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Freud, l'ebraico e il sogno dell'esperanto
Contributed by DAVID MEGHNAGI
Tuesday, 24 March 2009
Last Updated Tuesday, 24 March 2009
La rinascita dell’ebraico ha significato di fatto la progressiva scomparsa dell’yiddish e del ladino
DAVID MEGHNAGI
Un canto vuol dire riempire una brocca, anzi, meglio, rompere la brocca. Romperla in pezzi. Nel linguaggio della
Qabbalah potremmo forse chiamarlo: Vasi infranti.
H. Leivick
1897. E’ un anno particolarmente denso di significati per la recente storia dell’ebraismo. A Basilea,
Theodor Herzl riunisce il primo congresso del movimento sionista. A est, si riunisce il primo congresso del Bund, la prima
organizzazione socialista nell’impero zarista. Nello stesso anno Sigmund Freud elabora la teoria
dell’Edipo. Sullo sfondo del lutto per la perdita del padre, e in risposta
all’antisemitismo, Freud aderisce al movimento internazionale dei B’nai B’rith.
Bundisti e sionisti combatteranno sino all’ultimo, anche per la scelta linguistica (lo yiddish contro l’ebraico)
sino a quando le loro differenze non furono rese “risibili” da un mondo folle oltre ogni immaginazione.
Se lo yiddish era il gergo materno di undici milioni d’ebrei, da cui aveva preso origine una letteratura e poesia
moderne, l’ebraico non era solo ed esclusivamente la lingua dei morti e delle preghiere. Se lo yiddish poteva
contare sul fatto di essere la lingua viva
degli ebrei, l’ebraico era la loro radice più antica, il nucleo attorno a cui era stata conservata e sviluppata
l’esistenza religiosa attorno alla sinagoga nel corso dei secoli. L’ebraico univa tutti gli ebrei e non solo una
parte di essi, e tale era stata la sua funzione nella giurisprudenza rabbinica e nelle composizioni poetiche religiose che
da un continente all’altro avevano tenuto uniti nel corso dei secoli le diverse famiglie dell’ebraismo.
La rinascita dell’ebraico, lo sviluppo dello yiddish, erano fenomeni altrettanto moderni, figli di una stessa vicenda
storica, parte
di un processo che toccava ogni aspetto dell’esistenza ebraica. Per secoli, generazioni di studiosi avevano
arricchito il lessico con parole e termini che resero possibile la traduzione di opere filosofiche e lo sviluppo della poesia
liturgica. La guida dei perplessi di Maimonide era stata pubblicata prima in arabo, poi tradotta dai Tibbonim.
Diversi secoli dopo, Spinoza per conto suo, aveva scritto una grammatica ebraica. In seguito una generazione di
illuministi ebrei (i maskilim) aveva iniziato secondo prospettive opposte e complementari una poderosa opera di
traduzione. Si traduceva dall’ebraico nell’Europa occidentale, in ebraico e in yiddish nei paesi
dell’Est Europa, dove la grande maggioranza del popolo ebraico era concentrata, e dove più forte sarebbe stato il
richiamo nazionale, linguistico e territoriale.
In un contesto meno drammatico, la rinascita dell’ebraico si sarebbe potuta tranquillamente conciliare con la
conservazione
dello yiddish e forse anche col recupero del ladino, la lingua che gli ebrei sefarditi avevano conservato con amore nel
doloroso esilio per le coste del Mediterraneo e in America. Non era stato Shalom Aleichem, uno dei più autorevoli
esponenti della rinascita sionista a dilettare i suoi lettori in jiddisch e scrivere allo stesso tempo in ebraico? Non era stato
Birnbaum, un altro esponente di primo piano del sionismo, a dire di avere una narice per l’ebraico ed una per lo
yiddish.
