Corso di Laurea in Amministrazione e legislazione di Impresa Dispensa di Gestione Finanziaria di Impresa A.a. 2011-2012 - Primi 5 CFU A cura della dott.ssa C. Cannavale La funzione finanza La funzione finanziaria dell’impresa occupa oggi un ruolo centrale all’interno delle grandi imprese che, attraverso una gestione ottimale delle risorse a disposizione, cercano di limitare gli effetti della variazione delle variabili finanziarie, di supportare le incertezze dovute alla varietà e variabilità dell’ambiente in cui operano e di mantenere accettabili livelli di liquidità. Riprendendo l’ottica porteriana della catena del valore, la finanza s’inserisce nell’ambito delle attività infrastrutturali, che costituiscono l’“ossatura portante” di un’azienda. La funzione finanza si occupa, infatti, di reperire le risorse finanziarie necessarie al regolare svolgimento dell’attività aziendale, ma ha anche il compito di supportare i processi di crescita delle imprese e di favorire il mantenimento delle posizione competitive raggiunte, anche e soprattutto attraverso l’individuazione di opportunità di investimento profittevoli e di strumenti adeguati alla copertura dei rischi verso cui resta esposta. E’ generalmente riconosciuto che la funzione finanziaria può essere ricondotta essenzialmente a tre ordini di problemi (Solomon, 1963): − la definizione del volume complessivo e del tasso di sviluppo del capitale investito nell’impresa; − la scelta degli investimenti e la connessa struttura delle attività patrimoniali dell’impresa; − la composizione delle fonti di finanziamento utilizzate a copertura delle attività patrimoniali. Più in particolare, l’impresa deve valutare le opportunità di investimento con riferimento sia alla loro profittabilità sia al rischio ad esse connesse (rischio che deve essere coerente con la soglia di accettabilità della specifica impresa). Al fine di valutare al meglio due opportunità di investimento alternativo, l’impresa deve aver chiari i criteri in base ai quale decidere tra le diverse metodologie di valutazione (è più importante il tempo o il rendimento? È possibile valutare in maniera esaustiva i costi del capitale? Quanta incertezza si riflette sulle stime del capitale circolante e così via). Dal punto di vista della gestione corrente, alla funzione finanza spetta l’importante compito di gestire in maniera efficace i crediti contratti e di individuare le opportune tutele dalle variazioni finanziarie che possono limitare la redditività dell’impresa. Ultimo, ma non meno importante, l’impresa deve gestire una tesoreria tanto più complessa quanto maggiore è il numero di valute nelle quali opera e maggiore è il numero di paesi in cui risultano disperse le proprie attività. 2 Si tratta di problematiche strettamente connesse, che devono essere risolte contemporaneamente e che riguardano, di fatto, un unico fenomeno: la dinamica del capitale (Brugger, 1975). La dottrina sembra inoltre piuttosto concorde nell’attribuire alla finanza una duplice funzione: in primo luogo essa appare come il collegamento tra l’impresa e l’ambiente finanziario, o meglio come l’area dove si sedimentano le competenze necessarie alla gestione dei rapporti con il mercato finanziario; in secondo luogo, ad essa compete la funzione di supporto alle decisioni aziendali, attraverso la trasmissione di regole e strumenti operativi. Tale funzione ha conosciuto nel tempo un’evoluzione dei propri confini e un ampliamento della propria autonomia decisionale, anche in risposta alle numerose trasformazioni che hanno interessato i mercati finanziari, i mercati dei beni reali e le tecniche manageriali. Si è passati da una visione della funzione finanza “subordinata” ala direzione amministrativa dell’impresa (Pavarani, 1995) ad una visione integrata della finanza che assume il compito di valutare la convenienza economica dei progetti di investimento derivanti da esigenze di crescita o da fabbisogni legati al regolare svolgimento dell’attività aziendale, arrivando a valutare l’intera sostenibilità finanziaria dei piani di sviluppo aziendale in modo da correlare l’origine dei fabbisogni di capitale con l’effettiva capacità di finanziamento, interno ed esterno, dell’impresa, senza compromettere la condizione di equilibrio finanziario. Nello svolgimento di questa attività, la funzione finanziaria aziendale si deve ovviamente coordinare con altre funzioni dalle quali derivano le esigenze di investimento (produzione, marketing, ecc.). La finanza diventa sempre più “strategica” (Sandri, Bozzi, 2006), è un supporto fondamentale alle scelte strategiche dell’impresa sempre più orientate alla creazione di valore (Donna, 1988) per le diverse tipologie di stakeholder. Alla luce dei fenomeni descritti, la funzione finanza ha progressivamente ampliato il suo campo di azione, coinvolgendo al suo interno diverse aree-tematiche, quali: – la pianificazione dei flussi finanziari di medio e lungo periodo riguardanti le politiche di investimento internazionale e le correlate politiche di scelta delle fonti e delle tipologie dei finanziamenti; – la scelta dei criteri per valutare la conduzione attuale e prospettica delle aziende; – la gestione della tesoreria plurivalutaria, vale a dire, dei surplus/deficit di cassa, generati dai movimenti finanziari in monete diverse da quella nazionale; – le scelte decisionali e tecniche di copertura da adottare per il fronteggiamento dei rischi derivanti dall’incertezza sulle future variazioni dei tassi di cambio; 3 – le azioni finalizzate a cogliere le opportunità derivanti dall’esistenza di anomalie nei mercati finanziari e a coprirsi dai rischi di oscillazione dei tassi di interesse; – le azioni finalizzate a cogliere le opportunità derivanti dalla presenza di carichi fiscali diversi nei vari Paesi, attraverso idonee politiche dei prezzi di trasferimento di beni e servizi tra casa-madre e consociate. La struttura finanziaria e le fonti di finanziamento Come osservato in precedenza, alla funzione finanza spetta il compito di individuare non solo le occasioni più opportune di impiego dei capitali (investimenti), ma anche le fonti più adeguato al finanziamento delle stesse. A causa dello sfasamento fisiologico tra entrate e uscite monetarie, le imprese sono esposte a un fabbisogno finanziario che può avere un’intensità diversa a seconda del ciclo di vendite che l’impresa sostiene, del potere contrattuale che esercita nei confronti di fornitori e clienti, della tipologia di settore, delle politiche di gestione del personale e così via. Si pensi, in quest’ottica alla differenza tra un’impresa di costruzioni e un bar. E’ ovvio che i tempi per ultimare la produzione, l’entità e le difficoltà di ottenere i pagamenti e le condizioni applicate dai fornitori saranno fortemente differenti ed avranno un incidenza diversa sul fabbisogno finanziario delle due imprese. D’altra parte anche le imprese sono dotate di immobilizzazioni ed anche queste contribuiscono a creare un fabbisogno finanziario che riguarda sia il loro finanziamento sia la necessità di compensare i capitali immobilizzati con altre fonti che finanzino la gestione corrente. In periodi di contrazione della domanda, poi, questo problema viene aggravato dalla permanenza in magazzino di scorte di prodotti finiti che si aggiungono alle scorte di materie prime e semilavorati necessari al corretto funzionamento dell’attività operativa. La gestione di qualsiasi tipologia di azienda comporta, quindi, una serie di decisioni che generano fabbisogni finanziari, derivanti dal ritardo temporale che intercorre tra l’uscita monetaria per l’acquisizione di una certa risorsa (tempo t) e una o più entrate future generate da quella stessa risorsa (tempo t+1). Maggiore è l’intervallo di tempo che intercorre tra uscite e entrate, più lungo è il ciclo finanziario che caratterizza la specifica risorsa (Rullani, 1984). Escludendo la cassa e i conti correnti, il ciclo finanziario più breve è quello del capitale circolante, formato dai crediti verso clienti e dalle scorte (che possono essere di materie prime, semilavorati o prodotti finiti). 