Martedì 30 novembre 2004 TUMORE DELLA MAMMELLA Prof. P.F.Conte PROGRESSIONE CLINICA Il Carcinoma mammario insorge dalle cellule che ricoprono i dotti galattofori, le quali, per eventi mutazionali, diventano cancerose e formano la lesione in situ non infiltrante (mediante i processi già spiegati di iniziazione – promozione – progressione). Il Carcinoma evolve fino al vero e proprio tumore allo stadio I, a localizzazione mammaria, e da qui può diffondere ai linfonodi (stadio II). Si continua ad estendere localmente fino ad andare a configurare il quadro clinico del carcinoma mammario localmente avanzato (stadio III), che coinvolge i tessuti circostanti (cute, linfonodi, piano osseo sottostante), e nell’ultimo stadio (IV) di progressione clinica il tumore diffonde per via ematogena ad altri organi, soprattutto scheletro, polmone, fegato e cervello. Le terapie a disposizione per contrastare questa evoluzione sono: - di tipo locale: la chirurgia e la radioterapia; - di tipo sistemico: la chemioterapia, la terapia ormonale e una nuova terapia mirata su bersagli molecolari (mediante Anticorpi). Il trattamento locale, per definizione, ha efficacia solo locale. Nessun trattamento locale è in grado di curare un tumore che si è già diffuso oltre la mammella. EVOLUZIONE DEL TRATTAMENTO LOCALE CHIRURGICO DEL CARCINOMA MAMMARIO Nel 1907 Halsted (USA, John Hopking’s Hospital) stabilì i principi della chirurgia radicale oncologica. A livello mammario, questa prevedeva la mastectomia radicale (mastectomia radicale secondo Halsted) e si basava sul fatto che era possibile guarire dal tumore solamente se il chirurgo riusciva ad asportare il tumore primitivo e tutti quei tessuti circostanti attraverso i quali obbligatoriamente il tumore doveva passare prima di dare una diffusione di tipo sistemico. Quanto più era bravo e demolitivo il chirurgo , tanto più aumentava la probabilità di guarigione, se ancora non era avvenuta la diffusione ai tessuti circostanti. L’applicazione di questa tecnica chirurgica prevedeva l’asportazione globale della ghiandola mammaria, del muscolo pettorale, e di tutte le stazioni linfatiche drenanti la ghiandola mammaria (linfonodi del cavo ascellare, della catena mammaria interna e sovraclavicolari). Si trattava di un intervento estremamente demolitivo: - sia dal punto di vista estetico, perché l’asportazione del m.pettorale provocava una grossa asimmetria toracica; 1 - sia dal punto di vista funzionale, perché causava spesso linfedema importante all’arto superiore (difficile da curare) e alterazioni della motilità della spalla. Nel 1948 Patey, pur seguendo il principio della chirurgia radicale, cercò di ridurre i danni estetici proponendo una mastectomia radicale modificata (rimasta in applicazione fino agli anni ’90). Questa prevedeva la conservazione del muscolo gran pettorale, riducendo il danno estetico (perché il piano costale rimaneva coperto) sia il danno funzionale della spalla. Ancora oggi il 40% delle donne ammalate in Italia riceve questo tipo di trattamento, seppur con qualche variazione. Negli anni ’80 cominciò a svilupparsi il concetto che non è sempre vero che i tumori, e in particolare quello della mammella, evolvano dal punto di vista clinico nel modo ordinato sostenuto da Halsted. Non è vero che il tumore solo dopo aver raggiunto certe dimensioni sia in grado di infiltrare il resto del parenchima mammario e i tessuti circostanti, né che solo dopo aver fatto questo sia in grado di metastatizzare ai linfonodi, né che solo dopo aver invaso i linfonodi possa dare metastasi a distanza. Se tutto questo fosse vero, la chirurgia radicale dovrebbe modificare la prognosi del tumore alla mammella, perché asportare il tessuto sano presente alla stazione successiva a quella a cui il tumore è arrivato lungo il suo ipotetico percorso obbligato significherebbe guarire dal tumore. L’evoluzione del trattamento locale chirurgico verificatasi nell’ultimo secolo è legata: - a considerazioni di ordine biologico ed osservazioni cliniche le quali dimostrarono che in molti tumori, e in particolare in quello della mammella, questa progressione ordinata non si verificava sempre; - all’accumulo di dati clinici che dimostrano che pur modificando l’estensione della chirurgia non si modifica la prognosi del