LA VOCE DEL POPOLO ce vo /la .hr dit w.e ww palcoscenico An no VIII • n. Sipario 2 201 o n 65 • Martedì, 5 giug UN CAFFÈ CON... Adriano Giraldi Pagine 2 - 3 / RECENSIONI Joseph and the Amazing Technicolor Dreamcoat Pagina 4 / RASSEGNA Festival delle Piccole scene Pagina 5 / IL GIRO DEL MONDO IN 80 TEATRI Irresistibile San Pietroburgo Pagina 6 / TEATRODANZA Ten chi Pagina 7 / CARNET PALCOSCENICO Il cartellone del mese Pagina 8 UN CAFFÈ CON... Martedì, 5 giugno 2012 Adriano Giraldi 2 palcoscenico Adriano Giraldi di Rossana Poletti T riestino, si forma alla Scuola del Piccolo Teatro di Milano e debutta nel 1981 con la compagnia del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia in “Karl Valentin kabarett” per la regia di Giorgio Pressburger. In seguito lavora al Teatro di Roma con Luigi Squarzina (“Il cardinale Lambertini” di Testoni e “Timone d’Atene” di Shakespeare); all’Olimpico di Vicenza con Sandro Sequi (“I pettegolezzi delle donne”); a Bologna con Leo De Berardinis (“Amleto”, nel ruolo di Laerte); a San Miniato con Krzystof Zanussi (Giobbe, con Ugo Pagliai e Paola Gassman). Nuovamente allo Stabile del Friuli Venezia Giulia recita in “Attraverso i villaggi” di Handke, e in “Baal” di Brecht, per la regia di Roberto Guicciardini. ParTrieste e Italo Svevo, e anche James Joyce. Hai un legame particolare con questi autori? Di Svevo ho fatto una decina di spettacoli, dal 1998 al 2007. Devo la scoperta dello Svevo teatrale a Elena Vitas, che purtroppo ci ha lasciato prematuramente. Lei mi ha fatto scoprire le sua potenzialità; avevo già visto “La coscienza di Zeno”, “Le cugine”, “Rigenerazione”, però non avevo mai colto la grandezza di Svevo come dram- tecipa inoltre a diversi spettacoli diretti da Giuseppe Patroni Griffi, Gabriele Lavia, Franco Però e Sandro Bolchi. Nel 1986 inizia a collaborare con La Contrada, partecipando a quasi tutti gli allestimenti dello Stabile privato triestino sotto la direzione di Francesco Macedonio, Antonio Calenda, Mario Licalsi, Patrick Rossi Gastaldi, Tonino Pulci e altri. Nell’estate del 2001 è al fianco di Ariella Reggio al Todi Festival in “Ballando con Cecilia” di Pino Roveredo, con la regia di Macedonio. Nelle ultime stagioni con La Contrada ha preso parte a “Un nido di memorie” di Tullio Kezich e a “I rusteghi” di Goldoni per la regia di Francesco Macedonio, a “Piccole donne: il musical!” di Pulci e Marcucci, a “Io e Annie” di Wo- Abbiamo fatto uno spettacolo itinerante in cui si percorrevano, proprio in “pellegrinaggio”, questi luoghi ed enumeravamo le osterie e le case di tolleranza da loro frequentate: “Gli Ulissidi” in cui Svevo si confrontava con Joyce, ed eravamo io e Maurizio Zacchigna ad impersonarli, accompagnati dalla fisarmonica di Carlo Moser. Tutti i grandi compositori e artisti sono passati per l’Osteria “Al Papagal”, si sono scritte can- Se non conosci bene quello che ti sta vicino è molto difficile poi andare lontano. Se non approfondisci la tua storia, le tue tradizioni e il tuo dna, sarà molto difficile poi capire quello che scrive uno, che magari sta a cinquemila chilometri di distanza maturgo. In effetti è stato misconosciuto da questo punto di vista. La sua scrittura sottile e profonda e la sua forte ironia lo rendono modernissimo. Riesce a farti ridere anche nelle situazioni più drammatiche. Elena mi aveva indicato tutto ciò: la sua capacità di essere contemporaneo. Ancora oggi molti pensano che Svevo sia noioso, mentre tutti gli spettacoli che ho fatto avevano una componente comica importante, basta saperla valorizzare. Il suo linguaggio è indubbiamente difficile da portare in scena, ma per me è stata un’esperienza che non intendo mollare. È un percorso che si è interrotto? Scelte di politica culturale. Magari adesso ci sarebbe l’interesse a riprendere quel cammino, ma purtroppo oggi dobbiamo fare i conti con la crisi finanziaria e non ci sono soldi per farlo. A volte basta solo la buona volontà per fare qualcosa, indipendentemente dalla scarsità di risorse; ci sono ancora spettacoli di Svevo che non sono stati allestiti, ad esempio “Le teorie del Conte Alberto” o “Il ladro in casa”. Non credo ce ne siano tanti altri. Siamo uno dei pochi teatri in Italia (ndr La Contrada) che ha fatto quasi tutti i suoi titoli. E poi c’è stato Joyce. Avete realizzato tutti questi spettacoli negli spazi di piazza Hortis, della città vecchia, che sono stati i luoghi della vita anche più intima di questi personaggi e dei tanti artisti triestini e stranieri che hanno soggiornato in città. zoni, poesie, operette e probabilmente grandi tele sono state concepite in luoghi della cosiddetta perdizione: alcol e donne. È una parte della storia cittadina di cui magari qualcuno non vorrebbe che si scrivesse, ma che sono stati ambiti vitali e insostituibili per questi personaggi. Nel mondo dell’accademia e dell’erudizione si tende ad idealizzare queste figure e a nasconderne gli aspetti umani, che però sono inscindibili dall’autore, da chi scrive. Lo stesso Joyce non avrebbe potuto regalarci Nausicaa, uno dei capitoli più belli dell’Ulisse, se non avesse frequentato assiduamente i bordelli. E la stessa conoscenza del femminile di Svevo. La cultura non si fa solamente dentro alle biblioteche, ma anche in mezzo alla vita delle persone. Le figure femminili di Svevo sono donne popolari, libere, forti, da cui proviene poi questo immaginario della donna triestina moderna, ancora oggi più emancipata che altrove. Fantastico anche in questo, Svevo. Lesse sicuramente “Casa di bambola” di Ibsen, ne fu sicuramente influenzato ed è anche questo che lo mise alla pari con i più grandi autori del ‘900. I suo personaggi femminili sono più grandi di quelli maschili, che spesso non fanno una bella figura. Mi viene in mente “L’avventura di Maria” o anche “La verità”. Se non guarda alla propria identità chi vive in un determinato posto, chi lo farà? C’è la tendenza a fare tutto e di più, un di più che magari fa già parte ody Allen con la regia di Antonio Salines, a “I ragazzi irresistibili” di Neil Simon, accanto a Johnny Dorelli e Antonio Salines, e a “Il divo Garry” di Noël Coward con Gianfranco Jannuzzo e Daniela Poggi, entrambi diretti da Macedonio. Ha inoltre partecipato all’allestimento di “Alcesti” da Euripide, Rilke e Savinio, con Mariangela D’Abbraccio per la regia di Ulderico Manani; di “Vera Verk” di Fulvio Tomizza, regia di Elia Dal Maso; di “La battaglia di Arminio” di H. Von Kleist, regia di Salines. Dopo aver recitato negli ultimi spettacoli dialettali di inizio stagione, “Vola colomba”, “Tramachi” e “Remitùr”, prende parte a “Italiani si nasce”, accanto a Maurizio Micheli e Tullio Solenghi, con i quali teatralmente di un circuito e di una