4 Le immobilizzazioni materiali e immateriali sono caratterizzate da cicli finanziari che durano più a lungo, solitamente pluriennali. Tali risorse dell’attivo, inoltre, hanno un ritorno in forma liquida indiretto, derivante dalla partecipazione al processo produttivo e al ciclo di vendita, che avviene attraverso il cash flow. Nel caso delle immobilizzazioni finanziarie, invece, il ritorno avviene in forma diretta attraverso la vendita della partecipazione: il ciclo finanziario, in questo caso, dipende da quanto la partecipazione risulta essere strategica per l’azienda. In sintesi, quindi, le attività dello stato patrimoniale forniscono una prima indicazione del fabbisogno finanziario che l’impresa deve fronteggiare, perché delineano il capitale che è stato investito nelle diverse risorse (Rullani, 1984). La finanza deve, quindi, definire le fonti di finanziamento da utilizzare a copertura, adeguate sia dal punto di vista quantitativo, che dal punto di vista qualitativo. Il primo indicatore che piò, infatti, essere utilizzato per comprendere il fabbisogno finanziario di un’impresa è il totale dell’attivo ossia la somma del capitale fisso e del capitale circolante, dove il primo finanzia le strutture e il secondo il ciclo acquisti-produzione-vendita. Altri elementi che possono essere analizzati al fine di verificare la coerenza tra scelte finanziarie e attività posta in essere dall’impresa sono, in prima approssimazione: • il rapporto Capitale fisso/capitale circolante, che ci dà un’indicazione della rigidità dell’impresa e della possibilità di sfruttare la leva operativa; • il grado di capitalizzazione dell’impresa, che indica il fabbisogno di capitale fisso; • il ciclo dei ricavi, che indica, invece, il fabbisogno di capitale circolante; • Il Capitale Circolante Netto (CCN) che dà un’indicazione importante della solvibilità dell’impresa; • La capacità di autofinanziamento. La capacità di autofinanziamento e, quindi, la possibilità che l’impresa ha di finanziarsi senza ricorrere a capitale di terzi, può essere misurata calcolando il cash flow. Esistono tre forme di cash flow: il free cash flow, dato dalla somma del reddito operativo al netto delle imposte più gli ammostamenti, più gli accantonamenti, più la variazione del capitale circolante più la variazione degli investimenti fissi, più la variazione dell’indebitamento di esercizio; il cash flow finanziario, dato dalla somma di utile netto, ammortamenti e accantonamenti; il cash flow reddituale, dato dalla somma di utile netto e ammortamenti. La distinzione tra fonti esterne e fonti interne è molto importante. Le fonti esterne sono costituite dalle molteplici forme di raccolta presso terze economie (anche il capitale proprio 5 perché appunto conferito dalla proprietà); le fonti interne dall’autofinanziamento e dai disinvestimenti, che consentono di far fronte, almeno in parte, ai deflussi di risorse senza ricorrere ad ulteriori apporti esterni. Un effetto di questo tipo è esercitato nel breve periodo anche dagli accantonamenti netti annui al fondo quiescenza del personale. Riguardo alle fonti esterne, occorre, infine, riflettere sulla differenza tra capitale proprio (equity) e capitale preso a prestito, in quanto solo il primo presenta i seguenti vantaggi: − durata illimitata e, quindi, forte stabilità; − assenza di un obbligo formale di remunerazione. Riassumendo, i compiti della funzione finanza in merito alla struttura finanziaria e al fabbisogno finanziario si basano sull’assunzione di scelte fondamentali per il corretto funzionamento dell’impresa e la loro efficacia dipende dal rispetto di una serie di criteri: Ø Criterio dell’omogeneità tra fonti e impieghi; Ø Criterio della flessibilità; Ø Criterio dell’elasticità; Ø Criterio dell’economicità. La funzione finanza deve, quindi, ricercare fonti che abbiano un orizzonte temporale coerente con il ciclo finanziario degli impieghi. Deve cercare a parità di coerenza, la fonte che le consente un maggior grado di flessibilità (possibilità di modificare la strada intrapresa). Deve, inoltre, preservare un adeguato livello di elasticità (possibilità di ampliare i capitali a disposizione nel caso in cui si presentino nuove opportunità di investimento). Deve, infine, considerare l’economicità nella scelta tra fonti alternative (minore costo del finanziamento). Tecniche di valutazione degli investimenti Riguardo all’attività di valutazione degli investimenti e delle strategie, il management della funzione finanza deve fissare in primo luogo le regole e i principi che devono guidare l’impresa nell’attività di pianificazione di tale attività1. Dal punto di vista finanziario, un investimento può essere inteso come un impiego di mezzi finanziari allo scopo di ottenere una serie di risultati futuri, distribuiti su un periodo temporale più o meno esteso. Un investimento è, quindi, una decisione che presenta alcune caratteristiche peculiari (Genco, Calvelli, 2008): 1 Questa parte è tratta da Genco, Calvelli (a cura di), Elementi di Economia e Gestione delle Imprese. Albano Editore, Napoli. 6 − riguarda tipicamente l’acquisizione di immobilizzazioni tecniche (materiali o immateriali) funzionali all’attuazione di opzioni strategiche; − sugli investimenti tende a concentrarsi il rischio di impresa; l’uscita monetaria che avviene nel momento iniziale dell’investimento è, infatti, certa, mentre i flussi finanziari di ritorno sono gravati da un certo grado di rischio dovuto all’andamento della situazione aziendale; − implica un ciclo finanziario, inteso come il gap temporale tra un’uscita finanziaria per l’acquisizione dell’oggetto di investimento e un ritorno di solito articolato in una o più soluzioni diluite nel tempo. Le decisioni di investimento vengono generalmente assunte secondo un metodo definito Capital Budgeting, utile a valutare in via preventiva le decisioni relative all’allocazione delle risorse finanziarie. Tale metodologia in questione prevede in primo luogo la fissazione dell’orizzonte temporale di analisi, basato sulla vita economica2 del bene oggetto di investimento, cioè sul numero di anni in cui l’investimento sarà in grado di generare flussi finanziari futuri. A seguire, viene calcolato il rendimento atteso di ciascun progetto di investimento attraverso l’applicazione della cosiddetta Discounted Cash Flow Analysis (analisi dei flussi di cassa attualizzati). Secondo questo processo, tutti i flussi di cassa futuri generati dall’oggetto di investimento vengono attualizzati al momento dell’effettuazione dell’investimento attraverso un fattore di attualizzazione che tiene conto del costo dei capitali impiegati e del grado di rischio della nuova iniziativa; in questo modo si rendono confrontabili importi monetari distribuiti in tempi diversi. I flussi finanziari da prendere in considerazione sono solo quelli futuri e differenziali (cd. flussi incrementali: Cattaneo, 1999), costituiti da tutti i flussi di cassa in uscita ed in entrata direttamente generati dall’investimento di cui si sta valutando la fattibilità finanziaria. I flussi finanziari incrementali che generalmente scaturiscono da un progetto di investimento possono essere ricondotti a quattro distinte tipologie di valori: − i flussi generati dall’acquisto dell’oggetto di investimento (ovviamente in uscita); − i cash flow generati dalla gestione caratteristica; − i flussi generati dall’impiego del capitale circolante netto operativo, dalle sue variazioni anno per anno e dal suo recupero finale. Quando si attua un nuovo investimento, infatti, occorre tenere in considerazione il fatto che si avranno impieghi di capitale circolante legati all’investimento (es. aumento di scorte di materie prime o semilavorati per far funzionare il nuovo macchinario, oppure 2 La vita economica scaturisce dalla comparazione tra la vita fisica del bene oggetto di investimento e il periodo di obsolescenza. 7 ampliamento del portafoglio crediti dell’azienda), e come tutti gli impieghi di capitale anch’essi devono essere remunerati, quindi tenuti in considerazione nei flussi rilevanti; − i flussi ottenibili dal valore residuo dell’investimento alla fine della vita economica 3. In parallelo viene analizzato anche il livello di rischio legato ai progetti più convenienti dal punto di vista della redditività, al fine di ottimizzare anche da questo punto di vista il portafoglio aziendale (Van Horne, 1984). Una volta individuati l’entità e il rischio dei flussi rilevanti si procede applicando uno dei tradizionali metodi di valutazione della redditività di un investimento basati sul confronto con il costo delle fonti di finanziamento utilizzate. Un investimento, infatti, per essere intrapreso dovrebbe avere una redditività superiore al costo dei capitali utilizzati e ad un certo margine che remuneri il rischio associato all’operazione. I metodi più utilizzati per questa analisi sono il Valore Attuale Netto (VAN) e il Tasso Interno di rendimento (TIR). Il valore attuale netto (VAN) viene generalmente calcolato come differenza tra i flussi di cassa in entrata e i flussi di cassa in uscita, attualizzati, generati dall’investimento. In formula, il VAN è pari a: n VAN = Σ (Ei – Ui) (1+r) –i i=1 dove F0 rappresenta l’uscita monetaria per l’acquisizione dell’investimento, Fi costituisce il flusso finanziario al tempo i e r indica il tasso soglia di accettazione, che risulta essere funzione del costo del capitale impiegato e del grado di rischio dell’investimento. In generale, affinché l’investimento sia ritenuto accettabile, è necessario che il VAN sia maggiore di zero; nel caso di due investimenti alternativi, verrà scelto quello con un VAN più elevato. 3 Il valore residuo dell’investimento è costituito da due componenti: - una componente materiale, fornita dal ricavato della vendita dell’oggetto di investimento alla fine della vita economica; - una componente immateriale, derivante dal fatto che l’investimento ha permesso all’impresa di sviluppare una serie di competenze che rimarranno nell’impresa anche dopo la vita utile dell’investimento. In questo senso, nell’analisi dell’investimento dovrebbero rientrare anche le” opzioni reali”, viste come opportunità future che consentono di creare valore. 