Francisco Gonzalez La follia dei poeti e la follia dei filosofi nello Ione

Francisco Gonzalez
La follia dei poeti e la follia dei filosofi nello Ione e nel Fedro di Platone
Milano, 24 novembre 2010
L’apparente conflitto tra la critica dei poeti nello Ione e la valutazione apparentemente più positiva
che del poeta si legge nel Fedro non è sfuggita all’attenzione di molti studiosi. Nello Ione il poeta e
il suo rapsodo non sanno di cosa stanno parlando perché operano soltanto come portavoce degli dei:
pieni d’ispirazione mancano di intelligenza (nous). Inoltre, la prospettiva a partire da cui muove la
critica è quella della techne: il poeta, quando parla di costruzioni di navi, difetta completamente di
quella conoscenza tecnica e specializzata di cui invece dispone chi costruisce le navi; il rapsodo,
identificandosi con un poeta soltanto, manca completamente di quelle abilità tecniche, che
qualificherebbero le sue competenze anche in riferimento agli altri poeti. Nel Fedro, al contrario, la
follia ispirata del poeta è elogiata e figura in una posizione più importante rispetto alle competenze
tecniche e alla ‘moderazione mortale’ che caratterizza queste competenze. Del resto, la follia e
l’ispirazione del poeta non sono qui opposte alla sobria razionalità del poeta: piuttosto, anche il
filosofo è presentato come folle e ispirato.
Per capire che questo apparente conflitto tra i due dialoghi è solo apparente, occorre prima
comprendere che la critica del rapsodo Ione è molto più ambigua di quanto non appaia a prima
vista. Come già notato, Ione è criticato a partire dalla prospettiva della conoscenza tecnica: questa
critica risulterebbe allora lineare solo se Socrate risultasse in possesso di una simile conoscenza. Ma
Socrate, da molti e importanti punti di vista, è più simile a Ione di quanto non assomigli invece a un
carpentiere o al dottore a cui si richiama. Lo Ione però, globalmente inteso, non chiarisce quale sia
la posizione assunta dal filosofo rispetto all’opposizione tra il poeta divinamente ispirato e l’esperto
di una tecnica. E’ in questo contesto che la rilevanza e l’importanza della descrizione della follia
filosofica nel Fedro inizia a chiarirsi.
La follia di Ione e l’invidia di Socrate per la competenza padrona di sé
All’inizio dello Ione Socrate ascrive al rapsodo una techne (530b6) che ripetutamente dichiara di
invidiare e ammirare (ezelosa, 530b5, c1, c6). Questo motivo dell’invidia è indicativo del fatto che
Socrate è a sua volta privo di quel genere di techne che altri, almeno implicitamente, rivendicano
per sé. Ma esattamente Socrate che cosa ritiene che sia la techne del rapsodo? All’inizio egli la
identifica nell’ «essere un ermeneuta del pensiero del poeta» (hermenea ... tes dianoias, 530c3-4) –
del pensiero del poeta e non soltanto dei suoi versi. Ma questo cosa significa? In quanto rapsodo
Ione recita le parole di un poeta, ma se ha una techne questo significa, secondo Socrate, che deve
fare di più: deve in qualche modo trasmettere (convey) il pensiero del poeta. Ma trasmettere in che
senso? In questo passo il temine hermeneus è spesso tradotto come ‘interprete’: l’abilità del rapsodo
sarebbe, secondo Socrate, quella di interpretare il pensiero del poeta, dove interpretare significa
spiegare e giudicare quello che il poeta pensa. Di fatto sarebbe proprio questa l’abilità che, Socrate
mostrerà, a Ione manca. La parola hermeneus molto raramente, per non dire mai, significa in
Platone ‘interprete’ nella ricca gamma di significati a cui noi siamo abituati; ciò che questa parola e
i termini ad essa imparentati normalmente (per non dire sempre) indicano è semplicemente il fatto
di veicolare un messaggio o un’informazione senza preoccuparsi del suo significato o valutare la
sua verità. Dal modo in cui Socrate usa il termine rimane dunque aperta la possibilità che Ione
veicoli il messaggio del poeta senza alcun pensiero suo proprio – in altri termini, come un medium
passivo e trasparente. Di fatto, l’opposizione che risulterà operativa in tutto il dialogo è quella tra la
padronanza tecnica di ciò di cui il poeta parla e la poesia da un lato, e la trasmissione, senza idee o
techne, di qualche messaggio al di là del poeta e del rapsodo. Dopo che questa opposizione è stata
ulteriormente ribadita e persino esagerata nel corso dell’intero dialogo, dovremo riflettere una volta
ancora su quell’hermenea tes dianoias che Socrate afferma di invidiare e ammirare.
