Mimmo Ciavarelli
GESTALT
L’ovvio per i giorni alterni
ARMANDO
EDITORE
SOMMARIO
Introduzione: Parlare il silenzio della Gestalt
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La Gestalt Therapy. Breve storia della Gestalt. La difficile
eredità di Perls. L’ovvio per i giorni alterni
Dal 1° al 181° giorno. La visione gestaltica
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Dal 183° al 363° giorno. La posizione gestaltica
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Il 365° giorno. Un dialogo dimezzato
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Indice analitico
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Ai miei maestri
e alla loro magica arte del sedurre e tradire
che mi ha insegnato a comprendere ciò che non va solo capito.
AL LETTORE
Son testardi i peccati, fiacchi i pentimenti;
vendiamo a caro prezzo le confessioni,
e torniamo allegramente a pestar fango,
illudendoci che un vile pianto abbia lavato ogni macchia.
Lo conosci, lettore, quel mostro delicato,
ipocrita lettore, mio simile, fratello!
(CHARLES BAUDELAIRE)
INTRODUZIONE
PARLARE IL SILENZIO DELLA GESTALT
Tutto ciò che è profondo ama la maschera…
istintivamente si serve delle parole per tacere e per celare ed è
inesauribile nello sfuggire alla comunicazione.
(FRIEDRICH NIETZSCHE)
La Gestalt Therapy
Sviluppata da Fritz Perls intorno agli anni Cinquanta e Sessanta
del secolo scorso negli Stati Uniti, la Gestalt Therapy è, nel campo
delle psicoterapie umanistiche, la sintesi più feconda dei suoi vari
indirizzi e delle più importanti suggestioni culturali di quegli anni,
ma anche molto di più.
Nel suo impianto sono presenti gli echi della fenomenologia e
dell’esistenzialismo, soprattutto quello di Martin Buber. È viva la
lezione di Friedländer sul pensiero differenziale e sull’indifferenza
creativa, come l’insegnamento della psicologia della forma. È riconoscibile l’impronta di Nietzsche, così come quella della semantica generale di Korzybski e del buddhismo zen, che in quegli anni
cominciava a essere conosciuto. È affermato il pensiero olistico,
con la sua critica epistemologica del riduzionismo sino ad allora imperante nelle scienze. Come sono presenti le contemporanee
linee evolutive della psicoanalisi, che andavano costruendo quel
terzo polo umanistico della psicologia. Dalle prime suggestioni di
Adler, Ferenczi, Rank, agli sviluppi di pensiero di Jung, alle intuizioni di Horney, di Fromm, alle scoperte di Reich, alle idee di Maslow, Rogers, May, alla teoria del campo di Lewin, per non citare
il fecondo ramo dello psicodramma moreniano.
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L’originale integrazione di questo variegato clima culturale in
una pratica come quella gestaltica muove dalla consapevolezza
dei modelli percettivi, del comportamento e degli scopi esistenziali dell’uomo, esplorando il come, più che il perché dei fenomeni.
Grande attenzione è rivolta così al linguaggio del corpo, minore
a quello verbale; maggiore alla forma che non al contenuto delle
comunicazioni. Ogni riflessione è riportata al presente (qui e ora)
dell’esperienza reale, piuttosto che rivolgersi a quella fantastica
dei ricordi o delle anticipazioni, stabilendo una comunicazione in
cui la presa d’atto della realtà diviene inevitabile. Si favorisce così
un atteggiamento responsabile, radicato nella verità di se stessi e
nell’accettazione del proprio vissuto e del proprio modo di essere
al mondo, fuori dagli inganni e dalle alienazioni del falso sé sociale o psicologico. L’esortazione delfica del conosci te stesso si completa, nella pratica gestaltica, nel divieni te stesso. Il cambiamento
non ha più così la direzione del desiderio o del dovere, ma quella
concreta della verità del momento. Solo questa posizione, libera
da fantasie e da programmi, rende possibile la naturale dinamica di
proporre e produrre, istante per istante, il mutamento necessario, al
posto di quello voluto.
Questa visione paradossale del cambiamento, secondo cui per
cambiare bisogna divenire se stessi, ha come base la piena fiducia
nell’uomo e nella natura evolutiva del suo potenziale, una volta
liberato dalla schiavitù dei modelli astratti.
