LA VOCE
DEL POPOLO
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UN CAFFÈ CON... Adriano Giraldi Pagine 2 - 3 / RECENSIONI Joseph and the Amazing Technicolor Dreamcoat
Pagina 4 / RASSEGNA Festival delle Piccole scene Pagina 5 / IL GIRO DEL MONDO IN 80 TEATRI Irresistibile San
Pietroburgo Pagina 6 / TEATRODANZA Ten chi Pagina 7 / CARNET PALCOSCENICO Il cartellone del mese Pagina 8
UN CAFFÈ CON...
Martedì, 5 giugno 2012
Adriano Giraldi
2 palcoscenico
Adriano Giraldi
di Rossana Poletti
T
riestino, si forma alla Scuola del
Piccolo Teatro di Milano e debutta nel 1981 con la compagnia del
Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia
in “Karl Valentin kabarett” per la regia di
Giorgio Pressburger. In seguito lavora al
Teatro di Roma con Luigi Squarzina (“Il
cardinale Lambertini” di Testoni e “Timone d’Atene” di Shakespeare); all’Olimpico di Vicenza con Sandro Sequi (“I pettegolezzi delle donne”); a Bologna con Leo
De Berardinis (“Amleto”, nel ruolo di Laerte); a San Miniato con Krzystof Zanussi (Giobbe, con Ugo Pagliai e Paola Gassman). Nuovamente allo Stabile del Friuli
Venezia Giulia recita in “Attraverso i villaggi” di Handke, e in “Baal” di Brecht,
per la regia di Roberto Guicciardini. ParTrieste e Italo Svevo, e anche
James Joyce. Hai un legame particolare con questi autori?
Di Svevo ho fatto una decina di
spettacoli, dal 1998 al 2007. Devo
la scoperta dello Svevo teatrale a
Elena Vitas, che purtroppo ci ha
lasciato prematuramente. Lei mi
ha fatto scoprire le sua potenzialità; avevo già visto “La coscienza
di Zeno”, “Le cugine”, “Rigenerazione”, però non avevo mai colto
la grandezza di Svevo come dram-
tecipa inoltre a diversi spettacoli diretti da
Giuseppe Patroni Griffi, Gabriele Lavia,
Franco Però e Sandro Bolchi.
Nel 1986 inizia a collaborare con La
Contrada, partecipando a quasi tutti gli allestimenti dello Stabile privato triestino
sotto la direzione di Francesco Macedonio, Antonio Calenda, Mario Licalsi, Patrick Rossi Gastaldi, Tonino Pulci e altri.
Nell’estate del 2001 è al fianco di
Ariella Reggio al Todi Festival in “Ballando con Cecilia” di Pino Roveredo, con la
regia di Macedonio. Nelle ultime stagioni
con La Contrada ha preso parte a “Un nido
di memorie” di Tullio Kezich e a “I rusteghi” di Goldoni per la regia di Francesco
Macedonio, a “Piccole donne: il musical!”
di Pulci e Marcucci, a “Io e Annie” di Wo-
Abbiamo fatto uno spettacolo
itinerante in cui si percorrevano,
proprio in “pellegrinaggio”, questi luoghi ed enumeravamo le osterie e le case di tolleranza da loro
frequentate: “Gli Ulissidi” in cui
Svevo si confrontava con Joyce,
ed eravamo io e Maurizio Zacchigna ad impersonarli, accompagnati
dalla fisarmonica di Carlo Moser.
Tutti i grandi compositori e
artisti sono passati per l’Osteria
“Al Papagal”, si sono scritte can-
Se non conosci bene quello che ti sta
vicino è molto difficile poi andare
lontano. Se non approfondisci la tua
storia, le tue tradizioni e il tuo dna,
sarà molto difficile poi capire quello
che scrive uno, che magari sta a
cinquemila chilometri di distanza
maturgo. In effetti è stato misconosciuto da questo punto di vista. La
sua scrittura sottile e profonda e la
sua forte ironia lo rendono modernissimo. Riesce a farti ridere anche
nelle situazioni più drammatiche.
Elena mi aveva indicato tutto ciò:
la sua capacità di essere contemporaneo. Ancora oggi molti pensano
che Svevo sia noioso, mentre tutti
gli spettacoli che ho fatto avevano
una componente comica importante, basta saperla valorizzare. Il suo
linguaggio è indubbiamente difficile da portare in scena, ma per
me è stata un’esperienza che non
intendo mollare.
È un percorso che si è interrotto?
Scelte di politica culturale.
Magari adesso ci sarebbe l’interesse a riprendere quel cammino, ma purtroppo oggi dobbiamo
fare i conti con la crisi finanziaria e non ci sono soldi per farlo. A
volte basta solo la buona volontà per fare qualcosa, indipendentemente dalla scarsità di risorse;
ci sono ancora spettacoli di Svevo che non sono stati allestiti, ad
esempio “Le teorie del Conte Alberto” o “Il ladro in casa”. Non
credo ce ne siano tanti altri. Siamo uno dei pochi teatri in Italia
(ndr La Contrada) che ha fatto
quasi tutti i suoi titoli. E poi c’è
stato Joyce.
Avete realizzato tutti questi
spettacoli negli spazi di piazza
Hortis, della città vecchia, che
sono stati i luoghi della vita anche più intima di questi personaggi e dei tanti artisti triestini
e stranieri che hanno soggiornato in città.
zoni, poesie, operette e probabilmente grandi tele sono state concepite in luoghi della cosiddetta
perdizione: alcol e donne. È una
parte della storia cittadina di cui
magari qualcuno non vorrebbe
che si scrivesse, ma che sono stati ambiti vitali e insostituibili per
questi personaggi.
Nel mondo dell’accademia e
dell’erudizione si tende ad idealizzare queste figure e a nasconderne
gli aspetti umani, che però sono inscindibili dall’autore, da chi scrive.
Lo stesso Joyce non avrebbe potuto regalarci Nausicaa, uno dei capitoli più belli dell’Ulisse, se non
avesse frequentato assiduamente
i bordelli. E la stessa conoscenza
del femminile di Svevo. La cultura
non si fa solamente dentro alle biblioteche, ma anche in mezzo alla
vita delle persone.
Le figure femminili di Svevo
sono donne popolari, libere, forti, da cui proviene poi questo immaginario della donna triestina
moderna, ancora oggi più emancipata che altrove.
Fantastico anche in questo,
Svevo. Lesse sicuramente “Casa
di bambola” di Ibsen, ne fu sicuramente influenzato ed è anche questo che lo mise alla pari con i più
grandi autori del ‘900. I suo personaggi femminili sono più grandi
di quelli maschili, che spesso non
fanno una bella figura. Mi viene
in mente “L’avventura di Maria” o
anche “La verità”.
Se non guarda alla propria
identità chi vive in un determinato posto, chi lo farà? C’è la
tendenza a fare tutto e di più, un
di più che magari fa già parte
ody Allen con la regia di Antonio Salines,
a “I ragazzi irresistibili” di Neil Simon,
accanto a Johnny Dorelli e Antonio Salines, e a “Il divo Garry” di Noël Coward
con Gianfranco Jannuzzo e Daniela Poggi,
entrambi diretti da Macedonio. Ha inoltre
partecipato all’allestimento di “Alcesti”
da Euripide, Rilke e Savinio, con Mariangela D’Abbraccio per la regia di Ulderico
Manani; di “Vera Verk” di Fulvio Tomizza, regia di Elia Dal Maso; di “La battaglia di Arminio” di H. Von Kleist, regia di
Salines.