tumore; - allo sviluppo di terapie alternative, di tipo farmacologico e radiante Il prof.Veronesi disegnò degli studi in grado di dimostrare che la chirurgia conservativa, che prevedeva l’exeresi parziale della gh.mammaria + dissezione del cavo ascellare + radioterapia, era equivalente alla chirurgia radicale.Questi studi randomizzati con follow-up di oltre 20 anni hanno comparato i due diversi approcci terapeutici, dimostrando che non c’era alcun vantaggio aggiuntivo nella chirurgia radicale rispetto a quella conservativa. A seguito di questi risultati si è andato incontro ad una graduale riduzione della estensione della chirurgia mammaria. Oggi, oltre che di quadrantectomia, si parla addirittura di semplice tumorectomia: si asporta quel che resta del tumore dopo la terapia sistemica preoperatoria, e il linfonodo sentinella (= il primo linfonodo che drena il quadrante in cui è situato il tumore). Quest’ultimo viene sottoposto a biopsia e se risulta positivo, si devono asportare anche gli altri linfonodi della catena. L’oncologia medica è una specialità medica recente, nata negli Stati Uniti e non ancora riconosciuta in tutti i paesi del mondo. 2 Per accedere all’oncologia medica… In Italia: corso di laurea in medicina e chirurgia corso di specialità in oncologia medica (4 aa) Negli Usa: corso di laurea in medicina e chirurgia corso di specialità in medicina interna corso di specialità in oncologia medica (sottospecialità della medicina interna, è considerata una subspecialty) Negli Stati Uniti, quando ancora non esisteva la subspecialty, tutti quelli che si occupavano della terapia dei tumori erano degli internisti-ematologi. L’oncologia medica si sviluppò per un evento casuale… Negli anni ’60 un ragazzo della famiglia Kennedy si ammalò di osteosarcoma del femore, tumore dell’osso letale nel 100% dei casi in quel periodo, con possibilità di salvezza solo per intervento di disarticolazione dell’arto. Questa operazione precludeva qualsiasi possibilità protesica, poiché prevedeva l’asportazione anche di parte del bacino. I medici cercarono alternative all’ipotesi di un intervento così demolitivo. Studi condotti dall’ “??? Institute” avevano già osservato che l’osteosarcoma metastatico (metastasi a distanza spt polmonari) aveva delle regressioni quando trattato con chemioterapici. I Kennedy imposero, in assenza di evidenze scientifiche, linee guida o protocolli di trattamento che ne giustificassero l’impiego, ai medici di somministrare i chemioterapici prima di sottoporre a chirurgia il ragazzo, accettando tutti i rischi del caso. Il tumore rispose in maniera ottimale alla chemioterapia e regredì fino al punto da permettere solo una resenzione del femore e impianto protesico. Questo è stato il primo caso in cui la terapia medica sistemica ha potuto modificare l’estensione della chirurgia. Sulla base di questo singolo caso, sono stati rivisti tutti i casi di tumore della mammella operati da Halsted, padre della chirurgia radicale, e confrontati con altrettanti casi di tumore alla mammella non operati (storia naturale del tumore della mammella). La differenza nella sopravvivenza tra i due gruppi era infinitamente più ridotta di quanto i chirurghi convinti assertori della chirurgia radicale oncologica credessero. Tutto ciò (dati biologici, clinici e alternative terapeutiche a disposizione) ha messo in dubbio per molti tumori, compreso quello della mammella, la reale rilevanza della chirurgia radicale. Oggi si sostiene che: la chirurgia radicale oncologica non esiste, ma esiste la chirurgia adeguata. La storia naturale del tumore può essere modificata solo se si è in grado di interpretare le caratteristiche biologiche del tumore e si applicano le strategie terapeutiche adeguate. MODELLI DI DIFFUSIONE TUMORALE Secondo l’ipotesi di Halsted il tumore della mammella, e così tutti i tumori, cresce localmente, invade i tessuti circostanti, poi i linfonodi e solo a questo punto può dare metastasi a distanza. (Tumore locale linfonodi metastasi a distanza) 3 Secondo questa ipotesi se opero alla stazione successiva a quella in cui il tumore logicamente dovrebbe progredire, blocco la diffusione tumorale e guarisco il paziente. Secondo l’ipotesi di Fisher quello che condiziona la progressione clinica è la biologia del tumore. La