8 Il metodo del tasso interno di rendimento (TIR) prevede, invece, che venga stimato il tasso che rende uguale a zero il valore attuale netto dell’investimento. Il TIR è, infatti, quel particolare saggio che rende equivalenti, dal punto di vista finanziario, i flussi positivi ed i flussi negativi di una determinata operazione di investimento e che pertanto ne annulla la sommatoria algebrica. In formula: n Σ (Ei – Ui) (1+x) -i=0 i=1 dove X rappresenta il tasso interno di rendimento. Se tale tasso è superiore al tasso soglia di accettazione, l’investimento risulterà accettabile; tra investimenti alternativi, invece, verrà scelto quello che presenta un TIR più elevato. Il principale limite del TIR risiede nella possibilità che uno stesso investimento abbia più tassi interni di rendimento. In generale, per entrambi i metodi, occorre valutare bene le difficoltà relative alla definizione dei flussi incrementali dell’investimento, alla stima di tali flussi e alla possibilità di individuare un costo del capitale che sia rappresentativo della realtà. E’ ovvio, infatti, che il costo del capitale tende a variare nel corso del tempo e che non dovrebbe essere considerato uguale il costo al quale si attualizzano le uscite e quello al quale si attualizzano i flussi incrementali. Il calcolo del costo del capitale costituisce, quindi, una delle principali difficoltà riguardanti tali analisi. Esso può essere generalmente definito come costo medio ponderato, secondo il piano finanziario di copertura dell’investimento, dei diversi tipi di capitale utilizzati: capitale di debito, capitale dei soci (se è stato richiesto ai soci un aumento del capitale sociale specifico), oppure costo figurativo (o costo opportunità) dell’autofinanziamento e del capitale netto preesistente. Il costo medio ponderato del capitale può essere calcolato attraverso la formula del Weighted Average Cost of Capital (WACC), secondo cui: c = cd (d/d+e) + ce (e/d+e), dove cd è il costo del capitale preso a prestito e ce è il costo del capitale proprio. La stima del costo del capitale proprio rappresenta il passaggio più difficile: per quanto riguarda l’autofinanziamento e il capitale netto preesistente, si è soliti utilizzare un costo opportunità, cioè il rendimento delle alternative di investimento alle quali si rinuncia; per quanto riguarda, invece, il nuovo capitale richiesto, esso può essere stimato, in particolare nelle società quotate, con il metodo del CAPM, per cui ce = rf + ß (rm – rf), dove rf è il tasso di rendimento delle attività prive di rischio (risk free rate), rm è il tasso di rendimento atteso dal portafoglio azionario di mercato e ß è il rischio sistematico, cioè 9 non diversificabile, dell’impresa, calcolato come coefficiente di regressione che esprime la sensibilità del rendimento dei titoli azionari di un’impresa rispetto al rendimento del portafoglio di mercato. Nel caso di imprese non quotate, si utilizza generalmente il rendimento medio di mercato delle imprese quotate che presentano caratteristiche il più possibile omogenee rispetto all’impresa in oggetto. Vista la difficoltà di stimare con esattezza i flussi di cassa, in un’ottica prudenziale, la valutazione degli investimenti viene spesso integrata con il calcolo del tempo di recupero (o payback period), ossia del tempo necessario affinché il flusso di cassa cumulato imputabile al progetto eguagli il valore del capitale investito. Il payback period si calcola come rapporto tra capitale investito e media annuale degli incassi. Supponiamo che un investimento richieda un esborso iniziale di 10.000 € e produca per sette anni un incasso annuale di 2000 €. Il flusso di cassa cumulato generato dall’investimento è pari a 14000 €, la media annuale degli incassi è pari a 2000 €, il payback period sarà dato da 10.000/2000 = 5 anni. Nel caso che gli incassi annuali siano diversi, è necessario sommare gli incassi e poi dividerli per il numero degli anni in modo da ottenere, appunto, l’incasso medio annuo. Nel caso di due investimenti alternativi, sarà preferito quello che presenta un payback period inferiore. Questo metodo non fornisce una valutazione precisa e di tipo quantitativo della redditività di un investimento, ma dà solo un’idea della redditività (Genco, Calvelli, 2008). Più ampia è la differenza tra il tempo di recupero e l'orizzonte temporale in cui l’investimento è suscettibile di generare reddito, più l'investimento è redditivo, poiché rimangono più anni di vita utile in cui è possibile ottenere reddito e l'investimento è meno rischioso, in quanto si basa su previsioni più vicine nel tempo e, pertanto, più affidabili. Nonostante la semplicità di calcolo e la possibilità di stimare la redditività dell’investimento, questo metodo non dovrebbe essere utilizzato in via esclusiva in quanto: − non considera il valore finanziario del tempo; − non dà una misura della redditività dell'investimento confrontabile con il costo del capitale impiegato; non tiene conto dei flussi finanziari successivi alla scadenza del tempo di ritorno in liquido, che, in alcuni casi, potrebbero essere rilevanti. 10 Il risk management e la gestione della tesoreria plurivalutaria4 Accanto ai compiti con contenuto più strategico, indicati precedentemente, la finanza si occupa anche di decisioni dal contenuto più operativo, tra cui troviamo la gestione della tesoreria e la gestione dei rischi (risk managment). Nella sua forma più elementare, quale controllo degli incassi e dei pagamenti e sorveglianza del saldo di cassa, la gestione della tesoreria è svolta da tutte le tipologie di imprese, anche quelle di più piccole dimensioni, che presentano un’impostazione non evoluta della finanza (Genco, Calvelli, 1998). Ma gestione della liquidità, in un’ottica più strategica, significa soprattutto determinare quanta liquidità deve detenere un’impresa, scegliere tra il contante e le numerose possibilità di investimento in titoli a breve termine, quali cambiali finanziarie, certificati di deposito, Buoni Ordinari del Tesoro, operazioni pronti contro termine, ecc. (Brealey, Myers, Sandri, 2003). La funzione finanziaria deve definire un saldo di cassa che non rappresenti una scorta troppo elevata di liquidità, per non perdere i relativi interessi, e contemporaneamente non sia troppo ridotto in modo da evitare di dover vendere ripetutamente una piccola quantità di titoli per far fronte ai fabbisogni e sostenere, così, elevate spese amministrative. Probabilmente, se i tassi di interesse sono alti, l’impresa tenderà a mantenere una scorta di liquidità piuttosto ridotta. In caso contrario e quando le uscite di cassa risultano essere molto variabili, l’impresa sarà invece indotta ad aumentare il proprio saldo di cassa. La gestione della tesoreria di impresa è diventata più complessa alla luce del crescente grado di finanziarizzazione dell’economia e delle imprese. Con l’espressione “finanziarizzazione dell’economia” ci si riferisce al progressivo scollamento tra economia reale e figurativa, fenomeno che incrementa notevolmente le opportunità di investimento delle imprese, ma espone le stesse anche a crescenti livelli di rischi finanziari e da controparte. Sistemi economici e finanziari sempre più integrati, lo sviluppo degli strumenti derivati e, quindi, la possibilità di operare, grazie alle nuove tecnologie, in mercati che non hanno più confini, hanno contribuito all’incremento delle opportunità che le imprese possono sfruttare in campo finanziario, ma hanno, allo stesso tempo, amplificano i rischi finanziari ed a controparte connessi alle operazioni reali e finanziarie poste in essere dalle imprese. Alla finanziarizzazione dell’economia è seguita, quindi, la finanziarizzazione delle imprese ossia la tendenza delle imprese a focalizzarsi sempre più sulla gestione finanziaria anche a scapito di quella caratteristica. Tale fenomeno contribuisce, a sua volta all’intensificarsi della finanziarizzazione a livello macro e cioè allo scostamento sempre più forte tra economia reale ed economia figurativa (Calvelli, 1998). 4 Per un approfondimento sul tema si veda Calvelli (1998), Scelte di Impresa e Mercati Internazionali. Giappichelli Editore, Torino. 