Il modo in cui Socrate presenta inizialmente la techne di Ione pone le basi per una sua prima
confutazione. Se la techne del rapsodo consiste nel ‘veicolare’ il pensiero del poeta, e se la capacità
di ‘veicolare’ il pensiero di una persona a proposito di un certo tema implica la capacità di veicolare
il pensiero di un’altra persona sullo stesso soggetto, allora, così Socrate argomenta, Ione deve essere
in grado di parlare di tutti i poeti allo stesso modo, dal momento che tutti parlano delle stesse cose.
Inoltre, se ‘veicolare’ ciò che i diversi poeti pensano su un dato soggetto implica il fatto di
possedere a propria volta conoscenza di quell’argomento, allora Ione deve essere in possesso
dell’arte della mantica e di tutte le altre tecniche che riguardano gli argomenti di cui i poeti parlano
(531a-532b). Il punto è che se essere un hermeneus significa avere una techne, allora questo deve
implicare il fatto di valutare, giudicare e conoscere ciò di cui uno è hermeneus.
Dato che questi sono i presupposti che fondano la caratterizzazione della techne di Ione, Socrate,
dall’insistenza di Ione di saper interpretare bene solo Omero, è in grado di inferire che il rapsodo
non è in grado di parlare con techne ed episteme neppure di Omero (532c5-7). Socrate ora conclude
il suo attacco contro la mancanza di techne di cui Ione dà prova con un argomento che diverge
significativamente rispetto a quelli appena considerati. Se Ione avesse parlato con techne, Socrate
argomenta, Ione sarebbe stato capace di parlare bene di tutti i poeti, non soltanto perché tutti i poeti
parlano delle stesse cose, ma perché essi sono tutti poeti e, nel caso della poesia così come a
proposito di tutte le altre tecniche, chiunque la padroneggi la deve padroneggiare nella sua interezza
(532c-533c). Se si tratta di una techne, dunque, essere hermeneus del pensiero del poeta implica
non solo la capacità di padroneggiare gli argomenti di cui il poeta parla ma anche una competenza
tecnica della stessa arte della poesia.
Quando Ione non riesce a spiegare come possa parlare così bene di Omero se è tanto ignorante del
contenuto e della forma della sua poesia, Socrate introduce un’alternativa al possesso di una techne:
un ‘potere divino’ (theia dynamis) che rende tanto il rapsodo quanto il poeta ‘posseduti dal dio’
(entheoi, 533d-534e). La famosa analogia della calamita e dell’anello è introdotta per descrivere in
che modo questo potere si trasmette dal dio al poeta, dal poeta al rapsodo, e dal rapsodo al pubblico.
L’implicazione dell’analogia è che, qualunque sia il potere che il poeta e il rapsodo possiedono,
esso proviene direttamente dal potere del dio e ne dipende completamente: proprio come l’anello
non ha nessun potere di attirare un altro anello senza la calamita, così, senza il dio, il poeta non ha il
potere di ispirare il rapsodo, né il rapsodo il suo pubblico. Possedere una techne, diversamente,
significa essere in grado di per sé, da solo, di produrre un certo effetto. Mentre possedere una
techne significa possedere un certo potere, essere ‘ispirato’ significa la mera conduzione di un
potere che non è il proprio.