Non era stato Kafka che nelle sue ultime settimane di vita si era messo a studiare l’ebraico, a scrivere dello
yiddish con toni commossi: “Vi avvicinerete allo yiddish se poi considererete che in voi, oltre che nozioni, ci sono
delle energie e degli agganci ad energie che vi rendono adatti a capirlo per via d’intuizioni. Solo a questo punto
l’illustratore può esservi utile, rassicurandovi in modo che non vi sentiate più esclusi e facendovi capire che non
dovete più lamentarvi di non intendere lo yiddish. E’ questa la cosa più importante, perché a ogni lamento la
comprensione fa un passo indietro. Ma se ve ne state tranquilli, vi troverete di colpo nel bel mezzo dello yiddish. Ma una
volta che esso vi abbia afferrati - e tutto è yiddish: la parola, la melodia chassidica, e l’indole stessa di questo
attore ebreo orientale - allora non conoscerete mai più la vostra pace di un tempo. Allora sentirete la vera unità dello
yiddish: di voi stessi. Non sareste capaci di sopportare da soli questa paura, se dallo yiddish medesimo non vi venisse
anche una fiducia in voi stessi che fronteggia validamente tale paura e che è più forte di essa”?(F. Kafka,
Confessioni e Diari).
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Perché mai lo yiddish non avrebbe potuto conservarsi accanto all’ebraico? Se ciò non è accaduto, è in primo
luogo per l’immane tragedia che ha cancellato la quasi totalità dell’ebraismo in Polonia e in Lituania, e in
molti altri luoghi d’Europa.
Nel breve tempo in cui fu possibile, lo yiddish fu accanto all’ebraico uno dei motori della rinascita cultura e
spirituale. Grazie all’opera di grandi scrittori e poeti, da dialetto che era nel giro di una generazione era diventato
una grande lingua letteraria. Dal
canto suo l’ebraico, che non aveva smesso di alimentare la fiammella della speranza, uscito dalle mura della
sinagoga dov’era stato custodito con amore, è diventato nell’arco di mezzo secolo una lingua ricca che ha
dato corpo ad una delle più grandi esperienze letterarie di questo secolo. Il progetto di Eliezer Ben Yehuda, il padre della
rinascita linguistica ebraica, non era nato per avere una vita facile. Se i nuclei più oscurantisti dell’ortodossia
religiosa si opponevano all’uso dell’ebraico nella vita quotidiana perché l’ebraico doveva essere
conservato puro e sacro; bolscevichi e menscevichi, per opposte ragioni, non erano da meno.
Divisi su tutto, meno che sull’atteggiamento da assumere verso le istanze nazionali e culturali ebraiche (con la
duplice opposizione alle aspirazioni nazionali territoriali del sionismo e a quelle di “autonomia culturale” del
Bund), gli uni come gli altri consideravano la scelta dell’ebraico “controrivoluzionaria”.
In un’epoca ossessionata dalla centralità delle lingue nazionali e dall’identificazione di questa con un
territorio e con un popolo, la
questione della lingua era una pietra miliare attorno a cui unirsi o dividersi. Rispetto alla questione ebraica nemmeno gli
austromarxisti avrebbero agito diversamente. Pur avendo sottolineato in linea di principio la necessità di svincolare il
problema dell’appartenenza territoriale a quella linguistica e nazionale, quando si erano trovati di fronte al
problema ebraico avevano rifiutato di trarre la logica conclusione della loro impostazione. Lo svincolamento
dell’appartenenza nazionale e linguistica da quello territoriale, valeva solo per i popoli che avevano già da qualche
altra parte un territorio. Al contrario non valeva per gli ebrei che, non possedendo un proprio territorio, erano chiamati ad
assimilarsi. Sul piano dei valori nemmeno il riconoscimento dello yiddish come lingua nazionale sfuggiva a questa logica.
La scelta dello yiddish si rendeva necessaria perché era in quella lingua che gli operai ebrei comunicavano fra loro. Il
fatto che potesse svilupparsi e diventare una lingua nazionale era di per sé secondario. Le difficoltà concrete,
l’economicismo, l’ansia escatologica e palingenetica con cui le diverse correnti del socialismo guardavano
al futuro postrivoluzionario, non lasciavano spazio ad altre letture.
Vi è però un ulteriore aspetto da prendere in considerazione e approfondire, attraverso cui accedere ad uno strato della
moderna vita ebraica in tutta la sua valenza simbolica e culturale. Mi sono trovato a pensarci percorrendo la parte
vecchia della città di Tel Aviv ad uno degli incroci che conducono per la centrale via Ben Yehuda, il padre della rinascita
dell’ebraico moderno. Leggendo i nomi delle vie si resta colpiti dall’esistenza di una via legata al nome di
Zamenhof, il padre dell’esperanto. I progetti di Eliezer Ben Yehuda (il vero nome era Perlman) e di Ludwik Lazar
Zamenhof erano agli antipodi, ma entrambi figli della stessa condizione e del bisogno di trovare una soluzione ai dilemmi
della condizione ebraica.
