TOUR GRECIA CLASSICA E METEORE
ovvero
Come tentare di trasformare un viaggio ‘Alpitour’ in un’esperienza cul-tu(r)ale
La prima cosa da procurarsi per fare un bel viaggio è una bella gnocca… In alternativa,
uno o due amici affiatati.
La seconda è una buona mèta.
Avevo entrambe: Maddalena… e la Grecia Classica.
Lo giuro: io non ho mai partecipato a un viaggio organizzato… prima di andare in
Grecia. Quando andai con mia cugina a Praga nel ’91 – il mio primo viaggio – fu lei ad
organizzare quasi tutto, anche se apparentemente concordammo tutto; quando nel ‘92
visitai con sei amici Berlino e l’ex DDR successe il contrario: apparentemente
concordammo tutti insieme il tragitto, che guarda caso coincideva con quello che avevamo
preparato qualche sera prima la Paola F. ed io… Poi noi due abbiamo organizzato altri
viaggi: la valle del Reno, la Provenza, Napoli, la costiera Amalfitana e sono sempre andati
bene; del resto è sempre stato facile organizzare i viaggi con Paola: tutti e due vogliamo
vedere molto, spendere poco… e camminiamo senza brontolare… Ho sempre preparato da
me i miei viaggi: così mi fermo dove voglio, guardo quello che voglio…
Per quest’estate avevo in mente di girare l’Umbria e le Marche: qualcosa ho già visto,
qualcosa no; Maddalena non aveva visto niente. Ma la sera che facemmo visita alla Paola, lei
ci decantò la magnificenza della Grecia, ci mise in mano quattro guide… E tutto questo
ebbe l’effetto di eccitare Maddalena in maniera definitiva.
La Grecia è la Grecia, confesso… uno dei pochi viaggi relativamente lontani (quando
bisogna prender l’aereo è lontano, no?) che da anni stavano ai primi posti dei viaggi possibili.
Come potevo spegnere gli occhi di Maddalena che tanto s’erano illuminati a quell’idea?
L’organizzazione di un viaggio in Grecia non è complicata, ma nemmeno così
semplice. Aereo o traghetto? E il traghetto l’andiamo a prendere a Brindisi o ad Ancona? E
la macchina? Ce ne vorrebbe una comoda, con l’aria condizionata, e che magari consumi
poco. Si potrebbe noleggiarla in loco. E i costi? E per dormire? Ogni pomeriggio cercare
albergo… magari non troppo costoso… poi si trova una bettola: io che sono un po’ tirchio
m’accontento, ma Maddalena? No, meglio affidarsi ad un tour operator: non verrà a costare
molto di più (?)… e io non sarò tacciabile di “spartanismo” (o spartachismo?). E mi
porteranno in giro come un pacco: difficoltà mentale zero.
1° giorno - lunedì 18 luglio 2005
Il padre di Maddalena, senza dire parola (in famiglia il suo soprannome è Helmut), ci
accompagna a Croce; da lì il mio, parlando tutto il viaggio, ci accompagna all’aeroporto di
Tessera. A mio padre, che non ha mai viaggiato in aereo, l’aereo deve sembrare un
giocattolo per pazzi, e l’aeroporto una Las Vegas inconcepibile. Si ferma a farci compagnia
in attesa che c’imbarchiamo: in questi giorni è a casa solo, non sa che fare né dove andare.
Mia madre sta assistendo mia nonna in albergo da mia sorella, e lui per questo – o per altro
– ce l’ha con moglie e suocera. Ma c’è più di un’ora da aspettare, lo congediamo, e se ne va.
Un’unica lunga fila per il nostro check-in. Poi viene aperto lo sportello a fianco e lesti
ci precipitiamo verso quello: la fila si dimezza. Solo che la nostra fila ora non procede: s’è
inceppato il computer. Nella fila accanto la famigliola che era dietro di noi ora ci supera.
Viene aperto un terzo sportello, noi ritorniamo nella prima fila. Le leggi di Murphy hanno
una loro verità.
Scendiamo al piano terra. Ormai è l’orario, ma del volo nessun annuncio. L’aereo ha
un’ora di ritardo. Per ingannare l’attesa Maddalena va a comprare dei biscotti. Quando
finalmente l’aereo arriva saliamo a bordo “L’aeromobile è giunto con un’ora di ritardo
all’aeroporto” dichiara dapprima una hostess; qualche istante dopo il pilota ripete la stessa
scusa. Perché un aeromobile giunge in ritardo di un’ora dall’aeroporto da dove partire? È
chiaramente una scusa… certo non basta dire ‘Ci scusiamo per il ritardo’, sarebbe irritante,
la colpa sarebbe di chi sta pronunciando la frase… invece la colpa è sempre altrove, di
qualcun altro, e non ci si può fare niente. Siamo diventati tutti bravi a inventare le scuse
meno irritanti… ‘Stiamo lavorando per voi…’.
Dal cielo vediamo le luci di Atene. Non riconosco niente, solo vagamente i contorni
illuminati del Pireo studiati in piantina. Atterriamo all’aeroporto ‘Eleftherios Venizelos’ (chi
è? Politico greco, ce l’ho in mente da qualche parte…) che è tardissimo; la signorina
Alpitour, controllata la nostra identità, ci indirizza verso l’autobus numero 1, in attesa
appena fuori dell’aeroporto: un superlusso che nel corso del viaggio non vedremo più se
non a fianco del nostro. Dopo un po’ sull’autobus sale il ragazzo Alpitour, Alessandro, che
ci assisterà in Atene: fa l’appello e manca proprio il nostro nome… A voler essere
scaramantici dovremmo toccarci… Alessandro scende dall’autobus per andare a controllare
le liste dei colleghi, nell’istante in cui una di loro sta salendo dalla porta centrale, lo chiama,
lo insegue, scende anche lei da quella davanti. Sorrido: da quando siamo partiti con occhio
indagatore studio tutti i personaggi addetti all’organizzazione del nostro viaggio, ed ogni
sbavatura mi fa sorridere. Qualche minuto dopo Alessandro ritorna, è tutto in ordine, può
darci le prime indicazioni e un foglietto su cui segnare le escursioni facoltative che ci
vengono proposte per i due giorni che staremo ad Atene e che dovremo riconsegnare
l’indomani mattina:
pomeriggio di martedì: gita in autobus a Capo Sounion, punta estrema dell’Attica: 34 € a cranio
sera di martedì: serata greca in un tipico locale con cena e spettacolo: 52 € a cranio
intera giornata di mercoledì: mini crociera a Aegina, Poros e Hydra: 95 € a cranio
Quello sul nostro autobus è un gruppo che viaggerà compatto per tutto il tour: 42
persone del circuito ‘Turistico’. Gli altri circuiti sono ‘Confort’ e ‘Sup(i)rior’, ora stanno in
altri autobus, ogni gruppo diretto al proprio albergo, di qualità confort o superior. La famigliola
che faceva la fila con noi a Venezia non c’è più: loro sono minimo confort. Noi siamo i
poveracci dell’Alpitour, o forse quelli che trovano idiota spendere uno o due centinaia di
euro in più a testa solo per avere una camera più bella o bellissima per una notte.
Durante il trasferimento all’hotel (sono 40 minuti di una bella strada fino al centro di
Atene), mentre Alessandro cerca di intavolare un dialogo simpatico con i più sensibili di noi
raccontando qualcosa di sé (è previsto da contratto, e le signore di mezza età rispondono),
Maddalena si guarda in giro, io sorrido disapprovando.
Arriviamo all’Hotel Oscar in via Filadelfia che sono le 23 passate. In fondo alla strada
è la stazione dei treni (Stazione Larissa: di lì si parte per andare a Salonicco…), ma quel che
interessa è che siamo sopra la fermata del metrò (Fermata: “Larissa Station”, ovviamente).
L’albergo si presenta bene, speriamo che anche la camera…; in attesa delle chiavi ci
guardiamo in giro in cerca di facce simpatiche: tutti vecchietti o giovanetti… Poiché
Alessandro va in ordine alfabetico (e noi siamo registrati come coppia Qfwfq) siamo tra i
primi a ricevere la chiave della stanza: 114. Poco dopo siamo al piano ristorante: è quasi
mezzanotte, ma ci devono ancora la cena.
Maddalena ed io discutiamo un po’ su quale escursione scegliere: lei farebbe la
crociera, così si cuccherebbe anche un po’ di mare (ma anche la bagarre dei turisti al mare, il
sole in faccia per ore, il bagnetto a comando…); io preferirei Capo Sounion, la meta più
culturale delle tre… (di sicuro ci sarà meno gente… ma la butto sul culturale, non cambio
mai).
2° giorno – martedì 19 luglio -mattino
IN AUTOBUS PER ATENE FINO ALL’ACROPOLI
L’appuntamento in autobus è per le 8,30. Io e Maddalena abbiamo deciso che faremo
solo l’escursione a Capo Sounion (è la meno costosa e la più culturale delle tre…), rinviando
ad un altro anno la crociera alle isole, “che allora dovrà essere maxi” («cetto, cetto…»).
Sull’autobus Alessandro ci presenta Aris, la guida locale che ci accompagnerà la
mattina per Atene e nel pomeriggio a Capo Sounion, e da giovedì in poi per tutta la Grecia.
Alessandro si congeda e qualche mamma pensa bene di ricordargli di “fare il bravo”.
Attraversiamo la città in autobus. Piazza di Icaro, Odós ( = via) Agìou Konstandìnou,
mezzo giro di Piazza Omonia… Omonia significa Concordia… anche a Parigi c’è Place de
la Concorde.. ovunque c’è bisogno di ricordare una pace ritrovata. Per capirla, la storia,
bisognerebbe studiare le paci, dice sempre il mio amico Ruggero.
Imbocchiamo Via Stadìou, una delle due grandi strade parallele che collegano Piazza
Omonia con Piazza Sintagma, che insieme formano il manubrio centrale di Atene; passiamo
davanti a quello che fu il primo parlamento della Grecia indipendente e che oggi è l’Ethnico
(=nazionale) Istorico Moussìo (foto) con davanti la statua equestre di Theodoros
Kolokotrónis, eroe dell’indipendenza; sbuchiamo quindi in Piazza Sintagma. ‘Sintagma’
significa ‘Costituzione’. Ecco un altro punto fermo della storia d’Europa: la costituzione… Le
costituzioni europee in gran parte risalgono all’Ottocento: simbolo di libertà e di giustizia
‘costituzione’ è la parola magica dell’Ottocento, indipendentemente dai suoi articoli: mi
tornano alla mente le costituzioni concesse e ritirate, concesse per convinzione o per
provocazione (la costituzione siciliana di Franceschiello), ritirate per convinzione o per
paura o inaspettatamente mantenute (lo Statuto Albertino… e Vittorio Emanuele divenne
anche per questo “il re galantuomo”… )
Siamo al centro della città. Piazza Sìntagma ha una storia lunga che non conosco. La
piazza è in lieve pendenza, ricorda Piazza San Venceslao a Praga; noi siamo nella parte
bassa della piazza; in alto, c’è il Palazzo del Parlamento, che precedentemente era il Palazzo
del re, costruito fra 1836 e 1840 dal re Otto e finanziato dal suo padre Ludwig I della
Baviera. L’idea originale era mettere il palazzo del re sull’Acropoli, racconta Aris, ma
fortunatamente questo non è accaduto mai. Il neoclassico è lo stile dominante di tutti le
vecchie costruzioni, case e edifici pubblici di Atene, racconta Aris.
Nella parte inferiore della piazza c’è invece il McDonalds… (e dov’è Benetton?)
proprio all’inizio di via Ermou, via principale e pedonale dello shopping ad Atene (una delle
tante Via Montenapoleone del mondo): conduce giù al mercato delle pulci di Monastiraki.
Fatto il giro dell’isolato ritorniamo in Piazza Sìntagma dall’importante e trafficata Via
Amalia: ora siamo nella parte alta della piazza, proprio davanti al palazzo del Parlamento, in
restauro, presidiato dagli euzoni in gonellino, calzamaglia (con questo caldo!) e pon pon sulle
scarpe chiodate. Qual è la funzione di tanto folclore? Avrò modo di tornarci sopra.
Di fronte a noi, a sinistra, è il Grande Bretagne, un hotel straordinariamente elegante,
“il posto migliore per alloggiare ad Atene”, e difatti ho la netta sensazione che non mi
capiterà mai di alloggiarci. Costruito nel 1862 per ricevere i capi di stato, è ancora usato per
quello scopo…
Svoltiamo a destra per Via Vassilissa (= Regina) Sofia, la via delle ambasciate (quella
italiana è un bell’edificio neoclassico protetto da due enormi cancelli e un’altissima siepe),
ancora a destra per Via Erode Attico (il ricchissimo amico dell’Imperatore Adriano che
fondò ovunque teatri e palazzi), in fondo alla quale ci appare il meraviglioso Stadio
Callimarmaro dove nell’antichità si svolgevano le Panatenee (le feste di tutti gli ateniesi) e
dove nel 1896 si svolsero i primi giochi olimpici dell’Era Moderna; proseguiamo a destra
per via Vassilissa Olga, passiamo di fronte al Zappio, centro mostre e congressi di aspetto
classico, mentre alla nostra sinistra stanno le rovine della città Romana con il tempio di
Zeus Olimpio, «più grande del Partenone» (i Romani non volevano esser secondi a
nessuno), e svoltiamo a sinistra, reimmettendoci nella trafficatissima via Amalia; ammiriamo
alla nostra sinistra l’Arco di Adriano che segnava il confine tra la Città Romana e la Città
Greca e poi svoltiamo a destra per Via Dionigi Areopagita, verso l’Acropoli.
Sto per visitare qualcosa che mi è noto da sempre, e tuttora sconosciuto: l’Acropoli.
Nella salita all’Acropoli passiamo dapprima vicino all’Odeion (teatro) di Erode Attico
(ancora lui) del II secolo: Aris ci indica con foto e piantine i vari periodi di costruzione delle
parti dell’Acropoli; quindi va a fare i biglietti, che dopo cinque minuti ci consegna: piccoli
lenzuolini con un sacco di tagliandi. E saliamo ai propilei.
I propilei furono ricostruiti tre volte… e anche il tempietto di Athena Nike sta per
essere ricostruito per la terza volta: guardiamo e ne vediamo infatti solo la base.
Ares ci mostra com’era (e come tornerà); quindi inizia il suo excursus sulle vicende
che interessarono l’acropoli: come doveva apparire nel massimo fulgore, come appariva con
la torre che i Franchi costruirono sopra i propilei, per farci abitare il governatore… Quando
dopo l’indipendenza cominciarono i restauri la torre fu eliminata: si distrusse tutto il
medievale per tornare al puro classico. Ha senso? Solo se pensiamo che ciò che è più antico
vale di più di ciò che è meno antico. Si prende la foto di un momento e si nega il succedersi
della storia… In ogni caso è difficile scegliere.
Nei propilei Ares mostra la parte distrutta quando i turchi avevano fatto dei propilei
un deposito di esplosivi, che poi di fatto esplosero… e una fetta di colonna spostata di dieci
centimetri dal suo asse.
Attraversiamo i propilei… la vista è magnifica ed emozionante, nonostante i turisti e
nonostante le gru: il Parthenone di tre quarti sulla destra, la loggetta della Cariatidi che si
appoggia all’Eretteo sulla sinistra, il sole altro tra le due masse.
Ci portiamo all’ombra del Partenone. Ovunque stanno gru e martinetti. Aris comincia
il suo racconto a reintegrare la storia, che a mia volta integro a piacer mio.
Storia del Partenone.
447-432 a.C. Per volontà di Pericle sull’Acropoli di Atene viene costruito il Partenone,
tempio dedicato alla dèa Atena. L’architetto Ictinos si occupa della realizzazione
dell’edificio, lo scultore Fidia e i suoi allievi della sua splendida decorazione con le metope,
il fregio, le sculture dei frontoni… e la grande statua di Athena.
Fidia è già famoso per la statua di Zeus a Olimpia quando giunge ad Atene, ma qui si
supera. La dea, alta quasi 12 metri, è raffigurata in piedi, paludata di chitone dorico con
elmo a triplice cimiero, la mano destra reggente una minuscola Nike, la sinistra poggiata
sullo scudo. Mirabile simbolo, splendente d'oro e di avorio, della città di Atene nel tempo
della sua maggiore potenza civile, militare, artistica.
I marmi del Partenone sono formati da 92 metope a rilievo: non sappiamo se sia lui
l'esecutore materiale di tutti i rilievi del Partenone, ma è certo che dal suo genio scaturì l'idea
della grandiosa composizione. Di Fidia è sicuramente il bellissimo fregio che circonda la
cella dei Tempio, dove si snoda la processione delle feste Panatenaiche.
Ignota è la fine di Fidia: perseguitato alla morte di Pericle, suo grande amico, dovette
fuggire da Atene. Alcuni credono riparasse a Elide, altri lo dicono morto avvelenato nel 431
a.C.
450 d.C. Il Partenone è trasformato in chiesa cristiana dedicata alla Vergine Maria. Da
Athena Vergine alla Vergine Maria: ciò che si mantiene nel culto è la verginità.
1204. I Franchi occupano Atene, e il Partenone diventa una chiesa cattolica. I franchi
costruiscono anche una torre vicino ai propilei e trasformano questi ultimi in abitazione del
governatore francese
1458. Gli Ottomani conquistano Atene e trasformano il Partenone in una moschea.
Tutt’intorno sorgono delle abitazioni.
1674. Jacques Carrey realizza dei disegni che mostrano che il Partenone è rimasto
ancora praticamente intatto.
1687. Atene è assediata dai veneziani. Le autorità turche decidono di stipare nel
Partenone le riserve delle polveri e centinaia di persone, soprattutto donne e bambini, forse
pensando che l’edificio sia solidissimo o forse illudendosi che i Veneziani lo rispettino quale
glorioso monumento… Il 28 ottobre le truppe della Serenissima investono l’Acropoli con
settecento palle di cannone e alla fine accade l’inevitabile. Il Partenone stipato di polvere da
sparo prende fuoco e salta in aria uccidendo trecento persone sul colpo. Sacrificio
decisamente sopraffatto dalla tragedia archeologica: il centro dell’edificio deflagra
spaventosamente, ventotto colonne (su sessanta) vanno in frantumi, sculture, fregi metope
di Fidia e pareti crollano. Quando i veneziani giungono sull’Acropoli tra le macerie fumanti,
il generale veneziano Francesco Morosini (Francisco Mauroceno Peloponnesiaco…) conquistatore
della Morea (la terra delle more, dei gelsi o morèri… = Peloponneso) ordina di asportare le
sculture sopravvissute all’esplosione. Viene costruito un argano ma la macchina si rompe
improvvisamente facendo precipitare a terra i marmi, che vanno in mille pezzi. Le
operazioni vengono sospese. A riprenderle ci penserà Lord Elgin...
Aris mostra una ricostruzione e la pianta della moschea che i turchi incastrarono nello
spazio lasciato dalle colonne in frantumi: non ha i muri paralleli a quelli del Partenone, è
orientata verso la Mecca. Io penso a Francisco Mauroceno Bombardatore, veneziano lui, signore
delle campagne di guerra, veneziano io, delle campagne e basta: mi sento coinvolto
direttamente nella storia del Partenone. Superbia? Certo, certo…
1802-1811. La ferita più grande: durante l’occupazione ottomana della Grecia
numerosi marmi che ornano il Partenone da 2.300 anni vengono staccati in malo modo dal
tempio provocando danni alla struttura. A farlo è Sir Thomas Bruce duca di Elgin (Lord
Elgin), ambasciatore britannico presso l'impero ottomano, che porta i marmi in Inghilterra.
Si tratta di 15 metope, 56 bassorilievi di marmo e 12 statue, quasi l’intero frontone ovest del
Partenone, oltre ad una delle sei cariatidi del tempietto dell'Eretteo.
1816. Lord Elgin vende i marmi al British Museum, mostrando dei documenti per
dimostrare che aveva avuto l'autorizzazione delle autorità ottomane per staccarli dal
Partenone, documenti di cui la Grecia contesta la legittimità: Elgin sarebbe stato autorizzato
a staccare i marmi solo per farne delle copie, non per portarli via.
Il poeta inglese George Byron (Londra 1788-Missolungi 1824) nel suo “Pellegrinaggio del
giovane Aroldo” così condannava il gesto del connazionale Lord Elgin:
“Ciechi gli occhi che non versano lacrime vedendo, O Grecia amata, le tue sacre membra razziate da
profane mani inglesi, che hanno ferito ancora una volta il tuo petto dolente, e rapito i tuoi dèi, dèi che odiano
l’abominevole nordico clima d’Inghilterra”.
George Gordon Byron è personaggio centrale della cultura romantica grazie ai
pellegrinaggi del suo giovane Aroldo, opera in quattro canti, composta tra il 1812 e il 1818.
Aroldo è l’alter ego dell’autore, a cominciare dall’itinerario che disegna (Spagna, Italia, Grecia)
nel mondo mediterraneo e solare – e popolato di rovine almeno nei due ultimi casi – che fa
parte del Grand Tour. È il mondo della bellezza antica, ma percepito anche nei suoi aspetti
luttuosi; il mondo di Foscolo, lui veramente greco per parte di madre. In questo
pellegrinaggio Childe Harold è peregrinus in senso letterale: viaggiatore, straniero, esule e su
questa molteplice valenza semantica troverà, nel mondo mutato dalla parabola napoleonica
e dalle nostalgie ‘legittimiste’ della Restaurazione, molti giovani seguaci.
Il pellegrino, come il suo lord, conosce però delle cadute, che si riassumono nello
“spleen” byroniano. Sentimento che fa scuola: in Francia con de Musset, ma ancor più in
Russia con Lermontov, Puskin e, perché no, col principe Andrei di Tolstoj. Ma Byron è
anche alfiere di un’altra schiera: quella dei volontari combattenti della libertà, che lo porta a
morire a Missolungi, per la libertà e l’indipendenza della Grecia.
Canto secondo del “Pellegrinaggio del giovane Aroldo”
LXXIII - Bella Grecia! Mesto avanzo di una gloria svanita! Immortale, benché tu più
non sia: grande, benché caduta! Chi guiderà ormai alla lotta i tuoi sparsi figli e spezzerà la
schiavitù alla quale da lungo tempo sono abituati? Non così erano i tuoi figli che una volta –
guerrieri senza speranza votati a morte volontaria – l’attesero nella sepolcrale valle delle
squallide Termopili – oh, chi riconquisterà quell’animo ardito, si lancerà dalle sponde
dell’Europa e ti rievocherà dalla tomba?