Quello che deve essere enfatizzato in questa occasione, ad ogni modo, è che il lungo discorso di
Socrate sull’ispirazione poetica, dove si identifica l’hermeneus in un medium passivo, presenta
questa ispirazione come incompatibile con il possesso di una qualsivoglia techne. Il rapsodo non è
l’ ‘interprete’ del pensiero del poeta per le seguenti ragioni: 1) il poeta non possiede una techne,
così come non la possiede il rapsodo; entrambi sono posseduti (533e5-7; cfr. anche Apologia 22b9c4, Menone 99c1-5 e c11-d1). 2) Il pensiero perciò non esiste né nel poeta né nel rapsodo, perché la
presenza di un ‘potere divino’ (theia dunamis) esclude la presenza del pensiero. 3) Tanto il poeta
quanto il rapsodo diventano con ciò meri veicoli attraverso cui il dio parla. Di qui Socrate conclude
che i poeti, e non solo i rapsodi, sono hermenes, così che i rapsodi diventano meri hermeneon
hermenes, ermeneuti di ermeneuti (535a9). Se entrambi i poeti e i rapsodi possono ora essere
descritti come nient’altro che hermenes, questo dipende dal fatto che Socrate sta ora negando loro il
possesso di un qualunque tipo di competenza tecnica. Mera ‘ermeneutica’ è la mera trasmissione,
senza conoscenza, di un messaggio e di un potere per cui neppure il poeta è responsabile. Socrate di
conseguenza cerca di mostrare che Ione in quando mero hermeneus non può possedere una techne,
perché il pensiero da lui veicolato, se mai ve ne è uno, non è né suo né del poeta in nome del quale
parla.
Questa incompatibilità tra l’ermeneutica di poeti e rapsodi con il pensare è ulteriormente enfatizzata
quanto Socrate insiste sulla follia di Ione e del suo pubblico descrivendo il modo in cui piangono e
provano paura come se assistessero alle scene che il poeta descrive. Questo modo di esserepresente-a-ciò-che-non-è-presente è follia perché significa essere al di là o fuori di sé (exo sautou,
535b7-c1). Possedere una techne significa possedere un potere che di per sé rende dunque padroni
di sé. Nell’ermeneutica dei poeti si è mossi dalle cose al di là del proprio controllo e al di là della
propria esperienza.
Ione esita, stendando ad ammettere che è posseduto e folle quando elogia Omero (katechomenos kai
mainomenos, 536d5-6). Socrate ritorna allora su un punto già evocato in precedenza e solo ora
pienamente sviluppato: Ione non può avere conoscenza delle technai di cui Omero parla (537a1-2).
Solo il dottore può giudicare se quanto ha a che fare con la medicina nei poemi omerici è presentato
e detto bene, e lo stesso discorso vale anche per le altre tecniche. Dato che le diverse technai si
occupano di diversi soggetti, il rapsodo non può parlare con cognizione di causa del soggetto di
un’altra techne. Di cosa allora è il rapsodo un giudice competente nei poemi omerici? Quando Ione
replica che il rapsodo può giudicare su ciò che è conveniente dire per un uomo o per una donna, è
facile per Socrate mostrare che anche questo giudizio tocca ad altre technai: è il dottore, dopo tutto,
che può giudicare su cosa è conveniente per un uomo o per una donna dire sulla medicina. Alla fine
il povero Ione può evitare di apparire come un folle solo insistendo sul fatto che è un generale nella
sua capacità di rapsodo e può così giudicare quello che Omero ha da dire sulla guerra1. Ma è
proprio questa pretesa di essere un generale che fa di Ione un folle! In altre parole, Ione può o
ammettere di essere folle o pretendere come un folle di essere un generale. Socrate però conclude il
dialogo acordando a Ione una scelta leggermente diversa: o Ione commette ingiustizia quando si
rifiuta di esibire la conoscenza di cui è in possesso o egli è divino senza conoscenza in quanto
posseduto dal dio La scelta, in altre parole, è fra essere un esperto (technikos) e una persona
ingiusta (adikos) da un lato, e essere posseduto per qualche sorte divina (theiai moirai
katechomenos) e dunque divino (theios, 542a2-7) dall’altro. Ione, prevedibilmente, sceglie la
seconda alternativa.
Ma quale è il valore di questa scelta? E’ una scelta necessaria? Le due alternative si escludono l’una
con l’altra? Il caso di Socrate, a me pare, ci spinge piuttosto a mettere in dubbio la legittimità di
questa scelta. Si consideri che Socrate ad un certo punto del dialogo descrive Omero come colui che
parla ‘dei rapporti che gli uomini intrattengono tra di loro – buoni e cattivi, gente normale e
professionisti’, ‘degli dei e dei rapporti che questi hanno tra di loro e con gli uomini’, e poi ‘degli
eventi celesti e di quelli che accadono nell’Ade’ (531c-d). Come non accorgersi che Socrate parla
delle stesse cose? Ma non allora è inevitabile porsi la domanda se egli lo faccia, se egli parli di
1
Socrate: Come? Dici che non c’è nessuna differenza? affermi che l’arte rapsodica e la strategia
sono una sola o due? Ione: A me pare che sia una sola. S.: Perciò chi è buon rapsodo si trova anche
ad essere buon generale? Certamente, O Socrate. [...] S.: Non sei forse tu, Ione, il miglior rapsodo
tra i Greci? I.: E di molto, Socrate. S.: Allora sei anche il migliore generale tra i Greci. I.: Lo sai
bene, Socrate: questa competenza l’ho appresa appunto dalle opere di Omero (Ione 541a; trad.