11 Calvelli (1998) sottolinea come le determinanti di tali fenomeno vadano ricercate nelle innovazioni informatiche e telematiche, che hanno trasformato il mercato mondiale in un sistema integrato globale delle informazioni, sempre meno vincolato ai trasferimenti “reali” di beni e maggiormente caratterizzato da movimenti “figurativi” dei capitali e dalla diffusione internazionale delle conoscenze. Il fenomeno è stato inoltre accentuato dalla progressiva deregolamentazione di sistemi ed istituiti finanziari e, quindi, dalla diffusione dei derivati che hanno amplificato le opportunità di investimento i un mercato ormai senza confini. Le analisi finalizzate all’individuazione e alla valutazione dei legami di dipendenza esistenti tra i movimenti dell’economia reale e quelli propri dell’economia figurativa hanno perso gran parte della propria rilevanza5. Tra gli effetti del divorzio tra economia reale e figurativa e, in un circolo vizioso, tra le cause dello stesso, vi è stata la tendenza delle imprese a sfruttare l’incompleta integrazione dei mercati finanziari e le distorsioni in essi presenti, attraverso operazioni finanziarie, spesso di natura speculativa, finalizzate ad accrescere le possibilità di conseguimento di utili finanziari. Le attività finanziarie in valuta – ed i problemi ad esse connessi – hanno progressivamente conferito un ruolo centrale alla finanza nelle imprese transnazionali. Le nuove possibilità offerte alle imprese – in termini di occasioni da cogliere in funzione delle opportunità di arbitraggio rese possibili dalle diverse condizioni dei mercati ed in termini di una più ampia scelta di strumenti finanziari a disposizione – hanno portato al noto fenomeno della “finanziarizzazione” dell’economia, nel suo complesso, e delle imprese, considerate nella loro individualità (Calvelli, 1998). Il fronteggiamento dei rischi Discende dalla maggiore finanziarizzazione delle attività d’impresa un aumento, in intensità e volume, dei rischi economico-finanziari a cui le imprese sono esposte. Pur nella consapevolezza che non tutti i rischi possono essere totalmente eliminati, occorre che le imprese imparino a conoscere gli effetti che discendono dalle esposizioni alle diverse tipologie di rischio. In primo luogo, le imprese internazionali devono sempre più acquisire una capacità di controllo dei rischi di mercato, vale a dire di quei rischi ai quali sono esposti gli operatori economici in funzione di variazioni sfavorevoli dei prezzi delle attività sottostanti. Il rischio di mercato è, pertanto, il rischio cui è esposta la situazione economico-finanziaria di un’impresa internazionalizzata in funzione di variazioni sfavorevoli dei prezzi di mercato delle attività Sono venuti meno sia i presupposti teorici dei filoni Keynesiani, orientati a spiegare i nessi di causalità esistenti tra i movimenti reali e quelli figurativi, sia quelli dei filoni monetaristi che individuavano una casualità inversa dei movimenti reali rispetto a quelli figurativi. Analizzando le cause degli squilibri che caratterizzano l’attuale sistema economico, gli economisti hanno posto l’accento sulla fragilità endogena della finanza (filone post keynesiano); sulla rigidità dei prezzi, in mercati imperfetti (filone nuovo Keynesiano); sulla scarsa liquidità e sulle attese pessimistiche degli operatori (monetaristi); sulla prevalenza di comportamenti speculativi e ultra speculativi delle imprese (filone post Keynesiano). 5 12 finanziarie che, escludendo le variabili finanziarie legate più strettamente a movimenti speculativi (valori degli indici di borsa), sono: tassi di cambio; prezzi delle commodity e dei titoli; tassi d’interesse. I rischi legati all’andamento delle variabili finanziarie sono rischi a due vie: una corretta gestione finanziaria deve tener conto della necessità di tutelarsi da variazioni sfavorevoli, ma deve anche considerare il costo opportunità delle eventuali coperture e, quindi, la possibilità che attraverso di esse ci si precluda la possibilità di sfruttare eventuali variazioni positive delle variabili stesse. E’ in questo senso che si afferma che i rischi finanziari (diverse fattispecie in cui si articola il rischio di mercato) non possono essere limitati: le politiche di hedging consentono alle imprese di trasformare l’incertezza legata alla variazione delle variabili finanziarie in un rischio calcolato e, quindi, di limitare l’esposizione agli effetti negativi che possono derivare dalle stesse. In secondo luogo, le imprese che operano, soprattutto, nei mercati “difficili” devono acquisire una capacità di “controllo” dei rischi di credito, legati alla possibilità che la controparte di un’operazione finanziaria non rispetti l’obbligazione assunta entro i termini ed alle condizioni previste dal contratto. Al riguardo, va notato che nei casi in cui è elevata la possibilità che la situazione di crisi di un soggetto inadempiente si propaghi agli altri operatori, secondo il cosiddetto “effetto domino”, aumenta l’esposizione al rischio dell’impresa: il rischio di credito da controparte si amplia in rischio sistemico. Un’ultima fattispecie di rischio da controparte è il rischio paese, inteso come la possibilità che un debitore sia inadempiente per cause che esulano dalla volontà del singolo e che coinvolgono la sfera istituzionale di un paese. Approfondimento sull’attuale crisi finanziaria La crisi finanziaria del 2009 ha avuto pesanti ripercussioni su tutti gli attori del sistema economico. Sebbene iniziata nei piani alti di Wall Street, e quindi caratterizzata da un’origine principalmente finanziaria, la crisi ha avuto importanti ripercussioni sulle imprese di tutti i settori, piccole in particolare. Ha inciso, inoltre, sulla propensione e sulla capacità di spesa dei consumatori e, anche attraverso le operazioni speculative degli investitori, ha avuto riflessi sulla salute economico/finanziaria di molti paesi (Tardivo, Vassone, 2011). Gli Autori sottolineano come, nonostante l’origine della crisi possa essere ricondotta in prima battuta ai mutui subprime e ai processi di cartolarizzazione collegati agli stessi6, le cause degli L’ABI definisce cartolarizzazione (o securitization) quella tecnica finanziaria volta a trasformare crediti o altri classi dell’attivo in strumenti di raccolta di capitale. I crediti vengono aggregati e presentati come garanzia di titoli emessi nel mercato dei capitali. Più in particolare, il creditore originario, di solito una banca un intermediario o un ente pubblico (originator) cede ad un altro soggetto (cessionario o special purpose vehicle) i propri crediti che vengono cartolarizzati da quest’ultimo attraverso l’emissione di titoli rappresentativi degli stessi. Questa pratica è nata negli USA negli anni ’70 proprio per operazioni aventi ad oggetto i mutui immobiliari ed è stata recepita in Italia con la L. n. 130 del 30 aprile 1999. 6 13 effetti così amplificati della stessa debbano essere ricercati in una serie di fattori tra loro connessi. E’ questa, in effetti, l’essenza dei processi di globalizzazione dell’economia che, favorendo una finanziarizzazione sempre più spinta, portano con sé elevati rischi sistemici, di cui la crisi del 2009 è una “perfetta” dimostrazione. I mutui subprime sono quei mutui concessi, senza la presentazione di adeguate garanzie, a quei consumatori che, dai bassi rendimenti del risparmio hanno dirottato i propri risparmi sul mercato immobiliare7. Tale fenomeno ha avuto la sua massima esplosione, negli USA, nel biennio 20042006, al termine del quale, per una serie di ragioni, l’aumento continuo del prezzo delle case ha subito un improvviso arresto. I sottoscrittori dei mutui si sono trovati ad aver contratto mutui il cui valore eccedeva quello degli immobili ed hanno dovuto dichiarare bancarotta. L’insolvenza dei clienti ha determinato una minore liquidità per gli istituti di credito e la conseguente incertezza sul valore dei titoli a messi a seguito dei processi di cartolarizzazione. Le perdite degli istituti sono state trasmesse al sistema finanziario e il calo di fiducia nel sistema da parte degli investitori, unito al rallentamento economico, ha prodotto gli effetti che ancora continuiamo a vedere. I consumatori hanno ridimensionato i propri consumi sia a seguito della rivisitazione delle proprie aspettative (Krugman, 2009) sia a causa della minore liquidità generata dal sistema8. Uno degli effetti sociologici più importanti della crisi risiede appunto nel calo di fiducia nel sistema, calo di fiducia che condiziona il comportamento di consumatori e investitori contribuendo in maniera sostanziale al rallentamento economico di molti paesi. La sfiducia e la minore capacità di spesa dei consumatori sono fortemente connesse all’aumento dei livelli di disoccupazione, che ha raggiunto livelli preoccupanti in molti paesi avanzati. Le imprese vendono meno e sono costrette, per mantenere accettabili livelli di liquidità, a ridurre il proprio magazzino e a comprimere le spese in ricerca e sviluppo (Tardivo e Vassone, 2010) con effetti drammatici sulla competitività delle stesse. 7 Il termine subprime deriva dalla circostanza che i mutui erano concessi a clienti che non presentavano adeguate garanzie. Una politica creditizia eccessivamente morbida è stata di certo fondamentale nello sviluppo della crisi. 8 Si tratta di una relazione circolare. In via del tutto esemplificativa, si pensi all’effetto che il calo della domanda ha sulle imprese. La riduzione delle vendite spinge le imprese a rivedere la propria capacità produttiva. Le imprese più deboli escono dal mercato e tutto ciò si riflette in aumenti dei livelli di disoccupazione con un effetto negativo sulla capacità di spesa degli individui. Le imprese d’altra parte fronteggiano anche la stretta creditizia (credit crunch), quindi ad un più difficile accesso al credito che limita fortemente la capacità di investimento delle imprese. D’altra parte, anche in questo caso, si tratta di un cane che si morde la coda: è vero che molte imprese italiane hanno minore accesso al credito rispetto al passato (soprattutto PMI), ma è anche vero che la maggior parte delle imprese è sottocapitalizzata, con tutti i problemi di scarse garanzie, ridotto potere contrattuale ed eccessiva esposizione creditizia che ne derivano. 