cancerogenesi è un processo multisteps: ad ogni step corrispondono danni genetici. Ad ogni danno genetico corrisponde l’acquisizione di proprietà biologiche particolari. La successione di danni genetici fa sì che alcune cellule del tumore possano molto precocemente acquisire capacità metastatiche, perciò può capitare che un tumore anche estremamente piccolo, senza aver infiltrato i tessuti circostanti né i linfonodi, abbia già dato metastasi a distanza. Secondo l’ipotesi di Helmann (spectrum model) il tumore fin da subito può dare sia una diffusione locale che sistemica. Queste ipotesi sono tutte vere: vi sono tumori che crescono, come Halsted sosteneva, in maniera ordinata e progressiva, ci sono tumori che crescono e d’amblé danno metastasi a distanza e tumori che seguono sia la via ordinata che quella delle metastasi d’amblè. Queste diverse tipologie di diffusione tumorale valgono per tutti i tumori, non solo per quello della mammella. La diffusione dipende dal tipo di evento genetico che il tumore ha avuto nella sua storia biologica pre-clinica. A seconda del tipo di tumore, varia la probabilità che sia prevalente un tipo di diffusione rispetto ad un altro. Nel tumore della mammella li troviamo tutti e tre. In molti sarcomi è presente un modello di diffusione di tipo Halstediano. INDICATORI PROGNOSTICI La sfida del clinico è cercare di capire quale parametro (clinico, anatomo-patologico, biologico,…) può meglio guidarlo ad interpretare la biologia del tumore che ha di fronte. Nel caso del tumore della mammella il parametro più importante è lo stato dei linfonodi ascellari, perché è una spia dell’aggressività biologica del tumore. Maggiore è il numero dei linfonodi positivi, tanto più è elevata l’aggressività del tumore. L’asportazione dei linfonodi ascellari non modifica la prognosi della paziente, ma dà un’informazione utile per capire che rischio ha questa paziente. Grafico (proiettato ma non presente tra le diapositive su internet): Sopravvivenza libera da ripresa di malattia in donne tutte radicalmente operate (con svuotamento del cavo ascellare) messa in relazione con lo stato dei linfonodi ascellari: la curva arancione mostra la sopravvivenza in donne con linfonodi negativi; la curva verde mostra l’andamento della sopravvivenza in donne con n° di linfonodi positivi = 1-3; le altre curve valutano donne con n° di linfonodi positivi = 4-10; n° = 11-20, e con n° superiore a 20. Vi sono grandi differenze a seconda del numero di linfonodi invasi. Tuttavia anche il 40% delle donne con linfonodi negativi ha una ripresa di malattia entro 10 aa. La ripresa di malattia quasi sempre porta a morte dopo 2-3 anni. 4 Gli indicatori prognostici servono per capire che cosa è già successo nella biologia del tumore. Sono: 1) istotipo: - la maggior parte sono carcinomi duttali - il 10% sono lobulari - alcune varianti rare con prognosi migliore sono: il tubulare e il cribriforme (rappresentano l’1-2%) 2) stato linfonodale 3) dimensioni del tumore Grafico “Tassi di sopravvivenza a 5 anni in accordo alle dimensioni tumorali e allo stato linfonodale”: relazione tra diametro del tumore e altri parametri: la sopravvivenza a 5 anni in donne con linfonodi ascellari negativi diminuisce man mano che aumenta il diametro del tumore. Lo stesso avviene in donne con linfonodi positivi. 4) grado di differenziazione: - francamente differenziato - moderatamente differenziato - scarsamente differenziato Meno è differenziato un tumore, tanto più è alta la probabilità di ripresa di malattia dopo trattamento. Fattori biologici che ci aiutano a definire il rischio individuale di ripresa di malattia e ad individuare la migliore strategia terapeutica, sono: 1) Recettori ormonali intracitoplasmatici ed intranucleari. Sono presenti nel 70% dei tumori della mammella. Sono recettori per - Estrogeni - Progesterone 2) Ploidia (= contenuto di DNA). Quanto più una cellula è aneuploide, tanto peggiore è la prognosi. 3) Indicatori di proliferazione. Quanto più un tumore è proliferante, tanto peggiore è la prognosi. Può essere misurato con diverse metodiche: contando le mitosi, Ki67, MIB1 (anticorpo che colora le cellule proliferanti dà un valore percentuale che indica quante cellule si trovano in mitosi) 4) Espressione dell’oncogene: HER2/neu, della famiglia dell’epidermal growth factor receptors. E’ over-espresso in circa il 25% dei carcinomi della mammella. La over-espressione si accompagna ad una peggior prognosi. 