KELSEN, H. Democrazia e filosofia. In: Bologna: Il Mulino, 1995, p. 191-274. KELSEN, H. La democrazia. Pagina 189 I fondamenti della democrazia Pagina 190 (em branco) Pagina 191 Capitolo primo Democrazia e filosifia LA DEMOCRAZIA COME «GOVERNO» DEL POPOLO: UNA PROCEDURA POLITICA L'IDEA POLITICA del diciannovesimo secolo, nata dalle rivoluzioni americana e francese del diciottesimo secolo, fu la democrazia. Non vi è dubbio che, anche nella civiltà occidentale, vi erano importanti forze favorevoli al mantenimento del principio autocratico, ma i suoi rappresentanti erano stigmatizzati come reazionari. Il futuro apparteneva ad un governo del popolo. Questa era la speranza di coloro che credevano nel progresso e che si battevano per un più alto tenore di vita sociale. Fu soprattutto la nascente borghesia a combattere per questa idea. Nel ventesimo secolo la situazione intellettuale e politica è tuttavia cambiata. L'effetto immediato della prima guerra mondiale sembrò, è vero, una vittoria del principio democratico; i nuovi Stati costituitisi adottarono costituzioni democratiche e il Reich tedesco, il più potente bastione della monarchia, diventò una repubblica. Ma l'inchiostro del Trattato di Pace di Versailles non s'era ancora asciugato che in Italia saliva al potere il governo fascista e in Germania il partito nazionalsocialista iniziava la sua ascesa vittoriosa. Con essi fu propugnata una nuova Pagina 192 dottrina politica, che si opponeva con ardore alla democrazia e proclamava una nuova via di salvezza politica: la dittatura. Non vi dovrebbero essere dubbi circa la forte attrazione esercitata da questo nuovo idolo sulla intellighenzia borghese, non solo in Italia ed in Germania, ma in tutto il mondo occidentale. E sebbene il fascismo ed il nacional-socialismo siano stati distrutti, come realtà politiche, nella seconda guerra mondiale, le loro ideologie non sono sparite e si oppongono ancora, direttamente o indirettamente, al credo democratico. Un avversario più pericoloso del fascismo e del nazional-socialismo è il comunismo sovietico che combatte l'idea democratica sotto la maschera di una terminologia democratica. Pare che il simbolo della democrazia abbia assunto un valore così generalmente riconosciuto che la sostanza della democrazia non può essere abbandonata senza mantenerne il simbolo. È ben conosciuto il cinico detto: se il fascismo si introducesse negli Stati Uniti lo si chiamerebbe democracia[Nota l]. Il simbolo deve quindi mutare così radicalmente di significato da poter essere usato per esprimere esattamente il contrario: nella teoria politica sovietica la dittatura del partito comunista, pretendendo di essere la dittatura del proletariato, viene presentata come democrazia. È molto importante mettere in luce l'artificio concettuale per mezzo del quale può compiersi questa distorsione del simbolo. Il significato originale del termine «democrazia», coniato nella teoria politica dell'antica Grecia, era: governo del popolo (demos = popolo, kratein = governo). L'essenza del fenomeno politico designato con tale termine era la partecipazione dei governati al governo, il principio di libertà nel senso di autodeterminazione politica; Pagina 193 e questo era il significato col quale il termine è stato ripreso dalla teoria politica della civiltà occidentale. È facile capire che sia nell'antichità che nella nostra epoca un governo del popolo è desiderato perchè si suppone che esso sia un governo per il popolo. Un governo «per il popolo» significa un governo che agisce nell'interesse del popolo. Ma alla domanda quale sia l'interesse del popolo si può rispondere in modi diversi, e ciò che il popolo stesso crede essere il proprio interesse non è necessariamente la sola risposta possibile. Si può anche dubitare che esista un'opinione del popolo circa il proprio interesse ed una volontà del popolo mirante a realizzarlo. Per cui un governo può considerarsi un governo per il popolo - e difatti ogni governo lo è - sebbene possa non essere affatto un governo del popolo. Già nell'antica Grecia, avversari della democrazia come Platone e Aristotile sostenevano che un governo del popolo, cioè un governo di uomini inesperti nella pratica del governo e privi della necessaria conoscenza dei fatti e dei problemi della vita politica, possa non essere affatto nell'interesse del popolo e perciò rivelarsi contrario al popolo. Assai spesso gli scrittori politici cercarono di dimostrare che l'autocrazia sia essa monarchia ereditaria o dittatura, è per il popolo un governo migliore di un governo del popolo, e cioè della democrazia. Non si può negare che vi sia una parte di verità in questa argomentazione e che «governo per il popolo» non si identifica con «governo del popolo». Poichè non solo la democrazia, ma anche il suo opposto, l'autocrazia, può essere un governo per il popolo, tale qualità non costituisce un elemento per definire la democrazia stessa. Anche per questa ragione è erronea la dottrina secondo cui la democrazia presuppone il credo nell'esistenza di un bene comune, obiettivamente determinabile, che il popolo è in grado di conoscere e, di conseguenza, di rendere oggetto della propria volontà. Pagina 194 Se essa fosse giusta, la democrazia non sarebbe possibile. Perchè è facile dimostrare che non esiste un bene comune obiettivamente determinabile, che alla domanda di cosa sia il bene comune si può rispondere soltanto con giudizi di valore soggettivi, i quali possono sostanzialmente differire l'uno dall'altro e che, anche se esso esistesse, l'uomo medio, e quindi il popolo, non sarebbe probabilmente in grado di conoscerlo. Non si può negare che il popolo, come massa di individui di differenti livelli economici e culturali, non ha una volontà uniforme, che solo l'individuo possiede un volere reale e che la cosiddetta «volontà popolare » è un modo di dire figurato e non una realtà. Ma la forma di governo definita come «governo del popolo » non presuppone una volontà del popolo volta a realizzare ciò che, secondo l'opinione di questo, costituisce il bene comune. n termine sta a designare un governo a cui il popolo partecipa direttamente o indirettamente, vale a dire un governo esercitato mediante decisioni prese a maggioranza da un'assemblea popolare o da uno o più gruppi di individui o anche da un solo individuo eletto dal popolo. Tutti costoro si chiamano rappresentanti del popolo. II termine indica la relazione, costituita mediante l'elezione, tra l'elettorato e l'eletto. Per «popolo» si intendono tutti gli adulti che sono soggetti al governo esercitato direttamente dall'assemblea da essi costituita o indirettamente dai rappresentanti eletti. Elezioni democratiche sono quelle basate sul suffragio universale, uguale, libero e segreto. II principio democratico può essere attuato in gradi diversi, a seconda di come queste condizioni, e soprattutto quella dell'« universalità del suffragio », sono realizzate. Esso si è sviluppato considerevolmente nel corso del ventesimo secolo, perché il diritto di voto, limitato durante il secolo precedente soltanto a chi pagava le tasse e ai maschi, è stato esteso ai salariati non contribuenti e alle donne. La democrazia è diventata democrazia di massa. Pagina 195 Altra e diversa questione è se il governo democratico non limitato possa attuare in più vasta misura di un governo democratico limitato la difficilmente determinabile opinione o la non meno problematica volontà popolare oppure il misterioso bene comune conosciuto e voluto dal popolo. Comunque si possa rispondere a tale domanda, nessuna risposta giustifica il rifiuto del concetto di democrazia come governo del popolo e la sua sostituzione con un altro concetto, e specialmente con quello di governo per il popolo. In conseguenza si deve considerare la partecipazione al governo, vale a dire alla creazione e all'applicazione delle norme generali e individuali dell'ordinamento sociale che costituiscono la comunità, come la caratteristica essenziale della democrazia. Se tale partecipazione debba essere diretta o indiretta, e cioè se la democrazia debba essere diretta o rappresentativa, è in ogni caso questione di procedura, di metodo specifico per creare e realizzare l'ordinamento sociale che costituisce la comunità; infatti questo è il criterio distintivo di quel sistema politico propriamente chiamato democrazia. Tale criterio non è un contenuto specifico dell'ordinamento sociale, in quanto la procedura in questione non è essa stessa un contenuto di questo ordinamento, cioè un contenuto regolato da esso. II metodo di creazione dell'ordinamento è sempre regolato dallo stesso ordinamento, se questo è un ordinamento giudirico. È infatti una caratteristica della legge quella di regolare la sua stessa creazione e applicazione [Nota 1]. Il concetto moderno di democrazia, prevalente nella civiltà occidentale, non è certo del tutto identico a quello originale dell'antichità, essendo stato modificato dal liberalismo politico, la cui tendenza è di ridurre il potere del governo nell'interesse della libertà dell'individuo. Seguendo tale influenza, Pagina 196 nel concetto di democrazia sono state introdotte garanzie per certe libertà intellettuali, specialmente per la libertà di coscienza, sicchè un ordinamento sociale che non contenesse tale garanzia non sarebbe considerato democratico anche se la procedura della sua creazione ed applicazione garantisse la partecipazione dei governati al governo. La democrazia liberale o moderna è, tuttavia, soltanto un particolare tipo di democrazia. È importante rendersi conto che il principio democratico e quello liberale non si identificano e che tra loro esiste, anzi, un certo antagonismo. Infatti, secondo il primo, il potere del popolo è illimitato o, come si esprime la dichiarazione francese dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino: «Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella nazione». Questa è l'idea della sovranità del popolo. Il liberalismo, invece, significa limitazione del potere governativo, qualsiasi forma il governo possa assumere, e significa anche limitazione del potere democratico. Insomma: la democrazia è essenzialmente un governo del popolo. L'elemento procedurale rimane il più importante, mentre l'elemento liberale - come contenuto particolare dell'ordinamento sociale - è di importanza secondaria. Anche la democrazia liberale è in primo luogo e specificamente una procedura. È stato detto che la democrazia come metodo politico, cioè come un certo tipo di convenzione istituzionale per giungere a decisioni politiche, legislative e amministrative, è « incapace di essere un fine in se stessa, un fine che prescinda da qualsiasi decisione di cui sarà la causa in determinate condizioni storiche»[Nota 1]; e che come mero metodo non può «servire necessariamente, sempre e dovunque, quegli interessi o ideali per i quali intendiamo realmente combattere e morire senza riserva»; che «il metodo dePagina 197 mocratico non garantisce necessariamente maggiore libertà individuale di quella che un altro metodo politico consentirebbe in circostanze uguali»[Nota 1]; e, in particolare, che la democrazia non può «sempre salvaguardare la libertà di coscienza meglio dell'autocrazia» [Nota 2]. Tale illazione dal carattere procedurale della democrazia non è del tutto esatta. Se definiamo la democrazia come un metodo politico mediante il quale l'ordinamento sociale è creato ed applicato da coloro che sono soggetti all'ordinamento.stesso, in modo da assicurare la libertà politica nel senso di autodeterminazione, allora la democrazia serve necessariamente, sempre e ovunque l'ideale della libertà politica. E se nella nostra definizione includiamo l'idea che l'ordinamento sociale, creato nel modo suindicato, per essere democratico, deve garantire alcune libertà intellettuali, come la libertà, di coscienza, la libertà di stampa, ecc., allora la democrazia necessariamente, sempre ed ovunque serve anche l'ideale della libertà intellettuale. Se in un caso concreto l'ordinamento sociale non è creato nel modo indicato dalla suddetta definizione o se esso non contiene garanzie di libertà, non è che la democrazia non serva gli ideali, ma sono gli ideali a non essere serviti perchè la democrazia è stata abbandonata. Questa critica confonde l'idea di democrazia con una realtà politica che erroneamente interpreta se stessa come democrazia, sebbene non corrisponda a siffatta idea. Essa confonde ulteriormente la questione se la democrazia può necessariamente servire un certo ideale con quella se la democrazia può essere essa stessa un icleale assoluto. Pare che l'autore deduca dalla risposta negativa che egli dà alla prima domanda una risposta negativa anche alla seconda. Ma, sebbene la risposta al primo problema debba Pagina 198 essere certamente affermativa, al secondo si può rispondere anche negativamente. L'ideale di libertà - come ogni ideale sociale - è dal punto di vista della scienza politica soltanto un ideale relativo; ma, da quello della valutazione emotiva, esso può essere il più alto, il supremo ideale di un individuo, il valore che l'individuo preferisce a qualsiasi altro si trovi in conflitto con esso. Io posso lottare e morire senza riserve per la libertà che la democrazia è capace di attuare, anche se posso ammettere che dal punto di vista della scienza razionale il mio ideale è soltanto relativo. Schumpeter dice molto giustamente: «Ciò che distingue un uomo civilizzato da un barbaro è il rendersi conto della validità relativa delle proprie convinzioni e, malgrado ciò, sostenerle senza indietreggiare» [Nota 1]. Come metodo o procedura, la democrazia è una «forma» di governo. Infatti la procedura attraverso la quale si crea e si attua in pratica un ordinamento sociale è considerata formale per distinguerla dal contenuto dell'ordinamento che è un elemento materiale o sostanziale. Tuttavia, se la democrazia è soprattutto una forma, di Stato o di governo, si deve tener presente che l'antagonismo tra forma e sostanza o tra forma e contenuto è soltanto relativo e che una stessa cosa può sembrare forma da un punto di vista e contenuto o sostanza da un altro. In particolare, non vi è alcun principio obiettivo che stabilisca una differenza tra il valore dell'una e il valore dell'altro. Sotto alcuni rispetti può essere più importante la forma e, sotto altri, il contenuto o la sostanza. L'argomento del « formalismo», spesso usato per screditare una certa corrente di pensiero e specialmente uno schema politico, è soprattutto un espediente per nascondere un interesse antagonistico che è la vera ragione dell'opposizione. Non vi è perciò mezzo più adatto ad impedire il moto verso la Pagina 199 democrazia, a preparare la via all'autocrazia, a dissuadere il popolo dal desiderio di partecipare al governo, che quello di screditare la definizione della democrazia come procedura usando l'argomento che essa è «formalistica» e di far credere al popolo che il suo desiderio è esaudito se il governo agisce nel suo interesse e che esso ha raggiunto la desiderata democrazia se ha un governo per il popolo. La dottrina politica che fornisce l'ideologia appropriata a tale tendenza mette in risalto il punto che l'essenza della democrazia è un governo nell'interesse della massa del popolo e che la partecipazione popolare al governo è un fattore d'importanza secondaria. Se un governo è per il popolo, se cioè agisce nel suo interesse, ne attua la volontà e quindi è anche un governo del popolo. Ciò che ognuno « vuole» è infatti il proprio interesse; e se un governo attua l'interesse del popolo, è la volontà popolare, e perciò il popolo stesso, che governa, anche se il governo non è eletto dal popolo con il suffragio universale, eguale, libero e segreto, anche se esso non è stato per nulla eletto o se lo è stato mediante un sistema elettorale che non consente ad ognuno di esprimere liberamente la propria volontà politica. L'obiezione che in tal caso l'interesse che il governo cerca di attuare può non essere ciò che il popolo stesso considera proprio interesse, è respinta dall'argomentazione che il popolo può sbagliare nel valutare il suo «vero» interesse e che, se il governo attua il vero interesse popolare, ne rappresenta anche la vera volontà e deve quindi essere considerato una «vera» democrazia, in opposizione a una democrazia apparente e meramente formale. In questa «vera» democrazia, il popolo può essere «rappresentato» da una élite, da un'avanguardia, o perfino da un leader carismatico. Occorre solo spostare l'accento, nella definizione di democrazia, da «governo del popolo» a «governo per il popolo». Pagina 200 LA DOTTRINA SOVIETICA SULLA DEMOCRAZIA Tale spostamento è un tratto caratteristico della dottrina sovietica, secondo la quale la dittatura del Partito comunista è democrazia[Nota 1]. La tendenza a mettere in primo piano, nella ideologia politica, l'interesse delle masse appare già nel Manifesto Comunista, dove l'istituzione della dittatura del proletariato, scopo immediato del movimento socialista, è presentata come la vittoria della democrazia. «Il primo passo della rivoluzione operata dalla classe lavoratrice» è «di vincere a battaglia della democrazia». Il «movimento proletario» è definito come « il movimento cosciente e indipendente dell'immensa maggioranza, nell'interesse dell’immensa maggioranza». Seguendo questo concetto, Lenin dichiara che la dittatura del proletariato, e cioè la « organizzazione dell'avanguardia degli oppressi», è «una immensa espansione della democrazia, perchè essa diventa democrazia per il povero, democrazia per il popolo, e non [come la democrazia borghese] democrazia per il ricco»[Nota 2]. La caratteristica essenziale di questa democrazia è che essa «porta all'estensione dell'effettivo godimento della democrazia a coloro che sono oppressi dal capitalismo, alle classi lavoratrici, in un grado che fino ad ora non ha precedenti nella storia mondiale»[Nota 3]. Ciò che è decisivo non è il criterio formalistico delle istituzioni rappresentative, ma la materiale attuazione degli interessi delle masse. Perciò Lenin dichiarò che «la democrazia socialista non" esclude in alcun modo la direzione individuale Pagina 201 e la dittatura e che la volontà di una classe può in certi casi essere attuata da un dittatore, il quale talvolta può fare di più proprio perchè solo e può essere frequentemente più necessario»[Nota 1]. « Lenin ci ha insegnato» scrisse la Pravda «che la dittatura del proletariato in una società classlsta rappresenta l'interesse della maggioranza ed è perciò una forma di democrazia proletaria» [Nota 2]. Ma la democrazia della dittatura del proletariato non è l'ultima fase nello sviluppo della democrazia socialista. «Democrazia significa uguaglianza» , ma la democrazia borghese significa soltanto uguaglianza «formale», mentre la democrazia socialista «va oltre l'uguaglianza formale verso l'uguaglianza reale, vale a dire verso l'applicazione della regola: da ognuno secondo la sua capacità, ad ognuno secondo i suoi bisogni»[Nota 3]. Questa è la formula marxista di giustizia nella futura società comunista senza Stato. In questa democrazia il popolo non partecipa al governo, perchè il governo non esiste affatto. Questo pervertimento del concetto di democrazia da quello di governo del popolo, cosa che in uno Stato moderno può soltanto significare governo di rappresentanti eletti dal popolo, a quello di regime politico nell'interesse del popolo, non solo è teoricamente inammissibile in quanto è un abuso terminologico, ma è anche assai problematico politicamente. Infatti esso sostituisce, come criterio della forma di governo definita democrazia, un giudizio di valore del tutto soggettivo l'interesse del popolo - a un fatto oggettivamente accertabile: la rappresentanza attraverso organi elettivi. Ogni governo può asserire ed in effetti, come si è mostrato, ogni governo asserisce di agire nell'interesse del popolo. Siccome non vi è alcun criterio oggetPagina 202 tivo per accertare il cosiddetto interesse del popolo, la frase «governo per il popolo» è una formula vuota, atta ad essere usata per giustificare ideologicamente qualsiasi tipo di governo[Nota 1]. È altamente significativo il fatto che Página 203 fino a quando gli ideologi del partito nazional-socialista non osarono dichiararsi apertamente contro la democrazia, essi usarono esattamente lo stesso metodo degli ideologi del partito comunista. Essi tacciarono il sistema politico democratico della Germania di plutocrazia, di essere una democrazia meramente «formale», che in realtà garantiva ad una minoranza di ricchi il governo sulla maggioranza dei poveri, ed asserirono che il partito nazista, come élite del popolo tedesco, intendeva attuare la vera volontà del popolo stesso: la grandezza e la gloria della razza tedesca. UNA NUOVA DOUTRINA RAPPRESENTANZA Il pevertimento del concetto di democrazia ora definito non si limita alla dottrina politica sovietica o a quella nazional-socialista. Una forma di pensiero del tutto simile, relativa alla teoria della rappresentanza, è stata recentemente presentata come propria da una «nuova