
Quindi, la Costituzione repubblicana riconosce alla donna il diritto sia a svolgere una attività
produttiva extradomestica in condizioni di parità con l’uomo, sa ad adempiere la propria
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funzione materna – che deve essere oggetto di una specifica (ora contenuta nel T.U. n.
151/2001) protezione – con la garanzia
per la lavoratrice di essere madre senza che la maternità debba o possa pregiudicare la sua
posizione lavorativa e la parità di trattamento. Dall’interpretazione coordinata degli art. 3, 4 e
37 della Carta Costituzionale se ne può dedurre che la donna ha il diritto-dovere di esercitare
un’attività professionale a pieno titolo come l’uomo; questo esercizio deve svolgersi su un
piano di eguaglianza senza che discriminazioni basate sul sesso finiscano per comprimerla o
limitarla.
Molte delle norme della Carta costituzionale si sa, tuttavia, che hanno carattere più di un
programma e abbisognano di leggi approvate dal Parlamento per poter trovare una più
concreta applicazione.
La trasposizione in legge delle diverse norme riguardanti la parità è stata alquanto lenta e
faticosa; nel decennio tra il ’50 e il ’60 risulta ancora una mancata divaricazione tra i principi
innovativi introdotti dalla Carta Costituzionale e le limitate modifiche legislative apportate al
precedente sistema normativo, certamente in un quadro eminentemente conservativo del
vecchio assetto dei rapporti economico-sociali.
Nei primi anni ’60 viene approvata la legge 9 gennaio 1963, n. 7, che riguarda il divieto di
licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio: la legge segna una svolta importante
nel costume italiano. Se non chè io ricordo benissimo che le aziende ricorrevano ad una
scappatoia: assumevano le donne, anche laureate, purché firmassero un impegno di loro
dimissioni in caso di matrimonio.
È del 9 febbraio 1963 la legge n. 66 che apre alle donne l’accesso nei pubblici uffici: alla
magistratura, alla polizia e a i gradi elevati della pubblica amministrazione.
Si deve però giungere agli anni ’70 perché, dall’imporsi del nuovo modello culturale, basato
sull’affermazione dei concetti di libertà, dignità, nasca una legislazione più sensibile e attenta
alle problematiche femminili con particolare riguardo alle discriminazioni sia di tipo giuridico
che sociale.
Il principio dell’eguaglianza tra i sessi, ratificato solennemente dalla Costituzione, è stato,
invero, spesso smentito nella realtà; criteri diversi per maschi e femmine sono stati usati nelle
assunzioni e nella progressione di carriera, così che le donne finiscono per ricoprire posti di
second’ordine e rimangono di frequente nei gradini più bassi della gerarchia professionale. È
divenuta perciò sempre maggiore la consapevolezza che la legislazione sul lavoro femminile
dovesse tendere alla parificazione tra uomo e donna e in quest’ottica è maturata la legge
9.12.1977, n. 903, la cd. legge di parità.
Essa vieta ogni discriminazione tra i lavoratori indipendentemente dal sesso al momento
dell’assunzione, nella formazione professionale, durante lo svolgimento e al momento
dell’estinzione del rapporto di lavoro, a tutti i livelli della gerarchia professionale, qualunque
sia il settore o il ramo di attività. In considerazione, però, della maggiore facilità e della
particolare gravità delle discriminazioni a sfavore della <<debolezza>> del lavoro femminile,
che non va certamente identificata con una minore produttività di origine fisiopsichica – come
pretestuosamente molto spesso si sostiene -, ma che trae la sua origine da ragioni socioeconomico-culturali che sono identificabili appunto nel maggior costo della manodopera
femminile, nel più alto tasso di assenteismo, nelle distorsioni del sistema scolastico, formativo
e di avviamento al lavoro, in una minore mobilità per quanto riguarda gli spostamenti
territoriali, in una minore flessibilità nei turni, in una più ridotta <<disponibilità>> specie al
lavoro straordinario a causa del suo ruolo casalingo, non ché in maggiori condizionamenti
anche di ordine legale, allo svolgimento di determinate attività.