5) Espressione della p53: quando mutata in genere predice una minor efficacia della terapia medica. Procedura del linfonodo sentinella Il linfonodo sentinella è il primo linfonodo del distretto linfatico tributario che drena il settore in cui è presente il tumore. Viene identificato iniettando nel tumore un 5 colorante blu (o una sostanza radiotrattata) il linfonodo sentinella è il primo linfonodo che si colora di blu ( o che contiene il radioisotopo). Oggi si privilegia la procedura radioguidata. E’ consigliato nelle pz con: - tumore < 2 cm - linfonodi non palpabili Se l’anatomo-patologo riscontra infiltrazione tumorale del linfonodo sentinella il chirurgo procede nell’asportazione di tutti i linfonodi del cavo ascellare. Se il linfonodo sentinella è negativo, non si procede ulteriormente. E’ un grosso vantaggio risparmiare i linfonodi ascellari, sia perché si accorciano i tempi dell’intervento chirurgico, sia perché si evitano problemi di drenaggio linfatico (linfangiti a seguito di piccole ferite a carico dell’arto). INCIDENZA DEL TUMORE DELLA MAMMELLA Oggi le donne hanno acquisito maggiore consapevolezza dell’importanza di salvaguardare la propria salute. Per le donne di età superiore ai 50 anni esiste una procedura di screening del tumore della mammella, che si esegue mediante mammografia. Incidenza: circa 30000 diagnosi /anno in Italia. Di queste: - 6 % dei casi (ma la percentuale va progressivamente crescendo) è un carcinoma in situ si parla di diagnosi precoce, con tumore allo stadio 0, perché le sue cellule non sono ancora in grado di infiltrare la membrana basale. - 45 % dei casi è un carcinoma infiltrante con N0, e di questi il 20% è classificabile come carcinoma a basso rischio, mentre l’80% a rischio intermedio. Si parla di tumore a basso rischio di ripresa di malattia dopo trattamento adeguato quando la percentuale di morire a causa di questa malattia è meno del 10 % . - 36 % dei casi è un tumore infiltrante con N+ (linfonodi del cavo ascellare positivi) considerato per definizione ad alto rischio, perché se non trattato avrebbe più del 40% di rischio di ripresa di malattia - 9 % dei casi (percentuale che tende a diminuire grazie alle procedure di screening) è un tumore allo STADIO III oppure un IBC (= carcinoma infiammatorio della mammella). L’IBC ha un’insorgenza rapidissima ed andamento clinico di tipo leucemico. In epoca pre-chemioterapica la vita media dalla diagnosi era di 4-6 mesi. Le donne morivano per metastasi cerebrali ed epatiche. E’ molto raro. Lo screening non è efficace. Rientrano in questo 9% anche le diagnosi di tumore della mammela in donne molto giovani (per cui non te lo aspetti) e gravide (il che ritarda di molto la diagnosi sia per la presenza di turgore mammario fisiologico, sia perché in gravidanza si cercano di evitare esami diagnostici che prevedono l’utilizzo di raggi x) - 4 % dei casi la diagnosi viene fatta in seguito alla presenza di metastasi. In genere sono persone anziane o con problemi sociali importanti (tali da 6 trascurare la propria salute). Si presentano con mal di schiena da metastasi ossee o con ittero da metastasi epatiche,… STRATEGIE TERAPEUTICHE • Stadio IV terapia della malattia metastatica • Stadio III o per l’IBC la chirurgia inizialmente ha puramente un ruolo diagnostico di conferma tramite biopsia. L’esame anatomo-patologico diagnostica il tumore e ce ne fornisce importanti caratteristiche. Dopodiché il trattamento d’elezione è la terapia sistemica (chemioterapia). Se c’è risposta seguirà trattamento locale di tipo chirurgico e/o radioterapico. Fotografia 1(non presente tra le diapo su internet). Mammella con cute a buccia d’arancia (è molto più attaccata al sottocute perché è infiltrata dal tumore) e retrazione del capezzolo. Fotografia 2 (non presente tra le diapo su internet). Mammella con enorme tumore infiammatorio che ha già dato ulcerazione cutanea. In questi casi non è proponibile la chirurgia d’amblé, va seguito lo schema biopsia + chemioterapia + (se il tumore ha risposto alla tp sistemica) chirurgia e/o radioterapia. Grafico (non presente tra le diapo su internet). Curve