LXXXIV – Quando rinascerà l’intrepidità di Sparta, quando Tebe rinutrirà
Epaminonda, quando i figli di Atene saranno dotati di cuori, quando madri greche
partoriranno uomini, allora potrà essere rinnovata – ma non fino allora. Mille anni bastano
appena per formare uno stato: un’ora può abbatterlo nella polvere: e quando può l’uomo
riaccendere il suo spento splendore, rievocarne le virtù e vincere il Tempo e il destino?
LXXXV - Eppure quanto sei bella nei tuoi anni di dolore, Terra di Dei! e di uomini
divini perduti! Le tue valli sempre verdi, i tuoi nevosi monti, ti proclamano ora la variegata
favorita della Natura: i tuoi santuari, i tuoi templi si abbattono al suolo, lentamente
confondendosi con eroica terra, rotta dal vomere di ogni rustico aratro: così periscono i
monumenti di mortale nascita, così tutti periscono alla loro volta, eccetto i grandi
degnamente celebrati;
LXXXVI - eccetto là dove qualche solitaria colonna piange sopra alle prostate sue
sorelle della stessa cava, eccetto là dove l’aereo tempio di Tritonia orna il capo Colonna e
brilla sulle onde; eccetto sulla quasi dimenticata tomba di qualche eroe, ove la pietra grigia e
l’erba incalpestata debolmente sfidano i secoli ma non l’oblio; mentre soltanto gli stranieri
passano non indifferenti, attardandosi come me, forse per mirare e sospirare ‘ahimè!’.
LXXXVIII – Ovunque calpestiamo, è suolo animato dagli spiriti e santo; nessuna
parte della tua terra è perduta per dar forma a cose volgari, bensì un unico immenso regno
di meraviglie si stende attorno e tutti i racconti delle Muse sembrano veri, finché l’occhio
duole nel guardare intento per contemplare le scene dove si sono attardati i nostri primi
sogni; ogni colle, ogni valle, ogni profonda fossa, ed ogni aperta campagna sfida la Potenza
che stritolò i tuoi distrutti templi; il tempo scuote la torre di Atene, ma risparmia la grigia
Maratona.
XCI – Eppure pensosi ma indefessi pellegrini accorreranno in folla ai resti del tuo
passato splendore; per lungo tempo il viaggiatore, sospinto dal vento Ionio, saluterà la
fulgida terra della guerra e del canto; per lungo tempo i tuoi annali e la tua lingua immortale
nutriranno della tua fama la gioventù di innumerevoli lidi; vanto dei vecchi! lezione per i
giovani che i saggi venerano e i poeti adorano, mentre Pallade e la Musa svelano la loro
sacra scienza.
XCII – Il cuore che n’è separato, s’attacca alla patria ove ha sempre vissuto, se qualche
essere caro rallegrò l’agognato focolare; ma colui che è solitario si rechi qua e contempli,
soddisfatto, questa terra confacente ai suoi gusti. La Grecia non è uno spensierato paese di
allegria sociale; ma colui a cui la malinconia reca conforto, può indugiarvisi e appena
rimpiangere la terra dei suoi natali, vagando lentamente lungo il sacro pendio di Delfo o
contemplando le pianure ove Greci e Persiani morirono.
Byron non fu l’unico a piangere per i marmi sottratti del celebre «milordo» inglese:
anche Virginia Woolf…
Lord Elgin, quest’appassionato di arte ellenica, uno dei promotori della cosiddetta
moda greca in Inghilterra, finì per pagarla cara: fra le tante sciagure tragicomiche capitategli il
naufragio della nave e la dispersione dei marmi sott’acqua, poi in più riprese recuperati; una
terribile infezione cutanea che gli erose per buona parte il naso; lo scontro con Napoleone,
che lo fece arrestare con la moglie e uno scozzese; lui ovviamente fu trattenuto più tempo
in carcere degli altri due, e quando fu rilasciato, giunto in suolo britannico, trovò la moglie a
letto proprio con lo scozzese in precedenza compagno di cella.
Eppure fu la sottrazione del fregio del Partenone che procurò al tempio una
grandissima pubblicità. «Esistono edifici greci più antichi e intatti. Se non fosse stato
smembrato, il Partenone non sarebbe diventato così famoso» ha sentenziato Mary Beard,
ignota scrittrice inglese. Forse ha ragione. Di sicuro sappiamo che greci e romani non
prestarono soverchia attenzione al tempio antico. Pausania riservò all’edificio una
descrizione di imbarazzante brevità, dilungandosi piuttosto sulla statua un po’ kitsch di
Atena conservata all’interno: «un grande simulacro realizzato con un rivestimento d’oro e
avorio attorno a un’armatura in legno, dentro la quale prosperava indisturbata una colonia
di topi…».
Plutarco si dette la pena di ricordarci il nome di architetti e scultori della fabbrica,
Ictino, Callicrate e Fidia, ingaggiati da Pericle attorno al 440 a.C...
Scorrendo la storia due volte e mezzo millenaria del Partenone si scopre che esso fu
tempio pagano sì e no per ottocento anni, fu molto più a lungo chiesa cristiana (oltre mille
anni); quindi moschea per altri quattrocento anni, prima di essere restituito alla classicità.
I cristiani d’Oriente e i Crociati dedicarono l’edificio a Nostra Signora di Atene,
facendone la cattedrale della città. La chiesa era decorata con affreschi e mosaici che
entrarono in rotta di collisione con metope e fregi classici. Si agì così: i bassorilievi di Fidia
che potevano essere reintepretati in chiave cristiana vennero salvati. Atena davanti a Era, ad
esempio, venne letto come l’Angelo Nunziante davanti a Maria, e questa fu la sua salvezza.
Gli altri invece, troppo marcatamente pagani, vennero brutalmente piallati...”
Strano destino quello dei marmi del Partenone, oggi sparsi in tutta Europa: la maggior
parte in Inghilterra, ma anche in Francia e… sì, un frammento anche a Palermo: presenta
sulla superficie dei tratti di vesti panneggiate e un piede, forse appartenente alla dea Peitho;
un tempo sul lato est del tempio, venne donato al Museo di Palermo più di due secoli fa.
Oggi tutti (tutti = il governo greco, la gente greca e chiunque altro al mondo rifletta
sulla vicenda) sono convinti che i marmi del British dovrebbero essere restituiti alla Grecia.
Ma non il governo britannico che continua a rispondere: “No, sono i miei, li ho comprati!”.
Eppure, se qualcuno (=i turchi) irrompesse in casa nostra e, tenendoci in ostaggio, vendesse
i nostri quadri di valore al vicino, una volta liberi chiederemmo al vicino di restituirci i nostri
quadri, no?
Negli ultimi decenni a dare grande impulso alla sensibilizzazione dell’opinione
pubblica mondiale fu l’attrice greca scomparsa Melìna Merkoùri (foto), che Aris chiama
Mèrcuri. Anche il parlamento europeo ha cercato di spiegare agli inglesi che… ma niente. I
Greci speravano di far tornare i marmi ad Atene per le Olimpiadi del 2004, quando il nuovo
museo dell’Acropoli (foto) sarebbe stato dotato di una sala apposita per ospitarli, e non ci
sono riusciti.
Ma perché nacque il Parthenone, dedicato ad Athena? Tutta la città in verità fu
dedicata ad Athena.
Atene, Athena, Athena Parthenos (=vergine), Partenone. Un giorno il grande re degli
Dei, più che mai tempestoso per un terribile mal di testa, chiamò Efesto e gli ordinò di
aprirgli la fronte con un colpo di scure. Il dio dei fabbri, all’ordine del padre che non
ammetteva discussione, obbedì: calò il fendente sulla sua fronte e dalla ferita balzò una
bellissima guerriera: era Athena, alta di statura, maestosa, dal volto franco e sereno, gli occhi
azzurri, acuti e profondi. Athena è dea della guerra: indossa uno splendido peplo, che lei
stessa ha tessuto e un’armatura tutta d’oro: un elmo lucente ricopre i capelli, nelle mani
stringe la lancia e lo scudo con la testa della Gorgone; spesso porta con sé anche l'egida, il
magico scudo di suo padre Zeus.
Athena è dea della guerra, ma della guerra combattuta per il trionfo della giustizia e
guidata dal senno e dall’intelligenza di chi, di questa triste necessità, fa un’arte volta a
reprimere il trionfo del male. Athena rappresenta l’intelligenza che crea, la genialità del
pensiero, dell’industria, del lavoro. Fu lei ad insegnare agli uomini a costruire le navi, ad
innalzare le case e i templi, a tessere e a ricamare stoffe di splendidi colori. Inventò anche il
flauto, ma quando, specchiandosi su una fontana mentre lo suonava, vide “il turpe aspetto
delle sue guance enfiate”, lo gettò via sdegnata.
Cecrope aveva da poco fondato una nuova città, in Grecia, nella regione dell'Attica, e i
suoi cittadini erano incerti sul nome da assegnare alla nuova sede e su quale divinità
scegliere come nume protettore delle mura. Si presentarono allora, per avere tale onore,
Posèidon e Athena; fu deciso che la scelta sarebbe caduta su chi avesse saputo fare alla città
il dono più bello. I due accettarono il confronto. Il primo percosse la terra con il tridente e
ne fece balzare un animale sino allora mai visto, pieno di forza e di ardimento, che avrebbe
offerto all’uomo, nei lavori dei campi e nelle necessità della guerra, il più valido aiuto: il
cavallo. Athena invece fece nascere dalla terra una pianta dai rami nodosi e contorti, con
piccoli frutti polposi, il cui succo avrebbe dato agli uomini luce e nutrimento: l’ulivo.
Cecrope e i suoi decisero senz’altro di accettare questo ultimo dono: scelsero cioè Athena
come loro dea protettrice, e dal suo nome decisero di chiamare ‘Atene’ la loro città, che,
consacrata alla dea della saggezza, divenne il più luminoso centro di civiltà del mondo
antico.
Ci spostiamo a nord dell’Acropoli, verso l’Eretteo, l’Erechthlon. Nel 421 a,C. si diede
inizio alla costruzione di un nuovo tempio di Athena Polias, dedicato anche a Poseidon
Erechtéus (uccisore dell’eroe miceneo Eretteo) e agli eroi ateniesi; i lavori, dopo una lunga
interruzione, furono portati a termine nel 406. Il piccolo, elegante tempio, uno dei più alti
capolavori dello stile ionico, presenta una pianta asimmetrica e complessa, dovuta sia al
dislivello del terreno, sia all'unione di diversi luoghi di culto, in quanto era un santuario
dedicato agli dei e agli eroi fondatori della città. Il nome, che originariamente indicava solo
una delle sue parti costitutive, venne in età romana attribuito a tutto l'edificio, intorno al
quale gira un fregio di scura pietra di Eleusi. In questo erano collocate figure in marmo ad
altorilievo, che probabilmente rappresentavano il mito di Erittonio, protetto da Athena.
Sfigurato dalla trasformazione in chiesa nel sec. VII e in harem nel 1463, l'Eretteo subì gravi
danni durante la guerra d'indipendenza greca (1826).
Il corpo principale è un tempio ionico anfiprostilo, con sei colonne sulla fronte est e
quattro incastrate nel muro ovest (ne restano tre). L’interno è diviso in due parti: a est, oltre
il colonnato, si apre la cella di Athena Polèis, nella quale era custodito il simulacro della dea. La
statua, in legno d’ulivo, si diceva mandata dagli dei e ogni quattro anni, durante le Grandi
Panatenee, veniva rivestita con un nuovo peplo. Più a ovest, è la cella di Poseidon
Erecthéus. Il portico nord presenta quattro eleganti colonne ioniche sulla fronte e due sui
lati. Di finissima fattura sono i rilievi dei capitelli, del soffitto a cassettoni e della porta
principale, che dava accesso alla cella, divisa in tre parti. La parte ovest, in asse con la porta,
è il Prostomiéion o sala dell’imboccatura, dov’era l’imboccatura del pozzo in fondo al quale
scorreva il cosiddetto «mare dell’Eretteo». Questo, secondo il mito, era stato scavato da
Poseidone quando il dio, nella gara con Athena per il dominio dell’Acropoli e dell'Attica,
fece scaturire una sorgente di acqua salata dalla roccia colpita dal suo tridente. Le due altre
parti a est, contigue alla cella di Athena Polias, erano le celle di Poseidon Erechtéus, di
Efesto (Vulcano) e di Bronte, sacerdote di Athena. La porta di destra del portico nord
immette nel Pandrosion, recinto sacro di Pandroso, una delle Aglauridi (le tre sorelle cui
Athena aveva affidato il canestro contenente Erittonio bambino); vi cresceva l’ulivo sacro,
dono di Athena, bruciato dai Persiani e rinato, secondo il mito, la notte stessa. A sud è
invece il Kekroplon, recinto sacro a Cécrope, mitico re di Atene spesso raffigurato sotto
forma di serpente. Sul lato opposto del portico nord, il portico delle Korai o loggia delle
Cariatidi, è uno dei più celebri monumenti del mondo antico. Probabilmente la loggetta,
con trabeazione sostenuta da sei stupende statue di korai, era una sorta di tribuna d’onore,
dalla quale importanti personaggi potevano assistere alle cerimonie delle Grandi Panatenee.
La seconda statua della fronte, da sinistra, è copia dell'originale portato a Londra da Thomas
Elgin; le altre sono copie degli originali custoditi dal 1977 nel Museo dell’Acropoli. Tutte
copie. Eppure sono belle. Finte. Cave. Copie finte perché cave: chi sostiene il peso sono le
colonnine di ferro dentro di loro. Negli originali il trucco del sostegno era la capigliatura
folta che rafforzava il fusto della colonna: il collo da solo sarebbe troppo sottile per
sostenere il peso dell’architarve.
Presso l’Eretteo,vicino all’albero della foto, era l’altra famosa statua di Athena, detta
Promachos, colossale, tutta in bronzo, posta sull'Acropoli quasi a guardia della città. La punta
della lancia rifulgeva fino al Pireo.
Continuano intanto i lavori attorno al Partenone e attorno all’Eretteo. Le gru bianche
si stagliano alte e con i marmi a terra danno l’idea di un grande cantiere. Sarà mai possibile
vedere il tutto “abbastanza” in ordine? Quanto di quel che è stato abbattuto verrà
ricostruito?
Gli scavi vicino all’Eretteo mostrano basamenti di costruzioni di vari periodi:
costruzione che non furono mai visibili contemporaneamente. La foto della storia non è la
foto di alcun istante.
C’è una verità in questa Acropoli ripulita delle costruzioni posteriori. C’è maggior
valore? Ciò che è più antico vale di più per un’inspiegabile metro di valutazione legato
probabilmente alla rarità, anche d’informazioni: ciò che è raro vale in virtù della rarità e non
della qualità intrinseca. Forse è tutto legato alla quantità di umanità: gli uomini di duemila
anni fa valevano un milionesimo dell’umanità, quelli di oggi solo un seimiliardesimo…
Ah, poter vedere il Partenone tutto intero, camminarci dentro, ora che dagli anni ’70 è
vietato farlo, ammirarne le dimensioni interne, sostare ai piedi della statua d Athena
Parthenos… Un momento: ma il Partenone è visibile com’era: basta spostarsi negli Stati
Uniti, a Nashville nel Tennessee
Il Partenone di Nashville, Tennessee
The Parthenon stands proudly as the centerpiece of Centennial Park, Nashville's
premier urban park. The re-creation of the 42-foot statue Athena is the focus of the
Parthenon just as it was in ancient Greece. The building and the Athena statue are both fullscale replicas of the Athenian originals.
Originally built for Tennessee’s 1897 Centennial Exposition, this replica of the original
Parthenon in Athens serves as a monument to what is considered the pinnacle of classical
architecture. The plaster replicas of the Parthenon Marbles found in the Naos are direct
casts of the original sculptures which adorned the pediments of the Athenian Parthenon,
dating back to 438 B.C. The originals of these powerful fragments are housed in the British
Museum in London.
The Parthenon also serves as the city of Nashville's art museum. The focus of the
Parthenon's permanent collection is a group of 63 paintings by 19th and 20th century
American artists donated by James M. Cowan. Additional gallery spaces provide a venue for
a variety of temporary shows and exhibits.
Credete che sia tutto? Non c’è genere di pacchianata che non si trovi negli Stati Uniti,
è negli Stati Uniti che si trova tutto. Gli Statunitensi sono tassonomici, ripetitivi, inclini a
errori e a ravvedimenti. Sono un grande popolo che sbaglia e chiede scusa. Ne vediamo gli
errori perché, credendosi nel giusto il popolo americano si espone un sacco (…e Vanzetti).
Non sarebbe meglio evitare gli errori? A volerli evitare accuratamente non si combina nulla,
ne sono un esempio io.
È dei giovani sbagliare tanto. Gli Stati Uniti sono giovani, non hanno storia, quella che
c’era sul loro territorio l’hanno eliminata nella conquista all’Ovest. Privi anche di una storia
dell’arte hanno copiato quella europea e hanno copiato il Partenone. L’hanno aggiustato
perché una cosa mezza distrutta non serve a nulla e ne hanno fatto un museo. Sicuramente
dentro non c’è una copia della grandiosa statua crisoelefantina di Fidia…Che senso
avrebbe… Magari in similoro e cartavorio… No.
Invece sì. Leggete la seconda pagina del sito ufficiale della città di Nashville!
The Athena Statue
Athena Parthenos is 41 feet, 10 inches tall. There are about 12 inches between the top
of her helmet and the ceiling beams. Her weight is estimated at 12 tons. The statue of Nike,
the goddess of victory, in Athena's right hand is 6 feet 4 inches tall. Nike holds a wreath of
victory preparing to crown Athena. This is the story of how the Athena statue was built in
Nashville.
The Athena Project
In the 1920s the Parthenon was rebuilt as a full-scale replica of the ancient Parthenon
with one large exception. The colossal statue of Athena from ancient times was not in this
replica. In 1982, the city commissioned Alan LeQuire to build a full-scale replica of Athena
Parthenos. Soon after, a group of concerned citizens formed the Athena Fund. Starting
with funds accumulated over the years from the nickels and dimes of school children and
tourists, the Athena Fund grew rapidly through private and commercial donations.
The Artist
In 1982 seven sculptors submitted proposals to recreate the Athena statue in
Nashville. Alan LeQuire won the commission because of his skill and commitment to
accuracy. LeQuire attended Vanderbilt University and received his MFA from University of
North Carolina, Greensboro in 1981.
LeQuire, a Nashville native, began his journey by researching the Athena statue of
antiquity. What we know about the Athena statue from the ancient Parthenon is somewhat
limited. The gold and ivory statue was lost by the 400 A.D., so historical documentation is
brief, but does exist. LeQuire also depended on modern classical scholars for the most
recent archaeological information.
The Original Sculptor
Pheidias, the greatest sculptor of classical antiquity, constructed the Athena Parthenos
on a wooden framework with carved ivory for skin and a gold wardrobe. The statue was
unveiled and dedicated in 438 or 437 B.C. We can depend on this date based on the
building accounts of the temple. Other sources are equally important. For example, there
are ancient authors, such as Pausanias, who referred to the Athena statue in writings.
Athena appears on Athenian coins of the second and first centuries B.C. Later, Romans
copied the statue in small-scale. Even today on the Acropolis you can see the outline of
Athena’s base on the floor of the Parthenon. All of this evidence is culminated in LeQuire's
Athena.
The Re-creation
After exhaustive research, Alan LeQuire created two small-scale versions of the statue
out of clay. First, he created a 1:10 model from clay. Later, he sculpted a 1:5 scale model.
From this later model LeQuire spent about three years enlarging and casting the full-size
Athena Parthenos. Athena was cast out of gypsum cement in many molds and assembled
inside the Parthenon. Each section was attached to a steel armature for support.
The Athena statue was constructed from 1982 to 1990. It stood in Nashville’s
Parthenon as a plain, white statue for 12 years. In 2002 the Parthenon gilded Athena with
Alan LeQuire and master gilder Lou Reed in charge of the project. The gilding project took
less than 4 months and makes Athena appear that much closer to the ancient Athena
Parthenos. In addition to gilding, the project included painted details on her face, wardrobe
and shield.
Altri americanazzi hanno preso ispirazione dalla facciata del Partenone per farne… un
radiatore d’automobile: sì, i fondatori della Roll Royce!
Usciti dal recinto dell’Acropoli, abbandonati a noi stessi, io e Maddalena saliamo
all’Areopago, la collina dove si celebravano i processi, dove Athena chiese l’assoluzione per
Egisto, dove San Paolo parlò agli Ateniesi, dove Maddalena si scopre una tetta per una foto
che forse sarà memorabile.
Risaliamo in autobus, diretti al Museo Archeologico Nazionale, uno dei più importanti
al mondo, in un tipico edificio dell’Atene neoclassica (Odos Oktovriou Patissìon, l’altra
strada parallela del manubrio che collega Piazza Omonia e Piazza Sintagma).
Per visitarlo tutto ci vorrebbe almeno una giornata intera ma noi visiteremo solo il
primo piano.
La documentazione presente tocca tutta la produzione artistica dell’antica Grecia, dai
periodi cicladico, minoico e miceneo, a quello classico.
Tra le attrazioni principali spiccano gli ori micenei ritrovati da Schliemann tra cui la
famosissima maschera detta di Agamennone! Aris ogni volta ripete quel detta, non vuole che
la chiamiamo col nome sbagliato… In altre sale del Museo stanno le sculture da Olimpia e
da Delfi… le statue dei Kouros, rivelatrici della venerazione che i greci antichi avevano per
la bellezza maschile e le statue in bronzo del cavallo con fantino e del Poisedon di
Artemissio.
Tutto quello che in questo secolo è stato scoperto dalle varie scuole di archeologia nei
vari siti della Gracia, è finito qui; poi le altre città hanno cominciato a protestare e a
costruire musei in loco per mantenervi le cose che lì venivano trovate.
L’autobus ci riporta all’albergo, ci rinfreschiamo un poco e usciamo per mangiare in un
fast food lungo la strada. Ritornando all’albergo ci fermiamo in un panificio per comprare
gustosissimi panini con l’uva e del succo d’arancia per il pomeriggio: ci aspetta l’escursione
(facoltativa: sono 34 euri a testa!) a Capo Sounion, l’appuntamento è alle tre meno venti.
Saliti in autobus (siamo una ventina) imbocchiamo la litoranea Leoforos Poseidonos
che va verso sud costeggiando il Golfo Saronico. Attraversiamo Glyfada... la Cannes di qui,
dove si respira un’aria internazionale, dove il lusso è visibile a tutti e inarrivabile per molti.
Qui sono sorti i nuovi quartieri residenziali, qui vive il nuovo capitalismo greco: negozi
lussuosi, bar e discoteche alla moda, alta concentrazione di aziende, società del terziario
avanzato, banche e locali modaioli strapieni di gioventù bella e dorata.