La Gestalt non ha dunque altri modelli di uomo o di vita da
proporre o promuovere, se non quelli personalissimi e unici che le
nostre individualità autonomamente sviluppano.
Da tali premesse appare ovvio che ogni coerente applicazione
tecnica di questa precisa filosofia dell’essere non può muovere che
dalla proposta di un incontro reale e responsabile nel qui e ora
dell’esperienza. Perls definisce questa posizione esistenziale come
un “vuoto fertile”. Vuoto di aspettative e di progetti, di ricordi e
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pregiudizi. Fertile di intuizioni e di atti creativi, in cui l’intellettualizzazione segua l’esperienza e non la preceda. Concetti molto
simili a quelli descritti nella tradizione zen, di presenza piena nel
qui e ora, di contatto assoluto con la realtà dell’esistente, di vuoto
senza carattere e senza io. La posizione umana del terapeuta gestaltico in azione è dunque il riferimento, la bussola, da cui scaturiscono le intuizioni operative necessarie e contingenti, che non sono
tecniche, benché ne abbiano l’apparenza, perché non scaturiscono
da idee o da valutazioni. L’unica vera tecnica risiede infatti nella
capacità di permanenza nella posizione creativa, la stessa in cui
ogni musicista che compone si sente suonato dalla musica e non
la suona, è tecnico senza seguire una tecnica, ha mani pensanti, ma
mente vuota: è creativo.
Così, in un lavoro gestaltico ben condotto, come in una danza
che si ripete ogni volta, alla posizione esistenziale del terapeuta
corrisponderà un’analoga esperienza nel soggetto che con lui interagisce. Entrambi sperimentano, alla fine, le proprie inevitabili
esistenze, ma anche il recupero delle potenzialità alienate nelle
fantasie. Una onesta, responsabile accettazione di sé e degli altri,
in un mondo tornato, nel momento dell’incontro, libero e fecondo
di possibilità reali.
La Gestalt non è dunque una delle tante teorie psicologiche da
cui derivare una cura per pretese disfunzioni. Essa, nel suo profondo e per vocazione, non sostiene alcun modello di sanità a cui contrapporre delle patologie. La sua è un’attitudine pratica, un modo
di essere e di vivere nel pieno contatto con la realtà, nella presenza
responsabile di sé, nell’ora dell’azione. L’unica cura che la Gestalt
offre è quella di una relazione istantanea vera da proporre e imporre
all’altro, per il tempo che essa dura. Niente altro, ma niente di meno.
Al contrario di discipline che nascono per essere concettualizzate e
la cui prassi parla a e vuole risposte dall’intelletto, la Gestalt, trasferita in concetti, perde la sua “differenza” e la sua “vocazione”.
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La Gestalt è dunque un fiore delicato: psicoterapia, ma anche
pratica di vita, esperienza della coscienza, training alla creatività,
via di evoluzione del potenziale umano.
La sua trasmissione richiede attenzione, cura, disciplina, oltre
che strumenti e metodiche non usuali. Non si tratta di trasferire
tecniche o di apprendere teorie, ma di eliminare gli impedimenti
che ostacolano la creatività. Non aggiunge nozioni, dettami, regole, schemi, ma li sottrae alla mente, per lasciarla sgombra e aperta
al contatto presente con quel che c’è.
In questo processo, dunque, qualsiasi teorizzazione sistematica
che tenti di spiegare ciò che andrebbe prima vissuto, può essere
addirittura di ostacolo per l’evoluzione di una mente che voglia
comprendere e che rischierebbe, invece, solo di capire. Cioè, di
accontentarsi del gioco dei concetti e dei paragoni tra idee, senza
cogliere le differenze che qualificano invece l’esperienza reale.
Breve storia della Gestalt
La gestazione della Gestalt Therapy fu lunga e tormentata. Le
prime formulazioni teoriche furono messe a punto da un Perls quasi sessantenne, nei primi anni Cinquanta del secolo scorso. Era
giunto negli Stati Uniti dopo aver vissuto ed esercitato come psicoanalista in Sud Africa, provenendo dalla Germania, dove era nato.