globalizzazione, che sta rendendo tutto il teatro uguale e anche sempre più povero culturalmente. Se non conosci bene quello che ti sta vicino è molto difficile poi andare lontano. Se non approfondisci la tua storia, le tue tradizioni e il tuo dna, sarà molto difficile poi capire quello che scrive uno, che magari sta a cinquemila chilometri di distanza. Non è detto che tu non possa realizzare teatralmente anche quel testo lì; devi però integrarlo nella tua realtà, lo devi far diventare qualcosa di personale, che ha a che fare con la storia della tua città. Il mio obiettivo è di guardare al contenuto culturale di Trieste, rifuggendo dallo stereotipo di realtà mitteleuropea, che ormai vuol dire un po’ tutto e anche niente, facendo attenzione a quello che rimane attualmente dell’eredità culturale del passato, anche di Svevo nella fattispecie, e proiettare tutto questo su una visione più lontana. Non dimentichiamo che proprio Svevo vedeva e viveva intensamente la realtà di Trieste, ma aveva un grande occhio proiettato su ciò che accadeva nel mondo. Senza lasciare che il futuro ci sfugga, cosa che qui accade più che altrove. Infatti corriamo il rischio di rimanere ancorati ad un passato che non corrisponde alla realtà che stiamo vivendo. Nel mondo musicale c’è chi ha colto la grande passione per l’operetta, musica colta ed anima popolare, e l’ha traghettata verso gusti nuovi come il musical, facendo diventare la città un punto di riferimento europeo per il genere, portando a teatro le nuove generazioni, creando nuovi artisti. Sembra che nella prosa questo non sia possibile. Manca l’idea di un’appartenenza da traghettare nel futuro in una sfera identitaria specifica? C’è bisogno di linfa nuova e anche di interpreti e autori nuovi. Partendo dalla lezione dei grandi che avevano respiro internazionale e di quelli che ancora ce l’hanno, penso a Magris e Pahor; ci vorrebbe una frizione, un volano che faccia ruotare attorno ad essi riflessione e volontà di produrre cose nuove. Si dice che dalle grandi crisi nascano le grandi intuizioni. La crisi dell’occidente, più che finanziaria è una grande crisi culturale e di identità. Avremo la capacità di trovare una nuova strada? ha appena concluso la tournée dell’ultima produzione della Contrada “L’apparenza inganna”. Sempre per la Contrada è stato direttamente coinvolto nell’organizzazione di progetti teatrali legati alla realtà culturale triestina, come ad esempio le rassegne estive dedicate all’allestimento di spettacoli ed eventi urbani legati alle figure di Italo Svevo e James Joyce. In tale ambito è fra i protagonisti di “Terzetto spezzato”, “Gli Ulissidi”, “La verità”, “La rigenerazione”, “L’avventura di Maria”, “Atto unico”, “Un Marito”, “Le ire di Giuliano” e “Inferiorità”, diretto di volta in volta da Elena Vitas, Antonio Salines, Francesco Macedonio, Sabrina Morena e Ulderico Manani. Talenti non mancano: ad esempio Pino Roveredo, Tullio Kezich. Per me è stato un grande piacere partecipare alla trilogia di Kezich in dialetto, una grande scrittura, molto alta. Ma tornando al discorso musicale, io ho un po’ di rimpianto per l’abbandono dell’operetta. Girando l’Italia mi sono accorto che il musical è molto più seguito della prosa, è un fenomeno esploso ovunque. Il festival dell’operetta a Trieste era un qualcosa che connotava fortemente la città. Non lo dico per me che ne ho fatto solo una (ndr La principessa della Csardas nel 1997). Il festival fa parte di quelle peculiarità a cui non attaccarsi disperatamente, ma al teatro dei Fabbri. Che cosa te l’ha fatto scegliere? Un caso, me lo commissionò in forma di lettura nel 2010 il Comune di Trieste per la manifestazione estiva “Musei di sera”. Io sono allergico ai monologhi, mi sento solo, se posso li evito, ho resistenze anche ad andare a vedere un grande attore che ne affronta uno. A teatro mi piace lo scontro, la relazione, lo scambio. Per fortuna ho trovato un alter ego che è Giovanni Maier, bravissimo contrabbassista del Conservatorio di Trieste. Ci siamo lasciati allora con l’intenzione di riprenderci, anche perché lo spettacolo era piaciuto moltissimo al pubblico, ed è piaciuto mol- Il contrabbasso (...) è stato una questione di amore e odio, di repulsa ed attrazione. Ho pensato all’inizio che non avevo niente a che fare con un contrabbassista di fila di un’orchestra di stato. E poi invece mi sono accorto che è un testo che parla all’io profondo, di tutte le aspettative disattese, delle frustrazioni che accompagnano l’arte, delle ingiustizie economiche nella vita... non vedo perché buttarle via. Ricordo anche i festival dedicati alla divulgazione scientifica, al vecchio festival di fantascienza. Una volta che hai spezzato la consuetudine dal punto di vista degli investimenti e delle capacità organizzative è difficile ripartire. Il pubblico si disperde, abbandonare e riprendere non è una buona politica. È la politica responsabile di questi disastri? È questo sistema perverso in cui ci siamo introdotti: chi viene dopo disfa quello che si faceva prima, solo per il fatto che lo facevano altri. Usciremo da questo sistema devastante, da questo tunnel della guerra bifronte? Spero di sì, spero che ad un certo punto prevarrà l’interesse collettivo sull’interesse di parte. I cugini friulani in questo sono più bravi, quando c’è da difendere un progetto che valorizza Udine e il suo territorio, trovano sempre un modo per mettersi d’accordo e realizzare l’idea. Parliamo un po’ del tuo ultimo lavoro, “Il contrabbasso” che hai recentemente presentato to a noi farlo. Non ero solo, avevo l’interlocutore, avevo Giovanni Maier. Parlavi con lui? Interloquiva con me attraverso il contrabbasso. Cosa ti è piaciuto di questo testo? È stato una questione di amore e odio, di repulsa ed attrazione. Ho pensato all’inizio che non avevo niente a che fare con un contrabbassista di fila di un’orchestra di stato. E poi invece mi sono accorto che è un testo che parla all’io profondo, di tutte le aspettative disattese, delle frustrazioni che accompagnano l’arte, delle ingiustizie economiche nella vita, delle sperequazione tra un primo violino e un contrabbasso di fila. In fondo siamo noi. Il contrabbassista dice “all’epoca avrei potuto essere un grande virtuoso” e, se si riflette, nessuno fa l’attore pensando di diventare una comparsa. C’è nel testo un complesso di inferiorità e superiorità esasperato al massimo. Però ci si riconosce a pieno, è bello proprio per questa identificazione. Sai che l’ha fatto qualche anno fa anche Maurizio Miche- palcoscenico 3 Martedì, 5 giugno 2012 li, con cui hai appena finito una tournée? Gli ho detto “mi dai un video dello spettacolo, che mi faccio un’idea”. Ma il video non è mai arrivato, al suo