Martedì 30 novembre 2004
TUMORE DELLA MAMMELLA
Prof. P.F.Conte
PROGRESSIONE CLINICA
Il Carcinoma mammario insorge dalle cellule che ricoprono i dotti galattofori, le
quali, per eventi mutazionali, diventano cancerose e formano la lesione in situ non
infiltrante (mediante i processi già spiegati di iniziazione – promozione –
progressione). Il Carcinoma evolve fino al vero e proprio tumore allo stadio I, a
localizzazione mammaria, e da qui può diffondere ai linfonodi (stadio II). Si continua
ad estendere localmente fino ad andare a configurare il quadro clinico del carcinoma
mammario localmente avanzato (stadio III), che coinvolge i tessuti circostanti (cute,
linfonodi, piano osseo sottostante), e nell’ultimo stadio (IV) di progressione clinica il
tumore diffonde per via ematogena ad altri organi, soprattutto scheletro, polmone,
fegato e cervello.
Le terapie a disposizione per contrastare questa evoluzione sono:
- di tipo locale: la chirurgia e la radioterapia;
- di tipo sistemico: la chemioterapia, la terapia ormonale e una nuova terapia
mirata su bersagli molecolari (mediante Anticorpi).
Il trattamento locale, per definizione, ha efficacia solo locale. Nessun trattamento
locale è in grado di curare un tumore che si è già diffuso oltre la mammella.
EVOLUZIONE DEL TRATTAMENTO LOCALE CHIRURGICO DEL
CARCINOMA MAMMARIO
Nel 1907 Halsted (USA, John Hopking’s Hospital) stabilì i principi della chirurgia
radicale oncologica. A livello mammario, questa prevedeva la mastectomia radicale
(mastectomia radicale secondo Halsted) e si basava sul fatto che era possibile guarire
dal tumore solamente se il chirurgo riusciva ad asportare il tumore primitivo e tutti
quei tessuti circostanti attraverso i quali obbligatoriamente il tumore doveva
passare prima di dare una diffusione di tipo sistemico. Quanto più era bravo e
demolitivo il chirurgo , tanto più aumentava la probabilità di guarigione, se ancora
non era avvenuta la diffusione ai tessuti circostanti.
L’applicazione di questa tecnica chirurgica prevedeva l’asportazione globale della
ghiandola mammaria, del muscolo pettorale, e di tutte le stazioni linfatiche drenanti
la ghiandola mammaria (linfonodi del cavo ascellare, della catena mammaria interna
e sovraclavicolari).
Si trattava di un intervento estremamente demolitivo:
- sia dal punto di vista estetico, perché l’asportazione del m.pettorale provocava
una grossa asimmetria toracica;
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- sia dal punto di vista funzionale, perché causava spesso linfedema importante
all’arto superiore (difficile da curare) e alterazioni della motilità della spalla.
Nel 1948 Patey, pur seguendo il principio della chirurgia radicale, cercò di ridurre i
danni estetici proponendo una mastectomia radicale modificata (rimasta in
applicazione fino agli anni ’90). Questa prevedeva la conservazione del muscolo gran
pettorale, riducendo il danno estetico (perché il piano costale rimaneva coperto) sia il
danno funzionale della spalla. Ancora oggi il 40% delle donne ammalate in Italia
riceve questo tipo di trattamento, seppur con qualche variazione.
Negli anni ’80 cominciò a svilupparsi il concetto che non è sempre vero che i tumori,
e in particolare quello della mammella, evolvano dal punto di vista clinico nel modo
ordinato sostenuto da Halsted. Non è vero che il tumore solo dopo aver raggiunto
certe dimensioni sia in grado di infiltrare il resto del parenchima mammario e i tessuti
circostanti, né che solo dopo aver fatto questo sia in grado di metastatizzare ai
linfonodi, né che solo dopo aver invaso i linfonodi possa dare metastasi a distanza. Se
tutto questo fosse vero, la chirurgia radicale dovrebbe modificare la prognosi del
tumore alla mammella, perché asportare il tessuto sano presente alla stazione
successiva a quella a cui il tumore è arrivato lungo il suo ipotetico percorso obbligato
significherebbe guarire dal tumore.