14 La radice della crisi va, quindi, ricercata nella bolla speculativa che ha accompagnato lo sviluppo/inviluppo dei mutui subprime9. Accanto alla bolla vanno poi considerati gli effetti delle operazione di carry trade10 che hanno avuto effetti pesanti sulle economie di diversi paesi la politica opportunistica di molte imprese eccessivamente ancorate all’ottica di breve tipica dello shareholder approach e fortemente influenzate dal moral hazard dei propri manager (Tardivo e Vassone, 2010). Lo shareholder approach è tipico delle imprese che focalizzano la propria attenzione sugli interessi degli azionisti, privilegiando azioni di breve periodo che possono massimizzare il rendimento dei titoli azionari a svantaggio degli investimenti che servirebbero a migliorare la competitività delle imprese nel lungo periodo. E’ in quest’ottica che gli istituti hanno preferito rendimenti più elevati a investimenti più sicuri, situazione aggravata anche dalla volontà dei manager di massimizzare i propri interessi (guadagnare di più) attraverso lo scorporo dei crediti dai propri bilanci, da un lato, e attraverso il ricorso spinto alla leva finanziaria dall’altro11. Il fatto che tale crisi abbia avuto ripercussioni così vaste (si pensi alle ripercussioni su tutti i paesi del mondo e alla marea di settori coinvolti) è un tipico esempio degli effetti che la finanziarizzazione dell’economia ha sul sistema economico mondiale e, soprattutto, della maggiore pervasività deghi eventi che, attraverso un effetto domino dirompente, trasformando il verificarsi di un rischio di credito in un vero e proprio rischio sistemico. I rischi finanziari I rischi finanziari sono quei rischi legati all’andamento incerto delle variabili finanziarie (tassi di cambio, quotazioni dei beni, tassi di interesse, indici azionari). L’esposizione ai rischi finanziari non è uguale per tutte le imprese (Calvelli, 1998). Essa dipende, al contrario, da una serie di fattori interni ed esterni all’impresa: - dalla posizione che l’impresa occupa all’interno del settore e dalle forze competitive che incidono sulla redditività della stessa; - delle normative dei mercati origine degli input produttivi e di destinazione degli output aziendali; Una bolla speculativa si ha quando più soggetti si convincono che l’acquisto di un bene procurerà ottimi rendimenti. L’aumento della domanda provoca effettivamente un aumento delle quotazioni che dura fino a quando gli investitori, desiderosi di concretizzare i propri guadagni o convinti che il trend positivo non possa ancora durare a lungo, iniziano a vendere il bene con conseguenze negative sulla quotazione dello stesso. 9 10 Il carry trade, come sottolineano gli Autori, è un’operazione che punta a massimizzare il rendimento di un’operazione mettendo in correlazione tassi di interesse e valute. Gli investitori si approvvigionano di capitali in paesi in cui il tasso di interesse è basso e investono i capitali in paesi in cui il rendimento è elevato. La cessione della valuta del primo paese a fronte della seconda contribuisce a mantenere basso il valore della prima valuta e, quindi, contribuisce a rendere profittevole l’operazione che rischierebbe di essere vanificata dalla rivalutazione della valuta del primo paese. 11 La leva finanziaria è data dal rapporto Debiti su Capitale Proprio. Ricordando la scomposizione del ROE (Rn/ E): ROE = ROI + D/E(ROI – i), dove ROI = Ro/D+E e i sono gli oneri finanziari, è possibile riflettere sui vantaggi che derivano da un leverage elevato e sui pericoli insiti in un’esposizione eccessiva ai debiti verso terzi (crediti, obbligazioni, ecc). 15 - dal modo in cui l’impresa organizza le proprie attività della catena del valore. . Anche le modalità di attuazione delle strategie dell’internazionalizzazione delle imprese possono influire sulle connessioni tra mercati finanziari e performance aziendali, se si pensa, ad esempio, che il passaggio tra forme di competizione a quelle di collaborazione può comportare anche accordi fornitore/cliente finalizzati ad una ripartizione più equa dei rischi di mercato. La connessione tra variabili finanziari, margini di profitto e liquidità è bene espressa dal flowchart riportato nella figura 1 (Calvelli, 1990). Una variazione del tasso di cambio (nel regime euro, una diminuzione del tasso di cambio) che comporta un aumento del prezzo dei fattori produttivi importati ha, infatti, un effetto importante sia sulle imprese che acquistano direttamente input dall’estero sia su quelle imprese che acquistano semilavorati a loro volta ottenuti con input importati. In entrambi i casi, la variazione del cambio comporta un aumento dei costi di produzione delle imprese, aumento che rischia di ridurre sensibilmente i margini di profitto delle imprese. L’effetto dipende da una serie di fattori: Ø dalla possibilità che l’impresa risulti avvantaggiata all’estero, dove la variazione del cambio produce un effetto opposto; Ø dalla possibilità che l’impresa riesca ad attrarre consumatori prima orientati all’acquisto di prodotti sostitutivi importati; Ø dall’intensità di capitale che, in questa fase, potrebbe diventare più oneroso proprio a causa dell’aumento dei tassi di interessi legati all’andamento del cambio. Più specificamente, a livello microeconomico, un incremento dei costi dei fattori produttivi importati 12, generato da una diminuzione dei tassi di cambio, produce in via diretta una riduzione dei profitti, allorquando i maggiori oneri non possono essere trasferiti sui prezzi di mercato; ciò è realisticamente ipotizzabile nelle situazioni concorrenziali altamente competitive ed in presenza di un’elevata elasticità della domanda interna rispetto al prezzo (Ei). Altrimenti, il trasferimento dei maggiori costi di produzione sui prezzi di mercato può riflettersi in una minore domanda interna, specie nei casi in cui: – l’incremento del prezzo di mercato non è in linea con l’aumento generale dei prezzi; – il livello dei prezzi risulta più elevato di quello dei prodotti concorrenti o sostitutivi; – il valore attribuito al prodotto dal consumatore, dopo l’aumento del prezzo, si presenta troppo elevato rispetto all’utilità percepita. 12 Logicamente, in presenza di una diminuzione dei prezzi, cambiano i segni delle connessioni. 16 FIG. 1 – Fluttuazioni delle variabili finanziarie e loro impatto sui margini di profitto delle imprese Tassi di interesse esteri a breve Prezzi fattori interni Prezzi fattori importati Tassi di cambio Ex Costo di Ei Domanda estera si no Riserve valutarie Ee produzione Trasferimento sui prezzi di mercato Prezzi beni sostitutivi importati Leve di marketing Domanda interna Scorte Produzione Economie e diseconomie di scala Fabbisogno capitale circolante Tassi di interesse interni a breve MARGINI DI PROFITTO Fonte: tratto da Calvelli (1990). Il management, di fronte ad un calo della domanda, può seguire, almeno nel breve periodo, due alternative: – ridurre la produzione, con il conseguente possibile raggiungimento di diseconomie di scala e riduzioni dei margini di profitto dell’impresa; 17 – creare un maggiore accumulo di scorte di prodotti finiti con i noti effetti di un maggiore fabbisogno di capitale circolante e di ipotizzabili incrementi dei tassi di indebitamento. Vanno notati ancora gli effetti compensativi dei cali della domanda interna che possono generarsi: – da un lato, dai maggiori livelli della domanda estera indotti dalla diminuzione dei tassi di cambio; ciò tenuto conto dell’elasticità della domanda estera di prodotti nazionali rispetto al prezzo (Ee); – dall’altro, dalle riduzioni delle importazioni di beni sostitutivi, indotta dall’aumento dei prezzi dei beni importati, che può contribuire ad elevare la domanda interna per alti valori dell’elasticità incrociata (Ex). Le connessioni considerate mostrano come un’impresa possa essere danneggiata, oltre che da una politica degli approvvigionamenti sbagliata, anche dalla variazione di variabili sulle quali non ha controllo, ma rispetto alle quali deve abituarsi a recepire le informazioni necessarie a costruire idonee politiche di hedging. Le tipologie di rischio valutario e i relativi strumenti di copertura Il rischio valutario, ossia connesso alla variabilità dei tassi di cambio, produce tre effetti importanti per le imprese: 1. In primo luogo, una variazione del cambio incide sui crediti e debiti che le imprese contraggono in valuta estera. Questo rischio, definito di transazione, si manifesta ogni qualvolta le imprese concedano o ricevano dilazioni di pagamento da controparti situate in paesi diversi. Ovviamente il rischio sussiste solo se la transazione deve essere regolata in una valuta diversa da quella domestica e si manifesta i propri effetti nel momento in cui si calcolano i controvalori in valuta nazionale di crediti e debiti in valuta estera. In un regime certo per in certo, esso si concretizza: per l’importatore, nella possibilità che una diminuzione del cambio comporti un aumento del controvalore in euro dei debiti in valuta estera; per l’esportatore (venditore), nella possibilità che un aumento del cambio comporti una diminuzione del controvalore in euro del credito contratto in valuta estera. 