posto mi diede un cd con immagini fotografiche. Meglio così, so che è stata una cosa molto diversa dalla sua. Il tuo “contrabbasso” era più drammatico ed aggressivo, l’interpretazione di Micheli era più ironica. Si coglie così quanto un pubblico abbonato a crescere nel gusto e culturalmente? L’approccio in questo senso deve essere graduale. Negli ultimi anni qualcosa si è fatto in questo senso. Lo spettacolo “L’aberrazione delle stelle fisse” nato ai Fabbri e molto applaudito in quel contesto, è stato messo quest’anno in abbonamento ed è stata un’esperienza premiata dal pubblico che ha gradito. Sul Contrabbasso avrei dubbi proprio per il fatto che è un testo Vorrei lavorare con un nucleo di attori, con i quali ho già condiviso affiatamento, piacere di fare assieme e sintonia; trovare una direzione e una prospettiva artistica che vada al di là della stagionalità, vorrei riuscire a realizzare progetti di più ampio respiro Ovvero, la metafora della vita IL CONTRABBASSO Ovvero, la metafora della vita Trieste. Teatro dei Fabbri (La Contrada). Patrick Süskind è nato nel 1949 ad Ambach, in Baviera. Ha vissuto a Monaco e a Parigi, prima di rifugiarsi in un paesino della Francia sud-occidentale. Divenne famosissimo a metà degli anni ’80 per il suo romanzo “Il profumo”, che divenne un bestseller mondiale, tradotto in più di quaranta lingue. Dal libro nel 2005 fu tratto il film, che però non riuscì ad avere la stessa potenza del racconto. Nonostante la sua fama mondiale Süskind conduce una vita estremamente riservata, concedendo raramente interviste ed evitando di mostrarsi in eventi pubblici, arrivando persino a rifiutare importanti premi letterari tedeschi quali il Gutenberg e il Tukan. Detto così, si potrebbe credere che Süskind sia in parte il personaggio descritto nella sua opera prima, il testo teatrale “Il contrabbasso” del 1981, che nella stagione 1984/85 è stato il più rappresentato nella sua terra natale, con oltre 500 rappresentazioni. Il contrabbasso è la metafora di una vita al limite dell’inutilità e senza dubbio di frustrazione feroce e dilaniante. Anche un uomo mite può diventare terribile se il livello della sopportazione, della solitudine e dell’umiliazione supera ogni limi- te. Quest’uomo mite è un professore, impiegato nell’orchestra di stato tedesca. Suona il contrabbasso. Lo strumento in questione è probabilmente quello meno amato dal pubblico e tra i meno considerati. “Se c’è una cosa inconcepibile è un’orchestra senza contrabbasso. Si può quasi dire che l’orchestra – siamo alla definizione – comincia a esistere soltanto quando c’è un contrabbasso. Ci sono orchestre senza primo violino, senza fiati, senza timpani e trombe, senza tutto. Ma non senza contrabbasso. Quello che voglio stabilire, è che il contrabbasso è di gran lunga lo strumento più importante dell’orchestra. Anche se non sembra”, questo è quello che afferma il nostro omino nel suo monologare, a se stesso prima che agli altri. In fondo però sa che non è così, sa che lo strumento è collocato in fondo all’orchestra dietro a tutto e a tutti, dietro anche alle percussioni, allo stesso modo in cui lui sta nella vita: “questa è mia madre, che ama mio padre, che ama mia sorella e nessuno ama me”. La disperazione c’entra poco con lo strumento, bello o brutto che sia, dal suono gracchiante e inadatto all’assolo, e l’amarezza è frutto di una sua sconfitta nella battaglia con la vita, del fallimento come uomo, che ha trascinato con sé nel fondo il musicista, il compositore, l’innamorato senza speranze della giovane cantante. E la rabbia diventa forte, ma è anche questa un gesto, un momento, un urlo che sfumerà nel silenzio della stanza e della sua triste vita. Adriano Giraldi dà del testo una lettura rabbiosa ed aggressiva, ben sapendo che da solo, nel segreto della sua solitudine, anche un omuncolo può credere di essere un gigante, un incompreso che inveisce contro coloro, Wagner o Mozart, che ce l’hanno fatta, per un moto di profonda e malcelata invidia. Il suo incipit è graduale, dall’autoconvincimento di essere in una condizione ottimale lentamente passa alla ribellione verso il mondo che l’ha relegato in fondo alla scala dei valori, accompagnato dalle note di un contrabbasso, mirabilmente “condotto” da Giovanni Maier, capace di trarre dall’ingombrante strumento a quattro corde basse frequenze cavernose, sibilati sinistri, gracchiamenti sopracuti, ululati, schiocchi, colpi di nocche, che nell’insieme dei suoi non sporadici interventi costituiscono un efficace compagno di palcoscenico per questa storia senza speranza. (rp) da teatro piccolo, mentre abbiamo in programma per l’anno prossimo un testo del catalano Jordi Galceran “Il metodo Gronholm”, una bella scommessa, basato molto sul lavoro dell’attore. Parla dei metodi di selezione del personale, di quella branca della psicologia aziendale che si occupa di questo. Andrà nella stagione in abbonamento, cerchiamo così di uscire da alcuni vecchi contesti. Ero a Roma pochi giorni fa proprio a cercare nuovi testi, idee e contatti buoni per realizzarle. Allora hai alcuni sogni nel cassetto? Vorrei lavorare con un nucleo di attori, con i quali ho già condiviso affiatamento, piacere di fare assieme e sintonia. Mi piacerebbe per far questo trovare una direzione e un prospettiva artistica che vada al di là della stagionalità, vorrei riuscire a realizzare progetti di più ampio respiro. E sappiamo tutti quanto sia difficile oggi. Siamo sul mare e da noi si dice “Già metter i remi in acqua…” Remare è vedere già la riva, l’approdo di un progetto moderno, contemporaneo per questa città che è più colta e più intelligente di quello che appare. FOTO©MAX TESSARIS testo abbia tante sfaccettature che, a seconda di chi lo legge ed interpreta, se ne colgono e approfondisco alcune piuttosto che altre. Io in scena ho Giovanni Maier e un contrabbasso vero. Nel testo originale è previsto che con il contrabbasso si cimenti l’attore stesso, può suonare brevi note con l’archetto anche un profano. Invece qui ho un alter ego. Il protagonista, cioè io, continua a dire che non c’è la possibilità di fare assoli con questo ingombrante strumento e invece Maier ne fa di stupendi. Così è potuta emergere la parte più pazza, ma anche più drammatica del testo. Micheli ha fatto emergere la chiave più comica, il pubblico rideva durante la sua interpretazione. È un genere di teatro per spazi raccolti. Teatro da camera, lo spazio dei Fabbri era perfetto in questo senso. La Contrada ha messo in campo il meglio di sé proprio ai Fabbri ultimamente. Perché non crederci di più in queste produzioni “minori”, che però sono migliori di tante produzioni in abbonamento, aiutando anche il 4 palcos Martedì, 5 giugno 2012 