A quel tempo, aveva già preso le distanze dalla psicoanalisi, soprattutto dopo la pubblicazione del suo libro Ego, fame e aggressività, e stava immaginando nuove strade per la psicoterapia. Le sue
nuove idee risentivano del clima culturale dell’epoca e i suoi sforzi
di sistematizzazione furono, in quel tempo, delle prove per mettere a punto una sintesi coerente di queste suggestioni che stavano
spingendo l’approccio scientifico verso un radicale cambiamento
di paradigma. Un suo primo tentativo di trovare per la psicologia
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forme e prassi più aderenti a questi nuovi fermenti, si tradusse nel
saggio Teoria e pratica della terapia della Gestalt (commissionato, sulla base di suoi appunti, a Paul Goodman, che materialmente
lo scrisse e ne condivise la paternità con Perls e Hefferline) e nella
creazione dei primi Istituti di Gestalt a New York e Cleveland.
Tuttavia questo fu solo l’esordio di un percorso che doveva riservare più di una sorpresa.
Anziché seguire la strada, appena tracciata, di uno sviluppo di
ricerca teorica e di uno sforzo di affermazione e accreditamento nel
mondo scientifico e culturale dell’epoca, Perls lascia i suoi istituti
nelle mani della moglie e dei suoi primi allievi. Abbandona anche
la pratica professionale sistematica e inizia una sua peregrinazione
umana ed esistenziale. Cambia più volte residenza, viaggia, gira il
mondo, lavora e vive con curiosità, pienezza e coraggio. Un vissuto tormentato, costellato di entusiasmi e di chiusure, di amori,
tormenti, droghe psichedeliche, depressioni, malattie e rinascite.
Esperienze profonde e radicali che, nel 1964, lo portano a Big Sur,
sulla costa californiana, nella magnifica proprietà che Michael
Murphy aveva voluto destinare a centro per lo sviluppo del potenziale umano, cui aveva dato il nome di Esalen, frequentata dalla
cultura alternativa di quegli anni. Alan Watts, Abraham Maslow,
Virginia Satir, Bill Schultz, Ida Rolf, Gregory Bateson, sono alcuni dei nomi che animarono quella feconda stagione. Perls ha settantadue anni, è un uomo vecchio, ma ricco di esperienza, che ha
maturato la sua Gestalt, portandola a una efficacia straordinaria e a
un virtuosismo interpretativo elevatissimo e originale. Accetta un
invito per alcune dimostrazioni e in seguito si propone come “residente”. Organizza laboratori e poi un programma di formazione in
Gestalt Therapy: è il successo. Fritz in breve diventa celebre per la
sua straordinaria abilità di terapeuta e per il suo modo di intendere
la terapia. Ormai lontana da una tecnica connessa a una teoria,
nelle sue formulazioni finali, la Gestalt è sempre più indissolubil17
mente legata alla presenza e alla posizione esistenziale di colui che
la interpreta. I lavori di Perls vengono filmati e in parte raccolti
in una pubblicazione: La terapia gestaltica parola per parola. La
Gestalt matura di Perls fu un profondo e densissimo agglomerato
di filosofia e di prassi dell’essere. Non poteva più essere trasmessa
con i canoni di teorie e tecniche da apprendere, né attraverso le
modalità istituzionali. Questo spiega molte delle sue pretese bizzarre e delle leggende fiorite su di lui in quel periodo. Spesso, esse
non furono altro che il tentativo di un uomo maturo e di un frutto
maturo di trovare modi e prassi di trasmissione appropriati. Basti
pensare all’accusa di rozzezza intellettuale che gli fu mossa da più
parti. Interpretata come anti-intellettualismo snob o come istrionismo senile, la sua presunta “rozzezza intellettuale” aveva ben
altre motivazioni. Raffinato intellettuale quale egli era, conosceva
bene le difficoltà che il pensiero mal direzionato può imporre. Così
diffidava dell’uso improprio o sostitutivo dell’intelletto nel contatto con la realtà di un incontro vero. Soprattutto aveva interesse
a evitare che le razionalizzazioni bloccassero l’evoluzione umana
di un allievo verso quella specialissima posizione esistenziale di
vuoto fertile che caratterizza il terapeuta gestaltico. Nell’ultimo