di sopravvivenza del tumore localmente avanzato dopo l’uso di una strategia terapeutica multimodale: - i tumori allo Stadio III A (tumori > 5 cm, esclusi IBC) trattati con chemioterapia + chirurgia + radioterapia hanno un 20% in più di guarigione rispetto a quelli trattati con solo chirurgia + radioterapia. - la sopravvivenza in caso di tumore allo stadio IIIB o IBC è più che raddoppiata se trattati con chemioterapia prima della chirurgia e della radioterapia. • Come abbiamo già detto, la maggior parte dei tumori della mammella (il 45%) viene diagnosticato allo stadio di: Carcinoma infiltrante con N0. Tra questi distinguiamo casi a basso rischio e a rischio intermedio di ripresa di malattia. Ma quali sono i criteri per discriminare questi due gruppi? A basso rischio sono i tumori con linfonodi negativi e TUTTE queste caratteristiche: - Grado 1 (= tumore ben differenziato) - T ≤ 2 cm (dato che deve essere fornito dall’anatomo-patologo) - Età > 35 anni - Recettori ormonali + A rischio intermedio sono considerati i tumori con linfondi negativi ed ALMENO UNA tra queste caratteristiche: - Recettori ormonali – - T ≥ 2 cm - Grado 2-3 - Età < 35 anni 7 Raccomandazioni terapeutiche in pazienti apparentemente curate dalla terapia medica e chirurgica (con esami sangue – Rx torace – eco epatica – scan ossea: negativi): Nel tumore in situ non c’è praticamente alcun rischio che infiltri e dia metastasi a distanza, ma la diagnosi implica una alta probabilità che già ci siano altri tumori in situ nella stessa mammella o in quella controlaterale. Distinguiamo: - LCIS = lobular carcinoma in situ: in questo caso è talmente frequente la contemporanea presenza di altre lesioni in situ che non viene nemmeno considerata una lesione neoplastica, ma un semplice indicatore di rischio di sviluppare neoplasia. Si asporta chirurgicamente e non si fa altro. - DCIS = duttal carcinoma in situ: quanto più è grande, multicentrico e meno differenziato, tanto più è probabile che vi siano altre lesioni duttali in situ nel resto della ghiandola mammaria. Non si conoscono i tempi di evoluzione di questo tipo di tumore da lesione in situ a infiltrante. Va trattato con l’asportazione chirurgica e, se multicentrico, grande o poco differenziato, va irradiato il resto del parenchima. Negli Stati Uniti per questo tipo di lesione è raccomandato un trattamento post-operatorio ormonale con Tamoxifene (antiestrogeno), perché alcuni studi hanno osservato una riduzione del rischio di sviluppare successive lesioni duttali in situ in donne trattate. Per quanto riguarda i carcinomi infiltranti con N0 a basso rischio (20%): o non si fa nulla o si fa tp ormonale (tamoxifene). Gli studi dimostrano che il rischio di ripresa di malattia è < 10%. Il tamoxifene riduce del 40% questo rischio. Ciò significa che ogni 100 donne a cui somministro l’antiestrogeno: - 90 le tratto inutilmente, perché il tumore è stato già guarito dalla terapia chirurgica (essendo il rischio di ripresa del 10%) - delle 10 in cui la malattia riprende, 6 le tratto inutilmente perché il tumore comunque recidiva nonostante il tamoxifene (evidentemente aveva già acquisito le capacità biologiche tali da renderlo refrattario alla tp ormonale) e solo 4 le tratto utilmente. Questa considerazione è importante sia in termini farmaco-economici (ne tratto 100 perché ne traggano beneficio solo 4) sia per gli effetti collaterali del tamoxifene. Ogni volta che un medico decide di fare un trattamento preventivo va sempre ben tenuto in conto il volere del pz. Ognuno ha un proprio concetto di “rischio”: per alcune donne il 10% di rischio è un valore molto elevato e inaccettabile, perciò richiedono il trattamento con tamoxifene per ridurlo, nonostante gli effetti collaterali. Vanno bilanciati rischi/benefici. Il trattamento ormonale è sicuramente meglio tollerato della chemioterapia. Il tamoxifene ha effetto anti-estrogenico in certi tessuti e simil-estrogenico in altri (es.endometrio). Gli effetti collaterali del Tamoxifene sono: - aumentato rischio di tromboembolia polmonare: rarissima, ma potenzialmente mortale 8 - induzione di iperplasia endometriale: praticamente sempre presente. Spesso dà sintomi trascurabili, quali leucorrea e pochi spots ematici, altre volte può dare polipi endometriali e molto raramente