scienza politica»[Nota 1]. L'autore distingue un tipo di rappresentanza meramente «elementare» da un tipo di rappresentanza « esistenziale », proprio come i teorici sovietici distinguono una demoerazia meramente « formale» da una democrazia « reale». Per tipo elementare di rappresentanza si intende quella rappresentanza in cui «i membri dell'assemblea legislativa assolvono la loro funzione in virtù di un'elezione popolare ». L'autore lo definisce ulteriormente riferendosi Pagina 204 alla «elezione di un capo dell'esecutivo fatta dal popolo come avviene in America», al «sistema inglese di un comitato della maggioranza parlamentare, cioè il consiglio dei ministri», al «sistema svizzero di far eleggere l'esecutivo dalle due camere in seduta congiunta», e perfino a un governo monarchico «fintanto che un monarca può agire solo con la controfirma di un ministro responsabile ». L'autore insiste sul fatto che il rappresentante deve essere eletto «da tutti gli adulti che risiedono in un dato distretto territoriale», che le elezioni siano «ragionevolmente frequenti» e che i partiti politici possano essere «gli organizzatori e i mediatori della procedura elettorale»[Nota 1]. Il tipo di rappresentanza «elementare» si identifica più o meno con quella che nella teoria politica sovietica si chiama la democrazia puramente «formale» degli Stati borghesi. Questo tipo elementare di rappresentanza o - come viene anche chiamata - rappresentanza in mero «senso costituzionale»[Nota 2], è, secondo la nuova scienza politica, sul piano teorico, un concetto di scarso «valore conoscitivo»[Nota 3]. Esso è «elementare» perchè si riferisce soltanto all'« esistenza esterna della società»[Nota 4], «ai semplici dati del mondo esterno» [Nota 5]. Ma la società come insieme di relazioni fra gli uomini può esistere soltanto nel mondo esterno e, perciò, la rappresentanza come fenomeno sociale può riferirsi solo a dati del mondo esterno. In effetti, la rappresentanza «esistenziale», che la nuova scienza politica tenta di sostituire alla rappresentanza puramente elementare, si riferisce, come vedremo, esattamente alla stessa esistenza esterna della società. Allo scopo di passare dal tipo elementare di rappresenPagina 205 tanza a quello esistenziale l'autore della nuova scienza politica sostiene che « il tipo elementare di istituzioni rappresentative» - vale a dire, rappresentanza mediante organi eletti sulla base del suffragio libero e universale - « non esaurisce il problema della rappresentanza»[Nota 1]. Ciò è senza dubbio vero. Non esiste solo un tipo di rappresentanza democratica, ma anche un tipo di rappresentanza non democratica. Il principio che un individuo «rappresenta» una comunità significa che l'individuo agisce come un organo della stessa, ed egli agisce come tale quando adempie a certe funzioni determinate dall'ordinamento sociale che costituisce la comunità. Se l'ordinamento, come nel caso dello Stato, è un ordinamento giuridico, le funzioni che esso determina sono la creazione e l'applicazione dell'ordinamento medesimo. È facile capire che l'ordinamento giuridico deve essere valido, e che lo è, se è realmente efficace, vale a dire se è osservato da coloro che sono soggetti all'ordinamento. Solo se un individuo agisce come organo dello Stato, le sue azioni possono essere imputate allo Stato e ciò significa che la sua azione può essere interpretata come un'azione dello Stato ed egli stesso può essere considerato come un rappresentante dello Stato. L'ordinamento giuridico determina non soltanto la funzione, ma anche l'individuo che deve assolvere la funzione, cioè l'organo. Vi sono vari modi di determinare l'organo. Se l'organo deve essere un'assemblea di individui soggetti all'ordinamento, oppure deve trattarsi di individui eletti da questi, si stabilisce una democrazia o, ciò che è uguale, un tipo democratico di rappresentanza. Ma la comunità, specialmente lo Stato, non è rappresentata soltanto se è organizzata democraticamente. Anche uno Stato autocratico è rappresentato da organi, sebbene questi non siano determinati in modo democratico. Siccome Pagina 206 ogni comunità organizzata possiede degli organi, vi è rappresentanza là dove esiste una comunità organizzata e specialmente uno Stato. Tuttavia, nelle cosiddette democrazie rappresentative, gli organi sono considerati dalla teoria politica tradizionale come rappresentanti dello Stato quando rappresentano il popolo dello Stato. Il principio che l'organo legislativo, il parlamento, e il supremo organo esecutivo, il presidente in uno Stato democratico, rappresentano il popolo, significa soltanto - come si è detto - che gli individui soggetti all'ordinamento giuridico costituente lo Stato esercitano un'influenza decisiva sulla creazione degli organi legislativi ed esecutivi in questione, nei limiti in cui la costituzione li autorizza ad eleggere questi organi. È vero che rappresentanza dello Stato e rappresentanza del popolo dello Stato sono due concetti diversi che la teoria politica tradizionale non sempre distingue con sufficiente chiarezza; ma non può esservi dubbio alcuno sul significato dei princìpi in questione quando tale dottrina si riferisce alle istituzioni rappresentative. Come spesso accade, uno stesso ed unico termine viene usato con un significato ora più ampio ora più ristretto. Nello stesso modo in cui monarchia «costituzionale» indica una monarchia che ha una specifica, cioè una più o meno democratica, costituzione sebbene anche la monarchia assoluta ne abbia una e, in tal senso, sia anch'essa monarchia costituzionale il termine «istituzioni rappresentative» indica solo una rappresentanza democratica per quanto ne esista anche un tipo non democratico. Così come non vi è Stato senza costituzione, sebbene il termine «costituzione» sia usato anche in senso più stretto, per uno speciale tipo di costituzione, non vi è Stato che non abbia una rappresentanza, anche se il termine «rappresentanza» viene usato pure in senso più stretto, cioè per un tipo specifico di rappresentanza. Adoperare un termine ora nel suo significato più Pagina 207 largo ora in quello più stretto non è il migliore dei metodi terminologici, ma in ciò non vi è nulla di «elementare». Inoltre lo stesso autore della nuova scienza politica definisce il tipo democratico di rappresentanza come «rappresentanza in senso costituzionale» sebbene ogni altro tipo di rappresentanza, ivi incluso il tipo «esistenziale», possa essere soltanto rappresentanza in senso costituzionale, giacchè ogni tipo di rappresentanza deve essere stabilito da una costituzione. Molto più importante del doppio significato della rappresentanza, dal quale difficilmente possono sorgere malintesi, è il fatto che il termine «rappresentanza» può pretendere di significare non solo rappresentanza dello Stato, ma anche rappresentanza del popolo dello Stato, soltanto ed esclusivamente quando ci si riferisca alla rappresentanza basata su organi eletti in modo democratico. Poichè, se il principio che un organo dello Stato rappresenta il popolo non implica una grossolana finzione, esso non può significare altro che gli individui soggetti all'ordinamento legale costituente lo Stato hanno il diritto di esercitare un'influenza decisiva sulla creazione degli organi. La nuova scienza politica non pare avere alcun interesse ad evitare questa finzione. In realtà, il tipo democratico di rappresentanza è definito meramente elementare non perché non esaurisce il problema della rappresentanza, ma per un altro motivo: perché, secondo la nuova scienza, esso non ha alcun significato. Il modo in cui viene descritto il procedimento democratico del voto è significativo: «Nella teorizzazione delle istituzioni rappresentative di questo livello [elementare], i concetti necessari alla costruzione del tipo descrittivo si riferiscono... a degli uomini e a delle donne, alla loro età, al loro voto, che consiste nel mettere su pezzi di carta dei contrassegni in corrispondenza di nomi che vi sono stampati, a operazioni di conteggio e di calcolo che Página 208 si concluderanno con la designazione di altri esseri umani in qualità di rappresentanti, alla condotta dei rappresentanti che si tradurrà in atti formali riconoscibili come tali attraverso dati esterni, ecc. » [Nota 1] Lo scopo di questa descrizione è evidente. Il procedimento democratico è presentato come qualcosa che non ha alcun riferimento con l'essenza del fenomeno stesso; che ha soltanto un carattere formale ed è quindi di secondaria importanza. «La procedura della rappresentanza ha un significato solo quando sono soddisfatte alcune esigenze che riguardano la sua sostanza»; «la creazione della procedura non fornisce automaticamente la sostanza desiderata» [Nota 2]. Per «creazione della procedura» può intendersi soltanto la procedura dell'elezione. E se non è la procedura democratica a fornire da sola «la sostanza desiderata», allora, forse, una procedura non democratica può fornirla. Tutto dipende, cosí, dal significato di «sostanza». Cosa significa? Poiché il concetto «elementare» di rappresentanza deve essere sostituito da quello «esistenziale», esso significa probabilmente qualcosa di simile a esistenza. L'autore della nuova scienza politica, quando respinge il concetto elementare a causa del suo scarso valore conoscitivo, dice che «l'esistenza» dei paesi democratici, le cui istituzioni rappresentative sono descritte nel modo schematico su riportato con riferimento al fatto che i loro organi sono eletti dal popolo, «deve essere presa per vera senza troppe domande su ciò che li fa esistere o su ciò che significa esistenza» [Nota 3]. Questa dichiarazione può soltanto esprimere l'idea che la definizione di rappresentanza democratica come rappresentanza per mezo di organi eletti ha scarso valore perché l'elezione degli organi da parte del popolo non garantisce di per sè Página 209 l'esistenza, o una soddisfacente esistenza, dello Stato. Questa critica del cosiddetto concetto elementare di rappresentanza confonde due domande diverse: in cosa consista la rappresentanza democratica, e se la rappresentanza democratica assicuri l'esistenza, o un'esistenza soddisfacente, dello Stato. Si confonde quindi l'essenza di un fenomeno politico con il suo valore, e tale confusione è un grave errore metodologico. Per quanto riguarda la «sostanza» della rappresentanza, l'autore ci dice che «alcune istituzioni intermedie, i partiti, contribuiscono a salvaguardare o a corrompere questa sostanza» e che «la sostanza è vagamente associata alla volontà del popolo, ma non è chiaro cosa si intenda con il simbolo "popolo"» [Nota 1]. Ciò è piuttosto sorprendente perché il chiaro significato del simbolo «popolo» nel tipo elementare di rappresentanza è: il maggior numero possibile di membri della comunità atti a partecipare alla procedura della rappresentanza democratica. Non è questo evidentemente il significato che la nuova scienza politica desidera attribuire al simbolo «popolo» come elemento del tipo esistenziale di rappresentanza. Ma il simbolo «popolo» non viene abbandonato. Sembra che anche la rappresentanza esistenziale pretenda di essere, in un modo o nell'altro, rappresentanza di popolo. Per quanto concerne le «istituzioni mediatrici, i partiti... che assicurano o corrompono questa sostanza», l'autore della nuova scienza si riferisce al fatto che vi è varietà di opinioni riguardo all'effetto dei partiti politici sul funzionamento di un sistema rappresentativo, il che egli sintetizza come segue: Un sistema rappresentativo è veramente tale quando non vi sono partiti; quando vi è un partito, quando vi sono due o più partiti, quando i due partiti possono essere considerati fazioni di Pagina 210 un, partito... un sistema rappresentativo non funzionerà, se due o più di essi dissentono su questioni di principio [Nota 1]. Anche qui egli confonde la domanda sull'essenza della rapresentanza democratica con quella relativa alle condizioni necessarie perché un sistema democratico funzioni soddisfacentemente. Non si può negare – e non si è mai negatto – da parte di chi sostiene le suddette opinioni, la possibilità dell'esistenza dei partiti politici in una democrazia e che una costituzione non è una democrazia se non consente la libera formazione dei partiti politici, o perchè non ne ammette alcuno o perchè ne ammette uno solo. Il principio che si debba permettere l'esistenza di un solo partito per garantire la funzionalità del governo è elemento comune alle ideologie antidemocratiche del fascismo del nazional-socialismo e del comunismo. L'Italia fascista e la Germania nazional-socialista furono, e la Russia comunista è tuttora, tipici «Stati a partito unico». Questo termine non può avere altro significato. Infatti, se la costituzione, come in una democrazia, garantisce la libera formazione dei partiti politici, la nascita di più di un partito è inevitable. Una. democrazia non può essere uno Stato a partito unico. Finora ritenevamo che vi fosse una differenza sostanziale tra un sistema politico che permette soltanto un partito ed un sistema politico nel quale la formazione del partiti è libera, e che in uno Stato a partito único, dove non vi sono libere elezioni perché i cittadini possono votare solo per i candidati di un partito, non si può ritenere che il governo rappresenti il popolo. Ma la nuova scienza politica ci informa che: Un concetto tipo come quello di «Stato a partito único» deve essere considerato in teoria di dubbio valore; lo si può usare in pratica per brevi riferimenti nei comuni dibattiti politici ma ovviamente, non è abbastanza chiaro per essere rilevante scientificamente. Página 211 Esso appartiene alla categoria elementare, come il concetto tipo elementare di istituzioni rappresentative [Nota 1]. Ma uno Stato a partito unico può, come vedremo, offrire un esempio ideale di rappresentanza «esistenziale». Il tipo più caratteristico di Stato a partito unico è l'Unione Sovietica. L'autore della nuova scienza polItica a proposito di questo Stato dice: «Mentre vi può essere un radicale dissenso sul problema se il governo sovietico rappresenti il popolo, non vi è alcun dubbio sul fatto che il governo sovietico rappresenta la Società sovietica come una società politica nel suo agire storico» [Nota 2]. Egli non dichiara in modo inequivoco che il governo sovietico non rappresenta il popolo; egli non dice che esso rappresenta lo Stato Sovietico e non il popolo sovietico. La sola cosa che egli asserisce decisamente è che il governo sovietico rappresenta la «società» sovietica; ma per società sovietica si può intendere il popolo sovietico, la cui rappresentanza è in causa. Infatti, per dimostrare che il governo sovietico rappresenta la società sovietica, egli si riferisce al fatto che «gli atti legislativi e amministrativi del governo sovietico sono efficienti all'interno nel senso che gli ordini governativi sono obbediti dal popolo» e addita il fatto che «il governo sovietico può in realtà far funzionare un'enorme macchina militare alimentata dalle risorse umane e materiali della società sovietica». Il governo sovietico rappresenta la società sovietica perché controlla effettivamente il popolo sovietico. A tale riguardo l'autore dice: «Sotto il nome di società politiche pronte all'azione, si ravvisano chiaramente le unità di potere della storia». Queste «unità di potere» vengono di solito chiamate Stati. Perché la nuova Pagina 212 scienza evita questo termine? Perché non fa una chiara distinzione fra rappresentanza dello Stato e rappresentanza del popolo? Leggiamo: Le società politiche, per essere pronte all’azione, devono avere una struttura interna che consentirà ad alcuni suoi membri, i governanti..., di ottenere un’abituale obbedienza ai loro atti di comando e tali atti devono servire le esigenze vitali di una società, come la difesa e l’amministrazione della giustizia [Nota 1]. È un principio generalmente riconosciuto che un corpo di individui, per essere considerato il governo di uno Stato, deve essere indipendente da altri governi statali e capace di ottenere, per l’ordinamento giuridico in nome del quale agiscono come governo, la permanente obbedienza dei sudditi. Tale principio si applica ad ogni governo democratico o autocratico che sia. Esso non è che una particolare applicazione del principio più generale secondo il quale l’ordinamento giuridico costituente lo Stato è valido soltanto se è veramente efficace, cioè se è obbedito dagli individui di cui regola il comportamento. Pare che la nuova scienza politica presenti seriamente questo principio, sul quale la vecchia scienza politica e giuridica era già d’accordo, sotto il nuovo termine di rappresentanza «esistenziale». In effetti essa dichiara che la «difesa» e l’«amministrazione della giustizia» sono «le necessità esistenziali di una società» e afferma: Il processo attraverso il quale gli individui si costituiscono in società per agire sarà chiamato l’articolazione della società. Il risultato dell’articolazione politica è costituito da individui, i governanti, che possono agire per la società; uomini i cui atti non sono imputati alle loro persone, ma alla società nel suo insieme con la conseguenza che, per esempio, la formulazione di una norma generale che regola un settore della vita umana non verrà intesa come una esercitazione di filosofia morale, ma sarà sperimentata in pratica dai membri della società come dichiarazione di una norma che ha per loro potere coercitivo. Un individuo rappresenta una società Pagina 213 quando i suoi atti gli sono effettivamente imputati in quest’ultimo modo [Nota 1]. L’autore sottolinea che in questo contesto «il significato di rappresentanza» è «basato su di una effettiva imputazione», il che può unicamente significare che l’imputazione allo Stato degli atti del governante ha luogo solo se il potere di questi è efficiente. È evidente che il principio secondo cui l'ordmamento giuridico che costituisce lo Stato è valido solo se, almeno fino ad un certo punto è efficace, non ha una diretta relazione col problema della rappresentanza, vale a dire col determinare attraverso l'ordinamento giuridico, gli organi della comunità costituita dall’ordinamento stesso, gli individui cioè competenti a rappresentare lo Stato. Solo un ordinamento giuridico valido può determinare i rappresentanti e solo un ordinamento giuridico relativamente efficiente è valido. Il principio dell’efficienza si riferisce all’ordinamento che costituisce lo Stato, non agli organi dello Stato. Non sono gli organi ad essere efficienti, ma le norme che essi creano ed applicano in conformità con un ordinamento giuridicamente valido. Il fatto che il governo sia efficiente significa che le norme emanate da questo organo e che formano parte dell’ordinamento giuridico costituente lo Stato sono efficaci. Gli atti compiuti da un organo dello Stato, e soprattutto dal governo, sono atti dello Stato, vale a dire imputabili ad esso, e perciò l’individuo che compie questi atti rappresenta lo Stato, non perché l'organo sia efficiente, ma perché l'individuo ed i suoi atti sono determinati da un ordmamento giuridico valido, vale a dire relativamente efficiente. Poichè soltanto un ordinamento giuridico valido, e cioè relativamente efficace, costituisce la comunità chiamata «Stato», solo sulla base di tale ordinamento sono possibili gli organi statali, Pagina 214 il che significa la rappresentanza, sia essa democratica o non democratica, dello Stato, rappresentanza dello Stato che è o non è nello stesso tempo rappresentanza del popolo. L’efficacia come qualità dell’ordinamento è condizione dell’esistenza dello Stato. Se un corpo di individui, come il governo di uno Stato, rappresenti o meno lo Stato e nello stesso tempo il popolo dello Stato, non dipende dall'efficacia dei comandi, e cioè delle norme, che esso emana. Un corpo di individui costituisce infatti il governo di uno Stato solo se agisce in conformità di un efficiente ordinamento giuridico costituente lo Stato, sia esso democratico o autocratico, e se le norme emanate da tale corpo, le quali formano una parte essenziale dell'ordinamento stesso, sono in larga parte osservate. Se un governo, che sempre rappresenta lo Stato, rappresenti anche il popolo dello Stato, e cioè se sia un governo democratico, dipende esclusivamente dalla risposta alla domanda se esso viene formato in modo democratico oppure no, cioè se viene o non viene eletto in base a suffragio libero e universale; per cui è impossibile distinguere la rappresentanza democratica da ogni altro tipo servendosi del criterio dell'efficienza. Questo è proprio ciò che la nuova scienza politica si sforza di fare quando biasima il tipo democratico di rappresentanza considerandolo «elementare» perchè non implica, a differenza del tipo esistenziale, l'elemento dell'efficienza. Solo cancellando la differenza fra rappresentanza dello Stato e rappresentanza del popolo, la nuova scienza politica può sostenere che esista una differenza di valore conoscitivo fra la rappresentanza democratica, come rappresentanza puramente «elementare», e quella dello Stato come rappresentanza «esistenziale». Cancellando