Dal legislatore del ’77 le capacità competitive del lavoro femminile vengono rafforzate sia
con il divieto di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, che con la fiscalizzazione delle
due ore di riposo giornaliero a cui le lavoratrici madri hanno diritto per il primo anno di vita
del bambino: misura tendente al ridimensionamento del costo globale della manodopera
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femminile rispetto a quella maschile. Inoltre, tanto con la possibilità anche per il padre di
fruire di permessi prima riservati solo alla madre in modo da poter ridurre l’assenteismo per
maternità delle lavoratrici, quanto con la revisione del divieto di lavoro notturno per le donne,
nonché con l’abolizione delle limitazioni al lavoro femminile, pur quando si tratta di norme in
favore, privilegi non più giustificabili dal momento che in questa legge si è affermata la parità
fra uomo e donna di fronte al lavoro. I contenuti essenziali della legge n. 903 del 1977
rappresentano un contributo di non trascurabile rilievo per rimuovere le preclusioni, le
barriere, gli ostacoli che ancora si oppongono ad una effettiva eguaglianza, ad un inserimento
pieno e qualificato delle donne nel lavoro a tutti i livelli ed in tutti i settori produttivi. Tale
normativa, secondo quanto sottolineato in particolare dalla relazione illustrativa al progetto
governativo, si prefigge di perseguire l’obiettivo del <<superamento di ogni residua
situazione di inferiorità e di discriminazioni, nella legislazione come nel costume, allo scopo
di consentire alla donna la piena realizzazione di sé stessa in ogni campo>>, impegnandosi
per raggiungere tale ambizioso obiettivo in una duplice direzione: impedire ogni forma di
discriminazione basata sul sesso e, contestualmente, ridurre in modo significativo la tutela
specifica della donna in quanto lavoratrice.
La legge del ’77, infatti, segna un importante, pur se graduale, cambiamento di tendenza nella
legislazione sul lavoro della donna, determinando il passaggio dalla protezione, rivelatasi
dannosa per l’occupazione femminile, a una parità formale di trattamento in materia di lavoro.
L’affermazione della parità dei diritti tra uomini e donne nell’ambito del rapporto di lavoro e
il divieto di discriminazione nell’accesso al lavoro e nella formazione professionale, quindi,
supera il vecchio concetto di protezione della lavoratrice, che ha solitamente significato sia le
ghettizzazione della manodopera femminile all’interno del mercato di lavoro, sia la precarietà
del lavoro femminile. È restata, invece, ai margini di tale normativa <<la più vasta tematica
della uguaglianza delle opportunità di lavoro, cioè della loro promozione positiva>>.
Le donne del Parlamento, del sindacato e le non molte del mondo dirigenziale e
imprenditoriale avvertivano dunque la necessità di un ulteriore passo, che portasse tutte le
donne più che a un generico traguardo di parità ad un obiettivo di pari opportunità al fine di
raggiungere una equilibrata rappresentanza nell’ambito del lavoro, nonché del sociale, della
politica e dell’economia. Perciò, nel gennaio 1987 fu presentato in Senato il primo disegno di
legge di iniziativa governativa dall’allora Ministro del Lavoro, Formica. Rimase fermo in
Parlamento, a causa dei veti incrociati di diverse lobby imprenditoriali, per circa cinque anni e
finalmente divenne legge dello Stato il 10 aprile 1991, con il titolo di “azioni positive per la
realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro”.
Nel periodo tra il ’77 e il ’91 vennero intanto firmati dal Governo due importanti decreti: il 2
dicembre del 1983 venne istituito, con decreto del Ministero del Lavoro e della Previdenza
sociale, il comitato nazionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento e
uguaglianza di opportunità tra i lavoratori e lavoratrici”; il 12 giugno 1984, Presidente del
Consiglio l’On. Craxi, venne istituita con decreto del Presidente del Consiglio “la
Commissione azionale per la realizzazione della parità tra uomo e donna”. La prima
Commissione, che fu presieduta dalla sen. Marinucci, lavorò molto per farsi conoscere e per
impostare un progetto di modifica della cultura del Paese in tema di pari opportunità.
L’attività e la composizione della seconda Commissione parità, presieduta dall’On. Anselmi,
sono state disciplinate attraverso la legge 22 giugno del 1990, n. 164, che fissa la
composizione e i compiti della Commissione stessa.
