Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. itinera GUIDE GIURIDICHE IPSOA APPALTI PRIVATI E OUTSOURCING Il volume, inserito nella sezione “Contratti d’impresa”, è suddiviso in due parti principali: appalti privati e outsourcing. La prima parte è dedicata all’istituto dell’appalto che viene affrontato nella prassi applicativa e ne vengono analizzate le implicazioni interdisciplinari, specie in materia giuslavoristica. Una particolare attenzione è stata dedicata alla giurisprudenza, nella ricerca della maggior completezza possibile. La seconda parte della guida è dedicata alle figure di c.d. outsourcing, rappresentate da rapporti negoziali mediante i quali le imprese a cura di P. POTOTSCHNIG, G. CAPECCHI Pagine: 480 - cod. 00186537 € 70,00 affidano a soggetti esterni determinate attività o servizi necessari per il loro ciclo produttivo. Sono presenti clausole contrattuali e modelli di comunicazioni o atti ricorrenti nelle fasi di esecuzione dell’appalto; casistiche riguardanti l’applicazione giurisprudenziale in situazioni concrete di norme e principi che governano l’istituto; descrizioni di casi pratici gestiti dallo Studio Legance Avvocati Associati; approfondimenti giurisprudenziali e dottrinali di particolari fattispecie e di questioni Acquista su www.shop.wki.it Y65ES_CL.indd 1 Rivolgiti alle migliori librerie della tua città Contatta un agente di zona www.shop.wki.it/agenzie Contattaci 02.82476.794 [email protected] Y65ESCL interpretative controverse. 16/02/16 10:21 ABCompos - 3B2 v. 11.0.3108/W Unicode-x64 (Dec 17 2013) - {A_LEGALE}0912_16-LAGI8-9/ 00134998_2016_08-09_SOMMARIO.3d Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. il Lavoro nella giurisprudenza Sommario EDITORIALE Precariato nella scuola LA FINE DEL PRECARIATO PUBBLICO MA NON SOLO PER LA SCUOLA di Michele Miscione 745 DOTTRINA Rapporto di lavoro IL LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO SECONDO LA PIÙ VIRTUOSA GIURISPRUDENZA NAZIONALE di Daniela Izzi 748 DIMISSIONI, NUOVA FORMA SMATERIALIZZATA AD SUBSTANTIAM E DIRITTO AL RIPENSAMENTO di Marco Frediani 753 Spese di giustizia LE SPESE DI GIUSTIZIA NEL GIUSTO PROCESSO DEL LAVORO TRA LEGGE E PRASSI MINISTERIALE di Vincenzo De Michele e Sergio Galleano 757 Età pensionabile PROSECUZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO OLTRE L’ETÀ PENSIONABILE: NODI IRRISOLTI E SPUNTI DI RIFLESSIONE di Giovanna Pistore 764 Dimissioni GIURISPRUDENZA Liberi professionisti INDENNITÀ DI MATERNITÀ E DIRITTI DEL PADRE AVVOCATO Cassazione Civile, Sez. lav., 2 maggio 2016, n. 8594 Commento di Roberta Nunin 777 779 Società cooperative LA COMUNICAZIONE DELL’ESCLUSIONE DEL SOCIO-LAVORATORE NELLE COOPERATIVE Cassazione Civile, Sez. lav, 1 aprile 2016, n. 6373 Commento di Luigi Angiello 784 789 Licenziamento L’EPILOGO IN TEMA DI REPECHAGE E ONERE PROBATORIO Cassazione Civile, Sez. lav., 22 marzo 2016, n. 5592 Commento di Carmelo Romeo 794 799 Straining IL MOBBING ATTENUATO: LO STRAINING Cassazione Civile, Sez. lav., 19 febbraio 2016, n. 3291 Commento di Carmela Garofalo 803 808 RASSEGNA DELLA CASSAZIONE a cura di Carlo Alberto Giovanardi, Guerino Guarnieri, Giuseppe Ludovico, Giorgio Treglia 817 RASSEGNA DEL MERITO a cura di Filippo Collia, Francesco Rotondi 828 NORMATIVA NOVITÀ LEGISLATIVE ED AMMINISTRATIVE a cura di Alessia Muratorio 833 INDICE AUTORI CRONOLOGICO ANALITICO il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 837 743 ABCompos - 3B2 v. 11.0.3108/W Unicode-x64 (Dec 17 2013) - {A_LEGALE}0912_16-LAGI8-9/ 00134998_2016_08-09_SOMMARIO.3d Numero Demo il Lavoro nella giurisprudenza - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Sommario COMITATO PER LA VALUTAZIONE L. Angiello, A. Boscati, M. Brollo, C. Cester, G. Dondi, V. Filı̀, D. Garofalo, S. Mainardi, M.G. Mattarolo, L. Menghini, R. Nunin, A. Pizzoferrato, A. Topo, M. Tremolada, G. Zilio Grandi La Rivista si cita Lav. Giur. EDITRICE Wolters Kluwer Italia S.r.l. Strada 1, Palazzo F6 20090 Milanofiori Assago (MI) INDIRIZZO INTERNET www.edicolaprofessionale.com/lavgiur DIRETTORE RESPONSABILE Giulietta Lemmi REDAZIONE Francesco Cantisani, Ines Attorresi, Giuseppina Zanin REALIZZAZIONE GRAFICA Wolters Kluwer Italia S.r.l. FOTOCOMPOSIZIONE Sinergie Grafiche Srl Viale Italia, 12 - 20094 Corsico (MI) - Tel. 02/57789422 STAMPA GECA S.r.l. 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Editoriale Pubblico impiego Precariato nella scuola La fine del precariato pubblico ma non solo per la scuola di Michele Miscione - Professore ordinario di Diritto del lavoro Con la sentenza n. 187 del 20 luglio 2016, la Corte costituzionale ha affermato che la legge sulla “buona scuola” (L. n. 107/2015) “cancella” l’illecito comunitario sui precari, in particolare per il personale docente che ha avuto possibilità immediata di contratto stabile, ma per il personale non-docente (ATA), che non ha fruito del piano straordinario di assunzioni, resta la via del risarcimento. La Corte costituzionale dovrebbe aver dato una svolta decisiva al problema del precariato non solo della scuola, ma anche delle altre pubbliche amministrazioni, cui necessariamente le stesse regole dovranno essere estese per il principio d’uguaglianza dell’art. 3 della Costituzione. Illecito comunitario “cancellato” dalla legge sulla “buona scuola” Sembrava che la storia del precariato nella scuola dovesse non finire mai, con rinvii e promesse sempre deluse. Sembrava destino inesorabile che i professori rimanessero “precari a vita” ed i ragazzi dovessero avere sempre “supplenti”. Il precariato della scuola è il più ampio e combattivo, ma di precariato è piena tutta la pubblica amministrazione (P.A.), a partire dall’università, dove ormai sono più numerosi gli insegnamenti anche fondamentali coperti con supplenze, che quelli con professori “di ruolo”; ma ci sono anche insegnamenti inutili. Il problema non è né è mai stato di costi, perché nel complesso le “supplenze” costano non meno e forse più delle assunzioni stabili, né solo organizzativo per la “continuità didattica”: il problema è soprattutto di resistenze per motivi più vari, sempre negativi, e giustificazione solo apparente con il principio del concorso ex art. 97, comma 4, Cost. (1) Cass., SS.UU., 15 marzo 2016, n. 5072, Giur. it., 2016, 5, 1169 con nota di P. Tosi, Lavoro pubblico - Contratto a tempo determinato - Il danno nel rapporto a termine del dipendente pubblico; cfr. anche M. Miscione, Nomofilachia, Sezioni unite, “diritto vivente” (leggendo la Relazione 2016 del Primo Presidente della Cassazione), in questa Rivista, 2016, 4, 329. (2) In prec., ma per caso speciale (dipendenti a termine con fondazioni lirico-sinfoniche): Corte cost. 11 dicembre 2015, n. 260, in questa Rivista, 2016, 2, 148 con nota di V. De Michele, Le ragioni oggettive “retroattive” del contratto a termine nella sentenza n. 260/2015 della Corte costituzionale. (3) Corte Cost. 20 luglio 2016. n. 187, in www.cortecostitu- il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Dopo i tentativi della Corte di Cassazione a sezioni unite (1), ora s’è arrivati alla fine, o almeno così si spera, nel 2016 (2) con la Corte Costituzionale in reciproca collaborazione con il legislatore nazionale e la Corte Europea. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 187 del 2016 (3), ha dichiarato illegittime le norme del 1999 (4) che prevedevano senza limiti e con rinnovi potenzialmente illimitati l’utilizzo di supplenze per copertura di posti “vacanti e disponibili”; l’illegittimità è stata dichiarata - attraverso l’art. 117, comma 1, Cost. che impone e così costituzionalizza i vincoli dell’ordinamento comunitario - per violazione della clausola 5, comma 1 dell’accordo-quadro sul lavoro a tempo determinato, all. alla Dir. n. 1999/70/CE, come affermato dalla Corte europea, proprio per lo stesso giudizio, con la sentenza “Mascolo” del 2014 (5). Nel frattempo era intervenuto il legislatore nazionale con la L. n. 107 del 2015 sulla “buona scuola” (6), che ha fissato per i supplenti un massimo zionale.it. La sentenza sarà commentata approfonditamente nel prossimo fascicolo di questa Rivista. (4) Art. 4, commi 1 e 11, L. 3 maggio 1999, n. 124. (5) Corte di Giustizia UE, Sez. III, 26 novembre 2014, cause riunite C-22/13, da C-61/13 a C-63/13, C-418/13, in questa Rivista, 2015, n. 2, 135 con nota di R. Nunin, “Tanto tuonò che piovve”: la sentenza Mascolo sull’abuso del lavoro a termine nel pubblico impiego. (6) L. 13 luglio 2015, n. 107, Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti, ripubbl. in G.U. del 30 luglio 2015. 745 Sinergie Grafiche srl Editoriale Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Pubblico impiego di 36 mesi anche non continuativi ed ha previsto l’obbligo dei concorsi nel triennio per tutti i posti vacanti e disponibili, con piano straordinario di assunzioni per l’anno scolastico 2015/2016 - ma solo per il personale docente - nel rispetto del principio del concorso (automatismi su graduatorie formate già su concorsi, “selezioni blande” con concorsi riservati). Con la cit. sent. n. 187 del 2016, la Corte costituzionale ha confermato (7) che la legge sulla “buona scuola” ha “cancellato le conseguenze della violazione” delle norme comunitarie e dell’art. 117 Cost.: pertanto, chi ha fruito delle chances della legge sulla “buona scuola” null’altro potrà pretendere. Tuttavia il personale non-docente della scuola (“ATA”), escluso dal piano straordinario di assunzioni, potrà avere la misura alternativa dell’ordinario risarcimento dei danni. La Corte costituzionale ha confermato, seguendo ancora la Corte europea, che contro l’“abuso” del precariato pubblico sono ammesse misure alternative, per cui è sufficiente l’applicazione di una sola di esse: è sufficiente una “disciplina che garantisca serie chances di stabilizzazione del rapporto”, oppure il risarcimento del danno. La tutela specifica, consistente in “procedure di assunzioni certe anche nel tempo”, è sufficiente e “cancella” l’illecito comunitario per il personale docente. Per il personale ATA resta il risarcimento dei danni, con necessità del “carattere non solo proporzionato, ma anche sufficientemente energico e dissuasivo per garantire la piena efficacia”. È anche confermato, in modo assoluto, il divieto di trasformazione a tempo indeterminato senza concorso (8). Contenzioso finito per il personale docente ma ancora parzialmente aperto per il non-docente Il contenzioso dovrebbe cessare, quindi, per il personale docente che ha fruito di “serie chances di stabilizzazione del rapporto” con la legge sulla “buona scuola” (L. 107/2015). L’illecito comunitario è “cancellato” dal diritto sopravvenuto (L. n. 107/2015 sulla “buona scuola”). Il contenzioso resta aperto, si ripete, per il personale ATA, che, escluso dal piano straordinario di as(7) Come già nel par. 79 della cit. sentenza Mascolo della Corte UE, Sez. III, 26 novembre 2014. (8) Corte cost. n. 187/2016, cit., che richiama conforme anche l’ordinanza n. 207 del 18 luglio 2013, con cui la stessa Corte cost. dispose il rinvio pregiudiziale alla Corte europea. (9) Punto 18.2 del “considerato in diritto” della cit. Corte 746 sunzioni, potrà chiedere la “misura ordinaria del risarcimento del danno” (9). Va chiarito che la prima misura che comporta la “cancellazione dell’illecito”, in alternativa al risarcimento dei danni, consiste nella previsione di chances effettive ed immediate d’assunzione con tre requisiti (solo presupposti): a) una legge che fissi con certezza i tempi per coprire i posti “vacanti e disponibili”, b) un piano straordinario di assunzioni nell’immediato e c) una legge che ponga un limite soggettivo alle supplenze anche non continuative (i 36 mesi). I tre requisiti sono previsti dalla legge sulla “buona scuola” per il personale docente, mentre per il personale ATA mancano le norme per l’immediato, con possibilità quindi della “misura ordinaria del risarcimento del danno”. È confermato per tutti, docenti e ATA, il tetto dei 36 mesi anche non continuativi (art. 1, comma 131, L. n. 107/2015), a decorrere dal 1° settembre 2016 senza contare i periodi precedenti; andranno comprese solo le supplenze nelle scuole statali, per la copertura di posti vacanti e disponibili. Si tratta quindi di tetto soggettivo solo per il futuro, per cui i singoli non potranno superare per sommatoria i 36 mesi. In connessione, la stessa legge sulla “buona scuola” prevede l’obbligo di “indire” i concorsi nel triennio (art. 1, comma 113 L. 107/2015), in modo che oggettivamente un “posto vacante e disponibile” non sia coperto con supplenze per oltre il triennio, salvo i tempi per espletare il concorso. Si ricorda anche, a conferma dell’effettività della misura, che la legge sulla “buona scuola” prevede un finanziamento per il risarcimento (art. 1, comma 132, L. n. 107/2015): in tal modo, conclude la Corte cost., anche per questo aspetto la legge sulla “buona scuola” è “in linea con la normativa comunitaria”. Nemmeno una parola però sulla misura del risarcimento, ricordando solo, come già cennato, i caratteri essenziali della “dissuasività, proporzionalità, effettività”. Il problema era stato affrontato e risolto invece dalle Sezioni Unite (10), che avevano ritenuto applicabile il risarcimento forfetario e senza onere della prova da 2,5 a 12 mensilità del Collegato Lavoro 2010 (11). La Corte Cost., nella sentenza n. 187/2016, nemmeno nomina le Sezioni Unite ed il cost. n. 187/2016. (10) Cass., SS.UU., 15 marzo 2016, n. 5072, cit.: le Sezioni unite non hanno potuto considerare il diritto sopravvenuto per il principio della domanda (i fatti risalivano agli anni ‘90). (11) L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5. il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Editoriale Pubblico impiego silenzio potrebbe sembrare contrasto: al contrario, si deve ritenere che sia rinvio implicito. Si potrà sempre discutere se il risarcimento forfetario del Collegato Lavoro 2010 corrisponda ai requisiti comunitari, più volte richiamati, di “dissuasività, proporzionalità, effettività”. S’è detto talvolta che il risarcimento dovrebbe essere “punitivo”, per far pagare una somma che scoraggi veramente ulteriori inadempienze. Insomma, per un esempio essenziale, se il risarcimento fosse 100 il colpevole dovrebbe pagare 200 per indurlo a non ripetere l’errore. Il problema però è che, se il pagamento superiore al risarcimento può essere giusto, non altrettanto giusto può sembrare che ne profitti il danneggiato. Le norme e la giurisprudenza comunitaria affermano però che tra i requisiti del risarcimento debba esserci quello della “proporzionalità”, escludendo arricchimenti oltre il danno subito. Inoltre con recentissima ordinanza la Cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite la questione se i danni punitivi siano o no in contrasto con l’ordine pubblico (12). La questione è delicata, e di grande importanza generale, senza possibilità di eccezioni per singoli casi. Il danno presunto e forfetario della sent. n. 5072/2016 (13) supera ogni difficoltà, a partire da quella se sussista un danno quantificabile per i supplenti che hanno ricevuto il trattamento di legge; né sembra prospettabile, quanto meno per genericità, danno da perdita di chances per mancata indizione dei concorsi. Se dunque la funzione nomofilattica della Cassazione continuerà a funzionare, anche il contenzioso del personale ATA dovrebbe diminuire se non cessare. Nell’immediato, la Cas- (12) Cass., Sez. I, ord. interloc., 16 maggio 2016, n. 9978, in Corr. giur., 2016, n. 7, 909 con nota di C. Scognamiglio, I danni punitivi e le funzioni della responsabilità civile. Cfr. inoltre, A. Guarisio, Risarcimento «comunitario» integrale, dissuasione e il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 sazione s’è già uniformata riconoscendo il risarcimento forfetario del Collegato Lavoro 2010 a precari di altra amministrazione (14). Necessaria ed inevitabile estensione a tutte le altre amministrazioni A questo punto resta il problema forse meno noto, o meno urlato, dei precari delle altre P.A., come quello della sentenza da ultimo citata (15). Sarà inevitabile, per il principio d’uguaglianza (art. 3 Cost.) e per evitare un contenzioso di nuovo senza fine, che a tutti i dipendenti delle P.A. siano garantiti effettivamente concorsi in tempi fissi e certi, in modo da coprire i posti vacanti e disponibili con dipendenti “di ruolo”; dovrà essere affermato e garantito una volta per tutte il principio, su cui si esprime in modo chiaro e deciso la Corte costituzionale, per cui nella P.A. un posto di lavoro fisso non può essere coperto con personale sempre precario. Il problema sarà di capire il significato di posto “vacante e disponibile”, che dev’essere veramente necessario, come confermato dalla ripetizione della copertura finanziaria: il concorso è dovuto se il posto è necessario e non si afferma che se ne possa fare a meno se manca la copertura finanziaria. Inoltre, sempre per il principio d’uguaglianza, dovrà essere esteso a tutti i dipendenti della P.A. il limite dei 36 mesi di precariato, con contratti a termine o di altro tipo. Il risarcimento per superamento dei 36 mesi non cancella l’illecito ed anzi lo aggrava, con responsabilità comunitaria ed erariale. danni punitivi, in Riv. giur. lav., 2016, 2, II, 125. (13) Cass., SS.UU., n. 5072/ 2016, cit. (14) Cass., Sez. lav., 18 luglio 2016, n. 14633, inedita. (15) Cass. n. 14633/2016, cit. 747 Sinergie Grafiche srl Dottrina Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Rapporto di lavoro Licenziamento discriminatorio Il licenziamento discriminatorio secondo la più virtuosa giurisprudenza nazionale di Daniela Izzi - Professore associato di Diritto del lavoro nell’Università di Torino (*) La fisionomia molto concreta assunta ormai anche nel nostro Paese dal diritto antidiscriminatorio è testimoniata da alcune recenti pronunce giurisprudenziali, concernenti tutte licenziamenti e dal contenuto non scontato, anche se pienamente in linea con le fonti dell’Unione europea e con le indicazioni della Corte di Giustizia. L’autrice mette in evidenza le affermazioni più delicate e impegnative rese dai giudici nazionali (di legittimità e di merito) in occasione di tre controversie nelle quali il recesso del datore di lavoro è stato ritenuto in contrasto con i divieti di discriminazioni in base al genere, all’età e alla disabilità. Premessa: le potenzialità del diritto antidiscriminatorio nell’era del diritto del lavoro derogabile Il diritto antidiscriminatorio, da apparato regolativo a lungo trascurato e condannato ad un’esistenza più virtuale che reale, dimostra ormai di poter fornire un rilevante contributo per la concreta affermazione di quella libertà e di quella dignità della persona che lavora a fronte delle quali, secondo l’art. 41, comma 2, della nostra Costituzione, le ragioni dell’economia sono costrette ad arretrare. Nel nuovo secolo, com’è noto, si è registrata per il diritto antidiscriminatorio una sopravvenuta centralità, che trova origine in