2. La variazione del tasso di cambio incide anche sul controvalore effettivo delle poste di bilancio relative a transazioni in valuta estera. E’ possibile che il cambio, nel tempo che passa tra la scrittura e la chiusura del bilancio, subisca variazioni tali da modificare il peso di tali scritture. Si discute in proposito sul momento temporale da cui parte l’esposizione al rischio, momento che sembrerebbe coincidere con quello in cui viene spiccato l’ordine (per 18 l’acquirente) accettato lo rende ed emessa la fattura (venditore) sempre in valute diverse da quella domestica. Questa forma di rischio valutario viene definita rischio di traduzione. 3. Ultimo, ma non meno importante, la variazione del cambio può incidere sulla posizione competitiva dell’impresa in un determinato mercato, rendendo gli investimenti fatti meno profittevoli o i prodotti meno attrattivi. E’ questo definito, più genericamente, rischio economico. Gli strumenti di copertura dal rischio valutario si distinguono in tradizionali ed innovativi. I tradizionali sono: la fatturazione in moneta di conto (generalmente si fattura nella valuta del venditore, ma la scelta dipende comunque dal potere contrattuale delle parti); l’assicurazione (molto costosa, e speso impraticabile per importi minimi e paese); la fissazione di clausole difensive. Tra le clausole difensive più utilizzate vi sono: il paniere di valute (più stabile rispetto alla singola valuta proprio per la possibilità che rivalutazioni di alcune monete e svalutazioni di altre si compensino tra loro); la fissazione di un cambio massimo (cap) a vantaggio dell’esportatore; la fissazioni di un cambio minimo (floor) a vantaggio del compratore; la possibilità di stabilire una franchigia e quindi la possibilità di utilizzare il cambio stabilito fino a una certa soglia. Gli strumenti innovativi sono i derivati e, in particolare, currency future, currency swap e currency option che saranno spiegati in seguito. I rischi di prezzo Anche rispetto ai rischi di prezzo, è possibile distinguere tre tipologie: 1. Rischio transattivo, collegato alla possibilità che un aumento (diminuzione) delle quotazioni delle commodity costringa il compratore (venditore) a pagare (incassare) una cifra superiore (inferiore) rispetto a quella preventivata. 2. Rischio di sostituzione, legato alla possibilità che un aumento dei prezzi sposti la domanda verso prodotti sostitutivi. 3. Rischio economico-competititvo, relativo alla possibilità che l’aumento (diminuzione) dei prezzi svantaggi un’impresa ma non i suoi concorrenti che hanno acquistato (venduto) a prezzi più convenienti. Anche in questo caso, è possibile distinguere due categorie di strumenti di copertura: gli strumenti reali e quelli finanziari. 19 Come strumenti reali vanno ricordati gli accordi a prezzo fisso (sempre dipendenti dalla forza contrattuale delle parti) e l’utilizzo della tecnica delle scorte speculative (si acquista di più quando i prezzi sono più bassi). Tale politica, sebbene proficua, non può essere utilizzata sempre dalle imprese. In primo luogo, la possibilità di utilizzarla dipende dalla presenza di un’adeguata liquidità; in secondo luogo, non tutte le materie prime e i semilavorati possono essere sticati e, comunque, lo stoccaggio dipende dal possesso di magazzini adeguati. Ultimo, tale politica espone l’impresa a immobilizzi di capitale e rischio di obsolescenza e/o deperimento delle scorte. Per quanto riguarda gli strumenti finanziari, i derivati su merci saranno discussi nell’appendice. I Centri finanziari per il governo della complessità Al fine di razionalizzare i costi di approvvigionamento e ridurre l’esposizione valutaria delle singole consociate, le grandi corporate tendono a creare dei nodi finanziari supervisori cui vengono affidati una serie di attività. Tra i più diffusi vi sono i centri di rifatturazione e i centri di netting. Centri di rifatturazione Un Centro di rifatturazione (Renvoicing) ha lo scopo di accentrare gli approvvigionamenti di gruppi di consociate presso di sé, con le conseguenti economie di costo che discendono dal maggiore potere negoziale che ovviamente un Centro può avere. Sarà successivamente il Centro a spiccare fattura nei confronti delle consociate, in funzione dei flussi di beni a queste ultime inviati. Generalmente, le fatture sono spiccate dal Centro nella valuta delle consociate e, in tal modo, il Centro, accentrando presso di sé i rischi di cambio, può gestire la tesoreria plurivalutaria dell’intero gruppo. Attraverso questa tecnica, si persegue una più ordinata politica valutaria di gruppo. Gli interventi di reinvoicing presentano il vantaggio di evitare talune resistenze delle unità locali rispetto alle scelte strategiche della casa-madre ed offrono la possibilità di estendere i meccanismi compensativi anche ad operazioni concluse, autonomamente, dalle singole consociate con committenti esterni. Il Centro di rifatturazione può perseguire anche politiche dei prezzi di trasferimento (transfer price), intendendosi per prezzo di trasferimento il prezzo pagato da una consociata alla capogruppo, oppure ad un’altra consociata o al Centro di rifatturazione, in relazione al trasferimento di materie prime, parti componenti, prodotti intermedi o servizi. I prezzi di trasferimento sono, dal punto di vista tecnico, uno tra i problemi più complessi da risolvere nella gestione delle imprese multinazionali, in quanto se il costo dei prodotti/servizi 20 trasferiti fosse determinabile con certezza, in tutti i suoi componenti, non nascerebbero problemi di stima dei prezzi di trasferimento. D’altra parte, alcuni costi sono, per loro natura, difficili da ripartire tra le consociate (si pensi, ad esempio, ai costi di ricerca). La fissazione dei prezzi di trasferimento da attribuire ai flussi di beni trasferiti da un Centro di rifatturazione è essenzialmente funzione delle finalità perseguite dal Centro e dalla Corporate. I criteri per la definizione dei prezzi sono due: il criterio del costo nel caso in cui il centro voglia variare i prezzi applicati alle singole consociate in funzione di propri obiettivi e/o necessità; il criterio del prezzo di mercato, nel caso in cui il centro voglia adottare una politica neutrale. I prezzi saranno più bassi di quelli praticati sulla piazza della consociata quando la consociata opera in una situazione competitiva difficile o si trova in una fase di start-up e deve cercare di conseguire nel più breve tempo possibile posizionamenti competitivi vantaggiosi. In tal caso, il parametro di riferimento del prezzo di trasferimento può essere il costo sostenuto dal Centro, che sconta economie di scala, oppure, al limite, un prezzo meno elevato del costo di approvvigionamento sostenuto dal Centro. L’obiettivo di tali politiche, tuttavia, è in molti casi diverso. Il centro, variando i prezzi cerca di far defluire utili in quei paesi dove i regimi fiscali sono più morbidi e ridurre gli utili nei paesi in cui lea tassazione è maggiore. Questa politica trova spesso l’opposizione dei manager, i cui prodotti sono spesso ancorati agli utili di esercizio e che, quindi, possono risentire, rispetto ai colleghi, di prezzi di trasferimento più alti imputati per compensare quelli più bassi delle consociate in difficoltà. Nelle situazioni in cui la politica della Corporate è incentrata su una valutazione più neutrale delle performance delle consociate, in un’ottica di equidistanza, il criterio seguito dal Centro può essere quello di valutare i beni trasferiti sulla base dei corrispondenti prezzi praticati nei singoli mercati locali. Oltre agli arbitraggi fiscali, oggi più difficili a causa degli accordi che stanno emergendo tra i diversi paesi, il centro può perseguire altre finalità importanti per la sopravvivenza del gruppo, finalità che spesso richiedono l’applicazione del criterio del costo. Il centro può, ad esempio, puntare a ridurre gli effetti delle restrizioni sui movimenti di capitali, dividendi e royalty, travasando gli utili verso altri paesi; in tal modo il centro riduce anche gli effetti di una eventuale nazionalizzazione. Ancora, attraverso i trasferimenti interni, il centro può bypassare o comunque ridurre l’effetto di dazi e contingentamenti. Centri di netting Il Centro di netting (o di compensazione multilaterale) detiene la gestione accentrata dei flussi valutari che si generano dalle attività e passività in valuta delle consociate. E’ chiaro che il 21 problema non si pone allorquando la Corporate ha attuato una politica di rifatturazione imputando alle consociate i prezzi di trasferimento nelle singole valute locali. Essenzialmente, il Centro procede a: − tradurre in una moneta di conto gli importi dei debiti e dei crediti in valuta estera delle consociate; − compensa le posizioni opposte tra le consociate e, in tal caso, ogni consociata pagherà il proprio debito nella valuta locale, mentre il Centro pagherà i crediti in valuta delle consociate, sempre nelle loro rispettive valute