periodo della sua vita, Perls fu maestro fecondo e non smise mai
di perseguire la sua ricerca umana ed esistenziale, né di porsi il
problema della trasmissione corretta. Significativa, a tal proposito,
è la sua replica a chi lo definiva il creatore della Gestalt: diceva di
averla semplicemente riscoperta. Sottintendendo il senso profondo della collocazione filosofica della Gestalt e delle difficoltà che
la sua trasmissione comporta. Era sempre più preoccupato perché
molti terapeuti imitavano la sua modalità di lavoro, interpretandola
come tecnica, senza comprendere cosa realmente fosse e la filosofia di cui era l’applicazione. Cominciò così a sviluppare materiali
didattici diversi, a pensare a modi e strumenti nuovi per integrare
la filosofia e la pratica terapeutica nella sua didattica, senza cadere
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nell’intellettualismo o nello spontaneismo. Una ricerca che soltanto la morte interruppe nel 1970, quando, a 77 anni, aveva iniziato
una nuova avventura umana, didattica ed esistenziale in Canada,
sulle sponde del lago Cowichan, nell’isola di Vancouver, dove aveva fondato il primo kibbutz gestaltico con un gruppo di allievi californiani. Postume furono pubblicate altre testimonianze di questo
ultimo periodo, raccolte in due volumi, entrambi curati da Robert
Spitzer, amico di Perls e redattore capo di «Science and Behavior
Books», insieme a Richard Bandler, che si occupò della scelta dei
filmati e delle loro trascrizioni: L’approccio della Gestalt. Testimone oculare della terapia e Doni dal lago Cowichan. Quest’ultimo
contiene anche la testimonianza di Patricia Baumgardner, allieva
di Perls nel suo breve periodo canadese. Altro materiale filmato
venne utilizzato da Richard Bandler e da John Grinder in La struttura della magia, la loro prima pubblicazione, da cui sarebbe poi
nata la PNL.
L’ultimo libro sulla Gestalt che Fritz scrisse prima della sua
scomparsa fu tuttavia di tenore molto diverso dai precedenti o da
quelli pubblicati postumi sulla base di materiale conservato. In and
out the garbage pail (Dentro e fuori dal secchio dell’immondizia)
si propone come una forma di autobiografia sui generis, spontanea
e irriverente, in cui si alternano confessioni coraggiose, pensieri
in libertà, poesia, lampi di approfondimenti filosofici, motti, commenti, ricordi, brani di auto-terapia. Lo stile, ironico e istrionico,
passa con disinvoltura dalla serietà del saggio alla dolcezza della
poesia, dalla ruvidezza della realtà raccontata senza veli al sarcasmo e all’umorismo dell’intelligenza di chi sa che nulla è veramente ciò che sembra. Umile e sfrontato, si mostra nelle sue altezze di
pensiero e nella umana miseria, con uguale presenza e onestà. Il
testo appare inoltre scritto di getto e conservato secondo lo schema
che il processo creativo aveva suggerito. Fu un libro imbarazzante per molti gestaltisti di seconda o terza generazione i quali, non
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sapendo come giustificarlo in sede scientifica, lo ridussero a curiosa testimonianza dell’uomo Perls, accostandolo agli innumerevoli aneddoti scandalosi, che già circolavano, tipici del personaggio
tutto genio e sregolatezza. Trascorsero oltre venti anni prima che
fosse tradotto e pubblicato in Italia, ma col titolo edulcorato nel più
educato Qui e ora. Psicoterapia autobiografica. Eppure, come le
sue pretese intemperanze erano in realtà gli estemporanei insegnamenti di un maestro che non operava più distinzione tra il setting
e la vita, tra l’uomo e il terapeuta, questo suo ultimo testo è molto
di più di quello che appare in superficie. È un classico esempio di
maschera con cui Perls esprime ciò che per sua natura non può che
essere frainteso. La ricerca formale, in questo caso, diventa sostanza di un’esperienza che il lettore può vivere senza concettualizzare.
È l’esperienza della Gestalt vissuta e in azione nel processo stesso
della scrittura.
