I luoghi della democrazia: il viaggio cafoscarino ad Atene spiegato

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I luoghi della democrazia: il viaggio cafoscarino ad Atene spiegato da uno studente
«Grecia battuta sul dorso, / preda ferita della tirannia, Grecia / impura, caduta e schiacciata nel
fango, / che piangi tutta la notte e chiedi un po' d'acqua, / imprigionata in isolamento / dopo le
torture» (Titos Patrikios, I giacimenti del tempo, 1955)
Il 5 aprile 1944, a Klissura, il settimo reggimento dei granatieri corazzati, guidato dal colonnello
S.S. Karl Schümers, sterminò con l'inganno duecentosettanta cittadini di quel piccolo centro
montano prossimo a Kastoriá; morirono soprattutto gli innocenti: donne, bambine e bambini,
anziani e anziane. Il 5 aprile di un anno fa il quotidiano ateniese Ta Nea pubblicò come titolo di
apertura: «Il messaggio di disperazione di un pubblico suicidio», e diffuse la notizia che il giorno
prima Dimitris Christulas, pensionato di settantasette anni, si era sparato in testa tra i passanti in
piazza Síndagma, cioè di fronte alla sede del Parlamento, per protestare contro le misure
governative dettate dalla trojka UE, FMI e BCE che costrinsero (e tuttora costringono) molti anziani
e molte anziane a perdere la dignità rovistando nella spazzatura o mendicando; il gesto ebbe sia
un'eco immediata e locale, portando a degli scontri con la polizia nella stessa piazza nella notte fra
il 4 e il 5 aprile, sia una più tarda ed estera, nella fattispecie in quei paesi europei ‘indisciplinati’, e
dunque prossimi alla Grecia, come Italia e Spagna, dove il poeta e cantante Joaquín Carbonell Martí
compose una canzone in onore e in ricordo di Dimitris Christulas. Il nostro viaggio di studio ad
Atene iniziò il 5 aprile di quest'anno, quando uscimmo dal buio del métro alla luce di piazza
Síndagma, nei pressi della quale eravamo alloggiati: luoghi e date della storia iniziarono a
rianimarsi nei miei pensieri, il che diventò poi il Leitmotiv del viaggio. Ma ciò che mi colpì subito
dopo furono gli accattoni fanciulli, che a due passi dell'Acropoli, nel métro e altrove mi ricordarono
gli stessi incontrati in Siria tra le rovine romane di Bosra nel 2010, appena un anno prima della
guerra civile. È questa l'immagine di Atene che per prima conservo, assieme a quella dell'emersione
dalla bouche de métro di piazza Síndagma: ed è tristemente consentanea a tutte le altre: l'Areopago
divenuto il rifugio dei senzatetto, l'agorà e il Ceramico inframezzati dal trambusto e dalla crescente
miseria del mercatino di Monastiraki, frequentato spesso, all'incrocio tra via Αghíon Asomaton e
via Adrianú, da capannelli di immigrati allo sbando, che sappiamo troppo spesso divenuti vittima
dell'odio di Chrissí Avghí; e poi ancora, i poliziotti che fanno sloggiare qualche mendico dai pressi
della biblioteca di Adriano, i senzatetto rincantucciati la notte nei portici del centro, i negozi di
musica del quartiere universitario senza nemmeno più un disco sulle discoteche, le greche e le croci
celtiche di Chrissí Avghí disegnate per le strade, i manifestanti in piazza Síndagma contro la polizia,
e le serrande di alcuni negozi abbassate e con scritto: «Klistó ghiá panda», ossia «Chiuso per
sempre». Tutte fotografie della mia memoria che contrastano con lo sfarzo dei locali di tendenza,
del Grande Bretagne e delle boutiques di moda, luoghi perlopiù concentrati nella zona a nord di
Síndagma, dove in via Stadíu impressi nella mente l'ultima immagine del viaggio: un accattone
inginocchiato con le mani sul volto, certo per sottrarsi alla vergogna, e forse per non vedere
l'abissale e antidemocratica frattura fra chi ha troppo e chi non ha più nulla. Queste immagini
raccolte nella memoria sono equivalse per me a una presa di coscienza, propedeutica a una mia
ulteriore maturazione intellettuale: perché queste fotografie sono state scattate nei luoghi della
democrazia, lì dove era la Bulé, dove era l'Ekklesía, dove passeggiarono filosofi e retori, lì dove
(nel Ceramico) Pericle pronunciò l'epitafio, assurto poi a manifesto della nostra democrazia
occidentale; perché sia dell'Atene antica (che fu per il sullodato Pericle tucidideo «tes Hellados
páideusin», «scuola della Grecia») sia della sua eredità (che è parte della nostra scuola) abbiamo
discusso in prima persona noi studenti, accompagnati nel cammino di conoscenza dalle
professoresse Claudia Antonetti e Stefania De Vido; e perché attraverso questo nostro dialogo e
dall'osservazione diretta dei luoghi simbolo dell'Atene antica ho potuto guardare oltre, alla molto
diversa ma similmente tragica storia della Grecia moderna: dagli anni della guerra peloponnesiaca e
dei Trenta Tiranni, che segnarono il termine dell'esperienza democratica periclea, rammentando i
versi di alcuni poeti neoellenici ‘impegnati’, ho potuto compiere un balzo fino al Novecento e oltre:
dalla dittatura di Metaxás all'occupazione nazista, dalle guerre civili al regime militare, fino alla
odierna dittatura economica.
«Grecia obliata, senza più nessuno, / che vagabondi la notte coi capelli sciolti, / e vendi fiori nei
locali notturni / scivolando tra macchine e musiche, / tra indifferenti avventori e spie, / camerieri al
cambio turno e quei due / che gettano volantini nel buio. / Grecia, che poco prima dell'alba spargi /
un pugno di terra sui giustiziati, / e chiudi i loro occhi sbarrati» (Titos Patrikios, I giacimenti del
tempo, 1955)
Andrea Cerica
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