domestiche. Gli eventuali sfasamenti tra debiti e crediti intergruppo ricadranno sul Centro che, in tal modo, gestisce i surplus o i deficit della complessiva gestione plurivalutaria. Il Centro dovrà, infatti, coprirsi a termine per il residuo non compensato (procedura del netting multilaterale). Affinché si possa adottare una politica di netting, è necessario che i crediti ed i debiti delle consociate in valuta, da compensare, siano complessivamente del medesimo ammontare e maturino intorno a scadenze prossime. Se non è possibile riscontrare una tale situazione, il Centro può gestire i flussi cassa delle consociate (cash pooling), attraverso idonee politiche di anticipo e ritardo (leads and lags), finalizzate a livellare le scadenze. E’ chiaro che sarà il Centro ad accollarsi gli sfasamenti tra anticipi e ritardi complessivamente accordati alle consociate e ad accollarsi i rischi di cambio relativi agli importi non compensati. Tuttavia, a livello di gruppo, l’accentramento delle attività di copertura permette un importante riduzione dei costi complessivamente sostenuti. Gli strumenti derivati Gli strumenti derivati sono contratti il cui valore dipende dall’andamento di un’attività sottostante. In questo corso l’attenzione verrà focalizzata su tre tipi di strumenti derivati: future, option e swap. I tre strumenti possono avere come sottostante attività finanziarie, valute o merci e possono essere utilizzati secondo ottiche più o meno speculative a seconda degli interessi specifici perseguitui da chi sottoscrive il contratto. In questo corso l’attenzione sarà posta sui derivati su valute (currency option, currency future e currency swap), su merci (commodity option e commodity future) e su tassi di intereste (interest rate swap. La logica seguita sarà quella del sottoscrittore (impresa) che utilizza i derivati come strumenti di copertura, pur dovendo sempre considerare, per una sclta opportuna dello strumento, il potenziale speculativo di ciascuno di essi. Gli strumenti derivati più semplici sono i contratti a termine (forward), che prevedono l’acquisto o la vendita di una certa quantità di sottostante a una scadenza prestabilita e ad un prezzo 22 prefissato (prezzo a termine). Tali strumenti permettono di bloccare il rischio di prezzo o cambio associato ad una determinata transazione, in quanto il sottoscrittore firma oggi un contratto in cui gli elementi sono previsti e non possono essere modificati. E’ uno strumento over the counter, le cui caratteristiche vengono negoziate tra impresa e operatore finanziario. Tuttavia, proprio il fatto che prezzi (o cambi) risultino fissati e che, quindi, il sottoscrittore non abbia eventualmente modo di avvantaggiarsi di variazioni favorevoli degli stessi, spinge spesso le imprese ad utilizzare altri strumenti derivati, più complessi e spesso caratterizzati da maggiori livelli di rischio. I Futures Il contratto future è un accordo bilaterale secondo il quale una delle parti si impegna a comprare o vendere una certa quantità fissata di un bene (commodity future) o di un’attività finanziaria (financial future) contro un determinato corrispettivo in danaro, ad una data futura certa. E’ uno strumento standardizzato che viene contrattato in un apposito mercato (mercato dei future). La standardizzazione risiede nel fatto che gli elementi base del future (quotazione, taglio, meccanismo di funzionamento) sono prestabiliti dalla Clearing House, ente che si pone compe controparte di tutti coloro che operano in future. Questi strumenti permettono di assumere delle posizioni, di acquisto o di vendita, su una attività senza essere obbligati a disporre, al momento della contrattazione, delle risorse necessarie a soddisfare l'obbligazione assunta. Le posizioni che si possono assumere sono: - Short, equivalente ad una vendita delle attività sottostanti; - Long, equivalente ad un acquisto delle attività sottostanti. Oltre alla qualità, il tipo, il prezzo del bene o dell’attività finanziaria oggetto di scambio e la data a cui lo scambio avrà luogo, il contratto future include anche il luogo dello scambio e le possibili scelte che il venditore ha a disposizione per la procedura di consegna. Gli elementi del future sono: Ø Posizione: Long = impegno ad acquistare; Short = impegno a vendere Ø Taglio: fisso per ogni tipologia di future e di attività sottostante, indica la quantità standardizzata di sottostante rappresentata da un contratto. Ø Numero dei future da acquistare, dipende dal rapporto tra capitale che si intende investire e taglio. 23 Ø Quotazione, da monitorare giornalmente, è il prezzo dell’attività sottostante nel mercato dei future. Ø Valore nominale = Numero dei future × Taglio Ø Valore facciale = controvalore del valore nominale Ø MI (margine iniziale) = % del VF che gli operatori versano al momento della sottoscrizione per aprire il conto margine. Ø MV (margine di variazione)= VF1-Vfo Ø Margin call (soglia di ripianamento) = 75% del Margine iniziale (MI) Il funzionamento del future ruota attorno al meccanismo del marking to the market: ogni giorno le posizioni dei sottoscrittori vengono incrociate (pura operazione contabile) con posizioni di segno opposto al fine di verificare l’eventuale accredito o addebito del margine di variazione. L’obiettivo di chi sottoscrive il future è, infatti, quello di guadagnare proventi finanziari (margini di variazione) ed eventualmente compensare co questi le perdite subite nel mercato reale (merci) o valutario (valute). Se l’operatore ha assunto inizialmente una posizione long, giornalmente si compensacon una posizione short se il valore facciale aumenta, e il MV si accredita se il VF è aumentato; si addebiota se è diminuito. Al contrario, se un operatore ha inizialmente assunto una posizione short, questa viene compensata con una posizione long e il MV si accredita se il VF è diminuito, si addebita se il VF è aumentato. In base a questo meccanismo, gli operatori che speculano su aumenti del VF assumeranno posizioni long; quelli che speculano su diminuzioni del VF, assumeranno posizioni short. Sulla somme accreditate e addebitate maturano specifici interessi. Qualora il valore del margin scendesse al di sotto del 75% del valore iniziale, la controparte è obbligata a ripianare il margine. Se l’operatore non ripiana il margine, la Clearing House chiude il conto, compensando il future con una posizione opposta a quella iniziale. Commodity Future I commodity future vengono utilizzati per la copertura dal rischio di prezzo. L’attività sottostante è la merce e la quotazione esprime proprio il prezzo della merca nel mercato future. 24 Il venditore di commodity, che teme una diminuzione dei prezzi, utilizzerà i future speculando proprio sull’evento che teme e, quindi, giocando su una diminuzione delle quotazioni. Visto che nel commodity future il VN è l’ammontare complessivo di merci sul quale si effettua l’operazione e il VF esprime il valore monetario dell’operazione (TxNxQ), il venditore assumerà quella posizione che gli permette di guadagnare quando il VF diminuisce e, quindi, short (short x long). Al contrario, il compratore di merci che teme l’aumento del prezzo, giocherà su un aumento della quotazione e del VF assumendo una posizione long (long x short). Currency Future Il currency future è leggermente più complesso perché l’attività sottostante è la valuta e occorre considerare la relazione che esiste tra quotazione e taglio. Può essere utile seguire la seguente scaletta: a) Considerare la variazione del cambio temuta dall’operatore b) Verificare se cambio e quotazione sono espressi in maniera diretta o inversa c) Calcolare, attraverso una proprorzione, la relazione tra valore vacciale e quotazione. In tal modo sarà agevole individuare la variazione della quotazione e del valore facciale sulla quale scommette l’operatore. Consideriamo un esempio. Supponiamo che un esportatore italiano abbia contratto un credito di 50.000 $ con clienti statunitensi e che voglia coprirsi con un future che ha le seguenti caratteristiche. T = 10.000 $ Q = 1,27 $ L’esportatore teme l’aumento del cambio euro/dollaro, visto che la quotazione è espressa come il cambio (n.b. l’euro si quota certo per incerto), l’esportatore scommette proprio sull’aumento di Q. Calcoliamo il numero dei future che sarà dato da 50.000/10.000 = 5. L’esportatore sottoscrive, quindi, 5 contratti. Calcoliamo, attraverso la proprorzione, il VF. 1 € : 1,27 $ = VF: VN 25 Quindi VF = 50.000 x 1/1,27 Anche senza effettuare il calcolo, è agevole notare che l’aumento della quotazione comporterebbe una diminuzione del VF e , quindi, con questi dati, l’esportatore può coprirsi assumendo una posizione short. Nei giorni successivi si provvederà ad accreditare o addebitare il MV a seconda che la quotazione effettivamente aumenti (diminuzioni del VF ) o diminuisca. Il calcolo del VF è comunque importante per calcolare margine inziale e soglia di ripianamento. Le Opzioni Le opzioni sono contratti con cui si auume il diritto (non l’obbligo) a comprare (call) o vendere (put) una certa quantità di attività sottostante (valuta o merce) adun prezzo prefissato e una scadenza prestabilita. Le opzioni si definiscono europee se possono essere esercitate solo alla scadenza, americane se possono essere esercitate fino alla scadenza. Esistono opzioni over the counter e opzioni standardizzate, ma il meccanismo di funzionamento è lo stesso. Gli elementi dell’opzione sono: Ø Strike price (X) o prezzo di esercizio. E’ il prezzo prestabilito al quale il sottoscrittore della call (put) potrà comprare (vendere) l’attività sottostante; Ø Il premio (Vo) che è il prezzo al quale il sottoscrittore può sottoscrivere l’opzione. Esprime il valore dell’opzione. Le opzioni si dicono in the money se al momento della sottoscrizione lo strike price è più conveniente del prezzo di mercato. Si dicono at the money se prezzo di esercizio e prezzo di mercato sono uguali. Si definiscono, infine out of the money se, al momento della sottoscrizione, il prezzo di esercizio è meno conveniente di quello di mercato. 