Joseph and the Amazing Technicolor Dreamcoat RECENSIONE Joseph and the Amazing Technicolor Dreamcoat T rieste. Politeama Rossetti. “Joseph and the Amazing Technicolor Dreamcoat” ha chiuso ufficialmente la stagione 2011/12 del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, con una gradita sorpresa: settanta bambini triestini in scena a far da coro ai bravissimi professionisti del cast inglese del grande musical di Andrew Lloyd Webber e Tim Rice. I due colossi mondiali scrissero quest’opera nel 1968, solo cinque anni prima del più famoso “Jesus Christ Superstar”. Possiamo dire però che già in questa storia di Giuseppe e dei suoi fratelli, tratta dalla Genesi, ci sono tutti i presupposti per quello che sarà il successivo capolavoro, dedicato alla figura di Cristo. Webber e Rice frequentavano assieme il college a Londra e assieme produssero un breve saggio di quindici minuti. Il successo fu talmente grande che negli anni successivi dovettero farne una versione più estesa. La prima produzione nel West End di Londra nel 1991, con Jason Donovan nella parte di Joseph, rimase in scena per ben due anni e mezzo. In Italia era già stato allestito dalla compagnia Rockopera, in una versione in italiano, con la partecipazione di Antonello Angiolillo e Rossana Casale. Ora sulla scena del Rossetti sono approdati un gruppo fortissimo di ragazzi inglesi, diretti da Bill Kenwright con le coreografie coloratissime e di amplissima varietà, firmate da Henry Metcalfe, e con una ottima band dal vivo. Come al solito Trieste è l’unica tappa europea del gruppo fuori dal Regno Unito. Tutti immaginano la Bibbia come un’opera morale piena di dolore, tristezza e sofferenza, ma i nostri due eroi sono riusciti a trasformare il tutto in una grande festa musicale. Il divertimento e la freschezza del lavoro è dato da una splendida capacità di mescolare generi e ritmi, affiancandone personaggi in grado di amplificare la nota comica dello spettacolo. È il caso ad esempio dell’uscita del temibile Faraone vestito da Elvis Presley per la sua “Song of the King”, ovviamente nello stile del re del Rock and Roll, che soffiava gli accordi al country e al rhythm and blues. La vicenda infatti viene raccontata utilizzando tutti i generi più noti della musica del ‘900. I fratelli di Giuseppe diventano scatenati cowboy in “One More Angel in Heaven”, numero “country” cantato e ballato in perfetto stile old Texas, mentre per “Those Canaan Days”, di gusto francese, arrivano in scena come seducenti chansonnier. Non mancano in questo contesto le sonorità latino-americane in “Benjamin Calypso”. Per chi non fosse pratico di racconti biblici la storia di Giuseppe è presto detta. Egli è il figlio prediletto di suo padre Giacobbe. Questa preferenza, che si manifesta sotto la forma di una tunica donatagli all’età di 17 anni, alimenta la gelosia dei fratellastri. La gelosia è alimentata anche dai sogni di Giuseppe, visioni nelle quali lui sempre primeggia. I fratelli allora decidono di liberarsi di lui, vendendolo ad una carovana di mercanti ismaeliti di passaggio. Viene condotto schiavo in Egitto. I suoi fratelli utilizzano la tunica e del sangue di capra per far credere al padre Giacobbe che Giuseppe è stato ucciso dai briganti. Arrivato in Egitto viene rivenduto a Potifar, un ufficiale del faraone, di cui diventa l’intendente. Essendo molto abile nel suo lavoro, fa prosperare negli anni le attività del suo padrone e si guadagna la sua stima. Tuttavia la sua posizione cambia completamente quando la moglie di Potifar, incapricciatasi dello schiavo, tenta di sedurlo, senza successo. Per vendicarsi dell’umiliazione subita, la donna accusa Giuseppe di aver tentato di usarle violenza e chiede al marito che il giovane venga punito. Viene rinchiuso in prigione. Ma anche qui i sogni e la sua furbizia lo salveranno quando verrà in soccorso del faraone. Questi favorevolmente impressionato dalla sua saggezza lo libera e gli affida un ruolo di rilievo nella conduzione del Paese. Dopo molti anni di ricchezza e fortuna, arrivano in Egitto i suoi fratelli stremati dalle carestie. Giuseppe li riconosce e per vendicarsi del loro comportamento, li fa incarcerare con un futile pretesto ma poi, verificato il cambiamento positivo che i suoi fratelli hanno avuto nel tempo, egli rivela la sua vera identità. La sorpresa è grande ma la gioia di ritrovare Giuseppe vivo lo è ancora di più. Perdona i suoi fratelli ed invita tutta la famiglia a stabilirsi in Egitto. Grande storia dedicata ai talenti e al perdono, molto utile in tempi di pochi meriti e tanti odi e vendette, che riesce a divertire a teatro come nessuno potrebbe aspettarselo. A smentire il fatto che il musical sia sciocco divertimento, una storia come questa può essere profondamente educativa per i più giovani, senza annoiare come spesso il teatro dei grandi fa. I ragazzi l’hanno capito e hanno invaso il grande teatro triestino con entusiasmo e ammirazione. Rossana Poletti cenico Martedì, 5 giugno 2012 5 RASSEGNA XIX edizione delle Piccole Scene di Fiume «Mio figlio cammina un po’ più lentamente» miglior spettacolo della rassegna «Mio figlio cammina un po’ più lentamente» miglior spettacolo della rassegna FIUME – Con lo spettacolo “In fondo”, allestimento del Vilnius City Theatre della Lituania, diretto da Oskar Korshunovas, è calato il sipario sulla diciannovesima edizione del Festival internazionale delle Piccole scene di Fiume. La giuria, composta da Snježana Banović, Dušanka Stojanović Gild e Damir Orlić, dopo aver esaminato otto allestimenti che componevano il car- tellone della rassegna, ha decretato quale miglior lavoro la produzione del Teatro dei giovani di Zagabria, “Mio figlio cammina un po’ più lentamente”, del talentuoso drammaturgo Ivan Martinić, diretto da Janusz Kica. Il premio “Anđelko Štimac” per la miglior regia è stato assegnato a Boris Liješević per la messa in scena di “La sedia di Elia”, dello Jugo- slovensko dramsko pozorište di Belgrado. I premi per l’interpretazione, che portano tutti il nome di Veljko Maričić, sono stati assegnati nella categoria per la miglior interpretazione maschile ex aequo a Jernej Šugman per il ruolo della Suocera nella commedia “Quando ero morto” dello Slovensko narodno gledališče di Lubiana, e a Svetozar Cvetković per la parte di Richard Richter nello spettacolo “La sedia di Elia”, dello Jugoslovensko dramsko pozorište di Belgrado. Anche il premio per la migliore attrice è stato assegnato secondo il modello della “parità di posizione”, ossia a Ksenija Marinković per l’interpretazione di Mia nel lavoro “Mio figlio cammina un po’ più lentamente”, e a Hana Selimović per il ruolo della Madre nella commedia “Papà è in viaggio d’affari”, produzione