tale differenza, evitando il termine «rappresentanza dello Stato», usando la ambigua formula «rappresentanza della società», la nuova scienza politica crea l'impressione che solo il concetto di rappresentanza che include l'elemento Pagina 215 dell'efficienza sia giusto e che tale tipo di rappresentanza implichi sempre, in un qualche modo, la rappresentanza del popolo. Dice l'autore: «Naturalmente il governante rappresentativo di una società articolata non può rappresentarla nel suo insieme senza essere m qualche modo in relazione con gli altri membri della Società» [Nota 1]. Per «gli altri membri della società» non può intendersi che il popolo: Sotto l'influenza del simbolismo democratico la resistenza a distinguere terminologicamente tra le due relazioni è diventata così forte da influire sulla teoria politica... Il governo rappresenta il popolo e il simbolo «popolo» ha assorbito i due significanti che, nella lingua medioevale per esempio, potevano essere distinti senza alcuna resistenza emotiva in «regno» e «sudditi» [Nota 2]. Le «due relazioni» che, sotto l'influenza del simbolismo democratico, non vengono distinte sono: la relazione tra il governante e la società nel suo insieme e la relazione tra il governante e «gli altri membri della società». Il principio che il governo in una democrazia rappresenta il popolo come soggetto al governo, significa che il governo, rappresentando il popolo come società senza includere i membri del governo, gli «altri membri della Società», rappresenta la società nel suo insieme perchè membri del governo appartengono al popolo come soggetti al governo. Essi governano e sono governati al tempo stesso. Quali membri del governo essi non sono - come avviene in una autocrazia - sottratti al potere del governo. È proprio per tale ragione che solo in una democrazia il governo rappresenta la società nel suo insieme, perché esso rappresenta la Società, inclusi i membri del governo. Ma probabilmente la nuova scienza politica intende per «società nel suo insieme» lo Stato, perchè si suppone che tale termine abbia lo stesso significato del Pagina 216 termine medioevale «regno» in contrasto col termine «sudditi». Tale terminologia corrisponde alla distinzione moderna tra «stato» e «popolo». Il principio secondo cui un governo democratico rappresenta il popolo significa infatti che il governo, nel rappresentare il popolo, rappresenta lo Stato. Ci si domanda ancora; perchè la nuova scienza politica si astiene dall'usare il termine moderno «stato», che è molto meno ambiguo del termine medioevale di «regno» che significa letteralmen te «reame»? Perché parla di «società nel suo insieme» quando intende parlare dello Stato? Evidentemente perché la rappresentanza della «società nel suo insieme» implica necessariamente la rappresentanza degli «altri membri della società», perché il rappresentante esistenziale dello Stato deve essere considerato anche rappresentante del popolo. «Il governante rappresentativo di una società articolata» può essere soltanto un governante che rappresenti effettivamente la società e, se è così, egli la rappresenta «nel suo insieme» specialmente se «società nel suo insieme» significa lo «stato». Un governante nel senso esistenziale, un governante esistenziale, non può rappresentare che «la società nel suo insieme» e per «rappresentante di una società articolata», nella citazione su riportata, si intende ovviamente un governante «esistenziale». Ma ciascun governa - sia democratico che autocratico - è un governante nel senso esistenziale, un governante «esistenziale». Ora la nuova scienza politica dichiara che il governante rappresentativo di una società articolata non può rappresentarla nel suo insieme - e ciò probabilmente significa che egli non può rappresentare lo Stato - senza essere in qualche modo in relazione con gli altri membri della società, vale a dire con il popolo. Il fatto che egli sia in relazione con il popolo può solo significare che egli lo rappresenta, perché la rappresentanza del popolo è una delle due relazioni che, sotto l'influenza del simbolismo demoPagina 217 cratico, non sono terminologicamente differenziate. Il governante deve essere «in una qualche» relazione con gli altri membri della società, e cioè con il popolo, ma non necessariamente in quella specie di relazione costituita da elezioni basate sul suffragio universale, uguale, libero e segreto. Questo tipo di relazione è infatti «elementare» e non «esistenziale». Il governo sovietico, come afferma la nuova scienza politica, rappresenta la società sovietica «come società politica» nel modo più efficiente perchè «gli atti legislativi e amministrativi del governo sovietico sono efficaci all'interno nel senso che gli ordini del governo sono obbediti dal popolo» e il «governo sovietico può efficacemente produrre una enorme macchina militare alimentata dalle risorse umane e materiali della società sovietica» [Nota 1]; ciò può soltanto significare che il governo sovietico rappresenta la società sovietica «nel suo insieme», soprattutto se «società nel suo insieme» significa lo Stato. Perciò il governo sovietico è il tipo ideale di governante esistenziale, il «governante rappresentativo di una società articolata» rappresentata nel suo insieme dal governante. Se un governante rappresentativo di una società articolata non può rappresentarla nel suo insieme senza essere in qualche modo in relazione con gli altri membri della società, vale a dire senza rappresentare in qualche modo il popolo, il governo sovietico, che non è certamente democratico, rappresenta allora il popolo sovietico. Naturalmente la nuova scienza politica non lo afferma espressamente, ma ciò è chiaramente implicito nella sua dottrina sulla rappresentanza, che tende a sminuire l'importanza del tipo democratico come puramente elementare e a mettere in vista quello esistenziale in cui l'accento è posto sull'elemento dell'efficienza. Pagina 218 Come risultato di questa dottrina della rappresentanza, la nuova scienza politica esprime un ammonimento: «Se un governo è solo rappresentativo nel senso costituzionale, un governante rappresentativo nel senso esistenziale presto o tardi vi metterà fine, ed è del tutto possibile che il nuovo governante esistenziale non sia del tutto rappresentativo in senso costituzionale» [Nota 1]. Ricordiamo che il governante rappresentativo nel «senso esistenziale» non può rappresentare la società nel suo insieme «senza essere in una qualche relazione con gli altri membri della Società », e cioè con il popolo. Egli pure rappresenta in qualche modo il popolo, anche se può non essere del tutto «rappresentativo» in senso democratico, ma un governante che rappresenta il popolo in senso fascista un «Führer» o un «Duce», che organizza efficientemente la massa del popolo per l'azione e può pretendere di attuare la democrazia. L'analisi da noi fatta della teoria rappresentativa sostenuta dalla nuova scienza politica, dimostra che è molto importante mantenere rigorosamente, per quanto possibile, proprio quel concetto di rappresentanza che questa scienza disprezza come meramente «elementare»; ovvero, il che è lo stesso, il concetto di democrazia come concetto di governo che rappresenta il popolo in senso meramente «costituzionale», e respingere la sua sostituzione con un concetto di rappresentanza «esistenziale», che serve soltanto a confondere il fondamentale antagonismo tra democracia ed autocrazia e perciò impedisce la comprensione obiettiva dell essenza di quella. Per giungere a una tale comprensione non basta deserivere le strutture tipiche dei due opposti sistemi di organizzazione. InfattI, se riconosciamo che tutta la storia della società umana è una lotta senza fine tra il popolo e Pagina 219 la volontà di potere di una personalità vigorosa che cerca di assoggettare la moltitudine e sopprimere la sua resistenza al dominio della volontà altrui, e cioè il suo desiderio di autodeterminazione; se ammettiamo che nella storia del pensiero umano la controversia tra il valore dell'autocrazia e della democrazia non è stata ancora risolta, proprio come non lo è ancora il conflitto tra i due regimi politici nella realtà, e che anche lì la lotta è senza fine, ma continuamente è vinta dall'uno e persa dall'altro, possiamo supporre che si tratti di qualcosa di molto più importante di un problema di tecnica sociale, di una scelta tra due diversi tipi di organizzazione, e così cercare le radici di questo antagonismo che divide in due campi opposti le opinioni del mondo: possiamo cercare di trovare la connessione che esiste tra politica e filosofia. Nei capitoli che seguono, infatti, desidero dimostrare che esiste non solo un parallelismo esteriore, ma anche un'intima relazione tra l'antagonismo di autocrazia e democrazia da una parte, e l'assolutismo filosofico ed il relativismo dall'altro, e che l'autocrazia come assolutismo politico è coordinata con l'assolutismo filosofico, mentre la democrazia, come relativismo politico, è coordinata con il filosofico [Nota 1]. ASSOLUTISMO E RELATIVISMO FILOSOFICO Da quando Aristotele presentò la sua “Politica” come seconda parte di un trattato la cui prima parte era l'“Etica”, è cosa ormai pacifica che la teoria politica e quella parte della filosofia chiamata «etica» siano fra loro in stretta connessione. Ma esiste anche una certa affinità, generalPagina 220 mente meno riconosciuta, tra la teoria della politica e altri parti della filosofia, come l'epistemologia o teoria della conoscenza e la teoria dei valori. Il maggior problema della teoria politica è la relazione tra il soggetto e l'oggetto del potere; il maggior problema della epistemologia è la relazione tra il soggetto e l'oggetto della conoscenza. Il processo del potere non è molto diverso da quello della conoscenza, attraverso il quale il soggetto cerca di dominare il suo oggetto portando un certo ordine nel caos delle percezioni sensoriali, e non si discosta troppo dal processo di valutazione attraverso il quale il soggetto dichiara un oggetto buono o cattivo e pertanto esprime un giudizio sull'oggetto stesso. L’antagonismo tra assolutismo e relativismo filosofico trova il suo posto tra l'epistemologia e la teoria dei valori ed è analogo - come cercherò di dimostrare - all'antagonismo tra autocrazia e democrazia che rispettivamente rappresentano l'assolutismo e il relativismo politici. Per evitare malintesi circa il significato di tali analogie, sono necessarie alcune osservazioni preliminari. Poichè, come è stato rilevato, il fulcro della scienza politica e delle teorie della conoscenza e dei valori è la relazione tra soggetto ed oggetto, il carattere del soggetto che pratica la politica e la filosofia, il suo temperamento originale, deve avere un influenza decisiva sulla formazione delle opinioni relative al suo rapporto sia con l'oggetto del potere che con quello della conoscenza e della valutazione. La radice comune del credo politico e della convinzione filosofica rimane sempre la mentalità dell'uomo politico e del filosofo, la natura del suo ego, cioè il modo in cui questo ego sperimenta se stesso nel suo rapporto con un altro che pretende a sua volta di essere un ego e con gli oggetti che non avanzano tale pretesa. Solo se riconosciamo che la formazione dei sistemi politici e filosofici è determinata, in ultima analisi, dalle peculiarità della mente umana, possiamo spiegarci perché l'antagonismo tra questi sistemi si Pagina 221 presenta così insormontabile, perché la mutua comprensione è così difficile se non impossibile, perché passioni così esasperate sono coinvolte nel conflitto, anche se questo è limitato alla sfera intellettuale, come contrasto di opinioni, e non è ancora un urto nella lotta per il potere. Una tipologia delle dottrine politiche e filosofiche deve alla fine comportare uno studio dei caratteri, o almeno la prima deve cercare di unire i suoi risultati a quelli del secondo. È infatti il medesimo uomo quello che cerca di interpretare i suoi rapporti con i propri simili e l'ordine di tali rapporti, come pure il suo rapporto con il mondo esterno; possiamo quindi supporre che un determinato credo politico sia coordinato con una determinata opinione del mondo. Ma proprio perchè la politica e la filosofia hanno origine nell'animo dell'essere umano empirico e non nella sfera della pura ragione, non dobbiamo aspettarci che una certa opinione politica sia collegata sempre e dovunque ad un sistema filosofico che logicamente corrisponde ad essa. Nella storia delle teorie politiche e filosofiche la loro connessione può essere dimostrata da un'analisi delle opere dei maggiori pensatori; ma sarebbe grave errore ignorare l'efficacia delle forze della mente umana che possono abolire questa relazione ed impedire alle attitudini politiche di combinarsi con le opinioni filosofiche corrispondenti e viceversa. La mente umana non è completamente dominata dalla ragione e perciò non è sempre logica. Le forze emotive possono deviare il pensiero dell'uomo dalla sua direzione originaria. È necessario considerare le circostanze esterne attraverso le quali - anche se la speculazione filosofica può non essere limitata - la libertà dell'opinione politica è abolita. Si deve inoltre notare che i giudizi politici, e specialmente la decisione in favore della democrazia o dell'autocrazia, spesso non si basano nè su un accurato esame dei fatti, nè su uno scrupoloso esame di se stessi, ma sono Pagina 222 il risultato di una situazione transitoria o di una momentanea disposizione d'animo. Occorre anche non sottovalutare il fatto che ogni regime politico sveglia inevitabilmente una opposizione e in tal modo coloro che, per un motivo o per l'altro, sono insoddisfatti di un regime democratico si schiereranno probabilmente a favore dell'autocrazia e coloro che per qualche motivo sono delusi dal regime autocratico si rivolgeranno alla democrazia. Talora questi stessi malcontenti - e forse a ragione malcontenti - sono sempre contrari al regime vigente e favorevoli a quello non ancora istituito o già caduto. Molti che, in regime democratico, attribuiscono tutti i mali alla democrazia, sarebbero democratici convinti sotto un governo fascista e sarebbero probabilmente favorevoli al fascismo se un governo democratico rimanesse al potere abbastanza a lungo da provocare un'opposizione considerevole. Ma queste sono persone di poca importanza che non hanno molto peso ai fini della soluzione del nostro problema. Per quanto riguarda gli uomini preminenti, soprattutto i grandi pensatori, la relazione tra le loro opinioni politiche e filosofiche non è talvolta dimostrabile perchè il filosofo non ha sviluppato una teoria politica e il politico o il teorico politico non ha ancora raggiunto lo stadio in cui ci si pone coscientemente il problema filosofico. Solo con queste riserve può essere affermata la relazione tra politica e filosofia. L'assolutismo filosofico consiste nell'opinione metafisica secondo cui vi è una realtà assoluta, vale a dire una realtà che esiste indipendentemente dalla conoscenza umana, e che si trova al di là dello spazio e del tempo, termini cui la conoscenza umana è limitata. Il relativismo filosofico, invece, sostiene la dottrina empirica secondo la quale la realtà esiste soltanto entro i limiti della conoscenza umana e, come oggetto di tale conoscenza, è relativa al soggetto cosciente. L’assoluto, la cosa in sè, è al di là dell'espePagina 223 rienza umana; è inaccessibile alla conoscenza e perciò inconoscibile. Al riconoscimento dell'assoluto corrisponde la possibilità della verità e dei valori assoluti, negati dal relativismo filosofico che riconosce solo le verità relative e i valori relativi. Solo riferendosi in ultima istanza all'assoluto e alla sua esistenza, i giudizi sulla realtà possono mirare alla verità assoluta, vale a dire pretendere di essere veri non solo in relazione agli esseri umani come soggetti giudicanti, e cioé dal punto di vista della ragione umana, ma anche da quello di una ragione sovrumana, divina, la ragione assoluta. Se una realtà assoluta esiste, deve coincidere con un valore assoluto, perchè l'assoluto implica necessariamente la perfezione. L'esistenza assoluta si identifica con l'autorità assoluta come fonte di valori assoluti. La personificazione dell'assoluto, la sua presentazione come creatore dell'universo, onnipotente e assolutamente giusto, il cui volere è legge della natura come pure legge dell'uomo, è la conseguenza inevitabile dell'assolutismo filosofico. La sua metafisica mostra una tendenza irresistibile verso la religione monoteistica ed è in stretta relazione con l'opinione secondo cui il valore è immanente nella realtà come creazione o emanazione del bene assoluto. Tale metafisica tende a identificare la verità, cioè la conformità alla realtà, con la giustizia, nel suo significato di conformità ad un valore. Ne consegue che un giudizio su ciò che è giusto o ingiusto può essere altrettanto assoluto di un giudizio su ciò che è vero o falso. I giudizi di valore possono aspirare ad essere validi per ognuno, sempre ed ovunque, e non soltanto in relazione al soggetto giudicante, se si riferiscono a valori inerenti ad una realtà assoluta, oppure, il che è lo stesso, se sono emessi da un'autorità assoluta. Il relativismo filosofico, d'altra parte, come empirismo antimetafisico (o positivismo), insiste su di una netta separazione tra realtà e valore, distingue tra propoPagina 224 sizioni relative al reale e genuini giudizi di valore che, in ultima analisi, non sono basati su una razionale conoscenza della realtà, ma sui fattori emotivi della coscienza umana, sui desideri ed i timori dell’uomo. Dal momento che non si riferiscono a valori immanenti in una realtà assoluta, essi non possono stabilire valori assoluti, ma solo relativi. Una fisolofia relativistica è decisamente empirica e razionalistica e, di conseguenza, ha una franca propensione allo scetticismo. L’ipotesi dell’assolutismo filosofico che vi sia una realtà assoluta indipendente dalla conoscenza umana, conduce all’assunto che la funzione della conoscenza è soltanto quella di riflettere, come uno specchio, gli oggetti che esistono in se stessi. Al contrario, l’epistemologia relativistica, secondo la più autorevole presentazione datane da Kant, interpreta il processo della conoscenza come creazione del proprio oggetto. Tale punto di vista implica che l’uomo, soggetto del processo conoscitivo, è - epistemologicamente - il creatore del proprio mondo, un mondo che è costituito nel e dal suo conoscere. Ciò non significa naturalmente che il processo conoscitivo abbia carattere arbitrario. Il costituirsi dell’oggetto della conoscenza per mezzo del processo conoscitivo stesso non significa che il soggetto crea l’oggetto così come Dio crea il mondo. Vi è una correlazione tra il soggetto e l’oggetto della conoscenza e vi sono leggi che determinano tale processo. Ottemperando a queste norme la cognizione razionale della realtà - distinguendosi dall’espressione di emozioni soggettive, base dei giudizi di valore - è oggettiva. Ma dette norme traggono la loro origine dalla mente umana perchè il soggetto della conoscenza è autonomo nelle sue leggi. Per cui la libertà del soggetto cosciente - non la libertà metafisica della volontà, ma la libertà di conoscere nel senso di autodeterminarsi - è un prerequisito fondamentale della teoria relativistica della conoscenza. D’altro canto Pagina 225 l’assolutismo filosofico, se è conseguente, deve concepire il soggetto della conoscenza come interamente determinato da leggi eteronome immanenti nella realtà oggettiva e come soggetto all’assoluto, in special modo se l’assoluto è immaginato come un essere personificato e un’autorità super umana. Lo specifico carattere della teoria relativistica della conoscenza implica due pericoli. Il primo è un solipsismo paradossale, vale a dire l’assunto che l’ego come soggetto della conoscenza è l’unica realtà esistente, l’impossibilità di riconoscere l’esistenza simultanea di altri ego, la negazione egotistica del “tu”. Questo assunto porterebbe l’epistemologia relativistica ad un’auto-contraddizione poichè, se è l’unica realtà esistente, l’ego deve essere una realtà assoluta. Il solipsismo senza compromessi è anch’esso un assolutismo filosofico. Il secondo pericolo è un pluralismo non meno paradossale. Dato che il mondo esiste soltanto nella conoscenza del soggetto, secondo tale punto di vista l’ego è, per così dire, il centro del proprio mondo. Tuttavia, se si deve ammettere l’esistenza di più ego, non si può non dedurne che vi sono tanti mondi quanti sono i soggetti coscienti. Il relativismo filosofico evita deliberatamente sia il solipsismo che il pluralismo. Considerando come vero relativismo le mutue relazioni tra i vari soggetti della conoscenza, questa teoria compensa la propria incapacità ad assicurare l’esistenza oggettiva di un mondo unico ed uguale per tutti i soggetti con l’assunto che gli individui, come soggetti della conoscenza, sono uguali. Tale assunto implica anche che i vari processi di conoscenza razionale che hanno luogo nella mente dei soggetti