L’evoluzione del trattamento locale chirurgico verificatasi nell’ultimo secolo è legata:
- a considerazioni di ordine biologico ed osservazioni cliniche le quali
dimostrarono che in molti tumori, e in particolare in quello della mammella,
questa progressione ordinata non si verificava sempre;
- all’accumulo di dati clinici che dimostrano che pur modificando l’estensione
della chirurgia non si modifica la prognosi del tumore;
- allo sviluppo di terapie alternative, di tipo farmacologico e radiante
Il prof.Veronesi disegnò degli studi in grado di dimostrare che la chirurgia
conservativa, che prevedeva l’exeresi parziale della gh.mammaria + dissezione del
cavo ascellare + radioterapia, era equivalente alla chirurgia radicale.Questi studi
randomizzati con follow-up di oltre 20 anni hanno comparato i due diversi approcci
terapeutici, dimostrando che non c’era alcun vantaggio aggiuntivo nella chirurgia
radicale rispetto a quella conservativa.
A seguito di questi risultati si è andato incontro ad una graduale riduzione della
estensione della chirurgia mammaria. Oggi, oltre che di quadrantectomia, si parla
addirittura di semplice tumorectomia: si asporta quel che resta del tumore dopo la
terapia sistemica preoperatoria, e il linfonodo sentinella (= il primo linfonodo che
drena il quadrante in cui è situato il tumore). Quest’ultimo viene sottoposto a biopsia
e se risulta positivo, si devono asportare anche gli altri linfonodi della catena.
L’oncologia medica è una specialità medica recente, nata negli Stati Uniti e non
ancora riconosciuta in tutti i paesi del mondo.
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Per accedere all’oncologia medica…
In Italia: corso di laurea in medicina e chirurgia corso di specialità in oncologia
medica (4 aa)
Negli Usa: corso di laurea in medicina e chirurgia corso di specialità in medicina
interna  corso di specialità in oncologia medica (sottospecialità della medicina
interna, è considerata una subspecialty)
Negli Stati Uniti, quando ancora non esisteva la subspecialty, tutti quelli che si
occupavano della terapia dei tumori erano degli internisti-ematologi.
L’oncologia medica si sviluppò per un evento casuale…
Negli anni ’60 un ragazzo della famiglia Kennedy si ammalò di osteosarcoma del
femore, tumore dell’osso letale nel 100% dei casi in quel periodo, con possibilità di
salvezza solo per intervento di disarticolazione dell’arto. Questa operazione
precludeva qualsiasi possibilità protesica, poiché prevedeva l’asportazione anche di
parte del bacino. I medici cercarono alternative all’ipotesi di un intervento così
demolitivo. Studi condotti dall’ “??? Institute” avevano già osservato che
l’osteosarcoma metastatico (metastasi a distanza spt polmonari) aveva delle
regressioni quando trattato con chemioterapici. I Kennedy imposero, in assenza di
evidenze scientifiche, linee guida o protocolli di trattamento che ne giustificassero
l’impiego, ai medici di somministrare i chemioterapici prima di sottoporre a chirurgia
il ragazzo, accettando tutti i rischi del caso. Il tumore rispose in maniera ottimale alla
chemioterapia e regredì fino al punto da permettere solo una resenzione del femore e
impianto protesico. Questo è stato il primo caso in cui la terapia medica sistemica ha
potuto modificare l’estensione della chirurgia.
Sulla base di questo singolo caso, sono stati rivisti tutti i casi di tumore della
mammella operati da Halsted, padre della chirurgia radicale, e confrontati con
altrettanti casi di tumore alla mammella non operati (storia naturale del tumore della
mammella). La differenza nella sopravvivenza tra i due gruppi era infinitamente più
ridotta di quanto i chirurghi convinti assertori della chirurgia radicale oncologica
credessero.
Tutto ciò (dati biologici, clinici e alternative terapeutiche a disposizione) ha messo in
dubbio per molti tumori, compreso quello della mammella, la reale rilevanza della
chirurgia radicale. Oggi si sostiene che: la chirurgia radicale oncologica non esiste,
ma esiste la chirurgia adeguata. La storia naturale del tumore può essere modificata
solo se si è in grado di interpretare le caratteristiche biologiche del tumore e si
applicano le strategie terapeutiche adeguate.
MODELLI DI DIFFUSIONE TUMORALE
Secondo l’ipotesi di Halsted il tumore della mammella, e così tutti i tumori, cresce
localmente, invade i tessuti circostanti, poi i linfonodi e solo a questo punto può dare
metastasi a distanza. (Tumore locale linfonodi metastasi a distanza)
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Secondo questa ipotesi se opero alla stazione successiva a quella in cui il tumore
logicamente dovrebbe progredire, blocco la diffusione tumorale e guarisco il
paziente.
Secondo l’ipotesi di Fisher quello che condiziona la progressione clinica è la biologia
del tumore. La cancerogenesi è un processo multisteps: ad ogni step corrispondono
danni genetici. Ad ogni danno genetico corrisponde l’acquisizione di proprietà
biologiche particolari. La successione di danni genetici fa sì che alcune cellule del
tumore possano molto precocemente acquisire capacità metastatiche, perciò può
capitare che un tumore anche estremamente piccolo, senza aver infiltrato i tessuti
circostanti né i linfonodi, abbia già dato metastasi a distanza.