Trabattoni).
queste cose perché in possesso di una techne? Se Socrate parla con una techne, allora è lui a
comportarsi ingiustamente quando si rifiuta di renderne conto, o comunque di riconoscere la sua
competenza, qui e in altri passi. Come già osservato, all’inzio del dialogo Socrate aveva affermato
di invidiare a Ione la sua techne (530b5-6), implicando con ciò stesso di esserne privo. Inoltre, ed è
ancora più rivelatore, quando più avanti Ione descriverà Socrate come un ‘sapiente’ (sophos),
Socrate replicherà che egli dice il vero ‘come è ragionevole che faccia un profano’ (532d8-e1). Ma
se Socrate dice la verità come un profano e non come un professionista, dobbiamo allora
concludere, secondo l’alternativa in cui ha ingabbiato Ione, che Socrate dice il vero come una
persona posseduta e fuori di sé? E’ egli allora un mero veicolo attraverso cui il dio si pronuncia? E
noi interpreti del dialogo, visto che ci manca la competenza tecnica sul suo contenuto, siamo
semplici anelli mossi dal magnete divino? Dato che Socrate non si presenta né come un technikos
né come fuori di sé, è chiaro che egli si chiama fuori dalla scelta in cui ha ingabbiato Ione. Ma sulla
base di quali giustificazioni? Non dobbiamo piuttosto scoprire un tipo di ‘interpretazione’ che pensa
e un tipo di pensiero che ‘interpreta’ qualcosa che sta al di là di se stesso? In altre parole:
un’ermeneutica non nel senso di un medium, passivo e privo di idee, del potere divino e un pensiero
che non si esaurisce in sé (self-possessed) ma che è disposto a veicolare qualcosa di divino,
qualcosa che va al di là della sua piena comprensione?
L’elogio della follia di Socrate nel Fedro: la dianoia mette le ali
Un’alternativa di questo tipo può essere rintracciata nel Fedro, dove si spiega che il filosofo occupa
una posizione intermedia tra la follia ispirata del poeta da un lato, e quel tipo di competenza tecnica
e sobrietà che Lisia rivendica per se stesso dall’altro. Un’interpretazione complessiva del Fedro non
è ovviamente possibile in questa sede, ma una discussione dei passaggi chiave del dialogo e dei suoi
sviluppi dovrebbe bastare a mostrare in che modo il Fedro complichi i ragionamenti dello Ione –
ma anche in che modo esso li integri, in un modo essenziale.
Il punto principale del discorso di Lisia è che il non amante, nella misura in cui ‘non è soggiogato
dall’amore, ma padrone di se stesso’ (233c1-2), è il solo in grado di proporre una relazione che sia
vantaggiosa per entrambi i contraenti. L’identificazione implicita che si legge qui tra eros e follia è
resa poi esplicita da Socrate, che all’inizio del suo primo discorso definisce eros come il prevalere
sul logos per colpa del desiderio irrazionale della bellezza (238b7-c1)2. L’opposizione in azione nel
discorso di Socrate è dunque quella tra intelligenza e moderazione contro amore e follia (241a3-4).
Tutte le critiche portate contro l’amante in questo discorso si riducono alla tesi che egli manchi di
2
‘Quando il desiderio irrazionale, trascinato al piacere della bellezza, prevale sull’opinione
tendente alla rettitudine...’ (trad. Pucci):
ragione e auto-controllo. Non è difficile verificare che la critica dell’amante in Lisia e nel primo
discorso di Socrate va in parallelo con la critica del poeta nello Ione: in entrambi i casi la critica
oppone la padronanza di sé che deriva dalla conoscenza alla sua assenza. Tanto il poeta quanto
l’amante sono pazzi perché entrambi sono posseduti da una forza estranea, che va al di là della loro
capacità di controllo e della loro capacità razionale.