sono, diversamente dalle loro reazioni emotive, uguali. Ciò rende possibile un ulteriore assunto, secondo il quale gli oggetti della conoscenza, come risultato di questi processi individuali, sono conformi gli uni agli altri: assunto confermato dal comportamento esteriore degli individui. Pagina 226 Senza dubbio vi è un aperto conflitto tra libertà assoluta ed uguaglianza. Ma il soggetto cosciente è libero non in modo assoluto, ma relativo, è libero sotto le leggi della conoscenza razionale, e tale libertà non è incompatibile con l’uguaglianza di tutti i soggetti coscienti. La restrizione della libertà per mezzo di una legge secondo cui tutti i soggetti sono eguali è essenziale per il relativismo. Invece, dal punto di vista dell’assolutismo filosofico, non è l’uguaglianza dei soggetti ad essere essenziale ma, al contrario, la loro fondamentale inuguaglianza in relazione all’essere assoluto e supremo. L´IDEA DI LIBERTÀ NATURALE E SOCIALE Se la libertà ed uguaglianza sono elementi essenziali del relativismo filosofico, l’analogia di questo con la democrazia politica diventa ovvia. Libertà ed uguaglianza, infatti, sono le idee fondamentali della democrazia e i due istinti primitivi dell’uomo come essere sociale, desiderio di libertà e senso di uguaglianza, sono quindi alla base di essa. Si tratta, prima di tutto, di una reazione alla coercizione insita in ogni specie di realtà sociale, di una protesta contro una volontà estranea cui la propria dovrebbe sottomettersi, di una resistenza all’ordine, al disagio creato dall’eteronomia; è la stessa natura che, in cerca di libertà, si ribella alla società. L’uomo sente il peso di una volontà estranea impostagli come ordinamento sociale, volontà che è tanto più insopportabile quanto più la coscienza del proprio valore respinge la pretesa di chiunque altro a rappresentare un valore più alto. Quanto più elementare è il suo sentimento verso colui che pretende di essergli superiore, tanto più l’uomo tende a domandarsi: è un uomo come me; siamo eguali; da che deriva il suo diritto a dominarli? Così l’idea negativa di uguaglianza Pagina 227 sostiene l’idea altrettanto negativa di libertà. Dall’assunto che gli uomini sono eguali si potrebbe dedurre il principio che nessuno ha il diritto di dominare gli altri. Tuttavia l’esperienza insegna che, se vogliamo rimanere eguali nella realtà sociale, dobbiamo consentire di essere dominati. Ma, sebbene libertà ed uguaglianza sembrino non essere realizzabili allo stesso tempo, l’ideologia politica insiste ad unirle nell’idea di democrazia. Cicerone, uno dei maestri dell’ideologia politica, espresse il significato di questa unione nel famoso asserto: «Itaque nulla alia in civitate, nisi in qua populi potestas summa est, ullum domicilium libertas habet: qua quidem certe nihil potest esse dulcius et quae, si aequa non est, ne liberlas quidem est» (la libertà ha la sua sede solo in uno Stato in cui il potere supremo appartiene al popolo, e non v’è nulla di più dolce di essa, che però non è tale se non è uguale per tutti). Il simbolo di libertà deve subire un fondamentale mutamento di significato per diventare una categoria sociale. Non deve più significare la negazione di ogni ordinamento sociale, uno stato di natura caratterizzato dall’assenza di ogni forma di governo, e deve assumere il significato di un metodo specifico per stabilire l’ordinamento sociale e uno specifico tipo di governo. Se devono essere possibili la società in generale e lo Stato in particolare, deve essere valido anche un ordinamento normativo che regoli il mutuo comportamento degli uomini e di conseguenza, si deve accettare il dominio dell’uomo sull’uomo attraverso tale ordinamento. Tuttavia se il dominio è inevitabile, se non possiamo fare a meno di essere dominati, vogliamo essere dominati da noi stessi. La libertà naturale si trasforma in libertà sociale o politica. Essere liberi socialmente o politicamente significa, è vero, essere soggetti ad un ordinamento normativa, significa libertà sottoposta alla legge sociale; ma significa essere soggetti non ad un volere Pagina 228 estraneo, bensì al proprio, ad un ordinamento normativo, ad una legge alla cui istituzione il soggetto partecipa. È proprio attraverso questa metamorfosi che l’idea di libertà può divenire il criterio decisivo nell’antagonismo tra democrazia e autocrazia e quindi il leitmotiv per la sistemazione delle forme di organizzazione sociale. L´IDEA METAFISICA DI LIBERTÀ La transizione dalla libertà naturale alla libertà sociale, fondamentale per l’idea di democrazia, implica il dualismo fra natura e società che è in stretta relazione con la distinzione tra realtà e valore, caratteristica di una filosofia relativistica. La società, come sistema differenziato dalla natura, è possibile solo come ordinamento normativo del comportamento umano, in contrasto con l’ordinamento causale dei fenomeni naturali. Un norma, vale a dire l’espressione con cui si stabilisce un dover essere, costituisce un valore. Le idee dell’uomo in relazione a ciò che deve essere o a ciò che deve essere fatto hanno la loro origine, come ho già accennato, nei suoi desideri e timori. In questo senso, il valore soggettivo costituito dalla norma è contrario alla realtà oggettiva costituita dalla legge di causalità come categoria di conoscenza razionale. Se la natura è creata da Dio ed è perciò manifestazione della sua volontà assolutamente buona non vi può essere differenza tra leggi di natura e norme sociali, in quanto le leggi della natura sono espressione della volontà divina, sono i suoi comandi rivolti alla natura, sono cioè norme. Secondo questa opinione metafisica, che è alla base della dottrina del diritto naturale, non vi è differenza tra natura e società perchè la natura è essa stessa una società universale, cosmica, governata da Dio. In aperto contrasto Pagina 229 con questo fondamentale presupposto, la speculazione metafisica dell’assolutismo filosofico sostiene la dottrina che la volontà umana, sebbene soggetta alla volontà di Dio, è libera. Tale opinione è espressa, nella sua versione teologica, con il dogma meno contraddittorio che l’uomo, sebbene sia completamente diverso da Dio, è creato a immagine di Dio e che la sua volontà, così come quella di Dio, è causa e non effetto di altre cause, è “prima causa”. Quesra è la libertà metafisica dell’uomo consistente nella sua esenzione dalla legge di causalità implicita nella volontà di Dio. L’antropologia metafisica considera la libertà umana, intesa in questo senso, come un attributo essenziale dell’uomo in quanto membro della società, vale a dire soggetto ad obblighi e responsabilità. L’argomento principale di tale teoria è che, se l’uomo non è libero in questo senso, se la sua volontà è determinata dalla legge di causalità, egli non può essere ritenuto responsabile delle sue azioni, per cui l’esistenza di un ordinamento normativo - sia esso etico o giuridico - presuppone la libertà metafisica dell’uomo. Questa teoria - il cosiddetto indeterminismo - è decisamente respinta da una filosofia razionalistica e antimetafisica, a causa non della contraddizione contenuta nell’idea di una volontà umana soggetta all’onnipotente volontà di Dio e al tempo stesso esente da essa (ciò riguarda la speculazione metafisica che è alla base dell’indeterminismo), ma per l’inammissibile contraddizione interna consistente nell’assunto che un fenomeno della realtà naturale, come la volontà umana, è esente dalla legge di causalità che costituisce la realtà naturale stessa. Si può dimostrare che l’idea illusoria di una volontà libera è dovuta al fatto che l’assolutismo filosofico non distingue la realtà dal valore, la natura dalla società, la causalità dalla normatività. Se siamo consapevoli della diversità esistente tra l’ordinamento della natura e quello Pagina 230 della società, dobbiamo anche ammettere che, se il primo è basato sul principio di causalità, il secondo deve essere costituito da un altro principio. Potendosi considerare il comportamento umano ora come un fenomeno naturale ora come un fenomeno sociale, lo si può anche ritenere suscettibile di due diversi schemi interpretativi, che non si escludono a vicenda, ma sono applicabili uno accanto all’altro, cosicchè il comportamento umano come fenomeno naturale è determinato dalle leggi di causalità e, ciò nonostante, è «libero» come fenomeno sociale. Perciò, essere libero non può significare essere esente dalla legge eli causalità, vale a dire una restrizione di tale principio, ma deve avere un altro significato, conforme al principio che costituisce l’ordinamento sociale. E invero, proseguendo per questa via, vediamo che l’uomo è responsabile delle sue azioni non perchè egli sia libero nel senso metafisico di essere esente dal principio di causalità, ma perchè egli è libero - un senso razionale - in quanto è responsabile. Infatti, che egli sia responsabile delle sue azioni significa che egli è punito o premiato per tali azioni; ed egli è punito o premiato a seconda che le norme morali o legali colleghino ad esse una punizione o un premio. Attribuire una punizione o un premio al comportamento umano non solo non ne esclude la determinazione causale ma presuppone necessariamente la possibilità di questa determinazione. Infatti la punizione è collegata ad un certo comportamento perchè si presume che l’uomo si asterrà da esso per timore della punizione; al contrario si attribuisce un premio a un certo tipo di comportamento in quanto si presume che l’uomo si comporterà in quel modo nel desiderio di meritarlo. Se il comportamento dell’uomo, e ciò significa in ultima analisi la sua volontà, non fosse determinabile da cause precise, sarebbe privo di significato un ordinamento normativo che lo regolasse prevedendo punizioni o premi, e stabilendo perciò la sua rePagina 231 sponsabilità. Si è suggerito il termine «imputazione» [Nota 1] per indicare il legame intercorrente tra un atto umano, come condizione, il premio o la punizione come conseguenza stabilita da una norma sociale, in contrasto con la relazione tra causa ed effetto propria delle leggi di natura. Così come la causalità è il principio fondamentale per conoscere la natura, l’imputazione è il principio base della conoscenza della società come ordinamento normativo. La differenza decisiva tra i due princìpi consiste nel fatto che la catena di causa ed effetto ha un numero infinito di anelli, per cui non vi può essere una causa prima, essendo ogni causa necessariamente l’effetto di un’altra; mentre la catena dell’imputazione ha solo due anelli, crimine e punizione, merito e premio, sicchè se la punizione viene collegata al crimine e il premio al merito, essa è già completata. Il fatto che l’uomo come membro della società, soggetto ad un ordinamento normativo, sia «libero» non significa che la sua volontà è il punto di partenza della causalità, ma piuttosto che egli è il punto finale dell’imputazione. L’idea illusoria della volontà umana come “causa prima” è il risultato della confusione metafisica tra realtà e valore, natura e società, causalità e imputazione; cioè è un’errata interpretazione del punto finale dell’imputazione come causa prima. Quindi, come l’idea di libertà naturale, nel senso di assenza di ogni forma di governo, deve essere trasformata nel concetto di libertà politica, nel senso di partecipazione al governo, così l’idea di libertà metafisica, come punto di partenza della causalità, deve essere trasformata nell’idea di libertà razionale, come punto finale dell’imputazione. Pagina 232 LA DOTTRINA DELLA DEMOCRAZIA DI ROUSSEAU La definizione di libertà come autodeterminazione politica del cittadino, vale a dire come partecipazione al governo, viene di solito contrapposta, parificandola all’idea di libertà prevalente tra gli antichi Greci, all’idea individualistica, vagheggiata dal primitivo popolo germanico, di una libertà dal governo, di uno stato di anarchia più o meno pronunciata. Ciò è inesatto, in quanto le tribù germaniche non vivevano in uno stato di anarchia. Tale differenza inoltre, non è per nulla storica o etnografica: il passaggio dalla cosiddetta concezione germanica di libertà a quella greca classica è solo il primo stadio dell’inevitabile processo di trasformazione, o alterazione, a cui si è sottoposto l’istinto originale di libertà sulla via che ha condotto l’uomo dallo stato di natura a quello di società. Questo mutamento di significato è del tutto caratteristico del meccanismo del nostro pensiero sociale. L’importanza straordinaria dell’idea di libertà nell’ideologia politica può trovare spiegazione solo nel fatto che essa ha origine nel profondo dell’animo umano, nell’istinto primitivo che spinge l’individuo contro la società. Eppure la riflessione intellettuale di questa tendenza antisociale, l’idea di libertà, diventa attraverso un inganno di per se stesso quasi misterioso - l’espressione di una posizione determinata dell’individuo nella società. La libertà dell’anarchia diventa la libertà della democrazia. La trasformazione è maggiore di quanto possa apparire a prima vista. Rousseau, uno dei maggiori ideologi della democrazia, formula il problema della migliore costituzione, il che, secondo il suo punto di vista, è il problema della democrazia: Trovare una forma di associazione che possa difendere e proteggere, con tutte le forze della comunità, la persona e la proprietà di ogni associato e per mezzo della quale, tuttavia, ognuno, coaIizPagina 233 zandosi con tutti, possa obbedire solo a se stesso e rimanere libero come prima. Questo è il problema fondamentale del quale il contratto sociale fornisce la soluzione [Nota 1]. Definendo la libertà come uno status nel quale l’individuo obbedisce solo a se stesso, e cioè è soggetto solo alla propria volontà, Rousseau parte dall’idea della libertà naturale, la libertà dell’anarchia, incompatibile con la società. È facile capire, quindi, che non può sostenere la propria definizione. Egli si limita a respingere la democrazia parlamentare soltanto perchè non riconosce la possibilità di una rappresentanza: La sovranità... non può essere rappresentata; essa risiede essenzialmente nella volontà generale e la volontà non ammette la rappresentanza, essa è o l’una o l’altra. Non esiste una possibilità intermedia. Perciò i deputati eletti dal popolo non sono e non possono essere i suoi rappresentanti; essi sono soltanto i suoi agenti e non possono attuare alcun atto definitivo. Ogni legge che il popolo non abbia ratificato di persona è nulla e priva di valore e, in pratica, non è una legge. Il popolo inglese si ritiene libero, ma commette un errore grossolano; esso è libero solo durante le elezioni dei membri del parlamento. Appena questi sono eletti, la schiavitù lo prende di sorpresa ed esso non è più nulla [Nota 2]. Rousseau sostiene di conseguenza il principio di democrazia diretta. Tuttavia, anche se la volontà dello Stato è direttamente posta in essere dalle decisioni di un’assemblea popolare, l’individuo è libero solo nel momento in cui esprime il suo voto, ed anche allora solo nel caso in cui vota con la maggioranza e non se fa parte della minoranza dominata. Di conseguenza la limitazione, se non l’esclusione, di ogni possibilità di essere dominati, sembra corrispondere al principio democratico di libertà: come garanzia di essa, quindi, si richiede una maggioranza qualificata e, se possibile, l’unanimità. Tuttavia, anche un apostolo della libertà così radicale come Rousseau richiede l’unanimità solo per il contratto originale che costituisce Pagina 234 lo Stato. La limitazione del principio di unanimità al contratto costitutivo non è giustificata soltanto da ragioni di convenienza. Se il principio di libertà richiede l’unanimità per la conclusione del contratto costitutivo, perchè libertà significa essere legati solo dal proprio volere, ne consegue che è coerente richiedere il consenso unanime degli individui soggetti all’ordinamento normativo stabilito dal contratto anche come condizione successiva del permanere della validità di tale ordinamento, sicchè ognuno è libero di ritirarsi dalla comunità, che l’ordinamento stesso costituisce, appena rifiltti di riconoscerne la forza cogente. Questa conseguenza dimostra chiaramente l’incompatibilità della definizione di libertà di Rousseau l’idea della libertà naturale, con l’ordinamento sociale, che, per sua natura, è possibile solo se la sua validità non dipende, fino ad un certo grado, dalla volontà di coloro che vi sono soggetti. Se una norma che prescrive che un individuo deve comportarsi in un dato modo fa dipendere la sua validità dal consenso di questi, se egli è obbligato solo in quanto lo voglia, la norma perde il suo vero significato. Un ordinamento sociale in genere e un ordinamento giuridico - la legge dello Stato in particolare - presuppongono la possibilità di una differenza tra il contenuto dell’ordinamento e la volontà degli individui soggetti ad essi. Se la tensione tra questi due poli, tra dover essere ed essere, è zero, cioè se il valore della libertà è infinito, non vi può essere sottomissione ad un ordinamento normativo. Di conseguenza, l’ordinamento sociale che, secondo la teoria del contratto sociale, può essere creato solo mediante una decisione unanime degli individui che debbono assoggettarvisi, può essere cambiato e svrluppato dalle decisioni della maggioranza. Questo è quanto insegna Rousseau. Dopo aver definito la libertà nella sua prima formulazione elel problema del contratto sociale, come l’essere soggetti esclusivamente alla propria Pagina 235 volontà, come il non dover obbedire a nessun altro che a se stessi, egli formula nuovamente il problema come segue: «Ognuno di noi pone la propria persona e tutto il proprio potere in comune sotto la suprema direzione della volontà generale e, come associazione noi accogliamo ogni membro come parte indivisibile del tutto». Qui Rousseau introduce il concetto di «volontà generale» distinguendolo da quello di «volontà di tutti», concetto molto misterioso che egli non definisce mai chiaramente. Indi considera la possibilità di un conflitto tra volontà generale e volontà di un singolo individuo ed afferma: «Il contratto sociale, per non essere una formula vuota, implica tacitamente l’impegno, che solo può dare forza al resto, secondo il quale chiunque si rifiuti di obbedire alla volontà generale sarà costretto a farlo dall’intero corpo sociale. Ciò significa soltanto che egli sarà obbligato ad essere libero» [Nota 1]. Ora «libertà» non significa più essere soggetti solo alla propria volontà. La libertà è compatibile con la sottomissione alla volontà generale. Essa consiste nel «partecipare al potere sovrano», essendo la sovranità interamente data dagli individui che la compongono [Nota 2], e cioè dai membri della comunità. Su questa base Rousseau distingue tra cittadino e suddito e sostituisce la «libertà naturale» con la «libertà civile». Egli dice: Ciò che l’uomo perde con il contratto sociale è la sua libertà naturale e un diritto illimitato a tutto ciò che cerca di ottenere e riesce ad ottenere; ciò che guadagna è la libertà civile... Dobbiamo distinguere chiaramente la libertà naturale, che è stabilita solo dalla forza dell’individuo, dalla libertà civile, che è limitata dalla volontà generale [Nota 3]. Quanto sia radicale questo cambiamento di significato è dimostrato dall’affermazione che l’individuo, la cui voPagina 236 lontà non è conforme alla volontà generale, può essere costretto ad uniformarsi ad essa e venire quindi “obbligato” ad essere libero. Per illustrare questa libertà a cui un uomo può essere obbligato, Rousseau cita il fatto che a Genova la parola “libertà” si legge sulla facciata della prigione e sulle catene dei galeotti, e soggiunge: «questa applicazione del motto è buona e giusta». La trasformazione della libertà naturale nella ben diversa libertà politica - la « libertà civile» di Rousseau - è tanto più ovvia in quanto egli ammette che la volontà generale può essere prodotta da un voto della maggioranza. Vi è solo una legge che, per sua natura, ha bisogno del consenso unanime, ed è il contratto sociale, perchè l’associazione civile è il più volontario degli atti. Poichè ogni uomo è nato libero e padrone di sè, nessuno può sotto alcun pretesto assoggettare un uomo senza iI di Iui consenso. Decidere che il figlio di uno schiavo è nato schiavo, significa decidere che egli non è nato uomo [Nota 1]. È paradossale che Rousseau, proprio nel momento in cui la sua transformazione del concetto di libertà giunge all’apice, cerchi di mantenere - in aperta contraddizione con la sua dichiarazione precedente - l’idea originale di libertá naturale, il principio che «nessuno può sotto alcun pretesto assoggettare un uomo senza il di lui consenso». Sorge allora subito la domanda: Cosa accade di coloro che votano contro la maggioranza? Sono vincolati da una legge adottata in tal modo? Rousseau risponde cosí: «Se quando si fa il contratto sociale vi sono oppositori, la loro opposizione non invalida il contratto ma soltanto impedisce loro di esservi inclusi. Essi sono stranieri tra cittadini». Ciò