diverse cause: in parte e perlopiù cause endogene, collegate al consistente ampliamento del raggio d’incidenza dei divieti di discriminazione (1) e al loro parallelo affinamento tecnico, grazie al significativo apporto del diritto dell’UE; in parte cause esogene, dato che le discriminazioni sono state preservate dalle operazioni di alleggerimento delle tutele compiute in nome della flessibilità. Penso evidentemente alla riscrittura dell’art. 18 Stat. lav. effettuata dalla L. n. 92/2012 (secondo una linea già anticipata l’anno prima dall’art. 8, D.L. n. 138/2011, conv. in L. n. 148/2011) e al baluardo che ha finito per rappresentare il licenziamento discriminatorio, divenuto oggetto d’interpretazioni - a mio parere di dubbio fondamento - sia di segno iper-estensivo (alludo alla tesi, rimasta piuttosto isolata in dottrina, secondo cui qualunque licenziamento ingiustificato sarebbe discriminatorio (2)) che di segno iper-riduttivo (mi riferisco alla ricostruzione del licenziamento discriminatorio in senso soggettivistico, con la pretesa ricorrenza dell’animus discriminandi come motivo unico determinante dell’atto, su cui tornerò fra breve). Proprio sul licenziamento discriminatorio intendo focalizzare l’attenzione, considerati i numerosi dubbi che si addensano attorno a questa figura giuridica e le interessanti prospettive che si aprono su questo fronte, com’è testimoniato da alcune recen- (*) Lo scritto rielabora l’intervento svolto al Convegno nazionale del Centro Studi Domenico Napoletano Il capitale umano - Il diritto del lavoro al tempo della precarietà, tenutosi a Torino il 27 e 28 maggio 2016. (1) Tale ampliamento è dovuto alla molteplicità dei caratteri soggettivi ormai considerati dai divieti di discriminazioni, alla loro attitudine a superare le coordinate classiche del diritto del lavoro includendo anche lavoratori non subordinati, inoccupati e disoccupati, oltre che allo specifico ruolo assegnato al principio di non discriminazione nella tutela dei lavoratori non standard (in particolare lavoratori a termine, a tempo parziale e somministrati). (2) M.T. Carinci, Il licenziamento discriminatorio o “per motivo illecito determinante” alla luce dei principi civilistici: la causa del licenziamento quale atto unilaterale fra vivi a contenuto patrimoniale, in Riv. giur. lav., 2012, I, 641 ss. 748 il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Dottrina Rapporto di lavoro ti pronunce giurisprudenziali. Sarà l’esame della giurisprudenza nazionale a fare da filo conduttore al mio discorso, con la considerazione di tre casi nei quali sono emerse domande teoriche di non scarso conto, a dimostrazione della fisionomia molto concreta e pervasiva assunta oggi anche nel nostro Paese dal diritto antidiscriminatorio. L’oggettività della discriminazione nel licenziamento di una lavoratrice alla ricerca della maternità La sentenza da cui mi pare doveroso partire, data l’autorevolezza dell’organo da cui proviene e l’importanza dei chiarimenti offerti, è quella resa dalla Corte di Cassazione il 5 aprile scorso nell’ambito di una controversia concernente l’ipotesi classica di discriminazione basata sul genere, ove però viene in rilievo l’inusuale situazione di assenza dal lavoro dovuta non alla gravidanza della lavoratrice ma alla sua sottoposizione a cicli d’inseminazione artificiale: quindi una condizione di gravidanza solo potenziale, ma comunque, al pari della gravidanza, esclusivamente propria del genere femminile (3). A seguito del licenziamento che colpisce la donna, motivato con ragioni di carattere sia economicoorganizzativo che disciplinare, e dei ricorsi promossi dalle parti interessate, i giudici di legittimità si trovano a dover sciogliere diversi nodi: stabilendo se le giustificazioni oggettive e soggettive fornite per il licenziamento possono escluderne la portata discriminatoria; qual è il rapporto tra licenziamento discriminatorio e licenziamento ritorsivo; se è possibile che il carattere oggettivo delle discriminazioni imposto dal diritto dell’Unione e codificato nella legislazione interna conviva con la ricerca dell’intento soggettivo di chi adotta il provvedimento sfavorevole; infine, che cosa deve provare il lavoratore che denuncia la natura discriminatoria del licenziamento subito, accompagnato dall’indicazione del giustificato motivo prescritto dalla legge. A tutte queste domande la recente pronuncia di Cassazione fornisce risposte, per nulla scontate, a mio parere pienamente soddisfacenti perché sgombrano il campo da equivoci interpretativi che sono andati sviluppandosi in giurisprudenza per la difficoltà di misurarsi con le specificità del diritto anti(3) Cass. 5 aprile 2016, n. 6575, in banca dati Pluris. Per un’approfondita analisi di questa pronuncia v. ora M.V. Ballestrero, Tra discriminazione e motivo illecito: il percorso acciden- il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 discriminatorio e con i vincoli posti in materia dalle fonti europee. Nella nostra giurisprudenza persiste infatti la tendenza ad assimilare al licenziamento discriminatorio, cioè determinato da uno dei fattori di rischio posti a base dei vigenti divieti di discriminazione (come il genere), il licenziamento ritorsivo o di rappresaglia, cioè determinato da un’ingiusta ritorsione rispetto ad un comportamento legittimamente tenuto dal lavoratore, censurabile in quanto viziato dal motivo illecito unico e determinante previsto dall’art. 1345 c.c. In virtù di quest’assimilazione, il licenziamento discriminatorio viene spesso ancor oggi ritenuto un atto intenzionale, la cui illiceità viene cioè a dipendere dalla prova fornita dal lavoratore in ordine all’intento discriminatorio del datore di lavoro, che deve potersi qualificare come motivo unico e determinante del recesso. È proprio questa l’impostazione respinta con nettezza dai giudici di legittimità con la sentenza n. 6575/2016, che coglie e sottolinea l’autonomia del licenziamento discriminatorio rispetto a quello ritorsivo, la natura necessariamente oggettiva del primo e il rapporto d’indipendenza stabilito dallo stesso legislatore (nell’art. 3 della L. n. 108/1990 e nel riscritto art. 18, comma 1, Stat. lav.) tra le motivazioni che accompagnano il licenziamento e la ricorrenza di una discriminazione. Priva di fondamento viene quindi giudicata dalla Cassazione la tesi secondo cui “la natura discriminatoria del licenziamento sarebbe esclusa dalla esistenza del motivo economico” dedotto nella comunicazione del provvedimento. Di conseguenza, non si può ritenere che il lavoratore che contesta la portata discriminatoria del licenziamento debba dimostrare l’insussistenza dei fatti dedotti a giustificazione del recesso (perché ciò significherebbe rovesciare la regola probatoria fissata dalla L. n. 604/1966), e neppure il carattere unico ed esclusivo delle ragioni discriminatorie; suo onere, in forza del regime probatorio agevolato previsto per le discriminazioni, e opportunamente richiamato dalla Cassazione, è invece la semplice allegazione di elementi capaci di convincere prima facie il giudice del collegamento obiettivamente esistente tra il licenziamento e uno dei fattori protetti dai divieti di discriminazione. Nulla di più. Nella sentenza n. 6575/2016 si spiega che l’assimilazione tra licenziamento ritorsivo e licenziamento tato della reintegrazione, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2016, 231 ss. 749 Sinergie Grafiche srl Dottrina Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Rapporto di lavoro discriminatorio viene generalmente compiuta per estendere al primo le tutele previste per il secondo, per cui a monte del cattivo risultato della connotazione in senso soggettivo della discriminazione vi sarebbe una buona intenzione. A questo proposito occorre tuttavia distinguere: da un canto, infatti, stanno le ipotesi in cui il motivo della ritorsione è un fattore protetto dai divieti di discriminazione, nelle quali non si realizza alcuna estensione perché è già lo stesso diritto interno, sulla scorta di quello europeo, a qualificare espressamente l’atto ritorsivo come discriminatorio (si v. a conferma, con riferimento al genere, l’art. 26, comma 3, D.Lgs. 198/2006) (4); dall’altro, invece, stanno le ipotesi in cui il motivo della ritorsione non è un fattore protetto dai divieti di discriminazione, ove l’estensione può avvenire a prezzo di rinnegare la tesi della tassatività dei motivi posti a base dei divieti di discriminazione, tesi al momento dominante e a mio parere solidamente fondata, ma messa in discussione da una parte della dottrina (5) valorizzando il riferimento alle “condizioni sociali” contenuto nell’art. 3, comma 1, Cost. e l’espressione “in particolare” che nell’art. 21.1 della Carta dei diritti fondamentali precede l’indicazione dei possibili motivi di discriminazione. Le implicazioni del principio di non discriminazione per età nel licenziamento di un lavoratore intermittente Il secondo caso giurisprudenziale concernente un licenziamento discriminatorio su cui voglio soffermare l’attenzione, mentre si è in attesa della sua conclusione definitiva, è quello che vede contrapposti la società italiana detentrice del noto marchio di abbigliamento statunitense Abercrombie e un giovane magazziniere assunto con contratto di lavoro intermittente a tempo indeterminato stipulato in ragione della sua età, ovvero collegato alla condizione soggettiva di infraventicinquenne, secondo quanto previsto all’epoca dei fatti controversi dal D.Lgs. n. 276/2003 (all’art. 34, comma 2) e oggi dal D.Lgs. n. 81/2015 (all’art. 13, comma 2). La risoluzione del contratto effettuata dalla società Abercrombie per l’avvenuto compimento dei 25 an(4) Sono queste le ipotesi di “falsa interpretazione estensiva dei divieti di discriminazione”, emblematicamente rappresentate dalla figura (ben nota ai giudici) del licenziamento di rappresaglia per motivi sindacali: così M. Barbera, Il licenziamento alla luce del diritto antidiscriminatorio, in Riv. it. dir. lav., 2013, I, 161 ss. (5) In primis da A. Lassandari, Le discriminazioni nel lavoro. Nozione, interessi, tutele, Padova, 2010, 105 ss.; ma cfr. anche 750 ni da parte del lavoratore è stata contestata giudizialmente quale licenziamento discriminatorio in base all’età, formulandosi la richiesta di reintegrazione e di risarcimento del danno ai sensi dell’art. 18, comma 1, St. lav. Tale richiesta ha trovato accoglimento (non in primo grado ma) dinanzi alla Corte d’Appello di Milano con sentenza del 15 aprile 2014 (6), oggetto del ricorso per Cassazione dal quale ha tratto origine l’ordinanza del 29 febbraio scorso di rimessione alla Corte di Giustizia della questione pregiudiziale concernente la compatibilità della nostra disciplina sul job on call per ragioni anagrafiche col principio uni-europeo di non discriminazione in base all’età (7). Diverse sono le domande sollevate da questa controversia. Si tratta infatti di capire, in primo luogo, se la disparità di trattamento fondata sull’età del lavoratore può essere giustificata dalla ricorrenza di una finalità legittima, perseguita con mezzi adeguati e necessari, secondo i criteri stabiliti dall’art. 6 della Dir. n. 2000/78 e riproposti nell’art. 3, comma 4 bis, D.Lgs. n. 216/2003, oppure integra una discriminazione. Nel caso in cui sia esclusa la giustificabilità del trattamento differenziato, occorre poi verificare se può essere ritenuto responsabile per licenziamento discriminatorio il datore di lavoro che, nella fase conclusiva del rapporto contrattuale come in quella genetica, si è scrupolosamente attenuto alla disciplina italiana del lavoro intermittente, e al quale quindi non si può imputare la volontà e probabilmente neppure la consapevolezza di realizzare una discriminazione a danno dei giovani. Infine, risulta necessario comprendere se il legittimo affidamento riposto dal datore di lavoro nella validità della disciplina nazionale, ritenuta a posteriori non conforme al diritto dell’Unione, può essere sacrificato sull’altare dell’efficacia diretta del divieto di discriminazioni per età, considerato che tale divieto è stabilito da una fonte - la Dir. n. 2000/78 - per sua natura dotata di efficacia indiretta e abilitata tutt’al più a produrre effetti diretti nei rapporti di tipo verticale (tra cittadino e Stato membro) ma non anche di tipo orizzontale (tra soggetti privati). M. Barbera, op. cit., 148 s. (6) App. Milano 15 aprile 2014, n. 406, in Riv. it. dir. lav., 2015, II, 534 ss. Per una più ampia riflessione in proposito v. D. Izzi, Il lavoro a chiamata per ragioni anagrafiche è messo fuori gioco dal diritto dell’Unione europea?, in www.giustiziacivile.com, n. 6/2015. (7) Cass. 29 febbraio 2016, n. 3982 (ord.), in Wikilabour.it. il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Dottrina Rapporto di lavoro Il problema della compressione subita dal legittimo affidamento del datore di lavoro, del resto, risulta ridimensionato se si considera, come hanno fatto i giudici milanesi, il carattere rigorosamente oggettivo dei divieti di discriminazione, che rende rilevante ai fini della realizzazione dell’illecito discriminatorio non la volontà né la consapevolezza di penalizzare un giovane, ma semplicemente il trattamento pregiudizievole inflitto ad un giovane in ragione della sua età. Alla luce di quanto osservato mi pare quindi che il contenuto di entrambe le decisioni attese per la conclusione della vicenda Abercrombie - quella della Corte di Giustizia, prima, e della Corte di cassazione, poi - si possa ritenere in larga misura annunciato. Se le mie previsioni sulla tenuta della costruzione eretta dai giudici d’appello milanesi non sono errate, ci si troverà perciò presto davanti ad un’altra nitida dimostrazione dei risultati molto consistenti ormai conseguibili mediante il diritto antidiscriminatorio. La Corte d’Appello di Milano ha affrontato in termini pienamente condivisibili tutti questi profili, rispettando i vincoli interpretativi risultanti dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia. Particolarmente scottante è la questione del sacrificio che la certezza del diritto e la tutela del legittimo affidamento possono subire in nome dell’efficacia diretta del divieto di discriminazioni fondate sull’età, nei termini molto forti in cui tale divieto è stato ricostruito dalle sentenze Mangold e Kücükdeveci (8), generate da controversie coinvolgenti lavoratori privati e quindi, proprio come nel caso Abercrombie, rapporti di tipo orizzontale. In quelle decisioni la Corte di giustizia ha superato il limite dell’incapacità di una fonte secondaria di spiegare efficacia diretta in senso orizzontale sostenendo che il divieto di discriminazioni in base all’età, pur essendo espresso dalla Dir. n. 2000/78, trova invero la sua origine nel principio di non discriminazioni per età sancito dall’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali, cioè in una norma di diritto primario, ad effetto diretto in senso sia verticale che orizzontale. Fedele a quest’impostazione, la Corte d’Appello milanese ha perciò ritenuto che il diritto a non essere penalizzati a causa del compimento di una determinata età deve essere garantito anche all’interno del rapporto orizzontale intercorrente tra il giovane magazziniere e la società Abercrombie, ritenendo quest’ultima responsabile di licenziamento discriminatorio. La correttezza della scelta compiuta dai giudici di secondo grado pare trovare sicura conferma con la recente sentenza resa dalla Corte di Giustizia nel caso Dansk Industri v. Rasmussen (9). Qui infatti, proprio con riguardo ad una controversia tra soggetti privati, la Corte ha chiarito che il giudice nazionale non può basarsi sul principio della tutela del legittimo affidamento “per continuare ad applicare una norma di diritto nazionale contraria al principio generale della non discriminazione in ragione dell’età”, perché così facendo finirebbe per negare proprio a chi ha intrapreso l’azione giudiziale il beneficio dell’interpretazione accolta dalla Corte (10). L’ultimo caso sul quale mi pare utile riflettere è quello affrontato dal Tribunale di Pisa con ordinanza del 16 aprile 2015, che concerne la qualificazione giudiziale come licenziamento discriminatorio in base alla disabilità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato ad una lavoratrice divenuta fisicamente inidonea allo svolgimento delle mansioni cui era adibita (11). Si tratta, a quanto mi consta, della prima occasione nella quale le regole contro le discriminazioni basate sull’handicap stabilite dalla Dir. n. 2000/78 hanno ricevuto applicazione nel nostro Paese nei termini intensamente protettivi indicati dalla Corte di Giustizia nella sentenza HK Danmark (12), che costituisce in materia un’autentica pietra miliare. In questa pronuncia infatti, valorizzando due contenuti centrali della Convenzione delle Nazioni (8) Corte di Giustizia UE 22 novembre 2005, causa C144/04, Mangold c. Helm; Corte di Giustizia UE 19 gennaio 2010, causa C-555/07, Kücükdeveci c. Swedex GmbH. Tra i numerosi contributi dedicati a valutare la portata di queste pronunce sia consentito rinviare a D. Izzi, La Corte di Giustizia e le discriminazioni per età: scelte di metodo e di merito, in Riv. giur. lav., 2012, I, 125 ss. (9) Corte di Giustizia UE 19 aprile 2016, causa C-441/14, DansK Industri c. Successione Rasmussen. (10) Così ai punti 38 e 41 della motivazione di DansK Indu- stri, cit. (11) Trib. Pisa 16 aprile 2015 (ord.), in Arg. dir. lav., 2016, II, 164, con nota critica di V. Cangemi, Riflessioni sul licenziamento per inidoneità psico-fisica: tra ingiustificatezza e discriminatori età, ivi, 169 ss. La controversia si è conclusa con una conciliazione in sede di opposizione alla cit. ordinanza e quindi senza essere sottoposta al vaglio di altri giudici. (12) Corte di Giustizia UE 11 aprile 2013, cause riunite C335/11 e C-337/11, HK Danmark per conto di Ring e Skoube Werge. il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Licenziamenti per inidoneità sopravvenuta e divieti di discriminazione in base alla disabilità: una frontiera che inizia ad essere esplorata 751 Sinergie Grafiche srl Dottrina Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Rapporto di lavoro Unite sui diritti delle persone con disabilità (13), la Corte di Lussemburgo ha, da un lato, segnato l’apertura ad una concezione dinamico-sociale, anziché medico-individuale, di disabilità (14); dall’altro, ha avallato una lettura estensiva e rigorosa dell’obbligo per il datore di lavoro di adottare le cosiddette soluzioni ragionevoli, cioè quegli accomodamenti che, senza comportare a suo carico un onere finanziario sproporzionato, sono necessari per consentire ai disabili di superare il loro specifico impedimento, e quindi di accedere ad un lavoro o di conservarlo, e che comprendono non solo interventi di carattere tecnico-materiale, come il riallestimento della postazione di lavoro e la sostituzione delle attrezzature, ma anche interventi di carattere organizzativo, come la