Glyfada, Vouliagmeni…. Ares ci racconta mille cose delle cittadine che attraversiamo e
io non ricordo nulla. Vedo spiagge poco affollate e bagnanti sulle baie e sulle pendici della
strada, macchine arditamente parcheggiate sul ciglio…
Due carcasse d’auto arrugginite e rovesciate lungo le pendici stanno lì da quando
furono parcheggiate troppo arditamente. Mi viene in mente Giulio che parcheggiò la Golf
nuova in riva al mare, per stare con la sua donna, e la marea l’affossò e ci volle il carro
attrezzi per riportarla a casa… ma il salso, entrato dappertutto, l’aveva definitivamente
compromessa.
Ecco, ora vediamo Capo Sounion, e sotto, nell’ultima baia, la massa cementizia
dell’Hotel Egeo, criticabile e criticato. Ricorda le peggiori speculazioni in Italia.
Fa caldo, un caldo terribile. Capo Sounion è la punta meridionale dell’Attica, un
promontorio che si protende nel mare Egeo. Qui, in età protoarcaica, cinto da un muretto
che segnava i confini del temenos, l’area sacra, sorgeva un altare e verso il VI secolo furono
erette intorno enormi statue di giovinetti, che “annunciavano” ai naviganti lontani il luogo
sacro. Delimitato il temenos, con muri di sostegno diritti piegati ad angolo retto, si costruì,
intorno al V secolo, il tempio di Poseidone, un periptero dorico in poros con uno stilobate
di 13,06x30,2 mt. ed una peristasi di 6x13 colonne, l'unità fondamentale fu posta in un
interasse (sette e mezzo piedi dorici = 2,45 mt.).
Questo tempio fu distrutto dai persiani prima che fosse completato, e solo in età
periclea si procedette alla sua ricostruzione. Il nuovo tempio, in marmo, fu costruito
intorno al 449 a.C., sullo stilobate di 13,47 x 31,12 mt. insiste una peristasi di 6x13 colonne,
quest’ultime talmente sottili che si ha l'impressione di trovarsi di fronte ad una costruzione
ionica. Le colonne hanno 16 scanalature anziché le usuali 20: per resistere meglio all’usura
della salsedine… Ma perché resistono meglio? Io non ho capito perché…
L’architrave del pronaos si prolunga nei due deambulatori laterali fino a congiungersi
con la faccia interna dell’architrave della peristasi, e un fregio ionico, riccamente decorato,
corre tutt’intorno ad essa. La trabeazione esterna, di stile dorico, presenta sulla facciata
principale un frontone riccamente decorato, mentre nella parte opposta, l'architetto, omette
il fregio.
Sulle pietre di questo tempio Byron lasciò inciso il suo nome. Lo cerco, riconosco il
nome di due marinai italiani di fine Ottocento. Anch’io cerco un posto dove poter incidere
il mio, ma il tempio è delimitato da corde, non vi si può salire sopra, come ormai non si può
più salire in nessun tempio di Grecia.
Qui a Capo Sounion venne Egeo ad aspettare la nave del figlio Teseo che tornava da
Creta e che, per errore o dimenticanza, comparve all’orizzonte con le vele nere. Egeo,
interpretandole come il convenuto segnale di tragedia, non resse al dolore e si gettò in mare,
dando così il nome al mare della Grecia orientale.
Guardo il mare aperto, cerco quale possa essere stato il punto esatto da cui Egeo si
buttò. Qui no, più sotto ci sono cespugli. Forse più in là….
Tornando in anticipo verso l’autobus Maddalena ed io ci fermiamo al bar; seduti
all’ombra, e beviamo una birra e una Cocacola, in attesa degli altri. In autobus Simona ci ha
preso il posto, c’è un attimo d’imbarazzo, ma lei deve solo dormire e dichiara che le fa lo
stesso dormire da un’altra parte. Dallo zaino Maddalena tira fuori i panini con l’uva che ha
comprato a mezzogiorno e ne offre a Simona e Stefania. Stefania accetta e si lancia in lodi
sperticate del panino.
Lungo la strada del ritorno, tra le tante cose, Aris fa notare che i tetti delle case hanno
le tegole d’angolo a forma di acroterio: ce ne sono di vari tipi, a imitazione o meno di quelle
dei templi. E io, che non l’avevo finora notato, da qui alla fine della vacanza lo noterò un
milione di volte.
Tornati in albergo, ci laviamo e ci prepariamo per la cena. Scendiamo, nella sala
ristorante non c’è ancora nessuno, solo una coppia dall’aspetto scontato: ci sediamo con
loro e subito giunge una cameriera con una bottiglia d’acqua; i due hanno la prendono
perché è non gasata e ci spiegano che a mezzogiorno sono rimasti fregati: una bottiglia di
acqua gasata l’hanno pagata 4 euri, e loro di acqua ne bevono molta e quella non gasata
costa solo 1 e 80… Solo? Ma non ci sono più le belle caraffe di acqua fresca della sera
precedente? Ma non mi vien da chiederlo e ordiniamo anche noi la nostra bella bottiglia di
acqua non gasata. Intanto la sala si va riempiendo e nei tavoli accanto tutti gli altri,
intelligentemente, si sono fatti portare molte caraffe d’acqua. Gratis. Guardo i due bevitori
d’acqua con un misto di disprezzo e compassione.
Ho appena subito l’influenza di una coppia idiota: dialogare diventa difficile: che cosa
gli chiediamo? Tra lunghi silenzi riusciamo a buttare lì qualche domanda: veniamo a sapere
che sono “…rimasti tutto il pomeriggio a dormire in albergo…”, e dato che sono lì a cena
con noi è segno che hanno “…deciso di non partecipare alla serata greca…”. Come noi.
Però domani parteciperanno “…alla mini crociera alle isole…”. Ecco, i veri clienti Alpitour!
Bevitori d’acqua in bottiglia.
Dopo cene Maddalena ed io prendiamo per la prima volta la metropolitana. Larissa
Station è proprio sotto l’albergo: è una stazione bella, luminosa, nuova, pulita. Le rosse
sedie d’attesa hanno forma umana, parte di un’opera moderna alla parete che contiene gli
stessi omini raddrizzati.
Atene ha una metropolitana coi controfiocchi. La più efficiente e bella d’Europa,
dicono. Con le insegne in greco e in inglese. Il biglietto per una tratta qualunque costa 70
centesimi.
I lavori per la costruzione del metro sono andati molto a rilento per anni a causa di
tutti i reperti archeologici che sono stati rinvenuti man mano: ogni volta che si scavava si
finiva per trovare una tomba, un’urna o qualcos’altro. Il problema principale non era quello
di scavare attraverso la roccia, ma quello di setacciare i reperti archeologici. Come successe a
Roma. I treni sono nuovi, puliti, con una suadente voce femminile dall’altoparlante che
avverte, prima in greco e poi in inglese, a quale fermata si sta giungendo. “Metaxurghìo…
Omonia… Sintagma”. Scendiamo: i lunghissimi corridoi di marmo che dai binari portano
all’uscita stranamente non hanno pubblicità alle pareti. La stazione di piazza di Sintagma è
più che una stazione di metro, è un museo gratuito e aperto a tutte le ore. All’entrata, oltre a
bacheche in vetro con reperti archeologici di grande interesse, ci sono foto di Atene di 100
anni fa, quando realmente era una delle città più belle in Europa.
Ma ogni stazione della metropolitana di Atene è bella, anche quella apparentemente
più sperduta: ora qui ora là vi sono esposte diverse opere di artisti contemporanei. 3 euro
costa il biglietto giornaliero che consente di viaggiare indisturbati da una estremità all'altra.
Lo compreremo domani.
Passiamo davanti alla porta di Adriano (che separa l’Atene Greca dall’Atene Romana),
ammiriamo la luna dentro una della sue finestra, non abbiamo la macchina fotografica e ci
ripromettiamo di tornare lì per la foto la sera successiva, quando oltretutto la Luna sarà
ancora più piena…
Ci dirigiamo quindi verso la Plaka, il centro storico di Atene, con le sue viuzze chiuse
al traffico piene di negozi di souvenir, di artigianato locale e taverne tipiche. Qui si mangia,
soprattutto in strada, e a me l’atmosfera ricorda un poco quella delle Cinque Terre… I
negozietti vendono tutti le stesse cose, agli stessi prezzi… paccottiglia. Alcuni vendono
oggetti d’antiquariato, icone verniciate a mano, sculture in legno e pitture…
Una smania di acquisti per regali prende subito la Maddalena: un libro per il fratellino,
un CD per il fratellone… Che ne dici della grappa per il papà?… che belle ceramiche!…
Vorrebbe acquistare di tutto, tutti etti in più che dovremo portare in valigia per tutto il
viaggio… la cosa mi sembra un poco improvvida, e anche vederla spendere in regali soldi
che comunque riceve dai suoi (abbiamo rinunciato alla mini-crociera perché ci sembrava
inutilmente costosa e ci siamo detti che era troppo Alpitour…); le mie osservazioni la
intristiscono un poco e questa discussione sulle spese f-utili/inutili, sui soldi guadagnati_a_
fatica/ottenuti_senza_sforzo provoca qualche incomprensione lasciando un velo di
tristezza sui suoi occhi. Soltanto sulla panchina vicino alla stazione del metrò in Piazza
Sintagma riusciamo a ridere e a recuperare un po’ di buonumore…
3° giorno - mercoledì
Facciamo colazione con la coppia di signori che ieri dietro il Partenone ci aveva
chiesto una foto. Lui, sopra la testa calva, ieri portava un panama simile al mio, elemento
che ci distingue dal gruppo: oggi in comune abbiamo anche la camicia bianca e i bermuda
chiari; del resto, sotto il solo di Atene, il nostro è l’unico abbigliamento possibile, perché
«mentre gli altri parteciperanno alla “mini crociera alle isole di Egina, con il tempio di Mea
(V sec. a.C - visita facoltativa), Poros con il caratteristico porticciolo, e Hydra con le sue
dimore patrizie, e neoclassiche, meta di artisti di tutto il mondo”», noi e loro ce ne andremo
in giro per Atene: in fondo abbiamo visto solo il Parthenone e il Museo Archeologico
Nazionale, e sul biglietto del Parthenone ci sono ancora sei tagliandini, sei zone da vedere.
Maddalena non sta benissimo, le sono venute le mestruazioni: aveva calcolato che le
venissero prima di partire… L’«accidenti!» è diminuito dalla considerazione che erano in
ritardo di cinque o sei giorni…
Decidiamo che cominceremo dalla zona dell’Agorà. Scesi a piazza Monastiraki saliamo
alla chiesa bizantina trasformata in museo della ceramica: ma vogliono un biglietto
d’ingresso e decidiamo che la cosa non c’interessa molto; scendiamo la scalinata e
accediamo all’adiacente area archeologica della biblioteca di Adriano. Stanno togliendo delle
impalcature, hanno appena rimesso in piedi alcune colonne del pronao, integrando i pezzi
mancanti… Anche alcuni gradini sono stati interamente rinnovati… Fanno bene: è così che
ci si forma un’idea di quello che era, non con quattro pietre rimaste a segnare le
fondamenta. L’architettura è spazio e volume, non pianta.
La biblioteca tornò alla luce dopo che andò a fuoco una serie di case costruite sopra.
Nell’angolo del pronao era incastrata una moschea.
Ad un signore seduto all’ombra apparentemente lì per caso (scopriremo più avanti che
i signori seduti sotto gli alberi sono tutti controllori) chiediamo indicazioni per il foro
romano. Lungo la strada passiamo davanti alla chiesa degli Arcangeli (Tαξιάρχες) dov’è
conservata l’icona della Vergine “Grigorussa” che offre rapido rimedio alle malattie umane:
c’è una funzione in corso e rimaniamo nel portico-nartece; su di un tavolo appoggiato alla
parete stanno le offerte, dolci di vario tipo. Dalla navata giunge il canto baritonale e
suggestivo del salmista.
Eccoci all’ingresso del foro romano, proprio davanti alla Torre dei Venti: ci staccano
un tagliandino; fotografo Maddalena davanti al lato sud della Torre dei Venti; e scendiamo i
gradini che portano al foro assolato: colonne e tronchi di colonne, ma è tutto lì ed è sempre
la stessa storia, dato che mancano i volumi attorno. Risalendo incontriamo la coppia con cui
abbiamo fatto colazione: probabilmente per tutta la giornata di oggi non faremo che
rincorrerci.
Quindi scendiamo verso l’ingresso dell’Agorà: secondo tagliandino. Sulla sinistra è la
chiesa bizantina dei Santi Apostoli, fotografiamo per terra un tombino che ha la forma del
fiore “padano”, fotografiamo la volta della chiesa; quindi ci portiamo all’ombra della Stoà di
Attalo, interamente ricostruita dalla Scuola Archeologica Americana. La si critica perché è
posticcia. Ma le notizie e i reperti erano più che sufficienti a dare un’idea chiara di com’era,
e dunque hanno fatto bene: il soffitto in legno, il lungo portico diviso in due navate, ma
soprattutto l’ombra e il fresco… sono gli stessi dell’antichità: c’è più antichità qui che nelle
pietre a terra che disegnano le piante: la praticabilità ne ha restituito la perenne bellezza, la
perenne modernità: oggi la Stoà di Attalo è moderna come doveva apparire moderna agli
antichi, quindi è antica! Ma allora anche il Pantheon di Nashville… no, no… il Pantheon di
Nashville no: lì è una copia fuori contesto, lì non c’entra perché tutt’intorno è aria falsa…
L’Agorà è attraversata dalla strada delle Grandi Panatenee che giunge fino al
Partenone: entrando ne abbiamo percorso un pezzo, ora noi ne scendiamo un altro pezzo e
ci dirigiamo al Teseion. Batte il sole e Maddalena ha perso il suo cappellino bianco dopo
aver fatto la foto al soffitto della chiesa dei Santi Apostoli e non l’abbiamo ritrovato.
Mentre tento di salire su di un basamento per una foto “classica” una voce tra gli
alberi urla: “Get dàun, ser!”
Arriviamo al Teseion che domina l’Agorà. Maddalena non sta bene, fa fatica, deve
andare in bagno. Saliamo al Teseion, facciamo il giro del tempio conservato benissimo, con
le colonne in taluni punti smussate per farci passare …dei mobili? Ci costruirono delle
casette sotto il portico in passato… Una foto che dev’essere memorabile (ed è quella che
fanno tutti) mette in fila il portico ovest in ombra, la porta ovest e la porta est,aperta sul
cielo dell’Agorà…
Qui siamo vicini all’uscita su via Apostòlou Pàvlou: Maddalena non ce la fa più, c’è un
bar odioso con musica, uno di quei posti dove si capisce subito che t’inculeranno, ma non
ce ne sono altri nei paraggi… Entriamo, lei va in bagno, io mi siedo, mentre un
megaschermo manda video musicali greci ad alto volume. La cameriera non viene a
prendere l’ordine, aspetta che Maddalena esca. Due tè. 8 euro. Me la sentivo.
Maddalena è rinfrancata: possiamo andare al Keramikos, terzo tagliandino. Era un
cimitero, vi si trovavano delle stele famosissime, ora al Museo Archeologico... In sito sono
rimaste solo le meno interessanti; quelle interessanti sono state sostituite da copie in gesso,
fin troppo chiare. A fianco è stato costruito un museo per conservarvi molti altri reperti
trovati durante gli scavi, tra cui grande e intatta statua di kouros dai capelli decoratissimi.
Qui i lavori sono stati fatti dalla scuola tedesca e lo si capisce perché le targhette riportano la
didascalia in tedesco dopo quella in greco… e prima dell’immancabile inglese.
Quando usciamo la nostra ombra al suolo è lunga una ventina di centimetri e non c’è
ombra per ripararci perché gli alberelli appena piantati lungo la strada sistemata da poco
sono insufficienti; dobbiamo arrivare alla fermata di Thissio. Da qui ritorniamo verso
Monastiraki e imbocchiamo una di quelle stradine affollate zeppe di ristoranti: i camerieri ci
bloccano, quasi ci trascinano dentro i locali; resistiamo a due o tre, vogliamo prima vedere
menù e prezzi, ma per la confusione è impossibile; cediamo quindi al più nordico dei
camerieri e ci sediamo ad un tavolinetto. Mangiamo entrambi kebab, Maddalena in panino,
io in un piatto più completo.
Sono le due e mezza quando finiamo e torniamo a riposarci in albergo, dove
rimaniamo a poltrire fino alle sei. Finalmente torniamo in strada, visitiamo le chiese
bizantine della zona di Monastiraki, ma Maddalena sta male e alle sette già ritorniamo in
albergo. Mentre lei si riposa io mi faccio una nuotata. Dopo cena usciamo per andar a far la
foto alla luna dentro la finestra della porta di Adriano.
Scendiamo a Sìntagma. Guardandoci avanti e attorno scopriamo che Stefania e Simona
e altri del nostro gruppo hanno preso lo stesso metrò. Qualcuno ricorda che è l’ora del
cambio della guardia: gettiamo un’occhiata oltre la trafficatissima Via Amalia e scopriamo
che è vero: gli Euzoni si stanno movendo; “Fermatevi!” urla Simona per poterli fotografare;
non ci sono strisce pedonali vicine e noi cerchiamo di arrivare lì per la via più breve, ma le
macchine corrono come matte e c’impieghiamo due minuti per attraversare.
Fortunatamente la pantomima degli Euzoni dura parecchio: vanno, ritornano, s’incrociano,
sempre sollevando come scimmie le loro gambe al rallentatore; contano a mente,
all’unisono fanno dei passi, all’unisono sbattono con forza la scarpa pon-ponata sopra e
chiodata sotto per far rumore, si bloccano in pose innaturali e simmetriche, e intanto a
mente contano e avanzano, si girano, ritornano, sempre al rallentatore; mimica facciale zero.
Poi che si sono ripiazzati immobili davanti alle garitte, la guardia cittadina (che è lì per
evitare che qualche buontempone faccia loro il solletico alle palle) li sposta come manichini
di tre o quattro centimetri perché stiano nell’unica posizione esatta, sistema loro
millimetricamente la cravatta e la reticella da ‘bravi’ che scende dal berretto. E’ un onore
ambito per i militari greci diventare Euzoni… Due euzoni, però… Chissà come son venute le
foto al buio.
Ci salutiamo, ognuno va per la sua strada ed io e Maddalena facciamo il giro dei
giardini presidenziali (il giro che abbiamo fatto il primo giorno in autobus) con l’obiettivo di
tornare davanti alla porta di Adriano e scattare la foto mancata ieri.
Nella via che passa dietro al parlamento e davanti alla residenza del Presidente altri
Euzoni stanno facendo le prove: questi non sono ancora ben sincronizzati, appaiono
umani, ben lontani dal grado d’idiozia perfetta che sarà loro richiesto. In più punti i grandi
alberi del giardino presidenziale hanno divelto e “mangiato” la cancellata… Di nuovo il
Callimarmaro, il Tempio di Zeus Olimpio… Attraversiamo Via Amalia (questa volta aiutati
dal semaforo delle strisce pedonali) ed eccoci finalmente davanti alla Porta di Adriano… Ma
la Luna è troppo alta, non verrà ‘dentro’ la finestra come abbiamo immaginato ieri, a meno
di avvicinarci di molto, il che comporta riattraversare Via Amalia…Corrono le macchine,
non c’è un attimo di tregua… Finalmente il semaforo rosso le blocca, inquadriamo per la
foto, carichiamo la macchina.. Accidenti è finito il rullino. Giro la macchina ripassando
mentalmente la procedura di sostituzione, Maddalena me la rigira e mi dice che devo prima
riavvolgerlo, commetto un errore, strattono e la manovella gira a vuoto: rotto il rullino.
Abbiamo perso tutte le foto fino ad ora. Maddalena è tristissima. Io fatalista. A voce alta
ripassiamo le foto perdute.
4° giorno - giovedì
Comincia il grande tour: prima tappa Atene/Olympia, dice la guida che ci è stata
fornita. Km 370. Sono tanti ma distribuiti in tutta la giornata e con tante tappe di mezzo:
sopportabile. Di fatto attraverseremo orizzontalmente il Peloponneso, da est a ovest
Maddalena sta ancora un poco male per le mestruazioni. Fortunatamente siamo riusciti
a prendere i due posti a metà pullmann vicino alla porta col tavolinetto di fronte che ci offre
quindi un po’ di spazio e di visibilità.
Uscendo dalla colata abitatizia di Atene, Ares indica verso nord un quartiere del pari
cementificato: è Colono, dove venne a morire Edipo (Sofocle). Cieco, cacciato dal figlio
Polinice, che a sua volta era poi stato cacciato dal più giovane Eteocle, Edipo era stato
guidato qui dalla figlia Antigone; qui aveva chiesto ospitalità al re di questa terra che era
Tèseo, re di Atene; qui era poi giunta l’altra figlia Ismene, e qui Polinice aveva rapito le
sorelle per convincere Edipo a tornare ma Teseo, rispettando i doveri dell’ospitalità, le
aveva liberate; qui era giunto Polinice a supplicare il padre di tornare con lui a Tebe dopo
che un oracolo aveva predetto che la vittoria sarebbe arrisa al fratello che avesse avuto dalla
sua parte il padre; qui Egeo aveva maledetto entrambi i figli, vaticinando ad entrambi la
morte per mano del fratello e qui Polinice, ormai rassegnato a condurre sé stesso alla morte
nel condurre gli altri sei contro Tebe, aveva rifiutato i consigli di Antigone di desistere dalla
spedizione; qui, in un luogo noto solo a Teseo e che mai egli avrebbe rivelato per garantire
pace e prosperità ad Atene, era morto finalmente in pace il vecchio Edipo.
Passiamo per Eleusi, ormai rinomata per le sue raffinerie. Qui si danno
rappresentazioni del teatro classico con alle spalle il fondale delle ciminiere. Passando
davanti ad una raffineria, Ares cita la moglie di uno dei signori della raffinazione, la lady di
ferro che ha diretto l’organizzazione delle olimpiadi di Atene 2004.
Passiamo davanti al monastero bizantino di Dafnì: varrebbe la pena di vederlo se non
fosse chiuso per restauro, cosa che diminuisce l’amarezza che il nostro viaggio non ne
preveda la visita.
Imbocchiamo l’autostrada che costeggia il Golfo Saronico, il golfo della città di Argo
che prese il nome da Re Saron che non sapeva nuotare e morì inseguendo nell’acqua il
WWWWWWW che stava cacciando.
Mègara, fondata dall’eroe Bisas, che poi fonderà anche Bisanzio (e darà il nome
all’attuale squadra di calcio di Megera)... I megaresi fondarono in Sicilia la colonia di Megara
Iblea. Di fronte a Mègara è l’isola di Salamina dove la flotta di Temistocle sconfisse quella
dei Persiani nel 480 a.C.
