DOCUMENTI DELLA STORIA DELLA SICUREZZA SUL LAVORO 1. BERNARDINO RAMAZZINI Medico italiano, sopportato 3 novembre 1633, Carpi, ducato di Modena; morto 5 novembre 1714, Padova, Repubblica di Venezia. Bernardino Ramazzini è considerato un fondatore della medicina di occupational/industrial. I suoi studi sulle malattie professionali e l'avvocatura delle misure di difesa per gli operai hanno consigliato al passaggio finali sicurezza della fabbrica e leggi della compensazione dei lavoratori. Nel 1700 ha scritto il primo libro importante su le malattie professionali e salubrità. Il figlio del bourgeoisie del petite Ramazzini era il figlio di Bartolomeo e Catarina Ramazzini, a bene-$$$- non specialmente ma coppie rispettate del bourgeoisie del petite. Dopo la ricezione della sua prima formazione da Jesuits, in 1652 ha entrato nell'università di Parma, che era stata fondata dal duca Rainutio I in 1599. Dopo avere studiato la filosofia per tre anni, ha cominciato lo studio sulla medicina in 1655. In 1659 era medico conferito di filosofia e della medicina a Parma. Allora è andato a Roma continuare i suoi studi sotto Antonio Maria Rossi (1588-1671), figlio di Gerolamo Rossi, medico di vita al papa Clemens VIII. Piccolo è conosciuto circa i giorni di Ramazzini?s a Roma, ma sappiamo che la conoscenza che ha acquistato dei commerci di questa città era importante al suo lavoro successivo su medicina del lavoro, diatriba di artificum del De morbis. Oltre ad addestramento Ramazzini, Antonio Maria Rossi anche ottenuto per lui una posizione come medico della città in Canino nel ducato (Kirchenstaat-Fürstentum) di Castro, una scarsa provincia circa nord di viaggio giorno della condizione di Papal. Questa zona è stata guidata con malaria e Ramzzini è caduto malato. Muovendosi verso Marta, un'altra piccola città nella stessa provincia, ha migliorato il suo stato, ma presto si è depositato nella sua città natale di Carpi. Qui ha trovato il tempo per gli inseguimenti intellettuali, come la letteratura dell'oggetto d'antiquariato della lettura. Il professor a Modena In Ramazzini 1671 lasciato il Carpi provinciale e spostato verso Modena, in cui inizialmente è stato opposto pesante dall'istituzione academic. Tuttavia, in 1682, il duca Francesco II di Modena gli ha dato l'assegnazione di stabilizzazione del servizio medico all'università e gli ha fornito il titolo dei?medicinae theoricae. del professore? Quando il Academie il San Carlo è stato aperto ufficialmente il seguente anno, Ramazzini ha dato i instaurationis di Oratio di indirizzo. Durante i seguenti anni ha lavorato molto attentamente con il suo collega Francesco Torti (1658-1741) ed inoltre ha parlato su pratica medica, anche se Torti da solo era formalmente responsabile dei practicae di medicinae. 1 Ciò era il periodo in cui l'uso della corteccia di chinchona (da quale la chinina dell'alcaloide è derivata), è stato introdotto come nuovo superdrug nel trattamento di malaria. Ramazzini era un fautore forte di tale trattamento, riconoscente l'introduzione di questo medicamento come evento rivoluzionario nella storia della medicina, completante il downfall delle teorie mediche del Galen greco classico del medico sostenente la gestione dei purgatives nel trattamento della malattia. Eppure, tuttavia, la collaborazione, se non l'amicizia fra Ramazzini e Torti sono caduto a parte quando Torti ha pubblicato una carta da propaganda per il nuovi superdrug e startet che la prescrivono su vasta scala. Ramazzini ha trovato questo un abuso ed ha scritto così. Il tempo di Ramazzini a Modena era uno di lavoro scientifico diligente e caratterizzato tramite un frequente contatto scritto con alcuni degli uomini più istruiti nel suo tempo. Stava corrispondendo a Marcello Malpighi (1628-1694), Antonio Valisnieri (1661-1730), Giovanni Batista Morgagni (1682-1771), Giovanni Maria Lancisi (1654-1720), Gottfried Wilhelm Freiherr von Leibniz (1646-1716) e parecchi altri contemporanei. Come molti medici prominenti del suo giorno, Ramazzini era un individuo altamente versatile - clinico, epidemiologo, igienista, poet, filosofo ed erudito. A Modena era un cittadino distinto della città, invitato frequentemente dal duca a dare gli indirizzi e un membro del corpo Degli Dissonanti dell'elitista a Modena. dovuto la sua reputazione, in 1693 è stato accettato come membro del curiosorum tedesco di naturae di Caesareo-Leopoldina dell'accademia del corpo, sotto il byname di Hippocrates III. Era il primo membro italiano di questa società. Impianti in anticipo Nel 1690s Ramazzini ha fatto i primi impianti epidemiologici che dovevano renderli famoso oltre i bordi dell'Italia. Il primo di loro era M. DC.lxxxx (impianti, 1690) di anni del De constitutione. In esso Ramzzaini dà una descrizione acribic delle malattie epidemiche dell'uomo e dell'animale nella zona rurale intorno a Modena. Ramazzini ha valutato i couses di tutte le malattie epidemiche della zona secondo Hippocrates, basate su terreno, sul clima, sull'acqua e, soprattutto, sull'aria. Suo studia l'avvelenamento incluso del cece (1690) e la malaria (1690-1695). Dopo che un lavoro sul rifornimento idrico di Modena in 1694, in 1698 lui pubblichi sulle miniere dell'olio di Monte Zibino. Ciò era una continuazione di un lavoro iniziato fin da dentro 1462 sull'iniziativa del d?Este del duca Borso e continuato da Francesco Ariosto, di cui il manoscritto era stato stampato in 1690. Non satisified con appena stuff vecchio di modificazione, Ramazzini ha studiato la materia egli stesso, producendo una dissertazione completamente nuova sopra, tra l'altro, il valore terapeutico di petrolio. Malattie professionali Non è conosciuto quando Ramazzini ha cominciato il lavoro sul suo diatriba di artificum del De morbis (malattie degli operai), ma è conosciuto che ha parlato su questo soggetto fin da 1690. Pubblicato in 1700, questa è il primo lavoro completo sulle malattie professionali e una pietra nella storia di medicina del lavoro. 2 Il diatriba di artificum del De morbis descrive i rischi per la salute dei prodotti chimici irritanti, della polvere, dei metalli e di altri agenti abrasivi incontrati dagli operai in 52 occupazioni. Fra loro erano i minatori, i vasai, i masons, i wrestlers, i coltivatori, le infermiere, i soldati e molti altri. Persino ha discusso il soggetto delle menti tassate eccessivamente fra?learned gli uomini? Nella discussione dell'eziologia, il trattamento e la prevenzione di queste malattie Ramazzini va spesso di nuovo a Hippocrates, Celsus e Galen e, dopo la ricapitolazione delle loro osservazioni, collega la sua propria esperienza con le varie malattie. Ramazzini persino si è interessato delle malattie professionali delle donne. In questa sezione si pronuncia le precauzioni contro le infezioni sifilitiche, così come pulizia fra le ostetriche. Da Modena a Padova Ramazzini è rimasto a Modena per diciotto anni, fino al 1700. Quell'anno ha accettato un invito alla sedia della medicina pratica a Padova, in cui la Repubblica di Venezia ha avuta la facoltà di medicina più reputata nel paese. Ha tenuto il suo?in inaugurale Patavineo Ateneo di indirizzo? il 12 dicembre. Hanno partecipato gli insegnanti e gli allievi da tutte le facoltà. Durante il suo tempo a Padova Ramazzini era uno degli scienziati medici celebrati di Europa. In 1706 è stato invitato come membro del degli romano Arcadi e la società prussiana reale di Accademia a Berlino. Ramazzini ha sostenuto il denuncia dell'astrologia dagli autori quale il della Mirandola (14631494) di Pico. Su questa base Ramazzini ha rifiutato?astral? spiegazioni per le epidemie in uomo ed in animale, come l'epidemia della peste bovina nella Repubblica veneziana in 17101711. Attualmente la sua età bagan prendere il relativo tributo. Ha sofferto dai problemi del cuore e della circolazione e dell'emicrania. Malgrado questo, in 1709 il consiglio di Venezia ha reso lui il primario di medicinae del professore, ma a?with la libertà che lui è stato obbligato soltanto ad insegnare quando il suo stato così ha consentito? Malgrado la sua salute indisposta (finalmente è caduto ciechi), tuttavia, ha scritto un libro dei advices sulla vita sana al d’Este ereditario del principe Francesco. In 1713, l'anno prima della sua morte, ha fatto un'edizione modificata ed ampliata del suo oeuvre principale. Ramazzini è morto dell'apoplessia il 5 novembre 1714. La sua ricerca post mortem è stata fatta da Giovanni Battista Morgagni, che ha incluso il protocollo nel suo lavoro principale De sedibus et in morborum di causis. "[ ho visto ] operai in quale determinati affetti morbosi risultano gradualmente da una certa posizione particolare delle membra o dei movimenti artificiali del corpo denominato per mentre funzionano. Tali sono gli operai che tutto il giorno si levano in piedi o si siedono, curvano o sono doppio piegato, che fa funzionare o guida o esercita i loro corpi in tutte le specie dei sensi [ eccedenti ]." " . . . the harvest of diseases reaped by certain workers . . .[from] irregular motions in unnatural postures of the body." 3 2. DIMOSTRAZIONI POPOLARI E REPRESSIONI Nel 1888 il governo creò a favore degli operai la Cassa nazionale per gli infortuni sul lavoro e la Cassa nazionale per la vecchiaia e invalidità. Seguì la legislazione a tutela del lavoro delle donne e dei ragazzi nelle fabbriche e poi la Cassa nazionale per la maternità delle donne lavoratrici. Furono tutte conquiste raggiunte con fatica, grazie soprattutto alla pressione dei primi movimenti socialisti e delle organizzazioni operaie. In Italia, il timore della borghesia per la diffusione delle idee socialiste e anarchiche e le sollevazioni popolari contro la povertà spinsero i governi di fine secolo a prendere provvedimenti autoritari. Alcune rivolte divamparono in Puglia e in Romagna, a causa dei prezzi elevati del grano e della farina. Un'altra, più grave, scoppiò a Milano nel 1898. I popolani milanesi innalzarono barricate e il comandante militare, generale Bava-Beccaris, un ufficiale di vecchio stampo tanto autoritario quanto incapace di comprendere la realtà che aveva di fronte, li affrontò nel timore di una vera e propria rivoluzione anarchica o socialista. Si trattava, invece, soltanto di una sollevazione contro il carovita. Contro i dimostranti Bava-Beccaris fece intervenire l'esercito: la cavalleria caricò nelle piazze, mentre i cannoni facevano fuoco contro le barricate. La repressione costò quasi cento morti; e molti oppositori, compresi alcuni deputati socialisti, furono i arrestati. Il governo e il re approvarono l'inutile crudeltà di Bava-Beccaris, al quale fu concessa un' onorificenza. La tensione politica crebbe. Per vendicare i morti di Milano, il 29 luglio 1900, a Monza, l'anarchico Gaetano Bresci uccise il re Umberto I. Ma il giovane successore, Vittorio Emanuele III, seppe mantenere la calma: proclamato re d'Italia, chiamò al governo il tollerante ed equilibrato Giuseppe Zanardelli, che aveva curato il nuovo Codice penale. Un relativo ordine si ristabilì nel paese. Negli anni successivi, i più forti contrasti politici si sarebbero risolti o attenuati grazie all' azione di un uomo politico di grandi capacità: Giovanni Giolitti. Breve storia dello stato sociale In Italia, l'intervento dello Stato nelle politiche sociali ed assistenziali avvenne essenzialmente in due direzioni: l'una volta a limitare l'influenza della Chiesa, con la legge per la confisca dei beni delle associazioni ecclesiastiche impegnate nel campo assistenziale nel 1866 e con la sottomissione al controllo pubblico del sistema delle Opere Pie e la loro trasformazione in Ipab con la legge Crispi del 1990. L'altra per favorire l'inserimento e l'integrazione nello stato della classe operaia e del movimento operaio nel suo complesso, con mirate politiche di intervento pubblico. Contrariamente a quanto pensano i più, non furono i movimenti socialisti legati alla classe operaia ad inventare lo Stato Sociale. Invece un suoa primo esempio concreto nientemeno a Otto Von Bismark, "cancelliere di ferro" della Prussia. Di stampo conservatore, forte accentratore, nemico giurato del federalismo, appartenente alla casta degli "Junker", i proprietari terrieri prussiani, combatte duramente il partito socialista. Ma proprio per batterlo sul suo stesso terreno, nel contempo elaborò ed emanò una legislazione sociale avanzatissima per quel tempo. Ma l'intervento dello Stato nell'economia e nel sociale ebbe maggiore visibilità nella seconda metà del '900. L'atto di maggior riferimento per i paesi europei, è il cosiddetto piano Beveridge del 1948, approvato in Inghilterra. Lord William Beveridge, direttore della London School of Economics, mise a punto un sistema di protezione sociale che ha in seguito ispirato il National Healt Service del partito laburista nell'immediato dopoguerra. Le idee "sociali" di Lord Beveridge, si compenetravano con 4 quelle dell'economista Sir John Majnard Kejnes, il quale sosteneva che il governo può e deve intervenire sull'occupazione, quando questa è insufficiente, aumentando la domanda attraverso una politica di bassi tassi di interesse e di investimenti pubblici. Il Welfare State era ispirato ai principi dell'universalismo ugualitario: a tutti i cittadini era garantito un trattamento minimo uniforme, per far fronte alle necessità e alle difficoltà della vita. I sistemi di protezione sociale negli anni successivi alle intuizioni di Beveridge e di Kejnes conobbero una notevole espansione anche in Italia, giustificata in un primo momento dalla forte crescita economica e successivamente per coprire gli effetti negativi della crisi petrolifera. Non si può negare, stando a quello che si vede pure nel nostro paese, che il sistema di stato sociale andrebbe rivisto e ripensato, e anche "snellito" alla