redistribuzione delle mansioni, la riduzione o rimodulazione dell’orario di lavoro, o il cambiamento dei turni. Tenendo conto di queste importanti precisazioni il Tribunale di Pisa, verificata la condizione di disabilità della lavoratrice e la possibilità per il datore di lavoro di superare senza oneri eccessivi la sua limitazione fisica attraverso una redistribuzione di compiti tra l’interessata e alcuni colleghi, ha censurato l’inadempimento dell’obbligo di provvedere agli accomodamenti ragionevoli stabilito dall’art. 3, comma 3 bis, D.Lgs. n. 216/2003 e ha giudicato discriminatorio il licenziamento collegato alla disabilità, condannando la società alla reintegrazione della lavoratrice e al risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 18, commi 1 e 2, oltre che al risarcimento del danno non patrimoniale per la discriminazione subita. È stata così realizzata, in linea con le fonti sovranazionali e quindi del tutto correttamente, una saldatura tra il mancato adempimento datoriale dell’obbligo di adozione degli accomodamenti ragionevoli e la violazione del divieto di discriminazioni basate sulla disabilità. A questa “chiusura del cerchio” non è giunto invece il Tribunale di Ivrea con l’ordinanza resa in un’analoga controversia il 24 febbraio scorso, che ha infatti sanzionato con il cd. regime di tutela reale attenuata (ai sensi dell’art. 18, commi 4 e 7) il licenziamento di una lavoratrice la cui sopravvenuta inidoneità avrebbe potuto essere risolta con una modifica, a costi contenuti, della sua postazione lavorativa (15). La recente pronuncia piemontese pare comunque molto lucida laddove evidenzia, in sintonia col precedente pisano, l’incisivo condizionamento che l’obbligo delle soluzioni ragionevoli per i disabili è destinato a spiegare sul potere di recesso del datore di lavoro, ponendo a suo carico l’onere di dimostrare di non aver potuto rimediare alla situazione di sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa neppure attraverso modifiche, a costo ridotto, della sua organizzazione aziendale. Come è già stato puntualmente rilevato (16), la tutela apprestata a favore delle persone disabili dal D.Lgs. n. 216/2003 finisce così per infrangere in questo specifico ambito il dogma (rafforzato invece sotto diversi profili dalle recenti riforme) dell’intangibilità e insindacabilità delle scelte organizzative e gestionali del datore di lavoro, mettendo in discussione la consolidata giurisprudenza nazionale in tema di licenziamenti per sopravvenuta inidoneità psico-fisica del lavoratore. Insomma, profondi sono i cambiamenti che la progressiva assimilazione dei concetti chiave del diritto antidiscriminatorio europeo è in grado di provocare nella gestione dei rapporti di lavoro del nostro Paese, nella fase della loro estinzione, come ho cercato di mostrare in questa sede, ma non soltanto. C’è da augurarsi che quanti giocano un ruolo strategico nella produzione della cultura giuridica italiana riescano a cogliere al meglio quest’opportunità. (13) Vale la pena ricordare che la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità adottata dalle Nazioni Unite il 13 dicembre 2006 è stata ratificata dall’Unione europea con la decisione n. 2010/48. (14) La disabilità viene definita come una duratura “limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche”, eventualmente provocata da una malattia, “che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori” (così al punto 38 della motivazione di HK Danmark, cit.). Sull’evoluzione intervenuta nei modelli medico-scientifici e giu- ridici di disabilità v. M. Pastore, Disabilità e lavoro: prospettive recenti della Corte di giustizia dell’Unione europea, in Riv. dir. sic. soc., 2016, 199 ss. (15) Trib. Ivrea 24 febbraio 2016 (ord.), in RGLNews, n. 2/2016, 10 s. (16) Da S. Giubboni, Il licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione dopo la legge Fornero e il Jobs Act, in WPCSDLE “Massimo D’Antona.IT”, 261/2015, 8-14. In proposito cfr. anche R. Voza, Sopravvenuta inidoneità psicofisica e licenziamento del lavoratore nel puzzle normativo delle ultime riforme, in Arg. dir. lav., 2015, I, 781 ss. 752 il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Dottrina Lavoro subordinato Dimissioni Dimissioni, nuova forma smaterializzata ad substantiam e diritto al ripensamento di Marco Frediani - Avvocato in Vasto Il nuovo regime delle dimissioni, oltre a complicare immotivatamente le cose a lavoratore e datore di lavoro, rappresenta una svolta giuridica sul concetto di forma ad substatiam di un atto giuridico e sull’irrevocabilità delle dichiarazioni unilaterali di volontà. Forma telematica ad substantiam Sino al 12 marzo 2016 la forma ad substantiam di un atto giuridico riconosciuta nel nostro ordinamento era la forma scritta, intesa di solito come atto materiale firmato di pugno dal titolare del diritto. A seguito del D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 151 l’unica forma lecita e legittima ed efficace per rendere le dimissioni è quella consegnata alle comunicazioni digitali o informatiche che dir si voglia sebbene debitamente certificate: “le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro sono fatte, a pena di inefficacia, esclusivamente con modalità telematiche su appositi moduli resi disponibili dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali” (art. 26). La smaterializzazione dell’atto giuridico cui affidare la dichiarazione di volontà pertanto si affianca alle tradizionali forme dell’atto pubblico e della scrittura privata sancite dall’art. 1350 c.c. Nella sostanza la comunicazione informatica o digitale della volontà si pone nel mezzo tra le due forma tradizionali: vale un po’ di più della scrittura privata e, forse, un po’ di meno dell’atto pubblico. La differenza, però attiene all’efficacia della nuova forma. Ed infatti laddove il decreto prevede le nuove dimissioni informatiche come unica forma valida e ammessa dall’ordinamento (e quindi interviene sulla validità del negozio giuridico) in realtà dichiara implicitamente l’inefficacia della scrittura (1) Art. 1, comma 2 “Per contratto di lavoro, ai fini del comma 1, si intendono tutti i contratti inerenti ai rapporti di lavoro il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 privata pur con il medesimo contenuto anche laddove il lavoratore non abbia alcun interesse alla prosecuzione degli effetti giuridici del rapporto. Se è pur vero che il problema ha sempre riguardato non tanto l’originalità della sottoscrizione quanto la genuinità della datazione e del contenuto della dichiarazione contenuta nelle dimissioni, la nuova forma, nell’eliminare la necessità della sottoscrizione in originale (richiesta nella previgente disciplina con ratifica in calce alla trasmissione telematica datoriale) la dà per accertata e certificata (e quindi non più necessaria) con l’utilizzo dei pin personali d’ingresso al portale INPS (ovvero attraverso l’utilizzo dei mediatori di turno), si concentra unicamente sul contenuto. A parere dello scrivente le problematiche connesse alla riferibilità al diretto interessato della dichiarazione di volontà trasmessa elettronicamente non trovano comunque soluzione anche e soprattutto laddove gestita da terzi. Il perimetro di applicazione Diversamente da quanto previsto dalla L. 17 ottobre 2007, n. 188, che disciplinava specifiche modalità per le dimissioni da rassegnare non solo da parte dei lavoratori subordinati in senso stretto ma anche da parte dei titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, di rapporti di associazione in partecipazione e dei titolari di contratti di lavoro di natura cooperativistica (1), il D.Lgs. n. subordinato di cui all’articolo 2094 del codice civile, indipendentemente dalle caratteristiche e dalla durata, nonché i con- 753 Sinergie Grafiche srl Dottrina Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Lavoro subordinato 151/2015, al pari della L. n. 92/2012, fa unicamente riferimento alla fattispecie del lavoro subordinato. Tanto è stato confermato dal Ministero del Lavoro nella risposta alla FAQ n. 4 con riferimento al punto 1.1 della circ. min. n. 12/2016. Pertanto l’introdotta compressione del principio della libertà di forma delle dichiarazioni di volontà incide esclusivamente nell’alveo del lavoro subordinato. La mancata formalizzazione telematica L’obbligatorietà della forma telematica, che vince sia sulla forma scritta che sul comportamento concludente del lavoratore, è stata ribadita dal Ministero del Lavoro con la FAQ 33 quale prima risposta ad una serie di quesiti formulati dai consulenti del lavoro: “Q. Se il lavoratore rassegna le proprie dimissioni e, nonostante i solleciti, non compila la prevista procedura online, il datore di lavoro come si deve comportare? A. Le dimissioni vanno rassegnate esclusivamente con il modello introdotto dal DM 15 dicembre 2015. Diversamente il datore di lavoro dovrà rescindere il rapporto di lavoro.” (2). Come però il datore di lavoro possa procedere senza alcuna insidia ad una valida risoluzione del rapporto non è dato sapere. Si dubita che la mancata formalizzazione telematica di dimissioni rese per iscritto possa di per sé stessa ricoprire valenza disciplinare, intercettando peraltro l’eventuale riconoscimento dell’indennità di preavviso. Difficilmente ipotizzabile sarebbe pure la contestazione di un’assenza ingiustificata a fronte di una dichiarazione di volontà risolutiva che, comunque, preclude l’esercizio del potere disciplinare sempreché non si voglia sposare la tesi estremista per cui qualsiasi comunicazione scritta del lavoratore tamquam non esset neanche a fini meramente giustificativi. È pur vero, però, che tale soluzione sarebbe speculare a quella ormai considerata adottabile nel caso in cui il lavoratore rifiuti la revoca del licenziamento comunicata ai sensi dell’art. 5, D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23. In tali casi, infatti, il lavoratore che non riprende servizio all’esito della revoca, ed in quanto “il rapporto di lavoro s’intende ripristinato senza soluzione di continuità”, viene considerato assente ingiustificato e pertanto perseguibile disciplinarmente. tratti di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, i contratti di collaborazione di natura occasionale, i contratti di associazione in partecipazione di cui all’articolo 2549 del codice civile per cui l’associato fornisca prestazioni lavorative e in cui i suoi redditi derivanti dalla partecipazione agli utili siano qualificati come redditi di lavoro autonomo, e i contratti 754 Ciò nonostante nei casi di forma richiesta ad substantiam la sua mancata osservanza determina la radicale nullità del negozio concluso. Pertanto la nullità delle dimissioni rese in “forma tradizionale” determinerebbe la persistenza del rapporto di lavoro. Il Ministero nella FAQ 33 suggerisce ai datori di lavoro, infatti, la rescissione e non la risoluzione del rapporto di lavoro. Sebbene una rescissione di carattere tecnico sia difficile da ipotizzare in questi casi, nella sostanza il Ministero suggerisce la praticabilità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo “per lesione”. Articolazione del recesso a parte, v’è da considerare che la procedura obbligatoria introdotta dall’art. 7, L. n. 604/1966 riformato per i licenziamenti oggettivi dilaterebbe estremamente i tempi di un evento risolutivo che in precedenza aveva natura istantanea. La forma diventa sostanza e prevale sulla volontà negoziale. Diritto al ripensamento e potestà di revoca dell’atto risolutorio La nuova normativa, inoltre continua a prevedere (3) un assai strano diritto al ripensamento proprio in origine del solo codice del consumatore (art. 26, comma 2). L’idea di fondo è la medesima: i consumatori come il lavoratore sono parti deboli del rapporto contrattuale e pertanto debbono essere meglio tutelati. In realtà introdurre un diritto al ripensamento in un atto unilaterale recettizio scardina il concetto stesso di dichiarazione di volontà e di diritto potestativo. A termine di codice civile l’atto giuridico può essere revocato solo se è comunicato al datore di lavoro prima che quest’ultimo abbia avuto notizia dell’atto di recesso (art. 1328 c.c.). Oggi per le dimissioni telematiche astrattamente “più sicure e genuine”, questo principio non vale più. Ho facoltà dopo una settimana sabbatica di revocare la mia dichiarazione e ripresentarmi legittimamente al lavoro. Possiamo distillarne due conseguenze: a) la dichiarazione di volontà consegnata ai flussi telematici non ha quella fermezza e definitività proprie della scrittura privata tradizionale; b) l’esercizio di un diritto potestativo esercitato attraverso la forma telematica, a differenza di quella fisica, può essere revocato. di lavoro instaurati dalle cooperative con i propri soci.”. (2) Sul sito www.cliclavoro.gov.it del 7 aprile 2016. (3) Il diritto al ripensamento era infatti stato già introdotto dalla L. 28 giugno 2012, n. 92 al comma 21 dell’art. 4 che permetteva di travolgere anche eventuali pattuizioni “aggiuntive”. il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Dottrina Lavoro subordinato A parte il fatto che tale nuovo panorama si scontra con i consolidati giurisprudenziali maturati sul punto (4), ci si domanda se scaduti i sette giorni per il ripensamento si possano ancora esperire le azioni di annullabilità per vizi del consenso (previste dall’art. 1324 c.c.) ovvero queste risultino precluse dall’esaurimento del termine “infrasettimanale” del comma 2 dell’art. 26. In verità un parallelo diritto di ripensamento la L. n. 92/2012 l’aveva introdotto in favore anche del datore di lavoro consentendo la revoca unilaterale del licenziamento senza necessità del consenso del lavoratore (5) (art. 1, comma 42 oggi riprodotto nell’art. 5 del D.Lgs. n. 23/2015). L’unico elemento da rispettare a tutt’oggi è di ordine temporale: la revoca per essere efficace deve intervenire entro 15 giorni dall’impugnazione del licenziamento presentata dal lavoratore. Nulla è previsto in ordine alla forma utile a rendere efficace e valida tale revoca ma è evidente che questa debba rivestire semplicemente la stessa forma dell’atto risolutivo. In tale prospettiva è facile avvedersi di un’asimmetria delle forme negoziali previste per una stessa tipologia di atti unilaterali: forma telematica per i prestatori e forma scritta per i datori. Tolleranza ed istituzionalizzazione dei comportamenti contraddittori Nella sostanza il nostro ordinamento ha introdotto in materia di lavoro il principio della libera disponibilità dell’effetto risolutivo. Tanto, come noto, rappresenta un’eccezione ai principi di teoria generale del diritto. Ed infatti un’elementare bisogno di buona fede e rispetto per gli affidamenti creati esige, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., che la dichiarazione risolutoria impegni il dichiarante. Sicché la disponibilità dell’effetto risolutivo non può non ritenersi comunque contraria a buona fede laddove il contegno di chi dapprima innesca il meccanismo risolutorio, manifestando di voler liberare l’altro contraente, intenda nuovamente obbligarlo. Né è possibile in alcun modo presumere, nei casi passati in rassegna nel paragrafo precedente, il consenso della controparte alla conservazione del contratto o un interesse alla sua prosecuzione. (4) Cass. 22 dicembre 2003, n. 19623, Varriale c. Poste Italiane S.p.a., in Giorn. dir. amm., 2004, n. 4, 415; Id., 29 agosto 2003, n. 12677, Giansante c. Soc. Poste italiane, in Gius, 2004, n. 4, 542. (5) Prima della Legge Fornero il datore di lavoro poteva pur il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 La ritrattazione della volontà risolutoria pone nel nulla la risoluzione o meglio la dichiarazione unilaterale di volontà estintiva precedentemente espressa. Ed infatti incide sull’effetto risolutivo solo indirettamente in quanto revoca la revoca del consenso originariamente prestato. Ciò, in termini generali, consente di escludere che il comportamento contraddittorio sia sempre censurabile non esistendo più il divieto assoluto di venire contra factum proprium. Ma l’infranto principio potrebbe determinare conseguenze chiaramente paradossali in quanto la revoca può essere utilizzata all’infinito: revoca della revoca della revoca e così via dicendo. È evidente che si tratta di una mera esasperazione retorica ma è pur vero che “qualsiasi arnese diventa un’arma se lo si maneggia bene”. Derive patologiche A parte i problemi organizzativi aziendali che il diritto al ripensamento comporta, vi è anche un aspetto legato ad un suo utilizzo contrario ai principi di buona fede e correttezza contrattuale che deve far riflettere. Si fa riferimento al caso del dipendente che per beneficiare di una settimana di ferie non concesse o difficili da ottenere ovvero per prolungarne la durata ovvero ancora per nascondere una misura di restrizione provvisoria della libertà disposta dall’Autorità Giudiziaria utilizzi le dimissioni revocabili come stratagemma per disporre unilateralmente la sospensione temporanea del rapporto. La prova della mala fede, e quindi un licenziamento disciplinare, sarebbe impossibile anche perché il ripensamento come le dimissioni sono atti acausali e come tali insindacabili. Non solo ma anche datori di lavoro non particolarmente corretti potrebbero indurre i propri fidi dipendenti (magari familiari) ad utilizzare le dimissioni a mo’ di fisarmonica per contenere l’esborso in chiaro in busta paga e la conseguente contribuzione. La preclusione delle dimissioni rese in sede giudiziale Inoltre la disciplina introdotta dal D.Lgs. n. 151/2015 sembrerebbe escludere la possibilità di rendere le dimissioni persino in sede giudiziale. Ed sempre revocare il licenziamento comminato ma era indispensabile che il lavoratore comunque prestasse il proprio consenso alla ricostituzione del rapporto. La revoca infatti si configurava quale nuova proposta di lavoro che necessitava dell’accettazione. 