Ma torniamo alla legge n. 125 del 1991. L’obiettivo dichiarato della legge è quello di
realizzare l’uguaglianza sostanziale, e non solo formale, fra uomini e donne nel lavoro
rimuovendo gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità. Di qui
la necessità di adottare specifiche politiche con l’intento di realizzare una parità reale,
sostanziale, non più solo formale, una effettiva uguaglianza di opportunità mediante la
predisposizione delle c.d. azioni positive.(3)
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Lo strumento per favorire e raggiungere le pari opportunità sono , quindi, le “azioni positive”,
ovvero tutte quelle iniziative dirette a favorire l’occupazione delle donne, anche in professioni
dove sono sottorappresentate, a promuovere la loro carriera superando quelle condizioni di
lavoro che possono ostacolarla, favorendo l’accesso delle donne anche al lavoro autonomo ed
imprenditoriale; promovendo l’equilibrio fra responsabilità familiari e professionali e, quindi,
una migliore ripartizione di tali responsabilità fra i due sessi (art. 1).
La prospettiva dell’uguaglianza sostanziale di opportunità, sancita dalla legge, tende di per sé
a superare i termini in cui si è tradizionalmente impostato il rapporto fra eguaglianza e
specificità fra i sessi nelle condizioni di lavoro: ciò perché l’obiettivo perseguito non è la
garanzia-promozione di situazioni giuridiche o di fatto identiche, ma la creazione di
condizioni tali da permettere a soggetti anche diversi, nel nostro caso in quanto appartenenti
ai diversi sessi, la piena espressione delle loro potenzialità.
Le azioni positive a favore delle donne possono essere promosse unilateralmente da aziende,
enti pubblici, sindacati; ma soprattutto possono essere attuate con accordi collettivi fra
sindacati ed imprese. I progetti di azioni positive contrattate collettivamente sono quelli
privilegiati ed hanno priorità nei finanziamenti pubblici di sostegno, previsti dalla stessa
legge.
In questo modo il legislatore ha non solo confermato la legittimità delle azioni positive per le
donne (che fino a prima della legge n. 125 era dubbia), ma ha voluto incentivarle con
agevolazioni finanziarie; questo perché l’obiettivo di migliorare la qualità del lavoro
femminile è ritenuto di interesse pubblico.
La tipologia delle azioni positive è libera, sta alle parti vedere quali azioni sono più utili nel
singolo contesto di lavoro. Per esempio: corsi di formazione specifici per donne; piani di
reclutamento e di carriere per riequilibrare la partecipazione delle donne, specie ai gradi alti
dell’impegno; riorganizzazioni del tempo di lavoro per favorire l’occupazione femminile;
congedi parentali, ecc..
È ovvio che la promozione del lavoro femminile, per quanto volontaria e graduale, se non
vuole essere fittizia, modifica necessariamente situazioni precedenti, in cui le opportunità di
lavoro e di qualificazione professionale sono state obiettivamente a favore degli uomini.
Per ciò stesso introduce un elemento di competizione ulteriore e di possibile contrasto, che
può essere particolarmente evidente in periodi di difficoltà occupazionale.
Di fronte alla ricerca di vantaggi specifici riservati alle donne, nasce l’interrogativo di come si
possa conciliare una misura esclusivamente vantaggiosa per le donne con la parità formale tra
i sessi affermata nella legislazione degli Stati moderni. La risposta viene dall’art. 4 della
Costituzione sulla eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne
adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni unite nel dicembre 1979, secondo cui
<<l’adozione da parte degli Stati di misure speciali temporanee miranti ad accelerare
l’instaurazione di un’uguaglianza di fatto fra gli uomini e le donne non può essere considerato
un atto discriminatorio>> nei confronti degli uomini. Anche la CEE ha precisato nell’art. 2.4.
della Direttiva 76/207 che <<la presente Direttiva non fa ostacolo a misure che mirino a
promuovere l’uguaglianza di opportunità in particolare per porre rimedio alle ineguaglianze di
fatto che colpiscono le donne>>; in altri termini misure promozionali, finalizzate a correggere
forme di ineguaglianza o discriminazione sono pienamente compatibili con il principio di
parità uomo-donna in materia di lavoro. Pertanto negli Stati membri della CEE o in quelle
Nazioni che, come l’Italia, hanno ratificato la Convenzione di New York, possono essere ben
considerate legittime anche in assenza di un’apposita legislazione nazionale.