luce degli avvenimenti accaduti in questi anni. Bisogna anche tener conto del fatto che l'invecchiamento della popolazione e la bassa natalità stanno diventando dei problemi seri che prima o poi occorrerà affrontare seriamente con posizioni ed interventi netti e definitivi, e non certo con palliativi. Gli abbondanti flussi di denaro erogati dallo stato favoriscono determinate categorie di cittadini, trascurandone altri, come i giovani in particolare, alimentando così il fenomeno della crescente esclusione sociale. Per di più questi interventi dello Stato, soprattutto in Italia, seguivano logiche e percorsi poco trasparenti. Nelle pieghe dello Stato Sociale si sono insinuati spesso i clientelismi, rendendo meno efficiente e più costoso l'intervento dello Stato. Basti pensare al nostro deficit pubblico che ci portiamo ancora dietro dalla "prima repubblica". Il terzo settore, detto anche No-profit o privato sociale, è ormai una realtà consolidata nel nostro paese e in continua espansione. In molti casi, le organizzazioni che fanno parte del privato sociale si sono dimostrate più efficienti dello stato, perché godono di una situazione di migliore informazione riguardo ai bisogni sociali. La loro piccola dimensione garantisce una maggiore flessibilità e quindi una politiche di intervento più efficaci. Quando si parla del terzo settore, non ci riferisce soltanto ad enti che operano nei tradizionali campi di intervento del Welfare State: sotto la definizione di privato sociale sono comprese anche le associazioni sportive e culturali, ricreative ed ambientaliste. La nostra Costituzione, in base agli articoli 2, 18, 49, 39, riconosce e legittima le formazioni sociali intermedie come luogo in cui viene esplicato la personalità dell'individuo e la libera associazione fra le persone. Anche dove viene previsto l'intervento dello Stato nell'offerta e nella gestione dei servizi, specificatamente negli articoli 32, 33, 34, 38, i nostri "padri costituenti" si sono premurati, diciamo così, di rendere possibile l'intervento dei privati nel sociale, stabilendone i limiti e i modi. 3. CENNI STORICI SULLO SVILUPPO DELLO STATO SOCIALE NEI VARI PAESI Più che darne una definizione è utile vedere lo Stato Sociale come costruzione storica. Esso nasce e si sviluppa in Europa con il sorgere degli Stati nazionali (assoluti, costituzionali e poi repubblicani). Lo stato sociale nasce nel Settecento e si sviluppa a partire dalla Rivoluzione Francese, che proclamò i diritti sociali della muova era democratica, e con le varie riforme introdotte nel corso dell'Ottocento per risolvere la "questione sociale". Sono tre le fasi storiche, che rappresentano anche tre modelli, attraverso i quali lo Stato Sociale si perfeziona: - MODELLO PATERNALISTICO 1700-1800 - MODELLO ASSICURATIVO (della sicurezza sociale) 1883-1940 - MODELLO INTERVENTISTA 1945-1989 - MODELLO PATERNALISTICO 1700-1800 A partire dal Sei- Settecento, lo spopolamento delle campagne e le nuove forme di sfruttamento del lavoro creano problemi sociali senza precedenti. Spesso si dice che è in Inghilterra che il moderno Welfare State ha i suoi prodromi nella forma paternalistica più classica; ma se si guarda al panorama europeo del Settecento, i modelli continentali non hanno nulla da invidiare all'Inghilterra in termini di costruzione di apparati di controllo sociale. Nel corso del Settecento e di tutto l'Ottocento, lo Stato Sociale è 5 la bandiera della lotta contro la povertà. Le misure di intervento per i poveri vengono progressivamente sottratte alla Chiesa e alle varie forme di mutualità e beneficenza e in qualche modo statalizzate. Si fa strada l'idea di produrre un controllo totale dell'ordine. Le attività assistenziali vengono erogate come spese a fondo perduto dei bilanci del sovrano e dei suoi governi centrali e locali. - MODELLO ASSICURATIVO (della sicurezza sociale) 18831940 Con il procedere dell'industrializzazione, la "questione operaia" dilaga in un conflitto aperto tra il proletariato e la borghesia in tutta Europa. Nascono nuovi movimenti di rivolta e di rivendicazione, che rendono instabili tutti i sistemi politici. Per rimediare a questa instabilità, alla fine dell'Ottocento, Bismark introduce quelle che vengono considerate le prime vere misure di uno Stato Sociale moderno: le assicurazioni obbligatorie contro i maggiori rischi di povertà. Tra queste rientrano le assicurazioni contro la malattia (1883), gli infortuni sul lavoro (1884) e la vecchiaia (1889). Con questa invenzione nasce un tipo di Welfare State diverso da quello precedente. La finalità primaria del modello bismarkiano non è più il controllo sociale della povertà, ma mira soprattutto a garantire il minimo di sopravvivenza. Questo modello che ha avuto inizio negli anni Ottanta del 1800, si espande fino alla seconda guerra mondiale. Successivamente incontrerà nuovi sviluppi. A poco a poco vengono introdotte nuove riforme, soprattutto in campo assicurativo, in parte obbligatorie e in parte volontarie. In seguito con il famoso piano di Lord Beveridge, lo Stato assume un ruolo redistributivo e garantistico e non strettamente contributivo. - MODELLO INTERVENTISTA 1945-1989 La grande depressione del 1949, la seconda guerra mondiale e il procedere dell'industrializzazione e dei suoi effetti sono gli eventi che fanno nascere l'esigenza di una nuova politica sociale. Tutto ciò avviene attorno agli anni Trenta. La teoria di J. M. Keynes e i piani di sicurezza sociale di Lord Beveridge ricevono ampio consenso. Questo modello si propone di garantire uno standard di vita come diritto sociale, assicurando un'assistenza sociale adeguata alle esigenze degli individui. Il modello interventista si propone di coprire queste spese attraverso un sistema fiscale efficiente e ricorrendo all'indebitamento. Questo modello si diffonde e si sviluppa per circa quarant'anni. Il Welfare State si espande nel mondo occidentale e soltanto impropriamente può essere riferito ai Paesi comunisti. Nel secondo dopoguerra lo Stato Sociale non viene messo in pericolo fino a quando esso mostra limiti insuperabili Nell'800 si affermano esperienze di autotutela, con l'istituzione di `società di mutuo soccorso', in tempi in cui la previdenza pubblica non esisteva, con la nascita di banche popolari e di casse rurali, con il moltiplicarsi di iniziative nel campo dell'educazione e dell'istruzione scolastica e professionale. Nella seconda metà dell'800 gli interventi legislativi che si susseguono tendono ad eliminare e a regolamentare una parte considerevole delle organizzazioni operanti nel sociale. Nasce lentamente la legislazione sociale. Nel frattempo si allarga il conflitto sociale e nascono i sindacati, i partiti socialisti, le cooperative. Bisogna ricordare, inoltre, che l'idea del Welfare non è una conquista dal basso, ma già ne parla Tocqueville, ed i padri dello Stato Sociale sono considerati Bismark e lord Beveridge, non socialisti che hanno tentato esclusivamente di mettere al riparo dalle conseguenze dello scontro sociale lo Stato liberale e liberista. Ottone von Bismarck e la Confederazione della Germania del Nord Ottone von Bismark fu primo ministro in Prussia dal 1862. Bismark div enne Cancelliere Federale della Confederazione della Germania del Nord che comprendeva tutti gli stati tedeschi a nord del Meno. Il Presidente della Confederazione era il re di Prussia. Il Reich tedesco 6 La Prussia nel 1871 sottrasse alla Francia i territori dell'Alsazia e della Lorena. Con l'entusiasmo della vittoria, gli stati della Germania meridionale si unirono alla Confederazione del Nord. Era stato un altro successo di Bismarck. A Versailles, il 18 gennaio 1871, il re Guglielmo I di Prussia venne proclamato Imperatore tedesco. Nasce il Reich tedesco, confederazione di 25 Stati sotto l'egemonia prussiana. Guglielmo II e la prima guerra mondiale Nel 1890 il giovane imperatore, Kaiser Guglielmo II, licenziò il Cancelliere Bismarck. Sotto il suo regno la Germania avviò la sua "politica” di espansione di influenza nel resto del mondo, così come avevano fatto grandi potenze europee. Il conflitto scoppiato nel 1914 tra Austria e Serbia fu l'occasione per la Germania di entrare in guerra e il gioco delle alleanze da una parte e la contrapposizione degli interessi di ciascuna nazione dall'altra estesero il conflitto anche alla Russia, Francia, Inghilterra, Italia. La Germania fu sconfitta e alla disfatta militare si aggiunse il crollo politico. L'imperatore Guglielmo II abbandonò il potere, cadde la monarchia e in Germania venne proclamata la repubblica. 4. INDUSTRIALIZZAZIONE E STATO SOCIALE Con l'industrializzazione s'è prodotta una crescente concentrazione della popolazione nelle città a motivo del costo di produzione, che divenne per vari motivi più basso in città che in campagna. Il fatto che le città fossero la principale fonte o concentrazione di domanda di lavoro, portò alla migrazione della popolazione dalle campagne alle città. E' ben evidente che nelle prime fasi dell'industrializzazione le città non riproducevano la propria popolazione: cioè il tasso d'incremento naturale era probabilmente negativo, a causa delle malsane condizioni delle città antiche; così un flusso continuo dalla campagna era essenziale per la stabilità della popolazione. Ma, data la crescente domanda di lavoro, con l'industrializzazione venne a crescere l'immigrazione della popolazione; e, quando l'immigrazione ebbe raggiunto un certo livello nelle città, allora il tasso d'incremento naturale cominciò ad assumere maggiori proporzioni. Così le città comiciarono a crescere di forza propria, così l'urbanizzazione fu un modo più efficiente di organizzare una popolazione per continui aumenti di produzione. I "pensatori sociali" cominciarono a criticare l'origine di continui miglioramenti del benessere dal solo meccanismo del mercato; e quindi chiesero interventi statali che restringessero la libertà di operare del mercato. In Gran Bretagna divenne molto noto il lavoro di una persona come Robert Owen, in Francia si ebbe il "socialismo utopico", socialisti che fanno lo stesso genere di critiche e chiedono mutamenti per controllare l'economia di mercato. Karl Marx, con l'esperienza inglese davanti agli occhi, pensava che non vi fosse aiuto in un'economia di mercato: al contrario bisognava cercare di portarla al più presto possibile alla fine, in una nuova era di socialismo. Ma in Germania la speranza era che le previsioni di Marx non fossero vere, e che non ce ne fosse bisogno. Non c'era rischio che si realizzassero, se si fosse agito in tal modo da moderare le tempeste dell'economia di mercato, forzando, diciamo, i datori di lavoro ad impiegare solo lavoratori adulti, a ridurre l'impiego di donne delle nelle fabbriche, a ridurre le ore di lavoro, ed ad introdurre dei sostegni, sostegni automatici, per i lavoratori nei momenti difficili. I "pensatori sociali", in altre parole, chiedevano interventi statali o meccanismi cooperativi che permettessero alla popolazione di superare meglio le 7 difficltà di vivere in un insicuro ambiente industriale urbano. In Germania emerse un gruppo di studiosi che furono detti "Kathedersozialisten" (socialisti cattedratici), che pensavano che se lo Stato fosse intervenuto sul mercato del lavoro, sulla sanità per gli anziani, sulle condizioni di lavoro, la minaccia dell'instabilità sarebbe stata eliminata. E questa era una delle motivazioni dei "socialisti cattedratici": volevano migliorare il tenore di vita della popolazione ed indebolirne o demolirne le disuguaglianze, non solo perché ciò era eticamente giusto e retto, ma perché ciò avrebbe eliminato od indebolito il rischio della rivoluzione. Uno dei mutamenti che ha avuto luogo è che nella seconda metà del'Ottocento, nella maggior parte dei paesi europei in cui s'avviava l'industrializzazione, si ebbe la classe operaia urbana chiese — attraverso i sindacati, ed in qualche misura attraverso la formazione, l'inizio della formazione di partiti politici — di aver voce nelle decisioni politiche, inclusa la politica sociale, e di conseguenza chiese l'antica sicurezza come un diritto. Ed i borghesi che controllavano l'amministrazione locale nelle città, almeno per la politica sociale di cui diciamo, risposero a ciò cominciando a badare con più cura ai costi e benefici di tale politica sociale. E di conseguenza si generarono pressioni a livello locale per trasferire tali problemi a livello amministrativo più alto. Dove quindi di nuovo c'erano i partiti politici, e per spostare od aggirare la possibilità che i partiti della classe operaia divenissero una forza importante di governo, a vari livelli, parve saggio alle classi dominanti pensare di sviluppare le politiche sociali ad un livello più generale. Il caso classico fu l'esempio di Bismark, in Germania, di legislazione sociale, che emerse tra il 1870 ed il 1890. Tale tipo di legislazione divenne un modello per molti altri paesi. Abbiamo già discusso il fatto che il problema sociale era sempre più, nel trascorrere dell'Ottocento, un fenomeno urbano, in quanto la classe operaia era sempre più concentrata e rappresentava una minaccia potenziale al sistema sociale e politico. Ed in tal senso l'obiettivo era la classe operaia urbana, i poveri delle città; ma era al contempo indebolire il radicalismo, indebolire il desiderio della popolazione operaia, dei poveri delle città per una soluzione sociale radicale. In qualche misura ci si accorse che il distacco tra il tenore di vita delle classi alte e medie ed il resto della società non avrebbe dovuto divenire troppo largo, poiché in un contesto urbano tali differenze erano ben visibili. L'inizio dello Stato previdenziale può essere ricondotto all'accentuazione dei problemi sociali associati ad urbanizzazione ed industrializzazione, e