sembra significare che chi vota contro la legge accettata dalla maggioranza non ne è vincolato. Ma Rousseau non può, naturalmente, accettare una tal conseguenza. Egli così continua: «Quando lo Stato è istituito la residenza costituisce consenso: risiedere nel suo terriPágina 237 torio significa sottomettersi alla sua sovranità» [Nota 1]. È la nota finzione del diritto romano: qui tacet consentire videtur. Ma nella successiva affermazione egli proclama il principio del voto a maggioranza senza riferirsi alla suddetta finzione: «Tranne che per il contratto primitivo, il voto della maggioranza vincola sempre gli altri. Questo è una conseguenza dello stesso contratto». Ciò significa che il principio maggioritario è proiettato nel contratto sociale quale norma fondamentale dell’ordinamento statale. Allora sorge il problema di come giustificare questo principio con l’idea della libertà naturale. Rousseau dice: «Ci si domanda come un uomo può essere libero ed al tempo stesso obbligato a conformarsi a delle volontà diverse dalla sua. Come gli oppositori possono essere ad un tempo liberi e soggetti a leggi che non hanno approvato». Per dimostrare che un uomo può considerarsi libero, e cioè soggetto solo alla propria volontà, anche se è vincolato da una legge contro la cui adozione ha votato, Rousseau tenta una nuova interpretazione del significato della procedura di voto. Votando a favore o contro l’adozione di una legge, il cittadino non esprime la propria volontà, bensì la propria opinione riguardo alla volontà generale. lo replico che la domanda è posta in modo errato. Il cittadino dà il suo consenso a tutte le leggi, ivi incluse quelle che sono approvate nonostante la sua opposizione e perfino quelle che lo puniscono se egli osa trasgredirne qualcuna. La volontà cosciente di tutti i membri dello Stato è la volontà generale. In virtù di questa essi sono cittadini e liberi. Quando una legge viene proposta all’assemblea popolare, non si domanda al popolo se esso approvi o respinga la proposta, ma piuttosto se essa sia conforme o no alla volontà generale. Ciascun uomo, dando il suo voto, formula la sua opinione su questo punto e la volontà generale è fornita dal conteggio dei voti. Perciò quando prevale l’opinione contraria alla mia, ciò prova soltanto che io mi sono sbagliato e che quella che io credevo fosse la volontà generale non è tale. Se la mia particolare opinione avesse prevalso avrei ottenuto l’opposto di ciò che era la mia volontà ed Página 238 è in questo caso che non sarei stato libero. Ciò presuppone realmente che tutte le qualità della volontà generale risiedano nella maggioranza. Quando cessano di esserlo, la libertà non è più possibile, da qualunque parte l’uomo possa schierarsi [Nota 1]. Ma poco prima abbiamo appreso che «la volontà cosciente di tutti i membri dello Stato è la volontà generale» e anche che, solo in quanto la volontà dei membri della minoranza è compresa in questa volontà generale, si suppone che essi abbiano dato il loro consenso alla legge approvata nonostante la loro opposizione, con la conseguenza che essi sono liberi perchè soggetti solo al propno volere. Non potendosi negare che un uomo, votando pro o contro l’adozione di una legge, esprime non soltanto la sua opinione, ma anche la sua particolare volontà, l’interpretazione della procedura di voto di Rousseau presuppone che l’uomo stesso abbia due volontà, la sua particolare quale suddito e un’altra, ricompresa nella volontà generale, quale cittadino, e che queste due volontà possano essere in conflitto tra loro, sicchè egli possa volere contemporaneamente due cose opposte. Rousseau dice espressamente: «In realtà, ogni individuo, come uomo, può avere una volontà particolare contraria o diversa dalla volontà generale che egli ha come cittadino» [Nota 2]. Tuttavia, anche se si accetta l’interpretazione che Rousseau dà al voto come espressione di opinione e non di volontà, è valida la domanda: Perchè l’opinione della maggioranza è vera e quella della minoranza è falsa? E se in un certo momento può essere vera, perché non lo è più in un altro, quando, in una votazione successiva l’opinione di quelli che erano in minoranza ottiene la maggioranza? È ovvio che Rousseau si è lasciato trasportare in tutte queste contraddizioni al solo scopo di salvare I’illusione della lIbertà naturale, cioè assoluta; ed è proPágina 239 babile che la sua opera, nonostante ogni contraddizione, debba il suo straordinario successo proprio a questo tentativo. IL PRINCIPIO DELLA MAGGIORANZA Se si accetta il principio della maggioranza per lo sviluppo dell’ordinamento sociale non si può più attuare completamente l’idea di libertà naturale, ma è possibile solo approssimarsi ad essa. Che la democrazia sia ancora considerata come autodeterminazione, che la sua libertà significhi ancora che ognuno è soggetto solo alla propria volontà, sebbene la volontà della maggioranza sia vincolante, è un ulteriore passo avanti nella metamorfosi dell’idea di libertà. Anche l’individuo che vota con la maggioranza non è soggetto solo alla propria volontà. Egli se ne rende immediatamente conto quando muta la volontà che ha espresso col voto. Il fatto che tale mutamento della sua volontà individuale sia legalmente irrilevante mostra appieno che egli è soggetto ad una volontà estranea o, per dirla senza metafora, alla validità oggettiva dell’ordinamento sociale [Nota 1]. Egli è nuovamente libero, vale a dire non è soggetto ad altro che alla propria volontà, soltanto se il suo cambiamento viene confermato da una maggioranza. L’accordo della volontà dell’individuo con l’ordinamento sociale che può essere mutato dalla volontà della Página 240 maggioranza, è tanto più difficile e la garanzia della libertà individuale tanto più ridotta, quanto più qualificata è la maggioranza richiesta per un mutamento dell’ordinamento stabilito, della cosiddetta volontà dello Stato. Se si richiede l’unanimità, tale garanzia è praticamente abolita. Diviene qui manifesta una strana ambivalenza del meccanismo politico; lo stesso principio, che protegge la libertà dell’individuo allorchè si crea l’ordinamento sociale, la distrugge se non è più possibile ritirarsi. La creazione originale di un ordinamento non avviene nella realtà della nostra esperienza sociale. L’individuo nasce sempre in un ordinamento sociale già stabilito e di norma anche in uno Stato preesistente alla cui creazione non ha partecipato. In pratica si tratta soltanto del cambiamento o dello sviluppo di questo ordinamento. Sotto tale profilo il principio maggioritario semplice, non qualificato, è quello che relativamente si avvicina di più all’idea di libertà. Secondo questo principio tra i soggetti all’ordinamento sociale, il numero di quelli che lo approvano sarà sempre maggiore del numero di quelli che - del tutto o in parte - lo disapprovano, ma sono da esso vincolati. Nel momento in cui il numero di chi disapprova l’ordinamento, o una delle sue norme, supera quello di chi lo approva, può avvenire un cambiamento. Esso ristabilirà la situazione in modo che l’ordinamento si trovi in armonia con un numero di soggetti maggiore di quello con cui esso è in disaccordo. L’idea basilare del principio di maggioranza è che l’ordinamento sociale sia in accordo con il maggior numero possibile di soggetti e in disaccordo con il minor numero possibile di essi. Página 241 Libertà politica significa accordo tra la volontà individuale e quella collettiva espresse nell’ordinamento sociale. In conseguenza il principio di maggioranza semplice è quello che assicura il più alto grado di libertà politica possibile nella società. Se un ordinamento non potesse essere mutato dalla volontà della maggioranza semplice dei soggetti, ma potesse esserlo solo dalla volontà di tutti (vale a dire all’unanimità) o dalla volontà di una maggioranza qualificata (per esempio, dalla maggioranza dei due terzi o dai tre quarti dei voti), un solo individuo o una minoranza di individui potrebbero impedire ogni mutamento. L’ordinamento potrebbe essere allora in disaccordo con un numero di soggetti maggiore di quello di coloro con i quali è in accordo. Il principio maggioritario, che più di ogni altro si avvicina all’idea di libertà nella realtà politica, presuppone come condizione essenziale il principio di eguaglianza. Infatti l’opinione che il grado di libertà nella società è proporzionato al numero degli individui liberi implica che tutti gli individui siano di eguale valore politico e che ognuno abbia la stessa pretesa alla libertà e cioè la stessa pretesa a che la volontà collettiva sia in accordo con la sua volontà individuale. Solo se è irrilevante che l’uno o l’altro sia libero in questo senso (perchè l’uno è politicamente uguale all’altro), si giustifica il postulato che gli individui liberi saranno quanti più possibile e che soltanto il loro numero è decisivo. Questa sintesi della libertà e dell’uguaglianza è alla base dell’idea democratica riguardante la relazione tra l’ordinamento sociale (come volontà collettiva) e la volontà individuale, tra il soggetto e l’oggetto del dominio, proprio come la sintesi della libertà e dell’eguaglianza è alla base dell’idea relativistica concernente la relazione tra il soggetto e l’oggetto della conoscenza. Página 242 Il Tipo demogratico di personalità Da un punto di vista psicologico la sintesi di libertà ed eguaglianza, caratteristica essenziale della democrazia, significa che l'individuo, l'ego, desidera la libertà non solo per se stesso, ma anche per gli altri, per il tu. E ciò è poso sibile solo se l'ego non si sente unico, incomparabile e non riproducibile, ma, almeno in linea di principio, eguale al tu. Solo se l'individuo considera come essenziali le innegabili differenze che esistono tra sè e gli altri, solo se l'ego, o autocoscienza, è in parte ridotta dal senso di uguaglianza con gli altri, l'ego può rispettare il diritto del tu ad essere anch'egli un ego. Questa è la posizione intellettuale di una filosofia relativistica. La personalità, il cui desiderio di libertà è modificato dal suo senso di eguaglianza, si riconosce negli altri. Essa rappresenta il tipo altruistico, perchè non considera gli al tri come nemici, ma è incline a vedere un'amico nel suo simile. Si tratta di un uomo che ama simpatizzare, che ama la pace, e la cui tendenza all'aggressione è deviata contro se stesso dalla sua direzione originaria verso gli altri e si manifesta così in una tendenza all'autocritica, in una maggiore disposizione al senso di colpa e ad un gande senso di responsabilità. Non è paradossale come potrebbe sembrare a prima vista il fatto che proprio al tipo di autocoscienza relativamente ridotta corrisponda una forma di governo caratterizzata dall'autodeterminazione, ià che equivale a minimizzare le funzioni del governo stesso. L'attitudine dell'individuo nei confronti del problema del governo è infatti essenzialmente determinata dall'intensità della volontà di potenza nell'individuo. E l'individuo, anche come soggetto al governo, è incline, se vive sotto una forma di governo che approva, ad identificarsi in esso. Più forte è la volontà di potenza, minore è l'apprezzamento per la libertà. La negazione totale del valore della Página 243 libertà, la massimizzazione del dominio – questa è l’idea dell'autocrazia, il principio dell'assolutismo polltico. Esso è caratterizzato dal fatto che l'intero potere dello Stato e concentrato nelle mani di un solo individuo, il governante. Il famoso detto attribuito a Luigi XIV, l'état c'est moi ne esprime bene l'idea, idea che è in aperto contrasto com la democrazia il cui motto è l’ètat c’est nous. La volontà el governante è legge, non la volontà del popolo. Il popolo, infatti, è soggetto al governate senza partecipare al suo potere, che per tale ragione è illimitato e contiene in sè la tendenza al totalitarismo. In questo senso, l’assolutismo politico significa, per chi è governato, la rinuncia completa all'autodeterminazione. Esso è incompatible con l'idea di eguaglianza perchè si giustIfica solo, con l’assunto di una differenza essenziale tra colui che è governato a colui che governa. Il parallelismo esistente tra assolutismo filosofico e politico è evidente. La relazione tra l'oggetto della conoscenza, l'assoluto, e il soggetto della conoscenza, l'individuo umano, è molto simile a quella tra un governo assoluto ed i suoi soggetti. Il potere illimitato di un governo sfatto è al di là di qualsiasi influenza da parte del soggetti, che sono tenuti ad obbedire alle leggi senza partecipare alla loro creazione. Similmente l'assoluto è al di là della nostra esperienza e l’oggetto della conoscenza é, per l’assolutismo filosofico, indipendente dal soggetto totalmente determinato nel suo conoscere da leggi eteronome. L'assolutismo filosofico può essere molto ben definito come totalitarismo epistemologico. Secondo questa teoria, la costituzione dell'universo non è certamente democratica. La creatura non partecipa alla creazione. Il parallelismo tra assolutismo politico assolutismo filosofico non è soltanto esterno; il primo ha in effetti una inconfondibilé tendenza ad usare il secondo come strumento ideologico. Per giustificare il suo illimitato potere Página 244 e la sottomissione incondizionata di tutti gli altri, il gover. nante deve presentare se stesso, in modo diretto o indi. retto, come autorizzato dall'unico vero assoluto, il supremo essere superumano, o come suo discendente o come rappresentante o come ispirato da lui in maniera mistica. Dove la ideologia politica di un governo autocratico e totalitario non consente di ricorrere all'assoluto fornito da una religione storica, come nel Nazional-5ocialismo o nel Bolscevismo, essa mostra una evidente tendenza ad assumere carattere religioso col rendere assoluto il proprio valore fondamentale: l'idea di nazione, l,dea di socialismo. Psicologicamente, l'assolutismo politico corrisponde ad un tipo di esagerata coscienza di sè. L'incapacità o la mancanza di inclinazione dell'individuo a riconoscere e a rispettare il proprio simile come un altro ego, come un'entità di specie uguale al proprio ego, quello che egli ha sperimetato originariamente, impedisce a questo tipo di uomo di accettare l'uguaglianza come ideale sociale così come il suo ardente stimolo all'aggressione e la grande volontà di potenza escludono la libertà e la pace come valori politici. È tipico il fatto che l'individuo aumenta la consapevolezza disè identificando se stesso con il suo super ego, l'ego ideale, e che il dittatore dotato di potere illimitato rappresenta ai propri occhi l'ego ideale. Per cui non è affatto una contraddizione ma, da un punto di vista psicologico, è del tutto coerente dire che proprio questo tipo di uomo favorisce una rigida disciplina, perfino una cieca obbedienza, e trova la felicità nell'ubbidire non meno che nel comandare. Identificarsi con l'autorità, questo è il segreto dell' obbedienza. IL PRINCIPIO DI TOLLERANZA Poiché il principio di libertà e di uguaglianza tende a minimizzare il potere, la democrazia non può essere un Página 245 dominio assoluto e neppure un dominio assoluto della maggioranza. Il dominio della maggioranza del popolo si distingue infatti da ogni altro non solo per il fatto che per definizione presuppone una opposizione: cioè la minoranza, ma anche perché ne riconosce l'esistenza politica e ne protegge i diritti. Nulla mostra più chiaramente l'errata terminologia usata dalla dottrina politica sovietica del fatto che essa definisce la democrazia, cioè la dittatura del proletariato che pretende essere tale, come la democrazia per la maggioranza dei poveri e non per la minoranza dei ricchi, come un'organizzazione della violenza per sopprimere questa minoranza. «La dittatura del proletalriato» - la vera democrazia - dice Lenin [nota 1] «Impone una serie di restrizioni alla libertà degli oppressori, degli sfruttatori, dei capitalisti» i quali, sotto la dittatura del proletariato, non saranno più oppressori, sfruttatori e capitalisti, cose che potevano essere soltanto prima, ma sono, se ancora esistono, semplicemente la minoranza del popolo. Tra tutti i fatti che privano lo Stato sovietico del diritto di chiamarsi democratico vi è innanzi tutto quello di considerare come suo compito principale la soppressione violenta della minoranza. È molto importante considerare che la trasformazione dell'idea di libertà naturale, come essenza di governo, nell'idea di libertà politica, come partecipazione al governo, non implica un completo abbandono della prima. Ciò che rimane è il principio della restrizione dei poteri governativi, principio fondamentale del liberalismo politico. La democrazia moderna non può essere separata dal liberalismo politico. Il suo principio è che il governo non deve interferire in certe sfere di interessi proprie dell individuo, che devono venir protette dalla legge come diritti umani fondamentali o diritti di libertà; rispettando i quali le Página 246 minoranze sono salvaguardate dal dominio arbitrario delle maggioranze. Dal fatto che la tensione permanente tra maggioranza e minoranza, governo e opposizione, risulta così caratteristica nel processo dialettico della formazione democratica della volontà dello Stato, si può ben dire: democrazia è discussione. Di conseguenza, la volontà dello Stato, vale a dire il contenuto dell'ordinamento giuridico, può essere il risultato di un compromesso [nota l]. Questo tipo di governo, garantendo la pace interna, è preferito dai caratteri amanti della pace e non aggressivi. Ecco perchè libertà di religione, libertà di opinione e di stampa appartengono all'essenza della democrazia e soprattutto vi appartiene la libertà di scienza, basata sulla fede nella possibilità della conoscepza obiettiva. L'apprezzamento della scienza razionale e la tendenza a mantenerla libera da ogni intrusione metafisica o religiosa sono tratti caratteristici della democrazia moderna quale si è venuta formando sotto l'influenza del liberalismo politico. L'idea di libertà, che è alla base del liberalismo politico, non solo implica il postulato che il comportamento esterno dell'individuo in relazione ad altri individui sarà soggetto - per quanto possibile - alla sua volontà, e che se dovrà esserlo a quella dello Stato si tratterà soltanto di una volontà alla cui creazione egli partecipa col proprio volere; ma implica anche il postulato che il comportamento interno dell'individuo, il suo pensiero, sarà soggetto solo alla sua ragione e non ad una autorità trascendentale esistente o supposta tale al di là di essa, ad una autorità alla quale la sua ragione non partecipa perché inaccessibile. Il liberalismo inerente alla moderna democrazia non Página 247 significa soltanto autonomia politica, ma anche autonomia intellettuale dell'individuo, autonomia della ragione, che è la vera essenza del razionalismo. Questo atteggiamento, specialmente il rispetto per la scienza, corrisponde perfettamente a quel tipo di individuo che abbiamo specificatamente definito come democratico. Nel grande dilemma tra volontà e conoscenza, tra desiderio di dominare il mondo e desiderio di comprenderlo, il pendolo oscilla più in direzione della conoscenza che in quella della volontà, più verso la comprensione che verso il dominio, proprio perchè un carattere di questo tipo riduce in parte la volontà di potenza, l'intensità cioè della esperienza dell'io, e rafforza invece l'autocritica, assicurando la fede nella scienza critica, e perciò objettiva. In una autocrazia, invece, non è tollerata alcuna opposizione. Non esiste discussione o compromesso; vi sono solo ordini e non esiste quindi libertà religiosa o di opinione. Se la volontà prevale sulla conoscenza, la giustizia prevale sulla verità. Ma la questione su ciò che è giusto deve essere decisa solo dall'autorità dello Stato a cui sono soggetti sia la volontà che l'opinione dei cittadini, sicchè il non conformarsi ad essa non è soltanto un errore, ma anche un reato punibile. È facile capire che sotto un regime siffatto non vi può essere libertà per la scienza, che è tollerata solo in quanto duttile strumento del governo. Nulla è più probante dell'esistenza di una svolta verso una attitudine intellettuale più o meno favorevole all'autocrazia che l'abbandono della fede nella possibilità di una scienza obiettiva, indipendente cioè da interessi politici e perciò degna della libertà. L'esistenza della democrazia è in pericolo se l'ideale della conoscenza obiettiva è posto in secondo piano rispetto ad altri. Questo movimento intellettuale va in genere di pari passo con la tendenza ad attribuire all'irrazionale maggior valore che al razionale. Nel conflitto tra religione e scienza la prima prevale sulla seconda. Página 248 Il carattere razionalistico della democrazia Il carattere razionalistico della democrazia si manifesta soprattutto nella tendenza a fare dell'ordinamento giuridico dello Stato un sistema di norme generali creato secondo una procedura organizzata proprio a questo scopo. Vi è la chiara intenzione di determinare, mediante una legge prestabilita, gli atti individuali dei tribunali e degli