Con l’intento, tuttavia, di superare ogni perplessità sulla loro legittimità e soprattutto per
sollecitarne una sempre più ampia diffusione è stata realizzata anche nel nostro Paese una
normativa <<ad hoc>>, appunto la legge n. 125/91.
Secondo essa, in un caso, le azioni positive possono essere ordinate dal giudice (art. 4).
Quando il giudice accerta la esistenza di discriminazioni collettive a danno di una pluralità di
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donne, che non possono essere corrette con sanzioni individuali, può ordinare alle imprese di
stabilire un piano per eliminare tali discriminazioni, fissando un termine. Per esempio, se
accerta una discriminazione sistematica nelle assunzioni o nella promozione delle donne, può
ordinare che il datore di lavoro aumenti la proporzione delle donne rispetto agli uomini in
tutte le assunzioni e promozioni future fino al completo riequilibrio. L’ordine del giudice è
penalmente sanzionato.
Un’altra innovazione importante della legge è la definizione precisa dei concetti di
discriminazione diretta ed indiretta. Viene definito come discriminatorio ogni comportamento
che produca un effetto pregiudizievole anche in via indiretta, ai lavoratori a ragione del sesso.
Basta che il comportamento si oggettivamente pregiudizievole, qualunque sia l’intenzione del
soggetto discriminante. La discriminazione è indiretta quando l’effetto pregiudizievole
dipende dall’adozione di criteri che avvantaggiano in modo proporzionalmente maggiore i
lavoratori di un sesso e riguardino requisiti non essenziali all’attività lavorativa (art. 4). La
legge ha così chiarito un punto molto controverso nella pratica e nella giurisprudenza non solo
italiane.
L’innovazione poi più significativa della legge n. 125 è la modifica del regime di onere della
prova. Il lavoratore discriminato (di solito la donna) dovrà provare, anche con statistiche , di
aver subìto un effetto pregiudizievole a causa del sesso: ad esempio, non essere stata assunta o
promossa, pur avendo le qualità professionali richieste; o di non essere pagata meno dagli
uomini svolgenti lo stesso lavoro o lavori simili.
A questo punto toccherà al datore di lavoro provare che la propria decisione è motivata da
ragioni valide, diverse dal sesso: cioè ad esempio, che occorrevano requisiti particolari
oggettivi per quel lavoro non posseduti dalla donna ricorrente.
Inoltre, la legge ha previsto che ogni atto discriminatorio, se posto in essere da imprenditori i
quali ricevano agevolazioni finanziarie dallo Stato o sono titolari di appalti pubblici, può
comportare la revoca dei benefici esistenti e l’esclusione da ulteriori concessioni per un
periodo di tempo di due anni. Si tratta di una sanzione amministrativa particolarmente grave
che è stata aggiunta alle sanzioni esistenti, perché queste sono di fatto poco efficaci in molti
casi, in particolare la sanzione di nullità degli atti discriminatori.
L’ultima novità introdotta della legge riguarda le cosiddette istituzioni della parità: i
Consiglieri di parità ed il Comitato nazionale per l’eguaglianza. Il Comitato nazionale, fino ad
allora esistente sulla base di un decreto ministeriale, è ora confermato dalla legge. I suoi
compiti sono prevalentemente consultivi, ma potenzialmente di grande rilievo: dare parere
sulle azioni positive per il finanziamento pubblico; formulare proposte legislative in materia
di parità; elaborare codici di comportamento sulla stessa materia; proporre soluzioni alle
controversie collettive.
Una terza innovazione della legge riguarda le azioni in giudizio e le sanzioni. Finora la
legittimazione ad agire in giudizio era limitata alla singola lavoratrice discriminata, il che
limitava molto di fatto la possibilità effettiva di agire. L’art. 4, n. 7 prevede che nel caso di
discriminazioni collettive ( che sono le più importanti e frequenti) l’azione in giudizio può
essere proposta dal “consigliere di parità” regionale (nominato dal Ministero del Lavoro in
ogni regione).
Per concludere, con la legge n. 125 possiamo dire che siamo passati dalla cultura della parità a
quella delle pari opportunità.