ciò da presto: se si guarda alla Gran Bretagna negli anni venti e trenta dell'Ottocento, le città già cominciano a rispondere ai problemi di pauperizzazione della popolazione, del lavoro infantile, della sanità pubblica in particolare; un tratto molto importante fu che ad intervalli esplosero epidemie: colera, tifo e così via. Ed all'improvviso i notabili cittadini responsabili delle decisioni divennero ben consci di essere di fronte ad un problema, ed allora fu avviato un meccanismo progettato per eliminare tale problema. Il fatto fu che le amministrazioni cittadine si trovarono in un brutto momento tra il 1840 ed il 1860, quando il ciclo economico si era volto al basso, ed esse trovarono che addirittura il venti o trenta per cento della popolazione aveva bisogno di assistenza per povertà, che le finanze delle città erano svuotate dal carico dei pagamenti per assistenza che dovevano fare, e tale fenomeno ebbe luogo in tutta Europa. Io considero la risposta tedesca una pietra miliare: in Germania, sebbene al livello locale — al livello dell'impresa, al livello della città — c'era una politica sociale che era stata assunta in risposta ai problemi di urbanizzazione, congestione, sanità e così via, è solo negli anni che seguono il 1880 — quando viene asssunta la legislazione di Bismark — che l'introduzione dell'assicurazione contro gli infortuni che pone l'onere della prova sui datori di lavoro quando han luogo incidenti sul lavoro, e l'introduzione sebbene modesta di previdenza per la vecchiaia, pongono davvero una pietra miliare nello sviluppo dello Stato previdenziale, per lo sviluppo della previdenza contro le malattie dal 1880, per il fatto che con essa lo Stato prese la responsabilità di fornire certi servizi minimi in ogni caso, senza curarsi delle previdenze 8 che fossero state accumulate di diritto nel passato. La legislazione di Bismark fu all'inizio modesta, ed in effetti ebbe un aspetto senza dubbio di finanziamento per le casse dello Stato, poché molti che furono inclusi nel programma di assicurazione sociale pagarono più di quelli che ricevevano benefici, almeno all'inizio; nondimeno, in termini d'incertezza sul futuro, fu del tutto un miglioramento per un buon settore della popolazione, cosicché il modello, dato il fatto che pareva aver positivi effetti nello stabilizzare la società, venne adottato in altri paesi: la Gran Bretagna introdusse una legislazione simile all'inizio del Novecento. Guardando al tenore di vita della popolazione europea nel lungo periodo, vediamo che hanno avuto la tendenza a migliorare nel corso dell'industrializzazione. Ed a causa del fatto che le fluttuazioni dell'economia sono divenute più evidenti in concentrazioni di popolazione ove si viva vicini gli uni agli altri, ed a causa della crescente dipendenza dall'economia di mercato in cui si deve avere una merce — sia del lavoro, sia un bene, sia un servizio — che possa esser venduta per un prezzo, e dato il fatto che non vi è stato alcun coordinamento centralizzato di tali transazioni, l'insicurezza ha teso a divenire un tratto più significativo della vita. Quindi quel che si potrebbe dire è che, sebbene nel lungo periodo il tenore di vita è migliorato, è cresciuta l'incertezza su come continuerà a mutare. Vi è anche sempre meno affidamento alla famiglia come fonte di sicurezza sociale; vi è anche sempre maggior coscienza delle differenze nel tenore di vita tra parti diverse della popolazione. Il Novecento è diverso dall'Ottocento. In tal senso c'è in qualche misura un salto qualitativo: emerge il problema della disoccupazione. Penso che il termine disoccupazione sia stato inventato, come categoria sociopolitica, all'inizio del Novecento. Comincia ad essere sentita come responsabilità dello Stato dopo la Prima Guerra Mondiale, in un paese dopo l'altro, in particolare col bisogno d'integrare i soldati che tornano dalla guerra, col tremendo peso delle previdenze di disabilità, coi pericoli connessi. Nella stessa Germania, in séguito alla Prima Guerra Mondiale vi fu una rivoluzione, per venire incontro alla quale i rappresentanti del padronato furono d'accordo ad offrire agli operai un certo minimo di paga, un minimo garantito di benefici previdenziali, di sicurezza sociale per vecchiaia e salute, ed anche il giorno lavorativo di otto ore, in cambio del riconoscimento, da parte delle forze di lavoro organizzate, del sistema del capitalismo privato, della proprietà privata dei mezzi di produzione. Così la rivoluzione fu apertamente evitata, o fu stornato il rischio della rivoluzione, con l'introduzione di un meccanismo previdenziale che conteneva apertamente l'intento di fornire sicurezza sociale alla maggior parte della classe operaia. La disoccupazione è divenuta un problema cronico; era esistita ad intervalli prima della Prima Guerra Mondiale, e con maggiore o minor severità nella forma di sottoccupazione: oggi è divenuta un problema di aperta disoccupazione, ed un problema per cui i governi progettano programmi assicurativi. Ciò s'interruppe momentaneamente sotto i colpi della depressione mondiale degli anni trenta, ma il problema rimane, ed è probabilmente dopo la Seconda Guerra Mondiale che se ne nota un riconoscimento generale. Nella crisi degli anni trenta, malgrado l'emergenza del keynesismo come una forma di statalismo previdenziale, se si vuole in risposta al rischio della disoccupazione, malgrado l'arrivo del concetto e del riconoscimento della disoccupazione di massa negli anni trenta, nella maggior parte dei paesi non vi fu un tentativo concordato di alleviare la disoccupazione dall'inizio con programmi d'indennità. E siccome la crisi prese proporzioni tanto gigantesche in paesi come Belgio, Olanda, Germania, Stati Uniti e Gran Bretagna riguardo a ciò, dopo la Seconda Guerra Mondiale i politici responsabili della ricostruzione dei loro rispettivi paesi in Europa sono stati d'accordo che la politica economica non avrebbe solo compreso incentivi agli investimenti che costruissero, aprissero mercati per espandere le esportazioni, alimentassero i mutamenti di produttività ed i progressi tecnologici, ma avrebbe anche fornito un meccanismo per garantire la piena occupazione. In parecchi paesi europei, l'idea è ormai che lo Stato sia responsabile di stabilizzare i cicli economici e di garantire piena occupazione e così via: in tal senso nel 1945, 1946 e 1947 si ha un quadro diverso; e fu così che lo statalismo assistenziale 9 è emerso come un preciso elemento dell'insieme di fini politici che si richieda allo Stato di perseguire. Se si guarda a come sia mutata la definizione di Stato previdenziale, penso che una causa della crescita dello stato previdenziale sia che quando i redditi di una popolazione aumentano le sue preferenze cambiano, la domanda per certi beni pubblici diviene più forte, ed uno di questi benipubblici è la protezione dell'ambiente, e l'idea che sia conservato per i posteri. Penso che questo sia un processo che è destinato a continuare ad allargarsi, così prevedo — e non è per iente originale — un allargamento dello Stato previdenziale, ed insieme una crescita della burocrazia, a vari livelli amministrativi, che si occupi di politiche previdenziali: questo è un fenomeno continuo. Negli anni ottanta, con lo sviluppo di thatcherismo e reaganismo, si potrebbe aver avuta l'impressione che lo Stato previdenziale sarebbe stato respinto indietro. Vi sono stati tanti discorsi sul fatto che la misura della spesa pubblica nella produzione totale di un'economia avesse raggiunto un livello massimo e che avrebbe dovuto tornare indietro. E la discussione continua, ma gli anni ottanta sono passati, ed oggi siamo negli anni novanta, e mi pare che siamo in un'altra fase in cui va crescendo la domanda per un allargamento della responsibilità statale. Possiamo solo sperare che la torta economica sia in grado di finanziare le crescenti domande per servizi che riguardano quanto lo Stato previdenziale fornisce, che la torta continui a crescere, che l'economia continui ad esser in grado di fornirci quelle risorse; ed è ipotesi per ciascuno come e quanto sarà mantenuto un equilibrio tra mezzi e fini. Tratto dall'intervista: "Industrializzazione e origini dello stato sociale" - Milano, Università Bocconi, 15 settembre 1994 5. LA SECONDA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE Legato al rinnovato sviluppo della seconda rivoluzione industriale è il fenomeno che passa sotto il nome di produzione di massa, per con cui si immette sul mercato una grande quantità di manufatti con buone possibilità di vendita grazie alle accresciute capacità di acquisto dei consumatori. Cosicché diventa fondamentale per ogni azienda conquistare una fetta consistente di mercato e quindi investire grandi risorse nei settori della pubblicità, delle ricerche di mercato, della commercializzazione e distribuzione dei prodotti. Si crea così il rapporto tra industria e consumatori e nascono le tecniche di persusione e di controllo caratteristiche della vita di questi ultimi anni. Questo fenomeno consiste nella trasformazione del modo e della scala di produzione. Con il termine produzione di massa gli storici dell'economia e gli studiosi di sociologia industriale si riferiscono a due distinti processi. Un primo significato concerne la razionalizzazione dei metodi produttivi secondo una linea implicita fin dall'inizio della tecnologia di fabbrica nell'ambito delle condizioni capitalistiche di produzione, tendenza già pienamente evidenziata da Marx nell'analisi del primo sviluppo industriale. Tale tendenza ha un salto di qualità negli Stati Uniti già anteriormente alla prima guerra mondiale. Alla vigilia del conflitto mondiale le auto uscivano dalla linea al fantastico ritmo di una ogni due minuti, un tempo che fu più tardi dimezzato. Nel 1914 fu prodotta complessivamente l'incredibile quantità di oltre 300 mila vetture Ford modello T, e nel 1915 più di 500 mila Queste considerazioni ci introducono al secondo significato di produzione di massa, cioè il largo mercato di beni di consumo connesso alla crescita dei redditi nei paesi economicamente progrediti a cominciare dagli Stati Uniti. Ma anche in Europa tra il 1870 e il 1913 si ha un notevole incremento dei redditi pro capite e dei salari reali. Concorsero a questo risultato la caduta dei prezzi a1imentari per l'importazione di grano dal Nord America e dalla Russia e delle carni dall'Argentina, la modernizzazione dell'agricoltura in alcune aree europee, la diminuzione del costo dei manufatti per i miglioramenti tecnologici e per il progresso dei 10 trasporti. Tutto ciò avvenne in un quadro di rapporti sociali nel quale la presenza ormai consolidata di forti organizzazioni di lavoratori impediva di trasformare automaticamente l'abbassamento dei costi in decurtazione dei salari. Taylor fu un ingegnere americano che, attraverso l'osservazione dei processi industriali, formulò il primo principio sulla razionalizzazione del lavoro di fabbrica e cioè il principio della catena di montaggio. Questo principio si basava sull'osservazione sistematica dei movimenti degli operai e nella rilevazione cronometrica dei tempi impiegati dagli operai per svolgere le loro mansioni con lo scopo di fissare le leggi che stabilissero il modo migliore di lavorare. In questo modo fu possibile stabilire il giusto salario per una giusta giornata di lavoro. Tra i fenomeni di maggiore importanza dell’età dell’industrializzazione è da ricordare il graduale spostamento dei lavoratori dalle campagne alla città, dall’agricoltura agli altri settori dell’attività. Si diffonde inoltre in maniera sempre più decisa il settore terziario, mentre con i termini di piccola e media borghesia, ceti medi, classi medie, viene indicato un soggetto sociale che appare sempre più numeroso nella società moderna. Uno dei protagonisti della società e dell'economia del primo '900 è tuttavia l'operaio.Nella prima fase dell’industrializzazione si era affermata una nuova figura di operaio di fabbrica che non coincideva più con l’artigiano che lavorava a mano con gli utensili tradizionali ma si era trasformato nell'operaio di mestiere formato attraverso un tirocinio di fabbrica, che sapeva manovrare macchine polivalenti capaci di compiere molte operazioni. Questa nuova figura sociale assunse un sempre crescente prestigio legato alla specializzazione del suo lavoro. La concentrazione di masse considerevoli di operai in uno stesso luogo di lavoro, la loro compresenza e la rigidità degli orari di lavoro consentì la progressiva crescita di una coscienza di classe tra i lavoratori e la diffusione presso di loro di scritti a carattere ideologico La Seconda Rivoluzione Industriale quindi aveva maggiori caratteri scientifici ed era meno dipendente da quelle invenzioni che non avevano o avevano poca base scientifica. A questo proposito, e cioè riguardo alle invenzioni e innovazioni, fu molto complessa la questione dei brevetti. Questa fase non era tanto diretta a migliorare o accrescere i prodotti già esistenti quanto a introdurre dei nuovi. Per questi motivi non poteva più essere chiamata la rivoluzione del carbone e del ferro ma dal 1870 iniziava l'età dell'acciaio, dell'elettricità, del petrolio e della chimica. Grazie ai contributi dei già citati Taylor e Gilbreth, che realizzarono il principio della catena di montaggio, la fabbrica al proprio interno andò rinnovandosi passando da luogo di produzione a quello di macchina di produzionedi massa. Il risultato di tutte queste innovazioni è l'aumento di produttività delle aziende 11 6. LA CARTA DEL LAVORO I. La Nazione italiana è un organismo avente fini, vita, mezzi di azione superiori per potenza e durata a quelli degli individui divisi o raggruppati che la compongono. È una unità morale, politica ed economica, che si realizza