organi amministrativi. in modo da poterli - per quanto possibile - calcolare e prevedere. Vi è un dichiarato bisogno di razionalizzare il processo nel quale si manifesta il potere dello Stato. Questo è il motivo per cui si considera la legislazione come funzione basilare dello Stato. L'ideale della legalità assume una parte decisiva: si pensa che gli atti individuali dello Stato possono essere giustificati dalla loro conformità alle norme generali del diritto. La certezza più che la giustizia assoluta è in primo piano nella coscienza giuridica. L'autocrazia, invece, disdegna una sifIatta razionalizzazione del potere. Essa evita, per quanto possibile, ogni determinazione degli atti dello Stato, specialmente degli atti di un governante autocratico, compiuta mediante norme generali prestabilite che implicherebbero una restrizione del potere discrezionale. Si ritiene che l'autocrate, come legislatore supremo, non debba attenersi alle leggi che egli stesso emana: princeps legibus solutus est. Nello stato ideale di Platone, che è l'archetipo di ogni autocrazia, non vi sono per nulla norme generali di legge. I «giudici regi» hanno un potere discrezionale illimitato nel decidere i casi concreti. Naturalmente ciò è possibile solo perchè lo Stato di Platone è una comunità molto piccola. In uno Stato di media grandezza, l'autocrate non è in grado di compiere tutti gli atti necessari, sia ammini strativi che giudiziali, e deve quindi nominare degli organi subordinati. Per far attuare la sua volontà da questi organi Página 249 può vincolarli mediante leggi che ne determinano l'attività;. ma egli si conserva il diritto assoluto di concedere in ogni caso quelle esenzioni dalle leggi che ritenga opportune. Perciò non può esservi certezza giuridica in una autocrana. Ciononostante ogni manifestazione del potere statale pretende di essere l'attuazione della giustizia, ma rifiuta di esprimersi con princìpi generali; disdegna, per sua natura: ogni definizione; si rivela solo in decisione individuali perfettamente adatte alle particolarità del caso concreto. Il segreto della giustizia appartiene esclusivamente al governante; è la sua virtù personale, la sua capacità divina, infusa in lui per grazia divina; è la legittimazione del suo potere dittatoriale. Perciò un regime autocratico, in contrasto con uno democratico, rifiuta di rendere pubblici i suoi scopi promulgando un programma. E se è costretto a farlo, il programma consiste in una serie di frasi vuote o di promesse, che vengono incontro ai desideri più contraddittori. Per difendersi dalla critica, si adduce che il programma non contiene e non può contenere i compiti essenziali che un regime deve adempiere. La vita, con le sue palpitanti esigenze, non può essere afferrata o regolata da norme generali. Tutto dipende dall'azione concreta, dal mistero del rairos creativo. Poichè in una democrazia c'è bisogno della sicurezza del diritto, di legalità e di poter calcolare le funzioni dello Stato, vengono stabilite delle istituzioni che controllano le suddette funzioni al fine di garantirne la legittimità. Di conseguenza prevale il principio di pubblicità. La tendenza a svelare i fatti è tipicamente democratica e ciò porta ad una interpretazione superficiale e malevola di questa forma di governo, al giudizio infondato che la corruzione sia più frequente nel regime democratico che in quello autoritario; mentre - in verità - la corruzione è soltanto invisibile nel secondo, dato che vi prevale il principio contrario. In un regime autocratico non vi sono nè misure Página 250 di controllo, perchè si presume che esse possano soltanto diminuire l'efficienza del governo, nè pubblicità. Vi è solo lo sforro teso a nascondere tutto ciò che potrebbe nuocere all'autorità del governo e minare la disciplina dei funzionari e l'ubbidienza dei cittadini. Come si è fatto notare, gli atteggiamenti razionalistici e critici della democrazia si manifestano anche in una certa avversione alle ideologie religiose e meta fisiche che l'autocrazia utilizza allo scopo di mantenere il suo potere. La lotta nella quale la democrazia supera l'autocrazia è in gran parte condotta in flIome della ragione critica contro ideologie che si ispirano alle forze irrazionali dell'animo umano. Tuttavia, dato che nessun governo sembra capace di agire senza l'aiuto di tal une ideologie che lo giustificano, anche i governi democratici le adoperano. Ma, di regola, le ideologie democratiche sono più razionalistiche, più vicine alla realtà e perciò meno efficaci di quelle usate dai governi autocratici. Poichè il dominio esercitato dai governi autocratici sui propri soggetti è maggiore, essi necessitano di un velo più spesso per nascondere la loro vera natura. È indubbio che le democrazie usano talvolta le stesse ideologie religiose e metafisiche alle quali i governi autocratici devono, o si suppone che debbano, il loro successo, come ad esempio l'idea che il governo popolare attua la volontà di Dio. Ma il detto vox populi vox Dei non è mai stato preso troppo sul serio. L'aureola di un monarca ispirato che pretende di tenere il suo ufficio per grazia di Dio o il carisma di un leader, che pretende di essere ispirato da forze soprannaturali, possono difficilmente essere attribuite al popolo, al Signor o alla Signora America. Una democrazia che tentasse di giustificarsi in questo modo si avvicinerebbe in modo sospetto alla favola dell'asino nella pelle del leone. Página 251 IL PROBLEMA DELLA LEADERSHIP L'antagonismo tra democrazia ed autocrazia appare anche nella diversità con cui viene interpretata la funzione del governare. Nell'ideologia autoritaria colui che governa rappresenta un valore assoluto. Essendo di origine divina o dotato di forze soprannaturali, non lo si considera un organo che è o può essere creato dalla comunità; ma lo si immagina come un'autorità al di fuori della comunità, costituita e tenuta unita da lui. L'origine e la costituzione del governante non sono perciò problemi che potrebbero essere risolti dalla conoscenza razionale. La realtà politica, vale a dire l'inevitabile usurpazione del comando, viene nascosta dal mito del leader. Al contrario, in un regime democratico il problema del come nominare i magistrati viene risolto alla chiara luce del pensiero razionale. Il comando non rappresenta un valore assoluto, ma soltanto un valore relativo. Tutti gli organi della comunità sono eletti solo per un breve periodo. Anche il capo dell'esecutivo è «leader» solo per un certo tempo e solo sotto certi aspetti, in quanto sia la durata del suo incarico che la sua competenza sono limitati. Pur nella sua qualità di capo dello Stato egli è un cittadino come gli altri ed è soggetto alla critica. Dal fatto che colui che governa è superiore e al di fuori della comunità, se è in una autocrazia, e nella comunità se è in una democrazia, consegue che nel primo caso l'uomo che esercita tale funzione è considerato al di sopra dell'ordinamento sociale e perciò non responsabile verso la comunità da questo costituita o - secondo le formule ideologiche - responsabile soltanto verso Dio e se stesso; mentre nel secondo caso egli è sottoposto all'ordinamento sociale e perciò responsabile verso di questo. Poichè nella democrazia il potere non ha qualità soprannaturali e colui che governa è nominato attraverso una proPágina 252 cedura razionale pubblicamente controllabile, il potere stesso non può diventare monopolio permanente di un singolo individuo. Pubblicità, critica e responsabilità rendono impossibile che un governante diventi inamovibile. La democrazia è caratterizzata da mutamenti più o meno rapidi dei governanti e perciò, sotto questo aspetto, ha natura dinamica. Si verifica una costante circolazione dalla comunità dei governati alla posizione di governante. Al contrario, l'autocrazia mostra un chiaro carattere di staticità: la relazione tra governante e governato tende a congelarsi. La democrazia, nel suo insieme, non è un terreno favorevole al principio di autorità in generale e all'idea di Führer in particolare. Nei limiti in cui il padre è l'archetipo dell’autorità, costituendo l'esperienza originaria in questo campo, la democrazia è, in accordo con la sua idea, una società senza padre. Essa deve essere una comunità di uguali. Il suo principio è il coordinamento; la sua forma più primitiva una organizzazione matriarcale in cui gli uomini che vivono assieme sono fratelli, figli della stessa madre. Il suo vero simbolo è la Trinità della Rivoluzione francese; libertà, uguaglianza, fraternità. L'autocrazia, invece, è per natura una comunità paterna: la relazione figlio-padre è la categoria che ad essa corrisponde. La sua struttura consiste nella supremazia e nella subordinazione vale a dire in un'articolazione gerarchica, non nel coordinamento. Ed è proprio per questa ragione che all'autocrazia, più che alla democrazia, si potrebbe attribuire una maggiore possibilità di sopravvivere. In realtà, nella storia sembra che le autocrazie riempiano periodi di tempo più lunghi delle democrazie, le quali compaiono - per così dire - solo negli intervalli del dramma dell'umanità. Pare che la democrazia abbia un potere di resistenza minore dell’autocrazia che senza alcuna considerazione distrugge tutti gli oppositori; la prima, infatti, con il principio di Página 253 legalità, la libertà di opinione, la protezione delle minoranze, la tolleranza, favorisce direttamente la sua nemica. È privilegio paradossale di questa forma di governo, un dubbio vantaggio sull'autocrazia, quello di poter annientarsi coi propri mezzi di deformazione della volontà statale. Ma il fatto che in una autocrazia non esiste un metodo costituzionale per appianare i conflitti di interesse, che dopo tutto esistono anche qui, costituisce un serio pericolo. Dal punto di vista della tecnica psico-politica, il meccanismo delle istituzioni democratiche si prefigge di portare le emozioni politiche delle masse e soprattutto dei partiti all'opposizione oltre la soglia della consapevolezza sociale, al fine di farle «abreagieren» (decantare). Nei regimi autoritari, al contrario, l'equilibrio sociale è basato sulla repressione delle emozioni politiche in una sfera paragonabile a quella dell'inconscio. Lasceremo impregiudicato quale delle due tecniche sia la più appropriata per salvaguardare il governo da una rivoluzione che lo distrugga. Tra i tentativi summenzionati di cancellare l'antagonismo esistente tra democrazia ed autocrazia, non bisogna sottovalutare la tendenza a presentare il problema della democrazia come un problema di leadership. Essa è stata evocata dall'innegabile successo che per un certo tempo ebbero il fascismo e il nazionalismo. Il suo obiettivo è una nuova dottrina della democrazia che, in opposizione all'antica, sottolinei la necessità di una leadership efficiente. Ne risulta il concetto di democrazia autoritaria che, naturalmente, è una contraddizione in termini; ma essa permise ai seguaci di questa dottrina di riconoscere il fascismo come democrazia [Nota 1]. Página 254 «E perciò il fascismo - dichiarò Mussolini - è contro la democrazia che ragguaglia il popolo al maggior numero abbassandolo al livello dei più; ma è la forma più schietta di democrazia se il popolo è concepito, come deve essere, qualitativamente e non quantitativamente, come l'idea più potente, perché più morale, più coerente, più vera, che nel popolo si attua quale coscienza e volontà di pochi, anzi di Uno, e quale ideale tende ad attuarsi nella coscienza e volontà di tutti. Di tutti coloro che (dalla natura e dalla storia, etnicamente), traggono ragione di formare una nazione ... » [Nota 1]. Naturalmente, non si può negare l'esistenza nell'ambito di uno Stato democratico di una leadership, e neppure che la forma democratica di governo permette, sebbene non favorisca, l'avvento di potenti leaders capaci di ottenere il sostegno entusiastico delle masse. Nè si può negare Página 255 che l'ascesa di una tale personalità può portare come conseguenza l'abolizione di questa forma di governo e la sua sostituzione con una palese autocrazia o con una dittatura che pretende di essere democrazia. È anche vero che misure costituzionali come l'istituto della revoca, e cioè la procedura secondo la quale un pubblico ufficiale può essere rimosso dal suo ufficio con voto popolare, o quelle miranti ad impedire l'ostracismo, come nelle antiche democrazie, si sono rivelate non molto efficaci. Ma questi fatti non giustificano la identificazione del problema della democrazia con quello della leadership. Il problema della democrazia non è quello del governo più efficiente; altre forme possono ben esserlo di più. Esso invece è il problema di un governo che garantisca la maggiore libertà individuale possibile. Di conseguenza, il desiderio di un governo efficiente, o di quel che è supposto essere tale, non giustifica la sostituzione della definizione di democrazia come governo del popolo, con una definizione dalla quale il popolo, come potere attivo, sia eliminato e sia mantenuto soltanto come fattore passivo in quanto è richiesta l'approvazione da parte sua del leader, comunque espressa. Tali definizioni hanno soltanto l'effetto - se non l'intenzione - di coprire con una terminologia democratica la ritirata dalle posizioni della democrazia. Democrazia e Pace Il modello di politica interna sopra descritto corrisponde a un ben definito metodo di politica estera. Il tipo democratico ha una decisa tendenza ad amare gli ideali pacifisti laddove quello autocratico mostra manifesti sintomi di imperialismo. Naturalmente anche le democrazie hanno fatto guerre di conquista, ma la prontezza e la capacità a compiere tali azioni è molto più debole e le inibiPágina 256 zioni politiche interne da sormontare molto più forti che in una autocrazia. Esse hanno perciò una chiara tendenza a giustificare la politica estera con una ideologia razionalistica e pacifistica. È necessario presentare la guerra che si fa o che si intende fare come una guerra difensiva imposta dal nemico al governo che sarebbe invece desideroso di pace - mezzo di cui una autocrazia non ha bisogno a causa della sua ideologia eroica. Oppure si dichiara che il fine della guerra è quello della pacificazione definitiva del mondo, o di una parte di esso, attraverso una organizzazione internazionale che mostra tutti i tratti caratteristici di una democrazia - una comunità di Stati con uguali diritti sottoposta ad un tipo di governo composto di rappresentanti eletti ed una corte mondiale competente a dirimere i conflitti internazionali - come primo passo verso lo sviluppo di uno Stato mondiale. Questa è una idea che dal punto di vista di una convinzione autocratico-imperialistica non solo non ha alcun valore, ma è decisamente respinta come mania livellatrice che porterà in definitiva alla distruzione della civiltà, il cui progresso dipende invece dalla lotta per la vita e dalla sopravvivenza dei più forti. Democrazia e Teoria Dello Stato Le diverse idee sulla relazione che esiste o dovrebbe esistere tra il proprio Stato e gli altri, sono strettamente collegate alle teorie sulla natura dello Stato congeniali rispettivamente al tipo democratico e a quello autocratico di personalità. Il secondo con la sua ipertrofica consapevolezza di sè, basata sull'identificazione di se stesso con un potente autocrate, è predestinato a difendere la dottrina che lo Stato è una entità diversa dalla massa degli esseri umani individuali, che esso è una realtà super-individuale, Página 257 in certo senso collettiva, un organismo mistico e, come tale, una autorità suprema: la realizzazione del valore assoluto. È il concetto di sovranità che realizza la assolutizzazione la divinizzazione dello Stato, rappresentato nella sua totali'tà dal governante di origine divina. Come ho già sottolineato l'assolutismo filosofico può derivare da una opinione che, nel suo tentativo di comprendere il mondo, parte dell'ego ma ignora il tu, rifiuta di riconoscere il diritto di quest'ultimo ad essere un ego a sua volta, e porta quindi a rendere assoluto l'ego unico e sovrano, nella cui concezione e volontà è compreso l'intero universo assieme a tutti coloro che invano aspirano ad essere degli ego. In questo stesso modo chi crede nell'assolutismo politico inizia l'interpretazione delle relazioni internazionali del proprio Stato sovrano. È una conseguenza significativa della dottrina della sovranità assoluta dello Stato che la sovranità di uno escluda la sovranità degli altri, che lo Stato che è il punto di partenza di questa interpretazione debba essere considerato come l'unico Stato sovrano. Perciò la esistenza legale come Stati di altre comunità e la validità dell'ordinamento normativa che regola la condotta dello Stato sovrano nelle sue relazioni con quelle deve basarsi sul riconoscimento, e quindi sulla volontà, dello Stato sovrano che è il punto di partenza per l'interpretazione. Dato che l'esistenza legale di questi Stati e l'applicazione del diritto internazionale alle loro relazioni con lo Stato sovrano dipendono da tale riconoscimento, non si può considerarli sovrani nel senso assoluto del termine. Da questo punto di vista, l'ordinamento giuridico internazionale appare non come un ordinamento normativo superiore allo Stato o, ciò che è lo stesso, all'ordinamento giuridico nazionale, ma - ammesso che si tratti di un ordinamento come parte di quello dello Stato sovrano che riconosce la validità dell'ordinamento giuridico internazionale. In tal modo, l'intero mondo del diritto è conPágina 258 cepito come implicito nella volontà dello Stato-ego assoluto, lo Stato sovrano. Del tutto opposta a questa teoria della Stato e delle sue relazioni con gli altri è quella secondo cui lo Stato non è una sostanza misteriosa diversa dai suoi membri, cioè gli esseri umani che lo formano, e pertanto una realtà trascendentale al di là della conoscenza razionale ed empirica, ma un ordinamento normativo determinato che regola il mutuo comportamento degli uomini. Questa dottrina si rifiuta di cercare l'essenza dello Stato in una sfera al di là o al di sopra del reale; essa la trova nella validità e nell'efficacia dell'ordinamento normativo e perciò nelle menti degli esseri umani che sono i soggetti degli obblighi e dei diritti stabiliti da tale ordinamento. Questa teoria politica non porta a fare dello Stato un assoluto, ma, al contrario, a crederlo relativo. Essa denuncia il concetto di sovranità come l'ideologia di una determinata politica di potere e perciò nega che questo concetto sia applicabile ad una descrizione scientifica della realtà politica o giuridica. Dimostrando che la sovranità assoluta non è e non può essere una qualità essenziale dello Stato esistente a lato di altri Stati, essa rimuove uno dei più radicati pregiudizi che impediscono alla scienza politica e giuridica di riconoscere come possibile un ordinamento giuridico internazionale costituente una comunità internazionale della quale lo Stato è membro, così come i consigli municipali sono membri dello Stato. Questa teoria dimostra che lo Stato come comunità giuridica è uno stadio intermedio in una serie di fenomeni legali che porta dalla comunità intero nazionale universale degli Stati, attraverso organizzazioni internazionali particolari, al singolo Stato e da esso alle associazioni incorporate nello Stato, terminando finalmente con l'essere umano individuabile come soggetto giuridico. Da tutto quanto detto prima consegue che questa teoria politica antiideologica, razionalistica e relativistica, cor- Página 259 risponde al tipo intellettuale che è stato descritto come democratico. È una teoria scientifica della realtà politica e giuridica alla quale il tipo autocratico preferisce una interpretazione metafisico-teologica dei fenomeni sociali in generale e dello Stato in particolare. Soltanto la volontà di tipo democratico consentirà un'analisi obiettiva delle diverse forme di governo, ivi inclusa quella democratica. Nessuno che creda nell'assolutismo politico esaminerà la democrazia e l'autocrazia mettendole sullo stesso piano, senza che un giudizio di valore sia implicito nel suo esame. Valutare, e perciò approvare o disapprovare la realtà politica, è più importante per lui di una conoscenza libera da giudizi di valore. Se l'antagonismo tra democrazia e autocrazia può ridursi ad una diversità nell'habitus psicologico degli uomini, allora l'antagonismo tra un atteggiamento scientifico orientato verso il valore della conoscenza ed un atteggiamento politico orientato verso un altro valore, quello sociale, può anche essere messo in relazione con l'antagonismo tra relativismo e assolutismo politici. È allora del tutto comprensibile perché una genuina scienza politica prosperi meglio all'interno di una democrazia, dove la sua libertà e la sua indipendenza dal governo sono garantite, piuttosto che in una autocrazia dove possono svilupparsi solo le ideologie politiche; come pure perché chi preferisce la democrazia all'autocrazia abbia una più forte inclinazione verso una conoscenza scientifica della società in generale, e dello Stato e del diritto in particolare, di