Ogni sasso, ogni promontorio lungo l’autostrada è il luogo dove Tèseo uccise un
brigante o un mostro, garantendo ad Atene pace e sicurezza. Teseo è come Ercole: questo
con le sue 12 fatiche, quello con le sue 12 imprese, essi riassumono in sé il mito ed il ciclo
di un’affermazione: Ercole quello dei Dori che occuparono il Peloponneso, Tèseo quello di
Atene che divenne regina dell’Argolide. Teseo è Atene
Prima tappa è Corinto, dove facciamo sosta presso il ponte sull’istmo. Dovrebbe
essere un momento toccante, almeno per me: quando a dieci anni raccoglievo le figurine di
Bell’Europa rimasi impressionato da quella dell’Istmo di Corinto, che lo ritraeva con il
ponte ferroviario, parallelo a quello stradale… Oggi, dopo quasi trent’anni, sono sulla
passerella pedonale a fianco della strada, nello stesso punto da dove quella figurina era stata
ritratta e sto per fotografare la stessa immagine… Stiamo tutti facendo la stessa foto, è la
foto del rito Alpitour, la poesia della mia figurina di trent’anni fa è andata a farsi friggere…
All’orizzonte è il Golfo di Corinto, il Mar Ionio, alle mia spalle il Golfo Saronico, il Mar
Egeo… Nella figurina c’era una nave che attraversava l’istmo, e tutto allora mi pareva
gigantesco… Abbandoniamo la postazione, attraversiamo la trafficatissima strada, ci
spostiamo sulla passerella opposta per guardare l’estremità del canale verso il mar Egeo…
Da quest’altra parte sta giungendo effettivamente una nave (turistica!), ma non è quella della
figurina, questa occupa tutta la larghezza del canale e lo fa sembrare più piccolo: per ragioni
di sicurezza è trascinata a motori spenti da un battello; nemmeno con la nave rispunta la
poesia del luogo, sopravvive solo quella dei miei dieci anni... Maddalena sta sempre male;
una vecchina ci offre delle spighe intrecciate e ci assicura che “Porta fortuna!”, ma sarebbe
meglio ci vendesse un Moment.
Sull’autobus Ares racconta che ai tempi dello scavo del canale (da parte di una ditta
francese) si temeva che i livelli dei due mari fossero assai differenti e l’apertura del canale
avrebbe provocato qualche catastrofe…
Di qui ci spostiamo verso Epidauro che tutti conosciamo per il famoso teatro
dall’acustica perfetta. Una strada abbastanza tortuosa ci porta verso la città: ad ogni
lampione, ai lati della strada, per chilometri e chilometri, è attaccata una locandina di uno
spettacolo teatrale: è l’“Irene” (= pace) di Aristofane.
Ma Epidauro nell’antichità era soprattutto un centro medico religioso, un luogo
tranquillo, più accessibile dal mare che via terra. Epidauro è la città di Asclepio, il figlio di
Apollo e Coronis che nacque dalla madre morta col primo parto cesareo della storia; e che
poi andò a studiare le proprietà delle erbe presso il centauro Chirone in Tessaglia.
La scienza di Asclepio era divenuta talmente grande che egli riusciva persino a
risuscitare i morti: Zeus, inflessibile custode delle eterne ed immutabili leggi della natura, fu
costretto, per questo motivo, ad ucciderlo con un fulmine, sollecitato anche dalle lamentele
di Ade, dio dei morti, per la scarsa affluenza di anime nel suo Regno.
Ad Epidauro si veniva per curarsi e per pregare, per chiedere al dio la grazia della
guarigione: «qualcosa a metà tra Montecatini e Loreto» dice Aris, che poi nel museo ci
racconta di eventi miracolosi, di un tale cui fu tagliata la testa malata, guarita, e riattaccata al
corpo; alle pareti gli ex-voto di terracotta, e dentro le teche i ferri del mestiere di epoca più
tarda, bisturi e coltellini, quando si cominciò a fidarsi più della praxis e delle techne che delle
orazioni. Nella grande sala del museo ricostruzioni di parti dei tre templi di Epidauro e
copie di statue potate ad Atene.
Nelle varie statue Asclepio ha l’aspetto di un uomo maturo, dall’espressione pensosa,
mite e buona; il suo volto è incorniciato da una lunga e folta barba bianca. Stringe tra le
mani un bastone attorno al quale è arrotolato un serpente, simbolo della guarigione che
lascia la pelle vecchia per la nuova; spesso ha vicino un gallo, simbolo del giorno e della vita
che rinascono. A volte è seduto sopra un trono, a volte in piedi; a volte è solo, a volte in
compagnia della figlia Igea, la dea della Salute, una giovane donna sana e robusta intenta ad
abbeverare il serpente a una coppa.
A Epidauro, per sollevare l’umore dei malati (perché da sempre il riso fa buon
sangue) c’era un teatro, il famoso teatro di Epidauro, ottimamente conservato. Maddalena
sta male e si siede appena in cima alla salita. Io invece voglio sperimentare la tanto famosa
acustica: ma coma faccio a recitare e ad ascoltarmi? Un gruppo di signore canta il “Va
pensiero”: seduto alla metà della cavea, devo dire che si sente davvero bene.
Partiamo quindi per Micene. La prima cittadina che incontriamo è Coroni ( = la
madre di Asclepio): Ares indica i ristoranti dove vengono a cenare i vip dopo le grandi
rappresentazioni teatrali e dove anche gli attori vengono a cenare per sentire i primi
commenti sulla loro prova…
Passiamo vicini e non visitiamo Nauplia, la città fondata da Nauplio, figlio di
Posidone e della danaide Amimone. Un Nauplio re dell’Eubea, padre di Palamede, per
vendicare l'uccisione del figlio da parte di Ulisse, suscitò discordie fra le famiglie dei principi
greci parlando di adulteri; poi, al ritorno dei principi dall'assedio di Troia, attirò le loro navi
per mezzo di fuochi ingannatori tra gli scogli della sua isola per farle naufragare e, quando
seppe che Ulisse si era salvato, si uccise. Nauplia conserva entrambi i miti: il primo col
nome della città, il secondo col nome della collina che sovrasta Nauplia, l’unica cosa che
vediamo dall’autobus: la collina di Palamede.
Gli Achei si insediarono in Nauplia nel 1600 a.C.; tra il 1400 e il 1200 essa conobbe un
particolare sviluppo grazie all’influenza di Creta. In seguito alla guerra di Troia (XIII-XII
sec. a.C.) e all’invasione dorica, il territorio fu frazionato in varie città rivali, tra le quali la
vicina Argo predominò tra il VII e il VI sec. Con l'arrivo dei Bizantini la sua importanza
rifiorì e nel XIII secolo venne conquistata dai crociati guidati da Ottone de la Roche che ne
fece un proprio possedimento. Nel 1388 passò ai Veneziani che ricostruirono la fortezza di
Palamede sulla collina: due secoli dopo la dotarono di una scala nella roccia che la univa
rapidamente alla città: rivelata da un francese traditore, divenne l’altrettanto rapida via di
conquista da parte dei Turchi.
Alla fine del 1822 fu conquistata dai patrioti greci che la nominarono capitale della
Grecia indipendente. Nel 1833, nella città, i vescovi greci proclamarono l’indipendenza della
loro chiesa dal patriarcato di Costantinopoli. I resti archeologici testimoniano che il luogo
era abitato anche in epoca preistorica. Del periodo miceneo rimangono alcuni blocchi delle
mura antiche, in seguito inglobate nelle fortificazioni medievali. Sono state scoperte varie
camere sepolcrali scavate nella roccia. Nel Museo cittadino sono conservati reperti datati
per la maggior parte dal XV secolo a.C. all’epoca ellenistica e micenea, buona parte dei
reperti ceramici sono conservati presso il Museo nazionale di Atene.
Nell’Argolide, le città principali erano Argo e Tirinto, che lottarono a lungo per la
supremazia: secondo la leggenda i loro re, Acrisio e Proteo rispettivamente, fratelli, avevano
cominciato a litigare ancora nel ventre della madre…
Tirinto fu spesso sottomessa ad Argo, e definitivamente distrutta da Argo nella prima
metà del V secolo a.C. e venne quindi abbandonata. Abitata già dal III millennio a.C.;
Tirinto raggiunse il massimo splendore in epoca micenea (1400-1200 a.C.). Le ‘ciclopiche’
mura (costruite con massi giganteschi che solo i Ciclopi avrebbe potuto costruirle) sono
tutto ciò che rimane, di circa 7,5 m di spessore: così le canta Omero nell’Iliade:
Seguìa l’eletta de’ guerrier, cui d’Argo
mandava la pianura e la superba
d’ardue mura Tirinto e le di cupo
golfo custodi Ermïone ed Asìne.
Nella parte sud dell’acropoli rimangono le rovine del palazzo, situato, costruito nel
XIV-XIII secolo a.C., simile a quello di Crosso: fu ritrovato dal grande genio archeologico
di Heinrich Schliemann negli scavi del 1884-85.
Nella Teogonia di Esiodo Tirinto è descritta come santa. Alla città è legato il mito di
Bellerofonte, di Perseo, di Preto, di Eracle, di Euristeo, di Anfitrione; parecchie le opere e le
tragedie che hanno a che vedere con Tirinto.
L’autobus passa anche oltre Argo, che non visiteremo perché non c’è più nulla da
vedere… Ma di cui ci sono un milione di cose da dire.
Argo risale all’età del Bronzo ed è ritenuto l'insediamento più antico della Grecia. È la
città natale di Policleto e fu un famoso centro artistico in epoca arcaica e classica. Le
principali vestigia dell’antica città sono un tempio dedicato a Hera (Heraion) e un teatro del
IV-III secolo a.C. (uno dei più grandi dell'antichità.
Nel VII secolo a.C. divenne la città più potente del Peloponneso.
Fidone, tiranno di Argo, vissuto nel VII sec. a.C., che combatté contro Sparta e la
vinse a Isie nel 669 a.C., fu il primo a coniare monete nella Grecia e a stabilire norme sui
pesi e sulle misure.
Ma nel VI secolo a.C. il potere di Argo venne drammaticamente ridotto da Sparta.
Nel V secolo a.C. Argo si risollevò distruggendo Micene e Tirinto (468 a.C.).
Nel IV secolo a.C. partecipò alla guerra del Peloponneso a fianco di Atene e delle città
alleate contro Sparta. Da questo momento in poi la storia di Argo diviene un inarrestabile
declino: viene sottomessa dalla Macedonia nel 229 a.C. Poi Argo entra nella Lega achea, ma
nel 146 a.C. diviene parte della provincia romana dell'Acaia.
Unita all'impero bizantino, viene occupata dai turchi dal 1460 al 1830.
Verso il 1820, durante la lotta per l'indipendenza della Grecia, Argo fu per pochissimo
tempo sede dell’Assemblea nazionale ellenica; nel 1825 viene terribilmente saccheggiata
dall'esercito turco.
Questa la storia: ma Argo è di importanza fondamentale per la mitologia.
Primo re di Argo fu Inaco, figlio di Oceano e di Teti, padre di Pelasgo, Argo e Io. E di
Foroneo. Io, ninfa bellissima, fu amata da Zeus. Ma Hera venne a conoscenza del fatto e si
mise a perseguitarla. Per nasconderla, Zeus la mutò in vacca; ma, Hera seppe anche questo,
si fece regalare da Zeus la giovenca, e, legatala a un albero, le diede per guardiano Argo dai
cento occhi. Impietosito dai lamenti di Io, Zeus mandò Hermes a uccidere Argo. Allora
Hera fece tormentare la giovenca da un tafano che non le lasciò più un istante di tregua, Io
sempre in forma di giovenca, si diede alla fuga. Attraversò il mare cui diede il suo nome
(Ionio), quindi il Bosforo (= “Il bue porta”) dove Zeus aveva rapito la sua bisnonna
Europa, poi l'Asia Minore e finalmente arrivò in Egitto, dove Zeus le ridiede forma umana
e la rese madre di Epafo, primo re egiziano, fondatore di Menfi.
Inaco maledisse Zeus, reo di avere sedotto Io, ma non sfuggì alla sua ira: per sottrarsi
alla furia delle Erinni si gettò nel fiume Aliacmo, nell’Argolide, che da allora prese il nome
di Inaco.
Foroneo, primo uomo della stirpe pelasgica, figlio di Inaco e fratello di Io,
rappresentante del territorio di Argo, insegnò agli uomini l'uso del fuoco, come aveva fatto
Prometeo, e venne venerato come l’iniziatore della cultura di quel paese e dell'ordinamento
civile e religioso degli Argivi. Fu fondatore del culto di Hera sul monte Eubea.
Hera, venerata ad Argo come divinità lunare, venne più tardi, ma molto prima di
Omero, considerata regina del cielo. Come tale la si ritenne figlia di Crono e di Rea, sorella
quindi di Zeus di cui divenne sposa. Fu madre di Ares, di Efesto, di Ebe. Di matronale
bellezza, di impeccabili costumi, proteggeva la castità del matrimonio e la santità del parto.
Nemica acerrima dei Troiani a causa del giudizio di Paride (v.). Le erano sacri il pavone
(sulla cui coda erano finiti i cento occhi di Argo), la cornacchia e la melagrana; suoi
messaggeri erano Iride e le Ore. Ebbe culto molto speciale ad Argo (“Era Argiva”),
soprattutto sul promontorio Lacinio (“Era Lacinia”).
Anche Zeus aveva i suoi epiteti ad Argo: “Stenio” (“il Forte”) nelle feste in suo onore;
e poi “Liceo” – già epiteto di Apollo con significato di «liberatore da lupi» – perché si
diceva vi fosse apparso una volta sotto aspetto di lupo.
Re di Argo fu Danao che ebbe 50 figlie, che uccisero per ordine del padre – tutte
meno una, Ipermestra – i loro mariti figli di Egitto, loro cugino, e furono perciò condannate
da Zeus al Tartaro, dove scontano la loro colpa versando acqua in eterno in un vaso senza
fondo.
Re di Argo fu il litigioso Acrisio, padre di Danae, che fu amata da Zeus, che per
possederla (avendola il padre rinchiusa in una torre perché gli era stato predetto che il figlio
di lei lo avrebbe ucciso) si trasformò in pioggia d'oro. Ne nacque Perseo. Acrisio allora fece
chiudere in un’arca e gettare in mare la figlia ed il nipotino. Ma Perseo, scampato alla furia
dell'oceano, tornò ad Argo e si presentò al nonno, che rimase pietrificato guardando la testa
di Medusa che il nipote portava come trofeo. Poi Megapente (‘Megapénthés’), avrebbe dato
il proprio regno in cambio di quello del cugino Perseo, diventando re di Argo.
Re di Argo fu Anfiarao. Sua moglie Erìfile, attratta dalla collana di Armonia, indusse il
marito, pur sapendo che egli vi avrebbe trovato la morte, a seguire il fratello di lei, nella
guerra contro Tebe. Fu uccisa dal figlio Alcmeone per vendicare il padre. Secondo altri
sarebbe stata uccisa per aver rivelato a Polinice il nascondiglio di Anfiarao, in cui egli si era
rifugiato per non partecipare alla guerra contro Tebe. Dante la ricorda nel Purgatorio XII,
49.
Re di Argo fu Diomede (non il Diomede dei cavalli cannibali), uno dei principali eroi
dell'Iliade, figlio di Tideo e di Deipile, che con la protezione di Atena ferì lo stesso Ares,
partecipò ad imprese rischiose e insieme a Ulisse, uccise Reso re dei Traci e s’impadronì
delle frecce letali di Filottete. Tornato in patria e insidiato dalla infedele moglie Egialea,
riprese il mare, approdò nelle coste dell'Italia meridionale, divenne re della Daunia
fondandovi Argos, Hippios e altre città.
Argo è anche associata anche al ciclo di Oreste che inizia con Agamennone, il più
famoso re di Argo e Micene, figlio di Atreo e fratello di Menelao, citato nell'Iliade e
nell'Odissea. Ebbe in sposa Clitennestra, figlia del re di Tebe Tindaro, che gli diede i figli
Ifigenia, Elettra, Crisotemi ed Oreste. Condottiero degli eroi greci che assediarono Troia,
sacrificò la figlia Ifigenia per ottenere la vittoria. Nell'Iliade è il responsabile dell'affronto
fatto ad Achille e delle sconfitte greche. Al ritorno in patria fu ucciso da Clitennestra e
dall'amante di questa, Egisto, secondo la predizione di Cassandra. Suo figlio Oreste ne fece
vendetta.
Tisamenós (o Teisamenós), figlio di Oreste ed Ermione, fu re di Sparta, Micene e
Argo. Detronizzato dagli Eraclidi (i Dori), si rifugiò in Acaia.
Argo è la patria di Agelada, scultore del sec.VI-V a.C., maestro di Fidia, Policleto e
Mirone che produsse bronzi nello stile severo (lo stile che si diffuse in Grecia dopo la calata
dei Dori), dei quali ci è giunta notizia attraverso le fonti letterarie (Zeus di Egio, atleti di
Olimpia).
Di Argo era Telesilla, poetessa greca dei secc. VI-V a.C., di cui rimangono pochi
frammenti, dei quali uno dedicato alla Gran Madre. In suo onore prese il nome il verso
telesilleo.
Ad Argo si celebravano le feste Ibristiche durante le quali uomini e donne indossavano
le reciproche vesti. Le feste sono forse da collegare al culto di divinità androgine.
E arriviamo finalmente a Micene. È appena passato mezzogiorno: per prima cosa si
va a mangiare da “Homer”. Maddalena sta male, malissimo. Ci sediamo ad un tavolo vuoto.
Un istante dopo il cameriere fa sedere con noi l’alta coppia giovane della comitiva: lui ha
barba e capelli rossi e l’aria da buono, lei fatica a dialogare con gli estranei… ha strani
tatuaggi, sulla spalla, sulla schiena… Sono di Forlì. La sera prima hanno partecipato alla
serata greca… e non l’hanno trovata per nulla interessane. Come supponevo. Meno male
che ci siamo evitati il momento Alpitour.
Qui l’acqua, seppure in bottiglia, è gratis. Alla fine del pranzo mi faccio portare un’altra
bottiglia d’acqua e rubo le due arance dal cestino della frutta: torneranno buone sotto il sole
di Micene. Subito dopo il pranzo si va infatti a vedere il museo; qui è rimasto poco, il grosso
della ‘roba’ (tra cui la maschera detta di Agamennone) è finito ad Atene, qui ci sono solo le
copie.
Micene «ricca d’oro» dà nome alla più importante civiltà greca dell’età del Bronzo, la
civiltà micenea.
Micene sorge su una collina (278 m slm), stretta e protetta da due cime elevate e
scoscese (il Sara e il Prophitis Ilias). Secondo la tradizione la città fu fondata da Perseo figlio
di Zeus e di Danae. Successore di Perseo fu Atreo figlio di Pelope e di Ippodamia.
Atreo e Tieste, istigati dalla madre Ippodamia, avevano ucciso il fratellastro Crisippo,
che il padre Pèlope aveva avuto da un'altra donna; poi, per sottrarsi alla persecuzione di
Pèlope, erano riparati ripararono con la madre alla corte di Euristèo, re di Micene. Alla
morte di lui, Atrèo s’era impossessato del trono, suscitando le ire invidiose di Tieste, che si
vendicò seducendogli la moglie Erope, e portando con sé nella fuga un figlioletto del
fratello, al quale, diede l’incarico di uccidere Atrèo. L’attentato fallì; Atreo, ignaro che
l'attentatore alla sua vita fosse suo figlio, lo fece morire; ma quando venne a conoscenza
della scelleratezza di Tieste, giurò di farne atroce vendetta: e, simulando di voler riconciliarsi
con lui, lo accolse festosamente a Micene, dove fatti segretamente pigliare due figlioletti di
lui, Tàntalo e Plistène, li imbandì a mensa al fratello, attirando così su di lui e su tutti i
discendenti la maledizione degli déi e di Tieste
Accecato dalla sete di vendetta, Tieste, avendo intanto appreso dall’Oracolo che il
figlio che sarebbe nato dalla sua propria figlia Pelopèa, avrebbe ucciso Atreo, una notte, al
buio senza farsi riconoscere, si accoppiò con lei, e il mostruoso figlio di quell’incesto fu
Egisto. Per placare la maledizione degli dèi Atrèo corse a chiedere consiglio all’amico re
Tesproto; e, vista presso di lui Pelopèa, credendola figlia di lui, la sposò e la condusse con sé
a Micene, dove ella fece allevare, coi due figli di Atrèo, Agamènnone e Menelào, anche il
suo Egisto, al quale Atrèo, diede l’incarico d’uccidere Tieste. Egisto, non si fece troppo
pregare, ed avuta dalla madre la spada da lei sottratta al proprio ignoto seduttore, con quella
assalì Tieste il quale, riconosciutala sua, si spiegò col figliolo e lo persuase a vendicarlo: ciò
che Egisto fece senza esitazione.
I micenei, chiamati achei da Omero, possono identificarsi con le tribù che giunsero in
Grecia verso il 2000 a.C. a seguito della grande migrazione indoeuropea.
L’alfabeto in uso a Micene era il lineare B. Verso al 1400 a.C. i micenei conquistano il
centro della civiltà minoica, Cnosso, e nel 1200 a.C., guidati da Agamennone della dinastia
degli Atridi, figurano tra gli eserciti greci che combatterono nella guerra di Troia, narrata da
Omero nell’Iliade.
Molto presto la supremazia di Micene ebbe fine, a causa delle rivalità tra le varie città
stato, aggravata, nel tardo XII secolo a.C., dall'invasione di un’altra popolazione, i dori,
provenienti dal nord. Durante le guerre persiane Micene inviò un contingente di 80 uomini
alla battaglia delle Termopili e insieme a quelli di Tirinto 400 uomini a Platea. Per questo
gesto ebbero l’onore di vedere il proprio nome scritto sul tripode che dedicarono a Delfi le
città che avevano partecipato alla battaglia. Gli Argivi non tollerarono tale distinzione
onorifica e nel 468 a.C. conquistarono l’acropoli e distrussero le mura: Micene non
riconquistò più il suo originario splendore e mai più fu ricostruita.
Usciamo dal museo: ecco davanti a noi le rovine di Micene che comprendono, le
grandiose fortificazioni (che raggiungono i 6-8 m di spessore), in cui si apre il monumentale
passaggio di nord-ovest: la celebre Porta dei Leoni.