integralmente nello Stato fascista. II. Il lavoro, sotto tutte le sue forme organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche, manuali è un dovere sociale. A questo titolo, e solo a questo titolo, è tutelato dallo Stato. Il complesso della produzione è unitario dal punto di vista nazionale; i suoi obiettivi sono unitari e si riassumono nel benessere dei singoli e nello sviluppo della potenza nazionale. III. L’organizzazione sindacale o professionale è libera. Ma solo il sindacato, legalmente riconosciuto e sottoposto al controllo dello Stato, ha il diritto di rappresentare legalmente tutta la categoria di datori di lavoro o di lavoratori, per cui è costituito; di tutelarne, di fronte alle Stato e alle altre associazioni professionali, gli interessi; di stipulare contratti collettivi di lavoro obbligatori per tutti gli appartenenti alla categoria, di imporre loro contributo e di esercitare, rispetto ad essi, funzioni delegate di interesse pubblico. IV. Nel contratto collettivo di lavoro trova la sua espressione concreta la solidarietà tra i vari fattori della produzione, mediante la conciliazione degli opposti interessi dei datori di lavoro e dei lavoratori, e la loro subordinazione agli interessi superiori della produzione. V. La magistratura del lavoro è l’organo con cui lo Stato interviene a regolare le controversie del lavoro, sia che vertano sull’osservanza dei patti e delle altre norme esistenti, sia che vertano sulla determinazione di nuove condizioni del lavoro. VI. Le associazioni professionali legalmente riconosciute assicurano l’uguaglianza giuridica tra i datori di lavoro e i lavoratori, mantengono la disciplina della produzione e del lavoro e ne promuovono il perfezionamento. Le Corporazioni costituiscono l’organizzazione unitaria delle forze della produzione e ne rappresentano integralmente gli interessi. In virtú di questa integrale rappresentanza, essendo gli interessi della produzione interessi nazionali, le Corporazioni sono dalla legge riconosciute come organi di Stato. Quali rappresentanti degli interessi unitari della produzione, le Corporazioni possono dettar norme obbligatorie sulla disciplina dei rapporti di lavoro e anche sul coordinamento della produzione tutte le volte che ne abbiano avuto i necessari poteri dalle associazioni collegate. VII. Lo Stato corporativo considera l’iniziativa nel campo della produzione come lo strumento piú efficace e piú utile nell’interesse della Nazione. L’organizzazione privata della produzione essendo una funzione di interesse nazionale, l’organizzatore dell’impresa è responsabile dell’indirizzo della 12 produzione di fronte allo Stato. Dalla collaborazione delle forze produttive deriva fra esse reciprocità di diritti e di doveri. Il prestatore d’opera, tecnico, impiegato od operaio, è un collaboratore attivo dell’impresa economica, la direzione della quale spetta al datore di lavoro che ne ha la responsabilità. VIII. Le associazioni di datori di lavoro hanno l’obbligo di promuovere in tutti i modi l’aumento, il perfezionamento della produzione e la riduzione dei costi. Le rappresentanze di coloro che esercitano una libera professione o un’arte e le associazioni di pubblici dipendenti concorrono alla tutela degli interessi dell’arte, della scienza e delle lettere, al perfezionamento della produzione e al conseguimento dei fini morali dell’ordinamento corporativo. IX. L’intervento dello Stato nella produzione economica ha luogo soltanto quando manchi o sia insufficiente l’iniziativa privata o quando siano in giuoco interessi politici dello Stato. Tale intervento può assumere la forma del controllo, dell’incoraggiamento e della gestione diretta. X. Nelle controversie collettive del lavoro l’azione giudiziaria non può essere intentata se l’organo corporativo non ha prima esperito il tentativo di conciliazione. Nelle controversie individuali concernenti l’interpretazione e l’applicazione dei contratti collettivi di lavoro, le associazioni professionali hanno facoltà di interporre i loro uffici per la conciliazione. La competenza per tali controversie è devoluta alla magistratura ordinaria, con l’aggiunta di assessori designati dalle associazioni professionali interessate. XI. Le associazioni hanno l’obbligo di regolare, mediante contratti collettivi, i rapporti di lavoro per le categorie di datori di lavoro e di lavoratori, che rappresentano. Il contratto collettivo di lavoro si stipula fra associazioni di primo grado, sotto la guida e il controllo delle organizzazioni centrali, salva la facoltà di sostituzione da parte dell’associazione di grado superiore, nei casi previsti dalla legge o dagli statuti. Ogni contratto collettivo di lavoro, sotto pena di multa, deve contenere norme precise sui rapporti disciplinari, sul periodo di prova, sulla misura e sul pagamento della retribuzione, sull’orario di lavoro. XII. L’azione del sindacato, l’opera conciliativa degli organi corporativi e la sentenza della magistratura del lavoro garantiscono la corrispondenza del salario alle esigenze normali di vita, alle possibilità della produzione e al rendimento del lavoro. La determinazione del salario è sottratta a qualsiasi norma generale e affidata all’accordo delle parti nei contratti collettivi. XIII. Le conseguenze delle crisi di produzione e dei fenomeni monetari devono equamente 13 ripartirsi fra tutti i fattori della produzione. I dati rilevati dalle pubbliche amministrazioni, dall’istituto centrale di statistica e dalle associazioni professionali legalmente riconosciute, circa le condizioni della produzione e del lavoro e la situazione del mercato monetario, e le variazioni del tenore di vita dei prestatori d’opera, coordinati ed elaborati dal Ministero delle Corporazioni, daranno il criterio per contemperare gli interessi delle varie categorie e delle classi fra di loro e di queste coll’interesse superiore della produzione. XIV. La retribuzione deve essere corrisposta nella forma piú consentanea alle esigenze del lavoro e dell’impresa. Quando la retribuzione sia stabilita a cottimo, e la liquidazione dei cottimi sia fatta a periodi superiori alla quindicina, sono dovuti adeguati acconti quindicinali o settimanali. Il lavoro notturno, non compreso in regolari turni periodici, viene retribuito con una percentuale in piú, rispetto al lavoro diurno. Quando il lavoro sia retribuito a cottimo, le tariffe di cottimo debbono essere determinate in modo che all’operaio laborioso, di normale capacità lavorativa, sia consentito di conseguire un guadagno minimo oltre la paga base. XV. Il prestatore di lavoro ha diritto al riposo settimanale in coincidenza con le domeniche. I contratti collettivi applicheranno il principio tenendo conto delle norme esistenti, delle esigenze tecniche delle imprese, e nei limiti di tali esigenze procureranno altresí che siano rispettate le festività civili e religiose secondo le tradizioni locali. L’orario di lavoro dovrà essere scrupolosamente e intensamente osservato dal prestatore d’opera. XVI. Dopo un anno di ininterrotto servizio il prestatore d’opera, nelle imprese a lavoro continuo, ha diritto ad un periodo annuo di riposo feriale retribuito. XVII. Nelle imprese a lavoro continuo il lavoratore ha diritto, in caso di cessazione dei rapporti di lavoro per licenziamento senza sua colpa, ad una indennità proporzionata agli anni di servizio. Tale indennità è dovuta anche in caso di morte del lavoratore. XVIII. Nelle imprese a lavoro continuo, il trapasso dell’azienda non risolve il contratto di lavoro, e il personale ad essa addetto conserva i suoi diritti nei confronti del nuovo titolare. Egualmente la malattia del lavoratore, che non ecceda una determinata durata, non risolve il contratto di lavoro. Il richiamo alle armi o in servizio della MVSN non è causa di licenziamento. XIX. Le infrazioni alla disciplina e gli atti che perturbino il normale andamento dell’azienda, commessi dai prenditori di lavoro, sono puniti, secondo la gravità della mancanza, con la multa, con la sospensione dal lavoro e, per i casi piú gravi, col licenziamento immediato senza indennità. 14 Saranno specificati i casi in cui l’imprenditore può infliggere: la multa o la sospensione o il licenziamento immediato senza indennità. XX. Il prestatore di opera di nuova assunzione è soggetto ad un periodo di prova, durante il quale è reciproco il diritto alla risoluzione del contratto, col solo pagamento della retribuzione per il tempo in cui il lavoro è stato effettivamente prestato. XXI. Il contratto collettivo di lavoro estende i suoi benefici e la sua disciplina anche ai lavoratori a domicilio. Speciali norme saranno dettate dallo Stato per assicurare la polizia e l’igiene del lavoro a domicilio. XXII. Lo Stato accerta e controlla il fenomeno della occupazione e della disoccupazione dei lavoratori, indice complessivo delle condizioni della produzione e del lavoro. XXIII. Gli uffici di collocamento sono costituiti a base paritetica sotto il controllo degli organi corporativi dello Stato. I datori di lavoro hanno l’obbligo di assumere i prestatori d’opera pel tramite di detti uffici. Ad essi è data facoltà di scelta nell’ambito degli iscritti negli elenchi con preferenza a coloro che appartengono al Partito e ai Sindacati fascisti, secondo la anzianità di iscrizione. XXIV. Le associazioni professionali di lavoratori hanno l’obbligo di esercitare un’azione selettiva fra i lavoratori, diretta ad elevarne sempre di piú la capacità tecnica e il valore morale. XXV. Gli organi corporativi sorvegliano perché siano osservate le leggi sulla prevenzione degli infortuni e sulla polizia del lavoro da parte dei singoli soggetti alle associazioni collegate. XXVI. La previdenza è un’alta manifestazione del principio di collaborazione. Il datore di lavoro e il prestatore d’opera devono concorrere proporzionalmente agli oneri di essa. Lo Stato, mediante gli organi corporativi e le associazioni professionali, procurerà di coordinare e di unificare, quanto piú è possibile, il sistema e gli istituti della previdenza. XXVII. Lo Stato fascista si propone: 1) il perfezionamento dell’assicurazione infortuni; 2) il miglioramento e l’estensione dell’assicurazione maternità; 3) l’assicurazione delle malattie professionali e della tubercolosi come avviamento all’assicurazione generale contro tutte le malattie; 4) il perfezionamento dell’assicurazione contro la disoccupazione involontaria; 5) l’adozione di forme speciali assicurative dotalizie pei giovani lavoratori. 15 XXXVIII. È compito delle associazioni di lavoratori la tutela dei loro rappresentanti nelle pratiche amministrative e giudiziarie, relative all’assicurazione infortuni e alle assicurazioni sociali. Nei contratti collettivi di lavoro sarà stabilita, quando sia tecnicamente possibile, la costituzione di casse mutue per malattia col contributo dei datori di lavoro e dei prestatori di opera, da amministrarsi da rappresentanti degli uni e degli altri, sotto la vigilanza degli organi corporativi. XXIX. L’assistenza ai propri rappresentanti, soci e non soci, è un diritto e un dovere delle associazioni professionali. Queste debbono esercitare direttamente le loro funzioni di assistenza, né possono delegarle ad altri enti od istituti, se non per obiettivi d’indole generale, eccedenti gli interessi delle singole categorie. XXX. L’educazione e l’istruzione, specie la istruzione professionale, dei loro rappresentanti, soci e non soci, è uno dei principali doveri delle associazioni professionali. Esse devono Dopolavoro e alle altre iniziative di educazione. affiancare l’azione delle Opere nazionali relative al 7. LO STATAUTO DEI LAVORATORI TITOLO I DELLA LIBERTA' E DIGNITA' DEL LAVORATORE ART. 1 - Libertà di opinione. I lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nei rispetto dei principi della costituzione e delle norme della presente legge. ART. 2 - Guardie giurate. Il datore di lavoro può impiegare le guardie particolari giurate, di cui agli artt. 133 e seguenti del T.U. approvato con R.D. 18 giugno 1931, n. 773, soltanto per scopi di tutela del patrimonio aziendale. Le guardie giurate non possono contestare ai lavoratori azioni o fatti diversi da quelli che attengono alla tutela del patrimonio aziendale. È fatto divieto al datore di lavoro di adibire alla vigilanza sull'attività lavorativa le guardie di cui al primo comma, le quali non possono accedere nei locali dove si svolge tale attività, durante lo svolgimento della stessa, se non eccezionalmente per specifiche e motivate esigenze attinenti ai compiti di cui al primo comma. In caso di inosservanza da parte di una guardia particolare giurata delle disposizioni di cui al presente articolo, l'Ispettorato del lavoro ne promuove presso il questore la sospensione dal servizio, salvo il provvedimento di revoca della licenza da parte del prefetto nei casi più gravi. 