chi è spinto dal proprio carattere verso l'autocrazia e perciò verso un atteggiamento ideologico. Página 260 crazia ed assolutismo dall'altra, non è ancora abbastanza convincente, mi appello al fatto storico che quasi tutti i maggiori esponenti della filosofia relativistica furono politicamente favorevoli alla democrazia, mentre i seguaci dell'assolutismo filosofico, i grandi metafisici, furono favorevoli all'assolutismo politico e contro la democrazia. Gli antichi sofisti furono relativisti. Il loro maggiore filosofo, Protagora, insegnò che l'uomo è la misura di tutte le cose e il loro poeta più rappresentativo, Euripide, esaltò la democrazia. Invece Platone, il maggiore metafisica di tutti i tempi, sostenne contro Protagora il principio che Dio è la misura di tutte le cose; e Dio, come bene assoluto, è al centro della sua dottrina delle idee. Al tempo stesso egli respinge la democrazia come una forma di governo spregevole. Là sua critica si appunta innanzi tutto sulla costituzione della sua città natale, centro dei suoi interessi politici. Per poterne giudicare il valore assoluto bisognerebbe confrontarlo con la descrizione della democrazia ateniese trasmessa ci nella Storia della guerra del Peloponneso scritta da Tucidide, uno degli storici più grandi e attendibili, appartenente alla generazione precedente quella di Platone. Ecco le parole che Tucidide fa pronunciare a Pericle: È vero che il nostro governo è chiamato democrazia perchè la sua amministrazione non è nelle mani dei pochi, ma in quelle dei più. Tuttavia, mentre rispetto alla legge tutti gli uomini sono uguali nel regolare le dispute private, per quanto riguarda il valore riconosciuto a ciascuno è come se ogni uomo venisse distinto in tutto, per cui chi è preferito nell'accesso alle cariche pubbliche, lo è non in quanto appartenga ad una classe particolare, ma per i suoi meriti personali. Nè a motivo della povertà un uomo è escluso da una carriera pubblica per oscurità di rango, se ha in sè la capacità di porsi al servizio dello Stato. Noi non siamo liberali solo nella nostra vita pubblica, ma anche per quanto riguarda la libertà del reciproco sospetto nelle occupazioni della vita di tutti i giorni. Non proviamo infatti risentimento per il nostro vicino se questi agisce a suo piacere e neppure gli lanciamo acide occhiate che, sebbene innocue, sono penose da vedere. Cosi mentre evitiamo di offendere nei nostri Página 261 rapporti privati, nella vita pubblica siamo trattenuti dall'i11egalità soprattutto per reverenza alle leggi, in quanto rendiamo obbedienza ad esse e a coloro che detengono l'autorità, e specialmente alle leggi emanate per soccorrere gli oppressi ed a quelle che, sebbene non scritte, portano al trasgressore un'onta che ogni uomo riconosce... Adoperiamo la ricchezza come stimolo a nuove attività, non come motivo di vanto, e fra noi non è vergogna per un uomo confessare la sua povertà, ma è vergogna il non fare del suo meglio per evitarla. Nelle stesse persone troverete accomunati l'interesse immediato sia per le cose private che per quelle pubbliche ed in altri di noi, dediti principalmente agli atIari, non troverete mancanza di acume per le questioni politiche. Perchè noi soli consideriamo l'uomo che non prende parte alcuna agli affari pubblici, non come qualcuno che bada ai propri affari, ma come un buono a nulla. Noi ateniesi decidiamo le questioni pubbliche da noi o almeno ci sforziamo di comprenderle pienamente nella convinzione che non il dibattito impedisce l'azione, ma piuttosto il non essere preparati dal dibattito prima che giunga il tempo di agire... In una parola, quindi, dico che la nostra città nel suo insieme è la scuola dell'Ellade [nota 1]. Nel suo dialogo La Repubblica, Platone definisce la democrazia non come governo del popolo - o governo «di molti» secondo l'espressione di Tucidide - ma come governo dei poveri: «Quando vincono i poveri ne risulta la democrazia. Essi uccidono alcuni esponenti del partito avverso, ne bandiscono altri ed accordano al resto una parte uguale nei diritti civili e nel governo, mentre i funzionari sono generalmente nominati a sorte» [nota 2]. La libertà è sì il principio fondamentale della democrazia, ma questa libertà non è al tro che anarchia: Prima di tutto essi sono liberi. Dappertutto prevale la libertà: libertà di parola, licenza di fare ciò che piace... Stando cosi le cose, ogni uomo disporrà il suo modo di vivere in modo da assecondare il proprio piacere. Il risultato sarà una varietà di individui maggiore che sotto ogni altra costituzione. Sicché potrà essere la più bella di tutte con il suo variegato campionario di ogni specie di caratteri. Molti possono ritenerla la migliore, proprio come donne e bambini potrebbero ammirare un insieme di colori di ogni gradazione nel modello di un vestito... [In una democrazia] non avete l'obbligo di Página 262 partecipare al governo, per quanto competente possiate essere, o di sottomettervi all'autorità, se ciò non vi piace; non è necessario che combattiate quando i vostri concittadini sono in guerra o che manteniate la pace quando essi la mantengono, a meno ciò non vi piaccia; e sebbene possiate non avere alcun diritto legale a ricoprire un incarico o a far parte di una giuria, potrete farlo ugualmente se ve ne vien voglia. Una vita veramente piacevole, almeno sul momento... Dovete aver visto come in una democrazia degli uomini condannati a morte o all'esilio restino, e vadano in giro in pubblico, e come nessuno badi loro più di quanto baderebbe ad uno spirito invisibile. Vi è tanta tolleranza e superiorità verso le considerazioni meschine; un tale disprezzo per tutti quei bei principi che stabi. limmo nel fondare la nostra repubblica... una democrazia calpesta tali nozioni; con una indifferenza magnifica per il genere di vita che un uomo ha condotto prima di entrare nella politica, essa innalzerà agli onori, chiunque si chiamerà semplicemente amico del popolo... Questi, quindi, ed altri simili, sono i tratti caratteristici di una democrazia, una forma gradevole di anarchia, piena di varietà e che concede l'uguaglianza a tutti, agli uguali come ai disuguali [nota 1]. Del tipo di uomo democratico Platone dice: «La sua vita non è soggetta ad alcun ordine o restrizione, ed egli non aspira a mutare un'esistenza che definisce piacevole, libera e felice. Ciò descrive bene la vita di uno il cui motto è libertà ed uguaglianza» [nota 2]. Nessuno può asserire che questa è una descrizione og· gettiva dell'idea di democrazia o della sua effettiva realizzazione ad Atene. Si tratta di una caricatura disegnata da un acerrimo nemico. L'odio di Platone per la libertà democratica si manifesta nella seguente affermazione, ritenuta un serio argomento contro la democrazia: «La libertà popolare è interamente raggiunta quando gli schiavi d'ambo i sessi sono liberi quanto i padroni che li hanno comprati, e quasi dimenticavo di menzionare lo spirito di libertà e di uguaglianza nelle reciproche relazioni fra uomini e donne». Egli si spinge cosi lontano nella sua grottesca esagerazione da dire: «Nessuno che non l'abbia visto Página 263 crederebbe quanto maggiore sia la libertà di cui godono gli aninuli domestici in una democrazia che altrove. Perfino i cani si comportano come se il proverbio "quale la padrona, tale la serva" si applicasse a loro, e i cavalli e gli asini prendono l'abitudine di camminare per la strada con tutta la dignità di uomini liberi, investendo chiunque, incontrantloli, non si metta da parte. Lo spirito di libertà esplode ovunque» [nota 1]. La libertà non ha alcun valore politico. Ciò è manifesto nella costituzione dello Stato ideale tracciata nella Repubblica. Lo scopo principale di questo modello è di giustificare il postulato che la filosofia dominerà sia l'individuo che la società. Naturalmente non una filosofia qualsiasi, ma solo quella vera, la filosofìa di Platone, l'unica che conduce alla visione dell'idea del bene; e soltanto coloro che sono capaci di questa visione hanno il diritto di governare [nota 2]. La massa del popolo «non può mai essere filosofica», solo pochi sono capaci di «sposare la filosofia» [nota 3]. Perciò la massa è assolutamente incapace di governarsi. Solo pochi sono «capaci per natura di unire lo studio filosofico alla supremazia politica, mentre i rimanenti dovrebbero accettare la loro guida e lasciare sola la filosofia» [nota 4]. Questi sono i princìpi che determinano la costituzione dello Stato ideale di Platone, la cui popolazione si divirle in due classi: una comprendente la massa dei lavoratori, i contadini, gli artigiani ed i commercianti, la cui funzione è di soddisfare i bisogni economici della comunità; e quella dei cosiddetti guardiani o guerrieri, costituita da un gruppo di uomini e donne la cui funzione è di difendere lo Stato contro i nemici esterni e di mantenere l'ordine nello Stato: costoro formano l'esercito e la polizia dello Página 264 Stato. Dalla seconda classe, mediante uno speciale addestramento, viene scelto un piccolo numero di individui chiamati i filosofi. L'addestramento li rende capaci di avere una visione dell'idea del bene e quindi di «prenderla a modello per il giusto ordinamento dello Stato»; essi [nota l] impiegheranno la maggior parte del loro tempo nello studio e solo saltuariamente agiranno come governanti. Platone non esclude la possibilità che solo uno di essi eserciti questa funzione. Spesso egli parla del «filosofo» - al singolare - come governante. Egli dice che il controllo dello Stato sarà affidato al «filosofo» [nota 2] e che questi « in costante relazione con l'ordinamento divino del mondo riprodurrà tale ordine nella sua anima e diventerà, per quanto può un uomo, simile a Dio» [nota 3]. Egli sottolinea che uno Stato è all'apice della felicità sotto «un vero re» [nota 4] vale a dire sotto il re filosofo. Nè la massa del popolo nè i membri della classe dei guerrieri partecipano al governo, il cui potere non è limitato da alcuna legge. Si tratta di una perfetta autocrazia. Nella Metafisica di Aristotele l'assoluto appare come motore primo immobile [nota 5]. Vi deve essere «qualcosa che si muove senza essere mosso, essendo eterno, sostanza e attualità» [nota 6]. Questo motore immobile è allo stesso tempo ragione pura e assoluta. È il bene più alto, la divinità. Nell'essere assoluto, nell'essere come tale si ritrova la monarchia assòluta. Tale concezione è espressa definitivamente uelle parole «il mondo si rifiuta di essere governato malamente», cui si aggiunge la citazione da Omero «il governo di molti non è buono; che uno solo Página 265 governi» [nota 1]. Coerente alle idee espresse nella sua Metafisica, Aristotele nella sua Politica dichiara che la monarchia - cioè uno Stato dove «una persona governa per il bene comune» - è la migliore forma di governo; ma la democrazia viene stigmatizzata come una corruzione, come la degenerazione di una forma di governo che egli chiama «politìa» e che caratterizza come uno Stato in cui «i cittadini in genere governano per il bene comune», mentre in una democrazia il governo applica il suo potere nel proprio interesse [nota 2]. Si tratta di ben strana terminologia perchè, come Aristotele stesso ammette, il termine «politìa» è «denominazione comune a ogni forma di governo» e in altre occasioni egli usa proprio con questo significato il termine «democrazia», generalmente accettato come governo di molti o dei cittadini in genere. Questo allontanarsi della terminologia tradizionale può spiegarsi solo con l'intenzione di Aristotele di deprecare quella forma di governo che nell'Ellade era considerata ed apprezzata come democrazia. Anche la politìa, cioè un governo di molti esercitato per il bene comune, è soltanto al terzo posto nel suo schema di costituzioni, che comprende sei forme - tre buone: monarchia, aristocrazia e politìa; e tre cattive: tirannia, oligarchia e democrazia [nota 3]. L'interpretazione teleologica della natura propria di Aristotele conseguenza della sua metafisica - è in diPágina 266 retta opposizione alla concezione meccanicistica degli atomisti, che respingevano decisamente le cause che fossero al tempo stesso fini e diventarono, così, i fondatori della scienza moderna. Non a caso Democrito, che insieme con Leucippo sviluppò la teoria antimetafisica degli atomi, dicluarò: «La povertà nella democrazia è da preferirsi alla pretesa ricchezza in una monarchia come la libertà alla schiavitù» Nel Medio Evo la metafisica e cristianesimo va di pari passo con la convinzione che la monarchia, immagine della legge divina dell'universo, è la migliore forma di governo. La teologia di Tommaso d'Aquino costituisce il classico esempio di questa coincidenza dell'assolutismo filosofico con l'assolutismo politico. Nella sua opera De Regimine Principum Tommaso d'Aquino dice: Lo scopo di ogni governante dovrebbe essere quello di assicurare il benessere dello Stato di cui si assume il governo... Ma il benessere e la prosperità di una comunità risiede nella conservazione della sua unità... Ora è chiaro che ciò che è di per sè una unità di ciò che è una pluralità: proprio come cio che è caldo di per sè è meglio atto a riscaldare le cose. Cosi il governo di uno solo è maggiormente in grado di avere successo di un governo di molti... È migliore ciò che più si avvicina al processo naturale dato che la natura opera sempre nella maniera migliore. Ma nella natura il governo è sempre di uno solo. Tra le membra del corpo umano ve n'è uno che muove tutti gli altri: il cuore. Nell'anima vi è una facoltà preminente: la ragione. Le api hanno un re e in tutto l'universo vi è un Dio, Creatore e Signore di tutti. E ciò è del tutto conforme alla ragione, perché ogni pluralità deriva dall'unità. Così, dato che il prodotto dell'arte è solo imitazione del lavoro della natura, e dato che un lavoro dell’arte è migliore quando è fedele reproduzione del suo modello naturale, ne consegue necessariamente che la migliore forma di governo nella società umana è quella esercitata da una persona [nota 1]. Le stesse idee sono esposte nella Summa Theologica [nota 2] Página 267 Invece Nicola da Cusa, che nella sua filosofia dichiarò l'assoluto non conoscibile, nella sua teoria politica sostenne la libertà e l'uguaglianza degli uomini. Nell'epoca moderna, Spinoza al suo panteismo antimetafisico unì un'aperta preferenza per i princìpi democratici nei campi morale e politico; ma il metafisico Leibniz difese la monarchia. I fonda tori inglesi dell'empirismo antimetafisico si opposero decisamente all'assolutismo politico. Locke affermò che la monarchia assoluta era incompatibile con la società civile e non poteva essere in alcun modo una fonna di governo. Hume, che merita l'appellativo di distruttore della metafisica molto più di Kant, non andò certo così lontano come Locke, ma scrisse nel suo brillante saggio Of the Original Página 268 Contract che il consenso del popolo è il miglior fondamento di un governo e nel suo saggio Idea of a Perfect Commonwealth tracciò la costituzione di una repubblica democratica. Kant, seguendo Hume, mostrò nella sua filosofia della natura la futilità di ogni speculazione metafisica, ma nella sua etica introdusse nuovamente l'assoluto, che aveva così sistematicamente escluso dalla filosofia teoretica. Allo stesso modo il suo atteggiamento politico non fu molto coerente. Egli simpatizzava con la Rivoluzione Francese e ammirava Rousseau, ma viveva sotto la monarchia assoluta dello Stato poli. ziesco prussiano e doveva essere l'fudente nelle sue dichia:azioni politiche. Perciò non osò esprimere le proprie vere Idee nella sua teoria politica. Hegel, invece, il filosofo dello spirito assoluto e oggettivo, fu anche un protagonista della monarchia assoluta. LA DEMOCRAZIA COME RELATIVISMO POLITICO Fu un discepolo di Hegel che, nella lotta contro il movimento democratico in Germania, durante il diciannovesimo secolo, formulò la parola d'ordine: Autorità, non maggioranza! E, in effetti, se si crede all'esistenza dell'assoluto, e di conseguenza nei valori assoluti, nel bene assoluto - per usare la terminologia di Platone - non è senza senso lasciare che il voto della maggioranza decida ciò che è politicamente bene? Legiferare, e cioè determinare il contenuto dell'ordinamento sociale, non secondo ciò che obiettivamente è meglio per gli individui soggetti all'ordinamento, ma secondo ciò che questi individui, o la loro maggioranza, crede, giustamente o erroneamente, essere meglio per loro - questa conseguenza dei princìpi democratici di libertà ed uguaglianza trova una giustificazione solo se non v'è una risposta assoluta alla domanda su cosa sia il meglio, se non esiste un bene assoluto. Permettere ad una maggioPágina 269 ranza di uomini ignoranti di decidere, invece di riservare la decisione all'unico uomo che, in virtù della sua origine o ispirazione divina, ha la conoscenza esclusiva del bene assoluto non è il metodo più assurdo se si crede che questa conoscenza è impossibile e che, perciò, nessun individuo singolo ha il diritto di imporre la sua volontà agli altri. Che i giudizi di valore abbiano una validità soltanto relativa – principio basilare del relativismo filosofico - implica che opposti giudizi di valore non siano esclusi nè logicamente nè moralmente. Uno dei princìpi fondamentali della democrazia è che ognuno deve rispettare l’opnione politica degli altri giacché tutti sono uguali e liberi. Tolleranza, diritti della minoranza, libertà di parola e di pensiero così caratteristici della democrazia, non trovano posto in un sistema politico basato sulla credenza nei valori assoluti. Questa credenza porta irresistibilmente - ed ha sempre portato – ad una posizione in cui colui che presume di possedere il segreto del bene assoluto pretende di avere il diritto di imporre la sua opinione e anche la sua volontà agli altri, i quali, se non sono d'accordo sono in errore. E, secondo questa concezione, essere in errore significa aver torto e quindi essere punibili. Se si riconosce, invece, che solo i valori relativi sono accessibili alla conoscenza ed alla volontà umana allora è giustificato imporre un ordinamento sociale ad individui riluttanti solo se tale ordinamento è in armonia con il maggior numero possibile di individui uguali, cioè con la volontà della maggiora ma. Può accadere che sia giusta l'opinione della minoranza e non quella della maggioranza. Unicamente perché esiste la possibilità, che solo il relativismo politico può ammettere, che ciò che è giusto oggi sia errato domani, la minoranza deve aver modo di esprimere liberamente la propria opinione e deve avere ogni possibilità di divenire maggioranza. Soltanto se non è possibile decidere in modo assoluto ciò che è giusto e ciò che è errato è consigliabile discutere Página 270 il caso e, dopo la discussione, addivenire ad un compromesso [nota 1]. Página 271 Questo è il vero significato del sistema politico che chiamiamo democrazia e che possiamo opporre all'assolutismo Página 272 politico solo in quanto è relativismo [nota 1]. GESÙ E LA DEMOCRAZIA Nel Capitolo 18 del Vangelo di S. Giovanni è descritto il processo a Gesù. Questa semplice storia, espressa con parole ingenue, è uno dei piu sublimi brani della letteratura mondiale e, senza averne l'intenzione, diviene un tragico simbolo dell'antagonismo tra assolutismo e relativismo. Era il tempo della Pasqua degli Ebrei quando Gesu, accusato di pretendere di essere il figlio di Dio e re dei Giudei, fu condotto dinanzi al procuratore romano Pilato. Página 273 Pilato chiese ironicamente a Gesu, che agli occhi dei romani altri non era che un povero pazzo: «Dunque, tu sei il re dei Giudei?". Ma Gesu prese sui seri,o questa domanda; bruciando dell'ardore delIa sua missione divina, rispose: «Tu lo hai detto. Io sono un re. Per questo scopo sono nato, per questa ragione sono venuto al mondo, per testimoniare della verita. Chiunque e dalla parte delIa verita ascolta la mia voce». Allara Pilato chiese: «Casl: la verita?». E poiche egli, relativista scettico, non sapeva cosa fasse la verita, la verita assoluta in cui quell'uomo credeva, agi in modo democratico con assaluta coerenza - rimettendo la decisione del caso al voto del popalo. Il Vangelo riferisce che egli ando di nuava fuori dai Giudei e disse loro: «Nan trovo in lui colpa alcuna. Ma da voi vige l'usanza che io rilasci un uomo a Pasqua. Volete che liberi questo re dei Giudei?». Allara essi gridarano di nuava tutti Página 274 assieme dicendo: «Non quest'uomo, ma Barabba». Il Vangelo soggiunge: «Ma Barabba era un ladro». Per coloro che credono nel figlio di Dio e re dei Giudei come testimone della verità assoluta, questo plebiscisto è certamente un serio argomento contro la democrazia. Noi scienziati politici dobbiamo accettare questo argomento, ma solo ad una condizione: di essere tanto sicuri della nostra verità politica da imporla, se necessario, con lagrime e sangue; di essere tanto sicuri della nostra verità quanto il Figlio di Dio era sicuro della propria. Nota 1- página 192 Cfr. ITHIEL DE SOLA POOL, Symbols of Democracy (« Hoover Institute Studies », Stanford, Stanford University Press, 1952), p. 