755 Sinergie Grafiche srl Dottrina Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Lavoro subordinato infatti il comma 7 dell’art. 26 esclude l’applicabilità della procedura telematica (oltre che per i rapporti di lavoro domestico) solo “nel caso in cui le dimissioni o la risoluzione consensuale intervengono nelle sedi di cui all’articolo 2113, quarto comma, del codice civile o avanti alle commissioni di certificazione di cui all’articolo 76 del decreto legislativo n. 276 del 2003”. Pertanto, facendo l’art. 2113 riferimento solo agli artt. 185, 410, 411, 412 ter e 412 quater, ne rimangono esplicitamente ed immotivatamente escluse le transazioni giudiziali ai sensi dell’art. 420 c.p.c. Tale problematica renderà sicuramente più complesse le conciliazioni di contenziosi che potevano essere risolti immediatamente con la risoluzione consensuale del rapporto o con la formalizzazione delle dimissioni. Ed infatti il primo comma dell’art. 26 parla di dimissioni “fatte, a pena di inefficacia esclusivamente con modalità telematiche”. Pertanto le dimissioni, al pari delle risoluzioni consensuali, affidate ad un verbale di conciliazione giudiziale sarebbero affette da “inefficacia” (6). Si potrebbe obiettare che nel verbale di conciliazione il problema sarebbe facilmente risolvibile mediante previsione di apposita clausola che imponga alla parte o alle parti l’adempimento telematico. Ma in ogni caso sino a che non venisse assolta tale formalità le dimissioni indubbiamente risulterebbero, comunque, tamquam non esset con problemi in ordine alla loro decorrenza ed ai pagamenti collegati. Per ovviare poi al pericolo non peregrino che, risolto il contenzioso ed abbandonata la causa, non venga dato seguito alla comunicazione telematica si potrebbe prevedere inoltre per il caso di inadempienza la risoluzione ipso iure del rapporto di lavoro. Ciò nonostante tali soluzioni appaiono sovrastrutture eccessive laddove il lavoratore trovasi in contesto protetto sia perché assistito da un tecnico del diritto di fiducia sia perché confortato dalla presenza di un giudice. In conclusione la risoluzione del rapporto, sia essa unilaterale o consensuale, non può più rappresentare, se non con le difficoltà pratiche sopra appena accennate, merce di scambio per la conciliazione del contenzioso. (6) Tanto è stato ribadito dalla circolare n. 12 del 4 marzo 2016 del Ministero del Lavoro: “La nuova modalità di cui all’articolo 26 del decreto legislativo numero 151 del 2015 si applica tutti i casi di recesso unilaterale del lavoratore e ai casi di ri- soluzione consensuale di cui all’articolo 1372, comma 1, del codice civile, per i quali si introduce la medesima ‘forma tipica’ del modulo adottato con il decreto ministeriale del 15 dicembre 2015.”. 756 il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Dottrina Controversie del lavoro Spese di giustizia Le spese di giustizia nel giusto processo del lavoro tra legge e prassi ministeriale di Vincenzo De Michele e Sergio Galleano (*) Nel 2011 il processo del lavoro, che prevedeva in base ad una norma del 1958 l’esonero da ogni spesa e tassa anche per le imprese e i datori di lavoro che richiedevano l’accesso alla magistratura specializzata, diventa soggetto all’obbligo del contributo unificato, secondo le disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia fissate dal d.P.R. n. 115/2002. Ma ciò avviene solo in ragione del superamento di una determinata soglia di reddito personale, sufficientemente elevata in guisa tale da garantire che la regola, per la gran parte delle parti ricorrenti davanti al giudice del lavoro, anche in Cassazione, sia quella della gratuità del processo, così come, iniquamente, il processo del lavoro è sempre gratuito per tutte le pubbliche amministrazioni. Gli Autori sostengono che la Circolare del 14 maggio 2012 del Ministero della Giustizia stravolge le disposizioni introdotte per regolamentare l’accesso non gratuito al processo del lavoro sia per i lavoratori che per le imprese, trasformando, con un’interpretazione contra legem in favore delle finanze erariali e della deflazione del contenzioso soprattutto in Cassazione, il processo speciale in giudizio iniquo e costoso nei confronti dei soggetti diversi dalle pubbliche amministrazioni, vere responsabili del proliferare delle cause e del caos giudiziario in materia di pubblico impiego e previdenza. Il contributo unificato per le parti private nel processo del lavoro secundum ius Prendiamo lo spunto dall’editoriale del prof. Miscione (1) a commento dello stato della giustizia civile attraverso la lettura che ne fa il Primo Presidente della Cassazione nella sua Relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario il 28 gennaio 2016, per affrontare un argomento che si lega, in un rapporto di causa ed effetto, alla segnalata crisi del processo del lavoro e alla difficoltà del sistema giurisdizionale interno di dare effettività e rapidità di risposte alle esigenze di tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori e delle imprese, soprattutto (*) N.d.R.: Il presente contributo è stato sottoposto, in forma anonima, al vaglio del Comitato di valutazione. (1) Cfr. M. Miscione, Nomofilachia, Sezioni Unite, “diritto vivente” (leggendo la Relazione 2016 del Primo Presidente della Cassazione), in questa Rivista, 2016, 4, 329. (2) L’articolo, prima modificato dalla L. n. 940/1959, è stato sostituito nell’attuale formulazione dall’art. 10 della L. n. 533/1973, di cui però rimangono vigenti soltanto i commi 1, 2 il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 nei confronti della pubblica amministrazione: le spese della giustizia del lavoro. La regola generale dell’esenzione da ogni spesa e tassa per i giudici del lavoro è enunciata nell’art. 1 della L. n. 319/1958 (2). La norma era stata abrogata in quanto inserita nella disposizione n. 1639 (3) di cui alla Tabella A allegata al D.L. n. 112/2008 tra le leggi da abrogare, ai sensi dell’art. 24 dello stesso decreto legge, convertito con modificazioni dalla L. n. 113/2008, con decorrenza dal centottantesimo giorno dal 22 agosto 2008. Immediatamente, però, l’art. 1, L. n. 319/1958 è stato “ripristinato” dall’art. 3, D.L. 22 dicembre 2008, n. 200 e connesso Allegato 2 e, quindi, sostanzialmente è stato sempre in vigore nei commi 1, 2 e 5 e 5, mentre i commi 3 e 4 sono stati abrogati dall’art. 299, d.P.R. n. 115/2002, con decorrenza dalla data di entrata in vigore del medesimo d.P.R. (3) V. sul punto M. Miscione, Gratuità fiscale o non del processo del lavoro, in questa Rivista, 2008, 12, 1191; D. Carpagnano, Come si cancella in punta di piedi il principio di gratuità del processo del lavoro e previdenziale, su www.cgil.it. 757 Sinergie Grafiche srl Dottrina Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Controversie del lavoro per quasi 38 anni nella formulazione introdotta dalla novella del 1973 di riforma del processo del lavoro con la totale gratuità fiscale, senza cioè l’applicazione del T.U. sulle spese di giustizia, di cui al d.P.R. n. 115/2002. Nel 2011 l’art. 37, comma 8, D.L. n. 98/2011 modifica l’art. 1, comma 1, L. n. 319/1958 con decorrenza dal 6 luglio 2011, per cui l’esenzione fiscale (dall’imposta di bollo, di registro e da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura) continua ad operare e quindi costituisce ancora la regola generale, senza limite di valore o di competenza, per tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi alle controversie individuali di lavoro o concernenti rapporti di pubblico impiego, per gli atti relativi ai provvedimenti di conciliazione dinanzi agli uffici del lavoro e della massima occupazione (ora Direzione territoriale del lavoro) o previsti da contratti o accordi collettivi di lavoro nonché alle cause per controversie di previdenza ed assistenza obbligatorie, salvo la deroga introdotta dalla norma d’urgenza, cioè “fatto salvo quanto previsto dall’articolo 9, comma 1-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115”. Infatti, l’art. 37, comma 6, D.L. n. 98/2011 con il n. 2 della lett. b) ha inserito l’art. 9, comma 1 bis, d.P.R. n. 115/2002 che testualmente dispone: “Nei processi per controversie di previdenza ed assistenza obbligatorie, nonché per quelle individuali di lavoro o concernenti rapporti di pubblico impiego le parti che sono titolari di un reddito imponibile ai fini dell’imposta personale sul reddito, risultante dall’ultima dichiarazione, superiore a tre volte l’importo previsto dall’articolo 76, sono soggette, rispettivamente, al contributo unificato di iscrizione a ruolo nella misura di cui all’articolo 13, comma 1, lettera a), e comma 3, salvo che per i processi dinanzi alla Corte di cassazione in cui il contributo è dovuto nella misura di cui all’articolo 13, comma 1”. In particolare, le tre ipotesi di assoggettamento al contributo unificato di iscrizione a ruolo dei processi per controversie di previdenza ed assistenza obbligatorie, nonché per quelle individuali di lavoro o concernenti rapporti di pubblico impiego, sono specificamente e distintamente indicate nell’art. 9, comma 1 bis, d.P.R. n. 115/2002, facendo riferimento a specifiche e distinte norme contenute nell’art. 13 dello stesso Testo unico delle spese di giustizia: - euro 43 per tutti i processi per controversie di previdenza ed assistenza obbligatorie (compresi i procedimenti sommari di cui al Libro IV titolo I c.p.c., cioè ricorsi per decreto ingiuntivo e relative 758 opposizioni, ricorsi cautelari), “salvo quanto previsto dall’art. 9, comma 1-bis”, cioè salvo i processi dinanzi alla Corte di Cassazione in cui il contributo è dovuto nella misura di cui all’art. 13, comma 1 [art. 13, comma 1, lett. a)], e, quindi, ad esempio, se si fa riferimento al caso più frequente delle cause di valore indeterminabile o di valore superiore a euro 26.000 e fino ad euro 52.000, sarà pari ad euro 518 per i soli giudizi dinanzi alla Corte di cassazione, come previsto dall’art. 13, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 115/2002; - per le controversie individuali di lavoro o concernenti rapporti di pubblico impiego (compresi i procedimenti sommari di cui al Libro IV titolo I c.p.c., cioè ricorsi per decreto ingiuntivo e relative opposizioni, ricorsi cautelari) il contributo è la metà di quanto disposto dall’art. 13, comma 1, d.P.R. n. 115/2002, “salvo quanto previsto dall’art. 9, comma 1-bis”, cioè salvo per i processi dinanzi alla Corte di cassazione in cui il contributo è dovuto nella misura di cui all’art. 13, comma 1 (art. 13, comma 3), e, quindi, ad esempio, sempre facendo riferimento allo scaglione delle cause di valore indeterminabile, sarà pari ad euro 259 per i giudizi sia di primo che di secondo grado e ad euro 518 per i soli processi dinanzi alla Corte di cassazione; - per tutti i processi concernenti le controversie individuali di lavoro o concernenti rapporti di pubblico impiego, nonché le controversie di previdenza ed assistenza obbligatorie dinanzi alla Corte di cassazione, si verserà (soltanto) il contributo di euro 518 se ci manteniamo nello scaglione delle cause di valore indeterminabile (art. 13, comma 1, e art. 9, comma 1 bis, d.P.R. n. 115/2002). Tutto sommato equa appare la soglia soggettiva “economica” entro la quale “continuare” ad aver diritto all’esenzione dalle spese di giustizia per tutte le persone fisiche (e per quelle giuridiche) che chiedano accesso alla giustizia del lavoro, come individuata dalla norma-eccezione dell’art. 9, comma 1 bis, d.P.R. n. 115/2002 rispetto alla regola della gratuità fiscale prevista dall’art. 1, comma 1, L. n. 319/1958: la parte ricorrente deve essere titolare di un reddito imponibile ai fini dell’imposta personale sul reddito, risultante dall’ultima dichiarazione, non superiore a tre volte l’importo previsto dall’art. 76, d.P.R. n. 115/2002 per poter accedere al gratuito patrocinio, che attualmente, in base al decreto del Ministero della Giustizia del 7 maggio 2015, è pari ad euro 11.528,41. Quindi, soltanto superando il reddito “personale” (e non del nucleo familiare) annuale di euro 34.585,23, quale risultante dall’ultima dichiarazione dei redditi, le persone fisiche e quelle giuridiche il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Dottrina Controversie del lavoro Meno equo il processo del lavoro appare nel caso in cui parte processuale sia la pubblica amministrazione, perché l’art. 158, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 115/2002 prevede che l’amministrazione pubblica è ammessa alla prenotazione a debito delle spese del contributo unificato, se a carico della stessa amministrazione. Quindi, per il privato e per le imprese il contributo unificato si versa per accedere alla giustizia del lavoro se si supera il reddito “personale” annuale di euro 34.585,23, mentre per le pubbliche amministrazioni continua ad operare la regola della gratuità fiscale, come confermato dalle Sezioni unite della Cassazione, che, come già avvenuto nelle sentenze n. 4911-4912-4913-4914-4915-5072/2016 (4) sul precariato pubblico, ritengono giustificato un trattamento differenziato tra parte privata e pubblica amministrazione sul piano degli oneri e dei costi processuali. Afferma, infatti, la S.C. (5) sulla portata sostanziale dell’art. 158, comma 1, d.P.R. n. 115/2002 come regola generale di gratuità fiscale di tutti i processi civili in cui la pubblica amministrazione sarebbe la parte onerata del versamento del contributo unificato e degli altri oneri processuali: “È principio generale dell’assetto tributario che lo Stato e le altre Amministrazioni parificate non sono tenute a versare imposte o tasse che gravano sul processo per la evidente ragione che lo Stato verrebbe ad essere al tempo stesso debitore e creditore di se stesso con la conseguenza che l’obbligazione non sorge. Si tratta, quindi, sostanzialmente di una esenzione fiscale, ma che vale esclusivamente nei confronti dell’amministrazione pubblica. Difatti nella ipotesi in cui la controparte è soccombente relativamente alle spese, la stessa è tenuta al pagamento in favore dell’erario delle spese prenotate a debito analogamente a quanto sarebbe avvenuto nei confronti di qualsiasi altra parte vittoriosa. L’istituto della prenotazione a debito, pertanto, se per un verso esenta la pubblica amministrazione dal pagamento degli importi delle imposte e delle tasse - ivi compresi quelli afferenti il contributo unificato - che gravano sul processo assolve, altresì, alla funzione, sotto il profilo amministrativo contabile, di evitare che di detta esenzione possa giovarsi la controparte in caso di soccombenza e di sua condanna alle spese.”. Pare evidente che tale normativa di favore non solo deresponsabilizza le pubbliche amministrazioni che sono parti processuali nei giudizi del lavoro (e civili e tributari, in generale), perché consente di impugnare sentenze di primo e secondo grado sfavorevoli senza oneri economici e, quindi, senza far scattare i presupposti per una valutazione di responsabilità del dirigente che abbia autorizzato la prosecuzione del giudizio, nonostante la possibile temerarietà del gravame e il rischio di una successiva e più onerosa soccombenza, ma costituisce il presupposto culturale e giuridico per alimentare lo stesso contenzioso del lavoro, particolarmente in Cassazione, dove invece le parti private devono sopportare significativi oneri fiscali che, lo vedremo, sono stati surrettiziamente estesi dal Ministero della Giustizia anche a quei soggetti nei cui confronti avrebbe dovuto operare la regola della gratuità fiscale. Sicuramente questa situazione di favore processuale nei confronti delle pubbliche amministrazioni appare in violazione dell’art. 111 Cost., dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (6), perché altera vistosamente il principio della parità delle armi nel giusto processo, discrimi- (4) Cass., SS.UU., Pres. Rovelli - Est. Amoroso, 14 marzo 2016, nn. 4911 (Comune di Massa c. Lutri ed altri), 4912 (Comune di Massa c. Salvaggio ed altri), 4913 (Comune Massa c. Martelli ed altri), 4914 (Comune di Massa c. Bertini) e 4915 (Milanta c. Comune di Montignoso); 15 marzo 2016, n. 5072 (Azienda ospedaliera universitaria S. Martino di Genova c. Marrosu e Sardino). Il prof. Miscione nell’editoriale di aprile 2016 (cit.) fa riferimento alla più nota delle sentenze, la “Marrosu-Sardino” del 15 aprile 2016, n. 5072, l’unica che contiene la motivazione del principio di diritto enunciato anche in altre quattro decisioni depositate il giorno prima (nn. 4911-49124913-4914/2016), ma con motivazione che rimanda per relationem a quella che verrà depositata il giorno dopo, la n. 5072/2016! Evidentemente la funzione “copia-incolla” nel computer dell’Estensore aveva subito un attacco di virus informatico da ingiusto processo. Fortunatamente, la Corte costituzionale con la sentenza del 20 luglio 2016, n. 187 (Pres. Grossi, Est. Coraggio) sui precari della scuola sembra aver cassato l’incredibile pseudo-principio di diritto, inventato dalla Suprema Corte, del “danno comunitario” che esclude la conversione dei contratti a termine nel pubblico impiego in caso di abusivo utilizzo. (5) Cass., SS.UU., sent. 8 maggio 2014, n. 9938. (6) Su un’applicazione dell’art. 47 della Carta di Nizza a fattispecie di eccessivo onere fiscale per l’accesso alla giustizia in caso di azione di risarcimento dei danni per violazione del dirit- hanno l’obbligo di versare il contributo unificato, a seconda del valore della controversia (salvo per quelle previdenziali ed assistenziali) nella stessa misura ridotta alla metà per le fasi di merito [art. 13, comma 1, lett. a), e comma 3, d.P.R. n. 115/2002], nella misura piena per il solo giudizio in Cassazione (art. 13, comma 1, d.P.R. n. 115/2002). L’iniqua gratuità fiscale del processo del lavoro per le PP.AA. il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 759 Sinergie Grafiche srl Dottrina Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Controversie del lavoro nando l’accesso alla giustizia pubblica a sfavore della parte privata. Il contributo unificato applicato alle parti private nel processo del lavoro contra ius Nessun rilievo ai fini della modifica del contributo unificato per i processi del lavoro, come innanzi ricostruito nelle sue “originarie” e attuali condizioni soggettive e oggettive di applicazione, avrebbe dovuto avere l’introduzione, con l’art. 28, comma 1, L. n. 183/2011, con decorrenza dal 1° gennaio 2012, dell’art. 13, comma 1 bis, d.P.R. n. 115/2002, in base al quale il contributo di cui all’art. 13, comma 1, T.U. sulle spese di giustizia è aumentato della metà per i giudizi di impugnazione ed è raddoppiato per i processi dinanzi alla Corte di cassazione. Infatti, nonostante la legge di stabilità n. 183/2011 intervenga pochi mesi dopo il D.L. n. 98/2011, che ha introdotto l’art. 9, comma 1 bis, d.P.R. n. 115/2002, questa regola speciale per i processi del lavoro contenente le eccezioni alla generale gratuità fiscale di cui all’art. 1, comma 1, L. n. 319/1958 continua ad operare senza modifiche, regolamentando così tutti i gradi e tutte le fasi del giudizio, compreso l’appello (il cui contributo unificato è lo stesso di quello da versare per il primo grado, senza nessuna maggiorazione) e il giudizio per cassazione (il cui contributo unificato è quello da versare ai sensi dell’art. 13, comma 1, d.P.R. n. 115/2002, senza il raddoppio previsto dall’art. 13, comma 1 bis, dello stesso decreto, che opera soltanto per i processi civili non di lavoro). Il dato è testuale e logico: se il legislatore della L. n. 183/2011 avesse voluto elevare il costo dei processi del lavoro in secondo grado e in Cassazione nella misura prevista dall’art. 13, comma 1 bis, d.P.R. n. 115/2002 contestualmente introdotto, avrebbe dovuto modificare l’art. 9, comma 1 bis, d.P.R. e sostituire per il giudizio di appello il richiamo dell’art. 13, comma 1, lett. a) (per i giudizi previdenziali) e dell’art. 13, comma 3 (per i giudizi di lavoro e le controversie in materia di pubblico impiego), mentre per il giudizio per cassazione