Dopo aver recitato negli ultimi spettacoli dialettali di inizio stagione, “Vola colomba”, “Tramachi” e “Remitùr”, prende
parte a “Italiani si nasce”, accanto a Maurizio Micheli e Tullio Solenghi, con i quali
teatralmente di un circuito e di
una globalizzazione, che sta rendendo tutto il teatro uguale e anche sempre più povero culturalmente.
Se non conosci bene quello
che ti sta vicino è molto difficile
poi andare lontano. Se non approfondisci la tua storia, le tue tradizioni e il tuo dna, sarà molto difficile poi capire quello che scrive
uno, che magari sta a cinquemila
chilometri di distanza. Non è detto che tu non possa realizzare teatralmente anche quel testo lì; devi
però integrarlo nella tua realtà,
lo devi far diventare qualcosa di
personale, che ha a che fare con la
storia della tua città. Il mio obiettivo è di guardare al contenuto
culturale di Trieste, rifuggendo
dallo stereotipo di realtà mitteleuropea, che ormai vuol dire un
po’ tutto e anche niente, facendo attenzione a quello che rimane attualmente dell’eredità culturale del passato, anche di Svevo
nella fattispecie, e proiettare tutto
questo su una visione più lontana.
Non dimentichiamo che proprio
Svevo vedeva e viveva intensamente la realtà di Trieste, ma aveva un grande occhio proiettato su
ciò che accadeva nel mondo.
Senza lasciare che il futuro ci
sfugga, cosa che qui accade più
che altrove.
Infatti corriamo il rischio di rimanere ancorati ad un passato che
non corrisponde alla realtà che
stiamo vivendo.
Nel mondo musicale c’è chi
ha colto la grande passione per
l’operetta, musica colta ed anima popolare, e l’ha traghettata
verso gusti nuovi come il musical, facendo diventare la città un
punto di riferimento europeo per
il genere, portando a teatro le
nuove generazioni, creando nuovi artisti. Sembra che nella prosa questo non sia possibile. Manca l’idea di un’appartenenza da
traghettare nel futuro in una sfera identitaria specifica?
C’è bisogno di linfa nuova e
anche di interpreti e autori nuovi.
Partendo dalla lezione dei grandi
che avevano respiro internazionale
e di quelli che ancora ce l’hanno,
penso a Magris e Pahor; ci vorrebbe una frizione, un volano che faccia ruotare attorno ad essi riflessione e volontà di produrre cose nuove.
Si dice che dalle grandi crisi
nascano le grandi intuizioni. La
crisi dell’occidente, più che finanziaria è una grande crisi culturale e di identità. Avremo la
capacità di trovare una nuova
strada?
ha appena concluso la tournée dell’ultima
produzione della Contrada “L’apparenza
inganna”.
Sempre per la Contrada è stato direttamente coinvolto nell’organizzazione di
progetti teatrali legati alla realtà culturale triestina, come ad esempio le rassegne
estive dedicate all’allestimento di spettacoli ed eventi urbani legati alle figure di
Italo Svevo e James Joyce. In tale ambito è fra i protagonisti di “Terzetto spezzato”, “Gli Ulissidi”, “La verità”, “La rigenerazione”, “L’avventura di Maria”, “Atto
unico”, “Un Marito”, “Le ire di Giuliano”
e “Inferiorità”, diretto di volta in volta da
Elena Vitas, Antonio Salines, Francesco
Macedonio, Sabrina Morena e Ulderico
Manani.
Talenti non mancano: ad esempio Pino Roveredo, Tullio Kezich.
Per me è stato un grande piacere
partecipare alla trilogia di Kezich
in dialetto, una grande scrittura,
molto alta. Ma tornando al discorso musicale, io ho un po’ di rimpianto per l’abbandono dell’operetta. Girando l’Italia mi sono accorto che il musical è molto più
seguito della prosa, è un fenomeno esploso ovunque. Il festival
dell’operetta a Trieste era un qualcosa che connotava fortemente la
città. Non lo dico per me che ne ho
fatto solo una (ndr La principessa
della Csardas nel 1997). Il festival
fa parte di quelle peculiarità a cui
non attaccarsi disperatamente, ma
al teatro dei Fabbri. Che cosa te
l’ha fatto scegliere?
Un caso, me lo commissionò in
forma di lettura nel 2010 il Comune di Trieste per la manifestazione estiva “Musei di sera”. Io sono
allergico ai monologhi, mi sento solo, se posso li evito, ho resistenze anche ad andare a vedere un
grande attore che ne affronta uno.
A teatro mi piace lo scontro, la relazione, lo scambio. Per fortuna ho
trovato un alter ego che è Giovanni Maier, bravissimo contrabbassista del Conservatorio di Trieste.
Ci siamo lasciati allora con l’intenzione di riprenderci, anche perché
lo spettacolo era piaciuto moltissimo al pubblico, ed è piaciuto mol-
Il contrabbasso (...) è stato una
questione di amore e odio, di repulsa
ed attrazione. Ho pensato all’inizio
che non avevo niente a che fare
con un contrabbassista di fila di
un’orchestra di stato. E poi invece mi
sono accorto che è un testo che parla
all’io profondo, di tutte le aspettative
disattese, delle frustrazioni che
accompagnano l’arte, delle ingiustizie
economiche nella vita...
non vedo perché buttarle via. Ricordo anche i festival dedicati alla
divulgazione scientifica, al vecchio festival di fantascienza. Una
volta che hai spezzato la consuetudine dal punto di vista degli investimenti e delle capacità organizzative è difficile ripartire. Il pubblico si disperde, abbandonare e
riprendere non è una buona politica.
È la politica responsabile di
questi disastri?
È questo sistema perverso in
cui ci siamo introdotti: chi viene
dopo disfa quello che si faceva prima, solo per il fatto che lo facevano altri.
Usciremo da questo sistema
devastante, da questo tunnel della guerra bifronte?
Spero di sì, spero che ad un certo punto prevarrà l’interesse collettivo sull’interesse di parte. I cugini friulani in questo sono più bravi, quando c’è da difendere un progetto che valorizza Udine e il suo
territorio, trovano sempre un modo
per mettersi d’accordo e realizzare l’idea.
Parliamo un po’ del tuo ultimo lavoro, “Il contrabbasso”
che hai recentemente presentato
to a noi farlo. Non ero solo, avevo l’interlocutore, avevo Giovanni
Maier.
Parlavi con lui?
Interloquiva con me attraverso
il contrabbasso.
Cosa ti è piaciuto di questo testo?
È stato una questione di amore e odio, di repulsa ed attrazione.
Ho pensato all’inizio che non avevo niente a che fare con un contrabbassista di fila di un’orchestra di stato. E poi invece mi sono
accorto che è un testo che parla
all’io profondo, di tutte le aspettative disattese, delle frustrazioni che accompagnano l’arte, delle
ingiustizie economiche nella vita,
delle sperequazione tra un primo
violino e un contrabbasso di fila.
In fondo siamo noi. Il contrabbassista dice “all’epoca avrei potuto
essere un grande virtuoso” e, se
si riflette, nessuno fa l’attore pensando di diventare una comparsa.
C’è nel testo un complesso di inferiorità e superiorità esasperato
al massimo. Però ci si riconosce
a pieno, è bello proprio per questa
identificazione.
Sai che l’ha fatto qualche
anno fa anche Maurizio Miche-
palcoscenico 3
Martedì, 5 giugno 2012
li, con cui hai appena finito una
tournée?