Secondo l’ipotesi di Helmann (spectrum model) il tumore fin da subito può dare sia
una diffusione locale che sistemica.
Queste ipotesi sono tutte vere: vi sono tumori che crescono, come Halsted sosteneva,
in maniera ordinata e progressiva, ci sono tumori che crescono e d’amblé danno
metastasi a distanza e tumori che seguono sia la via ordinata che quella delle
metastasi d’amblè. Queste diverse tipologie di diffusione tumorale valgono per tutti i
tumori, non solo per quello della mammella.
La diffusione dipende dal tipo di evento genetico che il tumore ha avuto nella sua
storia biologica pre-clinica. A seconda del tipo di tumore, varia la probabilità che sia
prevalente un tipo di diffusione rispetto ad un altro. Nel tumore della mammella li
troviamo tutti e tre. In molti sarcomi è presente un modello di diffusione di tipo
Halstediano.
INDICATORI PROGNOSTICI
La sfida del clinico è cercare di capire quale parametro (clinico, anatomo-patologico,
biologico,…) può meglio guidarlo ad interpretare la biologia del tumore che ha di
fronte.
Nel caso del tumore della mammella il parametro più importante è lo stato dei
linfonodi ascellari, perché è una spia dell’aggressività biologica del tumore.
Maggiore è il numero dei linfonodi positivi, tanto più è elevata l’aggressività del
tumore. L’asportazione dei linfonodi ascellari non modifica la prognosi della
paziente, ma dà un’informazione utile per capire che rischio ha questa paziente.
Grafico (proiettato ma non presente tra le diapositive su internet): Sopravvivenza
libera da ripresa di malattia in donne tutte radicalmente operate (con svuotamento del
cavo ascellare) messa in relazione con lo stato dei linfonodi ascellari: la curva
arancione mostra la sopravvivenza in donne con linfonodi negativi; la curva verde
mostra l’andamento della sopravvivenza in donne con n° di linfonodi positivi = 1-3;
le altre curve valutano donne con n° di linfonodi positivi = 4-10; n° = 11-20, e con n°
superiore a 20. Vi sono grandi differenze a seconda del numero di linfonodi invasi.
Tuttavia anche il 40% delle donne con linfonodi negativi ha una ripresa di malattia
entro 10 aa. La ripresa di malattia quasi sempre porta a morte dopo 2-3 anni.
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Gli indicatori prognostici servono per capire che cosa è già successo nella biologia
del tumore. Sono:
1) istotipo:
- la maggior parte sono carcinomi duttali
- il 10% sono lobulari
- alcune varianti rare con prognosi migliore sono: il tubulare e il cribriforme
(rappresentano l’1-2%)
2) stato linfonodale
3) dimensioni del tumore
Grafico “Tassi di sopravvivenza a 5 anni in accordo alle dimensioni tumorali e
allo stato linfonodale”: relazione tra diametro del tumore e altri parametri: la
sopravvivenza a 5 anni in donne con linfonodi ascellari negativi diminuisce man
mano che aumenta il diametro del tumore. Lo stesso avviene in donne con
linfonodi positivi.
4) grado di differenziazione:
- francamente differenziato
- moderatamente differenziato
- scarsamente differenziato
Meno è differenziato un tumore, tanto più è alta la probabilità di ripresa di
malattia dopo trattamento.
Fattori biologici che ci aiutano a definire il rischio individuale di ripresa di malattia
e ad individuare la migliore strategia terapeutica, sono:
1) Recettori ormonali intracitoplasmatici ed intranucleari. Sono presenti nel 70%
dei tumori della mammella. Sono recettori per
- Estrogeni
- Progesterone
2) Ploidia (= contenuto di DNA). Quanto più una cellula è aneuploide, tanto
peggiore è la prognosi.
3) Indicatori di proliferazione. Quanto più un tumore è proliferante, tanto
peggiore è la prognosi. Può essere misurato con diverse metodiche: contando le
mitosi, Ki67, MIB1 (anticorpo che colora le cellule proliferanti  dà un valore
percentuale che indica quante cellule si trovano in mitosi)
4) Espressione dell’oncogene: HER2/neu, della famiglia dell’epidermal growth
factor receptors. E’ over-espresso in circa il 25% dei carcinomi della
mammella. La over-espressione si accompagna ad una peggior prognosi.