Appena oltre, a destra, vi sta il Granaio, edificio in uso fino alla distruzione
dell'acropoli. Subito dopo il Granaio si erge il Circolo Funerario A con 6 tombe reali, dalle
quali furono rinvenuti diversi oggetti quali: le maschere d'oro (tra cui la famosa «detta di
Agamennone»), spade in bronzo con impugnature in oro e avorio, pugnali decorati in oro,
vasi e gioielli aurei, insomma i famosi “15 chili d’oro” ora finiti al Museo Archeologico di
Atene. L’oro i Micenei avevano imparato a lavorarlo in Egitto e forse da lì l’avevano
importato perché non c’era oro nei dintorni di Micene.
Qui sulla collina fu acceso l’ultimo fuoco che annunciò ad Atreo la fine della guerra di
Troia.
Oltre alle rovine del Palazzo Reale, straordinarie appaiono le testimonianze funerarie,
come la tomba di Agamennone, la tomba di Clitennestra, la tomba di Egisto ecc.ecc. portate
alla luce nel 1876 e nel 1878 ancora una volta da Heinrich Schliemann. Risaliamo in autobus
per fare i 300 metri che ci separano dalla prima, la più famosa, l’unica con camerino
annesso. Vuota. Da sempre. Svuotata chissà quando.
Un lungo tragitto ci aspetta ora per arrivare ad Olympia poiché dovremo attraversare
tutto il Peloponneso da est a ovest.
Ed io ne approfitto per parlare di Pausania, uno scrittore del II secolo già diverse volte
citato da Ares in questi giorni. Non è un caso, perché “senza Pausania, le rovine della
Grecia sarebbero, per la maggior parte, un labirinto senza uscita, un enigma senza
risposta” (James G. Frazer)
Di Pausania abbiamo pochissime notizie, ricostruibili dubitativamente dagli accenni
che egli dà, nella sua opera, a diversi imperatori del cui regno sembra esser stato testimone:
sembrerebbe che sia vissuto sotto gli Antonini, visto che cita ed esalta le opere urbanistiche
in Grecia di Adriano (117-138) e, con parole che indicano un testimone preciso, sotto i
regni di Antonino Pio (138-161) e Marc’Aurelio (161-180).
Pausania, quindi, sarebbe nato intorno al 110, raggiungendo la piena maturità sotto i
due successori di Adriano: il che spiegherebbe i termini altamente elogiativi con cui riferisce
del riassetto monumentale dato da Adriano alla Grecia e, in particolare, ad Atene. Tali
parole indurrebbero a pensare che si riferisca a questo imperatore come già divinizzato.
Altro cenno per la datazione dell'autore è dato dall’invasione dei barbari Costoboci, situata
intorno al 166, che distrussero il tempio di Demetra ad Eleusi, perno centrale della
restaurazione filellenica degli Antonini.
Per quanto concerne la provenienza, si è pensato all'identificazione di Pausania con un
omonimo sofista di Magnesia, in Lidia (Habicht), ma senza prove inoppugnabili: che però
Pausania fosse di origine micrasiatica provano l'ammirazione tributata ad Erodoto e
l'attenzione per la storia delle colonie greche d'Asia Minore.
Poiché non fa alcun accenno a Commodo, cosa impossibile dopo l'ascesa al trono di
questo sovrano dispotico, si ritiene che Pausania sia morto nel 180 o poco prima.
Pausania è autore della Periegesi della Grecia, un trattato storico-geografico in 10 libri che
copre, in senso orario, quasi tutte le regioni greche: cominciando dall’Attica (I), passa poi a
descrivere Corinto e l’Argolide (II), per concentrarsi sul Peloponneso: vengono, così,
trattate Laconia e Messenia (III-IV), l'Elide, con un’ampia trattazione sulle Olimpiadi e
sull'area del santuario di Zeus Olimpio (V-VI), l’Acaia, con un lungo excursus sulla
colonizzazione greca arcaica (VII), e l'Arcadia (VIII). È il giro che faremo noi… Chiuso in
un cerchio il Peloponneso, Pausania torna al nord-est della Grecia continentale, con la
Beozia (IX) e, infine, con l’ampia trattazione della Focide e della zona di Delfi, per i greci
‘ombelico del mondo’ (X).
Ad un primo esame, l’opera di Pausania sembra una sorta di guida turistica, che
condensa una descrizione accurata di monumenti e miti ad essi legati, con brevi excursus di
tipo storico e antiquario: tale ibrida mescolanza di storia ed erudizione, dichiaratamente
ispirata ad Erodoto, era già patrimonio comune della letteratura geografica e periegetica, fin
dall’ellenismo, con autori come Polemone di Ilio (III-II a.C.) e, più vicino nel tempo,
Strabone.
In realtà, inserendosi pienamente nel clima di recupero culturale della grecità attuato
nell’età antonina (e forse per questo l’opera ebbe una limitata fortuna, essendo legata ad un
contesto troppo specifico), Pausania intende riprendere la grande tradizione culturale della
Grecia, facendo, dal versante periegetico, opera simile a quella di Plutarco per la biografia.
Pausania esprime il momento di pace socio-culturale antonina, in cui il grande passato greco
è ricostruito con il ricorso a fonti svariate, sia in prosa che in poesia, specie per notizie rare,
di cui spesso è fonte insostituibile.
La sua opera, in passato relegata a ruolo di modesta compilazione, può invece essere
intesa come una delle ultime storie greche, in cui la lettura storica del paesaggio (Musti) è
attuata con la ricostruzione non solo dell'arte e della cultura, in special modo della mitologia
(con le dettagliate descrizioni di opere altrimenti perdute, come, ad esempio, lo Zeus e
l’Atena di Fidia, o anche l’arca di Cipselo) ma anche dei passaggi storici a cui la regione in
questione è stata esposta.
Abbiamo attraversato le montagne fastidiose al centro del Peloponneso, tornanti su
tornanti, ma il nostro autista è bravo, li prende dolcemente, nessuno sta male e finalmente
discendiamo verso la Messenia. Il paesaggio è già più verde: qui non ci sono i problemi di
siccità che affliggono l’Attica, l’Argolide, la Laconia: piove il triplo.
Attraversiamo il fiume Alfeo. Che inseguì Aretusa fino in Sicilia e lì con lei si
congiunse
Sulla costa è la città di Cyparissia. I cipressi striano il paesaggio, un misto di colline
toscane e vegetazione padana. Cyparisso, amato da Apollo,…
Siamo quasi arrivati a Olympia. A un certo punto, l’autista prende una scorciatoia:
sembra strada per motorini, nemmeno per auto… e difatti l’autobus sfiora recinzioni di
casupole modeste, cancelletti, cornicioni di tetti, finché arriviamo a Olympia, all’Hotel Nera.
La cena è prevista sulla splendida terrazza dell’hotel da cui si domina tutta la città (un
paesino di 2000 abitanti!).
Ci laviamo e ci presentiamo in terrazza per la cena. Con noi siedono Simona e
Stefania. Poco dopo anche una coppia di… quale età? Mezza, terza… sui sessant’anni. Il
panorama è splendido, si vedono tutte le montagne intorno a Olympia, così piccola da
concentrarsi sotto l’orizzonte della terrazza. Il discorso finisce sui cellulari e il signore
racconta di quel suo amico avvocato che rispose al telefonino anche appeso alla parete di
roccia: con una mano sulle corde e col telefonino nell’altra… «Del resto non può mai
staccare, è uno egli avvocati che seguono Berloni… » spiega orgoglioso.
«Lei ha amici avvocati? – chiedo io, che ho voglia di rompere le palle – Come si fa ad
avere amici avvocati? Non ne ho mai conosciuto uno che volesse veramente la risoluzione
di una causa, che lavorasse per la verità…» Il signore dovrebbe rispondermi male e invece
rimane in silenzio: a una certa età è obbligatorio pensare che la vita è dei furbi. La
conversazione diventa improvvisamente di pietra. Lunghi silenzi inframmezzati a bocconi di
conversazione dai quali veniamo a sapere che Stefania insegna in una scuola materna,
mentre Simona lavora in un supermercato. Sono cugine. La signora probabilmente deve
lavorare in una radiologia dato che cita con aria saccente colleghi medici e prassi
ospedaliere. Quando sente che anch’io insegno concorda con me che faccio la bella vita
dato che lavoro 18 ore alla settimana e posso fare tutto quello che mi piace… Da quel
momento la conversazione diviene inesistente.
Simona la ravviva con la foto della tavolata: sembra ossessionata dall’idea di
conservare ogni immagine, ogni momento… E forse fa bene: i ricordi che rimangono vivi
sono quelli che si possono rinnovare…
Alla fine della cena io e Maddalena scendiamo a fare un giro per la cittadina. Visitiamo
per mezz’ora un negozio di vasi, belli e troppo cari, quindi in un altro negozio lei compra
della pietra pomice per sua madre; infine entriamo nell’unico negozio culturale di Olympia:
libri in tutte le lingue, opere d’arte molto particolari… Maddalena mi regala due libri, poi
compra cartoline e francobolli e una calamita per sua nonna Dima… Al momento di pagare
scopriamo che l’uomo che da un pezzo sta chiacchierando col titolare è Aris, la nostra
guida.
5° giorno - venerdì
Prima colazione in albergo, ancora con Simona e Stefania. Per non perdere la bella
abitudine Simona fotografa anche il tavolino della colazione.
La mattinata sarà dedicata alla visita di Olympia, il grande santuario panellenico, sede
degli antichi giochi olimpici.
Olympia, posta nell’Elide (Peloponneso) sulla riva destra dell’Alfeo, a ovest di Pisa,
capitale dell’Elide. Vi sorgevano numerosi templi, tra cui celebre l’Olimpieion dedicato a Zeus
e al suo culto, in un recinto sacro denominato Altis. Il tempio di Zeus, quello di Hera,
Heraion, e altri edifici monumentali dell’Altis, i più antichi datati a partire dal sec. VIII a.C.,
furono frequentati fino al IV sec. a.C. Nello stadio e nell'ippodromo di Olimpia si
svolgevano ogni 4 anni i celebri Giochi Olimpici (Olimpiadi). Questo centro non assunse
mai la configurazione di città vera e propria, rimanendo sempre un agglomerato di templi,
boschi, terreni sacri, centro religioso anche dei popoli che nel tempo la occuparono e che vi
istituirono i propri culti. Gli scavi archeologici iniziarono nella seconda metà del XVIII sec.
e furono ripresi nel 1875. Conseguenza degli scavi, fu la riesumazione dei Giochi Olimpici
dell'era moderna, che si svolsero la prima volta ad Atene nel 1896.
Nel corso delle esplorazioni sono stati messi in luce resti che dal medio e tardo
elladico arrivano all'età romana tardo-imperiale. I giochi olimpici venivano celebrati ogni
quattro anni in onore di Zeus a Olimpia, sede del più importante santuario della divinità.
Nel 776 a.C. fu compilato per la prima volta l’elenco dei vincitori, conservato sino al 217
d.C. , nelle opere di Eusebio di Cesarea. Eccetto la sacerdotessa di Demetra, nessuna donna
poteva assistere ai giochi.
I giochi olimpici venivano celebrati in estate. All’inizio dell’anno in cui avrebbero
avuto luogo venivano inviati emissari per invitare le diverse città-stato a partecipare al
versamento del tributo pagato a Zeus; queste mandavano quindi le proprie delegazioni,
rivaleggiando l’una con l’altra nell’esibizione dell’equipaggiamento e nelle imprese atletiche.
La durata dei giochi olimpici venne ampliata notevolmente: inizialmente erano concentrati
in un giorno, con gare di atletica e di lotta; successivamente – forse per opera del tiranno di
Argo Fidone (VII secolo a.C.) – vennero introdotte le corse ippiche; a partire dal 472 a.C.
gli agoni furono portati a cinque giorni. Anche se non è nota con esattezza la loro sequenza,
sappiamo che il primo giorno era dedicato ai sacrifici; nel secondo si svolgeva la più
importante competizione dei giochi, la gara di corsa, che si disputava nello stadio. Negli altri
giorni avevano luogo la lotta, il pugilato e il pancrazio (una specialità che combinava insieme
le due discipline precedenti). Nella lotta l’obiettivo era mettere a terra l’avversario tre volte.
Il pugilato divenne sempre più brutale con il tempo: all’inizio i pugili si avvolgevano cinghie
di morbido cuoio intorno alle dita della mano, allo scopo di attutire i colpi, mentre in epoca
posteriore usavano cuoio più duro, a volte reso più pesante dall'inserimento di parti di
metallo. Nel pancrazio, lo sport certamente più violento, il combattimento proseguiva fino
a che uno dei contendenti non soccombeva ammettendo la sconfitta. Le corse dei cavalli,
nelle quali ogni concorrente doveva essere proprietario del cavallo, erano riservate ai più
abbienti. Dopo le corse ippiche si svolgeva la gara del pentathlon, competizione che univa
cinque specialità (la corsa veloce, il salto in lungo, il lancio del giavellotto, il lancio del disco
e la lotta). I vincitori a Olimpia ricevevano corone di ulivo selvatico e onori, il più ambito
dei quali era l’erezione di una statua nel recinto del santuario di Zeus; per il lustro che
davano alla loro città spesso venivano celebrati dai versi dei poeti con gli epinici (celebri
quelli di Pindaro) e per il resto della vita erano mantenuti dalla comunità.
Entriamo nell’area sacra. Ci fermiamo davanti all’Heraion, il tempio dedicato ad Hera.
Passiamo davanti alla fontana semicircolare di Erode Attico (ancora lui) e ai tempietti votivi
delle tante città greche
Alla nostra destra un tumulo di pietre: la tomba di Pelope, l’unico mortale che ebbe
l’onore di essere sepolto nel santuario di Olympia. Pelope, lo straniero ch’era venuto a
conquistare Ippodamia… Ma forse è bene cominciare dall’inizio.
Enomao, Re di Pisa, nell’Elide, aveva una figlia, Ippodamia, domatrice di cavalli. E tra
i cavalli c’era probabilmente lo stesso Enomao di cui una seconda versione narra le usanze
incestuose. Enomao, avendo appreso dall’oracolo che sarebbe stato ucciso dal genero, a
tutti gli aspiranti alla mano della figlia imponeva come condizione di misurarsi prima con lui
nella corsa delle bighe, nella quale, sotto la guida del celebre auriga Mirtilo, si riteneva
invincibile. Dava al pretendente un piccolo vantaggio, ma se l’avesse raggiunto e superato,
l’avrebbe decapitato: faceva però sedere sulla loro biga la bella Ippodamia, che menomava la
velocità e la stessa attenzione del conduttore. Ben quindici pretendenti avevano tentato
inutilmente la prova, e avevano pagato a caro prezzo la propria temerità. Pèlope, figlio di
Tantalo, non si lasciò intimorire dalla sorte dei suoi predecessori e volle rischiare la prova,
sia confidando nella bontà dei propri cavalli, dono di Nettuno, sia contando sul fatto che
Ippodamia, innamorata di lui, l’avrebbe aiutato; ma soprattutto corrompendo con
larghissime promesse l’auriga Mirtilo (anche lui segretamente innamorato di Ippodamia) che
sostituì i perni delle ruote del carro reale con altri di cera, in modo che, durante la corsa, si
rompesse in due pezzi, come accadde infatti: Enomao, piombato a terra, fu travolto dai
cavalli imbizzarriti per l’incidente imprevisto, e morì.
I tre complici fuggirono per sottrarsi alla vendetta della popolazione; e, come in ogni
malavita che si rispetti, i due innamorati eliminarono per primo il traditore che aveva
consentito loro di eliminare Enomao. L’occasione gliela fornì lo stesso Mirtilo che,
innamorato di Ippodamia, aveva approfittato di una breve assenza di Pelope per possedere
la fanciulla; Pelope l’aveva quindi spinto da un precipizio in mare… ma prima di morire
Mirtilo scagliò una maledizione contro Pelope e suoi discendenti che puntualmente si
verificherà: è la storia dei re di Micene. Da Pelope e Ippodamia nasceranno Atreo e Tieste,
da Atreo nasceranno Menelao e Agamennone, da Tieste nascerà Pelopèa e da entrambi
Egisto… e la maledizione sulla casa di Micene si accanirà realmente. Ma l’abbiamo già
raccontata.
Pelope ed Ippodamia ritornarono ad Olympia. E Mirtilo?
Qualche dio pietoso portò in cielo Mirtilo che divenne la costellazione dell’Auriga. La
costellazione viene immaginata come un auriga con in braccio una capra (Capella, cioè in
latino appunto ‘piccola capra’) e due capretti (stelle Headi, zeta ed eta Aurigae). I
mitoastronomi greci seppero spiegare la presenza di questi animali narrando che le due
ninfe Aix ed Elice, le balie di Zeus, non avevano latte, sicché dovettero dargli come nutrice
una capra, Amaltea, che lo svezzò. L’animale aveva partorito proprio in quel periodo due
caprettini. Quando Zeus divenne adulto, volle per gratitudine rendere eterni nel cielo la
madre insieme ai i due figli. Ma perché la capretta sta in braccio a Mirtilo?
Pelope però ritornò ad Olympia e fu sepolto dentro il santuario di Olimpia, unico tra i
mortali, Un tumulo ne ricordava la tomba, ma quale ne fosse la collocazione precisa oggi
non si sa. È stato ricostruito di fantasia.
Autore del tempio di Zeus fu Libone, architetto greco citato da Pausania (V sec. a.C.).
Al suo interno la statua di Zeus, di Fidia: una delle sette meraviglie dell’antichità.
Fidia, il più grande scultore della Grecia, l’espressione più completa e più alta del
mondo ellenico, nacque ad Atene agli inizi del V sec., fu scolaro di Egia, scultore del
Peloponneso, e sentì anche l’influsso del sommo Polignoto. Con ogni probabilità, in
gioventú fu anche pittore, certo fu espertissimo in tutte le tecniche: marmo, bronzo, tecnica
crisoelefantina, cesello e intarsio. Al primo periodo della sua attività appartengono le due
statue di Athena: quella di Pellene in Acaia e la Areia di Platea. Tra il 465 e il 460 ebbe
l’incarico di eseguire per Delfi un gruppo votivo dedicato agli eroi di Maratona. Dal 452 al
448, nella pienezza della maturità, scolpì il primo capolavoro: lo Zeus di Olimpia, in quella
particolare tecnica detta crisoelefantina, che proveniva da tipi arcaici e voleva in avorio le
parti ignude, e in lamina d’oro le vesti, la barba e i capelli. La figura di Zeus, che in piedi
sarebbe stata alta 15 metri, era rappresentata seduta su un trono. Dice Pausania che “se si
fosse alzata in piedi avrebbe sfondato il tetto”.
Chiesto a Zeus un commento sull’opera, il dio approvò con un terribile fulmine.
Poi il genio di Fidia rifulse in tutto il suo splendore nella grande statua di Athena
Parthenos e nei marmi del Partenone… ma di questo abbiamo già detto.
Molte altre erano le meraviglie del santuario di Olympia:
Prima fra tutte l’Arca di Cipselo, cassa di legno di cedro, oggi perduta, scolpita con
scene mitologiche. Mandata da Cipselo come dono votivo al santuario di Olimpia, viene
descritta dagli antichi letterati come una meraviglia.
Leonide, architetto greco attivo nella seconda metà del IV sec., realizzò il Leonidaion,
edificio di forma quadrangolare con un cortile all'interno e un ingresso imponente
circondato esternamente da un portico colonnato, che serviva ad ospitare i pellegrini di
rango.
Iamo, figura mitologica, figlio di Apollo ed Evadne e allevato da Epito, signore
dell’Arcadia. Capostipite della famiglia sacerdotale degli Iamidi, esercitò l’arte della profezia
a Olimpia.
Paiono, scultore greco della metà del V sec. a.C., scolpì la celebre “Nike” (oggi nel
Museo Archeologico a Olimpia), eseguita per celebrare la vittoria dell'ateniese Sfacteria nella
guerra del Peloponneso del 425 a.C. Venne posta davanti al tempio di Zeus a Olimpia.
Secondo la tradizione Paiono scolpì un’altra Nike per la storia degli ateniesi a Delfi e
collaborò probabilmente all'esecuzione del fregio del Partenone.
Kairòs, personificazione del momento opportuno, veniva rappresentato come un
giovanetto con le ali ai piedi e talvolta agli omeri, con un ciuffo di capelli sulla fronte e la
nuca quasi rasa. Un altare a lui dedicato era ad Olimpia.
Indispensabile quindi la visita al museo di Olympia, dove ammiriamo le magnifiche
ricomposizione dei due frontoni del tempio di Zeus.
Eccoci di fronte alla statua di Hermes con Dioniso bambino. È del 340-330 a.C.,
marmo alto 215 cm., Questa statua di Prassitele è uno dei massimi vertici raggiunti dalla
statuaria greca. Siamo ormai in periodo ellenistico: la figura si muove, acquista vita. Hermes
tiene in braccio il piccolo Dioniso (che strano vederlo piccolo, abituati come siamo ad
immaginarlo sbevazzante) mentre nell’altra mano solleva un grappolo d’uva verso il quale il
piccolo si slancia. Non vi è certezza se questa statua sia l’originale o una copia. Certo la sua
fattura è di altissima qualità che potrebbe far ritenere che si tratti proprio dell’originale
scolpito da Prassitele.
Anche in questo caso l’artista riesce a coniugare perfezione formale con una
rappresentazione non eroica ma quotidiana. Le due figure trasmettono sentimenti molto
umani, in questo atteggiamento di gioco che è soprattutto partecipazione affettiva tra i due.
Anche in questo caso Prassitele fa entrare nella composizione un elemento verticale: un
tronco sul quale Hermes appoggia il braccio che sta sostenendo il bambino. Il molle
abbandono di Hermes, in questo caso, accentua il sentimento di tenerezza ispirato dai
bambini.
Tutto si è detto dell’Hermes: D’Annunzio, che in Grecia era venuto in cerca di
strabilianti reportage, vedendolo esclamò sconsolato: “Ah, se si potesse dirne qualcosa di
nuovo…”
Pranziamo
Nel pomeriggio proseguimento per Delfi (250 km dice la guida Alpitour) dove
arriveremo in serata. Durante il lungo tragitto in autobus tocchiamo Patrasso, la città dove
fu martirizzato l’apostolo Andrea. Il suo corpo fu però trafugato dagli Amalfitani (mi
ricordo di averlo visto nella chiesa di Sant’Andrea ad Amalfi…): Aris ci dice che la Chiesa
Cattolica, come gesto di distensione nei confronti della Chiesa Ortodossa, ha restituito
alcuni anni fa la testa dell’apostolo, che ora riposa nella chiesa di Patrasso. Mi torna in
mente il grido il Pio II, che nel nome di sant’Andrea da Patrasso cercò invano di
organizzare la sua ormai anacronistica crociata (doveva essergli caro questo santo se poi
volle farsi seppellire nella chiesa di Sant’Andrea della Valle).