avrebbe dovuto intervenire sulla specifica previsione dell’applicazione dell’art. 13, comma 1 (e non comma 1 bis), d.P.R. n. 115/2002. Invece, nessun intervento modificativo è stato fatto in tutte le norme in cui viene richiamato l’art. 9, comma 1 bis, d.P.R. n. 115/2002, come appunto to dell’UE, v. Corte di Giustizia UE, Sez. II, sent. 22 dicembre 2010 in causa C-279/09 DEB. L’Avvocato generale è stato l’italiano Mengozzi, che ha presentato in data 2 settembre 2010 760 nel contesto dell’art. 1, comma 1, L. n. 319/1958 e dell’art. 13, comma 3, d.P.R. n. 115/2002, oltre che, naturalmente, all’interno della stessa norma speciale sulla regolamentazione delle spese giudiziali nel processo del lavoro quando non opera la gratuità fiscale. Questo comporta anche la non applicazione al processo del lavoro in sede di appello o in Cassazione della previsione dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. n. 115/2002, introdotto dall’art. 1, comma 17, L. n. 228/2012, che dispone che, quando l’impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, secondo quanto previsto dall’art. 13, comma 1 bis, d.P.R. n. 115/2002, norma quest’ultima, come precisato, inapplicabile al contenzioso del lavoro in quanto non richiamata dall’art. 9, comma 1 bis, T.U. sulle spese di giustizia. Viceversa, come vedremo, la circolare del Ministero della Giustizia del 14 maggio 2012, n. 65934 (e, soprattutto, la prassi amministrativa che ne è derivata), che interviene ad interpretare le disposizioni contenute nell’art. 37, D.L. n. 98/2011 in materia di spese di giustizia, precisa che anche i commi 1 bis e 1 quater dell’art. 13 del d.P.R. n. 115/2002 si applicano al contenzioso del lavoro e previdenziale, accentuando quella alterazione del giusto processo già resa manifesta dalla gratuità fiscale concessa a tutte le pubbliche amministrazioni. L’alterazione delle regole sulle spese di giustizia nel processo del lavoro nella prassi amministrativa La circ. min. n. 65934/2012, in realtà, parte già con una lente interpretativa sbagliata, ritenendo sostanzialmente che, con l’entrata in vigore delle modifiche al d.P.R. n. 115/2002 introdotte dal D.L. n. 98/2011, la gratuità fiscale nel processo del lavoro sia l’eccezione, mentre la regola diventi quella del costo, seppure ridotto, da sostenere per affrontare (anche) il processo del lavoro. Partendo da un’ottica distorta, che è quella erariale e di finanza pubblica (con nessuna potenzialità deflattiva, dal momento che l’accesso al processo delle pubbliche amministrazioni è gratuito), il ministero ha stravolto i requisiti soggettivi di assoggetconclusioni scritte. La domanda di pronuncia pregiudiziale era stata sollevata dal Kammergericht di Berlino con ordinanza del 30 giugno 2009. il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Dottrina Controversie del lavoro tamento al contributo soggettivo delle parti private che ricorrono alla giustizia del lavoro ritenendo arbitrariamente e contra ius che il richiamo contenuto nell’art. 9, comma 1 bis, d.P.R. n. 115/2002 al superamento di tre volte l’importo previsto dall’art. 76, comma 1, dello stesso decreto per poter accedere al gratuito patrocinio debba essere “inteso” come applicazione dell’intero art. 76 e delle condizioni ivi previste per poter essere sostenuti anche economicamente dallo Stato nelle spese processuali e negli onorari da corrispondere al proprio difensore per tutelare i propri diritti pur essendo in uno stato di indigenza economica. In conseguenza di questa cattiva e illecita interpretazione che stravolge il dato letterale normativo, il reddito della parte che chiede la tutela giudiziaria nel processo del lavoro è diventato il reddito del nucleo familiare previsto per il riconoscimento del gratuito patrocinio dall’art. 76, comma 2, d.P.R. n. 115/2002 (e non per tutte le ipotesi, perché quando sono oggetto della causa diritti della personalità ovvero nei processi in cui gli interessi del richiedente sono in conflitto con quelli degli altri componenti il nucleo familiare con lui conviventi, si tiene conto soltanto del reddito personale, come previsto dallo stesso art. 76, comma 4). L’effetto dell’alterazione delle (chiare) regole da applicare è che da un lato sono state illegittimamente escluse le persone giuridiche dal diritto all’esenzione fiscale per aver legato le condizioni del reddito entro cui continuare a beneficare della gratuità fiscale a quelle del nucleo familiare e non al reddito “personale” risultante dall’ultima dichiarazione dei redditi, come letteralmente previsto dall’art. 9, comma 1 bis, d.P.R. n. 115/2002; dall’altro la platea delle persone fisiche che mantengono il diritto all’accesso gratuito alla giustizia del lavoro si è notevolmente ridimensionata, proprio perché si deve tener conto del reddito del nucleo familiare e giustificare l’esonero con autodichiarazione di responsabilità per dichiarazioni mendaci e modulistica (con copia del documento di identità del richiedente), che sono previsti solo per il gratuito patrocinio, mentre per l’art. 9, comma 1 bis, d.P.R. n. 115/2002 l’unica documentazione giustificativa per mantenere lo status di soggetto protetto dai costi di giustizia è l’ultima dichiarazione dei redditi personali. La sconcertante prassi amministrativa che viola le regole del giusto processo si estende anche alle condizioni oggettive di applicazione delle norme in subiecta materia, perché, incredibilmente, nella circolare ministeriale del 2012 si afferma che soltanto per le cause previdenziali vi sia, in caso di ricorso a il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 procedimenti sommari come decreti ingiuntivi e ricorsi cautelari, l’applicazione della metà del contributo unificato di 43 euro previsto dall’art. 13, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 115/2002, ai sensi dell’art. 13, comma 3, d.P.R., mentre detta riduzione non applicherebbe nelle cause di lavoro, comprese quelle di pubblico impiego. Per confermare la coerenza di questa tesi, che non tiene conto del chiaro testo dell’art. 9, comma 1 bis, d.P.R. n. 115/2002 - che non distingue, per i processi del lavoro, tra giudizi di primo e di secondo grado e tra processi a cognizione ordinaria e a cognizione sommaria e quindi non consente nessuno spazio all’interpretazione ministeriale innanzi rappresentata -, il Ministero afferma che anche l’INPS nella cause previdenziali, quando è parte attrice o ricorrente, è assoggettato all’obbligo contributivo. Non è così, evidentemente, perché l’Istituto previdenziale è (ancora, almeno formalmente) una pubblica amministrazione e gode della gratuità fiscale riconosciuta dall’art. 158, d.P.R. n. 115/2002 e dalla giurisprudenza costante delle Sezioni Unite. La “mobilità” interna all’art. 13, d.P.R. n. 115/2002 dell’applicazione di norme in materia di spese di giustizia nel processo del lavoro che, invece, hanno una loro logica e un loro campo di applicazione ben delimitato dall’art. 9, comma 1 bis del decreto, comporta, nell’interpretazione ministeriale e nella conseguente prassi amministrativa degli Uffici giudiziari lo stravolgimento dello stesso art. 9, comma 1 bis con i seguenti effetti di quantificazione del contributo unificato in contrasto con il dettato normativo: - per tutte le cause in Cassazione in materia di lavoro e previdenza si versa il contributo unificato previsto dall’art. 13, comma 1 bis, d.P.R. n. 115/2002, cioè il doppio del contributo di cui all’art. 13, comma 1, disapplicando senza ragioni la seconda parte dell’art. 9, comma 1 bis, che invece consente la gratuità fiscale anche nei giudizi di legittimità nel caso di non superamento del limite e, comunque, impone in questo caso, cioè dopo il superamento del limite reddituale per aver diritto all’esonero, il contributo ordinario nelle misure previste dall’art. 13, comma 1, e non quello del successivo comma 1 bis; - per le cause in sede di appello in materia di lavoro, compreso il pubblico impiego e con esclusione di quelle previdenziali, si versa il contributo unificato previsto dall’art. 13, comma 1 bis, d.P.R. n. 115/2002, cioè il contributo ordinario di cui all’art. 13, comma 1 maggiorato della metà, così disapplicando la prima parte dell’art. 9, comma 1 bis, che 761 Sinergie Grafiche srl Dottrina Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Controversie del lavoro Per fare sintesi e concludere, la questione del precariato pubblico decisa dalle sei sentenze delle Sezioni Unite del 14-15 marzo 2016 (7) è esemplare come il peggior esempio di (in)giusto processo del lavoro, anche per quanto riguarda il pagamento delle spese di giustizia. In particolare, in una delle sei cause discusse all’udienza del 1° dicembre 2015 (decisa con la sent. n. 4915/2016) il ricorso per cassazione era stato proposto dalla lavoratrice, che aveva lavorato come educatrice di asilo nido per il tramite di graduatorie selettive alle dipendenze del Comune di Montignoso con contratti a tempo determinato dal 7 gennaio 2009 al 30 giugno 2009, dal 16 novembre 2009 al 22 dicembre 2009 e dall’11 gennaio 2010 al 30 giugno 2010. I “legittimi” contratti a termine (in quanto stipulati senza violazione di norme imperative di legge, ma attraverso procedure selettive) erano stati impugnati per mancanza di ragioni oggettive in quanto il servizio espletato era legato a carenze non temporanee di organico mascherate dalla copertura finanziaria regionale, quindi per violazione dell’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 368/2001 con richiesta di costituzione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro sin dal primo contratto illecito o irregolare. Nei primi due gradi di giudizio la domanda era stata rigettata per infondatezza. Nella memoria ex art. 378 c.p.c. la lavoratrice ricorrente per cassazione ha proposto otto domande pregiudiziali Ue ai sensi dell’art. 267, comma 3, TUEF, una delle quali sulla nozione comunitaria di ragioni oggettive, per verificare se la nozione di “ragioni obiettive” già enunciata dalla sentenza Adeneler della Corte di Giustizia, deve essere interpretata nel senso che tale disposizione osta all’adozione, da parte di uno Stato membro, di una norma quale l’art. 1, comma 1, D.Lgs. n. 368/2001 che introduce una clausola generale per la legittima apposizione del termine, che consente che l’utilizzazione di contratti di lavoro a tempo determinato sia giustificata da una qualsiasi ragione anche non temporanea, di natura finanziaria e organizzativa del datore di lavoro pubblico come nella fattispecie di causa. L’Avvocato generale Jääskinen nelle conclusioni della causa Jansen (8) aveva affermato (punto 58) che le ragioni “finanziarie” per giustificare l’apposizione di un termine contrattuale al lavoro pubblico potrebbero vanificare il principio guida secondo il quale i contratti a tempo indeterminato devono predominare e potrebbe mettere a repentaglio l’equilibrio tra gli interessi in gioco quale concepito dal diritto dell’Unione, in quanto tali disposizioni concederebbero ai datori di lavoro del settore pubblico una troppo grande facilità di (7) Cass., SS.UU., Pres. Rovelli - Est. Amoroso, 14 marzo 2016, nn. 4911 (Comune di Massa c. Lutri ed altri), 4912 (Comune di Massa c. Salvaggio ed altri), 4913 (Comune Massa c. Martelli ed altri), 4914 (Comune di Massa c. Bertini) e 4915 (Milanta c. Comune di Montignoso); 15 marzo 2016, n. 5072 (Azienda ospedaliera universitaria S.Martino di Genova c. Mar- rosu e Sardino). (8) Presentate il 15 settembre 2011 nella causa C-313/10, che non è stata definita dalla Corte di Giustizia perché l’amministrazione pubblica tedesca ricorrente davanti al giudice del rinvio ha rinunciato all’appello dopo le conclusioni negative (per la sua posizione processuale) dell’avvocato generale. prevede che per tutti i giudizi sia di primo che di secondo grado, compresi quelli sommari, in caso di superamento del limite reddituale per mantenere il diritto alla gratuità fiscale, si applica soltanto l’art. 13, comma 3, d.P.R. n. 115/2002, cioè il contributo ordinario di cui all’art. 13, comma 1 ridotto della metà; - per le cause in sede di appello in materia previdenziale, si versa il contributo unificato previsto dall’art. 13, comma 1, lett. a), e comma 1 bis in combinato disposto, d.P.R. n. 115/2002, cioè il contributo ordinario di cui all’art. 13, comma 1, lett. a) maggiorato della metà, così disapplicando la prima parte dell’art. 9, comma 1 bis, che prevede che per tutti i giudizi sia di primo che di secondo grado, compresi quelli sommari, in caso di superamento del limite reddituale per mantenere il diritto alla gratuità fiscale, si applica per questa tipologia di controversie soltanto l’art. 13, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 115/2002, pari ad euro 43; - per le tutte le cause in materia di lavoro e di previdenza sia in sede di appello che in Cassazione, in caso di soccombenza della parte non avente diritto alla gratuità fiscale (e quindi con esclusione delle pubbliche amministrazioni), si versa il doppio del contributo unificato utilizzato per instaurare la lite, applicando illegittimamente l’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. n. 115/2002, così disapplicando l’art. 9, comma 1 bis che disciplina esaustivamente il regime delle spese di giustizia al di fuori del regime di gratuità fiscale per tutte le controversie di lavoro e di previdenza, rinviando all’art. 13, comma 1, lett. a) per quelle previdenziali tranne i giudizi di cassazione, all’art. 13, comma 3, per quelle di lavoro tranne i giudizi di cassazione, all’art. 13, comma 1 per i soli giudizi di cassazione. Conclusioni: rimedi per tornare al giusto processo del lavoro e alla deflazione del contenzioso seriale nei confronti dello Stato 762 il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Dottrina Controversie del lavoro accesso ad una successione di contratti a tempo determinato, considerando che mansioni perfettamente identiche possono essere espletate dai dipendenti del settore pubblico e da quelli che lavorano nel settore privato (punto 59). La Corte di cassazione a Sezioni Unite con la sent. n. 4915/2016 ha rigettato il ricorso della lavoratrice Milanta “nel merito”, ritenendo legittimi i contratti a tempo determinato stipulati per ragioni finanziarie, condannandola alle spese del giudizio, compreso il versamento del doppio del contributo unificato ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. n. 115/2002. Per tornare all’esempio della lavoratrice tedesca Jansen nella causa C-313/10, il giudice del lavoro in primo grado aveva già riqualificato a tempo indeterminato un unico rapporto di lavoro a termine “illegittimo” con profilo professionale di addetta ai servizi di cancelleria presso l’amministrazione giudiziaria del Land NordrheinWestfalen dal 12 dicembre 2005 al 30 giugno 2006, con contratto giustificato da stanziamenti di bilancio temporaneamente disponibili ai sensi dell’art. 7, par. 3, della legge finanziaria del Land (v. conclusioni dell’Avvocato generale Jääskinen, punto 20). Dopo le conclusioni dell’Avvocato generale nel giudizio pregiudiziale, come detto, il Land Nordrhein-Westfalen ha rinunziato all’appello e la lavoratrice Jansen lavora stabilmente presso il datore di lavoro pubblico. La Corte di cassazione nella sent. n. 4915/2016 tace sulla proposizione delle otto questioni pregiudiziali UE. Con sentenza dell’8 aprile 2014 nel caso Dhabhi n. 17120/09 la Cedu ha constatato nei confronti dello Stato italiano la violazione dell’art. 6 della Carta EDU, relativo al diritto ad un equo processo, per non avere la Cassazione motivato il suo rifiuto a sollevare la questione pregiudiziale UE richiesta dal ricorrente come Giudice di ultima istanza, ai sensi dell’art. 267, comma 3, TFUE, liquidando altresì l’equo indennizzo per la violazione dell’art. 14 Cedu e il principio di equivalenza e non discriminazione. Analoga sentenza di condanna nei confronti dell’Italia, sempre a causa del mancato rinvio pregiudiziale della Cassazione, è la decisione Schipani del 21 luglio 2015, n. 38369/2009, in questo caso senza liquidazione dell’equo indennizzo. Analogo principio è stato enunciato dalla Corte di giustizia nella sentenza Ferreira da Silva e Brito (9), stigmatizzando la decisione della Cassazione portoghese, in materia di trasferimento di azienda, di non disporre il rinvio pregiudiziale UE e, anzi, di motivare in maniera errata sulla chiarezza interpretativa della giurisprudenza comunitaria sulla questione, così legittimando l’azione di risarcimento dei danni proposta dai lavoratori nei confronti dello Stato per manifesta violazione del diritto comunitario e dell’art. 267, comma 3, TFUE commessa dal Giudice di ultima istanza, seguendo le indicazioni della sentenza Francovich (10) della Corte di Giustizia UE. Quindi, l’educatrice di asilo comunale italiana che non ha trovato giustizia nell’ordinamento interno per l’oggettiva ingiustizia, anche sotto il profilo delle spese processuali, del processo del lavoro soprattutto quando parte della controversia è un’amministrazione pubblica, avrà la possibilità di chiedere il risarcimento dei danni subiti sia davanti alla Cedu sia davanti al giudice ordinario italiano per la manifesta violazione dell’art. 267, comma 3, TUEF, dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dell’art. 6 Cedu commessa dalla S.C. come Giudice di ultima istanza nella sent. n. 4915/2016. Identici rimedi potranno essere esperiti da decine di migliaia di lavoratori precari nel pubblico impiego, che si riterranno beffati dalla liquidazione del risarcimento del danno per abusivo utilizzo dei contratti a tempo determinato, nel principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite nelle sentenze nn. 4911-4912-4913-4914/2016 (senza motivazione, e quindi con ulteriore violazione delle regole del giusto processo) e nella sent. n. 5072/2016, l’unica decisione “motivata”. L’ingiusto processo del lavoro provoca sempre la moltiplicazione esponenziale del contenzioso seriale nei confronti della pubblica amministrazione. Forse è giunto il momento per la giurisdizione di cambiare atteggiamento culturale nei confronti del processo del lavoro, per garantire che lo Stato e le pubbliche amministrazioni non ricevano (più) quei privilegi che si traducono in sostanziale impunità degli errori organizzativi e degli illeciti commessi nei rapporti civilistici, che a loro volta producono alle finanze erariali più danni degli apparenti (e illeciti sulle spese processuali, che vanno dunque restituiti alle parti private che li hanno subiti) benefici economici ricevuti dalla prassi amministrativa e da quella giudiziaria. (9) Corte di Giustizia UE, sent. 9 settembre 2015, causa C160/14 Ferreira da Silva e Brito ed altri c. Stato portoghese. (10) Corte di Giustizia CE, Grande Sez., sent. 19 novembre 1991, in cause riunite C-6/90 e C-9/90 Andrea Francovich e Danila Bonifici e altri contro Repubblica Italiana. il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 763 Sinergie Grafiche srl