5) Espressione della p53: quando mutata in genere predice una minor efficacia
della terapia medica.
Procedura del linfonodo sentinella
Il linfonodo sentinella è il primo linfonodo del distretto linfatico tributario che drena
il settore in cui è presente il tumore. Viene identificato iniettando nel tumore un
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colorante blu (o una sostanza radiotrattata)  il linfonodo sentinella è il primo
linfonodo che si colora di blu ( o che contiene il radioisotopo). Oggi si privilegia la
procedura radioguidata.
E’ consigliato nelle pz con:
- tumore < 2 cm
- linfonodi non palpabili
Se l’anatomo-patologo riscontra infiltrazione tumorale del linfonodo sentinella il
chirurgo procede nell’asportazione di tutti i linfonodi del cavo ascellare.
Se il linfonodo sentinella è negativo, non si procede ulteriormente. E’ un grosso
vantaggio risparmiare i linfonodi ascellari, sia perché si accorciano i tempi
dell’intervento chirurgico, sia perché si evitano problemi di drenaggio linfatico
(linfangiti a seguito di piccole ferite a carico dell’arto).
INCIDENZA DEL TUMORE DELLA MAMMELLA
Oggi le donne hanno acquisito maggiore consapevolezza dell’importanza di
salvaguardare la propria salute. Per le donne di età superiore ai 50 anni esiste una
procedura di screening del tumore della mammella, che si esegue mediante
mammografia.
Incidenza: circa 30000 diagnosi /anno in Italia. Di queste:
- 6 % dei casi (ma la percentuale va progressivamente crescendo) è un
carcinoma in situ  si parla di diagnosi precoce, con tumore allo stadio 0,
perché le sue cellule non sono ancora in grado di infiltrare la membrana basale.
- 45 % dei casi è un carcinoma infiltrante con N0, e di questi il 20% è
classificabile come carcinoma a basso rischio, mentre l’80% a rischio
intermedio. Si parla di tumore a basso rischio di ripresa di malattia dopo
trattamento adeguato quando la percentuale di morire a causa di questa malattia
è meno del 10 % .
- 36 % dei casi è un tumore infiltrante con N+ (linfonodi del cavo ascellare
positivi)  considerato per definizione ad alto rischio, perché se non trattato
avrebbe più del 40% di rischio di ripresa di malattia
- 9 % dei casi (percentuale che tende a diminuire grazie alle procedure di
screening) è un tumore allo STADIO III oppure un IBC (= carcinoma
infiammatorio della mammella). L’IBC ha un’insorgenza rapidissima ed
andamento clinico di tipo leucemico. In epoca pre-chemioterapica la vita media
dalla diagnosi era di 4-6 mesi. Le donne morivano per metastasi cerebrali ed
epatiche. E’ molto raro. Lo screening non è efficace. Rientrano in questo 9%
anche le diagnosi di tumore della mammela in donne molto giovani (per cui
non te lo aspetti) e gravide (il che ritarda di molto la diagnosi sia per la
presenza di turgore mammario fisiologico, sia perché in gravidanza si cercano
di evitare esami diagnostici che prevedono l’utilizzo di raggi x)
- 4 % dei casi la diagnosi viene fatta in seguito alla presenza di metastasi. In
genere sono persone anziane o con problemi sociali importanti (tali da
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trascurare la propria salute). Si presentano con mal di schiena da metastasi
ossee o con ittero da metastasi epatiche,…
STRATEGIE TERAPEUTICHE
• Stadio IV  terapia della malattia metastatica
• Stadio III o per l’IBC  la chirurgia inizialmente ha puramente un ruolo
diagnostico di conferma tramite biopsia. L’esame anatomo-patologico diagnostica il
tumore e ce ne fornisce importanti caratteristiche.
Dopodiché il trattamento d’elezione è la terapia sistemica (chemioterapia). Se c’è
risposta seguirà trattamento locale di tipo chirurgico e/o radioterapico.
Fotografia 1(non presente tra le diapo su internet). Mammella con cute a buccia
d’arancia (è molto più attaccata al sottocute perché è infiltrata dal tumore) e
retrazione del capezzolo.
Fotografia 2 (non presente tra le diapo su internet). Mammella con enorme tumore
infiammatorio che ha già dato ulcerazione cutanea.
In questi casi non è proponibile la chirurgia d’amblé, va seguito lo schema biopsia +
chemioterapia + (se il tumore ha risposto alla tp sistemica) chirurgia e/o radioterapia.