dell’Atelje 212 di Belgrado. Quale miglior giovane attrice del Festival, la giuria ha scelto Maja Izetbegović, per la sua interpretazione di Alma Filipović in “La sedia di Elia”, mentre il riconoscimento per la miglior scena è andato a Doris Šarić Kukuljica per il ruolo di Ana nello spettacolo “Mio figlio cammina un po’ più lentamente”. Il premio “Veljko Maričić” per la miglior drammaturgia è stato vin- “Mio figlio cammina un po’ più lentamente” to da Darko Lukić per “La sedia di Elia”, dello Jugoslovensko dramsko pozorište di Belgrado. Il riconoscimento intitolato a Dorian Sokolić per la miglior scenografia è stato assegnato a Slavica Radović Nadarević per lo spettacolo “Mio figlio cammina un po’ più lentamente”, del Teatro dei giovani di Zagabria, mentre il premio “Veljko Maričić” per i migliori costumi è andato a Doris Kristić per “Mio figlio cammina un po’ più lentamente”. Il premio “Velj- ko Maričić” per la miglior musica è stato vinto da Irena Popović, autrice delle musiche di “Papà è in viaggio d’affari”. Il premio speciale “Veljko Maričić” per l’interpretazione collettiva è andato all’ensemble “Odio la verità”, dal teatro zagabrese ITD, diretto da Oliver Frljić. Il premio del pubblico che porta il nome di Dalibor Foretić, con il voto di 4,72 è stato vinto da “La sedia di Elia”, dello Jugoslovensko dramsko pozorište di Belgrado. (gian) INTERVISTA Oliver Frljić, da brutto anatroccolo a cigno del teatro croato Oliver Frljić, da brutto anatroccolo a cigno del teatro croato FIUME – Il Festival internazionale della Piccole Scene è ormai alle spalle. A imporsi come campione della XIX edizione è stata la produzione del Teatro dei giovani di Zagabria, “Mio figlio cammina un po’ più lentamente”, con la drammaturgia di Ivan Martinić e la regia di Janusz Kica. La rappresentazione, che si pone come critica verso la società che ama presentarsi come socialmente aperta e tollerante, si è imposta agli occhi della commissione, ottenendo anche altri premi. Tra cui quello per la miglior interpretazione femminile a Ksenija Marinković e il riconoscimento per la miglior scena andato a Doris Šarić Kukuljica, nonché i premi per la scenografia e i costumi, rispettivamente realizzazioni di Slavica Radović Nadarević e Doris Kristić. La rassegna di quest’anno è stata estremamente ricca, con otto produzioni provenienti da cinque Paesi – Lituania, Polonia, Slovenia, Serbia e Croazia –, nella linea di un teatro politicamente e socialmente impegnato. C’è stata pure la partecipazione di una vecchia conoscenza, ben nota al pubblico fiumano che lo ricorda come l’autore di due importanti lavori, “Turbo Folk” e “L’Avaro” entrambi allestiti per il TNC “Ivan de Zajc”. Stiamo parlando del regista croato Oliver Frljić, il cui lavoro “Papà è in viaggio d’affari”, spettacolo dell’Atelje 212 di Belgrado, ha aperto la kermesse dedicata al teatro da camera. Lo spettacolo, che si basa sullo scenario filmico di Abdulah Sidran, da cui Emir Kusturica realizzò nel 1985 l’omonimo film di successo, affronta la problematica totalitaristica dell’ex Jugoslavia che annientava le vite delle semplici persone. E rispecchia pienamente il tema guida che accomuna gli spettacoli del Festival, scelto dalla selezionatrice Željka Turčinović, sull’alienazione della famiglia oppressa dagli imperativi sociali e politici. Il Festival ha visto poi un’altra sua produzione, ossia “Odio la verità!”, allestito dal teatro zagabrese ITD. Per l’occasione abbiamo raggiunto il regista Oliver Frljić, attualmente impegnato a Belgrado per l’allestimento del suo progetto d’autore che verte attorno all’assassinio, nel 2003, del primo ministro della Repubblica di Serbia, Zoran Đinđić. Abbiamo discusso con Frljić della posizione che ha assunto nella scena teatrale croata, tanto da diventare una vera e propria star costantemente ingaggiata, per finire poi il discorso, inevitabilmente, sulla politica. Ecco che cosa ci ha raccontato. La scena teatrale della Croazia e quella più ampia della regione, è letteralmente invasa da suoi lavori. Come commenta questa tendenza? “È certamente un orientamento che mi compiace, perché ho la possibilità di creare non solo in Cro- azia ma anche in Bosnia e Serbia. Devo precisare che per parecchio tempo sono stato rifiutato dalla scena teatrale croata. Ero considerato il brutto anatroccolo del teatro che ora si trasforma lentamente in un cigno. La cosa che più mi appaga è di poter creare in continuazione e di avere la possibilità di fare quello che voglio io. Riesco a presentare la propria filosofia artistica in diverse istituzioni che tradizionalmente non approvano tale approccio per l’arte e la messa in scena teatrale. E dopo parecchio tempo che insisto su tale orientamento iniziano ad arrivare i primi risultati con approvazioni, premi, riconoscimenti e nuovi ingaggi”. Il Festival internazionale della Piccole scene ha avuto ben due suoi spettacoli in programma: “Papà è in viaggio d’affari”, produzione dell’Atelje 212 di Belgrado che ha aperto la rassegna e “Odio la verità!”, allestito dal teatro zagabrese ITD. Quest’ultimo possiede molti elementi autobiografici? “‘Odio la verità!’ è autobiografico. Ho sempre desiderato occuparmi della mia infanzia. A soli sedici anni me ne andai di casa lasciando i miei genitori. Ho voluto affrontare il tema perché esistono diversi traumi e problemi irrisolti che ho raccolto in questo periodo. È la storia della mia famiglia nella cornice dell’ex Jugoslavia, a Travnik, ambiente dove il socialismo non permetteva alcuna distinzione, nemmeno tra matrimoni misti, dove, di fronte allo stato, tutti dovevamo essere della stessa nazionalità e ideologia. Per questo motivo la mia famiglia, etnicamente diversa, subì una rottura, anticipando gli eventi tragici di molte altre famiglie, avvenuti all’inizio degli anni ’90. Mio padre si dichiarava croato, mia madre perse invece il lavoro a causa della propria etnia. Il teatro è per me il luogo ideale per affrontare tutte queste ferite. In questo modo sono riuscito a ricostruire un periodo della mia esistenza che ha avuto delle forti ripercussioni nella mia vita privata”. Il suo teatro è spesso meta di accese critiche a causa dei contenuti espliciti che utilizza nella regia e in aggiunta al testo originale. Le viene rimproverato il suo largo utilizzo di scene e riferimenti di sesso estremo, imprecazioni, insulti, isterismi. La critica sostiene che tali espedienti non hanno posto in teatro? “Rimango costernato da questi giudizi e penso a quelli che mi criticano come a delle persone che non praticano il sesso e che non bestemmiano mai. In realtà tutti loro sono carichi di falsi moralismi. I fatti nell’arte teatrale vanno detti come stanno. Il teatro non è una sfera