Dottrina Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Rapporto di lavoro Età pensionabile Prosecuzione del rapporto di lavoro oltre l’età pensionabile: nodi irrisolti e spunti di riflessione di Giovanna Pistore - Dottoranda di ricerca nelle Università di Padova e Siviglia (*) L’articolo esamina la disciplina dell’art. 24, comma 4, D.L. n. 201/2011, che ha introdotto per i lavoratori dipendenti la possibilità di proseguire la propria attività lavorativa con il regime di stabilità sino al settantesimo anno d’età. Sono molteplici, tuttavia, i profili controversi: l’individuazione dei soggetti interessati, la natura della situazione giuridica in cui versa il lavoratore, la qualificazione del licenziamento intimato per raggiunti limiti d’età. Recentemente la S.C. si è pronunciata in materia, ma ancora molte restano le questioni insolute che richiederebbero un’ulteriore opera chiarificatrice. Ormai sono passati anni dalla difficile estate del 2011, quando il legislatore ha messo mano al regime pensionistico cercando di porre un argine all’abnorme spesa previdenziale, per “garantire il rispetto, degli impegni internazionali e con l’UE, dei vincoli di bilancio, la stabilità economico-finanziaria e (...) rafforzare la sostenibilità di lungo periodo del sistema (...) (1)”. Tra le varie norme adottate, l’art. 24, comma 4, D.L. n. 201/2011 (2), convertito dalla L. n. 214/2011, il quale, dopo aver stabilito l’innalzamento dell’età pensionabile, prevede che “il proseguimento dell’attività lavorativa è incentivato, fermi restando i limiti ordinamentali dei rispettivi settori di appartenenza, dall’operare dei coefficienti di trasformazione calcolati fino all’età di settant’anni (...). Nei confronti dei lavoratori dipendenti, l’efficacia delle disposizioni di cui all’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 e successive modificazioni opera fino al conseguimento del predetto limite massimo di flessibilità”. Norma, questa, che assume valenza trasversale, avendo ripercussioni non solo sul piano previden(*) N.d.R.: Il presente contributo è stato sottoposto, in forma anonima, al vaglio del Comitato di valutazione. (1) Art. 24, comma 1, D.L. n. 201/2011. (2) In via generale, sulla riforma pensionistica, P. Sandulli, Il sistema pensionistico tra una manovra e l’altra, in Rivista del Di- 764 ziale, ma anche relativamente al rapporto individuale di lavoro. Il testo di legge sembra conciso, ma rivela un’architettura contorta irta di dubbi che stentano a diventare certezze. A chi si applica la nuova disciplina? Il primo dei numerosi problemi da affrontare riguarda l’individuazione dei soggetti interessati dalla nuova disciplina. L’operazione si rivela non agevole: il lacunoso dato normativo apre a posizioni nettamente contrastanti, basate su una diversa considerazione letterale e teleologica della legge. Dal punto di vista temporale, ci si chiede se la norma abbia un’efficacia generalizzata, o al contrario risultino esclusi i lavoratori per cui non operano le nuove norme pensionistiche, poiché in possesso dei requisiti per le pensioni di vecchiaia o di anzianità entro il 31 dicembre 2011. Alcune pronunce ritengono che il comma 4 dell’art. 24 riguarderebbe, nel suo complesso, solo i lavoratori che conseguano i requisiti per l’accesso alla pensione a partire dal 1° gennaio 2012 (3). Né, d’altro canto, sarebbe possibile opinare diversaritto della Sicurezza Sociale, 2012, 1, 1-32; M. Cinelli, La riforma delle pensioni del “Governo tecnico”. Appunti sull’art. 24 della legge n. 214 del 2011, Riv. it. dir. lav., 2012, 2, 385. (3) App. Torino 24 ottobre 2013, n. 1141, in www.dplmodena.it: il riferimento, nel primo paragrafo dell’art. 24, comma 4, il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Dottrina Rapporto di lavoro mente considerando il successivo comma 14, per cui nei confronti dei soggetti che maturino i requisiti entro il 31 dicembre 2011 si applicano le disposizioni in materia di accesso e decorrenze vigenti prima della data di entrata in vigore della riforma ma si nulla dice, invece, circa la prosecuzione del rapporto: il fatto che venga delimitata l’operatività di determinate previsioni non consente di interpretare estensivamente altre norme attinenti a profili diversi, nel momento in cui le stesse indichino in maniera espressa la loro applicabilità a coloro che conseguano il diritto a pensione secondo la nuova normativa. Altro filone giurisprudenziale (4), e così parte della dottrina (5), opta per un’interpretazione estensiva. Sul piano testuale, si afferma che gli incisi del comma 4 relativi alla prosecuzione del rapporto non indicano alcuna esclusione, risultando quindi operanti per tutti coloro che scelgano di proseguire la propria attività (6): ne sarebbe conferma, a contrario, proprio il disposto del successivo comma 14 (7), concernente in via esclusiva requisiti e decorrenze. Inoltre, da un punto di vista sistematico, una diversa impostazione non spiegherebbe la possibilità di richiedere all’INPS la certificazione del diritto a pensione (8), il quale avrebbe la funzione di garantire la certezza del proprio diritto al lavoratore che potrebbe già farlo valere al 31 dicembre 2011 e intenda proseguire il rapporto. E, dal punto di vista teleologico, questa ricostruzione risponderebbe appieno alle finalità di incentivare la prosecuzione della vita lavorativa e di risparmio di spesa esplicitate dall’art. 24 al comma 1. La seconda impostazione appare preferibile non solo dal punto di vista testuale, ma considerando il generale quadro in cui è inserita la disposizione controversa. Innanzitutto, le previsioni inerenti la prosecuzione del rapporto sono in altri, distinti pe- riodi, rispetto a quello che individua il campo di applicazione dei nuovi requisiti pensionistici. Inoltre, una volontà legislativa orientata in senso estensivo sembra potersi desumere anche da altri indici normativi. Si pensi, ad esempio, al comma 2 dell’art. 24, in cui viene genericamente prevista l’applicazione del metodo di calcolo contributivo per le quote di trattamento maturate a partire dal 1° gennaio 2012, senza alcuna distinzione. Tale previsione, quindi, concerne tutti i lavoratori in possesso di almeno 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995, compresi coloro i quali abbiano maturato il diritto a pensione entro il 31 dicembre 2011 (9), a testimonianza del fatto per cui, probabilmente, il legislatore contemplava che anche i lavoratori soggetti alle previgenti norme potessero proseguire la loro attività lavorativa: una diversa interpretazione risulta quindi distonica rispetto alla mens legis esplicitata nel complesso dalla legge . Discussa è pure l’applicabilità della norma ai giornalisti professionisti iscritti all’INPGI: ente privatizzato dal D.Lgs. n. 509/1994, ma con natura e funzioni pubblicistiche, tant’è vero che è sottoposto a controllo della Corte dei conti e concorre al conto consolidato delle Amministrazioni Pubbliche (10). La questione, anche in questo caso, deriva dal difficile coordinamento tra due distinte norme. Da un lato il comma 4 dell’art. 24 menziona i “lavoratori e lavoratrici la cui pensione è liquidata a carico dell’Assicurazione Generale Obbligatoria e delle forme esclusive e sostitutive della medesima”, facendo pensare, pertanto, ad una sua applicabilità anche nei confronti degli iscritti INPGI. Ma il successivo comma 24 impone alle gestioni di cui al D.Lgs. n. 509/1994 di adottare, entro e non oltre il 30 settembre 2012, “misure volte ad assicurare l’equilibrio tra entrate contributive e spesa per prestazioni pensionistiche secondo bilanci tecnici riferiti ai “requisiti minimi previsti dai successivi commi” implica l’applicabilità della norma, nella sua integralità (compresi gli incentivi alla prosecuzione dell’attività lavorativa) unicamente ai lavoratori che raggiungano l’età pensionabile dopo il 31 dicembre 2011, così pure Trib. Genova 11 novembre 2013, Est. Barenghi, con nota di V. Ferrante, Licenziamento dell’ultrasessantenne in possesso dei requisiti per la pensione (art. 24, co. 4 d.l. 201/2011): lex minus dixit quam voluit?, in Riv. it. dir. lav., 2014, 2, 221. (4) Trib. Torino 29 marzo 2013, Est. Buzano. (5) M. Russo (1), Lavorare fino a settant’anni: disciplina, tutele ed effetti sul mercato del lavoro dell’art. 24 L. n. 214/2011, in Lav. prev. Oggi, n. 5-6/2014, 273 - 290. (6) Trib. Torino 29 marzo 2013, cit. (7) Oppure nel comma 5, dove si esclude l’applicabilità delle disposizioni sulla c.d. finestra annuale “con riferimento esclusivamente” ai soggetti che vadano in pensione secondo il nuovo regime. (8) Art. 24, comma 3. Certificazione che ha natura dichiarativa e non costitutiva del diritto: così ha specificato l’INPS nel messaggio 24126 del 20 dicembre 2011. (9) Disposizione interessata da vicende controverse: dapprima il legislatore si è limitato a prevedere che la quota di pensione corrispondente alle anzianità maturate dal 1 gennaio 2012 fosse calcolata con metodo contributivo ma poi, accortosi che la manovra poteva risultare controproducente, è di nuovo intervenuto, stabilendo con l’art. 1, comma 707, L. 23 dicembre 2014, n. 190, la prevalenza del calcolo retributivo o retributivo a seconda di quello che fosse il trattamento minore. (10) Ai sensi dell’art. 1, comma 3, L. 31 dicembre 2009, n. 196 (Legge di contabilità e finanza pubblica) “La ricognizione delle amministrazioni pubbliche di cui al comma 2 è operata annualmente dall’ISTAT con proprio provvedimento e pubblicata nella G.U. entro il 30 settembre”. L’ultimo elenco predisposto è pubblicato nella G.U. - Serie Generale n. 227 del 30 settembre 2015. il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 765 Sinergie Grafiche srl Dottrina Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Rapporto di lavoro ad un arco temporale di cinquanta anni”, sanzionando l’inottemperanza con l’applicazione del metodo di calcolo di cui al comma 2 nonché di un contributo di solidarietà (11). La giurisprudenza risulta nettamente divisa. Alcune pronunce (12), facendo leva sul testo della legge e sulla natura sostitutiva dell’INPGI quale desumibile da molteplici indici normativi (13), ritengono che la norma operi anche nei confronti degli iscritti a questa gestione: il comma 24 si riferirebbe esclusivamente agli enti che gestiscono attività di libera professione senza il concorso finanziario dello Stato. Di diverso avviso le Sezioni Unite (14), per cui non può ritenersi che tra le “forme esclusive e sostitutive” dell’AGO rientri alcuno degli istituti privatizzati a seguito del D.Lgs. n. 509/1994: la circostanza che, per questi enti, l’adozione di misure di contenimento della spesa pensionistica sia disciplinata in una specifica sedes materiae (il comma 24) indica la volontà legislativa di adottare due diverse modalità di intervento. Salvo previsione derogatoria espressa, non è possibile una commistione tra i due sistemi, tanto più se si considera che la determinazione di contribuzioni, requisiti soggettivi e modalità di godimento delle prestazioni viene fissata in piena autonomia dagli enti privatizzati. Sembra questa la strada da percorrere, non tanto per la considerazione del comma 24 ché, volendo, le due norme potrebbero essere coordinate: il legislatore può ben estendere le tutele per il licenziamento fino al settantesimo anno d’età, e allo stesso tempo rimettere alle gestioni privatizzate la disciplina degli aspetti previdenziali. Indicativa invece è proprio la considerazione della dibattuta formula “forme esclusive e sostitutive” dell’AGO. Scorrendo il testo della legge vediamo che tale locuzione (15) compare, unita o spezzata, in più punti, con riferimento ai requisiti contributivi e anagrafi- ci per la pensione: tutti aspetti che, come detto, nel caso degli enti ex D.Lgs. n. 509/1994 rientrano nella loro autonomia regolamentare. È evidente, pertanto, che con questa formula il legislatore non intenda riferirsi alle gestioni privatizzate (e quindi all’INPGI), lasciando presumere che si tratti di un riferimento alle forme esclusive e sostitutive gestite dall’INPS (16). Altro nodo riguarda l’applicabilità della norma ai dirigenti: questione che è possibile risolvere agevolmente, dato il generico riferimento ai “lavoratori” dipendenti. Tuttavia - come già in passato accadeva con riferimento alle vecchie ipotesi di opzione - essi continuano ad essere soggetti alla tutela economica collettiva per il licenziamento ingiustificato e, nei casi di nullità e discriminazione, alla disciplina statutaria. Non è finita qui, perché occorre ora procedere all’individuazione dei datori di lavoro coinvolti. Sono due i profili controversi: l’applicabilità alle Pubbliche Amministrazioni, e nei confronti dei datori di lavoro che non integrino i requisiti dimensionali ex art. 18 Stat. lav. Travagliata la vicenda inerente al pubblico impiego. Di per sé, già il riferimento ai “limiti ordinamentali dei rispettivi settori di appartenenza” indicava chiaramente l’impossibilità di proseguire il rapporto nell’ambito delle Pubbliche Amministrazioni (17). Posizione esplicitata nella circ. n. 2/2012 del Dipartimento della Funzione Pubblica, successivamente annullata dal T.A.R. Lazio (18) nella parte in cui stabiliva l’obbligatorio collocamento a riposo a 65 anni dei dipendenti in possesso della massima anzianità contributiva, o comunque dei requisiti prescritti per l’accesso ad un trattamento pensionistico diverso dalla pensione di vecchiaia. (11) Il Consiglio di amministrazione dell’INPGI ha approvato solo in data 27 luglio 2015 la delibera contenente anche gli interventi di riforma pensionistica. (12) Trib. Roma 26 gennaio 2015, in www.ilgiuslavorista.it, 28 maggio 2015; Trib. Roma 24 febbraio 2014, Est. Ambrosi, reperibile al sito www.wikilabour.it; Trib. Roma 17 dicembre 2013, n. 141084, Est. Leone, pronunce che richiamano Cass. 26 gennaio 2012, n. 1098. (13) In particolare l’art. 76 della L. n. 388/2000, per cui l’INPGI gestisce le forme di previdenza obbligatoria dei giornalisti professionisti e dei praticanti in regime di sostitutività. (14) Cass., SS. UU., 4 settembre 2015, n. 17589, su cui si veda infra, nt. 40. (15) Al comma 6, lett. a) e c) e ai commi 9, 10 e 15 bis dell’art. 24. (16) Ossia, per le forme sostitutive, i Fondi Elettrici, Dazio, Telefonici e Volo, l’ENPALS, il Fondo Trasporti e l’INPDAI; per quelle esclusive l’INPDAP, i Fondi Ferrovieri e PT. (17) In particolare, i limiti ordinamentali sono fissati nel compimento del sessantacinquesimo anno d’età dall’art 4 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, per i dipendenti dello Stato, e dall’art. 12, comma 1, lett. d), L. 20 marzo 1975, n. 70, per i dipendenti degli enti pubblici, secondo statuizioni che si ritengono valide anche per le altre categorie. Ci sono, poi, dei limiti ordinamentali speciali: ad esempio, il settantesimo anno di età per i magistrati, gli avvocati e procuratori dello Stato ed i professori ordinari, ai sensi di quanto statuito, rispettivamente, all’art. 5 del R.D.Lgs. 31 maggio 1946, n. 511, all’art. 34 del R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611 e all’art. 19 del d.P.R. 11 luglio 1980, n. 382. Sui profili problematici inerenti il pubblico impiego si veda D. Casale, Il collocamento a riposo dall’impiego pubblico per limite massimo d’età, dopo la riforma pensionistica di cui all’art. 24 del d.l. n. 201/2011 convertito con l. n. 214/2011, LPA, 2011, 903 ss. (18) T.A.R. Lazio Roma 7 marzo 2013, n. 2446. 766 il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Dottrina Rapporto di lavoro È quindi intervenuto il legislatore in sede di interpretazione autentica, con l’art. 2, comma 5, D.L. 31 agosto 2013, n. 101, ai sensi del quale l’innalzamento dei requisiti anagrafici previsti per la pensione di vecchiaia non modifica i limiti ordinamentali dei singoli settori, né li rende modificabili, salvo il trattenimento in servizio dell’interessato ex art. 16, D.L. n. 502/1993 o la necessità di consentire al lavoratore la prima decorrenza utile del trattamento di quiescenza, ove la stessa non sia immediata. La questione sembrava risolta, ma recentemente il D.L. 24 giugno 2014, n. 90 (19), all’art. 1, comma 1, ha abrogato l’istituto del trattenimento e ridefinito la risoluzione unilaterale, relegando la possibilità di prosecuzione ai casi in cui il dipendente non abbia maturato alcun diritto a pensione (20) al compimento del limite ordinamentale o del requisito anagrafico per la pensione di vecchiaia. Pertanto, eccettuate queste ipotesi, il raggiungimento dei limiti ordinamentali è causa di automatica risoluzione del rapporto. Qualche perplessità sulla legittimità di tali disposizioni potrebbe sorgere alla luce della disciplina antidiscriminatoria di cui alla Dir. 2000/78/CE (21). Queste perplessità, che in ogni caso non avrebbero avuto ragione di essere, alla luce di quanto statuito in sede comunitaria relativamente a disposizioni analoghe (22), sono state di recente ritenute infondate dalla Corte costituzionale (23), stante la finalità di ricambio generazionale sottesa alla normativa in esame. Neppure semplice è la questione circa l’applicabilità o meno della disciplina in esame alle imprese soggette alla c.d. “stabilità obbligatoria”: la criptica formulazione della norma (per cui si dice solo che “Nei confronti dei lavoratori dipendenti, l’efficacia delle disposizioni di cui all’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 e successive modificazioni opera fino al conseguimento del predetto limite massimo di flessibilità”) induce a chiedersi se la tutela rafforzata in caso di recesso operi anche per i lavoratori occupati in imprese con meno di sedici dipendenti (con le precisazioni di cui infra). C’è chi ritiene (24), con un riferimento alle precedenti ipotesi di opzione, che la disposizione avrebbe efficacia generalizzata, riguardando indifferentemente le imprese in area di stabilità reale o obbligatoria (25). Operazione ermeneutica certamente apprezzabile ma non condivisibile: la nuova disciplina non permette di mutuare in toto le categorie inerenti le vecchie opzioni, in quanto ancorate a presupposti eterogenei rispetto a quelli cui si riferisce l’art. 24. Le norme interessate (ossia l’art. 6 del D.L. n. 791/1981, e l’art. 6 della L. n. 407/1990, poi integrato dall’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 503/1992) hanno una conformazione nettamente diversa, poiché fanno riferimento, rispettivamente, alla L. n. 604/1966 e alla L. n. 108/1990, ossia a delle disposizioni che prevedono i presupposti di legittimità del licenziamento in via trasversale. Nel caso di specie ci troviamo di fronte ad un puntuale dato testuale, difficilmente superabile, il quale porta a ritenere che la disposizione riguarderebbe unicamente le aziende soggette all’ambito di applicazione dell’art. 18 Stat. lav. (26): facendo ipotizzare che il legislatore abbia così deciso perché sarebbe maggiormente difficile ed onerosa, per le piccole imprese, la prosecuzione del regime di giustificazione necessaria del licenziamento