Grafico (non presente tra le diapo su internet). Curve di sopravvivenza del tumore
localmente avanzato dopo l’uso di una strategia terapeutica multimodale:
- i tumori allo Stadio III A (tumori > 5 cm, esclusi IBC) trattati con
chemioterapia + chirurgia + radioterapia hanno un 20% in più di guarigione
rispetto a quelli trattati con solo chirurgia + radioterapia.
- la sopravvivenza in caso di tumore allo stadio IIIB o IBC è più che raddoppiata
se trattati con chemioterapia prima della chirurgia e della radioterapia.
• Come abbiamo già detto, la maggior parte dei tumori della mammella (il 45%)
viene diagnosticato allo stadio di: Carcinoma infiltrante con N0. Tra questi
distinguiamo casi a basso rischio e a rischio intermedio di ripresa di malattia. Ma
quali sono i criteri per discriminare questi due gruppi?
A basso rischio sono i tumori con linfonodi negativi e TUTTE queste caratteristiche:
- Grado 1 (= tumore ben differenziato)
- T ≤ 2 cm (dato che deve essere fornito dall’anatomo-patologo)
- Età > 35 anni
- Recettori ormonali +
A rischio intermedio sono considerati i tumori con linfondi negativi ed ALMENO
UNA tra queste caratteristiche:
- Recettori ormonali –
- T ≥ 2 cm
- Grado 2-3
- Età < 35 anni
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Raccomandazioni terapeutiche in pazienti apparentemente curate dalla terapia
medica e chirurgica (con esami sangue – Rx torace – eco epatica – scan ossea:
negativi):
Nel tumore in situ non c’è praticamente alcun rischio che infiltri e dia metastasi a
distanza, ma la diagnosi implica una alta probabilità che già ci siano altri tumori in
situ nella stessa mammella o in quella controlaterale. Distinguiamo:
- LCIS = lobular carcinoma in situ: in questo caso è talmente frequente la
contemporanea presenza di altre lesioni in situ che non viene nemmeno
considerata una lesione neoplastica, ma un semplice indicatore di rischio di
sviluppare neoplasia. Si asporta chirurgicamente e non si fa altro.
- DCIS = duttal carcinoma in situ: quanto più è grande, multicentrico e meno
differenziato, tanto più è probabile che vi siano altre lesioni duttali in situ nel
resto della ghiandola mammaria. Non si conoscono i tempi di evoluzione di
questo tipo di tumore da lesione in situ  a infiltrante. Va trattato con
l’asportazione chirurgica e, se multicentrico, grande o poco differenziato, va
irradiato il resto del parenchima. Negli Stati Uniti per questo tipo di lesione è
raccomandato un trattamento post-operatorio ormonale con Tamoxifene
(antiestrogeno), perché alcuni studi hanno osservato una riduzione del rischio
di sviluppare successive lesioni duttali in situ in donne trattate.
Per quanto riguarda i carcinomi infiltranti con N0 a basso rischio (20%): o non si fa
nulla o si fa tp ormonale (tamoxifene). Gli studi dimostrano che il rischio di ripresa
di malattia è < 10%. Il tamoxifene riduce del 40% questo rischio. Ciò significa che
ogni 100 donne a cui somministro l’antiestrogeno:
- 90 le tratto inutilmente, perché il tumore è stato già guarito dalla terapia
chirurgica (essendo il rischio di ripresa del 10%)
- delle 10 in cui la malattia riprende, 6 le tratto inutilmente perché il tumore
comunque recidiva nonostante il tamoxifene (evidentemente aveva già
acquisito le capacità biologiche tali da renderlo refrattario alla tp ormonale) e
solo 4 le tratto utilmente.
Questa considerazione è importante sia in termini farmaco-economici (ne tratto 100
perché ne traggano beneficio solo 4) sia per gli effetti collaterali del tamoxifene. Ogni
volta che un medico decide di fare un trattamento preventivo va sempre ben tenuto in
conto il volere del pz. Ognuno ha un proprio concetto di “rischio”: per alcune donne
il 10% di rischio è un valore molto elevato e inaccettabile, perciò richiedono il
trattamento con tamoxifene per ridurlo, nonostante gli effetti collaterali. Vanno
bilanciati rischi/benefici.
Il trattamento ormonale è sicuramente meglio tollerato della chemioterapia. Il
tamoxifene ha effetto anti-estrogenico in certi tessuti e simil-estrogenico in altri
(es.endometrio). Gli effetti collaterali del Tamoxifene sono:
- aumentato rischio di tromboembolia polmonare: rarissima, ma potenzialmente
mortale
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- induzione di iperplasia endometriale: praticamente sempre presente. Spesso dà
sintomi trascurabili, quali leucorrea e pochi spots ematici, altre volte può dare
polipi endometriali e molto raramente carcinomi dell’endometrio.