di cristallo in cui accadano solamente cose piacevoli, bensì è il luogo dove occorre confrontare gli spettatori con la realtà cruda e amara che ci circonda, con i problemi che affliggono la nostra società, con l’ingordigia delle cose e i falsi valori che rappresentano il male moderno e che dobbiamo contrastare. È il mio modo di fare teatro e intendo continuare con questa filosofia dove è possibile attuarla. Devo dire che i miei recenti lavori, come ‘Papà è in viaggio d’affari’ e ‘Tutto passa’ non hanno questa impostazione che urta i moralismi della piccola borghesia. Li invito a vedere questi spettacoli”. A Fiume ha realizzato due suoi importanti allestimenti: “Turbo Folk” e “L’Avaro”. In quest’ultimo, che aveva come luogo di svolgimento il cantiere navale “3. Maj”, la sola introduzione era composta dai video notiziari che parlavano delle dimissioni dell’allora premier croato, Ivo Sanader. In altre parole lei è stato tra i primi a denunciare le sue malefatte. Come ha reagito al suo arresto? “Me l’aspettavo. Però sono dell’avviso che l’intero attuale processo che lo vede imputato per malversazioni sia una semplice farsa. Con ciò non si risolverà nulla. Sanader è solamente la punta dell’iceberg. Il problema è che tutta la struttura politica che allora guidava il Paese era profondamente corrotta.” Gianfranco Miksa 6 palcoscenico Martedì, 5 giugno 2012 Irresistibile San Pietroburgo IL GIRO DEL MONDO IN 80 TEATRI Irresistibile San Pietroburgo di Cierre Il Teatro Aleksandrinskij, sito nella piazza Ostrovskij, fu fondato per decreto dell’imperatrice Elisabetta (figlia di Pietro il Grande e di Caterina I di Russia), su progetto di Carlo Rossi. La sua nascita è datata 1832. Vi si rappresentano spettacoli di autori classici russi e stranieri. Il Teatro Maly - Teatro d’Europa è conosciuto anche come Teatro Dodin, dal nome di Lev Abramovič Dodin, suo massimo mentore. Sorge in via Rubenstein, nelle immediate vicinanze della Prospettiva Nevskij. Nato nel 1944 nella vecchia Leningrado, conobbe un periodo iniziale di attività minima, dovuta al fatto che, in quegli anni, i teatri della città vennero boicottati dalla partecipazione dell’Unione Sovietica alla seconda guerra mondiale. Il teatro inizialmente operò senza sede fissa, producendo spettacoli che venivano rappresentati nella regione di Leningrado da una piccola troupe. Dagli anni Settanta del ventesimo secolo un enorme successo investì le produzioni del Maly, portando quest’ultimo in tournée in molti paesi europei ed extraeuropei, divenendo simbolo di una rinata arte drammatica russa. Nel 1998, in seguito dei numerosi riconoscimenti in campo artistico, il Maly ottenne il nome di Teatro d’Europa, entrando a far parte dell’Unione dei Teatri d’Europa, voluta dal regista teatrale italiano Giorgio Strehler. Il Conservatorio di San Pietroburgo è una prestigiosa scuola di musica russa ed balletto. Il nome completo è Conservatorio statale di San Pietroburgo Rimskij-Korsakov. Precedentemente noto come Conservatorio di Pietrogrado e Conservatorio di Leningrado, venne fondato nel 1861 dal grande pianista e compositore russo Anton Grigorevič Rubinstein, che lo diresse sino al 1867, anno in cui gli succedette il teorico e compositore Nikolai Zaremba. Nel 1944 è stato intitolato al grande compositore russo Nikolaj Rimskij-Korsakov, che vi insegnò dal 1871 al 1905 composizione e orchestrazione. L’edificio sorge dove un tempo si trovava il Teatro Bol’šoj Kamennyj, e ancora oggi mantiene una grande scalinata d’ingresso di quello storico edificio. Il Teatro Bol’šoj Kamennyj venne costruito nel 1783 su progetto di Antonio Rinaldi, in stile neoclassico. Realizzato in pietra, venne ricostruito nel 1802 da Jean-François Thomas de Thomon ed ancora nel 1818, dopo un incendio. Nel 1836 venne ristrutturato per poter accogliere le moderne macchine di scena. Fino al 1886 ospitò le compagnie del Balletto imperiale e dell’Opera imperiale. In questo teatro ebbero la prima ese- Il Conservatorio cuzione opere come “Una vita per lo Zar”, di Glinka (29 novembre 1836) e “Ruslan e Ludmilla” (9 dicembre 1842). Molti balletti con le coreografie di Marius Petipa, Jules Perrot e Arthur Saint-Léon vennero rappresentati in questo teatro, ma a partire dal 1860, dopo l’apertura del Mariinskij qui vi vennero traslocati il Teatro imperiale d’opera e nel 1886 anche gli spettacoli di balletto. Il Teatro Bol’šoj Kamennyj venne quindi demolito per lasciare posto al Conservatorio Rimskij-Korsakov. Il Conservatorio annovera tra i suoi allievi e docenti alcune tra le più insigni personalità della musica russa della fine del XIX e del XX secolo: Nikolaj Rimskij-Korsakov, Aleksandr Glazunov, Pëtr Il’ič Čajkovskij, Sergej Prokof’ev, Dmitrij Šostakovič, Nikolaj Mjaskovskij,Vladimir Sofronitsky, Mstislav Rostropovich, Maria Yudina, Grigory Sokolov, Mischa Maisky, Valery Gergiev, Anatolij Vasil’evič Ivanov, Valerij Viktorovič Želobinskij, Jurij Khanon, Heino Eller. Bol’šoj Kamennyj Il Teatro Mariinskij deve il suo nome alla principessa Maria Aleksandrovna. In epoca sovietica è stato ribattezzato Teatro Kirov, in onore di Sergej Kirov ed è stato conosciuto anche con il nome di Accademia Nazionale dell’Opera e del Balletto. In epoca zarista era il Teatro Imperiale di San Pietroburgo. Vi si rappresentano opere e balletti, in particolare dalla compagnia di ballo Mariinsky Ballet. Il teatro è stato progettato da Alberto Cavos e aprì le porte nel 1859, in sostituzione del teatro Circus, che sorgeva nello stesso luogo, distrutto da un incendio. Nel 1885 l’edificio subì un intervento per mano dell’architetto Viktor Schröter, volto ad ampliare gli spazi esistenti. L’edificio ebbe così una nuova ala, a tre piani, adibita a laboratori teatrali e a sale prove e impianti logistici (impianto elettrico e di riscaldamento). Nove anni dopo, sempre sotto la direzione di Viktor Schröter, vennero sostituite le travi in legno e ampliato il foyer e le ali laterali. Al Mariinskij hanno avuto la prima le più importanti opere russe., come ad esempio “Boris Godunov” di M. P. Musorgskij, “La Bella addormentata”, “Lo schiaccianoci” e “Il lago dei cigni” di Tchaikovsky. Anche “La forza del destino”, di Giuseppe Verdi vi ebbe la prima assoluta il 10 novembre 1862. palcoscenico 7 Martedì, 5 giugno 2012 Ten Chi, immersione nell’inconscio TEATRODANZA Ten Chi, immersione nell’inconscio di Christian Eccher U na coda di balena si erge sulla sinistra del palco. A destra compare invece la schiena del cetaceo; il resto del corpo è immerso, invisibile, nascosto dal pavimento nero che ricopre il palcoscenico su cui una ballerina minuta, vestita di giallo, azzarda una timida e intima danza. Le dita scendono velocemente lungo il braccio, le