Perls raggiunse dunque efficacia e fama solo negli ultimi sette
anni della sua vita, dopo quasi dieci anni di inattività professionale
e dopo aver molto viaggiato e vissuto. Il Fritz settantenne che ricompare come terapeuta in California, a Esalen, è un uomo molto
cambiato. Un uomo capace ormai di incarnare la sua filosofia e
che ha ben compreso la differenza tra un’idea e la realtà che essa
rappresenta. È diventato diffidente verso le teorie perché ritiene
che giochino con i concetti anziché viverli, che ne parlino anziché
esperirli. Conosce la differenza tra il facile discutere in sede filosofica del qui e ora e la difficile disciplina che occorre per incarnare
la posizione fenomenologica insita nella presenza. È lui stesso la
sua Gestalt. Ha trovato la sua sintesi, la sua posizione, il vuoto
fertile, l’indifferenza creativa di un guru. La sua Gestalt non è più
una teoria né una tecnica, ma un modo di essere. Sa che la strada è difficile, personale, coraggiosa e non offre scorciatoie. Ormai
è un maestro che mostra la sua arte e la trasmette rigorosamente
con l’essere. Senza scuole né teorie, perché nel suo essere ci sono
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scuola e teoria incarnate. E non vi è scuola che possa contenere
quell’essere che è l’essenza del suo insegnamento: «Quando Clara
Thompson mi propose di diventare analista formatore della scuola di Washington, declinai l’offerta. Rifiutavo l’idea di adattare le
persone a una società alla quale non valeva la pena di adattarsi.
Siccome tutte le scuole predicano l’adattamento, esse non fanno
altro che creare delle anime in pena».
La difficile eredità di Perls
La Gestalt che Perls esprimeva nei suoi ultimi anni era dunque
un frutto maturo la cui polpa andava mostrata, assaggiata, sperimentata.
Nel suo ultimo libro questo frutto fu infatti evocato più che descritto: l’esplicito coprì e il sottinteso svelò.
La direzione che Perls aveva tracciato per preservare il tesoro
dell’esperienza dallo svilimento dei concetti non fu però seguita
dai suoi successori, che spesso irrigidirono la sua ispirazione filosofica in teorie e la sua prassi in tecniche.
Il profondo abuso di concettualizzazione che la Gestalt ha così
vissuto, dopo la morte del maestro, ha prodotto revisionismi, distorsioni, tanto di quel capire che blocca il comprendere, tanta di
quella Gestalt che non è Gestalt.
Pensiamo alla Gestalt teoretica legata alle formulazioni intellettuali del primo Perls, molto vicina al tentativo di sistematizzare
una teoria psicologica, e molto lontana dal vitalismo filosofico e
sciamanico insito nella prassi lavorativa dell’ultimo Perls. Oppure
alle Gestalt revisioniste degli allievi del Perls californiano che rivisitarono la Gestalt originaria alla luce di eclettici accostamenti con
le discipline più disparate, accentuandone gli aspetti esperienziali
e tecnici.
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Nessuna delle due versioni, talvolta persino inopinatamente accostate in improbabili sincretismi, poteva rispecchiare ciò che la
maturità artistica di Perls aveva testimoniato nella sua pienezza. Si
limitarono infatti a sfruttarne l’eredità, rappresentandone sviluppi
da lui abbandonati o mai intrapresi.
Altri tentarono invece di seguire la ricerca esistenziale e professionale di Perls con gli esiti più vari. Semplici imitazioni o sinceri
percorsi umani, talvolta apprezzabili, talvolta meno, ma tutti legati
allo sviluppo personale più che a quello intellettuale o teorico. Allievi della prima ora come Bob Hall, John Stevens, James Simkin,
Jack Dawning, Claudio Naranjo, Natasha Mann, Isha Bloomberg,
noti anche a livello internazionale, e tanti altri di seconda e terza generazione che, seppure meno noti, non furono meno valorosi. Sono
tentativi importanti, che, al di là della riuscita, hanno tenuto viva
l’idea di una possibilità rigorosa per una disciplina dell’essere.