Gli ho detto “mi dai un video
dello spettacolo, che mi faccio
un’idea”. Ma il video non è mai arrivato, al suo posto mi diede un cd
con immagini fotografiche. Meglio
così, so che è stata una cosa molto
diversa dalla sua.
Il tuo “contrabbasso” era più
drammatico ed aggressivo, l’interpretazione di Micheli era più
ironica. Si coglie così quanto un
pubblico abbonato a crescere nel
gusto e culturalmente?
L’approccio in questo senso
deve essere graduale. Negli ultimi
anni qualcosa si è fatto in questo
senso. Lo spettacolo “L’aberrazione delle stelle fisse” nato ai Fabbri
e molto applaudito in quel contesto,
è stato messo quest’anno in abbonamento ed è stata un’esperienza
premiata dal pubblico che ha gradito. Sul Contrabbasso avrei dubbi proprio per il fatto che è un testo
Vorrei lavorare con un nucleo di
attori, con i quali ho già condiviso
affiatamento, piacere di fare assieme
e sintonia; trovare una direzione e una
prospettiva artistica che vada al di
là della stagionalità, vorrei riuscire a
realizzare progetti di più ampio respiro
Ovvero, la metafora della vita
IL CONTRABBASSO
Ovvero, la metafora della vita
Trieste. Teatro dei Fabbri (La
Contrada). Patrick Süskind è nato
nel 1949 ad Ambach, in Baviera. Ha
vissuto a Monaco e a Parigi, prima di
rifugiarsi in un paesino della Francia
sud-occidentale. Divenne famosissimo a metà degli anni ’80 per il suo
romanzo “Il profumo”, che divenne
un bestseller mondiale, tradotto in
più di quaranta lingue. Dal libro nel
2005 fu tratto il film, che però non
riuscì ad avere la stessa potenza del
racconto. Nonostante la sua fama
mondiale Süskind conduce una vita
estremamente riservata, concedendo
raramente interviste ed evitando di
mostrarsi in eventi pubblici, arrivando persino a rifiutare importanti premi letterari tedeschi quali il Gutenberg e il Tukan. Detto così, si potrebbe credere che Süskind sia in parte il
personaggio descritto nella sua opera prima, il testo teatrale “Il contrabbasso” del 1981, che nella stagione
1984/85 è stato il più rappresentato
nella sua terra natale, con oltre 500
rappresentazioni.
Il contrabbasso è la metafora di
una vita al limite dell’inutilità e senza dubbio di frustrazione feroce e dilaniante. Anche un uomo mite può
diventare terribile se il livello della sopportazione, della solitudine e
dell’umiliazione supera ogni limi-
te. Quest’uomo mite è un professore, impiegato nell’orchestra di stato
tedesca. Suona il contrabbasso. Lo
strumento in questione è probabilmente quello meno amato dal pubblico e tra i meno considerati. “Se
c’è una cosa inconcepibile è un’orchestra senza contrabbasso. Si può
quasi dire che l’orchestra – siamo
alla definizione – comincia a esistere soltanto quando c’è un contrabbasso. Ci sono orchestre senza primo violino, senza fiati, senza timpani e trombe, senza tutto. Ma non senza contrabbasso. Quello che voglio
stabilire, è che il contrabbasso è di
gran lunga lo strumento più importante dell’orchestra. Anche se non
sembra”, questo è quello che afferma il nostro omino nel suo monologare, a se stesso prima che agli altri.
In fondo però sa che non è così, sa
che lo strumento è collocato in fondo all’orchestra dietro a tutto e a tutti, dietro anche alle percussioni, allo
stesso modo in cui lui sta nella vita:
“questa è mia madre, che ama mio
padre, che ama mia sorella e nessuno ama me”. La disperazione c’entra poco con lo strumento, bello o
brutto che sia, dal suono gracchiante e inadatto all’assolo, e l’amarezza è frutto di una sua sconfitta nella
battaglia con la vita, del fallimento
come uomo, che ha trascinato con
sé nel fondo il musicista, il compositore, l’innamorato senza speranze
della giovane cantante. E la rabbia
diventa forte, ma è anche questa un
gesto, un momento, un urlo che sfumerà nel silenzio della stanza e della
sua triste vita.
Adriano Giraldi dà del testo una
lettura rabbiosa ed aggressiva, ben
sapendo che da solo, nel segreto della sua solitudine, anche un omuncolo può credere di essere un gigante,
un incompreso che inveisce contro
coloro, Wagner o Mozart, che ce
l’hanno fatta, per un moto di profonda e malcelata invidia. Il suo incipit è graduale, dall’autoconvincimento di essere in una condizione
ottimale lentamente passa alla ribellione verso il mondo che l’ha relegato in fondo alla scala dei valori,
accompagnato dalle note di un contrabbasso, mirabilmente “condotto”
da Giovanni Maier, capace di trarre
dall’ingombrante strumento a quattro corde basse frequenze cavernose, sibilati sinistri, gracchiamenti
sopracuti, ululati, schiocchi, colpi
di nocche, che nell’insieme dei suoi
non sporadici interventi costituiscono un efficace compagno di palcoscenico per questa storia senza speranza. (rp)
da teatro piccolo, mentre abbiamo
in programma per l’anno prossimo un testo del catalano Jordi Galceran “Il metodo Gronholm”, una
bella scommessa, basato molto sul
lavoro dell’attore. Parla dei metodi
di selezione del personale, di quella branca della psicologia aziendale
che si occupa di questo. Andrà nella
stagione in abbonamento, cerchiamo così di uscire da alcuni vecchi
contesti. Ero a Roma pochi giorni
fa proprio a cercare nuovi testi, idee
e contatti buoni per realizzarle.
Allora hai alcuni sogni nel
cassetto?
Vorrei lavorare con un nucleo
di attori, con i quali ho già condiviso affiatamento, piacere di fare
assieme e sintonia. Mi piacerebbe per far questo trovare una direzione e un prospettiva artistica che
vada al di là della stagionalità, vorrei riuscire a realizzare progetti di
più ampio respiro. E sappiamo tutti
quanto sia difficile oggi.
Siamo sul mare e da noi si dice
“Già metter i remi in acqua…”
Remare è vedere già la riva,
l’approdo di un progetto moderno, contemporaneo per questa città
che è più colta e più intelligente di
quello che appare.
FOTO©MAX TESSARIS
testo abbia tante sfaccettature
che, a seconda di chi lo legge ed
interpreta, se ne colgono e approfondisco alcune piuttosto che altre.
Io in scena ho Giovanni Maier e un contrabbasso vero. Nel
testo originale è previsto che con
il contrabbasso si cimenti l’attore
stesso, può suonare brevi note con
l’archetto anche un profano. Invece qui ho un alter ego. Il protagonista, cioè io, continua a dire che
non c’è la possibilità di fare assoli
con questo ingombrante strumento e invece Maier ne fa di stupendi. Così è potuta emergere la parte più pazza, ma anche più drammatica del testo. Micheli ha fatto
emergere la chiave più comica, il
pubblico rideva durante la sua interpretazione.
È un genere di teatro per spazi raccolti.
Teatro da camera, lo spazio dei
Fabbri era perfetto in questo senso.