Ha anche effetti positivi: ad es. aumenta la BMD, Bone Mineral Density, con effetto
anti-osteoporotico.
L’80% dei carcinomi infiltranti N0, presenta almeno una delle caratteristiche
precedentemente elencate, per cui va considerato a rischio intermedio. Queste donne
hanno un rischio che va dal 10 al 40% di ripresa di malattia. Vengono considerate pz
da trattare.
- I 2/3 di queste donne avrà un tumore a recettori ormonali positivi, che
risponderà alla terapia ormonale. In base all’età distinguiamo circa:
• 1/3 di donne in epoca pre-menopausale: hanno diverse
alternative terapeutiche, alcune di pari validità altre che si possono
combinare per aumentare l’efficacia. Tra le alternative endocrine ci sono
la castrazione (mai chirurgica o radiante, quasi sempre farmacologica
con agonisti dell’LHRH) e il tamoxifene. In una donna la castrazione
induce i disturbi soggettivi ed oggettivi della menopausa. Castrazione e
tamoxifene si possono combinare per aumentare l’efficacia della terapia.
Tuttavia il trattamento più valido è quello che associa la terapia
ormonale e la chemioterapia: abbassa il rischio del 30-60%.
• 2/3 in epoca post-menopausale. L’unica terapia ormonale
possibile è quella con il tamoxifene. Oggi il tamoxifene sta per essere
sostituito da farmaci ormonali più efficienti e potenti che sono gli
inibitori dell’aromatasi. In Europa questi farmaci non sono ancora stati
registrati soprattutto per motivi di ordine economico. E’ consentito il
loro utilizzo solo in caso di impossibilità di usare il tamoxifene.
Altro schema terapeutico efficace è: tamoxifene + chemioterapia.
- Il restante 30% circa ha un tumore a recettori ormonali negativi che può essere
trattato solo con la chemioterapia.
I Carcinomi infiltranti con linfonodi positivi (N+) sono tutti considerati ad alto
rischio di ripresa
di malattia. Il rischio è compreso tra il 40-80% e varia in base al
numero di linfonodi positivi. Anche in questo caso il trattamento è differenziato in
base allo stato recettoriale. Se il tumore presenta recettori ormonali si attuano le
stesse alternative precedenti (tamoxifene / analoghi del GnRH / chemioterapia).
Nell’ambito della chemioterapia vi sono vari regimi possibili, di diversa efficacia e
tollerabilità.
TRATTAMENTI ADIUVANTI
(attualmente approvati in Europa)
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Trattamenti ormonali: Gold Standards
- Premenopausa: ablazione ovarica attuata quasi sempre con agonisti LHRH,
raramente è chirurgica
- Pre e post-menopausa: tamoxifene (20 mg x 5 anni)
- Inibitori dell’aromatasi (enzima fondamentale nella steroidogenesi - serve per
convertire qualunque steroide in estrogeno): funzionano solo in postmenopausa, perché non sono in grado di inibire la produzione ovarica di
estrogeni. Vanno riservati ai casi di intolleranza al tamoxifene.
Chemioterapia
Sostanzialmente sono due i regimi chemioterapici usati:
- CMF: Ciclofosfamide (un alchilante) + Metotrexate e Fluorouracile (antimetaboliti). Riduce il rischio di ripresa di malattia di circa il 40% (meno
efficace rispetto all’ormono-terapia)
- Antracicline: come effetto collaterale principale danno l’alopecia completa,
ma completamente reversibile. Riducono il rischio di ripresa di malattia del
50%.
Grafico (non presente tra le diapositive su internet): Dimostra come la terapia abbia
oggi modificato la prognosi del tumore della mammella. Curve di sopravvivenza in
donne con N+ dopo intervento chirurgico adeguato e non in tp. Donne che avevano
tumori con linfonodi positivi e con recettori ormonali negativi hanno in media un
rischio annuale di ripresa di malattia del 15%: ogni anno il 15% ha una ripresa di
malattia. Facendo una chemiotp-adiuvante con CMF, il rischio annuale di ripresa di
malattia scende all’11,4%. Facendo chemiotp a base di Antracicline il rischio scende
al 10%. Attuando regimi moderni che includono taxani o antracicline in 6 cicli
anziché 4, si arriva a un rischio annuale del 6,5%.
Sulla base dei risultati ottenuti nel tumore localmente avanzato (che, ricordiamo,
segue il protocollo: biopsia + chemioterapia + chirurgia + tp adiuvante sistemica),
sono stati disegnati degli studi per valutare se anche tumori piccoli e operabili della
mammella, in cui è indicata una tp adiuvante post-operatoria, siano da trattare a
livello sistemico anche prima del trattamento locale.