falde della veste accompagnano armonicamente i movimenti del corpo. Comincia così “Ten chi” – uno spettacolo che Pina Bausch ideò nel 2004 e che è andato in scena nuovamente la scorsa settimana al Teatro dell’Opera di Wuppertal – ispirato al Giappone e alla sua cultura. In un mare di ghiaccio Il palcoscenico ricorda il mare, un mare notturno forse di ghiaccio che ha raggelato il gigantesco mammifero. Il mare è anche una metafora dell’inconscio, da cui emerge solo una parte della nostra personalità, mentre le forze più intime che ci spingono a pensare, ad agire e che formano il nostro “io” rimangono in profondità. La ballerina continua a danzare anche quando la musica, diafana e malinconica, svanisce. Balla ancora per qualche interminabile minuto e poi entra in scena una donna che porta con sé una sedia. Appoggia la pancia sullo schienale, si piega afferrando le gambe della sedia con le mani e alza i piedi al cielo: solo allora lo spettatore si accorge che la ragazza indossa un paio di pinne e che i suoi movimenti mimano un’immersione. Improvvisamente il senso della scenografia messa a punto da Peter Pabst appare chiaro: Pina Bausch e il suo Teatro-danza ci invitano a percorrere un viaggio nell’inconscio e nelle pulsioni umane più recondite. I ballerini e gli spettatori tornano improvvisamente a essere bambini, le distanze fra le culture vengono annullate, a muovere l’essere umano è sempre e solo la ricerca d’amore, in Europa come in Giappone. Una donna entra in scena con un vestito nero la cui gonna è composta da numerosi veli leggeri. Attraversa il palco, arriva all’estremità destra, prende un telefono, lo infila in una busta e cerca di portarlo con sé, ma il filo è troppo corto e così è costretta a lasciare la busta con all’interno l’apparecchio proprio al centro del palco. Arriva un attore, la donna ammiccante strappa un velo del vestito e lo porge all’uomo, che con furia comincia a tirare e a strappare le trine della gonna, che si ri- vela essere composta da un’infinità di veli. “Slowly”, dice la donna all’uomo, che al termine della scena rimane prigioniero degli stessi veli, proprio come un pesce nella rete del pescatore. La donna scappa via, entra in scena un distinto signore a piedi scalzi e con le scarpe in mano che si avvicina al pubblico e si rivolge a coloro che sono seduti in prima fila: “Können Sie schlafen?”, “Lei può dormire?”, e imita il russare calmo e tranquillo di chi dorme profondamente. Un ulteriore invito a lasciare il mondo della coscienza e a tuffarsi nelle profondità abissali dell’inconscio. Non mancano poi continui riferimenti al paese che ha ispirato lo spettacolo, il Giappone appunto: un uomo vestito da donna balla da solo, lentamente, muovendo soltanto le braccia; è il ricordo di un tempo lontano in cui in Giappone, a teatro, i ruoli femminili erano interpretati esclusivamente da uomini. Lo spettatore si rilassa, le scene recitate sono divertenti e si alternano a balli mozzafiato: un’attrice, Mechthild Grossmann, interviene di tanto in tanto e si rivolge direttamente al pubblico: paragona il maschio a un frigorifero: pieno di vino sopra e completamente congelato sotto. Una coppia di uomini danza vicino alla coda della balena quando due ballerini entrano sollevando lievemente da terra una ragazza. Corrono in circolo, la ragazza sfiora con la punta delle dita dei piedi la superficie del palco che sembra davvero essere di ghiaccio. A quel punto comincia a cadere dall’alto una quantità enorme di coriandoli bianchi, che visti dalla platea sembrano neve o una pioggia di fiori di ciliegio; quest’albero, che in giapponese si chiama sakura, riempie i parchi delle principali città nipponiche. In tempo di fioritura, le brezze oceaniche che a sera accarezzano Tokyo, Kyoto e gli altri centri dell’arcipelago, provocano piogge di petali in tutto e per tutto simili a quella che imbianca il palco dell’Opera di Wuppertal. A primavera, i giapponesi si riuniscono nei parchi per fare harari, per guardare cioè la fioritura; i fiori che cadono al suolo ricordano il tempo che passa e infondono in chi li guarda una grande malinconia. Lo sforzo della ricerca d’amore, del continuo contatto con l’altro che i ballerini inscenano sul palco di Wuppertal, deriva anche e soprattutto dall’angoscia esistenziale che c’è in ognuno di noi e che è legata al passare degli anni, all’invecchiamento, alla paura di assistere da soli all’inesorabile scorrere della vita. Solo la vita Le immagini che Pina Bausch crea sono fresche e leggere: una donna entra in scena agitando rapidamente le falde della propria gonna e racconta di come era emozionata quando si è trovata accanto al suo lui al cinema. Un’altra stende una pelliccia sulla schiena di un uomo che si trova a terra carponi, si siede sopra di lui, lo cavalca e dice: “Lui è il mio orso!”, una ragazza mostra al pubblico una campanella e sostiene che quando la si suona si sente la brezza. Nello stesso tempo, un attore infila la propria testa sotto la gonna di una ballerina seduta su uno sgabello e comincia a respirare profondamente: la gonna si gonfia e si sgonfia come un polmone e la donna sembra provare un sollievo immenso. L’aria, il vento sono una perfetta allegoria delle pulsioni vitali, dell’es che prende il sopravvento sul super-io, della vita pura e nuda che dimentica ogni costruzione sociale, ogni dolore esistenziale e semplicemente vive. Non a caso “Ten chi” in giapponese significa proprio “Cielo e terra”. Pina Bausch riesce, tramite il suo teatrodanza, a rappresentare la vita umana, e per far ciò non utilizza impalcature filosofiche, si serve soltanto dei corpi dei suoi ballerini: il linguaggio del corpo, infatti, ha un che di immediato, è comunicazione diretta, che non ricorre – come la lingua – a significanti (i fonemi) che a loro volta mediano dei significati (il senso della parola). La parola non rappresenta icasticamente la realtà, la media, la trasforma in fonema e il fonema a sua volta porta con sé un significato. Dato però che quel significato è mediato, la parola lascia nei nostri discorsi sempre un alone di non detto. Quante volte vorremmo esprimere a parole i nostri sentimenti più profondi e non ci riusciamo, i vocaboli non ci sembrano sufficienti. Pina Bausch ha risolto la crisi del ‘900, che è soprattutto crisi linguistica: ha infatti strutturato i significanti insiti nel nostro corpo e legati al linguaggio prossenico – cioè a quello dei gesti, che sono per lo più universali – in un nuovo sistema linguistico, quello della danza: l’arte torna così a comunicare. Senza frontiere, confini nazionali e nazionalismi. Nella danza significante e significato corrispondono perfettamente e non ci possono essere fraintendimenti. Il