“UNA SOCIETA` SENZA PADRI” Il rifiuto del

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“UNA SOCIETA’ SENZA PADRI”
Il rifiuto del padre costituisce uno degli aspetti che qualifica l’epoca
moderna. Da parte dei figli si rivendica la libertà di costruirsi da sé, e
da parte dei padri c’è la preferenza a porsi nei confronti dei figli come
amico.
Il fenomeno del rifiuto riguarda anche la società, dove in nome della
democrazia si fatica ad accettare l’autorità e la regola e, persino, la
religione. In crisi è la paternità di Dio come garante del rapporto con
l’uomo (Dio propone un’Alleanza) e della sua stessa identità (l’uomo
è definito “figlio di Dio”).
Per approfondire questi temi suggerisco la lettura di: “Genitori e figli
nella famiglia affettiva”, edizione Glossa, 2002. Atti del Convegno
promosso dalla facoltà di Teologia.
Il rilievo privilegiato della figura del padre, e quindi della
relazione tra padre e figlio, nella tradizione cristiana trova
espressione, in particolare, nella rappresentazione di ogni
rapporto gerarchico secondo lo schema paterno - filiale.
Il modella gerarchico, d’altra parte, appare quello
assolutamente fondamentale nella visione convenzionale
dell’ordine sociale, il modello paterno – filiale assume in tal
senso rilievo decisivo in ordine alla rappresentazione dei
rapporti umani tutti. La circostanza esporrà la tradizione
cristiana, in epoca moderna, al sospetto insistente di
paternalismo, come tutti sappiamo. Uno dei grandi vettori del
movimento di emancipazione, che definisce la prima identità
del moderno per differenza dall’antico, è appunto l’ideale della
uscita dell’uomo dalla minore età, e quindi dalla tutela del
padre. La nuova realtà civile si rappresenterà di fatto con
significativa insistenza quale società egalitaria, democratica,
magari addirittura fraterna; in ogni caso, senza padri.
Condannata all’obsolescenza, insieme alla figura del padre, è
la figura dell’autorità in genere. Una tale figura è invece
obiettivamente imprescindibile per comprendere la consistenza
della relazione educativa. Di fatto la cancellazione del tema
autorità dal repertorio dei temi obbligati del pensiero
antropologico induce alla rimozione dello stesso tema
dell’educazione; pensata a procedere dal privilegio della figura
del precettore, anziché del padre o del genitore in genere, essa
appare sostanzialmente evacuata a priori del suo tratto più
qualificante.
Questi brevi cenni subito suggeriscono che stretto è l’intreccio
che lega la questione posta dalla relazione tra genitori e figli e
la più complessiva questione della lettura dell’epoca moderna;
con riferimento più preciso alla teologia, la questione che sta
sullo sfondo è quella del rapporto tra cristianesimo e società
‘democratica’.
Nelle stagioni civili precedenti, la relazione tra genitori e figli,
in forza della sua immediata valenza simbolica, era una delle
figure strutturanti l’immagine complessiva della vita comune,
pur senza mai divenire oggetto di pensiero riflesso. Oggi
invece essa appare incapace di esprimere una valenza
simbolica analoga; per di più, essa è esposta a positivo
sospetto a motivo delle sue prevedibili ricadute sociali.
Il prezzo di tale sospetto, e della conseguente rimozione, è
pagato soprattutto dai genitori; nel rapporto con i figli essi
debbono, inevitabilmente, esercitare la loro autorità; il fatto
che le forme della cultura da tutti condivisa neghino
ostinatamente ogni pertinenza a tale autorità non è sufficiente
– per buona fortuna – a reprimere in radice l’evidenza che è
loro proposta dall’esperienza quotidiana. Accade però in molti
modi che essi rappresentino l’autorità, che inevitabilmente
debbono esercitare, ricorrendo ai luoghi comuni della cultura
democratica e egalitaria; in tal modo essi di fatto confondono
l’effettiva qualità del loro rapporto con i figli.
Sul tema dell’educazione, dell’autorità e autorevolezza, del compito
dei genitori, mi pare interessante anche il contributo di don Antonio
Mazzi nel suo libro “Pinocchio e i suoi fratelli” Come educare i figli
del 2000, edizione Piemme, 1993.
“Il modo di educare oggi non è sicuramente quello di ieri. E
nemmeno i contenuti. Ieri, per esempio, in una società
verticistica, l’autorità era il valore primario. Il rispetto,
l’ascolto dell’adulto, l’obbedienza pronta hanno avuto una
trasformazione. Dall’autorità si è passati all’autorevolezza, alla
capacità di comunicare la propria testimonianza più che nel
saper organizzare una società. L’adulto, il padre, l’insegnante
non è colui che deve badare ad una strutturazione a caduta
della società, ma è colui che propone il suo percorso di vita o
lo fa in maniera trasparente, autentica, umile, discorsiva.
L’autorevolezza è la virtù di cui abbiamo un estremo bisogno e
stiamo accorgendoci che è la più assente. Anzi, si assiste ad un
vigoroso tentativo di recuperare la autorità. Anche molti
spostamenti politici e culturali si muovono ancora nella linea
vecchia, nella speranza che recuperando l’autorità arriviamo
anche all’autorevolezza.
Non è così. Sarà semmai recuperando l’autorevolezza che
diventeremo capaci di collocare al posto giusto anche gli
uomini delle istituzioni. La caduta delle mura delle istituzioni che è generale - è imputata del disorientamento dei nostri
giovani e ancora lo sta determinando. Non è facendo istituzioni
nuove che noi rinnoveremo la società, ma rivalutando la serietà
e la profezia dell’adulto. Solo così arriveremo ad un modo
nuovo di gestire la società”.
Cosa intende per profezia dell’adulto?
“Noi siamo vecchi, non adulti. Abbiamo una carta d’identità
che ha vent’anni più di quella di nostro figlio.
Siamo come su una scacchiera, dove ognuno ha una sua
posizione, che non è però seria rispetto all’obiettivo, quanto
impegnata nella sopravvivenza. L’adulto è profeta se riesce a
far leggere ai figli ed a chi sta attorno la speranza. Spesso ci
riduciamo ad essere dei gerenti, che vivono alla giornata. Se i
nostri figli non sanno leggere i giorni in chiave di prospettiva,
sono i figli della disperazione. Ecco perché pongo
l’autorevolezza come valore da scoprire. I figli d’oggi non
accettano più che gli adulti parlino in termini di sicurezza della
propria storia: non vogliono il dubbio, ma domandano che
quando parliamo, lo facciamo con serietà di uno che ha
percorso un tratto di strada, consentendo al proprio figlio di
aggiungere un altro tratto, con uno spazio di protagonismo.
Più che aver paura della libertà da concedere ai figli,
dovremmo avere il coraggio di trasformare i timori in progetto.
Se riusciremo a confrontarci con i figli, lasciando loro il
rischio di un pezzo di strada, il bello e il difficile di una
ricognizione, educheremo responsabilmente. Occorre il giusto
equilibrio”.
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