La Contrada ha messo in
campo il meglio di sé proprio ai
Fabbri ultimamente. Perché non
crederci di più in queste produzioni “minori”, che però sono
migliori di tante produzioni in
abbonamento, aiutando anche il
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palcos
Martedì, 5 giugno 2012
Joseph and the Amazing Technicolor Dreamcoat
RECENSIONE
Joseph and the Amazing Technicolor Dreamcoat
T
rieste. Politeama Rossetti. “Joseph and
the Amazing Technicolor Dreamcoat” ha chiuso ufficialmente la stagione 2011/12 del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, con una gradita sorpresa: settanta bambini triestini in scena a far da coro ai
bravissimi professionisti del cast inglese del
grande musical di Andrew Lloyd Webber e
Tim Rice. I due colossi mondiali scrissero
quest’opera nel 1968, solo cinque anni prima del più famoso “Jesus Christ Superstar”.
Possiamo dire però che già in questa storia di
Giuseppe e dei suoi fratelli, tratta dalla Genesi, ci sono tutti i presupposti per quello che
sarà il successivo capolavoro, dedicato alla
figura di Cristo.
Webber e Rice frequentavano assieme
il college a Londra e assieme produssero
un breve saggio di quindici minuti. Il successo fu talmente grande che negli anni
successivi dovettero farne una versione
più estesa. La prima produzione nel West
End di Londra nel 1991, con Jason Donovan nella parte di Joseph, rimase in scena
per ben due anni e mezzo.
In Italia era già stato allestito dalla
compagnia Rockopera, in una versione in
italiano, con la partecipazione di Antonello Angiolillo e Rossana Casale. Ora sulla
scena del Rossetti sono approdati un gruppo fortissimo di ragazzi inglesi, diretti da
Bill Kenwright con le coreografie coloratissime e di amplissima varietà, firmate
da Henry Metcalfe, e con una ottima band
dal vivo. Come al solito Trieste è l’unica
tappa europea del gruppo fuori dal Regno
Unito.
Tutti immaginano la Bibbia come
un’opera morale piena di dolore, tristezza e sofferenza, ma i nostri due eroi sono
riusciti a trasformare il tutto in una grande festa musicale. Il divertimento e la freschezza del lavoro è dato da una splendida
capacità di mescolare generi e ritmi, affiancandone personaggi in grado di amplificare la nota comica dello spettacolo. È
il caso ad esempio dell’uscita del temibile
Faraone vestito da Elvis Presley per la sua
“Song of the King”, ovviamente nello stile
del re del Rock and Roll, che soffiava gli
accordi al country e al rhythm and blues.
La vicenda infatti viene raccontata utilizzando tutti i generi più noti della musica
del ‘900. I fratelli di Giuseppe diventano
scatenati cowboy in “One More Angel in
Heaven”, numero “country” cantato e ballato in perfetto stile old Texas, mentre per
“Those Canaan Days”, di gusto francese,
arrivano in scena come seducenti chansonnier. Non mancano in questo contesto
le sonorità latino-americane in “Benjamin
Calypso”.
Per chi non fosse pratico di racconti biblici la storia di Giuseppe è presto detta.
Egli è il figlio prediletto di suo padre Giacobbe. Questa preferenza, che si manifesta sotto la forma di una tunica donatagli
all’età di 17 anni, alimenta la gelosia dei
fratellastri. La gelosia è alimentata anche
dai sogni di Giuseppe, visioni nelle quali
lui sempre primeggia. I fratelli allora decidono di liberarsi di lui, vendendolo ad
una carovana di mercanti ismaeliti di passaggio. Viene condotto schiavo in Egitto. I
suoi fratelli utilizzano la tunica e del sangue di capra per far credere al padre Giacobbe che Giuseppe è stato ucciso dai briganti. Arrivato in Egitto viene rivenduto
a Potifar, un ufficiale del faraone, di cui
diventa l’intendente. Essendo molto abile
nel suo lavoro, fa prosperare negli anni le
attività del suo padrone e si guadagna la
sua stima. Tuttavia la sua posizione cambia completamente quando la moglie di
Potifar, incapricciatasi dello schiavo, tenta
di sedurlo, senza successo. Per vendicarsi dell’umiliazione subita, la donna accusa
Giuseppe di aver tentato di usarle violenza e chiede al marito che il giovane venga punito. Viene rinchiuso in prigione. Ma
anche qui i sogni e la sua furbizia lo salveranno quando verrà in soccorso del faraone. Questi favorevolmente impressionato
dalla sua saggezza lo libera e gli affida un
ruolo di rilievo nella conduzione del Paese. Dopo molti anni di ricchezza e fortuna, arrivano in Egitto i suoi fratelli stremati dalle carestie. Giuseppe li riconosce
e per vendicarsi del loro comportamento,
li fa incarcerare con un futile pretesto ma
poi, verificato il cambiamento positivo che
i suoi fratelli hanno avuto nel tempo, egli
rivela la sua vera identità. La sorpresa è
grande ma la gioia di ritrovare Giuseppe
vivo lo è ancora di più. Perdona i suoi fratelli ed invita tutta la famiglia a stabilirsi
in Egitto.
Grande storia dedicata ai talenti e al
perdono, molto utile in tempi di pochi meriti e tanti odi e vendette, che riesce a divertire a teatro come nessuno potrebbe
aspettarselo. A smentire il fatto che il musical sia sciocco divertimento, una storia
come questa può essere profondamente
educativa per i più giovani, senza annoiare come spesso il teatro dei grandi fa. I
ragazzi l’hanno capito e hanno invaso il
grande teatro triestino con entusiasmo e
ammirazione.
Rossana Poletti
cenico
Martedì, 5 giugno 2012
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RASSEGNA XIX edizione delle Piccole Scene di Fiume
«Mio figlio cammina un po’ più lentamente» miglior spettacolo della rassegna
«Mio figlio cammina un po’ più lentamente» miglior spettacolo della rassegna
FIUME – Con lo spettacolo “In
fondo”, allestimento del Vilnius
City Theatre della Lituania, diretto
da Oskar Korshunovas, è calato il
sipario sulla diciannovesima edizione del Festival internazionale delle Piccole scene di Fiume. La giuria, composta da Snježana Banović,
Dušanka Stojanović Gild e Damir
Orlić, dopo aver esaminato otto allestimenti che componevano il car-
tellone della rassegna, ha decretato
quale miglior lavoro la produzione
del Teatro dei giovani di Zagabria,
“Mio figlio cammina un po’ più lentamente”, del talentuoso drammaturgo Ivan Martinić, diretto da Janusz
Kica.
Il premio “Anđelko Štimac” per
la miglior regia è stato assegnato a
Boris Liješević per la messa in scena di “La sedia di Elia”, dello Jugo-
slovensko dramsko pozorište di Belgrado.
I premi per l’interpretazione,
che portano tutti il nome di Veljko
Maričić, sono stati assegnati nella categoria per la miglior interpretazione maschile ex aequo a Jernej
Šugman per il ruolo della Suocera
nella commedia “Quando ero morto”
dello Slovensko narodno gledališče
di Lubiana, e a Svetozar Cvetković
per la parte di Richard Richter nello spettacolo “La sedia di Elia”, dello Jugoslovensko dramsko pozorište
di Belgrado. Anche il premio per la
migliore attrice è stato assegnato secondo il modello della “parità di posizione”, ossia a Ksenija Marinković
per l’interpretazione di Mia nel lavoro “Mio figlio cammina un po’
più lentamente”, e a Hana Selimović
per il ruolo della Madre nella commedia “Papà è in viaggio d’affari”,
produzione dell’Atelje 212 di Belgrado. Quale miglior giovane attrice
del Festival, la giuria ha scelto Maja
Izetbegović, per la sua interpretazione di Alma Filipović in “La sedia di
Elia”, mentre il riconoscimento per
la miglior scena è andato a Doris
Šarić Kukuljica per il ruolo di Ana
nello spettacolo “Mio figlio cammina un po’ più lentamente”.