fino al compimento del settantesimo anno d’età del dipendente (27). Per i lavoratori soggetti alla tutela obbligatoria continuerebbe ad operare la vecchia opzione ex art. 6, D.L. n. 791/1981, che prevede la possibilità (19) Si veda al proposito la circ. n. 2/2015 del Ministro per la semplificazione e la P.A. (20) Anche anticipata, escluse le ipotesi in cui il lavoratore subirebbe delle penalizzazioni ai sensi dell’art. 24, comma 10, D.L. n. 201/2011. Si veda Corte cost. 6 marzo 2013, n. 33 con commento di C. Colapietro, La Corte ribadisce la garanzia costituzionale del trattamento pensionistico minimo, Giur. cost., 2, 2013, 621 ss. e inoltre Corte cost. 3 giugno 1991, n. 282 che richiama a sua volta la propria precendente sent. 26 settembre 1990, n. 444 per cui “non può essere preclusa, senza violare l’art. 38, comma 2, Cost., la possibilità per il personale in questione che al compimento del sessantacinquesimo anno-quale che sia la data di assunzione -non abbia ancora maturato il diritto a pensione, di derogare a tale limite per il collocamento a riposo, al solo scopo di completare il periodo minimo di servizio richiesto dalla legge per il conseguimento di tale diritto”. (21) Che, ai sensi dell’art. 3 par. 1, opera anche nei confronti delle PP.AA. (22) Si veda Corte di Giustizia UE 21 luglio 2011, cause riunite C-159/10 e C-160/10, Fuchs e Köhler. Si veda anche infra, par. 3 (23) Corte Costituzionale 10 giugno 2016, n. 133. (24) App. Genova 8 gennaio 2014, DRI, 2014, 3, 787 ss., con nota di C. Murena, Età pensionabile e tutela contro il licenziamento ad nutum nel decreto-legge n. 201/2011, ritiene la norma operante in favore di tutti i lavoratori di imprese rientranti, quanto a dimensioni aziendali, nell’art. 18 Stat. lav. (25) Cfr. G. Canavesi, Età pensionabile, prosecuzione del rapporto fino a settant’anni e licenziamento nella riforma pensionistica del 2011, DRI, 2013, 3, 665. (26) M. Russo, op. cit. (1), che ravvisa una possibile disparità di trattamento del lavoratore pensionabile a seconda dei requisiti dimensionali del datore di lavoro. Contra, L. D’Ambrosio, Il licenziamento ad nutum del lavoratore in possesso dei requisiti pensionistici di vecchiaia: disciplina e problematiche, in Bollettino Adapt, 20 febbraio 2012, n. 6, 4. (27) L. D’ambrosio, op. cit.; M. Tremolada, Il licenziamento libero, in corso di pubblicazione nel Trattato diritto del lavoro diretto da Mattia Persiani e Franco Carinci, V, L’estinzione del rapporto di lavoro subordinato. il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 767 Sinergie Grafiche srl Dottrina Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Rapporto di lavoro di proseguire il rapporto fino al sessantacinquesimo anno d’età senza perdere quella stabilità. Alla luce dei vigenti requisiti pensionistici la norma risulta ormai lettera morta, ma così non era quando il D.L. n. 201/2011 è stato adottato: le ipotesi di opzione ex D.L. n. 791/1981 e L. n. 407/1990 hanno continuato ad operare per le lavoratrici dipendenti del settore privato, il cui diritto a pensione decorreva (in presenza della necessaria contribuzione) al raggiungimento del sessantaduesimo anno d’età, secondo quanto stabilito dall’art. 24, comma 6, lett. a), D.L. n. 201 (28). D’altronde, è pacifico che la determinazione dell’ammontare delle prestazioni previdenziali rientri nella discrezionalità del legislatore, secondo l’idea per cui la perdita del reddito da lavoro è accettabile nel momento in cui ci sia un reddito alternativo di natura previdenziale: “va apprezzato e protetto il prolungamento dell’età lavorativa perché al lavoratore sia garantito la pensione al minimo ma non può godere di eguale protezione e garanzia il raggiungimento di un trattamento pensionistico massimo (29)”. A prescindere da eventuali giudizi di valore, nulla si può dire su una scelta legislativa in cui viene bilanciato il diritto all’adeguatezza delle prestazioni ex art. 38 Cost., comunque garantito, con quello di iniziativa economica nelle piccole imprese ai sensi dell’art. 41 Cost. D’altro canto, neppure è invocabile una pretesa disparità di trattamento (30) in ordine al regime del recesso, disparità che infatti può essere tranquillamente esclusa mutuando gli argomenti già sviluppati dalla Consulta per giustificare la diversità tra le sanzioni di area applicabili in conseguenza di un licenziamento illegittimo (31). L’inapplicabilità a questi lavoratori dell’art. 24 si ripercuote direttamente sulle tutele operanti, riproponendo interrogativi già noti ed ancora insoluti. Il problema maggiore sorge da un maldestro collage normativo ossia l’abrogazione, ad opera dell’art. 6, della L. n. 108/1990, dell’art. 11, comma 1, L. n. 604/1966, che specificamente escludeva dal campo di applicazione della legge i lavoratori “in possesso dei requisiti di legge per avere diritto alla pensione di vecchiaia”, e la sua sostituzione col generico disposto dell’art. 4, comma 2, L. n. 108/1990, il quale invece si limita a prevedere la recedibilità ad nutum nei confronti dei lavoratori ultrasessantenni “in possesso dei requisiti pensionistici”, senza alcuna specificazione. Ci si continua a chiedere, quindi, se la titolarità o il raggiungimento di quanto richiesto per la fruizione di una pensione statale o anticipata conducano al regime generale ex art. 2118 c.c. Le recenti modifiche all’art. 72, comma 11, D.L. n. 112/2008 (32), per cui nel pubblico impiego il collocamento a riposo avviene al raggiungimento dei requisiti per la pensione anticipata, potrebbero indurre ad applicare analoghi principi anche al settore privato. Ma la questione sembra avere una risposta negativa, ove si consideri la ratio sottesa alle disposizioni sul licenziamento testé citate. Quando l’art. 4, comma 2, L. n. 108/1990 è stato adottato, il requisito del sessantesimo anno d’età coincideva con quello all’epoca previsto per l’accesso alla pensione di vecchiaia. Come è stato acutamente osservato (33), il legislatore, nel momento in cui ha previsto un requisito anagrafico accompagnato da quelli pensionistici, non intendeva effettuare un riferimento generico ma, appunto, indicare la contribuzione sottesa al trattamento di vecchiaia: principi che continuano ad applicarsi anche al caso considerato. Anche perché nel pubblico impiego il collocamento a riposo è giustificato da un risparmio di spesa (inerente alle retribuzioni) per l’Amministrazione datrice di lavoro mentre, nel settore privato, il risparmio di spesa pubblica, che riguarderebbe le pensioni, viene tradotto nella permanenza del rapporto di lavoro e quindi dell’obbligo retributivo in capo al datore. Peraltro, l’abolizione delle cc.dd. finestre mobili, operata dal comma 5 dell’art. 24 per i lavoratori soggetti alle nuove norme pensionistiche, ha di fatto eliminato il vuoto di tutele tra conseguimento e percezione del diritto, limitato al breve (almeno sulla carta) periodo intercorrente tra il raggiungimento dei requisiti e il primo giorno del mese successivo (34). Resta, invece, un problema di tutela (28) Requisito ormai superato in forza degli adeguamenti alla speranza di vita: dal 1° gennaio 2016 il requisito anagrafico previsto per le donne dipendenti del settore privato - destinato costantemente a crescere - è di 65 anni e 3 mesi, fino ad arrivare a 66 anni e 3 mesi nel 2018. Si ritiene, peraltro, che in questo caso non vi fosse alcun onere di comunicazione in capo alla lavoratrice: anche se in un primo momento la Consulta, adita al riguardo, ha salvato la legittimità dell’art. 6, D.L. n. 791/1981 (Corte cost. 20 giugno 2002, n. 256, con nota di A. Pileggi (1), Limiti dell’età pensionabile e principio di parità tra i sessi, Mass. Giur. lav., 1-2/2003, 45), nella successiva sentenza 29 ottobre 2009, n. 275 ha sancito l’incostituzionalità dell’art. 30, D.Lgs. n. 198/2006, di analogo contenuto. (29) Corte cost. 9 dicembre 1991, n. 440. (30) M. Russo, op. cit. (1). (31) Corte cost. 22 luglio 1996, n. 291; 23 febbraio 1996, n. 44; 6 marzo 1974, n. 55; 14 aprile 1969, n. 81. (32) Con il D.L. n. 90/2014. (33) A. Pileggi (2), Età pensionabile ed estinzione del rapporto di lavoro, Roma, 1996, 38 ss. (34) Tornano infatti ad essere applicate le regole di cui all’art. 6, L. 23 aprile 1981, n. 155. 768 il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Dottrina Rapporto di lavoro per i lavoratori in area di stabilità obbligatoria che, avendo maturato il diritto a pensione entro il 31 dicembre 2011, abbiano continuato il rapporto: licenziabili ad nutum -, ma privi della prestazione finché non siano decorsi i dodici mesi stabiliti dall’art. 12, D.L. n. 78/2010 (35). Quindi la disposizione sarà operante nei confronti dei lavoratori dipendenti da imprese che integrino i requisiti dimensionali ex art. 18 St. lav. (anche in forza di nuove assunzioni) con applicazione, in caso di recesso, delle tutele statutarie o di quelle previste nel D.Lgs. n. 23/2015, dato che l’art. 24 parla “delle disposizioni di cui all’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 e successive modificazioni”. Il decreto delegato può infatti ritenersi una modificazione della preesistente norma statutaria quale tutela di area (36). Diritto soggettivo, accordo tra le parti o qualcos’altro? Un nodo cruciale ed estremamente dibattuto è quello che concerne la natura della situazione giuridica in cui versa il lavoratore che voglia proseguire il rapporto. Questione, questa, che almeno fino al recente intervento delle Sezioni Unite vedeva la (35) Infatti, nei confronti di questi lavoratori non opera neppure l’art. 6, comma 2 bis, D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, che prevede solo nell’ambito della tutela reale la permamenza del regime di stabilità fino alla decorrenza della pensione. (36) C. Cester, I licenziamenti nel Jobs Act, WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT, n. 273/2015. Più radicale, invece, l’orientamento (O. Bonardi, Le discriminazioni basate sull’età, in M. Barbera (a cura di), Il nuovo diritto antidiscriminatorio, Milano, 2007, 162; in giurisprudenza, Trib. Genova 3 dicembre 2012, n. 1605, Est. Basilico, esaminata da R. Cosio, Le discriminazioni per età: il giudice nazionale si trasforma in giudice europeo, relazione tenuta al convegno “Diritto europeo nel dialogo delle Corti”, Venezia, 25 gennaio 2013, in www.europeanrights.eu.), per cui le disposizioni sulla libera recedibilità sarebbero in contrasto con la normativa antidiscriminatoria comunitaria e l’art. 30 della Carta di Nizza (nonché, si potrebbe aggiungere, l’art. 24 della Carta sociale europea). Questa soluzione lascia non poco perplessi, poiché in questo modo non avrebbe più ragion d’essere qualsiasi norma sulla prosecuzione del rapporto oltre l’età pensionabile, potendo lo stesso avere durata indefinita. A tal proposito M. Russo (2), Il licenziamento discriminatorio per età pensionabile nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, consultabile al sito www.dottrinalavoro.it, sottolinea come l’art. 30 vieti un licenziamento meramente arbitrario, ma non indica quali siano le giustificazioni valide, anche se dall’art. 21 della Carta di Nizza si potrebbe desumere che non può essere causa di licenziamento il riferimento ad uno dei fattori di discriminazione indicati, tra cui l’età. Tuttavia, nel caso di specie rileva non solo l’età, ma anche la possibilità di conseguire un trattamento pensionistico. Pertanto, ove si concludesse per l’incompatibilità tra libero recesso e art. 30 della Carta di Nizza, questa impostazione risulterebbe distonica rispetto alla generale disciplina codicistica dei rapporti a tempo indeterminato. In più, esaminando le norme comunitarie citate si può osservare che ele- il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 giurisprudenza nettamente divisa tra due diverse considerazioni del dato teleologico e letterale della legge. Andiamo con ordine. Alcune pronunce e una parte della dottrina, sulla scorta delle categorie formatesi relativamente alle previgenti ipotesi di opzione, parrebbero riconoscere la permanenza del regime di tutela verso il licenziamento quale effetto dell’esercizio di un diritto potestativo (37). È discusso, tuttavia, se vi siano oneri di comunicazione al datore di lavoro o meno: a tal proposito, è stato ritenuto da alcuno che si possa prescindere da ogni comunicazione (38), mentre in dottrina vi è chi al contrario ritiene che l’esercizio di tale diritto sia soggetto alle forme già previste ex art. 6, D.L. n. 789/1981 e L. n. 407/1990 (39). Fanno da contraltare altre decisioni di segno diametralmente opposto: la norma de qua non attribuisce un diritto, ma incide su una fattispecie negoziale presupposta e preesistente costituita da un accordo tra le parti, a cui vengono riconnessi degli effetti favorevoli al lavoratore sul piano previdenziale e delle tutele contro il licenziamento (40). Il termine “incentivato” contenuto nella disposizione, riferito al proseguimento dell’attività lavoratimento comune alle stesse sia la previsione di un generale principio di giustificatezza del recesso non correlata, tuttavia, all’indicazione di una specifica sanzione, rimessa invece alla discrezionalità dei legislatori nazionali: in questo caso, la recedibilità ad nutum non è scevra da alcuna tutela, ma risulta supportata proprio dalla possibilità di usufruire del trattamento pensionistico. (37) Trib. Torino 29 marzo 2013, cit.; App. Genova 8 gennaio 2014, cit.; Trib. Roma 24 febbraio 2014, cit.; G. Canavesi, op. cit.; M. Russo, op. cit. (1). (38) Trib. Torino 29 marzo 2013, cit. per cui “non appare d’altra parte applicabile la disposizione di cui all’art. 6 della L. 29 dicembre 1990, n. 407 che riguarda la diversa ipotesi del raggiungimento dell’anzianità contributiva massima e che è comunque incompatibile con la nuova normativa”. (39) G. Canavesi, op. cit. (40) App. Roma 6 ottobre 2014, n. 7614, in www.ilgiuslavorista.it, 26 gennaio 2015, per cui “la situazione soggettiva del lavoratore non costituisce un diritto potestativo, atteso che il prolungamento del rapporto di lavoro viene configurato soltanto come obiettivo oggetto di incentivazione, presupponendo quindi pur sempre un accordo tra le parti, in mancanza del quale opera il limite generale dei 66 (una volta 65) anni di età anagrafica. (...) Questa interpretazione si fonda su chiari elementi letterali della norma dell’art. 24, D.L. n. 201/2011 che, diversamente dal passato (...), non prevede una facoltà di opzione nella titolarità del lavoratore (...)”. Trib. Roma 5 febbraio 2015, Est. Baroncini, in www.ilgiuslavorista.it, 9 aprile 2015; Id. 26 gennaio 2015, cit.; 30 aprile 2014, in Nuovo notiziario giuridico, 2014, 2, 497; 17 dicembre 2013, cit. In dottrina, S. Piccininno (1), Età pensionabile flessibile e cessazione del rapporto di lavoro nel sistema della riforma pensionistica del 2001, ADL, 2014, p. 32 ss; M. Miscione - V. Amato, Pensione di vecchiaia e trattenimento in servizio, in Dir. prat. lav., n. 36/2014, 1903 ss. 769 Sinergie Grafiche srl Dottrina Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Rapporto di lavoro va, non implicherebbe la vincolatività, per il datore di lavoro, della scelta operata dal dipendente, che è invece soggetta al necessario reciproco consenso. La questione, da ultimo, sembrerebbe risolta una volta per tutte dalle Sezioni Unite (41), le quali hanno recisamente negato che la norma preveda l’insorgenza di alcun diritto potestativo in capo al lavoratore. La Corte articola le proprie argomentazioni in due passaggi. In primo luogo si cerca di ricostruire il significato della dibattuta previsione che fa salvi dall’applicazione della norma i “limiti ordinamentali” dei singoli settori. Secondo le Sezioni Unite il riferimento a questi limiti “non può essere inteso nel senso che la incentivazione è subordinata alla regolamentazione del rapporto di lavoro esistente nel settore preso in esame, come risultante dalle disposizioni di legge e di contrattazione collettiva allo stesso applicabile”, dato che, altrimenti, “l’incentivazione alla prosecuzione fino a settanta anni si ridurrebbe a ben poca cosa”, ma è relativo invece alle “disposizioni che, sul piano legislativo regolano gli specifici comparti (individuati sulla base della disciplina del rapporto tanto sul piano della regolazione sostanziale che di quella previdenziale) di appartenenza del lavoratore e che potrebbero essere ostativi al nuovo regime previsto dalla disposizione in esame”. A conferma di questa conclusione, viene richiamata la norma di interpretazione autentica ex art. 2, comma 5, D.L. n. 101/2013 che, appunto, ribadisce l’intangibilità dei limiti previsti per il collocamento a riposo nel pubblico impiego. Entrando poi nel merito della situazione giuridica azionata, la Corte ritiene che l’art. 24 non attribuisca alcun diritto di opzione ma semplicemente preveda, grazie all’operare di coefficienti di trasformazione calcolati fino all’età di settanta anni, la possibilità di prestare il proprio lavoro anziché chiedere il pensionamento. In tal senso, secondo il Giudice di legittimità la locuzione “è incentivato... dall’operare dei coefficienti di trasformazione...” presupporrebbe “che non solo si siano create dette più favorevoli condizioni previdenziali, ma anche che, grazie all’incentivo in questione, le parti consensualmente stabiliscano la prosecuzione del rapporto sulla base di una reciproca valutazione di interessi”. Per cui, prosegue la sentenza, l’applicazione dell’art. 18 St. lav. non è precondizione alla prosecuzione del rapporto, ma consegue al perfezionamento della fattispecie costituita da prosecuzione consensuale del rapporto e operatività dei coefficienti di trasformazione. L’autorevole soluzione lascia aperti alcuni interrogativi. Circa il riferimento ai limiti ordinamentali, è pacifico che di tali limiti, per cui opera la risoluzione automatica del rapporto, si parli solo nell’ambito del pubblico impiego: il legislatore (si veda supra, par. 1) ha voluto escludere dal meccanismo di prosieguo del rapporto i lavoratori pubblici, forse proprio per quel risparmio di spesa menzionato tra gli obiettivi della legge. Tant’è vero che successivamente, per dirimere ogni dubbio interpretativo, questa volontà è stata esplicitata dal D.L. n. 101/2013 cui si riferisce la sentenza. Ciò detto, se i limiti richiamati dall’art. 24, comma 4 hanno valenza trasversale, ricomprendendo anche il settore privato, resta da stabilire quali siano queste disposizioni che dal punto di vista sostanziale e previdenziale costituirebbero una preclusione al proseguimento dell’attività. In particolare, se identificassimo tali norme in quelle disciplinanti i requisiti di accesso alla pensione, come opererebbe il meccanismo di prosecuzione, che dovrebbe invece travalicare proprio questi limiti? Spostandoci alla natura della situazione giuridica azionata, secondo il Collegio l’art. 24 non interviene sul sistema di libera recedibilità ma semplicemente prefigura degli incentivi previdenziali che indurrebbero il lavoratore alla prosecuzione del rapporto, il quale continua non per effetto dell’esercizio di un potere unilaterale del dipendente, ma in presenza del necessario consenso datoriale. Pertanto, una volta perfezionatosi l’accordo tra le parti incoraggiato dalle favorevoli condizioni previdenziali, la legge vi collegherebbe la conservazione del regime ex art. 18 Stat. lav. E qui sorge una domanda: al di là dei contrapposti orientamenti, sia- (41) Cass. SS. UU., 4 settembre 2015, n. 17589, con nota adesiva di V. Amato, Nessun “diritto al lavoro” fino al settantesimo anno di età, in Lav. Giur.., 2016, pp. 165 ss. e di S. Piccininno (2), Flessibilità dell’età pensionabile e prosecuzione del rapporto di lavoro dopo la riforma delle pensioni, Arg dir. lav., 2015, 1272 ss. Meno convinto il commento di M. Russo (3), Incentivazione al proseguimento del rapporto di lavoro fino a settant’anni: chi, come e perché, di prossima pubblicazione in Riv giur. lav., n. 2/2016. Tale orientamento è stato ribadito dalla S.C. (Sez. lav.) nella sent. 1° febbraio 2016, n. 1850 e recepito nel merito da Trib. Roma 6 ottobre 2015, n. 8437, Est. Sordi, commentata da M. Russo, op. cit. (3); Trib. Como 21 gennaio 2016, Est. Mancini, in www.ilgiuslavorista.it, 22 febbraio 2016: Trib. Lucca 15 gennaio 2016, in www.ilgiuslavorista.it, 12 febbraio 2016; Trib. Napoli 7 ottobre 2015 in www.ilgiuslavorista.it, 28 ottobre 2015. 