Questa nuova fase della legislazione che segna il passaggio dalla parità formale alle pari
opportunità non è certo indolore, in quanto affronta in termini politici il problema della
eliminazione delle cause strutturali che determinano o favoriscono le discriminazioni che
colpiscono le donne nell’esercizio di un loro diritto fondamentale, quello al lavoro e alla
parità di diritti nel lavoro. Perciò sono indispensabili interventi che interessano tanto il campo
socio-economico quanto il costume e i comportamenti, collettivi e individuali, presenti nella
nostra società. È indispensabile creare una cultura che corrisponda ai principi paritari; è
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necessario passare dalle affermazioni di principio contenute nelle leggi alla realizzazione
effettiva di una uguaglianza sostanziale o di fatto.
Maria Luisa De Cristofaro
Note:
(1): già Clemence Royer nel 1889 rivendicava il diritto al lavoro per le donne: <<in
quell’epoca primitiva dello sviluppo della specie, le donne non avevano da rivendicare il
diritto al lavoro perché vi erano costrette dalla necessità. È solo oggi che loro lo si contesta;
oggi che esso può dare onore e profitto, ecc… Questo diritto al lavoro abbiatelo caro,
difendetelo, esercitatelo, perché esso racchiude tutti gli altri diritti e li farà cadere nelle vostre
mani come frutti maturi>>. Prima di lei Malwida von Meysenburg aveva espresso una
opinione analoga: <<per la prima volta pensai seriamente alla necessità che ha la donna di
conquistare l’indipendenza economica con le sue proprie forze>>; la rincalzava Fanny
Lewald: <<questa domanda delle donne che esigevano un salario giusto per un buon lavoro,
mise sulla retta strada la questione dell’uguaglianza delle donne. Da allora in poi si poté
parlare con onore della loro emancipazione>>. Questi brani sono riportati da F. Pieroni
Bortolotti, Alle origini del movimento femminile in Italia (1848-1892), Torino, 1963, p. 28.
(2): V. Atti Parlamentari, Camera Deputati, legisl. XXI, 2° Sess., discussioni, tornata dal
19.3.1902, pp. 317-318
(3): l’azione positiva – secondo la definizione datane dal Comitato per l’uguaglianza fra uomo
e donna del Consiglio d’Europa – è <<una strategia destinata a stabilire l’uguaglianza delle
opportunità, grazie a misure che permettono di contrastare o correggere discriminazioni che
sono il risultato di pratiche o di sistemi sociali>>. Anche a livello comunitario, nella
Raccomandazione del Consiglio della CEE n. 84/635 del 13.12.1984, si prevede la
promozione di azioni positive a favore delle donne, invitandosi gli Stati membri – tra cui è
anche l’Italia – ad adottare provvedimenti intesi ad <<eliminare le disparità di fatto di cui le
donne sono oggetto nella vita lavorativa ed a promuovere l’occupazione mista>>, con la
finalità di: <<a) eliminare o compensare gli effetti negativi derivanti, per le donne che
lavorano o ricercano un lavoro, da atteggiamenti, comportamenti e strutture basati su una
divisione tradizionale dei ruoli all’interno della società, tra uomini e donne; b) incoraggiare la
partecipazione delle donne alle varie attività nei settori della vita lavorativa nei quali esse
siano attualmente sotto rappresentate, in particolare nei settori d’avvenire, e ai livelli superiori
di responsabilità per ottenere una migliore utilizzazione di tutte le risorse umane>>. In altri
termini – con l’intento di realizzare una effettiva parità dei diritti delle donne nella vita
professionale – si sollecitano gli Stati membri ad adottare delle misure <<promozionali>>,
finalizzate a conseguire una eguaglianza di opportunità per le donne, tanto nell’accesso al
lavoro quanto nello svolgimento di un’attività professionale.
La stessa Comunità Economica europea ha svolto direttamente un ruolo importante nella
promozione delle parità delle opportunità per un uguale partecipazione delle donne come
degli uomini alla vita economica e sociale mediante la predisposizione di appositi programmi
di azione: un primo piano relativo al periodo 1982/’85 ed un secondo per il quinquennio
1986/’90; un terzo per il quinquennio 1991-1995; un quarto per il quinquennio 1996-2000;
infine, un quinto per il quinquennio 2001-2005. Il quinquennio 1986/’90 riguarda un numero
rilevante di azioni concernenti l’occupazione delle donne, in particolare per favorire una
partecipazione uguale ai posti attinenti alle nuove tecnologie.
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