Il premio “Veljko Maričić” per
la miglior drammaturgia è stato vin-
“Mio figlio cammina un po’ più lentamente”
to da Darko Lukić per “La sedia di
Elia”, dello Jugoslovensko dramsko
pozorište di Belgrado. Il riconoscimento intitolato a Dorian Sokolić
per la miglior scenografia è stato assegnato a Slavica Radović Nadarević
per lo spettacolo “Mio figlio cammina un po’ più lentamente”, del Teatro dei giovani di Zagabria, mentre il premio “Veljko Maričić” per
i migliori costumi è andato a Doris
Kristić per “Mio figlio cammina un
po’ più lentamente”. Il premio “Velj-
ko Maričić” per la miglior musica è
stato vinto da Irena Popović, autrice
delle musiche di “Papà è in viaggio
d’affari”. Il premio speciale “Veljko
Maričić” per l’interpretazione collettiva è andato all’ensemble “Odio
la verità”, dal teatro zagabrese ITD,
diretto da Oliver Frljić. Il premio del
pubblico che porta il nome di Dalibor Foretić, con il voto di 4,72 è stato vinto da “La sedia di Elia”, dello
Jugoslovensko dramsko pozorište di
Belgrado. (gian)
INTERVISTA
Oliver Frljić, da brutto anatroccolo a cigno del teatro croato
Oliver Frljić, da brutto anatroccolo a cigno del teatro croato
FIUME – Il Festival internazionale della Piccole Scene è ormai
alle spalle. A imporsi come campione della XIX edizione è stata la
produzione del Teatro dei giovani di Zagabria, “Mio figlio cammina un po’ più lentamente”, con la
drammaturgia di Ivan Martinić e la
regia di Janusz Kica. La rappresentazione, che si pone come critica
verso la società che ama presentarsi come socialmente aperta e tollerante, si è imposta agli occhi della
commissione, ottenendo anche altri
premi. Tra cui quello per la miglior
interpretazione femminile a Ksenija Marinković e il riconoscimento
per la miglior scena andato a Doris
Šarić Kukuljica, nonché i premi per
la scenografia e i costumi, rispettivamente realizzazioni di Slavica
Radović Nadarević e Doris Kristić.
La rassegna di quest’anno è
stata estremamente ricca, con otto
produzioni provenienti da cinque
Paesi – Lituania, Polonia, Slovenia,
Serbia e Croazia –, nella linea di un
teatro politicamente e socialmente
impegnato. C’è stata pure la partecipazione di una vecchia conoscenza, ben nota al pubblico fiumano
che lo ricorda come l’autore di due
importanti lavori, “Turbo Folk” e
“L’Avaro” entrambi allestiti per il
TNC “Ivan de Zajc”. Stiamo parlando del regista croato Oliver
Frljić, il cui lavoro “Papà è in viaggio d’affari”, spettacolo dell’Atelje
212 di Belgrado, ha aperto la kermesse dedicata al teatro da camera. Lo spettacolo, che si basa sullo
scenario filmico di Abdulah Sidran,
da cui Emir Kusturica realizzò nel
1985 l’omonimo film di successo,
affronta la problematica totalitaristica dell’ex Jugoslavia che annientava le vite delle semplici persone.
E rispecchia pienamente il tema
guida che accomuna gli spettacoli
del Festival, scelto dalla selezionatrice Željka Turčinović, sull’alienazione della famiglia oppressa dagli
imperativi sociali e politici. Il Festival ha visto poi un’altra sua produzione, ossia “Odio la verità!”,
allestito dal teatro zagabrese ITD.
Per l’occasione abbiamo raggiunto
il regista Oliver Frljić, attualmente impegnato a Belgrado per l’allestimento del suo progetto d’autore
che verte attorno all’assassinio, nel
2003, del primo ministro della Repubblica di Serbia, Zoran Đinđić.
Abbiamo discusso con Frljić della
posizione che ha assunto nella scena teatrale croata, tanto da diventare una vera e propria star costantemente ingaggiata, per finire poi il
discorso, inevitabilmente, sulla politica. Ecco che cosa ci ha raccontato.
La scena teatrale della Croazia e quella più ampia della regione, è letteralmente invasa da suoi
lavori. Come commenta questa
tendenza?
“È certamente un orientamento
che mi compiace, perché ho la possibilità di creare non solo in Cro-
azia ma anche in Bosnia e Serbia.
Devo precisare che per parecchio
tempo sono stato rifiutato dalla
scena teatrale croata. Ero considerato il brutto anatroccolo del teatro
che ora si trasforma lentamente in
un cigno. La cosa che più mi appaga è di poter creare in continuazione e di avere la possibilità di fare
quello che voglio io. Riesco a presentare la propria filosofia artistica
in diverse istituzioni che tradizionalmente non approvano tale approccio per l’arte e la messa in scena teatrale. E dopo parecchio tempo che insisto su tale orientamento
iniziano ad arrivare i primi risultati con approvazioni, premi, riconoscimenti e nuovi ingaggi”.
Il Festival internazionale della Piccole scene ha avuto ben due
suoi spettacoli in programma:
“Papà è in viaggio d’affari”, produzione dell’Atelje 212 di Belgrado che ha aperto la rassegna
e “Odio la verità!”, allestito dal
teatro zagabrese ITD. Quest’ultimo possiede molti elementi autobiografici?
“‘Odio la verità!’ è autobiografico. Ho sempre desiderato occuparmi della mia infanzia. A soli sedici
anni me ne andai di casa lasciando
i miei genitori. Ho voluto affrontare il tema perché esistono diversi traumi e problemi irrisolti che ho
raccolto in questo periodo. È la storia della mia famiglia nella cornice
dell’ex Jugoslavia, a Travnik, ambiente dove il socialismo non permetteva alcuna distinzione, nemmeno tra matrimoni misti, dove, di
fronte allo stato, tutti dovevamo essere della stessa nazionalità e ideologia. Per questo motivo la mia famiglia, etnicamente diversa, subì
una rottura, anticipando gli eventi
tragici di molte altre famiglie, avvenuti all’inizio degli anni ’90. Mio
padre si dichiarava croato, mia madre perse invece il lavoro a causa
della propria etnia. Il teatro è per
me il luogo ideale per affrontare
tutte queste ferite. In questo modo
sono riuscito a ricostruire un periodo della mia esistenza che ha avuto delle forti ripercussioni nella mia
vita privata”.
Il suo teatro è spesso meta di
accese critiche a causa dei contenuti espliciti che utilizza nella regia e in aggiunta al testo originale. Le viene rimproverato il suo
largo utilizzo di scene e riferimenti di sesso estremo, imprecazioni, insulti, isterismi. La critica
sostiene che tali espedienti non
hanno posto in teatro?
“Rimango costernato da questi giudizi e penso a quelli che mi
criticano come a delle persone che
non praticano il sesso e che non bestemmiano mai. In realtà tutti loro
sono carichi di falsi moralismi. I
fatti nell’arte teatrale vanno detti come stanno. Il teatro non è una
sfera di cristallo in cui accadano
solamente cose piacevoli, bensì è
il luogo dove occorre confrontare
gli spettatori con la realtà cruda e
amara che ci circonda, con i problemi che affliggono la nostra società,
con l’ingordigia delle cose e i falsi valori che rappresentano il male
moderno e che dobbiamo contrastare. È il mio modo di fare teatro
e intendo continuare con questa filosofia dove è possibile attuarla.
