Il comunismo in Russia

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unità
IV
Il comunismo
in Russia
Riferimenti storiografici
1
Nel riquadro un dipinto del pittore Nikolay Kasatkin, conservato al
Museo di San Pietroburgo, dove sono ben rappresentate le misere condizioni di vita dei contadini russi all’inizio del Novecento.
Sommario
1
2
3
Lenin, la CEKA e il Terrore rivoluzionario
L’atteggiamento di Rosa Luxemburg
Le donne russe di fronte al nuovo diritto di famiglia
F.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012
1
Lenin, la CEKA e il Terrore rivoluzionario
UNITÀ IV
Lenin era disposto a tutto, pur di difendere la rivoluzione d’ottobre. Le sue dichiarazioni sono di una durezza eccezionale, giustificata con il pericolo della controrivoluzione. Il principale strumento di cui il nuovo governo bolscevico si dotò fu la ceka, una
struttura finalizzata a combattere tutti gli avversari e a spezzare
con la forza qualsiasi opposizione.
IL COMUNISMO IN RUSSIA
2
«La borghesia, i proprietari terrieri e tutte le classi ricche
stanno compiendo sforzi disperati per minare la rivoluzione»; così Lenin ammonì i suoi colleghi del Sovnarkom [=
Consiglio dei commissari del popolo, n.d.r.]. «Costoro sono
pronti a commettere i delitti più odiosi e… si sono spinti al
punto di sabotare la distribuzione dei generi alimentari, minacciando in tal modo la morte per fame di milioni di individui». Convinto, come aveva detto il giorno successivo alla
presa di potere bolscevico, che fosse «un’inammissibile
debolezza» anche solo pensare di compiere una rivoluzione «senza sparatorie», Lenin era disposto a fare di tutto
per difendere il nuovo ordine che egli e i bolscevichi avevano
creato. «La borghesia imperialista internazionale ha massacrato dieci milioni di uomini e ne ha mutilati venti altri nella
sua guerra, destinata a decidere se a governare il mondo
dovessero essere gli avvoltoi inglesi o tedeschi», aveva
spiegato in una lettera aperta ai lavoratori d’America qualche mese dopo. Se la nostra guerra, la guerra degli oppressi
e degli sfruttati contro gli oppressori e gli sfruttatori dovesse
causare mezzo milione o un milione di morti in tutti i paesi,
la borghesia sosterrà che, mentre le prime morti erano giustificate, le seconde sono dei crimini». Il terrore, concludeva
Lenin, «era stato ritenuto giusto e legittimo quando la borghesia in Francia e in Inghilterra aveva fatto ricorso a esso
a proprio beneficio contro il feudalesimo ma… è divenuto
mostruoso e criminale quando gli operai e i contadini poveri
hanno osato servirsene contro la borghesia!».
In quel periodo, ricordava Trockij, Lenin sottolineava
l’assoluta necessità del terrore e ammoniva che «solo misure eccezionalmente severe potevano salvare la rivoluzione». «Credete forse che possiamo riportare la vittoria
senza il più implacabile terrore rivoluzionario?» esclamò
Lenin quando il commissario alla Giustizia Steinberg sollevò obiezioni riguardanti l’inserimento, in un proclama
approvato dal Sovnarkom all’inizio del 1917, della frase
«agenti nemici, profittatori, saccheggiatori, teppisti, agitatori controrivoluzionari e spie tedesche devono essere
fucilati sul posto». E a un certo punto, ai suoi colleghi del
Sovnarkom Lenin aveva chiesto: «Se non siamo pronti a
fucilare un sabotatore e una Guardia Bianca, che razza
di rivoluzione è mai questa?». Ai delegati del Presidium
del Soviet di Pietrogrado raccolti in assemblea disse
che «non possiamo aspettarci di arrivare da nessuna
parte se non facciamo ricorso al terrorismo».