Osservazioni a favore di questa strategia:
1) fare d’amblè un trattamento sistemico in una patologia che comunque lo
richiede a un certo punto del suo protocollo terapeutico è logico. Va a colpire
le eventuali metastasi, che sono potenzialmente letali.
2) nell’80% dei casi il tumore mammario regredisce o totalmente o parzialmente
(= più del 50%) e rende la chirurgia conservativa ancora più ridotta.
3) ci fornisce un parametro diretto del singolo tumore trattato: più regredisce
tanto più il tumore risponderà alla terapia post-operatoria. Ci dà anche
indicazione su quali farmaci sono più appropriati.
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MALATTIA METASTATICA
In Italia, nonostante la diagnosi precoce, i trattamenti locali adeguati, i trattamenti
adiuvanti pre e post-operatori sistemici, ancora il 25-30% di donne sviluppa una
malattia metastatica. E’ una percentuale che sta diminuendo, inferiore a quella
percepita dalla popolazione. Tre donne su quattro malate di cancro della mammella
guariscono.
Che strategie terapeutiche vanno usate?
Le metastasi compaiono qualche anno dopo la diagnosi di tumore primitivo e
mediamente vengono diagnosticate intorno ai 66 anni. La maggior parte delle donne
in queste condizioni ha seguito un terapia adiuvante (chemiotp o ormonotp). I 2/3 ha
recettori ormonali positivi, ¼ ha over-espressione dell’oncogene HER2/neu.
L’oncogene HER2/neu (c-erb B2 or neu) codifica per un Recettore
intracitoplasmatico che interagendo col ligando conferisce proprietà biologiche
particolari alla cellula e induce proliferazione. L’over-espressione dà un vantaggio
alla cellula tumorale rispetto alla cellula normale. E’ un recettore della famiglia dei
growth factors. E’ costituito da una porzione extracitoplasmatica, una intramembrana,
una intracitoplasmatica. E’ presente nel 25-30% dei tumori infiltranti della mammella
e in circa il 60% dei carcinomi duttali in situ della mammella. Conferisce maggiore
aggressività al tumore. Ha significato prognostico negativo. Viene riconosciuto
tramite immunoistochimica grazie ad un anticorpo monoclonale che si lega alla
porzione extracitoplasmatica  l’anatomo-patologo valuta l’intensità di colorazione
del vetrino su cui avviene la reazione che va da 0 a +++. Sono da considerarsi
anormali i valori : ++ e +++. Dal punto di vista prognostico e di predittività di
efficacia al trattamento specifico diretto contro il recettore quello che ci interessa è il
valore +++ (che corrisponde ad una forte colorazione del preparato e quindi alla
presenza di HER2/neu nella maggior parte delle cellule tumorali). A questi pattern di
colorazione immunoistochimica corrispondono diversi livelli di amplificazione
dell’oncogene che codifica per questo recettore di membrana. L’amplificazione si
valuta tramite ibridizzazione in situ.
+ = normale espressione del gene
++ = anormale espressione ma con amplificazione bassa
+++ = amplificazione alta. Predice una maggiore aggressività, peggior prognosi, ma
una miglior risposta a tp mirata
Dati che dimostrano che, a parità di altri fattori, lo stato di amplificazione
dell’oncogene HER2/neu predice l’andamento della malattia:
sopravvivenza media del carcinoma mammario:
senza over-espressione  6-7 anni
con over-espressione 3 anni
Negli anni ’90 si è prodotto un Anticorpo contro la parte extracitoplasmatica del
recettore HER2. E’ un anticorpo umanizzato, chiamato Trastuzumab. Legandosi al
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recettore ne blocca la funzione, rendendo la cellula che over-esprime il recettore
come una cellula normale. Il Trastuzumab modifica il comportamento biologico della
cellula tumorale al punto che, se associato a chemioterapia, prolunga del 40% la
sopravvivenza del tumore metastatico che over-esprime l’oncogene.
La over-espressione di HER2/neu di per sé è un fattore prognostico negativo, ma è
stato trasformato in fattore positivo, poiché rappresenta un nuovo target verso cui
mirare la terapia.
Per ricerca traslazionale si intende quella che partendo dal laboratorio procede fino
all’uomo: (provetta  animale UOMO – “dal bancone del laboratorio fino al letto
del malato”). A volte succede esattamente il contrario.