Devo dire che i miei recenti lavori, come ‘Papà è in viaggio d’affari’ e ‘Tutto passa’ non hanno questa
impostazione che urta i moralismi
della piccola borghesia. Li invito a
vedere questi spettacoli”.
A Fiume ha realizzato due suoi
importanti allestimenti: “Turbo
Folk” e “L’Avaro”. In quest’ultimo, che aveva come luogo di
svolgimento il cantiere navale “3.
Maj”, la sola introduzione era
composta dai video notiziari che
parlavano delle dimissioni dell’allora premier croato, Ivo Sanader.
In altre parole lei è stato tra i primi a denunciare le sue malefatte.
Come ha reagito al suo arresto?
“Me l’aspettavo. Però sono
dell’avviso che l’intero attuale processo che lo vede imputato per malversazioni sia una semplice farsa.
Con ciò non si risolverà nulla. Sanader è solamente la punta dell’iceberg. Il problema è che tutta la struttura politica che allora guidava il
Paese era profondamente corrotta.”
Gianfranco Miksa
6 palcoscenico
Martedì, 5 giugno 2012
Irresistibile San Pietroburgo
IL GIRO DEL MONDO IN 80 TEATRI
Irresistibile San Pietroburgo
di Cierre
Il Teatro Aleksandrinskij, sito nella piazza Ostrovskij, fu
fondato per decreto dell’imperatrice Elisabetta (figlia di Pietro il
Grande e di Caterina I di Russia), su progetto di Carlo Rossi. La
sua nascita è datata 1832. Vi si rappresentano spettacoli di autori
classici russi e stranieri.
Il Teatro Maly - Teatro d’Europa è conosciuto anche
come Teatro Dodin, dal nome di Lev Abramovič Dodin, suo
massimo mentore. Sorge in via Rubenstein, nelle immediate
vicinanze della Prospettiva Nevskij.
Nato nel 1944 nella vecchia Leningrado, conobbe un periodo iniziale di attività minima, dovuta al fatto che, in quegli
anni, i teatri della città vennero boicottati dalla partecipazione
dell’Unione Sovietica alla seconda guerra mondiale.
Il teatro inizialmente operò senza sede fissa, producendo
spettacoli che venivano rappresentati nella regione di Leningrado da una piccola troupe. Dagli anni Settanta del ventesimo secolo un enorme successo investì le produzioni del Maly,
portando quest’ultimo in tournée in molti paesi europei ed
extraeuropei, divenendo simbolo di una rinata arte drammatica russa.
Nel 1998, in seguito dei numerosi riconoscimenti in campo artistico, il Maly ottenne il nome di Teatro d’Europa, entrando a far parte dell’Unione dei Teatri d’Europa, voluta dal
regista teatrale italiano Giorgio Strehler.
Il Conservatorio di San
Pietroburgo è una prestigiosa
scuola di musica russa ed balletto. Il nome completo è Conservatorio statale di San Pietroburgo Rimskij-Korsakov.
Precedentemente noto come
Conservatorio di Pietrogrado
e Conservatorio di Leningrado, venne fondato nel 1861 dal
grande pianista e compositore russo Anton Grigorevič Rubinstein, che lo diresse sino al
1867, anno in cui gli succedette
il teorico e compositore Nikolai
Zaremba.
Nel 1944 è stato intitolato al
grande compositore russo Nikolaj Rimskij-Korsakov, che vi
insegnò dal 1871 al 1905 composizione e orchestrazione.
L’edificio sorge dove un
tempo si trovava il Teatro
Bol’šoj Kamennyj, e ancora
oggi mantiene una grande scalinata d’ingresso di quello storico edificio. Il Teatro Bol’šoj
Kamennyj venne costruito nel
1783 su progetto di Antonio Rinaldi, in stile neoclassico. Realizzato in pietra, venne ricostruito nel 1802 da Jean-François
Thomas de Thomon ed ancora
nel 1818, dopo un incendio. Nel
1836 venne ristrutturato per poter accogliere le moderne macchine di scena.
Fino al 1886 ospitò le compagnie del Balletto imperiale e
dell’Opera imperiale. In questo teatro ebbero la prima ese-
Il Conservatorio
cuzione opere come “Una vita
per lo Zar”, di Glinka (29 novembre 1836) e “Ruslan e Ludmilla” (9 dicembre 1842). Molti balletti con le coreografie di
Marius Petipa, Jules Perrot e
Arthur Saint-Léon vennero rappresentati in questo teatro, ma a
partire dal 1860, dopo l’apertura del Mariinskij qui vi vennero traslocati il Teatro imperiale d’opera e nel 1886 anche gli
spettacoli di balletto. Il Teatro
Bol’šoj Kamennyj venne quindi demolito per lasciare posto
al Conservatorio Rimskij-Korsakov.
Il Conservatorio annovera
tra i suoi allievi e docenti alcune tra le più insigni personalità della musica russa della fine
del XIX e del XX secolo: Nikolaj Rimskij-Korsakov, Aleksandr Glazunov,
Pëtr Il’ič Čajkovskij, Sergej
Prokof’ev, Dmitrij Šostakovič,
Nikolaj Mjaskovskij,Vladimir
Sofronitsky, Mstislav Rostropovich, Maria Yudina, Grigory
Sokolov, Mischa Maisky, Valery Gergiev, Anatolij Vasil’evič
Ivanov, Valerij Viktorovič
Želobinskij, Jurij Khanon, Heino Eller.
Bol’šoj Kamennyj
Il Teatro Mariinskij deve il suo nome alla principessa Maria
Aleksandrovna. In epoca sovietica è stato ribattezzato Teatro Kirov, in onore di Sergej Kirov ed è stato conosciuto anche con il
nome di Accademia Nazionale dell’Opera e del Balletto. In epoca
zarista era il Teatro Imperiale di San Pietroburgo.
Vi si rappresentano opere e balletti, in particolare dalla compagnia di ballo Mariinsky Ballet.
Il teatro è stato progettato da Alberto Cavos e aprì le porte nel
1859, in sostituzione del teatro Circus, che sorgeva nello stesso
luogo, distrutto da un incendio.
Nel 1885 l’edificio subì un intervento per mano dell’architetto Viktor Schröter, volto ad ampliare gli spazi esistenti. L’edificio
ebbe così una nuova ala, a tre piani, adibita a laboratori teatrali e a
sale prove e impianti logistici (impianto elettrico e di riscaldamento). Nove anni dopo, sempre sotto la direzione di Viktor Schröter,
vennero sostituite le travi in legno e ampliato il foyer e le ali laterali.
Al Mariinskij hanno avuto la prima le più importanti opere russe., come ad esempio “Boris Godunov” di M. P. Musorgskij, “La
Bella addormentata”, “Lo schiaccianoci” e “Il lago dei cigni” di
Tchaikovsky. Anche “La forza del destino”, di Giuseppe Verdi vi
ebbe la prima assoluta il 10 novembre 1862.
palcoscenico 7
Martedì, 5 giugno 2012
Ten Chi, immersione nell’inconscio
TEATRODANZA
Ten Chi, immersione nell’inconscio
di Christian Eccher
U
na coda di balena si erge
sulla sinistra del palco. A
destra compare invece la
schiena del cetaceo; il resto del
corpo è immerso, invisibile, nascosto dal pavimento nero che ricopre il palcoscenico su cui una
ballerina minuta, vestita di giallo,
azzarda una timida e intima danza. Le dita scendono velocemente
lungo il braccio, le falde della veste accompagnano armonicamente i movimenti del corpo. Comincia così “Ten chi” – uno spettacolo
che Pina Bausch ideò nel 2004 e
che è andato in scena nuovamente la scorsa settimana al Teatro
dell’Opera di Wuppertal – ispirato
al Giappone e alla sua cultura.