16 ART. 3 - Personale di vigilanza. I nominativi e le mansioni specifiche del personale addetto alla vigilanza dell'attività lavorativa debbono essere comunicati ai lavoratori interessati. ART. 4 - Impianti audiovisivi. È vietato l'uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori. Gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l'Ispettorato del lavoro, dettando, ove occorra, le modalità per l'uso di tali impianti. Per gli impianti e le apparecchiature esistenti, che rispondono alle caratteristiche di cui al secondo comma del presente articolo, in mancanza di accordo con le rappresentanze sindacali aziendali o con la commissione interna, l'Ispettorato del lavoro provvede entro un anno dall'entrata in vigore della presente legge, dettando all'occorrenza le prescrizioni per l'adeguamento e le modalità di uso degli impianti suddetti. Contro i provvedimenti dell'Ispettorato dei lavoro, di cui ai precedenti secondo e terzo comma, il datore di lavoro, le rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza di queste, la commissione interna, oppure i sindacati dei lavoratori di cui al successivo art. 19 possono ricorrere, entro 30 giorni dalla comunicazione del provvedimento, al Ministro per il lavoro e la previdenza sociale. ART. 5. - Accertamenti sanitari. Sono vietati accertamenti da parte del datore di lavoro sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente. Il controllo delle assenze per infermità può essere effettuato soltanto attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, i quali sono tenuti a compierlo quando il datore di lavoro lo richieda. Il datore di lavoro ha facoltà di far controllare la idoneità fisica del lavoratore da parte di enti pubblici ed istituti specializzati di diritto pubblico. ART. 6. - Visite personali di controllo. Le visite personali di controllo sul lavoratore sono vietate fuorché nei casi in cui siano indispensabili ai fini della tutela del patrimonio aziendale, in relazione alla qualità degli strumenti di lavoro o delle materie prime o dei prodotti. In tali casi le visite personali potranno essere effettuate soltanto a condizione che siano eseguite all'uscita dei luoghi di lavoro, che siano salvaguardate la dignità e la riservatezza del lavoratore e che avvengano con l'applicazione di sistemi di selezione automatica riferiti alla collettività o a gruppi di lavoratori. Le ipotesi nelle quali possono essere disposte le visite personali, nonché, ferme restando le condizioni di cui al secondo comma del presente articolo, le relative modalità debbono essere concordate dal datore di lavoro con le rappresentanze sindacali aziendali oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto di accordo su istanza del datore di lavoro, provvede l' ispettorato del lavoro. Contro i provvedimenti dell'ispettorato del lavoro di cui al precedente comma, il datore di lavoro, le rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza di queste, la commissione interna, oppure i sindacati dei lavoratori di cui al successivo art. 19 possono ricorrere, entro 17 30 giorni dalla comunicazione del provvedimento, al Ministro per il lavoro e la previdenza sociale. ART. 7. - Sanzioni disciplinari. Le norme disciplinari relative alle sanzioni alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata ed alle procedure di contestazione delle stesse, devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti. Esse devono applicare quanto in materia é stabilito da accordi e contratti di lavoro ove esistano. Il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l'addebito e senza averlo sentito a sua difesa. Il lavoratore potrà farsi assistere da un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato. Fermo restando quanto disposto dalla legge 15 luglio 1966, n. 604, non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro; inoltre la multa non può essere disposta per un importo superiore a quattro ore della retribuzione base e la sospensione dal servizio e dalla retribuzione per più di dieci giorni. In ogni caso, i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possano essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa. Salvo analoghe procedure previste dai contratti collettivi di lavoro e ferma restando la facoltà di adire l'autorità giudiziaria, il lavoratore al quale sia stata applicata una sanzione disciplinare può promuovere, nei venti giorni successivi, anche per mezzo dell'associazione alla quale sia iscritto ovvero conferisca mandato, la costituzione, tramite l'ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione, di un collegio di conciliazione ed arbitrato, composto da un rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro scelto di comune accordo o, in difetto di accordo, nominato dal direttore dell'ufficio del lavoro. La sanzione disciplinare resta sospesa fino alla pronuncia da parte del collegio. Qualora il datore di lavoro non provveda, entro dieci giorni dall'invito rivoltogli dall'ufficio del lavoro, a nominare il proprio rappresentante in seno al collegio di cui al camma precedente, la sanzione disciplinare non ha effetto. Se il datore di lavoro adisce l' autorità giudiziaria, la sanzione disciplinare resta sospesa fino alla definizione del giudizio. Non può tenersi conto ad alcun effetto delle sanzioni disciplinari decorsi due anni dalla loro applicazione. ART. 8. - Divieto di indagini sulle opinioni. E' fatto divieto al datore di lavoro, ai fini dell'assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell'attitudine professionale del lavoro. ART. 9. - Tutela della salute e dell'integrità fisica. I lavoratori, mediante loro rappresentanze, hanno diritto di controllare l'applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l'elaborazione e l'attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica. ART. 10. - Lavoratori studenti. I lavoratori studenti, iscritti e frequentanti corsi regolari di studio in scuole di istruzione 18 primaria, secondaria e di qualificazione professionale, statali, pareggiate o legalmente riconosciute o comunque abilitate al rilascio di titoli di studio legali, hanno diritto a turni di lavoro che agevolino la frequenza ai corsi e la preparazione agli esami e non sono obbligati a prestazioni di lavoro straordinario o durante i riposi settimanali. I lavoratori studenti, compresi quelli universitari, che devono sostenere prove di esame, hanno diritto a fruire di permessi giornalieri retribuiti. Il datore di lavoro potrà richiedere la produzione delle certificazioni necessarie all'esercizio dei diritti di cui al primo e secondo comma. ART. 11. - Attività culturali, ricreative e assistenziali. Le attività culturali, ricreative ed assistenziali promosse nell'azienda sono gestite da organismi formati a maggioranza dai rappresentanti dei lavoratori. Le rappresentanze sindacali aziendali, costituite a norma dell'art. 19, hanno diritto di controllare la qualità del servizio di mensa secondo modalità stabilite dalla contrattazione collettiva. ART. 12. - Istituti di patronato. Gli istituti di patronato e di assistenza sociale, riconosciuti dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale, per l'adempimento dei compiti di cui al decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 29 luglio 1947, n. 804, hanno diritto di svolgere, su un piano di parità, la loro attività all'interno dell'azienda, secondo le modalità da stabilirsi con accordi aziendali. ART. 13. - Mansioni del lavoratore. L'art. 2103 del codice civile è sostituito dal seguente: "Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta, e l'assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Ogni patto contrario è nullo." TITOLO II DELLA LIBERTA' SINDACALE ART. 14. - Diritto di associazione e di attività sindacale. Il diritto di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività sindacale, è garantito a tutti i lavoratori all'interno dei luoghi di lavoro. ART. 15. - Atti discriminatori. È nullo qualsiasi patto od atto diretto a: a) subordinare l'occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte; b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero. 19 Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica o religiosa. ART. 16. - Trattamenti economici collettivi discriminatori. È vietata la concessione di trattamenti economici di maggior favore aventi carattere discriminatorio a mente dell'art. 15. Il pretore, su domanda dei lavoratori nei cui confronti è stata attuata la discriminazione di cui al comma precedente o delle associazioni sindacali alle quali questi hanno dato mandato, accertati i fatti, condanna il datore di lavoro al pagamento, a favore del Fondo adeguamento pensioni, di una somma pari all'importo dei trattamenti economici di maggior favore illegittimamente corrisposti nel periodo massimo di un anno. ART. 17. - Sindacati di comodo. È fatto divieto ai datori di lavoro e alle associazioni di datori di lavoro di costituire o sostenere, con mezzi finanziari o altrimenti, associazioni sindacali di lavoratori. ART. 18. - Reintegrazione nel posto di lavoro. (*) I primi 5 commi hanno così sostituito i commi primo e secondo per effetto dell’art.1 – Legge n. 108/1990 Ferma restando l'esperibilità delle procedure previste dall'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il giudice con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell'articolo 2 della predetta legge o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Tali disposizioni si applicano altresì ai datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che nell'ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro. Ai fini del computo del numero dei prestatori di lavoro di cui primo comma si tiene conto anche dei lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro, dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale, per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative fa riferimento all'orario previsto dalla contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge ed i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale. Il computo dei limiti occupazionali di cui al secondo comma non incide su norme o istituti che prevedono agevolazioni finanziarie o creditizie. Il giudice con la sentenza di cui al primo comma condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata l'inefficacia o l'invalidità stabilendo un'indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell'effettiva reintegrazione; in ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione globale di fatto. Fermo restando il diritto al risarcimento del danno così come previsto al quarto comma, al prestatore di lavoro è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto. Qualora il lavoratore entro trenta giorni dal ricevimento dell'invito del datore 20 di lavoro non abbia ripreso il servizio, né abbia richiesto entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza il pagamento dell'indennità di cui al presente comma, il rapporto di lavoro si intende risolto allo spirare dei termini predetti. La sentenza pronunciata nel giudizio di cui al primo comma è provvisoriamente esecutiva. Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, su istanza congiunta del lavoratore e del sindacato cui questi aderisce o conferisca mandato, il giudice, in ogni stato e grado del giudizio di merito, può disporre con ordinanza, quando ritenga irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro. L'ordinanza di cui al comma precedente può essere impugnata con reclamo immediato al giudice medesimo che l'ha pronunciata. Si applicano le disposizioni dell'articolo 178, terzo, quarto, quinto e sesto comma del codice di procedura civile. L'ordinanza può essere revocata con la sentenza che decide la causa. Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al primo comma ovvero all'ordinanza di cui al quarto comma, non impugnata o confermata dal giudice che l'ha pronunciata, è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all'importo della retribuzione dovuta al lavoratore. TITOLO III DELL'ATTIVITA' SINDACALE ART. 19. - Costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali. Rappresentanze sindacali aziendali possano essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva nell'ambitodelle associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nella unità produttiva. Nell'ambito di aziende con più unità produttive le rappresentanze sindacali possono istituire organi di coordinamento. ART. 20. - Assemblea. I lavoratori hanno diritto di riunirsi, nella unità produttiva in cui prestano la loro opera, fuori dell'orario di lavoro, nonché durante l'orario di lavoro, nei limiti di dieci ore annue, per le quali verrà corrisposta la normale retribuzione. Migliori condizioni possono essere stabilite dalla contrattazione collettiva. Le riunioni - che possono riguardare la generalità dei lavoratori o gruppi di essi - sono indette, singolarmente o congiuntamente, dalle rappresentanze sindacali aziendali nell'unità produttiva, con ordine del giorno su materie di interesse sindacale o del lavoro e secondo l'ordine di precedenza delle convocazioni, comunicate al datore di lavoro. Alle riunioni possono partecipare, previo preavviso al datore di lavoro, dirigenti esterni del sindacato che ha costituito la rappresentanza sindacale aziendale. Ulteriori modalità per l'esercizio del diritto di assemblea possono essere stabilite dai contratti collettivi di lavoro, anche aziendali. ART. 21. - Referendum. Il datore di lavoro deve consentire nell'ambito aziendale lo svolgimento, fuori dell'orario di lavoro, di referendum, sia generali che per categoria, su materie inerenti all'attività sindacale, indetti da tutte le rappresentanze sindacali aziendali tra i lavoratori, con diritto di partecipazione di tutti i lavoratori appartenenti alla unità produttiva e alla categoria particolarmente interessata. Ulteriore modalità per lo svolgimento del referendum possono essere stabilite dai contratti collettivi di lavoro anche aziendali. 