carcinomi dell’endometrio. Ha anche effetti positivi: ad es. aumenta la BMD, Bone Mineral Density, con effetto anti-osteoporotico. L’80% dei carcinomi infiltranti N0, presenta almeno una delle caratteristiche precedentemente elencate, per cui va considerato a rischio intermedio. Queste donne hanno un rischio che va dal 10 al 40% di ripresa di malattia. Vengono considerate pz da trattare. - I 2/3 di queste donne avrà un tumore a recettori ormonali positivi, che risponderà alla terapia ormonale. In base all’età distinguiamo circa: • 1/3 di donne in epoca pre-menopausale: hanno diverse alternative terapeutiche, alcune di pari validità altre che si possono combinare per aumentare l’efficacia. Tra le alternative endocrine ci sono la castrazione (mai chirurgica o radiante, quasi sempre farmacologica con agonisti dell’LHRH) e il tamoxifene. In una donna la castrazione induce i disturbi soggettivi ed oggettivi della menopausa. Castrazione e tamoxifene si possono combinare per aumentare l’efficacia della terapia. Tuttavia il trattamento più valido è quello che associa la terapia ormonale e la chemioterapia: abbassa il rischio del 30-60%. • 2/3 in epoca post-menopausale. L’unica terapia ormonale possibile è quella con il tamoxifene. Oggi il tamoxifene sta per essere sostituito da farmaci ormonali più efficienti e potenti che sono gli inibitori dell’aromatasi. In Europa questi farmaci non sono ancora stati registrati soprattutto per motivi di ordine economico. E’ consentito il loro utilizzo solo in caso di impossibilità di usare il tamoxifene. Altro schema terapeutico efficace è: tamoxifene + chemioterapia. - Il restante 30% circa ha un tumore a recettori ormonali negativi che può essere trattato solo con la chemioterapia. I Carcinomi infiltranti con linfonodi positivi (N+) sono tutti considerati ad alto rischio di ripresa di malattia. Il rischio è compreso tra il 40-80% e varia in base al numero di linfonodi positivi. Anche in questo caso il trattamento è differenziato in base allo stato recettoriale. Se il tumore presenta recettori ormonali si attuano le stesse alternative precedenti (tamoxifene / analoghi del GnRH / chemioterapia). Nell’ambito della chemioterapia vi sono vari regimi possibili, di diversa efficacia e tollerabilità. TRATTAMENTI ADIUVANTI (attualmente approvati in Europa) 9 Trattamenti ormonali: Gold Standards - Premenopausa: ablazione ovarica attuata quasi sempre con agonisti LHRH, raramente è chirurgica - Pre e post-menopausa: tamoxifene (20 mg x 5 anni) - Inibitori dell’aromatasi (enzima fondamentale nella steroidogenesi - serve per convertire qualunque steroide in estrogeno): funzionano solo in postmenopausa, perché non sono in grado di inibire la produzione ovarica di estrogeni. Vanno riservati ai casi di intolleranza al tamoxifene. Chemioterapia Sostanzialmente sono due i regimi chemioterapici usati: - CMF: Ciclofosfamide (un alchilante) + Metotrexate e Fluorouracile (antimetaboliti). Riduce il rischio di ripresa di malattia di circa il 40% (meno efficace rispetto all’ormono-terapia) - Antracicline: come effetto collaterale principale danno l’alopecia completa, ma completamente reversibile. Riducono il rischio di ripresa di malattia del 50%. Grafico (non presente tra le diapositive su internet): Dimostra come la terapia abbia oggi modificato la prognosi del tumore della mammella. Curve di sopravvivenza in donne con N+ dopo intervento chirurgico adeguato e non in tp. Donne che avevano tumori con linfonodi positivi e con recettori ormonali negativi hanno in media un rischio annuale di ripresa di malattia del 15%: ogni anno il 15% ha una ripresa di malattia. Facendo una chemiotp-adiuvante con CMF, il rischio annuale di ripresa di malattia scende all’11,4%. Facendo chemiotp a base di Antracicline il rischio scende al 10%. Attuando regimi moderni che includono taxani o antracicline in 6 cicli anziché 4, si arriva a un rischio annuale del 6,5%. Sulla base dei risultati ottenuti nel tumore localmente avanzato (che, ricordiamo, segue il protocollo: biopsia + chemioterapia + chirurgia + tp adiuvante sistemica), sono stati disegnati degli studi per valutare se anche tumori piccoli e operabili della mammella, in cui è indicata una tp adiuvante post-operatoria, siano da trattare a livello sistemico anche prima del trattamento locale. Osservazioni a favore di questa strategia: 1) fare d’amblè un trattamento sistemico in una patologia che comunque lo richiede a un certo punto del suo protocollo terapeutico è logico. Va a colpire le eventuali metastasi, che sono potenzialmente letali. 