Del resto Socrate non si limita soltanto a ritrattare immediatamente la sua critica dell’amore perché
empia e falsa; il contenuto del suo (primo) discorso era già stato screditato dal modo in cui lo aveva
pronunciato, dalla sua performance. Socrate dichiara, all’inizio e alla fine del suo discorso, di essere
posseduto dalle ninfe del luogo. La sua critica della follia erotica è così espressa in uno stato
caratterizzato quanto meno da un attacco di follia! Il che non dovrebbe sorprendere se solo si pensa
al contesto che fa da sfondo al discorso, un contesto che manca completamente nella versione di
Lisia: Socrate = non amante è in realtà un amante abbastanza scaltro da fingere di essere un non
amante (237b3-5). A conferma visiva di questa pretesa finzione, Socrate pronuncia il discorso con
la testa coperta (237a), implicando in questo modo che egli può pronunciare una critica dell’amante
davanti a Fedro solo nascondendo la sua vera identità di amante. Così, se si considerano il modo e il
contesto della performance, emerge che il primo discorso di Socrate è l’astuzia con cui una persona,
posseduto dalla follia erotica, fa finta di essere sano e razionale. Ma questo non significa allora che
la dicotomia radicale che Lisia ha stabilito tra amore e follia da un lato e ragione e auto-controllo
dall’altro conducono soltanto all’ipocrisia e alla dissimulazione? Il fatto che Lisia faccia cominciare
il suo discorso in medias res, avvolgendo così nell’oscurità più totale le ragioni del non amante,
confermano questo sospetto. Ma questa situazione – così a me pare – trova un parallelo nello Ione,
nei dubbi che erano sorti a proposito della critica che Socrate aveva avanzato contro il rapsodo.
Come abbiamo visto, questa critica presupponeva la dicotomia tra possedere una tecnica da un lato
e l’essere posseduti ed essere fuori di sé dall’altro, senza però che si facesse luce su quale fosse la
posizione di Socrate rispetto a questa dicotomia – nella misura in cui, come si ricava chiaramente,
non è un technikos.
Quello che importa sottolineare, nella ritrattazione di Socrate, è il fatto che egli si purifica non
separando l’amore dalla follia, come pure ci si potrebbe aspettare, ma affermando che la follia
(mania) è l’origine di molti beni che non possono essere ottenuti con l’auto-controllo (sophrosyne).
Inoltre – ed è davvero significativo nel presente contesto – questo punto viene espressamente
applicato al caso del poeta: il poeta che si fonda sulla techne è un poeta ‘incompiuto’ (ateles) e la
sua poesia sarà offuscata dai poeti che sono folli (ton mainomenon, 245a5-8). Se si considera poi
che la follia positiva di cui qui si parla viene presentata come un dono degli dei (apo theon, 245b2),
è difficile non vedere lo Ione sotto una luce assai diversa. Se Ione manca di techne ed è posseduto
dagli dei, questa è una buona ragione per elogiarlo e non per criticarlo.
Ma c’è anche una critica implicita dei poeti, quando Socrate afferma che nessuno di loro ha mai
cantato il luogo iperuranio in modo adeguato al suo valore (kat’axian, 247c4), e osa di seguito dire
lui la verità a proposito di questo mondo. Questo contrasto tra Socrate e i poeti spiega
probabilmente il posto relativamente basso che il poeta occupa nella gerarchia delle reincarnazioni
(248e1-2). Ma in che senso, esattamente, il ‘dire la verità’ di Socrate differisce da quello dei poeti?
Questo contrasto era già stato suggerito nello Ione. Ma ora non può più essere presentato nel modo
in cui lì era presentato, vale a dire come un contrasto tra una techne autonoma e padrona di sé e
un’ispirazione senza conoscenza. E questo perché la filosofia è a sua volta descritta nel secondo
discorso di Socrate come una forma di follia ispirata. Il contrasto tra il poeta e il filosofo non può
che essere allora il contrasto tra due tipi diversi di follia ispirata – in altre parole, tra due modi di
veicolare un potere e messaggio che va al di là di ciascuno dei due; tra due forme di ‘ermeneutica’.
La follia o possessione divina che caratterizza il filosofo è descritta come reminiscenza: qualcosa
che qui è bello ci fa ricordare della vera bellezza al di là dei cieli (si veda anche 254b5-6). E questo
è un tipo di follia perché, nella misura in cui ci trasporta in un al di là, si disinteressa di quello che
c’è quaggiù (249d8) ma non riesce neppure a mostrare chiaramente quello che c’è in questo al di là.