Nessuno fu d’accordo con entusiasmo maggiore di
quello mostrato da Feliks Edmundovi Dzerzinskij, il quale
affermò che la Rivoluzione d’ottobre era «chiaramente e
attualmente in pericolo», anche se poteva vantare i suoi
primi trionfi. Dzerzinskij che, stando a un resoconto,
aveva l’aria di un monaco vestito da soldato, all’inizio di
dicembre disse ai suoi compagni del Sovnarkom che dovevano creare «un’organizzazione per vendicarsi in nome
della rivoluzione» di tutti coloro che volevano strapparla
loro di mano. E il Sovnarkom approvò senza esitazione:
quello stesso giorno, il 7 dicembre 1917, istituì la Commissione Straordinaria Panrussa contro la Controrivoluzione e il Sabotaggio – la VCHK ovvero Ceka –, e ne affidò la guida a Dzerzinskij, il quale ben presto dimostrò
di essere quel «leale giacobino» che Lenin aveva esortato
i suoi compagni del Sovnarkom a cercare. «Il terrore è
una necessità assoluta in tempi di rivoluzione», spiegò
qualche mese dopo. «Noi terrorizziamo i nemici del governo sovietico per stroncare il crimine alla radice». […]
Il giorno di capodanno del 1918 ebbe luogo il primo attentato a Lenin: un potenziale killer sparò quattro colpi di
pistola contro la sua automobile che passava tra la folla. Da
quel momento, Dzerzinskij intraprese la trasformazione
della Ceka in quello strumento di rapida punizione e morte
certa che le guadagnò il soprannome di spada della vendetta della rivoluzione. Esattamente tre mesi dopo essersi
trasferita in quella che era stata la sede della compagnia
d’assicurazione Anchor & Lloyd, in piazza Lubjanka a Mosca, la Ceka disponeva di 43 succursali distrettuali e provinciali; nella sola sede della Lubjanka erano al lavoro oltre
mille uomini e donne, e altri mille erano stati reclutati nel Distaccamento di Combattimento, la formazione di élite che
ne era il braccio militare. Alla metà del 1918, la Ceka esercitava anche il controllo delle zone di frontiera ed era sul
punto di creare speciali unità di vigilanza in alcuni importanti
centri ferroviari e di traffico fluviale. «Non c’è sfera della nostra esistenza», scrisse un ufficiale addetto all’addestramento degli agenti dell’organizzazione, «che la Ceka non
scruti con il suo occhio d’aquila».
Lenin aveva trovato in Dzerzinskij un uomo che ne
condivideva la volontà di difendere la rivoluzione con ogni
mezzo e a ogni costo, e la Ceka acquisì diritto di vita e di
morte sui russi. Nel timore che i russi fossero «troppo
morbidi» e «incapaci di applicare le dure misure del terrore
rivoluzionario» da lui ritenute indispensabili, Lenin continuava a insistere sulla necessità di una «guerra all’ultimo
sangue contro i ricchi e i loro manutengoli [= protettori, collaboratori, n.d.r.], una guerra in cui «ogni manifestazione di
debolezza, di esitazione e di sentimentalismo… rappresenterebbe un immane delitto». Mai, nella storia della Russia moderna, un leader aveva invocato la pena di morte
con la stessa frequenza e con la stessa franchezza di Lenin in quei giorni […]. «Che ce ne facciamo di un commissariato alla Giustizia?» sbottò Steinberg quando Lenin lo
criticò per la sua opposizione alle esecuzioni sommarie
della Ceka. «Chiamiamolo senza mezzi termini commissariato per lo Sterminio Sociale, e facciamola finita!». Illuminandosi a quell’idea, Lenin stette a rifletterci e poi, a
quanto risulta, esclamò: «Ben detto! È proprio questo che
quel commissariato dovrebbe essere».
W. B. LINCOLN,
I Bianchi e i Rossi. Storia della guerra civile russa,
Mondadori, Milano 1991, pp. 115-119, trad. it. F. SABA SARDI
Con quale motivazione Lenin dichiarava che la borghesia non aveva alcun titolo per criticare la violenza della rivoluzione
proletaria?