Arriviamo a Rio, il promontorio che assieme al gemello Antirio sul continente
costituisce l’imbocco del golfo di Corinto. Li chiamano I Piccoli Dardanelli, il Golfo di
Corinto come il Mar di Marmara…Un tempo si andava da qui a là in traghetto (ci si va
ancora, sono tre chilometri) e si risparmiava di dover arrivare fino a Corinto, ma nei giorni
di mare mosso occorreva arrivarci…. Ora c’è il ponte: una meraviglia
Il ponte di Rio e Antirio
Era da quando Harilaos Trikoupis divenne Primo Ministro della Grecia nel 1880 che
si coltivava il sogno di un ponte che attraversasse i 3 km dello stretto di Rio e Antirio che
costituisce l’imboccatura del Golfo di Corintho.
Anche noi a San Donà e a Musile da cinquant’anni coltiviamo il sogno di un nuovo
ponte sul Piave… un ponte più modesto…
Trikoupis, nato a Messolonghi, una delle principali città della costa nord del Golfo di
Corinto, sognava un ponte che unisse le genti dell’Achaia (il Peloponneso) a quelle
dell’Etolia (Grecia nordoccidentale). Se ne discusse in parlamento alla fine del XIX secolo,
ma il ponte era allora tecnicamente realizzabile, e lo rimase per un secolo… fino a quando,
nel ’91, lo Stato Greco lanciò il bando per la sua costruzione. Come si poteva realizzarlo?
Il ponte doveva attraversare una striscia d’acqua di 2500 metri. La profondità media
dell’acqua era di 65 metri. Bisognava tener conto dell’assenza di un solido fondale sotto il
fondale sabbioso, della forte attività sismica e di possibili movimenti tettonici.
Il profilo del fondo del mare presenta ripide pendici da ambo I lati e un lungo fondale
orizzontale a 60 metri sotto il livello del mare. Non fu rilevato un letto di roccia durante le
esplorazioni fino a 100 metri sotto il fondale sabbioso. Basandosi sugli studi geologici, si
ipotizzò che lo spessore del sedime costituito di spessi strati di argilla mescolati in certi
punti a sabbia fine e melma fosse maggiore di 500 metri.
Nel definire le specifiche del ponte, lo Stato Greco impose stringenti criteri antisismici:
“a peak ground acceleration equal a 0.48 g and a maximum spectral acceleration equal to
1.20 g between 0.2 and 1.0 second”. Per fare un esempio, queste specifiche sono molto più
severe delle accelerazioni registrate durante il terremoto di grado 7.4 Richter che ha colpito
Izmit il 17 agosto del 1999.
Si riteneva inoltre che i movimenti tettonici, che generano l’attuale attività sismica
nell’area, facessero sì che la costa sud di Rio si allontanasse da quella nord di Antirio di
parecchi millimetri all’anno.
L’esito del Concorso nel dicembre 1993 portò il 3 gennaio 1994 (ottavo compleanno
di Maddalena) alla firma del Contratto di Concessione (per il progetto, la costruzione, il
finanziamento, il mantenimento e l’operatività del ponte) tra la Repubblica Ellenica e la
compagnia franco-greca Gefyra S.A..
Come per la maggior parte dei contratti di concessione, l’accordo non sarebbe entrato
in vigore finché non fosse stato raggiunto il finanziamento completo dell’opera, e ci vollero
due anni per chiudere quella pratica.
La ‘Data Effettiva’ di partenza dei lavori, come da progetto, fu pertanto il 24
dicembre 1997. Il 19 luglio 1998, Costas Simitis, Primo Ministro di Grecia, alla presenza di
Constantinos Stephanopoulos, Presidente della Grecia, pose la prima pietra del ponte di
Rio-Antirio
I 7 anni del periodo di costruzione comprendevano un periodo preparatorio di 2 anni
(1998-1999) per completare il progetto finale e installare le piattaforme preparatorie; e un
periodo di costruzione di 5 anni (2000-2004) in cui il ponte è stato effettivamente costruito.
L’8 agosto 2004 l’antico sogno è divenuto realtà: addirittura in anticipo sui tempi
previsti, il ponte tra Rio ed Antirio è stato inaugurato da uno dei tedofori che portavano la
fiaccola delle Olimpiadi. È stato intitolato a Harilaos Trikoup, ovviamente, che lo immaginò
già nel XIX secolo.
È il ponte più lungo al mondo a reggersi su soli quattro piloni. È lungo infatti più di
2.250 metri e largo 27 metri.
È stato concepito per resistere a un terremoto del 7° grado della Scala Richter, o
all’impatto di una nave di 180.000 tonnellate. È stato costruito in maniera tale da poter
resistere a raffiche di vento fino a 250 chilometri orari, e resterebbe in piedi anche se uno
dei quattro piloni si spostasse di due metri. I piloni, con le loro fondamenta larghe (hanno
un diametro di 90 metri!) e poco profonde, assicurano una grande sicurezza. Fu molto
difficile piantare i piloni 60 metri sotto la superficie del mare, spiega Ares, che ne ha seguito
le vicende per ragioni personali: per lavoro doveva cuccarsi ogni volta il traghetto RioAntirio e sempre con il timore che qualcosa non andasse per il verso giusto… Una volta
che ci fu lo sciopero dei traghetti dovettero arrivare fino a Corinto, e giunsero a Delfi alle
11 di sera. Già: Olimpia-Delfi, come noi… da quanti anni Aris fa sempre lo stesso giro?
La società francese Vinci, che detiene più del 50% delle azioni, fa pagare un pedaggio
di 9 € alle auto, di € 1,5 alle moto, 50 € agli autobus e 35 € ai TIR. Non vi è proporzione,
quindi significa che ci passano soprattutto auto.
Ogni giorno attraversano il ponte 10.000 auto, con punte di 25.000 nei giorni di
particolare traffico. Un veicolo lo attraversa in 4 minuti, contro i 30-40 che ci volevano per
attraversare il braccio di mare con il traghetto. Il ponte Rio-Antirio fa parte dell’autostrada
ionica, destinata a facilitare il traffico verso Igoumenitsa, da dove partono le navi dirette in
Italia. I traghetti ci sono ancora, ad un autobus chiedono 16 euri, ma gli autobus
ovviamente preferiscono pagarne 50
Il Contratto di Concessione stabilisce i pedaggi massimi imponibili, che però possono
essere diminuiti per ragioni commerciali dalla Società Concessionaria, interamente
responsabile di fare il proprio gioco e di venire incontro al traffico locale o stagionale con
biglietti stagionali o abbonamenti speciali.
The Operation Period shall end no later than 42 years from the Effective Date (24
December 2039). The bridge shall then be handed over to the Greek State for its own
operation.
Giunti di là è obbligata la sosta per la foto turistica di rito. Ma è una posizione infelice,
non si riesce ad ammirare la sagoma del ponte. È buffo notare che circa 500.000 anni fa il
Golfo di Corinto era probabilmente un mare, e il Peloponneso legato al continente da due
istmi: a est quello di Corinto e a ovest quello di Rio. Quello che rimase lo tagliarono i
francesi, quello scomparso è sostituito oggi da un ponte costruito dai francesi.
Costeggiamo il Golfo di Corinto lasciando alla nostra destra le cittadine balneari con
nomi che abbiamo già udito perché le etimologie sono sempre quelle: Monastiraki,
Glifada… collegate da una stradina parallela più bassa che corre al livello del mare.
Seguendo la costa del Golfo di Itea attraversiamo Galaxidi, oggi centro balneare rinomato,
ma venuto in auge dopo che vi fu girato “Il ragazzo sul delfino”: il film l’aveva suggerito il
ritrovamento della statua bronzea del fanciullo che si pensava legato al mito di Apollo, al
delfino di Apollo; oggi al Museo di Atene il ragazzino di bronzo non sta sopra un delfino
ma sopra un cavallo: è il suo, ci sono i segni degli incastri.
Giunti a Itea ci spostiamo verso l’interno, attraversiamo campagne di ulivi e ci alziamo
sulla montagna rossa di rocce di bauxite, tutt’intorno gli impianti di scavo e di trasporto, di
fronte a noi il Parnaso.
Attraversiamo una striscia d’acqua zigzagante che costeggia la catena del Parnaso: è
l’acquedotto che porta l’acqua ad Atene.
Eccoci, siamo a Delfi, nella Focide, a ridosso dell’altopiano meridionale della catena
del Parnaso, a 500 metri di altitudine ma non troppo lontano dal mare: il golfo di Corinto
dista infatti solo 8 chilometri e lo vediamo alle nostra spalle, oltre il “mare di Ulivi” in fondo
alla valle.
La Delfi moderna è un paesino di montagna con due strade strette a senso unico, una
che va e una che viene, una più a monte e una più a valle, collegate tra loro da scalinate.
L’autobus, fermandosi davanti al nostro albergo, l’Hotel Hermes, bloccherà la strada:
dovremo scendere in fretta e altrettanto in fretta recuperare i nostri bagagli. Aris chiede a
me e Maddalena il cognome con cui siamo registrati, ha già in mente altre tre coppie,
evidentemente, e adesso cerca anche la quinta per assegnare loro le cinque stanze che
purtroppo hanno solo il letto matrimoniale. Ci capita la stanza 56, al secondo piano: non c’è
l’ascensore, ci porterà su le borse il ragazzo tuttofare dell’hotel… La stanza si rivela piccola
e buia, con un letto che sembra da una piazza e mezza più che matrimoniale, addossato alla
parete… una piccola finestrella in alto raggiungibile solo con lo sgabello dà sulla strada…
accidenti… Ancor più accidenti quando scopriamo che la quasi totalità delle altre stanze, sia
quelle dei due piani superiori sia quelle dei due piani inferiori (l’albergo è sulle pendici della
montagna) dà sulla splendida vallata, il mare di olivi.
Dato che non c’è il ristorante, ceneremo nel vicino ristorante “Epicuro”. Prima di cena
facciamo una passeggiata per il micropaese (2000 abitanti), sperimentiamo una delle
scalinate che uniscono le due strade, quindi c’incamminiamo verso il ristorante. Ci portano
l’acqua in bottiglia, con noi si siede la coppia di Pisa che ha una figlia dell’età di Maddalena.
Chiediamo alla ragazzina che ci porti altra acqua, dopo un bel po’ di attesa la
richiediamo anche al cameriere… Quando arriva la ragazzina con la caraffa le porgiamo la
bottiglia di plastica vuota perché liberi un poco il tavolo, ma lei non prende: «You have to
pay it» ci spiega. In quella arriva il cameriere con un’altra bottiglia di plastica, gli diciamo che
non serve più, e lui se ne torna contrariato, ma contrariati lo siamo un poco anche noi
perché non capiamo mai se le cose sono a pagamento oppure comprese nel prezzo. Dopo
qualche minuto prendo la bottiglia di plastica e la faccio sparire dietro di me vicino al vaso
della pianta. Tutti ridono.
6° giorno - sabato
Preparate le valigie saliamo in autobus. Riesco a prendere il nostro bel posto col
tavolinetto vicino alla porta posteriore. Vi lascerò il cappello o lo zaino e sarà nostro per
tutto il giorno.
Ora ci aspetta il santuario di Delfi, una delle più importanti zone archeologiche del
mondo, «uno dei principali luoghi di culto della Grecia: anticamente qui c’era per tutto il
mondo ellenico l’oracolo del Dio Apollo» dice Alpitour.
Il santuario risale molto probabilmente all’età micenea, ma in origine non era adibito al
culto di Apollo: prima di lui si erano infatti succeduti a Delfi la Terra, Temi e Febe, come
alcuni miti eziologici lasciano presumere. Resta quindi aperto il problema circa la
collocazione cronologica della attribuzione dell’oracolo ad Apollo.
Omero chiama il santuario col nome di Pito. Stando a quanto dice l’inno omerico ad
Apollo, “Pito” deriva da pythesthai, che in greco significa “marcire”. Per comprendere il
perché dobbiamo, ovviamente, far riferimento al mito; esso narra che Apollo, una volta
accolto sull’Olimpo, ne discese in cerca della sua dimora sulla terra per erigervi un santuario;
dapprima si diresse alla fonte Telfusa (o Tilfussa), ma l’incauta sorgente lo convinse a
dirigersi alle pendici del Parnaso dove vi era un’altra sorgente, la fonte Castalia; questa però
era protetta dalla Dracena, un drago femmina; Dracena non era solo la custode della fonte,
visto che le fu affidato anche il mostro Tifone, generato autonomamente da Hera per
rivalersi contro il marito Zeus dopo che questi, altrettanto autonomamente, generò Atena
dalla propria testa… Apollo, che non desiderava evidentemente la sua compagnia, uccise
Dracena con una potente freccia «…e da allora Pito ha tale nome, e chiamano il dio con
l’epiteto di Pizio, perché in quel luogo la forza del Sole ardente fece marcire il mostro»
(Inno omerico ad Apollo).
Ma le origini dell’oracolo di Delfi risalgono all’epoca stessa in cui gli dei emergevano
dal caos e la prima dea a possedere il suolo delfico fu la Terra; essa lo passò poi alla figlia
Themis, la quale a sua volta lo cedette alla titanide Febe che successivamente lo offerse
come dono di nascita ad Apollo, che da lei prese anche l’epiteto di Febo Apollo. Tutto ciò
ce lo racconta Eschilo nelle Eumenidi…
Ma abbiamo anche una versione meno ‘divina’ dell’oracolo di Delfi. Infatti secondo
altre fonti, tra cui Diodoro, fu Coreta, un pastore del luogo, a scoprire le virtù profetiche di
Delfi. Questi notò che le sue capre, avvicinandosi a un particolare crepaccio del suolo
andavano in eccitazione, quindi, per capirne il motivo, andò a guardare nel crepaccio e
immediatamente iniziò a profetizzare. Su quello stesso crepaccio fu collocato il famoso
tripode, dove da allora in poi si sarebbe seduta la profetessa Pizia, per assorbire meglio i
vapori emessi ed essere più vicina al dio.
Il mito spiega anche l’origine del nome Delfi: Apollo, fondato il santuario, andò alla
ricerca dei sacerdoti a cui affidarlo, e la scelta, per oscuri motivi, ricadde sui mercanti di una
nave cretese; il dio non tentò neanche di convincerli a divenire suoi sacerdoti, ma si tramutò
in un’enorme delfino e li trascinò con tutta la nave fino al porto di Crisa, quindi si
trasformò in un bel giovane e spiegò ai mercanti cretesi la vita che aveva scelto per loro,
rassicurandoli che avrebbero avuto tutto da guadagnarci; li condusse al santuario e decretò
che quel luogo si chiamasse Delfi, in quanto sotto forma di delfino era apparso per la prima
volta ai suoi devoti.
Tornando alla Dracena, vi è da dire che questa era considerata un essere primordiale e
quindi sacro, per questo motivo Apollo dovette purificarsi per averla uccisa; a tale scopo
egli fece da mandriano a Admeto, re di Fere in Tessaglia, il quale si guadagnò l’amicizia e la
protezione del dio. Per questo motivo a Delfi ogni otto anni si svolgeva la Septerione, una
festa che celebrava l’espiazione del delitto di Apollo e di cui tralasciamo il rituale per amore
di sintesi.
Delfi fu sicuramente il più importante centro religioso dell’antichità: nessuna decisione
importante, sia di carattere personale che di interesse generale, veniva presa senza
consultare il dio profetico Apollo; questi parlava per bocca della sua sacerdotessa, la famosa
Pizia, la quale, con un ramoscello di alloro in mano e una foglia di alloro in bocca (e forse
masticando anche altri vegetali allucinogeni), seduta sul sacro tripode, cadeva in estasi
aspirando il vapore che usciva da una fessura nel suolo, presso l’omphalos, l’ombelico del
mondo; quindi compiva movimenti ed emetteva suoni che i sacerdoti interpretavano
seguendo i canoni della propria dottrina, traducendoli in forma comprensibile e mettendoli
per iscritto in prosa o versi (esametri), indicando in tal modo a quale dio dovessero farsi
sacrifici affinché un'impresa fosse coronata dal successo, cosa si sarebbe dovuto fare per
superare determinati ostacoli, eventuali riti con cui espiare colpe, etc.
La Pizia veniva scelta a vita tra le donne di Delfi, senza limite d’età e aveva come unici
obblighi la purezza rituale e la continenza. Ci potevano essere anche più pizie
contemporaneamente. Gli oracoli, formulati dai sacerdoti interpretando i gemiti disarticolati
della Pizia, erano di tre tipi: prescrizioni religiose, in genere istruzioni circa i sacrifici,
l’arredo dei templi, la fondazione di nuovi luoghi di culto; sanzioni religiose alle leggi o
addirittura alle costituzioni delle città; altri casi, dove la risposta dell’oracolo è molto
ambigua e, lasciando ampio spazio di interpretazione, non risultava compromettente per la
fama di credibilità dell’oracolo stesso.
L’autorevolezza dell’oracolo e, dunque, l’influenza politica dello stesso, erano tuttavia
tali che alcuni storici hanno parlato di ‘politica delfica’, contrassegnata da uno spirito di
moderazione. Per la verità le profezie del dio, anche se scritte, proprio perché poste in
forma non facilmente erano soggette alle “riletture” dei sacerdoti… E hanno dato
comunque luogo a numerosissimi miti, alcuni dei quali tratteggiati sopra.
Non tutti sanno che Delfi era sacra anche a un altro dio: Dioniso. Sul Parnaso infatti le
Tiadi, donne sacre a Dioniso come le Baccanti, celebravano le orge sacre, e il Parnaso, con
le sue due vette, secondo Lucano «cerca il cielo con due vette, essendo sacra a Febo e
Bromo», gli epiteti di Apollo e Dioniso. A Delfi si sosteneva che, nei tre mesi invernali,
Apollo rendeva visita al popolo degli Iperborei a lui caro e in quei tre mesi il santuario
passasse in gestione a Dioniso.
In quanto sede di Apollo, dio della poesia, il territorio di Delfi era anche indicato come
dimora delle muse. A tal proposito vogliamo ricordare un’altra montagna non lontana dal
Parnaso, spesso citata dai poeti: l’Elicona. Lì Esiodo racconta, nella Teogonia, di averle viste
e di essere stato da loro iniziato al canto. Dall’Elicona sgorgava anche la sorgente prediletta
dalle muse, l’Ippocrene; il mito narra che le muse quando giunsero sull’Elicona, iniziarono a
cantare cosi divinamente che il monte per vanità, orgoglio o entusiasmo, si gonfiò fino quasi
a sfiorare il cielo; intervenne quindi Poseidone, il quale fece sferrare un potentissimo calcio
al cavallo alato Pegaso, a questo punto il monte iniziò a sgonfiarsi e dal punto dove venne
colpito sgorgò la fonte Ippocrene, ossia “fonte del cavallo”.
L’amministrazione del santuario era affidata alla città di Delfi, ma il controllo sull’area
sacra e sui riti era esercitato per lo più dalla cosiddetta anfizionia pilaio-delfica, associazione di
dodici popoli e città risiedenti nelle vicinanze di Delfi e del santuario di Demetra ad Antela,
presso le Termopili. Il fatto che l’anfizionia dovesse proteggere l’oracolo da ingerenze
esterne non impedì comunque lo scoppio di numerose guerre sacre.
Delfi era infatti considerato un santuario panellenico, cioè frequentato da tutti i Greci,
specialmente nella forma delle theoriai, le ambascerie religiose inviate dalle città-stato a
consultare il dio per chiedere pareri su problemi di vitale importanza politica, come la
fondazione di una colonia o la nomina di magistrato. In particolare l’oracolo di Delfi
prescriveva rituali di purificazione attraverso i quali un individuo o una comunità che
avevano infranto qualche tabù pensavano di allontanare la contaminazione dalla quale si
sentivano perseguitati (miasma). Nei secoli VIII-IX a.C. non si fondò alcuna colonia senza
aver consultato l’oracolo.
L’oracolo di Apollo a Delfi è forse il più famoso tra quelli della Grecia antica, dove era
diffusa la pratica della divinazione per entrare in contatto con gli dei e conoscerne, almeno
parzialmente, la volontà. Nel mondo greco esistevano due diversi tipi di divinazione: quella
attraverso i segni (volo degli uccelli, visceri degli animali sacrificati, fiamma dell’altare...) e
quella orale, che però necessitava comunque di una interpretazione. All’inizio a Delfi le
consultazioni avvenivano una sola volta all’anno, ma in età classica esse assunsero scadenza
mensile, salvo la possibilità di consultazioni straordinarie. Nella consultazione i Greci hanno
la precedenza sui barbari e tra i Greci i primi sono i cittadini di Delfi, poi gli altri membri
dell’anfizionia delfica.
Prima della consultazione era necessario fare delle offerte: in primo luogo il pelanos, in
origine in natura, che poi divenne una tassa, variabile a seconda della consultazione,
destinata agli abitanti di Delfi per le spese del culto. Vi è poi un sacrificio preliminare detto
prothysis, la cui vittima, generalmente una capra, deve essere fatta tremare con l'aspersione di
acqua fredda come segno di assenso. Le offerte servivano anche al mantenimento del
personale permanente del santuario: i profeti, che vigilano sull'oracolo, gli Hosioi, che si
occupano del rispetto dei riti, ma soprattutto la Pizia, incaricata di trasmettere la parola del
dio.
Delfi era incluso tra i santuari della periodos, che organizzavano ogni quattro anni
competizioni di vario genere adattando il naturale spirito agonale dei Greci alle loro
esigenze religiose. Delfi allestiva le gare pitiche, esattamente come Olimpia le olimpiadi,
Nemea le gare nemee, il santuario di Poseidone a Corinto i giochi istmici; tutto questo
spiega la presenza di alcuni edifici sportivi entro il recinto sacro del santuario.
Le gare Pitiche, prima di trasformarsi nei giochi pitici, secondi solo a quelli di Olimpa,
furono originariamente concepite come concorso per citaredi, in quanto si sosteneva che
Apollo avesse celebrato la vittoria sulla Dracena suonando un inno con la cetra. A tal
proposito un mito narrato da Clemente di Alessandria, ci narra di tale Eunomo di Locri, il
quale, durante una di queste gare per citaredi, ruppe una corda della sua cetra mentre
eseguiva l’inno dell’uccisione della Dracena; fu a questo punto che una cicala, animale sacro
alle muse, prese il posto della corda interpretando perfettamente ciò che Eunomo suonava e
grazie a ciò egli riuscì a vincere la gara che gli valse, tra l’altro, una statua di bronzo insieme
alla sua preziosa amica.