21 ART. 22. - Trasferimento dei dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali. Il trasferimento dell'unità produttiva dei dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali di cui al precedente art. 19, dei candidati e dei membri di commissione interna può essere disposto solo previo nulla osta delle associazioni sindacali di appartenenza. Le disposizioni di cui al comma precedente ed ai commi quarto, quinto, sesto e settimo dell'art. 18 si applicano sino alla fine del terzo mese successivo a quello in cui è stata eletta la commissione interna per i candidati nelle elezioni della commissione stessa e sino alla fine dell'anno successivo a quello in cui è cessato l'incarico per tutti gli altri. ART. 23. - Permessi retribuiti. I dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali di cui all'art. 19 hanno diritto, per l'espletamento del loro mandato, a permessi retribuiti. Salvo clausole più favorevoli dei contratti collettivi di lavoro hanno diritto ai permessi di cui al primo comma almeno: a) un dirigente per ciascuna rappresentanza sindacale aziendale nelle unità produttive che occupano fino a 200 dipendenti della categoria per cui la stessa è organizzata; b) un dirigente ogni 300 o frazione di 300 dipendenti per ciascuna rappresentanza sindacale aziendale nelle unità produttive che occupano fino a 3.000 dipendenti della categoria per cui la stessa è organizzata; c) un dirigente ogni 500 o frazione di 500 dipendenti della categoria per cui è organizzata la rappresentanza sindacale aziendale nelle unità produttive di maggiori dimensioni, in aggiunta al numero minimo di cui alla precedente lett. b). I permessi retribuiti di cui al presente articolo non potranno essere inferiori a otto ore mensili nelle aziende di cui alle lett. b) e c) del comma precedente; nelle aziende di cui alla lett. a) i permessi retribuiti non potranno essere inferiori ad un'ora all'anno per ciascun dipendente. Il lavoratore che intende esercitare il diritto di cui al primo comma deve darne comunicazione scritta al datore di lavoro di regola 24 ore prima, tramite le rappresentanze sindacali aziendali. ART. 24. - Permessi non retribuiti. I dirigenti sindacali aziendali di cui all'art. 23 hanno diritto a permessi non retribuiti per la partecipazione a trattative sindacali o a congressi e convegni di natura sindacale, in misura non inferiore a otto giorni all'anno. I lavoratori che intendano esercitare il diritto di cui al comma precedente devono darne comunicazione scritta al datore di lavoro di regola tre giorni prima, tramite le rappresentanze sindacali aziendali. ART. 25. - Diritto di affissione. Le rappresentanze sindacali aziendali hanno diritto di affiggere, su appositi spazi, che il datore di lavoro ha l'obbligo di predisporre in luoghi accessibili a tutti i lavoratori all'interno dell'unità produttiva, pubblicazioni, testi e comunicati inerenti a materie di interesse sindacale e del lavoro. ART. 26. - Contributi sindacali. I lavoratori hanno diritto di raccogliere contributi e di svolgere opera di proselitismo per le loro organizzazioni sindacali all'interno dei luoghi di lavoro, senza pregiudizio del normale svolgimento dell'attività aziendale. 22 ART. 27. - Locali delle rappresentanze sindacali aziendali. Il datore di lavoro nelle unità produttive con almeno 200 dipendenti pone permanentemente a disposizione delle rappresentanze sindacali aziendali, per l'esercizio delle loro funzioni, un idoneo locale comune all'interno della unità produttiva o nelle immediate vicinanze di essa. Nelle unità produttive con un numero inferiore di dipendenti le rappresentanze sindacali aziendali hanno diritto di usufruire, ove ne facciano richiesta, di un locale idoneo per le loro riunioni. TITOLO IV DISPOSIZIONI VARIE E GENERALI ART. 28. - Repressione della condotta antisindacale. Qualora il datore di lavoro ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare l'esercizio della libertà e della attività sindacale nonché del diritto di sciopero, su ricorso degli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse, il pretore del luogo ove è posto in essere il comportamento denunziato, nei due giorni successivi, convocate le parti ed assunte sommarie informazioni, qualora ritenga sussistente la violazione di cui al presente comma, ordina al datore di lavoro, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti. L'efficacia esecutiva del decreto non può essere revocata fino alla scadenza con cui il tribunale definisce il giudizio instaurato a norma del comma successivo. Contro il decreto che decide sul ricorso è ammessa, entro 15 giorni dalla comunicazione del decreto alle parti, opposizione davanti al tribunale che decide con sentenza immediatamente esecutiva. Il datore di lavoro che non ottempera al decreto, di cui al primo comma, o alla sentenza pronunciata nel giudizio di opposizione è punito ai sensi dell'art. 650 del codice penale. L'autorità giudiziaria ordina la pubblicazione della sentenza penale di condanna nei modi stabiliti dall'art. 36 del codice penale. ART. 29. - Fusione delle rappresentanze sindacali aziendali. Quando le rappresentanze sindacali aziendali di cui all'art. 19 si siano costituite nell'ambito di due o più delle associazioni di cui alle lett. a) e b) del primo comma dell'articolo predetto, nonché nella ipotesi di fusione di più rappresentanze sindacali, i limiti numerici stabiliti dall'art. 23, secondo comma, si intendono riferiti a ciascuna delle associazioni sindacali unitariamente rappresentante nella unità produttiva. Quando la formazione di rappresentanze sindacali unitarie consegua alla fusione delle associazioni di cui alle lett. a) e b) del primo comma dell'art. 19, i limiti numerici della tutela accordata ai dirigenti di rappresentanze sindacali aziendali, stabiliti in applicazione dell'art. 23, secondo comma, ovvero del primo comma del presente articolo, restano immutati. ART. 30. - Permessi per i dirigenti provinciali e nazionali. I componenti degli organi direttivi, provinciali e nazionali, delle associazioni di cui all'art. 19 hanno diritto a permessi retribuiti, secondo le norme dei contratti di lavoro, per la partecipazione alle riunioni degli organi suddetti. ART. 31 - Aspettativa dei lavoratori chiamati a funzioni pubbliche elettive o a ricoprire cariche sindacali provinciali e nazionali. I lavoratori che siano eletti membri del Parlamento nazionale o di assemblee regionali ovvero siano chiamati ad altre funzioni pubbliche elettive possono, a richiesta, essere collocati in aspettativa non retribuita, per tutta la durata del loro mandato. La medesima disposizione si applica ai lavoratori chiamati a ricoprire cariche sindacali provinciali e nazionali. 23 I periodi di aspettativa di cui ai precedenti commi sono considerati utili, a richiesta dell'interessato, ai fini del riconoscimento del diritto e della determinazione della misura della pensione a carico della assicurazione generale obbligatoria di cui al R.D.L. 4 ottobre 1935, n. 1827, e successive modifiche ed integrazioni, nonché a carico di enti, fondi, casse e gestioni per forme obbligatorie di previdenza sostitutive della assicurazione predetta, o che ne comportino comunque l'esonero. Durante i periodi di aspettativa l'interessato, in caso di malattia, conserva il diritto alle prestazioni a carico dei competenti enti preposti alla erogazione delle prestazioni medesime. Le disposizioni di cui al terzo e al quarto comma non si applicano qualora a favore dei lavoratori siano previste forme previdenziali per il trattamento di pensione e per malattia, in relazione all'attività espletata durante il periodo di aspettativa. ART. 32. - Permessi ai lavoratori chiamati a funzioni pubbliche elettive. I lavoratori eletti alla carica di consigliere comunale o provinciale che non chiedano di essere collocati in aspettativa sono, a loro richiesta, autorizzati ad assentarsi dal servizio per il tempo strettamente necessario all'espletamento del mandato, senza alcuna decurtazione della retribuzione. I lavoratori eletti alla carica di sindaco o di assessore comunale, ovvero di presidente di giunta provinciale o di assessore provinciale, hanno diritto anche a permessi non retribuiti per un minimo di trenta ore mensili. TITOLO V NORME SUL COLLOCAMENTO ART. 33. - Collocamento. La commissione per il collocamento, di cui all'art. 26 della legge 29 aprile 1949, n. 264, è costituita obbligatoriamente presso le sezioni zonali, comunali e frazionali degli Uffici provinciali del lavoro e della massima occupazione, quando ne facciano richiesta le organizzazioni sindacali dei lavoratori più rappresentative. Alla nomina della commissione provvede il direttore dell'Ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione, il quale, nel richiedere la designazione dei rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro, tiene conto del grado di rappresentatività delle organizzazioni sindacali e assegna loro un termine di 15 giorni, decorso il quale provvede d'ufficio. La commissione è presieduta dal dirigente della sezione zonale, comunale, frazionale, ovvero da un suo delegato, e delibera a maggioranza dei presenti, in caso di parità prevale il voto del presidente. La commissione ha il compito di stabilire e di aggiornare periodicamente la graduatoria delle precedenze per l'avviamento al lavoro, secondo i criteri di cui al quarto comma dell'art. 15 della legge 29 aprile 1949, n. 264. Salvo il caso nel quale sia ammessa la richiesta nominativa, la sezione di collocamento, nella scelta del lavoratore da avviare al lavoro, deve uniformarsi alla graduatoria di cui al comma precedente, che deve essere esposta al pubblico presso la sezione medesima e deve essere aggiornata ad ogni chiusura dell'ufficio con la indicazione degli avviati. Devono altresì essere esposte al pubblico le richieste numeriche che pervengono dalle ditte. La commissione ha anche il compito di rilasciare il nulla osta per l'avviamento al lavoro ad accoglimento di richieste nominative o di quelle di ogni altro tipo che siano disposte dalle leggi o dai contratti di lavoro. Nei casi di motivata urgenza, l'avviamento è provvisoriamente autorizzato dalla sezione di collocamento e deve essere convalidato dalla commissione di cui al primo comma del presente articolo entro dieci giorni. Dei dinieghi di avviamento al lavoro per richiesta nominativa deve essere data motivazione scritta su apposito verbale in duplice copia, una da tenere presso la sezione di collocamento e 24 l'altra presso il direttore dell'Ufficio provinciale del lavoro. Tale motivazione scritta deve essere immediatamente trasmessa al datore di lavoro richiedente. Nel caso in cui la commissione neghi la convalida ovvero non si pronunci entro venti giorni dalla data della comunicazione di avviamento, gli interessati possono inoltrare ricorso al direttore dell'Ufficio provinciale del lavoro, il quale decide in via definitiva, su conforme parere della commissione di cui all'art. 25 della legge 29 aprile 1949, n. 264. I turni di lavoro di cui all'art. 16 della legge 29 aprile 1949, n. 264, sono stabiliti dalla commissione e in nessun caso possono essere modificati dalla sezione. Il direttore dell'Ufficio provinciale del lavoro annulla d'ufficio i provvedimenti di avviamento e di diniego di avviamento al lavoro in contrasto con le disposizioni di legge. Contro le decisioni del direttore dell'Ufficio provinciale del lavoro è ammesso ricorso al Ministro per il lavoro e la previdenza sociale. Per il passaggio del lavoratore dall'azienda nella quale è occupato ad un'altra occorre il nulla osta della sezione di collocamento competente. Ai datori di lavoro che non assumono i lavoratori per il tramite degli uffici di collocamento, sono applicate le sanzioni previste dall'art. 38 della presente legge. Le norme contenute nella legge 29 aprile 1949, n. 264, rimangono in vigore in quanto non modificate dalla presente legge. ART. 34. - Richieste nominative di manodopera. A decorrere dal novantesimo giorno all'entrata in vigore della presente legge, le richieste, nominative di manodopera da avviare al lavoro sono ammesse esclusivamente per i componenti del nucleo familiare del datore di lavoro, per i lavoratori di concetto e per gli appartenenti a ristrette categorie di lavoratori altamente specializzati. da stabilirsi con decreto del Ministro per il lavoro e la previdenza sociale, sentita la commissione centrale di cui alla legge 29 aprile 1949, n. 264. TITOLO VI DISPOSIZIONI FINALI E PENALI ART. 35. - Campo di applicazione. Per le imprese industriali e commerciali, le disposizioni dell'art. 18 e del titolo III, ad eccezione del primo comma dell'art. 27, della presente legge si applicano a ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo che occupa più di quindici dipendenti. Le stesse disposizioni si applicano alle imprese agricole che occupano più di cinque dipendenti. Le norme suddette si applicano, altresì, alle imprese industriali e commerciali che nell'ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti. Le norme suddette si applicano, altresì, alle imprese industriali e commerciali che nell'ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti. Ferme restando le norme di cui agli artt. 1 8, 9, 14, 15, 16 e 17, i contratti collettivi di lavoro provvedono ad applicare i principi di cui alla presente legge alle imprese di navigazione per il personale navigante. ART. 36. - Obblighi dei titolari di benefici accordati dallo Stato e degli appaltatori di opere pubbliche. Nei provvedimenti di concessione di benefici accordati ai sensi delle vigenti leggi dello Stato a favore di imprenditori che esercitano professionalmente un'attività economica organizzata e 25 nei capitolati di appalto attinenti all'esecuzione di opere pubbliche, deve essere inserita la clausola esplicita determinante l'obbligo per il beneficiario o appaltatore di applicare o di far applicare nei confronti dei lavoratori dipendenti condizioni non inferiori a quelle risultanti dai contratti collettivi di lavoro della categoria e della zona. Tale obbligo deve essere osservato sia nella fase di realizzazione degli impianti o delle opere che in quella successiva, per tutto il tempo in cui l'imprenditore benefica delle agevolazioni finanziarie e creditizie concesse dallo Stato ai sensi delle vigenti disposizioni di legge. Ogni infrazione al suddetto obbligo che sia accertata dall'Ispettorato del lavoro viene comunicata immediatamente ai Ministri nella cui amministrazione sia stata disposta la concessione del beneficio o dell'appalto. Questi adotteranno le