processo che ha portato il Teatrodanza di Wuppertal a questo risultato è stato lento e faticoso e non ha coinvolto solo Pina Bausch, ma ciascun ballerino, che ha dovuto scandagliare il proprio io, confrontarsi con quello dei colleghi (tutti provenienti da paesi differenti) e tradurre i risultati di questa ricerca in movimenti. Pina Bausch ha coordinato questo lavoro e ha armonizzato lo sforzo dei singoli ballerini in coreografie che compendiassero le peculiarità di ciascuno di essi. Il risultato rasenta la perfezione e “Ten chi” ne è una testimonianza. C’è una nuova stella, lo sai? Dopo la pausa, durante le quale i fiori di ciliegio non hanno mai smesso di cadere sul mare ghiacciato, la ragazza minuta vestita di giallo rientra in scena. Balla allegramente, saltellando, i capelli toccano spesso il suolo e spazzano i mille coriandoli che si sono depositati a terra. Ogni parte del corpo è coinvolta nel ballo, non solo le gambe e le braccia. Una giovane giapponese compare sul palco, porta con sé una sedia su cui fa accomodare la donna minuta. Con estrema pazienza, cerca di insegnarle il saluto nipponico, che richiede estrema compostezza, ma la ragazza riesce a imitare le pose solo per qualche secondo, poi non può fare a meno di riprendere la sua danza allegra e scoppiettante. Sempre la giapponese costringe un uomo a indossare un chimono, gli porge una scopa, una paletta e lo costringe a pulire per terra, mentre lo fotografa allegramente. Mechthild Grossmann rientra in scena vestita da gran dama, il volto coperto da un enorme cappello: cerca di fermare i passanti, chiede loro se sanno che gli astronomi hanno scoperto una nuova stella, asserisce che l’uomo è infinitamente piccolo e l’universo immenso, ma nessuno le dà retta. La stessa Grossmann aveva giocato poco prima con i fonemi di alcune parole giapponesi, scandendo ogni sillaba, quasi a far risaltare la materialità della parola: “Ki-mo-no”, “Kara-Kiri”, “Sa-mu-rai”. Il pubblico ride, ma quello dell’attrice è un serio invito a conferire un nuovo significato alle parole che vengono pronunciate. Lo spettacolo procede calmo, i ballerini si alternano sulla scena e gli spettatori si divertono, fino a quando la Grossmann ricompare e asserisce, sconfortata e nervosa, che la primavera è giunta nuovamente, che lei l’ha attesa a lungo come ogni anno ma che tutto ciò è assolutamente inutile e insignificante. Non spiega però il perché; lascia il palco sconsolata e se ne va sbattendo rabbiosamente la porta di ingresso della platea. Da questo momento anche i movimenti dei ballerini cambiano e la calma che aveva contrassegnato l’intero spettacolo scompare: comincia la perdizione. I danzatori entrano in scena tutti insieme, urlano, gli uomini hanno indosso molte cravatte non annodate, i petali di ciliegio hanno ormai completamente ricoperto il palco. Il tempo non lascia speranze, il bisogno d’amore rimane non realizzato, nonostante i numerosi sforzi che i ballerini hanno messo in atto per comunicare fra loro e con il pubblico. La vita non conclude e l’amore, la felicità sono accidente. I ballerini danzano adesso in assolo, freneticamente, dandosi continuamente il cambio, accompagnati da una musica convulsa; nei loro movimenti c’è un che di disperato ma anche un’estrema volontà di resistenza. La delusione, l’angoscia esistenziale non devono lasciare il posto alla rassegnazione. “Ma dobbiamo continuare/come se/non avesse senso pensare/che s’appassisca il mare”, dice il poeta Elio Pagliarani al termine del suo romanzo in versi intitolato “La ballata di Rudi”. A concludere lo spettacolo è Azusa Seyama, la danzatrice giapponese, vestita di bianco, in un ultimo assolo che mozza il fiato agli spettatori e che ancora una volta coinvolge non solo il corpo della ballerina, ma anche la veste e i coriandoli che vorticano intorno a lei. La luce si fa più intensa, accecante, fa brillare i petali dei fiori di ciliegio e accentua i movimenti della donna, finché lentamente si spegne e la sala rimane al buio. Sulla retina di chi guarda rimane per qualche secondo impressa l’immagine di Azusa che, nell’animo di chi ha avuto la fortuna di ammirarla, non smetterà mai di danzare. 8 palcoscenico Martedì, 5 giugno 2012 CARNET PALCOSCENICO rubriche a cura di Carla Rotta TEATRO Il cartellone del mese IN CROAZIA Teatro Nazionale Ivan de Zajc - Fiume Notti estive fiumane 19 giugno ore 21.30 - Molo Carolina Fiumana Inaugurazione delle Notti fiumane 2012 DO DO LAND spettacolo aereo con il Grupo Puja! (Spagna/Argentina) 20 giugno ore 21.30 Estivo di Abbazia Il violinista sul tetto di Jerry Bock. Regia Ozren Prohić. Libretto Joseph Stein su storie di Sh. Aleichem. Testi Sheldon Harnick 27, 28 e 29 giugno ore 21.30 - via Šime Ljubić (trattoria “La Grotta“) Mirandolina di Carlo Goldoni. Regia Jug Radivojević IN ITALIA Politeama Rossetti - Trieste Ciclo: Eventi speciali 19 giugno ore 20 ”Evergreen per Trieste” – Concerto della Evergreen Symphony Orchestra Teatro lirico Giuseppe Verdi - Trieste 28 giugno ore 21.30 - Parco di Ville Ružić Anch’io a volte scrivo in jazz di e con Laura Machig – Darko Jurković 29 giugno ore 21.30 - Parco di Villa Ružić Concerto con il New Sax Quartet (Nikola Fabijanić, Gordan Tudor, Goran Jurković e Tomislav Žužak Teatro cittadino - Pola 14 giugno ore 20 Mistero Buffo I di Dario Fo. Interprete Valter Roša 15 giugno ore 20 Mistero Buffo II di Dario Fo. Interprete Valter Roša 14, 19, 21 e 23 giugno ore 20.30; 16 giugno ore 17; 17 giugno ore 16 La vedova allegra di Franz Lehar. Regia Federco Tiezzi. Interpreti Valeria Esposito, Alessandro Safina, Alida Berti, Marco Frusoni, Marcello Lippi, Gennaro Cannavacciuolo, Dario Giorgelè, Andrea Binetti, Alessandro De Angelis, Anna Bordignon, Stefano Consolini, Miriam Artiaco, Federico Benetti, Marzia Postogna La Contrada - Trieste 16 giugno ore 20 Mistero Buffo III di Dario Fo. Interprete Valter Roša Stagione conclusa 20 - 27 giugno XVII Festival internazionale del teatro dei giovani IN SLOVENIA Teatro cittadino - Capodistria 5 giugno ore 20 Butalci da Fran Milčinski. Regia Jaka Ivanc. Interpreti Mojca Fatur, Jaša Jamnik, Rok Matek, Igor Štamulak, Ajda Toman, Gorazd Žilavec 12 giugno ore 20 Due di Jim Cartwright. Interpreti: Sandra Boršič, Mikela Veren, Tomaž Boškin, Blaž Popovski, Goran Dokič 13 giugno ore 20 Serata con Tadej Toš Anno VIII / n. 65 del 5 giugno 2012 “LA VOCE DEL POPOLO” - Caporedattore responsabile: Errol Superina IN PIÙ Supplementi a cura di Errol Superina Progetto editoriale di Silvio Forza / Art director: Daria Vlahov Horvat edizione: PALCOSCENICO Redattore esecutivo: Carla Rotta / Impaginazione: Denis Host-Silvani Collaboratori: Christian Eccher, Gianfranco Miksa, Rossana Poletti Foto: Internet