Le competizioni organizzate a Delfi erano pressoché identiche a quelle che si
svolgevano negli altri santuari della periodos: corsa semplice, doppia e lunga, lotta, pugilato,
pancrazio e pentathlon per quanto riguarda le prove ginniche, corse di cavalli e anche prove
musicali, tra cui l’esecuzione del nomo citarodico (canto con la cetra) e del nomo pitico
(esecuzione di brani di flauto sul soggetto della lotta di Apollo contro il Pitone). In
occasione delle gare veniva indetta una tregua di un anno, che permetteva ai pellegrini di
recarsi senza rischi al santuario. Sono molte le testimonianze della partecipazione degli
antichi alle gare: l’auriga di Delfi, parte di un gruppo donato al santuario dopo una vittoria
equestre, ma anche le liriche corali composte da Pindaro e Simonide per i vincitori. Chi
vinceva a Delfi otteneva una corona di alloro (la pianta di Apollo), chi vinceva a Olimpia
una corona di ulivo, chi vinceva a Nemea una corona di (? non ricordo), chi vinceva a
Corinto una corona di sedano (? non ne sono sicuro).
Il declino. Gli storici antichi parlano di un declino dell’oracolo sin dalla fine dell’epoca
classica; in realtà sembrerebbe che solo la domanda di consultazioni circa gli affari pubblici
calò nel corso del tempo. Si trattò di un fenomeno abbastanza plausibile, se si tiene presente
il cambiamento nella natura del potere politico delle città a cui si assiste da Alessandro
Magno in poi; inoltre, era tradizionalmente l’oracolo di Delfi a fornire la sanzione religiosa,
necessaria a conferire autorità, ai risultati della evoluzione delle poleis: quando tale
evoluzione cessò di esistere, venuta meno l’autonomia cittadina, una delle ragioni d’essere
dell’oracolo svanì.
Poi venne la fine. L’imperatore Teodosio, nell’anno 393 d.C., con un editto decretò la
fine dei giochi di Olimpia e l’anno dopo, nel 394 d.C., la chiusura del santuario di Delfi. Nel
363 d.C., trentuno anni prima, l’imperatore Giuliano l’Apostata, che cercò di conservare
l’antica religione minacciata dal Cristianesimo ormai imperante, aveva ricevuto l’ultimo
oracolo del santuario di Delfi, che rivelò all’imperatore: “vai e riferisci al re che il
bell’edificio è a terra, Apollo non ha più né capanna né alloro, la fonte è disseccata e l’acqua
gorgogliante è muta”. Mai profezia fu più esatta.
L’area archeologica si divide in due zone principali, al centro delle quali si trova la
fonte Castalia, «l’acqua gorgogliante» ritenuta sacra dagli antichi greci.
La zona posta più in basso si trova alle pendici della Fedriade orientale e comprende i
resti di un ginnasio con palestra e bagni; poco più in basso troviamo il santuario di Atena
Pronaia, che si riteneva fosse nata lì, ed una Tholos rotonda parzialmente ricostruita, con un
peristilio di venti colonne doriche. Lì vengono parcheggiati gli autobus e la vedremo per
ultime.
La zona più alta, invece, si trova sulle pendici della Fedriade occidentale ed è da qui
che cominciamo la nostra visita.
Nel sacro recinto, detto temenos, si aprivano alcune porte; una di esse costituiva
l'imbocco della Via sacra, che si snodava tra gli edifici del santuario. Lungo la Via sacra
incontriamo monumenti votivi, esedre e basamenti di statue, quindi la serie dei Tesori delle
varie città elleniche e magnogreche: dei Sicioni, dei Sifni, degli Ateniesi, dei Cnidi, degli
Spartani e altri ancora. I Tesori sono piccoli edifici ove conservare offerte ed ex voto,
secondo l’uso di consacrare agli dei la decima parte del bottino delle battaglie.
Alla prima curva incontriamo il tesoro degli Ateniesi, l’unico rimesso in piedi.
Poco prima della curva era la base del tesoro dei Sifni, che doveva essere bellissimo,
come si evince dalla ricostruzione che Ares non manca di mostrarci. I Sifni erano gli abitanti
di Sifno, un’isoletta senza importanza ma che possedeva una miniera d’argento: pertanto i
suoi abitanti erano ricchissimi e potevano competere in sfarzo con gli ateniesi. Molti resti
del tesoro dei Sifni sono al museo e sono importanti perché mostrano le pitture sui fregi.
Due sono le componenti emotive alla base del santuario: da un lato il sentimento
panellenico, espresso nella donazione del tripode dopo la vittoria a Platea contro i Persiani
(479) (che dovettero essere stati per loro uno spauracchio tremendo se è vero che non
fecero altro che ricordarlo ovunque); dall’altro il particolarismo orgoglioso delle singole
poleis.
Proseguendo troviamo il luogo del tripode appena nominato e il Bouleuterion
(Parlamento), la colonna ionica che sorreggeva la sfinge dei Nassi e la “roccia della Sibilla”
con la tomba del serpente Pitone, fino ad arrivare al tempio di Apollo, la divinità delfica per
eccellenza.
Il tempio di Apollo fu ricostruito due volte, dopo un incendio nel 548 e dopo un
terremoto nel 505 a.C., ma l’ultima riedificazione fu terminata solo in epoca ellenistica, nel
325, quando ormai era iniziato il declino del santuario. I resti a noi pervenuti sono quelli di
un tempio periptero esastilo con alto crepidoma a tre gradoni, dotato di pronao, cella e
opistodomo.
Su una parete del tempio di Apollo a Delfi è incisa una famosa frase che Socrate
adottò come principio del suo pensiero: “Conosci te stesso”… ma io non l’ho vista.
In un incavo del pavimento del tempio bruciava perennemente un fuoco alimentato da
rami di alloro che era l’albero sacro al Dio; lì viveva la Pizia Delfica che a quei fumi andava
probabilmente in estasi, entrava in trance e profetizzava vaticini.
Lì si venerava il cosiddetto ombelico (in greco omphalos, “l'ombelico del mondo”), un
masso bianco avente forma di semicono (probabilmente una pietra magnetica) che si
pensava fosse caduta dal cielo. Il mito racconta che Zeus, volendo accertare quale fosse il
centro della terra, fece partire contemporaneamente due aquile (o due cigni) dai suoi limiti
estremi e i due volatili si incontrarono a Delfi.
Continuando a salire troviamo l’antico teatro; qui Aris ci lascia una mezz’ora: ancora
più su ci sarebbe lo stadio dove si svolgevano i celebri giochi pitici, ma Maddalena ed io
siamo troppo stanchi per proseguire e ci godiamo l’ombra di un albero, prima di discendere
per farci alcune foto lungo la Via Sacra e tornare all’ingresso, posto di ritrovo.
Usciti dalla zona del santuario ci dirigiamo verso la Fonte Castalia, la fonte dell’acqua
parlante o gorgogliante: è fresca e ne riempiamo le borracce, e più o meno tutti ci esibiamo
in battute sulle proprietà dell’acqua. Aris ci mostra una stampa di come appariva la zona ai
visitatori dell’Ottocento, una pozza irregolare, prima che gli scavi moderni riportassero alla
luce le sue forme regolari.
Di qui verso il tempio di Athena Pronaia, il primo per chi giungeva da Athena: qui si
facevano le prime abluzioni sacre. Tre colonne di una tholos circolare sono state rimesse in
piedi con i pezzi rimasti, ma Aris ci rivela che gli archeologi hanno fatto un errore
ricostruendole un poco più alte di com’erano. Cerco di capire come sia possibile: se i
blocchi che le compongono sono uguali per tutte le colonne a parità di posizione, non vi è
alternativa. Se invece la colonna veniva pensata in toto indipendentemente dall’altezza dei
suoi tagli orizzontali, che quindi possono variare in altezza da colonna a colonna, allora il
tempio potrebbe anche essere più basso. Chiedo ad Aris se il motivo dell’errore possa
essere questo, ma non mi sa rispondere e appare un po’ irritato.
Risaliamo alla strada dove sta l’autobus per dirigerci a pranzo
Pranziamo da Antonio, dove ci rimpinzano di tanti buoni antipastini. Ho di fronte
Maddalena, Simona a destra e di fronte a lei Stefania, Giusy a sinistra e di fronte a lei Dora:
un bel tavolo femminile. Uno dei camerieri scrive sulla carta del coperto i nomi dei piatti
che ci viene via via portando, e Simona, seduta alla mia destra lo sollecita in quel gioco e
conserva le sue scritture per quella sua mania di accumulo; durante il pranzo ovviamente ci
scatta anche le foto di rito.
Nel pomeriggio partenza per Kalambaka: ci aspettano 300 km di strada.
Lungo l’autostrada, una delle poche della Grecia, passiamo vicino a Volos.
Aris ci ricorda che a Volos (il 10 luglio 1888) nacque Giorgio De Chirico, da genitori
italiani. Il padre Evaristo, ingegnere, aveva ricevuto l’incarico di progettare la costruzione
della ferrovia in Tessaglia e i trenini che compaiono nei quadri di Giorgio adulto sono
quelli che lui vedeva da bambino in Tessaglia.
Aris cita Giorgio e a me corre il pensiero al fratello Andrea, che nel 1912 adottò lo
pseudonimo di Alberto Savinio: Alberto non è pittore, è anche pittore, ma è musicista,
scenografo scrittore, un’anima poliedrica e sensibile… come me. È alle descrizioni saviniane
di Capri e di Milano che mi sono ispirato per questa cronaca del mio viaggio nella Grecia
Classica. Ma per essere Savinio occorrerebbe aver ricevuto la sua stessa approfondita
istruzione a base di storia antica, lingue e mitologia greca; occorrerebbe aver avuto la stessa
madre ambiziosa (Gemma Cervetto) che, alla morte del marito nel 1905 guidò con
altrettanta decisione la formazione dei figli. Il trenino di Giorgio, il trenino del padre di
Giorgio, dal 1895 al 1971 rappresentò l’unico mezzo di trasporto di massa e contribuì allo
sviluppo della la zona: ai giorni nostri lo stesso antico trenino a carbone, da poco
ripristinato, fischia lungo un itinerario che si snoda tra le variegate spiagge e colline ai piedi
del monte Pilion, il Pelio (…quando Giason dal Pelio…): parte da Volos, ricco di siti
archeologici e centri d'arte, e scivola lungo la spiaggia del pittoresco villaggio di Agrià e più
in là a Platanidia, ove sono state rinvenute basiliche paleocristiane, e subito dopo sulle
splendide spiagge di Chataivangheli, Malàkì, Kala Nera; in questo momento non c’è nessun
trenino all’orizzonte, ma io lo vedo ugualmente… in un mentale quadro di De Chirico
Mentre arriviamo a Kalabaka, tra le montagne del Pindo e degli Hassia, dove la calma
e fertile pianura della Tessaglia confina con le prime alture della Grecia centrale, svettano le
Meteore. Le abbiamo riconosciute dalle immagini delle guide: enormi rocce di colore scuro
che si innalzano all'estremità della pianura tessalica e creano un quadro grandioso che fa
pensare a combattimenti di mitici giganti. È qui che combatterono i Ciclopi contro i…?
Ma prima di giungere in centro a Kalambaka l’autobus fa sosta in un laboratorio dove
si fabbricano icone: i titolari ci accolgono con caramelle gommose e bicchieri di bibita:
gratis, specifica il ragazzo che parla italiano: apprezziamo, ma è chiaro qui che siamo di
nuovo alle vendita delle pentole! Il ragazzo greco dalla parlantina svelta in italiano ci
racconta e ci mostra di come vengano dipinte le icone, di come siano da intendere non
tanto come oggetti d’arte quanto come oggetti devozionali… gli sconti sono del 30%…
Maddalena ed io ne acquistiamo una piccolina, tra le più economiche di quelle fatte a mano.
Tutti abbiamo un numero quando saliamo in autobus. Ares estrae due numeri: i due premi
sono una miniguida di Kalabaka e un’icona: proprio le cose che abbiamo acquistato noi…
Ma un’occhiata ormai divenuta esperta gettata all’icona vinta dalla signora di Pontedera
rivela che è solo una di quelle a stampa da 3 €.
A Kalambaka alloggeremo all’Hotel Antoniadis ed è di fronte alla sua hall che ci
scarica l’autobus poco dopo; proprio di fronte a noi, di là della strada, è il Divani Hotel,
quello dei ricchi che hanno scelto il tour Confort. La nostra camera non è malvagia,
certamente meglio di quella di Delfi, solo che in bagno, per sedersi sul vaso, bisogna aprire
le porte del box doccia e allungare la gamba sinistra sul piatto della doccia: decisamente non
confort e non conform, ma in fondo… è una cagata.
Sull’ascensore sta scritto che all’ultimo piano, probabilmente sul tetto come ad Atene,
c’è la piscina e appena sistemati i bagagli in camera saliamo proprio a goderci la vista delle
Meteore nuotando. In piscina ci sono già altri turisti, paiono greci; in quella arrivano la
toscanaccia coppia di Pontederea, i due bevitori d’acqua, la Simona e la Stefania e la
famigliola simpatica con la figliola di 28 anni… È l’occasione per qualche foto… Maddalena
ha freddo e ce ne torniamo in camera. Il ristorante si trova stranamente al secondo piano e
quando vi andiamo capiamo il perché: l’hotel è costruito su un pendio: la hall è nella parte
più bassa, ma all’hotel si può accedere anche dalla strada più a monte, all’altezza appunto
del secondo piano.
7° giorno – domenica Kalambaka/Atene km 400
Prima colazione in hotel. Per la giornata di oggi la guida Alpitour dice: “Mattinata
dedicata alla visita di due dei famosi monasteri costruiti con indiscusso ardire a partire dal
XIV secolo: sono incastonati sulla sommità di rocce originariamente accessibili solo
mediante mulattiere, scale ed argani. Il loro nome deriva proprio dalla posizione in cui si
trovano, ‘tà meteora monastiria’, monasteri sospesi nell’aria.
Obbligo per i maschi di pantaloni lunghi e per le donne di gonne lunghe e spalle
coperte: alle seconde però vengono fornite gratuitamente in loco, io devo indossare un paio
di pantaloni lunghi.
Ce n’erano tanti di monasteri in passato, ora ne sono rimasti sei. Un tempo tutti
maschili, ora due sono gestiti da donne, notoriamente migliori econome.
Noi visiteremo quello di Santo Stefano e quello di Varlaam. Kalabaka è a 200 metri
s.l.m., saliremo per altri 400 fino ad arrivare all’altezza di 600. Ares ripete più volte i dati per
evitare le domande più ripetitive e per fissare i concetti chiave.
L’autobus ci scarica davanti al monastero di Santo Stefano. Davanti al monastero
svettano la bandiera greca e bandiera gialla con l’aquila bicipite blu dell’impero bizantino
che abbiamo visto vicino a tante chiese. Ares durante il viaggio ha ricordato che l’aquila è
bicite perché guarda a Occidente e a Oriente; altrove ho letto che è bicipite per significare la
doppia potestà degli imperatori d’Oriente, civile e religiosa.
Da quassù, vicino ai monasteri si percepisce ancora meglio la difficoltà della
costruzione: Le guide dicono “Il visitatore che guarda questi elementi di pietra si sente
investire da strani sentimenti, misti di timore ed ammirazione, e dalla netta impressione
della vanità dell’esistenza umana in mezzo all’Universo infinito.
Le Meteore fanno nascere nel visitatore sentimenti di timore e venerazione: sembra
aleggiare nel paesaggio qualcosa della lotta intima dell’anima di un asceta, con i suoi
momenti di sconforto, ma anche di sublime elevazione spirituale”. A me sinceramente
sembra tutto più turistico. Bisognerebbe venire qui quando non c’è nessuno.
Non esistono leggende sulle Meteore e la mitologia non si è occupata di questo
fenomeno straordinario. La loro esistenza si perde nella notte dei tempi, ma solo nell’ultimo
millennio gli storici hanno cominciato a occuparsene.
Questo imponente fenomeno geologico, unico al mondo, è stato studiato a più riprese
da geologi greci e stranieri, senza tuttavia che essi siano potuti arrivare a una conclusione
concorde per quanto riguarda l’origine di queste rocce giganti. Sembra che la teoria più
vicina alla realtà sia quella del geologo tedesco Philipson, venuto in Grecia verso la fine del
secolo scorso. A suo avviso queste enormi masse di roccia sono state create da un conoide
di deiezione, cioè dai detriti (ciottoli fluviali e pietre calcaree) depositati da un grande fiume
che, milioni di anni fa, si versava in un golfo profondo nel mare che allora copriva la
Tessaglia.
Nel corso delle età geologiche questo deposito si modificò in una massa solida e
compatta di conglomerato calcareo che fu quindi sottoposta a una intensa opera di
dilavamento quando le acque si ritirarono attraverso la valle di Tempe nell’attuale Mare
Egeo. Più tardi, durante l’era terziaria, si formò il ripiegamento alpino della catena del
Pindo, provocando una frattura tra queste rocce e formando tra loro la valle del fiume
Peneo.
La natura inaccessibile e selvaggia del luogo assicurò agli abitanti, nel corso dei tempi,
una valida protezione contro le incursioni degli invasori che a più riprese entrarono in
Tessaglia. Queste rocce furono all’inizio un asilo sicuro per gli eremiti e più tardi per i
monaci che, rinunciando al mondo, si sentivano più vicini a Dio, tendendo a raggiungere la
perfezione della vita cristiana con la carità e le privazioni, nella pace celeste di queste rocce.
Questi asceti, all’inizio eremiti isolati, pregavano in piccole cappelle che si chiamavano
«oratori». In seguito, poco a poco, si unirono a formare delle comunità religiose, per vivere
più compiutamente il loro impegno cristiano.
Non si sa quando le Meteore siano state abitate per la prima volta. Tutte le fonti scritte
esistenti risalgono a epoche in cui la vita monastica era già organizzata. Alcuni bizantinologi
sostengono che esistessero dei monaci organizzati in conventi già prima del secondo
millennio d.C. Secondo altri il primo asceta fu un certo Barnaba, che nel 950- 970 fondò
l'antichissimo convento di S. Spirito. Il monastero della Trasfigurazione fu fondato poco
dopo da parte di un monaco cretese, Andronico, intorno all'anno 1020, mentre nel 1160
altri eremiti fondarono il convento di Stagon sulla roccia di Dupiani. Circa 200 anni dopo
l’eremita Varlaam fondò il monastero dei Tre Ierarchi e di Tutti i Santi. Ancora più tardi
sconosciuti religiosi fondarono altri conventi: S. Trinità, S. Stefano, Presentazione al
Tempio, Russanos o Arsanos, S. Giorgio di Mandila, S. Nicola Anapafsa, Vergine di
Mecani, Santi Teodori, S. Nicola di Bantova, SS. Apostoli, S. Gregorio, S. Antonio,
Pantokrator, Santa Solitudine, S. Giovanni, Battista, Ipsilotera o dei Calligrafi, S. Modesto,
Alysis, Apostolo Pietro, S. Demetrio, Callistrato, Arcangeli, S. Giovanni di Bunila.
Questa città monastica si organizzò nel corso dei tempi e fu sostenuta con numerosi
doni e privilegi da potenti famiglie cristiane. Al culmine della sua prosperità, nel XVII
secolo, ospitò un numero veramente grande di monaci e asceti. Successivamente la sua
fortuna declinò e oggi sono ancora in uso solo 6 monasteri: della Trasfigurazione, di
Varlaam, di S. Nicola Anapafsa, di Russano, della Santa Trinità, di S. Stefano (e parti di uno
o due altri). I resti degli altri conventi una volta esistenti sono completamente spariti.
Rimangono chiusi al pubblico un giorno a testa, a rotazione, e la domenica son tutti
aperti.
Attraversiamo dunque il ponticello di pietra lungo 8 metri (un tempo ponte levatoio)
che ci introduce nel Monastero di Santo Stefano. Il fossato è tremendo e tuttavia qui la
roccia non è particolarmente scoscesa e quindi poté essere abitata probabilmente già prima
del 1200.
All’ingresso le donne un po’ sgambate si legano in vita una gonna a portafoglio lunga
fino alle caviglie. Maddalena si sceglie la più bella: sta davvero bene. Chi ha le spalle
scoperte si prende anche un pareo che fa da scialle. Indosso una gonna anch’io, suscitando
l’ilarità delle bambine più giovani.
Delle due chiese che ora si possono vedere nel monastero la più antica, quella di Santo
Stefano Protomartire, si dice sia stata costruita nel 1300 dal monaco Geremia. È piccola,
buia, con il tetto ed il nartece in legno. Possiede degli splendidi affreschi, di cui però
numerose figure sono state rovinate dalle lance dei vandali invasori.
La chiesa più recente, dedicata a S. Charalambos fu costruita dai padri Theofanes e
Ambrosio nel 1798. È una costruzione imponente, con tre eleganti cupole. L'interno di
quella centrale, la più grande, è decorato con affreschi (Il Pantocrator con i quattro
Evangelisti). L’iconostasi e il ciborio che ricopre l’altare sono in legno splendidamente
traforato.
Il monastero è considerato fondazione Reale e Patriarcale da quando vi soggiornò
brevemente nel 1333 l’imperatore bizantino Andronikos III Paleologo. Il risultato fu che il
convento da allora fu fatto segno di doni generosi, sia di soldi che di terreni, divenendo cosi
il più ricco delle Meteore.
Il suo tesoro comprende ancora parecchi oggetti preziosi: reliquie di numerosi Santi,
conservate in eleganti reliquiari d’argento, un codice con miniature, soprammaniche
ricamate in oro di Gabriele, vescovo di Demetriade, una cintura ornata d’oro del 1778, e
altri oggetti preziosi di inestimabile valore.
Nel cortile interno è il momento della foto del gruppo delle donne con le lunghe
gonne. Mariti e accompagnatori sono tutti all’angolo opposto a fare foto (io no, sono snob)
e questo genera una situazione un poco comica che genera l’ilarità del gruppo femminile che
vorrebbe a sua volta fotografare il gruppo dei fotografi. Risate e richiesta di foto si fanno
sguaiate e dal negozietto di souvenir che ho appena visitato esce un’accigliata monaca
nasuta che ricorda a tutti che “It’s a monastery!!”
Ora ci attende il monastero di Varlaam.
I primi asceti scalavano le rocce delle Meteore per mezzo di una serie di impalcature,
che venivano sostenute da travi fissate nella roccia. Questa sistemazione (di cui si possono
distinguere ancora le tracce) fu rimpiazzata più tardi da lunghissime e vertiginose scale di
corda. Quelli che non osavano servirsene venivano tirati su per mezzo di una rete. La salita
durava circa mezz’ora: mezz’ora di angoscia e di terrore. Un sudore freddo imperlava la
fronte di colui che si accingeva alla salita quando, staccatasi dal suolo, la rete si metteva a
girare in cerchio nel vuoto, mentre la corda strideva sul verricello, minacciando da un
momento all'altro di mandare il visitatore in fondo all'abisso. Dal 1922 (una lapide
incastonata sulla roccia lo ricorda) delle scale tagliate nella roccia permettono di accedere al
monastero in modo sicuro e facile. La rete è ancora usata per il trasporto degli alimenti e di
altri generi di prima necessità.