Eliezer ben Yehuda vedeva nella rinascita dell’ebraico, la condizione stessa per riscattare gli ebrei dalla loro
condizione di oppressione. Al contrario il progetto di Zamenhof che non era certo un assimilazionista e condivideva le
preoccupazioni che assillavano i padri del Risorgimento ebraico -, affondava le sue radici nella speranza di vedere
superata ogni barriera, anche linguistica, tra i popoli. “Il luogo della mia nascita e dei miei anni giovanili - scrive
Zamenhof in una sua lettera - impresse il loro primo indirizzo a tutte le mie idee future”. A Bialystok, la sua città di
nascita, la popolazione “si componeva di quattro elementi diversi: russi, polacchi, tedeschi ed ebrei”, in cui
ciascuno parlava la sua propria lingua, avendo con gli altri “rapporti ostili”. “Per strada, nelle case,
ad ogni passo, tutto mi dava la sensazione che l’umanità non esistesse. Esistevano solo i russi, i polacchi, i
tedeschi, gli ebrei, ecc”.
La città, al centro di una regione oppressa che era oggetto di aspre dispute, era per Zamenhof un esempio paradigmatico
di dove
potesse condurre l’esasperato conflitto linguistico e nazionale. Da qui l’idea di ‘una lingua
neutra’ e ‘sovranazionale’ che unisse
anziché dividere, che avvicinasse gli uomini anziché rinsaldarli nella loro opposta sordità. “Nessuno, annota
Zamenhof, può sentire la
necessità di una lingua umanamente neutra e sovranazionale quanto un ebreo, che è obbligato a pregare Dio in una
lingua morta da
molto tempo, è educato e istruito nella lingua di un popolo che lo emargina, e ha compagni di sventura su tutta la terra,
con i quali non può capirsi!” (L. L. Zamenhof, Lettere a Borovko (1895) e a Michaux (1905), citate in P. Janton,
L’esperanto, Paris, PUF, 1973).
Nessuno meglio di un ebreo, si potrebbe aggiungere parafrasando le parole di Freud nella sua lettera a Pfister, poteva
trasformare
questo bisogno in un programma praticabile, qualcosa che andasse oltre una bizzarra fantasia, di un’utopia
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senza prospettive reali.
Nelle intenzioni di Zamenhof, la lingua universale non doveva nascere dal nulla. Per non creare difficoltà di apprendimento
insormontabili per la presenza di radici sconosciute, aveva ampiamente utilizzato la lingua latina, matrice o base di
prestiti, secondo i casi, di gran parte delle lingue europee.
Anche Perlman, che in seguito prese il nome di Eliezer Ben Yehuda, era nato in Lituania, in un villaggio sperduto. Ma la
soluzione da lui cercata avrebbe proceduto nella direzione opposta a quella di Zamenhof: non la ricerca di un substrato
europeo su cui edificare una lingua comune, ma il ritorno all’ebraico, la lingua ancestrale dei padri. La scelta di
Perlman avrebbe conquistato i militanti ebrei che erano stati costretti ad un duro risveglio, dopo l’ondata di
pogrom del 1882.
Come Kafka, anche Zamenhof e Perlman ad un certo momento della loro ricerca si erano dovuti scontrare con delle
impossibilità linguistiche. Per Zamenhof si trattava della difficoltà insormontabile rappresentata dall’uso di una lingua
inventata, anche se a
differenza del volapuk di Schleyer, l’esperanto grazie all’ampio uso del latino, aveva maggiori possibilità
d’imporsi come lingua comune dei popoli europei. Emigrato in Palestina nel 1888, Ben Yehuda aveva preso
l’estrema decisione di parlare col figlio solamente in ebraico, proibendo a chiunque di rivolgersi ad esso in
un’altra lingua. Settimana dopo settimana, i membri dello Yishuv, la comunità ebraica nata
dall’immigrazione sionista, facevano l’incontro con decine di parole da lui coniate, alcune delle quali
sopravvivevano ed entravano nell’uso, mentre altre cadevano.