opportune determinazioni, fino alla revoca del beneficio, e nei casi più gravi o nel caso di recidiva potranno decidere l'esclusione del responsabile, per un tempo fino a cinque anni, da qualsiasi ulteriore concessione di agevolazione finanziarie o creditizie ovvero da qualsiasi appalto. Le disposizioni di cui ai commi precedenti si applicano anche quando si tratti di agevolazioni finanziarie o creditizie ovvero di appalti concessi da enti pubblici, ai quali l'ispettorato del lavoro comunica direttamente le infrazioni per l'adozione delle sanzioni. ART. 37. - Applicazione ai dipendenti da enti pubblici. Le disposizioni della presente legge si applicano anche ai rapporti di lavoro e di impiego dei dipendenti da enti pubblici che svolgono esclusivamente o prevalentemente attività economica. Le disposizioni della presente legge si applicano altresì ai rapporti di impiego dei dipendenti dagli altri enti pubblici, salvo che la materia sia diversamente regolata da norme speciali. ART. 38. - Disposizioni penali. Le violazioni degli artt. 2, 4, 5, 6, 8 e 15 primo comma, lett. a), sono punite, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, con l'ammenda da lire 100.000 a lire un milione o con l'arresto da 15 giorni ad un anno. Nei casi più gravi le pene dell'arresto e dell'ammenda sono applicate congiuntamente. Quando, per le condizioni economiche del reo, l'ammenda stabilita nel primo comma può presumersi inefficace anche se applicata nel massimo, il giudice ha facoltà di aumentarla fino al quintuplo. Nei casi previsti dal secondo comma, l'autorità giudiziaria ordina la pubblicazione della sentenza penale di condanna nei modi stabiliti dall'art. 36 del codice penale. ART. 39. - Versamento delle ammende al Fondo adeguamento pensioni. L'importo delle ammende è versato al Fondo adeguamento pensioni dei lavoratori. ART. 40. - Abrogazione delle disposizioni contrastanti. Ogni disposizione in contrasto con le norme contenute nella presente legge è abrogata. Restano salve le condizioni dei contratti collettivi e degli accordi sindacali più favorevoli ai lavoratori. ART. 41 - Esenzioni fiscali. Tutti gli atti e documenti necessari per la attuazione della presente legge e per l'esercizio dei diritti connessi, nonché tutti gli atti e documenti relativi ai giudizi nascenti dalla sua applicazione sono esenti da bollo, imposte di registro o di qualsiasi altra specie e da tasse. 26 8. Storia DONNA E LAVORO Molto tempo è passato e molte cose sono cambiate da quando August Babel, uomo politico tedesco vissuto nella seconda metà del 1800, scriveva: “la donna proletaria è tre volte schiava, nell’officina, nella famiglia, nella società che le nega ogni diritto politico e la pienezza anche dei diritti civili”. Lotte per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, nonché per il diritto al voto e mutamenti di regime costituzionale hanno influito sulla produzione legislativa in relazione al ruolo assegnato alla donna nella famiglia e nella società civile. Gli studi più recenti sul lavoro delle donne nel nostro Paese pongono sempre più l’accento sulla parità uomo-donna, in maniera da superare quella oramai anacronistica normativa “protettiva” contenuta nelle prime leggi emanate in epoca liberale e, successivamente, dal regime fascista. Diritto al lavoro e parità di trattamento non sono, invero, rivendicazioni recenti del movimento femminile; già le femministe del secolo IXX° avevano individuato in essi alcuni degli obiettivi fondamentali per poter realizzare la loro emancipazione.(1). Invero, la condizione femminile nel mondo produttivo è stata inizialmente e per un lungo periodo di tempo ancorata ad una concezione distorta delle sue peculiarità fisiche e sociali; sulla base delle teorizzazioni di scienziati come Moebius, Lombroso e Ferreo, che parlavano della “inferiorità fisica e mentale della donna” come di fatto naturale e immutabile, essa è stata considerata anche dal nostro legislatore come un soggetto “debole”, quasi simile ai fanciulli e , perciò, bisognoso di tutela. Ne è derivata, di conseguenza, quell’impostazione protettiva che ha caratterizzato la prima disciplina del lavoro femminile, rendendolo particolarmente <<rigido>> e costoso, pertanto soggetto a limitazioni nell’accesso all’occupazione e a discriminazioni specie nel trattamento salariale, cercando così di neutralizzare gli oneri derivanti alle imprese dalla tutela della maternità. D’altro canto, la paura della dissocupazione costituiva una forte remora per i lavoratori di sesso maschile a fare fronte comune con le lavoratrici; del resto già i conservatori ed i liberali – nel dibattito alla Camera sulla legge Carcano del 1902 – avevano sostenuto che <<l’invasione delle donne in tanti lavori ed in tante industrie prima riservate agli uomini soltanto è un danno grave che riesce a detrimento dell’economia generale… perché la piaga della dissocupazione verrà ogni giorno diventando più acerba ed acuta…>>(2). In seguito il regime fascista ha accentuato la propria posizione contro l’occupazione femminile extradomestica, esaltando il ruolo della donna come <<angelo del focolare>> e, quindi, la sua attività nell’ambito delle pareti domestiche, evitando la concorrenza del lavoro femminile con quello maschile; perciò, sono stati escogitati mestieri <<tipicamente femminili>> e apposite mansioni sono state riservate alle donne, estromesse dalle attività più qualificate e sempre sotto-pagate rispetto agli uomini, pur nell’ambito delle stesse attività. Con la caduta del fascismo e l’avvento della Repubblica, si incomincia a delineare una svolta verso assetti più favorevoli alle rivendicazioni delle donne per il riconoscimento della loro uguaglianza di diritti nei confronti degli uomini. Questa troverà la sua consacrazione più alta nell’ambito di alcuni articoli della Carta Costituzionale che sanciscono la parità fra i due sessi, come l’art. 3, che riconosce pari dignità sociale e l’uguaglianza davanti alla legge a tutti i cittadini indipendentemente dal sesso, nonché l’art. 51, che afferma la possibilità per tutti i cittadini – uomini e donne – di accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza. Con specifico riguardo al lavoro l’art. 37 sancisce: << la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione>>. Quindi, la Costituzione repubblicana riconosce alla donna il diritto sia a svolgere una attività produttiva extradomestica in condizioni di parità con l’uomo, sa ad adempiere la propria 27 funzione materna – che deve essere oggetto di una specifica (ora contenuta nel T.U. n. 151/2001) protezione – con la garanzia per la lavoratrice di essere madre senza che la maternità debba o possa pregiudicare la sua posizione lavorativa e la parità di trattamento. Dall’interpretazione coordinata degli art. 3, 4 e 37 della Carta Costituzionale se ne può dedurre che la donna ha il diritto-dovere di esercitare un’attività professionale a pieno titolo come l’uomo; questo esercizio deve svolgersi su un piano di eguaglianza senza che discriminazioni basate sul sesso finiscano per comprimerla o limitarla. Molte delle norme della Carta costituzionale si sa, tuttavia, che hanno carattere più di un programma e abbisognano di leggi approvate dal Parlamento per poter trovare una più concreta applicazione. La trasposizione in legge delle diverse norme riguardanti la parità è stata alquanto lenta e faticosa; nel decennio tra il ’50 e il ’60 risulta ancora una mancata divaricazione tra i principi innovativi introdotti dalla Carta Costituzionale e le limitate modifiche legislative apportate al precedente sistema normativo, certamente in un quadro eminentemente conservativo del vecchio assetto dei rapporti economico-sociali. Nei primi anni ’60 viene approvata la legge 9 gennaio 1963, n. 7, che riguarda il divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio: la legge segna una svolta importante nel costume italiano. Se non chè io ricordo benissimo che le aziende ricorrevano ad una scappatoia: assumevano le donne, anche laureate, purché firmassero un impegno di loro dimissioni in caso di matrimonio. È del 9 febbraio 1963 la legge n. 66 che apre alle donne l’accesso nei pubblici uffici: alla magistratura, alla polizia e a i gradi elevati della pubblica amministrazione. Si deve però giungere agli anni ’70 perché, dall’imporsi del nuovo modello culturale, basato sull’affermazione dei concetti di libertà, dignità, nasca una legislazione più sensibile e attenta alle problematiche femminili con particolare riguardo alle discriminazioni sia di tipo giuridico che sociale. Il principio dell’eguaglianza tra i sessi, ratificato solennemente dalla Costituzione, è stato, invero, spesso smentito nella realtà; criteri diversi per maschi e femmine sono stati usati nelle assunzioni e nella progressione di carriera, così che le donne finiscono per ricoprire posti di second’ordine e rimangono di frequente nei gradini più bassi della gerarchia professionale. È divenuta perciò sempre maggiore la consapevolezza che la legislazione sul lavoro femminile dovesse tendere alla parificazione tra uomo e donna e in quest’ottica è maturata la legge 9.12.1977, n. 903, la cd. legge di parità. Essa vieta ogni discriminazione tra i lavoratori indipendentemente dal sesso al momento dell’assunzione, nella formazione professionale, durante lo svolgimento e al momento dell’estinzione del rapporto di lavoro, a tutti i livelli della gerarchia professionale, qualunque sia il settore o il ramo di attività. In considerazione, però, della maggiore facilità e della particolare gravità delle discriminazioni a sfavore della <<debolezza>> del lavoro femminile, che non va certamente identificata con una minore produttività di origine fisiopsichica – come pretestuosamente molto spesso si sostiene -, ma che trae la sua origine da ragioni socioeconomico-culturali che sono identificabili appunto nel maggior costo della manodopera femminile, nel più alto tasso di assenteismo, nelle distorsioni del sistema scolastico, formativo e di avviamento al lavoro, in una minore mobilità per quanto riguarda gli spostamenti territoriali, in una minore flessibilità nei turni, in una più ridotta <<disponibilità>> specie al lavoro straordinario a causa del suo ruolo casalingo, non ché in maggiori condizionamenti anche di ordine legale, allo svolgimento di determinate attività. Dal legislatore del ’77 le capacità competitive del lavoro femminile vengono rafforzate sia con il divieto di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, che con la fiscalizzazione delle due ore di riposo giornaliero a cui le lavoratrici madri hanno diritto per il primo anno di vita del bambino: misura tendente al ridimensionamento del costo globale della manodopera 28 femminile rispetto a quella maschile. Inoltre, tanto con la possibilità anche per il padre di fruire di permessi prima riservati solo alla madre in modo da poter ridurre l’assenteismo per maternità delle lavoratrici, quanto con la revisione del divieto di lavoro notturno per le donne, nonché con l’abolizione delle limitazioni al lavoro femminile, pur quando si tratta di norme in favore, privilegi non più giustificabili dal momento che in questa legge si è affermata la parità fra uomo e donna di fronte al lavoro. I contenuti essenziali della legge n. 903 del 1977 rappresentano un contributo di non trascurabile rilievo per rimuovere le preclusioni, le barriere, gli ostacoli che ancora si oppongono ad una effettiva eguaglianza, ad un inserimento pieno e qualificato delle donne nel lavoro a tutti i livelli ed in tutti i settori produttivi. Tale normativa, secondo quanto sottolineato in particolare dalla relazione illustrativa al progetto governativo, si prefigge di perseguire l’obiettivo del <<superamento di ogni residua situazione di inferiorità e di discriminazioni, nella legislazione come nel costume, allo scopo di consentire alla donna la piena realizzazione di sé stessa in ogni campo>>, impegnandosi per raggiungere tale ambizioso obiettivo in una duplice direzione: impedire ogni forma di discriminazione basata sul sesso e, contestualmente, ridurre in modo significativo la tutela specifica della donna in quanto lavoratrice. La legge del ’77, infatti, segna un importante, pur se graduale, cambiamento di tendenza nella legislazione sul lavoro della donna, determinando il passaggio dalla protezione, rivelatasi dannosa per l’occupazione femminile, a una parità formale di trattamento in materia di lavoro. L’affermazione della parità dei diritti tra uomini e donne nell’ambito del rapporto di lavoro e il divieto di discriminazione nell’accesso al lavoro e nella formazione professionale, quindi, supera il vecchio concetto di protezione della lavoratrice, che ha solitamente significato sia le ghettizzazione della manodopera femminile all’interno del mercato di lavoro, sia la precarietà del lavoro femminile. È restata, invece, ai margini di tale normativa <<la più vasta tematica della uguaglianza delle opportunità di lavoro, cioè della loro promozione positiva>>. Le donne del Parlamento, del sindacato e le non molte del mondo dirigenziale e imprenditoriale avvertivano dunque la necessità di un ulteriore passo, che portasse tutte le donne più che a un generico traguardo di parità ad un obiettivo di pari opportunità al fine di raggiungere una equilibrata rappresentanza nell’ambito del lavoro, nonché del sociale, della politica e dell’economia. Perciò, nel gennaio 1987 fu presentato in Senato il primo disegno di legge di iniziativa governativa dall’allora Ministro del Lavoro, Formica. Rimase fermo in Parlamento, a causa dei veti incrociati di diverse lobby imprenditoriali, per circa cinque anni e finalmente divenne legge dello Stato il 10 aprile 1991, con il titolo di “azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro”. Nel periodo tra il ’77 e il ’91 vennero intanto firmati dal Governo due importanti decreti: il 2 dicembre del 1983 venne istituito, con decreto del Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale, il comitato nazionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento e uguaglianza di opportunità tra i lavoratori e lavoratrici”; il 12 giugno 1984, Presidente del Consiglio l’On. Craxi, venne istituita con decreto del Presidente del Consiglio “la Commissione azionale per la realizzazione della parità tra uomo e donna”. La prima Commissione, che fu presieduta dalla sen. Marinucci, lavorò molto per farsi conoscere e per impostare un progetto di modifica della cultura del Paese in tema di pari opportunità. L’attività e la composizione della seconda Commissione parità, presieduta dall’On. Anselmi, sono state disciplinate attraverso la legge 22 giugno del 1990, n. 164, che fissa la composizione e i compiti della Commissione stessa. Ma torniamo alla legge n. 125 del 1991. L’obiettivo dichiarato della legge è quello di realizzare l’uguaglianza sostanziale, e non solo formale, fra uomini e donne nel lavoro rimuovendo gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità. Di qui la necessità di adottare specifiche politiche con l’intento di realizzare una parità reale, sostanziale, non più solo formale, una effettiva uguaglianza di opportunità mediante la predisposizione delle c.d. azioni positive.