Saliamo le scale. Un soffitto di legno moderno decorato a rombi mi ricorda i lavori di
Don Primo, il parroco della mia parrocchia, che era solito decorare a quel modo tutti i
rinnovamenti da lui operati nella canonica vecchia e nella sala giochi.
Intorno al 1350 il monaco Varlaam, considerato il primo fondatore del monastero, ha
costruito sulla roccia la piccola chiesa dei Tre lerarchi e alcune celle. Dopo la sua morte il
luogo fu abbandonato per circa 200 anni e le costruzioni caddero in rovina.
Appena nel 1518 due fratelli appartenenti a una delle famiglie signorili di loànnina,
Nektarios e Theophanes Apsaras, salirono di nuovo sulla roccia, ricostruirono la chiesa dei
Tre lerarchi sopra le rovine dell’antica costruzione e, un po’ più tardi, aggiunsero le chiese di
Tutti i Santi e di S. Giovanni Battista.
La chiesa di Tutti i Santi è stata costruita nello stile dell’architettura agioritica (stile del
Monte Athos). È a forma di croce con una cupola sulla navata centrale ed una sul nartece.
Le pareti della navata centrale e quelle della parte absidale (lero Vima) furono dipinte nel
1548 da Franco Katelanos, artista della scuola cretese, e quelle del nartece nel 1566 da un
sacerdote di Tebe, Giorgio.
La chiesa dei Tre lerarchi fu ricostruita nel 1627 e decorata dieci anni più tardi dai
monaci Cirillo e Sergio. Il tesoro del monastero contiene reliquie di Santi, vesti sacerdotali,
diversi oggetti sacri, una cintura di ferro che apparteneva ai superiori del convento, un
«epitafio» (cioè una sacra sindone usata nelle cerimonie del Venerdì Santo) splendidamente
ricamato in oro, diversi vangeli e manoscritti su pergamena e altri oggetti preziosi, oltre ad
una ricca biblioteca.
Ora ci porteremo sulla sommità del monastero, dove sta la carrucola che un tempo
issava i monaci e oggi solo alcune merci. Entriamo nella minuscola stanzetta.
Vediamo l’antica botte di notevoli dimensioni.
Qui Aris coglie l’occasione per parlarci della religione ortodossa e del ruolo
fondamentale che ha nella vita dei Greci. Tra i cristiani vige molta confusione: si sentono
spesso tra i Cattolici espressioni del tipo «Cristiani e ortodossi» o viceversa, tra gli
Ortodossi, «Cristiani e Cattolici» …
La religione Ortodossa non è più religione di stato ma il 95% dei Greci si dichiara
ortodosso. Il matrimonio civile è stato istituito di recente e forse per questo la chiesa
ortodossa appare più permissiva di quella cattolica rispetto al matrimonio consentendone lo
scioglimento: «essa benedice il primo, accetta il secondo, tollera il terzo» spiega Aris.
Il prete ortodosso ovviamente si può sposare, ma solo se non intende “fare carriera”.
Scendendo di nuovo a Kalabaka, Ares ci ricorda che questo straordinario scenario è
stato il set di alcune scene del James Bond di “For your eyes only”, con Roger Moore (ma
non era stato girato a Cortina?).
Il pranzo è all’hotel. Mi cambio i pantaloni. Durante il pranzo passa il bevitore d’acqua
a raccogliere 5 € a testa per Ares e per l’autista. Io e Maddalena troviamo la cifra un poco
eccessiva, tanto più che entrambi sono già pagati per il loro lavoro. Ma effettivamente
quello di Ares è stato apprezzabile.
Partiamo nel primo pomeriggio per tornare ad Atene. Ci aspettano 400 km.
Ares ringrazia il gruppo per la gentilezza e per la puntualità che ha dimostrato in questi
giorni; ma come dividere il gruzzoletto con l’autista saranno rogne sue: Maddalena ed io
proviamo ad ipotizzare un’equa divisione dei 192 € raccolti: ad Ares dovrebbero andarne di
più… ma anche l’autista, burbero perché non capisce l’italiano, ha in realtà guidato molto
bene per quelle strade quasi tutte di montagna, tanto che nessuno è stato male… Boh, si
arrangino.
Lungo la strada Aris ci parla di una cosa che abbiamo abbondantemente notato
durante tutto il viaggio: la maggior parte delle case è da finire. Di molte esiste solo il
primo piano che si eleva sulle colonne del piano terra che funge quindi da garage e
ripostiglio. Sembrano seguire le idee di Le Courbusier, che costruiva tutto su pilotis… In
futuro, quando ce ne sarà necessità, quando ci saranno soldi, il piano terra verrà chiuso e
diventerà l’appartamento del figlio, della figlia. È comodo abitare al primo piano: isola dal
freddo in inverno, perché qui in inverno fa anche freddo, ma soprattutto permette di
elevarsi sopra l’altezza degli olivi che circondano quasi tutte le case: è bello avere un
panorama che guarda lontano.
Poche sono rifinite nella parte alta, hanno cioè un tetto: la maggior parte un tetto non
ce l’ha, perché non serve, ma soprattutto perché gli abitanti sperano di salire di un piano:
moltissimi solai hanno infatti i ferri a vista, le chiamate, e quando ci saranno i soldi…
È in queste cose che la Grecia mi ricorda il nostro Meridione. Si comincia con quel
che si ha, con quel che si può, l’estetica verrà.
Da noi (al Nord, in Veneto, a San Donà… a dire il vero non so cosa significa questo
noi) se al momento del matrimonio non si ha la casetta bell’e finita, la cucina da venti milioni
non ci si sposa nemmeno.
Poiché stiamo passando vicino a Tebe, Aris ci racconta con dovizia di aneddoti e di
riferimenti la storia di Edipo: di come le profezie sul bambino dicessero che da grande
avrebbe ucciso il padre, di come il servo incaricato di sopprimerlo non ebbe il coraggio d
farlo e lo abbandonò a Corinto; di come, ormai cresciuto, Edipo volle tornare a Tebe e di
come, lungo la via, uccise uno sconosciuto maleducato – il padre – che non voleva dargli
strada; della famosa risposta che diede alla Sfinge condannandola al suicidio e della
conseguente sua accoglienza trionfale in città, del suo matrimonio con la regina Giocasta
ormai rimasta vedova, dei figli nati da lei e della maledizione che derivò alla famiglia; del suo
accecamento e del volontario esilio, a Colono; e del testamento che imponeva ai due figli
maschi di regnare un anno per uno; di come, dopo il suo anno, Eteocle non volle cedere lo
scettro a Polinice il quale quindi si alleò con altri sei principi e marciò contro le sette porte
di Tebe; di come a Polinice toccò in sorte quella difesa da Eteocle e di come, secondo la
profezia del padre, i due fratelli si uccisero a vicenda; di come fu impedita la sepoltura di
Polinice in città in quanto traditore e di come Antigone, mossa da pietà, obbedì alle non
scritte leggi degli dèi contravvenendo quelle umane…
Stiamo per giungere alle Termopili, le porte dell’acqua calda, lo stretto (un tempo!) passo
tra il monte Eta e il mare che custodiva il transito tra la Tessaglia e la Grecia centrale. Ares
ci racconta qualcosa delle guerre persiane e alcune frasi memorabili.
La battaglia delle Termopili (19 agosto del 480 a.C.)
Dopo la sconfitta a Maratona i persiani non avevano perso le loro mire
espansionistiche: Serse, figlio di Dario, re dei re di Persia, organizzò un esercito enorme
formato da tutti i popoli a lui sottomessi, stimabile intorno ai due milioni di uomini
(secondo lo storico Erodoto), seguito, via mare da una flotta di milleduecento navi;
l’esercito più grande che il mondo avesse visto fino a quel momento. Gli Spartani avrebbero
voluto fermare i Persiani sul ben difeso istmo di Corinto ma gli ateniesi decisero che il
punto migliore per opporsi all’invasore “barbaro” fosse il passo delle Termopili, l’unica via
agevole per giungere alla Grecia vera e propria dalla Tessaglia (e questo è logico se
guardiamo la posizione geografica e di Sparta e di Atene). Gli spartani inviarono 300 uomini
al comando del loro re Leonida, tra i 4000 del Peloponneso giunti da Tegea, Mantinea,
Orcomeno, Corinto, Fliunte, Micene, Tebe, e dalle città dell’Arcadia e della Beozia (3900
opliti seguiti dai rispettivi scudieri che fungevano da fanteria leggera). In totale c’erano 6000
greci ad occupare il passo delle Termopili prima dell’arrivo di Serse.
Per prima cosa gli spartani e i loro alleati ricostruirono il vecchio muro di difesa al
passo, caduto in rovina, e attesero l’arrivo dell’esercito persiano. Quando gli esploratori
riferirono a Serse il numero dei greci che presidiavano il passo, il re scoppiò a ridere e
piuttosto perplesso si chiese cosa stessero aspettando: non aveva capito che i greci si
preparavano alla morte per dar tempo alle altre città di prepararsi.
Serse attese quattro giorni convinto che il solo numero sarebbe bastato a far fuggire gli
alleati. Ma intanto la sua flotta non riusciva ad avanzare, bloccata dalle veloci navi ateniesi al
comando di Temistocle. Al quinto giorno Serse spazientito ordinò l’attacco sicuro che il
numero stesso sarebbe bastato ad annientare i greci. Quando alcuni disertori dell’esercito
persiano (perlopiù greci arruolati con la forza) avevano dichiarato che i Medi erano così
tanti da oscurare il sole con le loro frecce, gli spartani risposero molto laconicamente «bene,
almeno combatteremo all’ombra». Mi tornano alla mente le campane di Pier Capponi.
Nello stretto passo dove il numero non aveva significato i Greci fecero strage di
Persiani che con le loro armature leggere e le lance corte nulla potevano contro il pesante
equipaggiamento oplita. Il giorno successivo Serse schierò in campo i diecimila Immortali
comandati da Idarne che non ebbero maggior fortuna. I greci combattevano a turno
concedendosi un po’ di riposo da quel massacro, si accasciavano a terra sudati e sporchi di
sangue per poi rialzarsi e tornare a combattere.
Ma il terzo giorno, pel tradimento di un greco, i Persiani fecero passare gli immortali di
Idarne attraverso un sentiero che aggirava il passo. Leonida venuto a conoscenza del
tradimento fece tornare a casa gli alleati per risparmiarli in prospettiva delle future battaglie.
Lui e i suoi spartani sarebbero rimasti per coprire la ritirata e morire sul posto perché le
leggi di Sparta non contemplavano la ritirata. Rimasero anche 700 tespiesi. Quando i
persiani chiesero di consegnare le armi, laconicamente - e come altrimenti? - Leonida gridò:
«venite a prenderle!»
Gli spartani combatterono con le aste delle lance ormai spezzate e con le spade, poi
con i pugni e i calci lasciando sul campo più di ventimila persiani compresi due fratelli di
Serse, e alla fine si rifugiarono sul colle che sovrastava le Termopili per proteggere il corpo
del loro re caduto. Serse ordinò che fossero finiti con gli archi per non perdere altri uomini.
Il sacrificio dei trecento spartani permise agli ateniesi di prepararsi allo scontro navale
di Salamina e agli altri greci di rimandare il confronto con i persiani un anno dopo a Platea.
Dopo la vittoria alle Termopili l’esercito persiano giunge poi in Attica, devasta Atene
abbandonata dalla popolazione rifugiatasi nell’isola di Salamina. Intanto la flotta greca, in
cui prevalgono le navi ateniesi, dopo aver impegnato quella persiana al capo Artemisio, si
ritira nel golfo Saronico: a Salamina il 23 settembre si svolge lo scontro definitivo tra le due
flotte, che termina con la completa sconfitta dei Persiani. L’esercito di Serse è così costretto
ad abbandonare l’Attica e a rifugiarsi nell’amica Beozia.
Ma sul racconto di Erodoto ci sono molti dubbi.
Eccoci, siamo arrivati. Ci fermiamo sulla destra per il rito turistico della foto. Ares ci
prega di non attraversare la trafficatissima strada, di là della quale è ugualmente visibile il
monumento a Leonida, alto in bronzo e con la lancia, e ai suoi 300 spartiati.
Sul monumento a Leonida, è riportata la risposta che il re diede alla richiesta di Serse
di consegnare le armi: «Venite a prendervele». Ares ricorda che alle Termopili morirono
anche 700 Tespiesi, ai quali pure, in epoca più recente, è stato dedicato un monumento, a
sinistra del più noto: più sobrio, meno pomposo… Mentre quasi tutti scendono, io e
Maddalena guardiamo dall’autobus i due monumenti, così diversi, e un pensiero va a tutti i
Tespiesi della storia. Maddalena mi ricorda che vi è un secondo monumento a Leonida, qui
alle Termopili: quello antico, una semplice pietra senza ornamenti con incise le parole del
poeta… Archiloco (?) (in realtà è Simonide), probabilmente l’epitaffio più famoso che sia
mai stato scritto per un soldato:
Va’ o passeggero,
narra a Sparta
che noi qui morimmo
in obbedienza alle sue leggi
Si riparte per Atene. Vediamo l’isola di Eubea, e Maratona in lontananza. Battaglia di
Maratona: 480 a.C.
L’autostrada è fortunatamente scorrevole. E quando l’autostrada termina affrontiamo
la comoda strada che segue tutto il golfo di Lamìa, nel quale si inserisce l’estremità dell’isola
di Eubèa. S’era pensato di accorciare la strada di 40 minuti con un ponte che, appoggiandosi
all’isola, tagliasse il golfo, ma ultimamente i lavori di allargamento della vecchia litoranea
testimoniano che quel progetto è stato accantonato. Peccato. Mi piacciono i grandi ponti
che tagliano lunghi peripli.
Arriviamo ad Atene alle sette passate, al nostro Oscar Hotel. Ci sistemiamo, ci
laviamo, poi scendiamo a cena, fissata per le otto: ci sediamo con le due famigliole quattropiù-quattro ma stranamente registrate negli appelli come sei-più-due (questione di risparmi,
forse)… Scambiamo le prime chiacchiere con loro dall’inizio del viaggio. Sono di Terni…
Giunge in quella il bevitore d’acqua con la morosa: aveva protestato per il poco tempo
concesso e si sorprende passando vicino a me e Maddalena perché constata che siamo
anche riusciti a fare la doccia (abbiamo entrambi i capelli umidi) e a giungere alla cena in
orario. Maddalena ed io sorridiamo perché in realtà… abbiamo avuto anche il tempo per
una bellissima …
Durante la cena viene fuori la notizia che insegno, una delle due mamme chiede a
Maddalena se insegna anche lei e lei rivela che sta preparando l’esame di ammissione a
medicina… Un attimo d’imbarazzo, le loro figlie maggiori hanno uno e due anni meno di
Maddalena; ognuno fa per proprio conto i calcoli della possibile differenza d’età tra lei e me:
solo la figlia più piccola sembra approvare e sorridere: del resto ha sempre riso di gusto alle
cazzate che ho detto o mimato durante il tour.
La sera, sulla terrazza della piscina, facciamo un po’ di conti: di quanto visto, di quanto
bello, di quanto speso. Le mancano 50 euri e non sa dove li ha spesi, ma è certa di non
averli persi: è da questo che si vede che non li guadagna, faccio io antipaticamente. Lei si
rattrista. Li ha spesi, ma dove? Un po’ alla volta emergono le spese dimenticate. Alla fine
mancano all’appello solo 15 euri.
8° giorno - lunedì 25
Dopo la prima colazione, torniamo in camera a preparare le valigie. Le portiamo giù
nella hall, un fattorino ce le sistema in una stanzetta. Prima di uscire saliamo all’ultimo piano
dove c’è la piscina per salutare Simona e Stefania che hanno deciso di concedersi un bagno.
Con loro c’è la ventottenne “un po’ in ritardo” che altresì salutiamo, ovviamente con meno
trasporto. Loro partiranno alle 11, noi alla sera. Abbiamo l’ultimo giorno da trascorrere ad
Atene. Vogliamo rifare alcune delle foto che abbiamo perduto. Ci restano due coupon nel
gran biglietto e vogliamo tornare all’Acropoli e all’Agorà.
Col metrò scendiamo ad Acropoli ed entriamo presso quello che crediamo uno degli
accessi all’area del Partenone. Poi scopriamo che stiamo visitando l’area del teatro di
Dioniso: certo, vederlo da sotto è bello… ma l’avevamo già visto dall’alto, non volevamo
sprecare un tagliando qui…stiamo quasi per tornare indietro e farcelo restituire… ma è
ridicolo. Rinunceremo all’Agorà… Ci portiamo quindi all’accesso all’Acropoli, ma
scopriamo che non ci vuole un tagliandino qualunque, bensì il tagliandone che ci è stato
strappato il primo giorno. Rifare un biglietto da 12 € solo per rifare le foto perdute? Non ci
pare conveniente. Ritorna in gioco l’Agorà. Ci dirigiamo quindi verso l’Odeion di Erode
Attico, saliamo all’Areopago per rifare la foto con la tetta fuori andata perduta. Ma due
birrazzati continuano a guardare Maddalena e non vogliamo scatenare i loro bassi e
imprevedibili istinti. Scendiamo quindi con cautela dalla collina rocciosa, troviamo una zona
dove le foto le possiamo fare, e ci riportiamo all’ingresso dell’Agora.
Pranziamo in un ristorante dove ci portano un vassoio con dieci vassoietti di pietanze
diverse: possiamo sceglierne cinque, con acqua vino pane e dessert, per 10 € a testa.
Chiacchieriamo con una slava in inglese e con una famiglia di francesi in francese. O
meglio: ci proviamo.
Attraversiamo la Plaka, passiamo davanti al monumento di Lisicrate. Dalla Porta di
Adriano ammiriamo il Tempio di Zeus Olimpico. Sfruttiamo le fontanelle che bagnano
l’erba per rinfrascarci collo e piedi… e sandali.
Giriamo attorno al monumento a Byron e cerchiamo una panchina nei giardini del
Zappio; mentre Maddalena si distende sulla panchina, io a una fontanella tiepida lavo
accuratamente i miei sandali, che dopo l’ultima innaffiata hanno il colore del fango.
Maddalena deve andare in bagno. Assolutamente.
Ci portiamo in Piazza Sindagma dove ci sono dei bagni pubblici. Ci beviamo una Coca
Cola mentre un signore recupera dai sacchetti delle immondizie tutte le lattine che trova.
Maddalena e io commentiamo i fisici delle ragazze e delle donne che attraversano la piazza.
Attendiamo in albergo il tassista che deve venirci a prendere alle sei. In anticipo di
cinque minuti.
TAXI, parola greca che in greco si legge tachi (=veloce) per la sua lettura storpiata è
tornata in Grecia nella veste TAΞI (che si legge taxi): è il pedaggio che l’alfabeto greco paga
alla sua originalità. Ma i taxi più nuovi, come quello su cu stiamo per salire, si sono ripresi la
storia e l’etimologia e la loro targhetta riporta “TAXI”.
Attraversiamo Atene. Ad un certo punto l’autista si ferma davanti ad un negozio (di
alimentari?) e va a parlare con il titolare. Dopo due minuti è di nuovo in macchina con un
pacchetto: un viaggio e due servizi.
Svoltiamo a un incrocio che ha nel mezzo una grande scultura di vetro (una Nike);
quindi davanti al lussuosissimo Divani Palace, dove avremmo alloggiato scegliendo il
circuito “Confort”, magari meno comodo per via di metropolitane…
Per una specie di autostrada seguiamo le indicazioni per l’aeroporto ‘Marco Polo’. Sì,
anche qui ad Atene c’è un ‘Marco Polo’… Magari il nostro autista si è inteso male con le
signorine dell’Alpitour che gli hanno detto che dovevamo arrivare al ‘Marco Polo’ e lui ha
capito che dovevamo partire dal ‘Marco Polo’ di Atene… No, non ha senso: perché le
signorino Alpitour avrebbero dovuto specificargli dove eravamo diretti? Forse hanno letto
la riga sbagliata del biglietto aereo… Mi diverto (mi diverto? Di più Maddalena, che prende
per il culo i miei “timori”…) a ipotizzare possibili catastrofi dell’ultima ora, ora che tutto è
andato bene. È scaramanzia. Poco dopo Maddalena vede anche le indicazioni per
l’aeroporto ‘Eleftherios Venizelos’ e mi rassicura definitivamente: ora può solo cadere
l’aereo.
Appena scesi dal “TAXI” ci viene incontro una signorina Alpitour. Siamo i signori
Qfwfq? Sì (!), siamo noi. Salutiamo il tassista sul cui viso si dipinge un moto di disappunto
perché minimamente accenniamo a dargli una mancia, e seguiamo la signorina che si
appresta a fornire per noi le carte d’imbarco. Un’altra signorina poco più in là accompagna
una coppia più anziana di Trieste che come noi sta partendo per Venezia. Le signorine
recitano la cortesia che il loro lavoro richiede, ma è facile far uscire la loro stanchezza per
un lavoro sempre uguale; soprattutto la ragazza calabrese palesa con smorfie della bocca e
degli occhi quanto sia difficile fare la signorina Alpitour: loro conoscono solo stazioni ed
aeroporto, un giro simile al nostro non l’hanno mai fatto…
L’aereo parte fra un’ora: abbiamo tutto il tempo di ammirare l’aeroporto e di leggere
tutti i cartelli. La mia attenzione è attirata da una serie di pannelli che raccontano la vita
dell’eroe eponimo dell’aeroporto, il padre delle democrazia greca, il quale si ribellò al re per
combattere a fianco dell’Intesa nella I Guerra Mondiale. In una stanza vicina è una raccolta
di reperti e altri pannelli che raccontano la costruzione dell’aeroporto ‘Eleftherios
Venizelos’ costruito apposta per i giochi olimpici e inaugurato il 29 marzo del 2001. Per
piazzarlo lì, trenta chilometri ad Est di Atene, hanno dovuto spostare una chiesa ortodossa
del XV secolo.
Scendiamo al nostro cancello.
L’aereo è in ritardo. Incontro Barbara che vive ad Atene e lavora all’Istituto di Cultura
Italiano, lo stesso dove studiò Aris: il motivo è semplice e comune alle sue colleghe: hanno
un moroso o un marito greco.
Un’ora e dieci di ritardo. Si parte, si torna a casa.