2. Nota 1- página 195 Cfr. la mia General Theory of Law and State, Cambridge. University Press, 1945, pp. 113 ss. (tr. it., Milano, 1952). Harvard Nota 1 – página 196 JOSEPH A. SCHUMPETER, Capitalism, Socialism and Democracy, New York e London, 1942, p. 242 (tr, il., Milano, 1955). Nota 1- página 197 Ibid., p. 271. Nota 2- página 197 Ibid., p. 243, nota. Nota 1- página 198 Ibid., p. 243. Nota 1- página 200 Cfr. N. S. TIMASHEFF, The Soviet Concept of Democracy, «Review of Politics», XII, 1950, pp. 506 ss. Nota 2- página 200 LENIN, State and Revolution, in «Selected Works», ed. J. Fineburg, New York, International Publishers, 1935-38, VII, 80. Il corsivo è stato aggiunto. Nota 3- página 200 LENIN, Bourgeois Democracy and Proletarian Dictatorship, ibid., p. 231. Nota 1 – página 201 LENIN, Speech to the 9th Congress of CPSU (31 marzo 1920), ibid., VIII, 222. Nota 2- Página 201 «Pravda », agosto 1945. Il corsivo è stato aggiunto. Nota 3- página 201 LENIN, State and Revolution, cit., p. 91. Nota 1 - página 202 Se si accetta la dottrina marxista che la cosiddetta dittatura del proletariato è vera democrazia, si può giungere al concetto di «democrazia totalitaria». J. L. TALMON, The Rise of Totalitarian Democracy (Boston, Beacon Press, 1952), cerca di dimostrare «che, in concorrenza con il tipo liberale di democrazia, sorse dalle stesse premesse, nel diciottesimo secolo, una inclinazione verso ciò che proponiamo di chiamare il tipo totalitario di democrazia» . « La tensione fra di loro costituì un importante capitolo della storia moderna ed è divenuta ora la questione più vitale del nostro tempo» (p. l). Secondo Talmon, la democrazia liberale è caratterizzata dall'idea di libertà definita come «spontaneità e assenza di coercizione », mentre la democrazia totalitaria si basa sulla credenza che « la libertà deve essere realizzata solo nel perseguimento e raggiungimento di uno scopo collettivo assoluto». I fini ultimi della democrazia liberale « sono concepiti in termini piuttosto negativi e l'uso della forza per realizzarli è considerato come un male ». La democrazia totalitaria « mira al massimo di giustizia sociale e sicurezza», si pensa che il suo « scopo costituisca la più piena soddisfazione del suo [dell'uomo] vero interesse e sia la garanzia della sua libertà» (p. 2) . «La democrazia totalitaria moderna è una dittatura che si basa sull'entusiasmo popolare e che è del tutto diversa dal potere assoluto esercitato da un re divino o da un tiranno usurpatore» (p. 6). Se l'«entusiasmo popolare» non può manifestarsi mediante un sistema elettorale basato sul suffragio universale, uguale, libero e segreto, la sua esistenza è più che problematica. Non è un fatto accertabile oggetivamente, ma un assunto non provato, che può essere, ed in effetti è stato, usato per la giustifìcazizone ideologica di ogni governo, anche Il più tirannico. I « re per diritto divino» hanno sempre sostenuto che il loro governo era basato sull'amore del loro popolo e non vi è una differenza essenziale tra l'«amore» e l'«entusiasmo»del popolo. Se l'entusiasmo popolare è il criterio della democrazia, allora la dillatura del partito NazionalSocialista è altrettanto una democrazia quanto lo è la dittatura del partito comunista. Se la democrazia può essere una dittatura, il concetto di democrazia ha perso il suo significato specifico e non vi è differenza tra democrazia e autocrazia. L'antagonismo che Talmon descrive come tensione tra la democrazia liberale e quella totalitaria è in realtà l'antagonismo tra liberalismo e socialismo e non fra due tipi di democrazia. Vi sono infatti due tipi di democrazia, una con potere di governo limitato e una con potere di governo illimitato. II secondo è il tipo più antico, quello originale, che tuttavia non è nato solo nel diciottesimo secolo, ma esisteva già nell'antichità. L'elemento comune ad entrambi, il criterio secondo il quale sia il governo limitato che quello illimitato sono una democrazia, è costituito dal fatto che il governo è esercitato o direttamente da un'asscmblea popolare o da rappresentanti eletti mediante suffragio universale. È per l’ignoranza di questo aspetto essenziale che Talmon - al pari della teoria sovietica- può presentare come democrazia una dittatura. Nota 1- página 203 ERIC VOEGELIN, The New Scìence of Politics, Chicago, University of Chicago Press, 1952, pp. 27 ss. Nota 1- página 204 Ibid., p. 32. Nota 2- página 204 Ibid., p. 49. Nota 3- página 204 Ibid., p. 32. Nota 4- página 204 Ibid., p. 31. Nota 5- página 204 Ibid., p. 33. Página 205 Nota 1- Ibid., p. 35. Nota 1 – página 208 lbid., p. 33. Nota 2 – página 208 Ibid., p. 35. Nota 3 – página 208 Ibid., p. 32. Nota 1 – página 209 lbid., p. 35. Nota 1 – página 210 Loc. cit. Nota 1 – página 211 Ibid., p, 36. Nota 2 – página 211 Loc. cit. Nota 1 – página 212 Ibid., pp. 36-37. Nota 1 – página 213 Ibid., p. 37. Nota 1 – página 215 Ibid., p. 38. Nota 2 – página 215 Loc. cit. Nota 1 – página 217 Ibid., p. 36. Nota 1 – página 218 Ibid., p. 49. Nota 1 – página 219 Cfr. il mio “Vom Wesen und Wert der Demokratie” (2a ed., Tübingen, 1929, ora tradotto in questo volume, pp. 41-152, e “Staatsform und Weltanschauung”, Tübingen, J. G. B. Mohr [P. Siebeck], 1933. Nota 1 – Pagina 231 Cfr. il mio “Causality and Imputation”, in “What is Justice”, Berkeley, 1960, tr. it., in “La dottrina pura del diritto”, Torino, 1952, pp. 179 ss. Nota 1 – Pagina 233 ROUSSEAU, “Du contrat social”, l. I, cap. VI. Nota 2 – Pagina 233 Ibid., l. III, cap. XV. Nota 1 – Pagina 233 Ibid., l. I, cap. VII. Nota 1 – Pagina 233 Loc. cit. Nota 1 – Pagina 233 Ibid., cap. VIII. Nota 1 – página 236 Ibid., 1. IV, cap. II. Nota 1 – página 237 Loc. cit. Nota 1 – página 238 Loc. cit. Nota 2 – página 238 lbid., 1. I, cap. VII. Nota 1- Página 239 JOHN H. HALLOWELL, The Moral Foundation of Democracy (Chicago, University of Chicago Press, 1954), p. 120, dice: «Cio che la forma democratica di governo richiede non è la sottomissione alla volontà della maggioranza perché tale volontà è numericamente superiore, ma piuttosto la sottomissione al giudizio ragionato della maggioranza». Secondo questo autore, il principio maggioritario non richiede «che noi abbandoniamo tutti i giudizi qualitativi a favore di un metodo quantitativo». Se ciò è vero, sorge la domanda su chi sia competente a decidere se il giudizio della maggioranza è o meno «ragionato». La decisione potrebbe essere presa solo dall’individuo obbligato a sottomettersi alla decisione della maggioranza. Allora la sottomissione alla decisione della maggioranza dipende in ultima analisi dal potere discrezionale dell’individuo, il che significa anarchia e non democrazia. Nota 1 – página 245 LENIN. State and Revolution, cit., pp. 81,246. Nota 1 – página 246 La filosofia relativista dei valori rende possibile il compro. messo, ma il compromesso non è l'essenza o il «principio animatore» della democrazia (Cfr. HALLOWELL, op. cit., pp. 27 s.). L'essenza o il principio animatore della democrazia è la libertà congiunta all'uguaglianza. Nota 1 – página 253 Un tipico rappresentante di questa dottrina è CARL SCHMITI che godè successo per un certo periodo come ideologo del nazional-socialismo. Nella sua Verfassungslehre (München e Leipzig, Duncker & Humblot, 1928), egli cercò di cancellare la differenza tra democrazia e dittatura. Egli ammise che il governo sovietico in Russia e quello fascista in Italia erano dittature (pp. 81 s.). E la dittatura, egli disse, e caratterizzata dal fatto « che la competenza del dittatore non è definita in modo preciso da norme generali, ma che l'estensione e il contenuto della sua autorità dipendono solo dalla sua discrezionalità.» (p. 237). Sostenne inoltre che il principio della decisione con il voto a maggioranza non era specificatamente democratico, ma liberale (p. 82). «La volontà del popolo» può esprimersi con «acclamazioni irrefrenabili e con una opinione pubblica incontestabile» che «non hanno niente a che vedere con la procedura del voto segreto e con l'accertamento statistico della maggioranza. In tal caso non è neppure sicuro che un successivo voto segreto confermerà l'emissione e l'espressione spontanee della volontà del popolo. L'opinione pubblica, di regola, è infatti prodotta solo da una attiva minoranza del popolo politicamente interessata, mentre la schiacciante maggioranza dei cittadini emancipati non è necessariamente interessata politicamente. Per cui non è affatto democratico, e sarebbe uno strano principio politico, che coloro che non hanno volontà politica debbano avere il potere di decidere contro gli altri che hanno tale volontà» (p. 279). Di conseguenza, Schmitt dichiara che «la dittatura è possibile solo su base democratica» (p. 237). Nota 1 – página 254 BENlTO MUSSOLINI, La Dottrina del Fascismo, «Enciclopedia Italiana», XIV, 1932,847-51. Nota 1 – página 261 TUCIDIDE, Storia della guerra del Peloponneso, II, 35 ss. Nota 2 – página 261 PLATONE, Repubblica, VIII, 557. Nota 1 – página 262 lbid., 557 ss. Nota 2 – página 262 lbid., 561. Nota 1 – página 263 lbid., 564. Nota 2 – página 263 Cfr. il mio The Platonic Justice, in What is Justice, cit., pp. 82 ss. Nota 3 – página 263 Repubblica, VI, 494, 495. Nota 4 – página 263 Ibid., V, 474. Nota 1 – página 264 Ibid., VII, 540. Nota 2 – página 264 Ibid., VI, 501. Nota 3 – página 264 Ibid., 500. Nota 4 – página 264 Ibid., IX, 576. Nota 5 – página 264 ARISTOTELE, Metafisica, IV, 8, 1012. Nota 6 – página 264 Ibid., XII, 6, 1072. Nota 1 – página 265 Ibid., 10, 1076. Nota 2 – página 265 ARISTOTELE, Politica, III, 8, 1279. Nota 3 – página 265 La teoria politica di ARISTOTELE non è coerente. Egli riconosce anche una democrazia moderata, in cui la classe media è più forte ùelle altre due classi, cioè i ricchi e i poveri, e in cui il diritto di proprietà è protetto dalla confisca, come la forma di governo migliore per la maggior parte degli Stati (Politica, IV, Il, 1295; V, 8, 1309; VI, 5, 1320). Cfr. il mio The Philosophy 01 Aristotele and lite Hellenic-Macedonic Policy, «Ethics., XLVIII, 1937, l ss. dove ho cercato di spiegare questa divergenza. Nota 1 – página 266 TOMMASO D'AQUINO, De Regimine Principum, I, 2. Nota 2 – página 266 TOMMASO, D AQUINO, Summa Theologica, I, 103, 3. L'opera contiene una dichiarazione molto interessante sulla tolleranza: «Il governo umano deriva dal governo divino e deve imitarlo. Ora Dio, nella sua onnipotente e sovrana bontà, permette talvolta che nel mondo sia fatto il male sebbene Egli possa impedirlo per tema che, impedendolo, si distrugga un maggior bene o possano derivarne mali maggiori. Così anche nel governo umano coloro che sono al potere giustamente permettono alcuni mali, per timore che qualche bene sia annullato o forse malianche maggiori ne prendano il posto ... Perciò, sebbene gli infedeli possano peccare con i loro riti, devono essere tollerati, sia perchè possono trame qualche bene, sia perchè in tal modo si evita qualche male. Così, dal fatto che i giudei osservino i loro riti, in cui la vera fede che noi possediamo è stata prevista fin dall'antichità, deriva il beneficio che noi otteniamo testimonianza di fede dai nostri nemici e una rappresentazione simbolica delle nostre credenze: perciò essi sono tollerati. Ma i riti di altri infedeli, che non hanno in sè alcunchè di vero o di utile, non devono essere tollerati in alcun modo; tranne forse che per evilare qualche male, come lo scandalo o la discordia che può sorgere dal sopprimerli; o l'ostacolo che in tal modo verrebbe posto sulla via della salvezza di quelli che potrebbero, per tale tolleranza, finire col convertirsi alla fede. Per tale motivo la Chiesa ha talvolta tollerato i riti anche di eretici e pagani, quando gli infedeli erano in gran numero» (ibid., Il-III, l0, II). VOEGELIN (op. cit., pp. 6 ss.) suggerisce di non basarsi sul positivismo «distruttivo» e sulla sua descrizione priva di valori della realtà sociale, ma piuttosto sui metodi della «speculazione metafisica», come sono stati applicati da Platone e Aristotele, e del «simbolismo teologico» come è stato presentato da Tommaso d'Aquino. Tale suggerimento non dovrebbe essere accettato senza considerare i risultati delle filosofie politiche dei sunnominati autori. Nota 1 – página 270 È un errore grossolano presumere - come fa JOHN H. HALLOWELL – che la teoria relativistica dei valori propria del positivismo implichi la concezione che non esistono valori, che «non vi è legge morale e ordinamento morale» (op, cit., p. 76), che la democrazia è una mera «finzione» e che di conseguenza la lotta contro l'autocrazia (o tirannia) «è senza s'ignificato e futile» e che «faremo meglio a sottometterci subito all'inevitabile» (p. 21). Il re1ativismo postivistico signifìca soltanto che i giudizi di valore in generale - senza i quali le azioni umane non sono possibili - ed in particolare il giudizio che la democrazia è una buona o la migliore forma di governo, non può essere provata come assoluta per mezzo di una conoscenza razionale e scientifica, una conoscenza che cioè escluda la possibilità di un giudizio di valore opposto. La democrazia, se realmente stabilità, è, anche dal punto di vista di una teoria del valori relativistica, la realizzazione di un valore e in tal senso, sebbene il valore sia solo relativo, una realtà e non una mera finzione. Se qualcuno preferisce la democrazia all'autocrazia perchè la libertà per 1ui è il più alto dei valori, nulla può avere per lui maggior significato della lotta in favore della democrazia e contro l'autocrazia e ciò signifìca creare per sè e per coloro che condividono questo ideale politico le condizioni sociali che si considerano migliori. Se coloro che preferiscono la democrazia sono sufficientemente numerosi, la loro lotta non è per nulla futile, può avere anzi grande successo. Essi non hanno perciò il minimo motivo di accettare come inevitabile l'autocrazia. L'unica conseguenza di una teoria relativistica dei valori è: non imporre la democrazia a coloro che prefenscono un'altra forma di governo, rimanere consci nella lotta per il proprio ideale politico che anche gli oppositori possono lottare per un ideale e che questa lotta dovrebbe essere fatta nello spirito di tolleranza. Una teoria dei valori relativistica non nega l'esistenza di un ordine morale e perciò non è - come talvolta si sostiene – incompatibi1e con la responsabilità morale o giuridica. Essa nega l'esistenza di un unico ordine che possa pretendere di essere riconosciuto valido e, quindi, universalmente applicabile. Essa asserisce che vi sono parecchi ordini morali diversi l'uno dall'altro e che, di conseguenza, devessere fatta una scelta tra loro. In tal modo il relativismo impone all'individuo il difficile compito di decidere da sè ciò che è giusto e ciò che è errato, il que implica certamente una responsabilità molto seria, la responsabilita più seria che un uomo possa assumire. Relativismo positivistico significa autonomia morale. L’assunto che esistono valori assoluti e che questi valori possono essere dedotti dalla realtà mediante la conoscenza razionale presuppone la concezione che il valore sia immanente nella realtà. Hallowell formula tale assunto come uno dei principi di ciò che egli chiama «realismo classico», «essere e bontà vanno assieme. Attraverso la conoscenza di ciò che siamo, otteniamo la conoscenza di ciò che dobbiamo fare. Conoscere cosa è l'uomo, è conoscere come deve essere e ciò che deve fare» (p. 25). Il principio è basato su di un falso ragionamento. È il falso ragionamento tipico del giusnaturalismo. Non vi è alcuna possibilità razionale di dedurre da ciò che è, ciò che deve essere o essere fatto. Poiché la bontà non è pensabile senza la cattiveria, non solo l'essere e la bontà ma anche l'essere e la cattiveria vanno assieme. Poichè l'essere in sè non contiene un criterio per distinguere il bene dal male - il bene non è meno «essere» o più «essere» del male - non è possibile ottenere una conoscenza di ciò che dobbiamo fare attraverso la conoscenza di ciò che siamo; noi «siamo» tanto buoni quanto cattivi. Il fatto che gli uomini muovono ed hanno sempre mosso guerra, dimostrando così che la guerra non può essere incompatibile con la natura umana, non significa nè che la guerra deve essere fatta nè che non deve essere fatta. Non è quindi possibile dedurre dalla nostra conoscenza di ciò che è in generale e di ciò che siamo noi in particolare c principi universalmente applicabili, mediante i qnali guidare la nostra vita individuale e sociale verso la perfezione di ciò che è caratteristico dell'uomo. (pp. 25-26), e cioè principi morali che costituiscono valori sociali assoluti. Il fatto è che i princìpi piit contraddittori sono stati presentati come derivanti dalla conoscenza di c ciò che siamo. o, ed è lo stesso, come dedotti dalla natura umana. Il principio «che l'essere e la bontà vanno assieme» e che attraverso la conoscenza di ciò che è noi ricaviamo la conoscenza di ciò che deve essere fatto, può sostenersi solo su di una base religiosa, e cioè sulla base della credenza che il mondo attuale è creato da Dio e quindi è la realizzazione della Sua buona volontà assoluta; e che l'uomo è formato a immagine di Dio e che quindi la ragione umana è in qualche modo collegata alla ragione divina. È proprio a questa credenza che Hallowell, con molta coerenza, si appellai «Noi dobbiamo riacquistare», egli sottolinea, «la credenza nell'uomo come unico essere la cui ragione è un riflesso deU'immagine di Dio» e dobbiamo riacquistare «le basi teologiche sulle quali poggia la credenza nel diritto naturale» (p. 83). Se, abbandùnando il regno della scienza, riacquistiamo questa credenza e le basi teologiche del diritto naturale, una base morale - che in queste condizioni significa religiosa - delia democrazia diventa più che problematica. E appunto partendo da una dottrina teologica del diritto naturale che Robert Filmer respinse la democrazia come contraria alla volonta di Dio. Per il rapporto tra democrazia e religione, rimando alia seconda parte di questo studio. Nota 1 – página 272 J. L. STOCKS, Reason and Intuition, London e New York, Oxford University Press, 1939, p. 143, dice «vi è uno stretto rapporto naturale tra il prevalere degli ideali democratici in politica e la pratica dell'empirismo metodico nella scienza e negli altri campi del pensiero... è sorprendente osservare che i paesi in cui la tendenza empirica del pensiero e stata pill persistente, sono anche quelIi in cui la democrazia ha messo radici più profonde. Non e certo per caso che tra le Grandi Potenze europee, la Francia e l'Inghilterra siano le più democratiche e al tempo stesso le più empiriche nel loro modo di vedere il mondo, mentre la Germania, che e la meno democratica, e la più propensa ad ambiziosi sistemi metafisici». SIDNEY HOOK in un articolo (The Philosophical Presuppositions Of Democracy, «Ethics», LII, 1942, 275-96), sostiene «che non vi e necessariamente un nesso logico tra una teoria dell'essere o del divenire ed una particolare teoria etica o politica. Detto con maggiore precisione, mi pare dimostrabile che nessun sistema metafisico determini inequivocabilmente un sistema di etica o di politica» (p. 284). Egli ammette tuttavia: «Mi pare sia evidente in modo assoluto che esiste un determinato rapporto storico tra il movimento sociale di un periodo ed i suoi insegnamenti metafisici; inoltre sono pronto a sostenere come dichiarazione storicamente esatta che i sistemi di metafisica idealistica, a causa delia parte semiufficiale avuta nelle loro rispettive culture, sono stati generalmente impiegati a sostenere movimenti sociali antidemocratici più dei sistemi di metafisica empirica o materialistica» (pp. 283-84). Egli dichiara anche: «Se l'empirismo è un termine generico per indicare I'atteggiamento filosofico che sottopone tutte le pretese di fatto e di valore alia prova mediante l'esperienza, allora l'empirismo come filosofia è pill congeniale ad una comunitil democratica che a una comunitil antidemocratica, poichè pone all'aperta luce della critica gli interessi in cui so no radicati i valori morali e le istituzioni sociali» (p. 280). Hook distingue due specie di metafisica come teoria dell'essere e del divenire, una metafisica «idealistica» e una «empirica o materialistica» e ritiene, pare, che quella idealistica vada d'accordo con la credenza nelle veritil religiose sovrannaturali (efr. p. 280). Uso il termine metafisica solo nel secondo significato. Anch'io non sostengo che esista un nesso «necessariamente logico» tra democrazia e relativismo empirico, da una parte, e autocrazia e assolutismo metafisico, dall'altra. La relatione che io sostengo esistere tra i due sistemi politici e i due sistemi filosofici corrispondenti, puo ben essere definita come di «congenialità». Ma Hook non considera la relazione tra assolutismo fiilosofico, essenzialmente connesso alia metafisica «idealistica», e assolutismo politico, e cioe autocrazia, da una parte, e relativismo filoso fico, essenzialmente connesso all'ernpirismo, e democrazia dall'altra. Appunto questa relazione pare a me essere delia piu grande importanza.