Ai nomi citati, mi sia consentito tuttavia di aggiungerne uno
a me particolarmente caro e a cui desidero riservare una speciale
menzione perché è stato il mio maestro. Parlo di Barrie Simmons,
americano trapiantato in Italia negli anni Settanta e scomparso nel
2006, universalmente ricordato per aver introdotto nel nostro paese la Gestalt e soprattutto per averne incarnato magnificamente
lo spirito. Personalità straordinaria, anche Simmons ha lasciato
una difficile eredità, per certi versi ancora più radicale di quella
di Perls. Penso al rifiuto della deriva istituzionale e retorica e alla
scelta della trasmissione rigorosamente diretta, assolutamente libera dalle necessità che ogni scuola richiederebbe. Per non parlare
dell’enfasi sulla pratica della posizione esistenziale del terapeuta
e della concezione della professione di psicoterapeuta come via di
evoluzione personale.
Non è possibile, infatti, equiparare la Gestalt alle tante discipline che vengono tradizionalmente insegnate senza sottrarle la vocazione di originale posizione da trasmettere.
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Nel passaggio all’istituzionalizzazione, la natura stessa della
Gestalt si dissolve. È un processo che sostituisce la pratica della
trasmissione con quella della didattica e scambia la faticosa ricerca
personale della posizione terapeutica con quella più accessibile,
ma fuorviante, di prassi standardizzate. E ancora, confonde l’azione creativa della posizione vuota con un metodo da apprendere, e
confonde discorsi di stile gestaltico con la Gestalt stessa.
Un lascito così preciso nei contorni e nella definizione non può
essere né ignorato né seguito facilmente.
Tuttavia sarebbe un errore gravissimo se le mie parole contribuissero alla iconizzazione dei maestri. Essi rischiano infatti di
diventare, nell’immaginario di molti, modelli inimitabili secondo
l’inveterata consuetudine di mettere in risalto l’unicità della persona, per poi disattenderne la difficile eredità e imboccare scorciatoie, deviazioni, anziché riprendere un cammino solitario, forse
frustrante, ma che divenga per ciascuno, di generazione in generazione, un lungo, faticoso percorso personale verso la conclusione
della propria Gestalt.
L’ovvio per i giorni alterni
E dunque mi si domanderà: era necessario scrivere ancora di
Gestalt? No, non era necessario: il silenzio è più eloquente. In
tanto confuso frastuono di parole, il silenzio preserva dal confondere, dal fornire materia per trastulli intellettuali che allontanino
dall’esperienza. La Gestalt parlata deve essere lasciata a chi la parla; meglio occuparsi del fare e dell’essere, mostrare mostrandosi,
giacché tutto è nell’azione per chi ha occhi per vedere, orecchie per
udire ed è in contatto. Ma anche il silenzio è un’arte, ha un’estetica
e uno scopo. Nella sua declinazione è più importante il come che
il cosa.
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E allora, come fare silenzio senza apparire condiscendenti?
Come tacere senza essere consenzienti?
Qui si apre il guscio di un koan.
Nietzsche, che è maestro di questo tacere, mette la maschera
della parola a quello che vuole celare. Si mostra per sottrarsi, si
sottrae per rivelarsi. Come il Perls dell’ultimo suo scritto, seduce,
cattura, confonde. Non si presta a essere ridotto né confrontato.
Non può essere né assimilato né rifiutato. In un silenzio assordante, il suo parlare è vuoto, ma fertile. “Tutto ciò che è profondo ama
la maschera”, ci dice Nietzsche, mostrando una via estetica per
rappresentarne l’essenza, senza farne religioni, leggende o peggio,
scienza che non sia gaia.
Questo mio libro nasce così, nel solco di questa tradizione, come
un tentativo di parlare il silenzio della Gestalt, senza tradirlo. Lo
faccio per aforismi, una forma di maschera che mostra celando,
dall’estetica pudica e dalla perenne, allusiva incompletezza che seduce il desiderio e gli mostra l’invisibile.
E se la vera ricchezza di un aforisma è sempre nello spazio
vuoto, nella mancanza, è legittima la richiesta di un tempo sospeso. Idealmente, una lettura a giorni alterni, per un anno. Così che
l’ascolto delle parole ceda ogni volta il passo al riverbero silenzioso del loro significato, suggerendo all’intuito quella comprensione
che va oltre il capire: l’ovvio.
Napoli, novembre 2011
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