In quale vicenda del passato, secondo Lenin, anche la borghesia aveva fatto uso del terrore rivoluzionario?
Quali erano, fra gli stessi bolscevichi, le posizioni che discordavano dalla radicalità di Lenin?
F.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012
Pur essendo una marxista convinta, la dirigente socialista
tedesca Rosa Luxemburg assunse un atteggiamento critico nei
confronti di Lenin e della concezione bolscevica secondo cui
il partito doveva conquistare il potere e conservarlo con ogni
mezzo.
Rosa Luxemburg è la prima a criticare l’Ottobre in
nome del marxismo rivoluzionario. [...] Tutta la sua vita,
senza parlare della morte, offre la testimonianza d’un
vero e proprio culto votato all’idea rivoluzionaria. Ma di
fronte alla rivoluzione d’ottobre Rosa Luxemburg si spaventa. Ha paura d’un mostro nascente, che potrebbe privare di senso la sua stessa esistenza.
È una giovane ebrea polacca cresciuta a Varsavia. Ha
fatto poi l’università a Zurigo, studiando con assiduità la
storia, l’economia politica e Il Capitale. Nel 1898 si trasferisce a Berlino, centro del movimento operaio europeo, e aderisce a un socialismo meno fazioso di quello
della natìa Polonia, destinato a un ruolo storico di primo
piano. [...] Donna in un mondo di uomini, polacca in terra
germanica, libertaria in seno a una vasta e disciplinata organizzazione, resterà sempre ai margini del socialismo
tedesco, ben presto in freddo [= in rapporti freddi –
n.d.r.] con il «professor» Kautsky, senza peraltro cercare
di fondare un altro nucleo militante.
Dal 1905, Rosa Luxemburg ha capito che nella Russia degli zar sta avvenendo qualcosa di storico, una specie di spostamento della rivoluzione europea da ovest a
est: così, è entrata nel vivo del dibattito tra menscevichi
e bolscevichi, mettendosi piuttosto dalla parte di Lenin,
comunque non sino a sostenerlo. Se infatti anch’ella
come Lenin vive solo per la rivoluzione proletaria, diversamente da Lenin non è pronta a sacrificare il marxismo
che ha studiato in Marx e in Kautsky. Ha sentito assai
presto che nello spirito settario di Lenin la dittatura del
partito sta per sostituire quel che lei chiama il movimento
delle masse. [...] L’estrema centralizzazione del partito rischia di mettere il proletariato alle dipendenze d’una oligarchia [= gruppo ristretto, che detiene tutto il potere –
n.d.r.] intellettuale. Rosa Luxemburg avrà altri motivi di
disaccordo con Lenin, in particolare sulla questione na-
zionale. Ma il più importante è quello lì, ché [= perché –
n.d.r.] ha qualcosa di premonitorio. Quindici anni dopo
riaffiora quasi negli stessi termini, al momento della rivoluzione. Arrestata nel 1917 dal governo tedesco per
essersi opposta alla guerra, ha seguito gli avvenimenti
russi come ha potuto, attraverso i racconti dei visitatori,
i frammenti di giornali. [...] Del resto, appena rilasciata,
il 10 novembre 1918, e nelle poche settimane che precedono il suo assassinio, a metà gennaio [del 1919 –
n.d.r.], in piena rivoluzione tedesca, Rosa Luxemburg
sulla Rivoluzione d’ottobre non condivide più alcuna
delle illusioni bolsceviche. Anziché una rottura o una modifica decisiva del rapporto europeo di forze in favore del
proletariato, quella Rivoluzione non le appare che un
caos sociale dal quale può uscire di tutto, persino una
vittoria della controrivoluzione. Diffida pure dell’esagerato
ottimismo dei bolscevichi e della loro propensione a
prendere il potere a qualsiasi condizione, salvo correre
il rischio d’isolare l’avanguardia del proletariato, esponendola. E agli spartakisti [= i comunisti tedeschi –
n.d.r.] raccomanda uno sforzo d’organizzazione e di
conquista della classe operaia tedesca, condizione preliminare di rovesciamento del governo socialdemocratico di Ebert.