In un mare di ghiaccio
Il palcoscenico ricorda il mare,
un mare notturno forse di ghiaccio che ha raggelato il gigantesco
mammifero. Il mare è anche una
metafora dell’inconscio, da cui
emerge solo una parte della nostra
personalità, mentre le forze più intime che ci spingono a pensare, ad
agire e che formano il nostro “io”
rimangono in profondità. La ballerina continua a danzare anche
quando la musica, diafana e malinconica, svanisce. Balla ancora
per qualche interminabile minuto
e poi entra in scena una donna che
porta con sé una sedia. Appoggia
la pancia sullo schienale, si piega afferrando le gambe della sedia
con le mani e alza i piedi al cielo:
solo allora lo spettatore si accorge
che la ragazza indossa un paio di
pinne e che i suoi movimenti mimano un’immersione. Improvvisamente il senso della scenografia
messa a punto da Peter Pabst appare chiaro: Pina Bausch e il suo
Teatro-danza ci invitano a percorrere un viaggio nell’inconscio e
nelle pulsioni umane più recondite. I ballerini e gli spettatori tornano improvvisamente a essere bambini, le distanze fra le culture vengono annullate, a muovere l’essere
umano è sempre e solo la ricerca
d’amore, in Europa come in Giappone. Una donna entra in scena
con un vestito nero la cui gonna
è composta da numerosi veli leggeri. Attraversa il palco, arriva
all’estremità destra, prende un telefono, lo infila in una busta e cerca di portarlo con sé, ma il filo è
troppo corto e così è costretta a lasciare la busta con all’interno l’apparecchio proprio al centro del palco. Arriva un attore, la donna ammiccante strappa un velo del vestito e lo porge all’uomo, che con
furia comincia a tirare e a strappare le trine della gonna, che si ri-
vela essere composta da un’infinità di veli. “Slowly”, dice la donna
all’uomo, che al termine della scena rimane prigioniero degli stessi
veli, proprio come un pesce nella
rete del pescatore. La donna scappa via, entra in scena un distinto
signore a piedi scalzi e con le scarpe in mano che si avvicina al pubblico e si rivolge a coloro che sono
seduti in prima fila: “Können Sie
schlafen?”, “Lei può dormire?”, e
imita il russare calmo e tranquillo
di chi dorme profondamente. Un
ulteriore invito a lasciare il mondo
della coscienza e a tuffarsi nelle
profondità abissali dell’inconscio.
Non mancano poi continui riferimenti al paese che ha ispirato lo
spettacolo, il Giappone appunto:
un uomo vestito da donna balla da
solo, lentamente, muovendo soltanto le braccia; è il ricordo di un
tempo lontano in cui in Giappone,
a teatro, i ruoli femminili erano interpretati esclusivamente da uomini. Lo spettatore si rilassa, le scene
recitate sono divertenti e si alternano a balli mozzafiato: un’attrice,
Mechthild Grossmann, interviene
di tanto in tanto e si rivolge direttamente al pubblico: paragona il
maschio a un frigorifero: pieno di
vino sopra e completamente congelato sotto. Una coppia di uomini
danza vicino alla coda della balena
quando due ballerini entrano sollevando lievemente da terra una
ragazza. Corrono in circolo, la ragazza sfiora con la punta delle dita
dei piedi la superficie del palco che
sembra davvero essere di ghiaccio. A quel punto comincia a cadere dall’alto una quantità enorme di
coriandoli bianchi, che visti dalla
platea sembrano neve o una pioggia di fiori di ciliegio; quest’albero, che in giapponese si chiama sakura, riempie i parchi delle principali città nipponiche. In tempo di
fioritura, le brezze oceaniche che
a sera accarezzano Tokyo, Kyoto
e gli altri centri dell’arcipelago,
provocano piogge di petali in tutto
e per tutto simili a quella che imbianca il palco dell’Opera di Wuppertal. A primavera, i giapponesi si
riuniscono nei parchi per fare harari, per guardare cioè la fioritura;
i fiori che cadono al suolo ricordano il tempo che passa e infondono in chi li guarda una grande
malinconia. Lo sforzo della ricerca d’amore, del continuo contatto
con l’altro che i ballerini inscenano sul palco di Wuppertal, deriva
anche e soprattutto dall’angoscia
esistenziale che c’è in ognuno di
noi e che è legata al passare degli
anni, all’invecchiamento, alla paura di assistere da soli all’inesorabile scorrere della vita.
Solo la vita
Le immagini che Pina Bausch
crea sono fresche e leggere: una
donna entra in scena agitando rapidamente le falde della propria gonna e racconta di come era emozionata quando si è trovata accanto al
suo lui al cinema. Un’altra stende una pelliccia sulla schiena di un
uomo che si trova a terra carponi, si
siede sopra di lui, lo cavalca e dice:
“Lui è il mio orso!”, una ragazza
mostra al pubblico una campanella
e sostiene che quando la si suona si
sente la brezza. Nello stesso tempo,
un attore infila la propria testa sotto
la gonna di una ballerina seduta su
uno sgabello e comincia a respirare profondamente: la gonna si gonfia e si sgonfia come un polmone e
la donna sembra provare un sollievo immenso. L’aria, il vento sono
una perfetta allegoria delle pulsioni
vitali, dell’es che prende il sopravvento sul super-io, della vita pura
e nuda che dimentica ogni costruzione sociale, ogni dolore esistenziale e semplicemente vive. Non
a caso “Ten chi” in giapponese significa proprio “Cielo e terra”. Pina
Bausch riesce, tramite il suo teatrodanza, a rappresentare la vita umana, e per far ciò non utilizza impalcature filosofiche, si serve soltanto
dei corpi dei suoi ballerini: il linguaggio del corpo, infatti, ha un che
di immediato, è comunicazione diretta, che non ricorre – come la lingua – a significanti (i fonemi) che
a loro volta mediano dei significati (il senso della parola). La parola non rappresenta icasticamente la
realtà, la media, la trasforma in fonema e il fonema a sua volta porta
con sé un significato. Dato però che
quel significato è mediato, la parola lascia nei nostri discorsi sempre un alone di non detto. Quante
volte vorremmo esprimere a parole i nostri sentimenti più profondi e
non ci riusciamo, i vocaboli non ci
sembrano sufficienti. Pina Bausch
ha risolto la crisi del ‘900, che è soprattutto crisi linguistica: ha infatti strutturato i significanti insiti nel
nostro corpo e legati al linguaggio
prossenico – cioè a quello dei gesti, che sono per lo più universali
– in un nuovo sistema linguistico,
quello della danza: l’arte torna così
a comunicare. Senza frontiere, confini nazionali e nazionalismi. Nella
danza significante e significato corrispondono perfettamente e non ci
possono essere fraintendimenti. Il
processo che ha portato il Teatrodanza di Wuppertal a questo risultato è stato lento e faticoso e non ha
coinvolto solo Pina Bausch, ma ciascun ballerino, che ha dovuto scandagliare il proprio io, confrontarsi
con quello dei colleghi (tutti provenienti da paesi differenti) e tradurre i risultati di questa ricerca in movimenti. Pina Bausch ha coordinato
questo lavoro e ha armonizzato lo
sforzo dei singoli ballerini in coreografie che compendiassero le peculiarità di ciascuno di essi. Il risultato
rasenta la perfezione e “Ten chi” ne
è una testimonianza.