(3) 29 Lo strumento per favorire e raggiungere le pari opportunità sono , quindi, le “azioni positive”, ovvero tutte quelle iniziative dirette a favorire l’occupazione delle donne, anche in professioni dove sono sottorappresentate, a promuovere la loro carriera superando quelle condizioni di lavoro che possono ostacolarla, favorendo l’accesso delle donne anche al lavoro autonomo ed imprenditoriale; promovendo l’equilibrio fra responsabilità familiari e professionali e, quindi, una migliore ripartizione di tali responsabilità fra i due sessi (art. 1). La prospettiva dell’uguaglianza sostanziale di opportunità, sancita dalla legge, tende di per sé a superare i termini in cui si è tradizionalmente impostato il rapporto fra eguaglianza e specificità fra i sessi nelle condizioni di lavoro: ciò perché l’obiettivo perseguito non è la garanzia-promozione di situazioni giuridiche o di fatto identiche, ma la creazione di condizioni tali da permettere a soggetti anche diversi, nel nostro caso in quanto appartenenti ai diversi sessi, la piena espressione delle loro potenzialità. Le azioni positive a favore delle donne possono essere promosse unilateralmente da aziende, enti pubblici, sindacati; ma soprattutto possono essere attuate con accordi collettivi fra sindacati ed imprese. I progetti di azioni positive contrattate collettivamente sono quelli privilegiati ed hanno priorità nei finanziamenti pubblici di sostegno, previsti dalla stessa legge. In questo modo il legislatore ha non solo confermato la legittimità delle azioni positive per le donne (che fino a prima della legge n. 125 era dubbia), ma ha voluto incentivarle con agevolazioni finanziarie; questo perché l’obiettivo di migliorare la qualità del lavoro femminile è ritenuto di interesse pubblico. La tipologia delle azioni positive è libera, sta alle parti vedere quali azioni sono più utili nel singolo contesto di lavoro. Per esempio: corsi di formazione specifici per donne; piani di reclutamento e di carriere per riequilibrare la partecipazione delle donne, specie ai gradi alti dell’impegno; riorganizzazioni del tempo di lavoro per favorire l’occupazione femminile; congedi parentali, ecc.. È ovvio che la promozione del lavoro femminile, per quanto volontaria e graduale, se non vuole essere fittizia, modifica necessariamente situazioni precedenti, in cui le opportunità di lavoro e di qualificazione professionale sono state obiettivamente a favore degli uomini. Per ciò stesso introduce un elemento di competizione ulteriore e di possibile contrasto, che può essere particolarmente evidente in periodi di difficoltà occupazionale. Di fronte alla ricerca di vantaggi specifici riservati alle donne, nasce l’interrogativo di come si possa conciliare una misura esclusivamente vantaggiosa per le donne con la parità formale tra i sessi affermata nella legislazione degli Stati moderni. La risposta viene dall’art. 4 della Costituzione sulla eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni unite nel dicembre 1979, secondo cui <<l’adozione da parte degli Stati di misure speciali temporanee miranti ad accelerare l’instaurazione di un’uguaglianza di fatto fra gli uomini e le donne non può essere considerato un atto discriminatorio>> nei confronti degli uomini. Anche la CEE ha precisato nell’art. 2.4. della Direttiva 76/207 che <<la presente Direttiva non fa ostacolo a misure che mirino a promuovere l’uguaglianza di opportunità in particolare per porre rimedio alle ineguaglianze di fatto che colpiscono le donne>>; in altri termini misure promozionali, finalizzate a correggere forme di ineguaglianza o discriminazione sono pienamente compatibili con il principio di parità uomo-donna in materia di lavoro. Pertanto negli Stati membri della CEE o in quelle Nazioni che, come l’Italia, hanno ratificato la Convenzione di New York, possono essere ben considerate legittime anche in assenza di un’apposita legislazione nazionale. Con l’intento, tuttavia, di superare ogni perplessità sulla loro legittimità e soprattutto per sollecitarne una sempre più ampia diffusione è stata realizzata anche nel nostro Paese una normativa <<ad hoc>>, appunto la legge n. 125/91. Secondo essa, in un caso, le azioni positive possono essere ordinate dal giudice (art. 4). Quando il giudice accerta la esistenza di discriminazioni collettive a danno di una pluralità di 30 donne, che non possono essere corrette con sanzioni individuali, può ordinare alle imprese di stabilire un piano per eliminare tali discriminazioni, fissando un termine. Per esempio, se accerta una discriminazione sistematica nelle assunzioni o nella promozione delle donne, può ordinare che il datore di lavoro aumenti la proporzione delle donne rispetto agli uomini in tutte le assunzioni e promozioni future fino al completo riequilibrio. L’ordine del giudice è penalmente sanzionato. Un’altra innovazione importante della legge è la definizione precisa dei concetti di discriminazione diretta ed indiretta. Viene definito come discriminatorio ogni comportamento che produca un effetto pregiudizievole anche in via indiretta, ai lavoratori a ragione del sesso. Basta che il comportamento si oggettivamente pregiudizievole, qualunque sia l’intenzione del soggetto discriminante. La discriminazione è indiretta quando l’effetto pregiudizievole dipende dall’adozione di criteri che avvantaggiano in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori di un sesso e riguardino requisiti non essenziali all’attività lavorativa (art. 4). La legge ha così chiarito un punto molto controverso nella pratica e nella giurisprudenza non solo italiane. L’innovazione poi più significativa della legge n. 125 è la modifica del regime di onere della prova. Il lavoratore discriminato (di solito la donna) dovrà provare, anche con statistiche , di aver subìto un effetto pregiudizievole a causa del sesso: ad esempio, non essere stata assunta o promossa, pur avendo le qualità professionali richieste; o di non essere pagata meno dagli uomini svolgenti lo stesso lavoro o lavori simili. A questo punto toccherà al datore di lavoro provare che la propria decisione è motivata da ragioni valide, diverse dal sesso: cioè ad esempio, che occorrevano requisiti particolari oggettivi per quel lavoro non posseduti dalla donna ricorrente. Inoltre, la legge ha previsto che ogni atto discriminatorio, se posto in essere da imprenditori i quali ricevano agevolazioni finanziarie dallo Stato o sono titolari di appalti pubblici, può comportare la revoca dei benefici esistenti e l’esclusione da ulteriori concessioni per un periodo di tempo di due anni. Si tratta di una sanzione amministrativa particolarmente grave che è stata aggiunta alle sanzioni esistenti, perché queste sono di fatto poco efficaci in molti casi, in particolare la sanzione di nullità degli atti discriminatori. L’ultima novità introdotta della legge riguarda le cosiddette istituzioni della parità: i Consiglieri di parità ed il Comitato nazionale per l’eguaglianza. Il Comitato nazionale, fino ad allora esistente sulla base di un decreto ministeriale, è ora confermato dalla legge. I suoi compiti sono prevalentemente consultivi, ma potenzialmente di grande rilievo: dare parere sulle azioni positive per il finanziamento pubblico; formulare proposte legislative in materia di parità; elaborare codici di comportamento sulla stessa materia; proporre soluzioni alle controversie collettive. Una terza innovazione della legge riguarda le azioni in giudizio e le sanzioni. Finora la legittimazione ad agire in giudizio era limitata alla singola lavoratrice discriminata, il che limitava molto di fatto la possibilità effettiva di agire. L’art. 4, n. 7 prevede che nel caso di discriminazioni collettive ( che sono le più importanti e frequenti) l’azione in giudizio può essere proposta dal “consigliere di parità” regionale (nominato dal Ministero del Lavoro in ogni regione). Per concludere, con la legge n. 125 possiamo dire che siamo passati dalla cultura della parità a quella delle pari opportunità. Questa nuova fase della legislazione che segna il passaggio dalla parità formale alle pari opportunità non è certo indolore, in quanto affronta in termini politici il problema della eliminazione delle cause strutturali che determinano o favoriscono le discriminazioni che colpiscono le donne nell’esercizio di un loro diritto fondamentale, quello al lavoro e alla parità di diritti nel lavoro. Perciò sono indispensabili interventi che interessano tanto il campo socio-economico quanto il costume e i comportamenti, collettivi e individuali, presenti nella nostra società. È indispensabile creare una cultura che corrisponda ai principi paritari; è 31 necessario passare dalle affermazioni di principio contenute nelle leggi alla realizzazione effettiva di una uguaglianza sostanziale o di fatto. Maria Luisa De Cristofaro Note: (1): già Clemence Royer nel 1889 rivendicava il diritto al lavoro per le donne: <<in quell’epoca primitiva dello sviluppo della specie, le donne non avevano da rivendicare il diritto al lavoro perché vi erano costrette dalla necessità. È solo oggi che loro lo si contesta; oggi che esso può dare onore e profitto, ecc… Questo diritto al lavoro abbiatelo caro, difendetelo, esercitatelo, perché esso racchiude tutti gli altri diritti e li farà cadere nelle vostre mani come frutti maturi>>. Prima di lei Malwida von Meysenburg aveva espresso una opinione analoga: <<per la prima volta pensai seriamente alla necessità che ha la donna di conquistare l’indipendenza economica con le sue proprie forze>>; la rincalzava Fanny Lewald: <<questa domanda delle donne che esigevano un salario giusto per un buon lavoro, mise sulla retta strada la questione dell’uguaglianza delle donne. Da allora in poi si poté parlare con onore della loro emancipazione>>. Questi brani sono riportati da F. Pieroni Bortolotti, Alle origini del movimento femminile in Italia (1848-1892), Torino, 1963, p. 28. (2): V. Atti Parlamentari, Camera Deputati, legisl. XXI, 2° Sess., discussioni, tornata dal 19.3.1902, pp. 317-318 (3): l’azione positiva – secondo la definizione datane dal Comitato per l’uguaglianza fra uomo e donna del Consiglio d’Europa – è <<una strategia destinata a stabilire l’uguaglianza delle opportunità, grazie a misure che permettono di contrastare o correggere discriminazioni che sono il risultato di pratiche o di sistemi sociali>>. Anche a livello comunitario, nella Raccomandazione del Consiglio della CEE n. 84/635 del 13.12.1984, si prevede la promozione di azioni positive a favore delle donne, invitandosi gli Stati membri – tra cui è anche l’Italia – ad adottare provvedimenti intesi ad <<eliminare le disparità di fatto di cui le donne sono oggetto nella vita lavorativa ed a promuovere l’occupazione mista>>, con la finalità di: <<a) eliminare o compensare gli effetti negativi derivanti, per le donne che lavorano o ricercano un lavoro, da atteggiamenti, comportamenti e strutture basati su una divisione tradizionale dei ruoli all’interno della società, tra uomini e donne; b) incoraggiare la partecipazione delle donne alle varie attività nei settori della vita lavorativa nei quali esse siano attualmente sotto rappresentate, in particolare nei settori d’avvenire, e ai livelli superiori di responsabilità per ottenere una migliore utilizzazione di tutte le risorse umane>>. In altri termini – con l’intento di realizzare una effettiva parità dei diritti delle donne nella vita professionale – si sollecitano gli Stati membri ad adottare delle misure <<promozionali>>, finalizzate a conseguire una eguaglianza di opportunità per le donne, tanto nell’accesso al lavoro quanto nello svolgimento di un’attività professionale. La stessa Comunità Economica europea ha svolto direttamente un ruolo importante nella promozione delle parità delle opportunità per un uguale partecipazione delle donne come degli uomini alla vita economica e sociale mediante la predisposizione di appositi programmi di azione: un primo piano relativo al periodo 1982/’85 ed un secondo per il quinquennio 1986/’90; un terzo per il quinquennio 1991-1995; un quarto per il quinquennio 1996-2000; infine, un quinto per il quinquennio 2001-2005. Il quinquennio 1986/’90 riguarda un numero rilevante di azioni concernenti l’occupazione delle donne, in particolare per favorire una partecipazione uguale ai posti attinenti alle nuove tecnologie. 32