L’attività svolta sulla lingua da un solo uomo sopravanzò quella di un’intera generazione di studiosi. Nella
cella di un carcere turco,
dove fu rinchiuso in Palestina per due anni, Perlman lavorò al suo progetto per diciotto ore al giorno, dalle sei di mattina
alle ventiquattro. In America dove visse per un certo periodo, lavorò per dodici, tredici ore al giorno. Dei sedici volumi di
cui si compone l’atlante storico della lingua ebraica, terminato solo nel 1959, sei sono suoi. Quando Perlman morì
consumato dal suo sforzo nel ‘22,
l’ebraico parlato era la lingua di una piccola comunità. Nei decenni successivi l’ebraico avrebbe recuperato i
secoli perduti.
L’atto di nascita del progetto di Ben Yehuda, è un articolo del 1878 in cui si faceva appello agli ebrei di parlare
solo in ebraico.
L’atto di nascita dell’esperanto, è del 1887. Non è un caso che la denominazione sia la stessa
dell’inno nazionale ebraico, l’Hattikvah(speranza). Sono più che coincidenze.
Dieci anni dopo nascevano il movimento sionista ed il movimento bundista, fratelli gemelli e speculari nella loro reciproca
opposizione anche linguistica. Il primo avrebbe propugnato l’ebraico, il secondo lo jiddisch come lingua nazionale
ebraica. In quello
stesso anno, Freud formulava il nucleo fantasmatico della sua teoria edipica.
Ben Yehuda era nato nel 1858, Zamenhof nel 1859. Rispettivamente due e tre anni dopo Freud. Come Freud, anche
Zamenhof era medico. Se racconto questi fatti, non è solo per ricordare uno dei tanti paradossi della vita ebraica e della
società israeliana, che i nomi delle strade possono rievocare e riflettere meglio di ogni altro commento. È perché in questi
paradossi è racchiusa una possibile chiave di lettura per comprendere il legame che la nascita delle scoperte freudiane
ha con la vicenda ebraica, che spiega il profondo radicamento ed il successo del pensiero di Freud nella generazione
ebraica dell’emancipazione.
Se come ha spiegato Lacan, l’inconscio è strutturato come un linguaggio, cos’altro di più
ebraicoc’era nell’avventura scientifica di Freud, del bisogno di scoprire i codici cifrati di una prima lingua,
capace di gettare un ponte fra lingue che non comunicavano più fra loro? È un fatto a cui si è prestato poca attenzione, e
che solo di recente ha incontrato l’attenzione dovuta all’interno del movimento psicoanalitico. La
maggioranza delle prime analisi didattiche erano svolte in una situazione in cui uno dei due componenti della coppia
analitica parlava in una lingua diversa dalla propria. Il fatto non è stato oggetto dell’attenzione dovuta, non solo
perché per la maggioranza di questa generazione di analisti il multilinguismo (che va distinto dal poliglottismo - come
l’interculturalità va distinta dalla multiculturalità) era una condizione esistenziale; ma perché intorno a questo
problema ruotava la questione stessa della loro identità di ebrei e la validità della loro scommessa perché pionieri di un
nuovo sapere.
L’attraversamento della lingua e dei codici, la necessità di ridare un significato alla multiappartenenza, in
un’epoca in cui i nazionalismi emergenti consideravano tutto ciò un pericolo e la stessa psicologia accademica vi
vedeva il sintomo di un disturbo o
peggio di una malattia, è all’origine del progetto freudiano, ne è una importante condizione storica. Il fatto che il
pensiero psicoanalitico si sia ad un certo momento dovuto misurare con gli apporti della linguistica non è solo il risultato
di un inevitabile e fecondo incontro su terreni di confine di discipline fra loro diverse.
Per chi ha capacità di ascolto, questa discussione scientifica conserva l’eco di eventi storici drammatici da cui ha
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preso avvio la
ricerca freudiana di una lingua franca, capace di far parlare oltre il sintomo. Si comprende dunque come lo studio della
componente
ebraica di Freud, intenda non solo a riscattare un aspetto importante della vita e dell’opera del fondatore della
psicoanalisi, ma sia
anche un prisma entro cui riflettere problemi di portata più ampia che coinvolgono la società nel suo insieme. È nello
sguardo
stranieroche una società poteva imparare a comprendersi meglio, e capire perché determinate scoperte, alla cui radice vi
era un
ethosparticolare, si fossero poi affermate e diffuse come parte del vivere quotidiano in Occidente.
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