Nei timori che nutre sulla svolta che la Rivoluzione
russa sta prendendo, nei suoi moniti ai militanti tedeschi,
c’è addirittura il ripudio della concezione leninista della rivoluzione, secondo la quale il potere va preso e conservato con ogni mezzo, quando le circostanze della storia
lo offrono a un’avanguardia, anche ristretta, ma ben organizzata e convinta di rappresentare gli interessi delle
masse. Alla fine del 1918, infatti, [...] la censura della
stampa, la dittatura del partito unico, poi il Terrore di
massa e persino il campo di concentrazione (sono) tutti
segni, secondo Rosa Luxemburg, del carattere oligarchico della Rivoluzione russa. Il suo scritto, preparato su
informazioni di fortuna, mostra l’abisso che già la separa
da Lenin, da qualche mese al potere.
F. FURET, Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel XX secolo,
trad. di M. VALENSISE, Mondadori, Milano 1997, pp. 103-105
Quali difficoltà incontrò Rosa Luxemburg all’inizio della propria carriera politica?
Quando Rosa Luxemburg cominciò a intuire che la Russia era sull’orlo della rivoluzione?
Quali aspetti della linea politica leninista lasciavano perplessa Rosa Luxemburg, già prima del 1917?
Come sintetizzeresti il giudizio di Rosa Luxemburg sulla rivoluzione d’ottobre?
F.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012
UNITÀ IV
L’atteggiamento di Rosa Luxemburg
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RIFERIMENTI STORIOGRAFICI
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Le donne russe di fronte al nuovo diritto
di famiglia
UNITÀ IV
Non molte furono le donne russe che accolsero con entusiasmo le idee sul libero amore e la nuova libertà introdotte nel
diritto di famiglia con leggi molto elastiche, a proposito della possibilità di divorzio. Da più parti fu recriminato che la nuova situazione danneggiava le donne, il segmento più debole della società, oggetto di sistematica sopraffazione da parte del sesso
maschile.
IL COMUNISMO IN RUSSIA
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I principali esponenti rivoluzionari (ma certamente
non gli uomini della base) erano d’accordo sul fatto che
la donna andasse liberata dalla schiavitù domestica; secondo Lenin i lavori di casa erano un’attività «improduttiva, meschina, snervante, rimbecillente e deprimente».
Naturalmente ciò valeva solo per il lavoro domestico individuale, non per quello collettivizzato che doveva venir
svolto da cuoche e da donne delle pulizie professioniste;
l’avversione di Lenin nei confronti di cucine, pentole e padelle private era letteralmente ossessiva e alla Kollontaj
la separazione fra matrimonio e cucina sembrava altrettanto urgente di quella fra Stato e Chiesa. Ma gli asili infantili, le cucine e le mense collettive, nonché il loro personale femminile, erano attrezzati malissimo e, anche in
seguito, le cose non migliorarono. Una caratteristica degli anni Venti, assai più vistosa degli asili infantili, erano le
bande di bambini abbandonati e senza fissa dimora (besprizorniki) che invadevano il paese e si procuravano da
vivere chiedendo l’elemosina, rubando, uccidendo e
prostituendosi; nel 1921 erano sette milioni, fra i quali anche migliaia di ex trovatelli. […]
Nel 1917 venne istituito il divorzio, che nella Russia
zarista era stato praticamente impossibile: era gratuito,
lo si otteneva o per accordo di entrambi i coniugi o anche solo per desiderio di uno dei due; dopo la riforma
matrimoniale del 1926 era sufficiente che uno dei coniugi
esprimesse per posta tale desiderio (divorzio a mezzo
cartolina). Nel 1927 a Mosca veniva pronunciata una
sentenza di divorzio ogni due matrimoni. La convivenza