Così gli amanti che sono potenzialmente filosofi, quando vedono un’immagine (homoioma), non
sono più grado di controllare se stessi e neppure comprendono quello che stanno provando ‘perché
non riescono a vedere in modo adeguato’ (250b1). In questo modo, come il poeta così anche il
filosofo è folle, nel senso di essere-presente-a-ciò-che-non-è-presente e dunque essere ‘al di là di se
stesso’. E questo è ulteriormente descritto come un possesso divino quando Socrate parla
dell’amante che rimane memore del suo dio specifico – Zeus, nel caso dei filosofi – come se il dio
rimanesse in lui (come accade nel caso delle baccanti) e come se egli cercasse di formare l’anima
dell’amato per quanto possibile simile al dio (253a6-b1).
Ora, quello che qui importa sottolineare è che questa follia filosofica, diversamente da quella
attribuita ai poeti, non è assenza di pensiero o ragionamento. Al contrario, Socrate caratterizza la
reminiscenza in questione anche nei termini del processo che conduce da una molteplicità di
sensazioni ad una unità grazie ad un ragionamento (logismos) e come la capacità di comprendere
secondo ciò che viene detto eidos o ‘forma’ (249c6-b1). La ‘forma’ è un oggetto del ragionamento
che però non può mai essere pienamente compresa dal ragionamento. La ‘forma’ viene ‘ricordata’
attraverso il ragionamento senza che mai sia ‘vista in modo adeguato’. Il filosofo è così,
simultaneamente, ‘nel possesso delle sue capacità mentali’ e ‘fuori di sé’ mentre ricorda ragionando
un’unità che in quanto tale trascende sempre il suo ragionamento. La strana combinazione di follia,
possesso e ragionamento che si viene articolando è forse colta nel modo più incisivo quando
Socrate descrive la ragione (dianoia) del filosofo come se fosse dotata di ali (249c4-5). E’ difficile
non accorgersi che questo passaggio supera l’opposizione dello Ione tra dianoia e ispirazione, e
dunque la caratterizzazione dell’ermeneutica come se si riducesse al veicolare passivamente
qualche potere divino. Il filosofo è un ermeneuta che veicola nel e attraverso il ragionamento un
potere divino che va al di là della ragione. Un ermeneuta che parla a nome del dio mentre parla
anche a nome suo.
Quando Socrate alla fine del suo secondo discorso descrive i due amanti mentre resistono alla
tentazione di consumare il loro amore perseguendo invece una vita nella filosofia (256a6-7), quello
che viene descritto è uno stato che non è né ciò che viene respinto come ‘moderazione umana’
(sophrosyne anthropine, 256e) e neppure ‘divina follia’, come si ricava dalla sua affermazione che i
due amanti ottengono un bene più grande di quanto può essere procurato o dalla moderazione
umana o dalla follia divina (256b5-7). Anche se è il loro amore che li trasporta oltre la moderazione
umana e li ispira divinamente, essi si dimostrano comunque capaci di raggiungere l’auto-controllo e
la padronanza di sé. Ed è chiaro che questo fatto supera quell’opposizione tra follia divina e autocontrollo umano che, come si è visto, domina le discussioni dello Ione. A questo proposito è
sicuramente significativo che Socrate ad un certo punto del discorso descriva la Bellezza come
assisa in trono vicino all’Autocontrollo/Moderazione (254b5-7). Eppure si sarebbe dovuto notare
che l’elogio di Socrate della follia erotica non faceva dipendere i suoi benefici dall’auto-controllo:
anche degli amanti non filosofici che non si sanno controllare e cedono al desiderio fisico Socrate
parla come se vincessero un premio non trascurabile per la loro follia erotica.
La preghiera che chiude il dialogo suggrisce una riconciliazione finale della techne con la follia
erotica e la possessione divina: è quando Socrate descrive se stesso come qualcuno che mette in
opera una competenza nell’amore che gli è stata data divinamente. Almeno nel Fedro, perciò,
Socrate risulta essere diverso da Ione: possiede una techne, ma una techne ben diversa da quella con
cui giudicava Ione. La techne di Socrate arriva ed è ispirata da qualcosa di più alto di lui; inoltre è
una techne che riguarda l’amare e il desiderare, e non una techne che serve a padroneggiare. Né un
esperto padrone di sé né un poeta folle: il filosofo è un ibrido di questi due. Ma questo non vuole
ancora dire che nel filosofo ragione e ispirazione sono soltanto giustapposte in modo estrinseco.