2) nell’80% dei casi il tumore mammario regredisce o totalmente o parzialmente (= più del 50%) e rende la chirurgia conservativa ancora più ridotta. 3) ci fornisce un parametro diretto del singolo tumore trattato: più regredisce tanto più il tumore risponderà alla terapia post-operatoria. Ci dà anche indicazione su quali farmaci sono più appropriati. 10 MALATTIA METASTATICA In Italia, nonostante la diagnosi precoce, i trattamenti locali adeguati, i trattamenti adiuvanti pre e post-operatori sistemici, ancora il 25-30% di donne sviluppa una malattia metastatica. E’ una percentuale che sta diminuendo, inferiore a quella percepita dalla popolazione. Tre donne su quattro malate di cancro della mammella guariscono. Che strategie terapeutiche vanno usate? Le metastasi compaiono qualche anno dopo la diagnosi di tumore primitivo e mediamente vengono diagnosticate intorno ai 66 anni. La maggior parte delle donne in queste condizioni ha seguito un terapia adiuvante (chemiotp o ormonotp). I 2/3 ha recettori ormonali positivi, ¼ ha over-espressione dell’oncogene HER2/neu. L’oncogene HER2/neu (c-erb B2 or neu) codifica per un Recettore intracitoplasmatico che interagendo col ligando conferisce proprietà biologiche particolari alla cellula e induce proliferazione. L’over-espressione dà un vantaggio alla cellula tumorale rispetto alla cellula normale. E’ un recettore della famiglia dei growth factors. E’ costituito da una porzione extracitoplasmatica, una intramembrana, una intracitoplasmatica. E’ presente nel 25-30% dei tumori infiltranti della mammella e in circa il 60% dei carcinomi duttali in situ della mammella. Conferisce maggiore aggressività al tumore. Ha significato prognostico negativo. Viene riconosciuto tramite immunoistochimica grazie ad un anticorpo monoclonale che si lega alla porzione extracitoplasmatica l’anatomo-patologo valuta l’intensità di colorazione del vetrino su cui avviene la reazione che va da 0 a +++. Sono da considerarsi anormali i valori : ++ e +++. Dal punto di vista prognostico e di predittività di efficacia al trattamento specifico diretto contro il recettore quello che ci interessa è il valore +++ (che corrisponde ad una forte colorazione del preparato e quindi alla presenza di HER2/neu nella maggior parte delle cellule tumorali). A questi pattern di colorazione immunoistochimica corrispondono diversi livelli di amplificazione dell’oncogene che codifica per questo recettore di membrana. L’amplificazione si valuta tramite ibridizzazione in situ. + = normale espressione del gene ++ = anormale espressione ma con amplificazione bassa +++ = amplificazione alta. Predice una maggiore aggressività, peggior prognosi, ma una miglior risposta a tp mirata Dati che dimostrano che, a parità di altri fattori, lo stato di amplificazione dell’oncogene HER2/neu predice l’andamento della malattia: sopravvivenza media del carcinoma mammario: senza over-espressione 6-7 anni con over-espressione 3 anni Negli anni ’90 si è prodotto un Anticorpo contro la parte extracitoplasmatica del recettore HER2. E’ un anticorpo umanizzato, chiamato Trastuzumab. Legandosi al 11 recettore ne blocca la funzione, rendendo la cellula che over-esprime il recettore come una cellula normale. Il Trastuzumab modifica il comportamento biologico della cellula tumorale al punto che, se associato a chemioterapia, prolunga del 40% la sopravvivenza del tumore metastatico che over-esprime l’oncogene. La over-espressione di HER2/neu di per sé è un fattore prognostico negativo, ma è stato trasformato in fattore positivo, poiché rappresenta un nuovo target verso cui mirare la terapia. Per ricerca traslazionale si intende quella che partendo dal laboratorio procede fino all’uomo: (provetta animale UOMO – “dal bancone del laboratorio fino al letto del malato”). A volte succede esattamente il contrario. Ad esempio, solo in seguito ad osservazioni cliniche si è rilevato che questo Ac monoclonale diretto contro il recettore HER2 quando somministrato ai pz induce nel 41% dei