26 Opzione call Sottoscrivendo un’opzione call, un operatore acquista il diritto di acquistare una certa attività sottostante a un prezzo prefissato e ad una scadenza (o entro una scadenza) prestabilita. Per valutare la convenienza dell’opzione, è necessario fare tre calcoli di convenienza (ottica di copertura). I CALCOLO (EX ANTE) serve a decidere se sottoscrivere o meno l’opzione. St *– X – Vo > 0 Dove St* è il prezzo atteso dell’attività sottostante; X è lo strike price e Vo è il premio. II CALCOLO AL MOMENTO DELL’ESERCIZIO serve a decidere se levare (esercitare) o abbandonare (acquistare al prezzo di mercato perché più conveniente). St – X > 0 Dove St è il prezzo spot al momento dell’esercizio. Se il risultato è minore di zero, l’operatore non esercita e compra l’attività al prezzo di mercato; se è uguale a zero è indifferente nel senso che lo X è proprio uguale al prezzo di mercato. Se l’operatore abbandona il premio vuol dire che le sue aspettative erano sbagliate e ha ottenuto una perdita pari al premio che ha pagato per sottoscrivere la call. Per verificare la convenienza complessiva dell’operazione e, nel caso in cui l’operatore abbia esercitato, verificare che il risparmio ottenuto sull’acquisto dell’attività non sia maggiuore del costo sostenuto per acquistare l’opzione, occorre fare un III CALCOLO DI CONVENIENZA (EX POST) St – X – Vo >0 Se il risultato è maggiore di zero, vuol dire che l’operatore ha avuto convenienza a fare l’opzione perché il risparmio ottenuto (St – X) è maggiore del premio versato (Vo) 27 Opzione put Il sottoscrittore di una PUT acquista il diritto a vendere l’attività sottostante ad un prezzo prefissato e una scadenza (o entro una scadenza) prestabilita. E’ l’opzione con cui si copre il venditore e, come nel caso della CALL, permette di ottenere un guadagno illimitato (in questo caso dato dalla differenza X – St) a fronte di una perdita massima pari al premio (Vo). Per la PUT i calcoli sono i seguenti: X – St * - Vo>0 X – St>0 X – St – V0 >0 Nel caso di CURRENCY OPTION, per fare i calcoli di convenienza in euro e, quindi, capire il controvalore in euro delle operazioni, occorre convertire lo strike price (che è praticamente un cambio a termine) in euro, e calcolare il controvalore del cambio a pronti atteso per la scadenza e del cambio alla scadenza. X = 1/SP dove SP è lo strike price St* = 1/Cpa dove Cpa è il cambio a pronti atteso per la scadenza St = 1/Cps dove Cps è il cambio a pronti alla scadenza CURRENCY OPTION CALL (copertura dell’importatore): St* - X – Vo > 0 28 L’operatore sottoscrive la call perché secondo le sue aspettative l’opzione gli consentirà di acquistare la valuta estera a un cambio più conveniente (SP>Cpa) e, quindi, di risparmiare sul controvalore in euro. St – X >0 L’operatore leva il premio perché lo SP è effettivamente maggiore del cambio a pronti a scadenza e, quindi, risparmia sull’acquisto della valuta estera. St – X – Vo>0 L’operatore ha avuto convenienza perché ha risparmiato, sull’acquisto della valuta estera, un ammontare superiore al premio che ha pagato. CURRENCY OPTION PUT (Copertura dell’esportatore) X – St* - Vo >0 L’operatore sottoscrive la PUT perché, secondo le sue aspettative, l’opzione gli consentirà di cambiare la valuta estera in euro (vendere valuta) a un cambio più conveniente rispetto a quello di mercato (SP < Cpa) X – St >0 L’operatore leva il premio e vende la valuta allo strike price (SP < Cps) X – St – Vo >0 L’operatore ha avuto convenienza perché attraverso l’opzione ha ottenuto una remunerazione superiore al premio pagato. Swap Sono contratti sottoscritti tra due parti mediante il quale ogni parte assume l’obbligo di effettuare dei pagamenti periodici fissi o variabili. Servono principalmente alla copertura dal rischio di interesse in quanto consentono di trasformare il costo di un finanziamento da fisso in variabile o viceversa o di ottenere un risparmio sul pagamento di oneri finanziari scambiando il tasso ottenuto dal proprio istituto di credito con quello ricevuto dalla controparte da un altro istituto di credito. Possono anche servire alla copertura dal rischio di cambio. 29 La tipologia più semplice di swap è l’Interest Rate Swap (IRS), che permette di trasformare: Ø tasso fisso vs tasso variabile Ø Tasso variabile vs tasso fisso Ø Fisso vs fisso – variabile vs variabile Per la copertura dal rischio di cambio, si utilizza generalmente il Currency swap o contratto di riporto in cambi. Esso prevede l’impegno a una duplice operazione di segno opposto sullo stesso capitale nozionale (valuta estera). Nel currency swap gli elementi sono tutti noti per cui gli operatori possono effettuare un calcolo ex ante per verificare la convenienza dell’operazione. In un’ottica di copertura, è plausibile che gli operatori scelgano come operazione a termine quella di copertura. L’importatore verificherà, quindi, la convenienza di realizzare una vendita a pronti e un acquisto a termine di valuta estera. In tal modo egli avrà a scadenza la valuta di cui ha bisogno per pagare i fornitori esteri. L’esportatore verificherà, invece, la convenienza di effettuare un acquisto a pronti contro una vendita a termine di valuta estera. In tal modo eviterà di essere doppiamente esposto al rischio di cambio a scadenza, in quanto se prevedesse l’acquisto a termine, si troverebbe alla fine dello swap con un doppio quantitativo di valuta estera. Es. 1 – vendita a pronti e acquisto a termine (copertura dell’importatore). Supponendo che il sottostante sia 1 $, l’importatore effettuerà il seguente calcolo di convenienza e farà lo swap solo se il risultato è maggiore di zero. R = 1/Cp – 1/Ct + (1/ Cp )× ie× t – (1$ × i$ × t)/ Ct – Dove 1/Cp è il controvalore in euro di 1 $ calcolato al cambio Cp. Esprime il controvalore che l’importatore ottiene a pronti dalla vendita di 1$. – 1/Ct è il controvalore in euro che l’importatore paga a termine per l’acquisto di 1$ 30 – (1/ Cp ) × ie× t interessi in euro che l’importatore guadagna investendo gli euro ottenuti a pronti dalla vendita del dollaro – (1$ × i$ × t)/ Ct è controvalore in euro degli interessi in $ (1$× i× i$ × t ) cui l’operatore rinuncia per aver venduto il dollaro a pronti. Dal calcolo è agevole comprendere come la convenienza dell’operazione dipenda fortemente dal differenziale tra i tassi di interesse. Es. 2 – acquisto a pronti e vendita a termine (copertura dell’esportatore) R = -1/Cp + 1/Ct – (1/ Cp ) × ie × t + (1$ × i$ × t) / Ct Anche in questo caso la convenienza dipende fortemente dal differenziale dei tassi di interesse. Si dice, infatti, che lo swap è uno strumento improprio di copertura: per coprirsi basterebbe effettuare un forward per la vendita a termine di valuta (esportatore) o per l’acquisto a termine di valuta (importatore). Gli operatori scelgono il currency swap invece del forward proprio per speculare sul differenziale dei tassi di interesse. Un’ulteriore tipologia di swap è il Cross-currency swap, che prevede il pagamento tra due soggetti di flussi di interesse in valute diverse. Gli operatori giocando sul valore delle valute cercano di ridurre il peso degli oneri finanziari. La differenza, rispetto al contratto di riporto in cambi, è che non c’è scambio del nozionale, ma solo dei flussi. Un’ultima tipologia di swap è quella dei Commodity swap in cui i pagamenti sono parametrati all’andamento di una o più commodity 31 Bibliografia Calvelli A. (1990), “Stimoli ambientali e scelte strategiche del management”, Sinergie, 21-22. Calvelli (1998), Scelte d’impresa e mercati internazionali, Giappichelli Editore, Torino. Finocchiaro D. (1995), “Aumentare i prezzi o mantenere il mercato: il dilemma imposto dalla lira debole”, Italia Multinazionale, agosto-settembre. Fornasini A., Faroni M. (1992), Rischio di cambio e finanza d’impresa, Etas Libri, Milano. Rappaport A. (1986), Creating Shareholder Value. The New Standard for Business Performance, The Free Press, New York. Salvatori S. (1990), La gestione della tesoreria plurivalutaria, Etas Libri, Milano. Salvatori S. (1992), La finanza internazionale dei gruppi industriali, EtasLibri, Milano. Tutino F. (1991), Finanza e valute, Il Mulino, Bologna. Walker G., Poppo L. 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