Piuttosto, il tipo di ragionamento e competenza che caratterizza il filosofo diverge intrinsecamente
rispetto a quello del dottore o del matematico in quanto si tratta della reminiscenza di una realtà
che, se pure lo ispira e motiva, non è comunque pienamente compresa o chiaramente vista. La
filosofia rimane in una tensione costante e irrisolvibile tra la ragione e l’ispirazione, e dunque tra
l’auto-controllo e la follia. Il filosofo deve essere aperto alla ispirazione divina resistendo allo stesso
tempo al rischio di trasformarsi nel portavoce passivo del dio e perdendo così se stesso e la sua
ragione.
La follia ispirata del poeta: un dono e un rischio
Questa ambiguità dell’ispirazione, che è sia un dono sia un rischio per i filosofi, è ben colta dalla
storia delle cicale. Le cicale erano nate da quegli uomini che furono a tal punto sopraffatti dal dono
delle muse da morire di inedia. Continuando la conversazione filosofica Socrate onora le cicale, e
perciò le Muse; ma allo stesso tempo egli si tiene a debita distanza, ‘insensibile al loro incanto di
sirene’ (259a7-b1). L’implicazione è che cedere completamente alla canzone delle cicale, e dunque
all’ispirazione delle Muse, significherebbe abbandonare la conversazione filosofica. Il che,
paradossalmente, significherebbe mancare di rispetto nei confronti delle Muse. Il filosofo può
onorare le Muse solo se allo stesso tempo resiste alla loro canzone. E non è proprio quello che
Platone sta facendo quando critica i poeti? Appellarsi alla techne non è semplicemente il modo
seguito dal filosofo per esorcizzare il poeta che è dentro di lui?
Troviamo qui anche una spiegazione per un altro importante motivo del dialogo: la relazione
ambivalente di Socrate rispetto alla natura, a ciò che in altre parole sta fuori le mura della città, vale
a dire il meraviglioso paesaggio in cui ha luogo la conversazione. Che la natura non possa parlargli
(230d3-5) è per Socrate tanto una minaccia contro una vita spesa a dialogare all’interno della città
quanto una fonte di ispirazione. Socrate si trova allo stesso tempo a casa e fuori casa in questo
ambiente naturale. Fuori della città si dà sempre il rischio di essere ‘rapito’ nel modo in cui Orizia
fu rapito da Borea: un rischio ben rappresentato dal primo discorso da lui tenuto – un discorso
blasfemo e falso, il discorso di chi è posseduto dalle ninfe. D’altro canto, è solo rischiando di essere
‘rapito’ che Socrate può offrire il secondo discorso in lode della follia erotica. Molto probabilmente
il filosofo non è quell’animale semplice che Socrate vorrebbe, ma qualcosa di più complicato e
persino mostruoso, come Tifone (230a): quanto meno è tanto un prodotto del mito quanto lo è della
ragione.
Nella discussione sulla scrittura che chiude il dialogo si legge una critica molto significativa, anche
se breve, dei poeti, e così pure dei rapsodi. Socrate afferma che nessun logos vale lo sforzo di venir
messo per iscritto o di essere pronunciato alla maniera dei rapsodi, in altre parole ‘senza indagine
del vero o senza insegnamento, ma con lo scopo di mirare solo a persuadere’ (277e6-9). Perciò
Socrate procede affermando che chi ‘non ha nulla di più prezioso delle sue composizioni o dei suoi
iscritti merita il nome di poeta, logografo o legilatore (278d8-e2), mentre un poeta, un legilatore o
un logografo che abbiano ‘composto opere con piena conoscenza della verità e siano capaci di
difenderle, sottoponendosi ad un esame e consapevoli della debolezza dello scritto rispetto alla loro
parola’, costoro meritano il nome non di sophos, ma di philosophos. Ciò che qui distingue il
filosofo è quell’abilità speciale che Socrate chiama dialektike techne (276e5-6), la quale, nella
misura in cui si configura come la capacità di seminare nell’anima logoi che si sanno difendere e
riprodurre (276e6-277a1), coincide presumibilmente con la techne erotica che Socrate aveva
precedentemente rivendicato per se stesso. E l’atteggiamento di Socrate verso il suo discorso
sull’amore corrisponde esattamente all’atteggiamento che il filosofo manifesterebbe nei confronti di