casi una insufficienza cardiaca congestizia. I fisiologi hanno scoperto che il gene HER2 è essenziale per lo sviluppo di un miocardio normale e per la prevenzione della cardiomiopatia. I topini Knockout per l’HER2 hanno una cardiomiopatia dilatativa. Nonostante i progressi, il tumore mammario in fase metastatica è da considerarsi una malattia non guaribile. Tuttavia si può entro certi limiti curare i sintomi, migliorare la qualità della vita, prolungare la durata della vita. Tutto questo è possibile se utilizziamo in maniera appropriata i farmaci a disposizione, ma consapevoli del fatto che prima o poi saremo costretti ad usarli tutti. Essendo una malattia non guaribile, la sequenza di utilizzo è importante se vogliamo prolungare la vita, ma mantenendo una qualità di vita accettabile. Innanzitutto va presa in considerazione la ormonoterapia. Ha effetto citostatico (= inibisce la proliferazione) e azione lenta. Richiede molto più tempo rispetto alla chemioterapia per osservare una risposta clinica. Fattori importanti per scegliere la ormonoterapia sono: - stato dei recettori ormonali (solo se presenti è efficace) determinato su biopsia del tumore primario o, se non disponibile, delle metastasi. - intervallo libero da malattia > 2 anni. Se un tumore ha dato metastasi molto rapidamente dopo la diagnosi iniziale, si tratta di un tumore estremamente aggressivo ed è possibile che pur essendoci recettori ormonali, il tumore non risponda alla ormonotp. - Assenza di metastasi viscerali. Metastasi linfonodali, scheletriche, cutanee possono essere dolorose, ma non mettono in immediato pericolo di vita. Si può impostare una terapia anche se ad azione lenta come la ormonoterapia. Metastasi cerebrali o epatiche invece implicano una certa urgenza di trattamenti rapidi. - qualsiasi condizione clinica Ciascuna terapia ormonale ha efficacia limitata nel tempo. Insorge resistenza sia perché vengono selezionate le cellule meno sensibili sia perché nella sua progressione il carcinoma tende a diventare ormono-indipendente. La terapia ormonale va impiegata secondo le seguenti sequenze: 12 1) Tamoxifene: è una molecola simile all’estrogeno che si lega al sito recettoriale dell’estrogeno, occupandolo e impedendo all’estrogeno di legarsi. Ha effetto antiestrogenico su ghiandola mammaria e cellule tumorali; effetto estrogenico su endometrio e scheletro. 2) Inibitori dell’aromatasi: solo per le donne in post-menopausa. Agiscono a livello periferico (osseo, adiposo, surrenale) inibendo l’aromatasi, enzima chiave della steroidogenesi. 3) Progestinici: agiscono secondo un meccanismo ancora non chiaro a livello recettoriale. Hanno effetto citotossico diretto sul dna. 4) Fulvestrant: è un antiestrogeno puro, che distrugge il recettore dell’estrogeno. E’ un antagonista irreversibile. Prima o poi si arriverà a dover impiegare la chemioterapia, perché il tumore diventa ormono-refrattario. La chemioterapia è la prima scelta per tumori che non esprimono recettori ormonali. Una dose di chemioterapia è in grado di uccidere fino al 50% di cellule tumorali. Ha azione rapida. Si possono seguire schemi diversi con tante associazioni chemioterapiche diverse. Prima o poi nella malattia metastatica vanno usate tutte, ma anche in questo caso è fondamentale la sequenza di utilizzo. Esistono scale di valori che misurano la condizione clinica (performance status) del singolo pz: una scala europea detta indice di Carnosky cha va da 0 (peggiore) -100 (migliore) e procede di 10 in 10; una scala americana che va da 0 (migliore condizione)- 4(peggiore). Un pz con indice di Carnosky 10-20 (o 4 in scala americana) non può fare chemioterapia aggressiva, in questo caso l’obiettivo primario del trattamento è la palliazione del sintomo tramite farmaci poco tossici. Al contrario pz giovani, in buone condizioni vanno trattati rapidamente con chemioterapia aggressiva per arrestare la crescita tumorale ed allungare la sopravvivenza. Gli argomenti non trattati a lezione (es. tumori ginecologici e del tratto gastroenterico) vanno comunque studiati perché potranno essere argomento dei quiz. Per studiare potete fare riferimento alle diapositive che trovate su internet. L’esame si svolgerà sottoforma di quiz. Chi vorrà modificare il voto, potrà integrare con l’esame orale. 13