Ad esempio, solo in seguito ad osservazioni cliniche si è rilevato che questo Ac
monoclonale diretto contro il recettore HER2 quando somministrato ai pz induce nel
41% dei casi una insufficienza cardiaca congestizia. I fisiologi hanno scoperto che il
gene HER2 è essenziale per lo sviluppo di un miocardio normale e per la prevenzione
della cardiomiopatia. I topini Knockout per l’HER2 hanno una cardiomiopatia
dilatativa.
Nonostante i progressi, il tumore mammario in fase metastatica è da considerarsi una
malattia non guaribile. Tuttavia si può entro certi limiti curare i sintomi, migliorare la
qualità della vita, prolungare la durata della vita. Tutto questo è possibile se
utilizziamo in maniera appropriata i farmaci a disposizione, ma consapevoli del fatto
che prima o poi saremo costretti ad usarli tutti. Essendo una malattia non guaribile, la
sequenza di utilizzo è importante se vogliamo prolungare la vita, ma mantenendo una
qualità di vita accettabile.
Innanzitutto va presa in considerazione la ormonoterapia. Ha effetto citostatico (=
inibisce la proliferazione) e azione lenta. Richiede molto più tempo rispetto alla
chemioterapia per osservare una risposta clinica.
Fattori importanti per scegliere la ormonoterapia sono:
- stato dei recettori ormonali (solo se presenti è efficace) determinato su biopsia
del tumore primario o, se non disponibile, delle metastasi.
- intervallo libero da malattia > 2 anni. Se un tumore ha dato metastasi molto
rapidamente dopo la diagnosi iniziale, si tratta di un tumore estremamente
aggressivo ed è possibile che pur essendoci recettori ormonali, il tumore non
risponda alla ormonotp.
- Assenza di metastasi viscerali. Metastasi linfonodali, scheletriche, cutanee
possono essere dolorose, ma non mettono in immediato pericolo di vita. Si può
impostare una terapia anche se ad azione lenta come la ormonoterapia.
Metastasi cerebrali o epatiche invece implicano una certa urgenza di
trattamenti rapidi.
- qualsiasi condizione clinica
Ciascuna terapia ormonale ha efficacia limitata nel tempo. Insorge resistenza sia
perché vengono selezionate le cellule meno sensibili sia perché nella sua
progressione il carcinoma tende a diventare ormono-indipendente. La terapia
ormonale va impiegata secondo le seguenti sequenze:
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1) Tamoxifene: è una molecola simile all’estrogeno che si lega al sito
recettoriale dell’estrogeno, occupandolo e impedendo all’estrogeno di
legarsi. Ha effetto antiestrogenico su ghiandola mammaria e cellule
tumorali; effetto estrogenico su endometrio e scheletro.
2) Inibitori dell’aromatasi: solo per le donne in post-menopausa.
Agiscono a livello periferico (osseo, adiposo, surrenale) inibendo
l’aromatasi, enzima chiave della steroidogenesi.
3) Progestinici: agiscono secondo un meccanismo ancora non chiaro a
livello recettoriale. Hanno effetto citotossico diretto sul dna.
4) Fulvestrant: è un antiestrogeno puro, che distrugge il recettore
dell’estrogeno. E’ un antagonista irreversibile.
Prima o poi si arriverà a dover impiegare la chemioterapia, perché il tumore diventa
ormono-refrattario. La chemioterapia è la prima scelta per tumori che non
esprimono recettori ormonali. Una dose di chemioterapia è in grado di uccidere fino
al 50% di cellule tumorali. Ha azione rapida.
Si possono seguire schemi diversi con tante associazioni chemioterapiche diverse.
Prima o poi nella malattia metastatica vanno usate tutte, ma anche in questo caso è
fondamentale la sequenza di utilizzo.
Esistono scale di valori che misurano la condizione clinica (performance status) del
singolo pz: una scala europea detta indice di Carnosky cha va da 0 (peggiore) -100
(migliore) e procede di 10 in 10; una scala americana che va da 0 (migliore
condizione)- 4(peggiore).
Un pz con indice di Carnosky 10-20 (o 4 in scala americana) non può fare
chemioterapia aggressiva, in questo caso l’obiettivo primario del trattamento è la
palliazione del sintomo tramite farmaci poco tossici.
Al contrario pz giovani, in buone condizioni vanno trattati rapidamente con
chemioterapia aggressiva per arrestare la crescita tumorale ed allungare la
sopravvivenza.
Gli argomenti non trattati a lezione (es. tumori ginecologici e del tratto
gastroenterico) vanno comunque studiati perché potranno essere argomento dei
quiz. Per studiare potete fare riferimento alle diapositive che trovate su internet.
L’esame si svolgerà sottoforma di quiz. Chi vorrà modificare il voto, potrà
integrare con l’esame orale.
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