ciò che ha composto: con l’eccezione di quel raccogliere e dividere che ha chiamato ‘dialettica’, il
discorso gli sembra ‘il risultato di un gioco’ (paidiai pepaisthai, 265c8-9). L’ispirazione della
natura silenziosa è un rischio, ma un rischio è anche l’amore per i discorsi che normalmente
trattiene Socrate all’interno dei discorsi e che pretende la promessa di un discorso perché si
convinca ad uscire in campagna. Il discorso scritto con cui Fedro attira Socrate fuori delle mura
della città è in effetti un pharmakon (230d6) nel doppio senso di una cura e di un veleno. Se
discorso, scritto o orale, diventa un fine in sé, allora esso propone una semplice apparenza di
memoria e sapienza. Esso deve essere invece usato come una provocazione a ricordare quello che lo
trascende. L’amore per i discorsi deve essere trasformato nel discorso sull’amore. Ma ciò che qui è
vero del discorso in generale, deve essere vero anche della poesia. Una poesia che può criticare la
sua mancanza e dunque riconoscere la distanza che lo separa da ciò che la ispira; una poesia che
non si considera come il medium trasparente di un messaggio divino ma piuttosto come una
interpretazione intelligente di qualcosa che necessariamente e sempre la trascende; una poesia, in
breve, che non si prende troppo sul serio: questo tipo di poesia è degna della filosofia.
Conclusione: l’ermeneutica del filosofo e l’ermeneutica del poeta
Quale differenza emerge allora tra il filosofo e il poeta? La differenza può essere spiegata nei
termini delle rispettive ‘ermeneutiche’. Sia la filosofia sia la poesia sono ermeneutiche nel senso di
veicolare il messaggio di una realtà che le trascende. In questo senso entrambe sono folli e ispirate.
Ma ciò che Socrate suggerisce nello Ione è che il poeta è un hermeneus che non tenta di capire o
interpretare il messaggio che gli dei gli hanno affidato. Come Ione, questo poeta è soltanto un
veicolo, il latore di un messaggio. Il filosofo, al contrario, è l’interprete del messaggio divino di cui
è portatore: un ermeneuta nel senso moderno, piuttosto che nel senso antico. Il filosofo reagisce a
questi barlumi di realtà divina cercando di comprendere questa realtà e cercando di metterla in
relazione con la realtà che lo circonda. La sua follia ispirata è anche un logismos (un ragionamento)
che cerca, come la reminiscenza, di ricondurre tutte le sue percezioni a quelle Forme che ha visto
nel luogo iperuranio. Egli non ignora la distanza che corre tra la Bellezza in sé e una persona bella
cedendo alla sua passione per quest’ultima; ma neppure lascia che questa distanza rimanga
incolmabile pretendendo di poter arrivare ad una comprensione diretta e non mediata della prima.
La sua relazione con la persona in cui ha trovato la bellezza si sviluppa in una mediazione costante
tra ciò che è materiale e ciò che è spirituale, tra ciò che è mortale e ciò che è divino. E se l’idea di
Bellezza svolge un ruolo fondamentale per il filosofo, questo avviene in conseguenza della sua
capacità di collegare il sensibile e l’intelligibile. La follia ispirata del filosofo consiste in un
processo di mediazione e interpretazione che è così anche razionale e sobrio. Come il poeta, egli
può identificarsi con ciò che rappresenta – e così pure l’anonimità di Platone nei dialoghi – pur
mantenendo allo stesso tempo una distanza critica e ironica.
Se Platone esagera nelle sue polemiche contro il poeta nello Ione, questo accade perché, come si
comprende dal Fedro, è lui stesso a riconoscere la prossimità tra il poeta e il filosofo e dunque la
tentazione costante di diventare soltanto un poeta che il filosofo deve fronteggiare: una tentazione
che deve essere combattuta con la stessa determinazione con cui Socrate combatte la tentazione di
essere cullato dalle cicale. C’è sempre il rischio che l’ermeneutica verrà meno al suo dovere di
interpretare, rappresentandosi come un medium silenzioso e trasparente. La filosofia corre sempre il
rischio di diventare nient’altro che poesia: un rischio che non dovrebbe mai fronteggiare se fosse il
tipo di techne che Socrate invidia nello Ione.
(traduzione Mauro Bonazzi)