C’è una nuova stella,
lo sai?
Dopo la pausa, durante le quale i
fiori di ciliegio non hanno mai smesso di cadere sul mare ghiacciato, la
ragazza minuta vestita di giallo rientra in scena. Balla allegramente, saltellando, i capelli toccano spesso il
suolo e spazzano i mille coriandoli
che si sono depositati a terra. Ogni
parte del corpo è coinvolta nel ballo,
non solo le gambe e le braccia. Una
giovane giapponese compare sul
palco, porta con sé una sedia su cui
fa accomodare la donna minuta. Con
estrema pazienza, cerca di insegnarle il saluto nipponico, che richiede
estrema compostezza, ma la ragazza riesce a imitare le pose solo per
qualche secondo, poi non può fare a
meno di riprendere la sua danza allegra e scoppiettante. Sempre la giapponese costringe un uomo a indossare un chimono, gli porge una scopa, una paletta e lo costringe a pulire
per terra, mentre lo fotografa allegramente. Mechthild Grossmann rientra in scena vestita da gran dama,
il volto coperto da un enorme cappello: cerca di fermare i passanti,
chiede loro se sanno che gli astronomi hanno scoperto una nuova stella,
asserisce che l’uomo è infinitamente piccolo e l’universo immenso, ma
nessuno le dà retta. La stessa Grossmann aveva giocato poco prima
con i fonemi di alcune parole giapponesi, scandendo ogni sillaba, quasi a far risaltare la materialità della
parola: “Ki-mo-no”, “Kara-Kiri”,
“Sa-mu-rai”. Il pubblico ride, ma
quello dell’attrice è un serio invito
a conferire un nuovo significato alle
parole che vengono pronunciate.
Lo spettacolo procede calmo,
i ballerini si alternano sulla scena
e gli spettatori si divertono, fino a
quando la Grossmann ricompare e asserisce, sconfortata e nervosa, che la primavera è giunta nuovamente, che lei l’ha attesa a lungo
come ogni anno ma che tutto ciò è
assolutamente inutile e insignificante. Non spiega però il perché; lascia
il palco sconsolata e se ne va sbattendo rabbiosamente la porta di ingresso della platea. Da questo momento anche i movimenti dei ballerini cambiano e la calma che aveva
contrassegnato l’intero spettacolo
scompare: comincia la perdizione. I
danzatori entrano in scena tutti insieme, urlano, gli uomini hanno indosso molte cravatte non annodate, i petali di ciliegio hanno ormai
completamente ricoperto il palco. Il
tempo non lascia speranze, il bisogno d’amore rimane non realizzato, nonostante i numerosi sforzi che
i ballerini hanno messo in atto per
comunicare fra loro e con il pubblico. La vita non conclude e l’amore,
la felicità sono accidente. I ballerini
danzano adesso in assolo, freneticamente, dandosi continuamente il
cambio, accompagnati da una musica convulsa; nei loro movimenti c’è un che di disperato ma anche
un’estrema volontà di resistenza.
La delusione, l’angoscia esistenziale non devono lasciare il posto alla
rassegnazione. “Ma dobbiamo continuare/come se/non avesse senso
pensare/che s’appassisca il mare”,
dice il poeta Elio Pagliarani al termine del suo romanzo in versi intitolato “La ballata di Rudi”.
A concludere lo spettacolo è
Azusa Seyama, la danzatrice giapponese, vestita di bianco, in un ultimo assolo che mozza il fiato agli
spettatori e che ancora una volta
coinvolge non solo il corpo della
ballerina, ma anche la veste e i coriandoli che vorticano intorno a lei.
La luce si fa più intensa, accecante,
fa brillare i petali dei fiori di ciliegio
e accentua i movimenti della donna,
finché lentamente si spegne e la sala
rimane al buio. Sulla retina di chi
guarda rimane per qualche secondo
impressa l’immagine di Azusa che,
nell’animo di chi ha avuto la fortuna di ammirarla, non smetterà mai di
danzare.
8 palcoscenico
Martedì, 5 giugno 2012
CARNET PALCOSCENICO rubriche a cura di Carla Rotta
TEATRO Il cartellone del mese
IN CROAZIA
Teatro Nazionale Ivan de Zajc - Fiume
Notti estive fiumane
19 giugno ore 21.30 - Molo
Carolina Fiumana
Inaugurazione delle Notti
fiumane 2012
DO DO LAND spettacolo
aereo con il Grupo Puja! (Spagna/Argentina)
20 giugno ore 21.30 Estivo
di Abbazia
Il violinista sul tetto di Jerry Bock. Regia Ozren Prohić.
Libretto Joseph Stein su storie
di Sh. Aleichem. Testi Sheldon
Harnick
27, 28 e 29 giugno ore 21.30
- via Šime Ljubić (trattoria “La
Grotta“)
Mirandolina di Carlo Goldoni. Regia Jug Radivojević
IN ITALIA
Politeama Rossetti - Trieste
Ciclo: Eventi speciali
19 giugno ore 20
”Evergreen per Trieste” –
Concerto della Evergreen Symphony Orchestra
Teatro lirico Giuseppe Verdi - Trieste
28 giugno ore 21.30 - Parco
di Ville Ružić
Anch’io a volte scrivo in
jazz di e con Laura Machig –
Darko Jurković
29 giugno ore 21.30 - Parco
di Villa Ružić
Concerto con il New Sax
Quartet (Nikola Fabijanić, Gordan Tudor, Goran Jurković e Tomislav Žužak
Teatro cittadino - Pola
14 giugno ore 20
Mistero Buffo I di Dario Fo.
Interprete Valter Roša
15 giugno ore 20
Mistero Buffo II di Dario Fo.
Interprete Valter Roša
14, 19, 21 e 23 giugno ore 20.30; 16 giugno ore 17; 17 giugno
ore 16
La vedova allegra di
Franz Lehar. Regia Federco Tiezzi. Interpreti
Valeria Esposito,
Alessandro Safina,
Alida Berti, Marco Frusoni, Marcello Lippi,
Gennaro Cannavacciuolo,
Dario Giorgelè, Andrea Binetti, Alessandro
De Angelis, Anna Bordignon, Stefano Consolini, Miriam Artiaco, Federico Benetti, Marzia
Postogna
La Contrada - Trieste
16 giugno ore 20
Mistero Buffo III di Dario
Fo. Interprete Valter Roša
Stagione conclusa
20 - 27 giugno
XVII Festival internazionale
del teatro dei giovani
IN SLOVENIA
Teatro cittadino - Capodistria
5 giugno ore 20
Butalci da Fran Milčinski.
Regia Jaka Ivanc. Interpreti
Mojca Fatur, Jaša Jamnik, Rok
Matek, Igor Štamulak, Ajda
Toman, Gorazd Žilavec
12 giugno ore 20
Due di Jim Cartwright. Interpreti: Sandra Boršič, Mikela Veren, Tomaž Boškin, Blaž Popovski, Goran Dokič
13 giugno ore 20
Serata con Tadej Toš
Anno VIII / n. 65 del 5 giugno 2012
“LA VOCE DEL POPOLO” - Caporedattore responsabile: Errol Superina
IN PIÙ Supplementi a cura di Errol Superina
Progetto editoriale di Silvio Forza / Art director: Daria Vlahov Horvat
edizione: PALCOSCENICO
Redattore esecutivo: Carla Rotta / Impaginazione: Denis Host-Silvani
Collaboratori: Christian Eccher, Gianfranco Miksa, Rossana Poletti
Foto: Internet