di una coppia non coniugata (matrimonio di fatto) era riconosciuta dal 1918 e nel 1926 fu legittimata per legge,
per stabilizzarla e per costringere i padri a ottemperare
ai loro doveri. Tuttavia gli alimenti per le donne che venivano abbandonate dal padre dei loro figli spesso esistevano solo in teoria; in pratica era difficile determinare la
paternità (uno degli argomenti prediletti della letteratura)
e altrettanto difficile era garantire il versamento degli alimenti: i padri scomparivano o erano troppo poveri o avevano troppi figli. Del matrimonio di fatto abusavano soprattutto gli uomini – in particolare gli operai – a spese
delle donne. Le città erano popolate da madri abban-
donate e ridotte in miseria; il 70% dei divorzi in questi matrimoni di fatto veniva richiesto dagli uomini. I giovani mariti si lamentavano sostenendo che quando nasceva un
bambino era finita la libertà. Nelle città erano tutt’altro che
rari matrimoni della durata di un giorno, di una settimana
o di un mese; l’età dei primi rapporti sessuali diminuì
drammaticamente e il risultato, come si espresse un
giornalista straniero, fu uguaglianza, libertà, maternità.
[…]
In questo contesto – riforme libertarie accompagnate
da sradicamenti e sovvertimenti – non fa meraviglia che
verso la fine degli anni Venti si infittissero le critiche. L’opinione pubblica era d’accordo nel ritenere che le bande
di bambini abbandonati fossero il risultato dell’instabilità
dei matrimoni. Furono soprattutto le donne a lamentarsi
delle innovazioni. Un’esponente del partito protestò contro il fatto che ogni studentessa o ogni donna del konsomol [= l’organizzazione giovanile comunista,n.d.r.] che
non aveva voglia di fare l’amore con un uomo venisse
considerata piccolo borghese; un’altra giovane donna
asserì che avrebbe preferito lavorare per sedici ore al
giorno piuttosto che tornare nel dormitorio comune del
konsomol. L’assoluta e individualistica libertà di divorzio,
finché perdurò, venne criticata da contadine e contadini
in quanto sconvolgeva la situazione della proprietà e
dell’eredità collettiva; molte operaie e contadine le si rivoltavano contro: «Non è perdonabile che un uomo viva
per venticinque anni con una donna, le faccia mettere al
mondo cinque figli e poi decida che non gli piace più».
Quando nel 1926, durante la sua ultima campagna,
Alexandra Kollontaj propose di imporre una tassa di due
rubli all’anno per finanziare i brefotrofi [= strutture di accoglienza per i bambini abbandonati alla nascita, n.d.r.]
e soccorrere le madri sole e disoccupate, altre donne le
opposero la loro concezione del rapporto fra il pubblico
e il privato: «Se venisse introdotta una tale tassa, gli uomini perderebbero del tutto il pudore [= ogni senso di responsabilità verso la loro famiglia, n.d.r.] e la conseguenza sarebbe la totale dissipazione»; oppure: «Anche
la madre deve pagare! Le serva da insegnamento!» e anche: «Cosa c’entrano tutti gli uomini, se al concepimento di un bambino collabora solo un uomo? Se sei
padre, sei tu che devi pagare!». A queste donne non importava tanto la propria libertà sessuale, quanto la limitazione della libertà sessuale degli uomini.
G. BOCK, Le donne nella storia europea, Laterza,
Roma-Bari 2003, pp. 324-329,
trad. it. B. HEINEMANN CAMPANA
Quale gravissimo fenomeno sociale caratterizzava la Russia nei primi anni Venti?
Perché le donne russe furono fortemente penalizzate dalla nuova legislazione che rendeva più facile il divorzio?
Perché molte donne erano contrarie all’introduzione della tassa che avrebbe permesso di assistere i bambini abbandonati
e le madri sole?
F.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012
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