770 il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Dottrina Rapporto di lavoro mo sicuri che l’art. 24 faccia discendere dal raggiungimento di un accordo o dall’esercizio di un diritto potestativo (a seconda di come venga inteso) l’applicazione del regime di stabilità? Viste le reticenze del legislatore, si potrebbe percorrere un’altra via per integrare queste disposizioni nel sistema? Esaminiamo quindi la lettera della legge, onde stabilire se effettivamente preveda la necessità di un accordo oppure un diritto di opzione a cui venga collegato il perdurare delle tutele. In questa operazione può esserci d’aiuto un confronto tra l’art. 24 ed il testo degli artt. 6 del D.L. n. 791/1981 e della L. n. 407/1990, per vedere se ci siano analogie o diversità rispetto al passato. L’art. 6 del D.L. n. 791 del 1981 (e similmente la norma del 1990) prevede che gli iscritti all’AGO e alle gestioni sostitutive ed esclusive “possono optare di continuare a prestare la loro opera” (comma 1) con comunicazione al datore di lavoro almeno sei mesi prima della data di conseguimento del diritto alla pensione di vecchiaia (comma 2), che nei confronti dei lavoratori che hanno esercitato l’opzione si applichino le disposizioni ex lege n. 604/1966 (comma 4), e il rapporto termini senza necessità di preavviso una volta esaurito l’effetto di tale opzione (comma 6). Ci troviamo di fronte ad una fattispecie complessa, in cui la scelta del lavoratore, esplicitata nelle forme stabilite dalla legge, funge da elemento costitutivo dell’estensione delle tutele. A ben vedere, l’orientamento delle Sezioni Unite sembra riecheggiare proprio questa costruzione, con una differenza (42): anche per la S.C. il mantenimento del regime di stabilità è frutto di una fattispecie a formazione progressiva tuttavia, mentre in passato elemento di tale fattispecie era l’opzione formalmente esercitata dal lavoratore per proseguire il rapporto ora, con un regresso rispetto alla previgente disciplina, questo ruolo sarebbe rivestito dall’accordo tra le parti. Salta tuttavia all’occhio una differenza non da poco tra le precedenti disposizioni e la normativa attuale. Se prima l’opzione del lavoratore aveva un’incidenza positiva, in quanto vi si ricollegava il perdurare della stabilità, o negativa, poiché il suo mancato esercizio nei termini impediva il mantenimento delle tutele, l’art. 24 non prevede nulla di tutto questo, ma indica semplicemente la presenza di un incentivo previdenziale e stabilisce l’applicazione dell’art. 18 St. lav. fino al conseguimento del limite massimo di flessibilità. Il periodo inerente le sanzioni contro il licenziamento non è retto, te- stualmente, dal termine “incentivato” né, tanto meno, si menziona espressamente il mutuo consenso quale condizione della tutela o comunque presupposto che delimiti il campo operativo della norma. Quindi, posto che la disposizione nulla dice al riguardo - e ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit -, vediamo che in questo caso la paralisi della libera recedibilità non è soggetta ad alcun elemento ulteriore, sia esso un’opzione o un accordo, discendendo invece in via immediata dalla legge. Il lavoratore non ha mai un diritto potestativo a proseguire la propria attività lavorativa, diritto che d’altro canto non aveva neppure prima del raggiungimento dei requisiti pensionistici. Conserva, invece, un altro genere di diritto, cioè quello a vedere il proprio licenziamento illegittimo sanzionato con le specifiche tutele, ma è importante sottolineare che questo beneficio prescinde da una vicenda diacronica di cui sia elemento costitutivo una decisione unilaterale o un accordo tra parti. Ciò detto, per comprovare il nostro assunto osserviamo la lettera della norma anche attraverso l’altra lente indicataci dall’art. 12 delle Preleggi, ossia l’intenzione del legislatore. Questa intenzione è chiara ed esplicitata non solo dal Preambolo al decreto, ma anche dallo stesso art. 24, che al comma 1 esprime la finalità di “garantire il rispetto, degli impegni internazionali e con l’Unione europea, dei vincoli di bilancio, la stabilità economico-finanziaria e (...) rafforzare la sostenibilità di lungo periodo del sistema pensionistico in termini di incidenza della spesa previdenziale sul prodotto interno lordo”. Pare in evidente conflitto con gli scopi della norma una lettura che subordini il perseguimento di tali interessi primari alla volontà del datore di lavoro il quale, invece, sarebbe indotto a licenziare un dipendente maggiormente oneroso in termini di salario e contributi previdenziali. D’altro canto, l’incongruenza di una simile ricostruzione emerge pure ove si consideri che, seguendo questo orientamento, mentre la vecchia disciplina delle opzioni vincolava il datore di lavoro alla scelta del dipendente di proseguire il rapporto, ora per assurdo la prosecuzione non sarebbe più imposta ma rimessa al consenso datoriale, benché il decreto sia stato adottato proprio per conseguire il risparmio di spesa previdenziale necessitato dalla ben più grave situazione economica e dall’obbligo di far fronte agli impegni comunitari e internazionali. (42) Art. 6, D.L. n. 791/1981; art. 6, L. n. 407/1990. il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 771 Sinergie Grafiche srl Dottrina Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Rapporto di lavoro Quindi, mancando elementi letterali che depongano in senso restrittivo e alla luce della ratio legis, giungiamo ad altra conclusione, ossia che l’art. 24 prevede l’estensione automatica, fino al limite progressivamente adeguato dei settant’anni d’età, del regime di tutela, incidendo quale norma speciale sull’art. 4 della L. n. 108/1990, nel senso che nell’ambito di applicazione dell’art. 18 St. lav. il raggiungimento dei requisiti pensionistici non determina più la perdita della stabilità. In quest’ottica, risulta coerente con la protezione degli interessi pubblicistici sottostanti che pure il mantenimento delle tutele verso il licenziamento costituisca, di per sé, un incentivo alla scelta del lavoratore di non richiedere il pensionamento. Anche se, bisogna precisarlo, il rapporto continua come prima, per cui il potere di recesso datoriale non viene affatto paralizzato, ma anzi può benissimo colpire pure il dipendente il cui rapporto prosegua, ove ricorrano le cause previste dall’ordinamento (si veda infra, par. 3), come ad esempio la commissione di un illecito disciplinare, l’inidoneità alle mansioni e il giustificato motivo oggettivo in genere, o nel caso di licenziamento collettivo - dove, peraltro, il criterio della prossimità al pensionamento assume piena legittimità nella costante giurisprudenza di Cassazione (43). D’altro canto, accogliendo l’autorevole orientamento della S.C., sorgono alcuni problemi applicativi di non poco momento che, di certo, richiederebbero un’ulteriore opera chiarificatrice. Ad esempio, rimangono inspiegate le modalità attraverso le quali il datore di lavoro dovrebbe esplicitare il proprio consenso. Deve farlo in forma espressa oppure bastano anche dei comportamenti concludenti (44)? Ed entro quando deve manifestare il consenso? Ritenendo possibile anche un consenso tacito, come fa il datore che invece sia dissenziente a sapere con certezza quando il lavoratore raggiunge i requisiti pensionistici, e quindi a bloccare un’eventuale prosecuzione della stabilità fino al limite dell’art. 24, visto che non ha in alcun modo accesso all’estratto conto previdenziale del dipendente? Possiamo ipotizzare che in questo caso vi sia un diritto di accesso agli atti che prevalga su quello alla riservatezza del lavoratore? Peraltro, a proposito di consenso tacito, sia consentita un’osservazione. A prescindere dall’art. 24 e sul piano della disciplina generale, se un lavoratore vuole continuare la propria attività potrà in ogni caso farlo sul presupposto che non c’è estinzione automatica del rapporto ma, per porvi fine, occorre pur sempre un atto formale di licenziamento. E infatti, “dalla legge 1 maggio 1990, n. 108, art. 4 si desume che, nel lavoro privato, il compimento dell’età pensionabile o il raggiungimento dei requisiti per la effettiva attribuzione del diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia (...) da parte del lavoratore determinano soltanto la recedibilità ‘ad nutum’ del rapporto di lavoro e, dunque, il venire meno del regime di stabilità, non già la automatica estinzione del rapporto stesso, sicché, in assenza di un valido atto risolutivo del datore di lavoro, il rapporto prosegue (45)”. Ma è palese che il mancato esercizio da parte del datore del potere di recedere ad nutum non implica il consenso alla prosecuzione del rapporto. Altre questioni sorgono sulla possibilità di apporre un termine all’accordo sulla prosecuzione. Di certo, per quanto concerne gli accordi individuali, non sarebbe possibile circoscriverli ad un’età più bassa rispetto a quella prevista dall’art. 24, comma 4, pena la nullità per contrasto con norma imperativa e l’automatica sostituzione della clausola invalida ai sensi dell’art. 1419, comma 2, c.c. Al contrario, anche se risulta ipotesi di scuola - una simile operazione, preclusa alla contrattazione collettiva nazionale in quanto peggiorativa rispetto alla legge, potrebbe essere posta in essere con un contratto ex art. 8, D.L. n. 138/2011, che incida sulle conseguenze del licenziamento prevedendo la libera recedibilità a partire da un limite inferiore rispetto a quello di settant’anni (progressivamente adeguato) stabilito dalla norma. Infine, un pregnante interrogativo di fondo: se è necessario l’assenso del datore per la prosecuzione del rapporto con il mantenimento della tutela, la norma non risulterebbe inutile? Infatti un meccanismo del genere, che differisca per il lavoratore (43) Sulla legittimità di tale criterio, ex multis Cass. 3 luglio 2015, n. 13794; 20 febbraio 2013, n. 4186. (44) Si veda infatti Trib. Roma 6 ottobre 2015, cit., per cui il consenso datoriale, stante il principio di libertà di forma ex art. 1350 c.c., è manifestabile anche per facta concludentia e, anzi, sussiste “un vero e proprio onere del datore di lavoro di manifestare il proprio dissenso tempestivamente ossia prima del raggiungimento dell’indicato limite d’età” (nel caso di specie, del li- mite d’età previsto dal contratto collettivo). Così pure Trib. Como 21 gennaio 2016, cit. Di diverso avviso, invece, Trib. Napoli 7 ottobre 2015, cit.; Trib. Roma 5 febbraio 2015, cit. (45) Cass. 29 dicembre 2014, n. 27425; 24 aprile 2014, n. 9312; 5 marzo 2003, n. 3237; 20 aprile 1999, n. 3907: ne consegue che il datore di lavoro ha comunque l’obbligo di preavviso nella risoluzione del rapporto. 772 il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Dottrina Rapporto di lavoro pensionabile l’acausalità del licenziamento in forza di un accordo, sarebbe comunque possibile anche in assenza dell’art. 24, comma 4, e pure nell’ambito della tutela obbligatoria, visto che già lo stesso art. 24, al comma 16, estendeva fino al settantesimo anno d’età e oltre i coefficienti di trasformazione previsti dall’art. 1, comma 6, L. n. 335/1995, senza distinguere a seconda dei requisiti dimensionali delle aziende coinvolte. Giova precisare, peraltro, che nessuna distinzione è operata neppure dai successivi D.M. 15 maggio 2012 e 22 giugno 2015 (46), i quali sono intervenuti in via specifica determinando i coefficienti fino a questo nuovo limite di flessibilità. Tutte le questioni testé sollevate complicano notevolmente il quadro in cui si inserisce l’interpretazione data dalle Sezioni Unite e inducono ancor di più a militare per una diversa posizione: con l’art. 24, il legislatore è pervenuto ad un risultato verosimilmente sottovalutato e non considerato, ossia una modifica a quanto disposto dall’art. 4 della L. n. 108/1990. Rimane da considerare un ultimo aspetto della norma, ossia come debba essere qualificato il licenziamento intimato per raggiunti limiti d’età. La tematica, già affrontata con riferimento alle vecchie ipotesi di opzione, trova oggi nuovo vigore nella disciplina dell’art. 24 e, ancora una volta, la giurisprudenza risulta divisa nella qualificazione della fattispecie. Alcune decisioni ricorrono alla categoria della c.d. nullità virtuale (47): l’art. 24, comma 4 configurerebbe una norma imperativa e, pertanto, il licen- ziamento intimato in sua violazione, per possesso dei requisiti pensionistici, sarebbe nullo ex art. 1418 c.c. Questa, d’altronde, era già l’opinione che si era formata con riferimento agli artt. 6 del D.L. n. 789/1981 e 6 della L. n. 407/1990 (48), dai quali la giurisprudenza ricavava un divieto di licenziamento individuale per raggiunti limiti di età che comunque non precludeva la licenziabilità per altri motivi. E, in questo caso, la nullità investiva non solo il recesso, ma lo stesso rifiuto del datore di consentire la prosecuzione dell’attività lavorativa malgrado l’esercizio della prevista facoltà. In ogni caso, non vi sarebbe stato alcun mutamento del regime di stabilità a cui il rapporto era assoggettato, “ad esso continuando ad applicarsi, dopo l’avvenuto ripristino (...) la tutela obbligatoria (ex art. 8 legge n. 604/1966) ovvero la tutela reale (ex art. 18 legge n. 300/1970) quali erano applicabili in precedenza, prima cioè della intervenuta causa di nullità di diritto comune (49)”. Ad avviso di chi scrive una simile soluzione non può essere accolta perché, leggendo queste pronunce, possiamo vedere come le stesse muovano da una visione forse condizionata dalle categorie inerenti alle vecchie ipotesi di opzione. Come noto, nella teoria generale del diritto norma imperativa è quella che impone ad un soggetto “un dover-fare o un non-poter fare incondizionato (50)”; in questo tali disposizioni si distinguono da quelle costitutive o di competenza, che “non prescrivono un comportamento, ma indicano l’effetto giuridico che segue ad un determinato fatto (51)”. Tuttavia non sempre, a fronte di una norma imperativa, vi è l’indicazione dell’effetto riconnesso alla sua violazione: soccorre quindi la teoria della c.d. “nullità virtuale”, elaborata proprio per individuare le conseguenze della violazione delle norme impe- (46) Decreti del Ministero del Lavoro 15 maggio 2012 e del 22 giugno 2015 sulla revisione triennale dei coefficienti di trasformazione del montante contributivo (47) Trib. Torino 29 marzo 2013, cit.; C. App. Torino 24 ottobre 2013, cit. (48) Corte cost. 30 dicembre 1994, n. 465; Cass. 3 giugno 2000, n. 7433; 10 giugno 1998, n. 5787; 12 agosto 1997, n. 7495; 5 maggio 1995, n. 4904; 20 agosto 1993, n. 8825; 13 novembre 1992, n. 12233. (49) Cass. 8 novembre 1999, n. 12419. Cfr. pure Cass. 14 agosto 2008, n. 21702. Si tratta di pronunce che rimandano a Corte cost. 30 dicembre 1994, n. 465, con nota di Gramiccia, Opzione per la prosecuzione del rapporto di lavoro e invalidità del licenziamento, Mass. Giur. lav., 1994, 660; Id. 8 giugno 1994, n. 225, con nota di Pileggi (3), La Corte Costituzionale ritorna sull’opzione del dirigente, Giur. cost., 1994, 3169; 18 giugno 1992, n. 309. (50) F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, I, Milano, 1957, 47. Questo perché, come rileva G. Ferraro, Intervento, in Inderogabilità delle norme e disponibilità dei diritti, Atti delle giornate di studio di Diritto del lavoro, Modena, 18 - 19 aprile 2008, Milano, 2009, 269 ss., “L’inderogabilità qualifica determinate norme in relazione agli interessi implicati, che sono interessi i quali investono l’intera collettività o, comunque, interessi che riguardano una parte notevole della nostra comunità. Sono interessi superiori, per intenderci, cioè interessi che prescindono dalla considerazione e dalla esigenza di tutela del singolo lavoratore, che è soltanto uno strumento all’interno di un processo più ampio, nell’ambito del quale l’Ordinamento ritiene che alcuni valori, alcuni obiettivi, alcuni principi debbano essere tutelati con particolare rigidità”. La dottrina, tuttavia, non è concorde sul punto: si veda ad esempio M. Novella, L’inderogabilità nel diritto del lavoro. Norme imperative e autonomia individuale, Milano, 2009, 77, per cui “ai fini della configurazione di un’ipotesi di contrarietà a norma imperativa risulta del tutto ininfluente il tipo di interessi previsti dall’ordinamento attraverso la norma imperativa (...)”. (51) M. Novella, op. cit., 22, che a questo proposito fa l’esempio della norma che collega il fatto illecito alla configurazione dell’obbligo di risarcire il danno. Il lavoratore licenziato per raggiungimento dell’età pensionabile il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 773 Sinergie Grafiche srl Dottrina Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Rapporto di lavoro rative sprovviste di sanzione espressa. L’esame della struttura normativa rivela come nella stessa non vi sia alcun comando o divieto (si veda supra, par. 2), ma solo un diritto a mantenere le tutele (52). Semmai, se proprio si vuole procedere ad una qualificazione, l’art. 24 non è norma imperativa, ma costitutiva, che indica solamente gli effetti connessi (ma, si precisa, scaturenti solo in via mediata) alla scelta del lavoratore di continuare a lavorare: in particolare l’effetto previdenziale del calcolo dei coefficienti di trasformazione e quello sanzionatorio di applicazione dell’art. 18 Stat. lav., fino al settantesimo anno d’età. La giurisprudenza in parola fa quindi discendere la nullità virtuale dalla violazione di un precetto che non esiste. Al contrario, i presupposti a cui ricondurre l’illegittimità di tali ipotesi di recesso sono quelli generali, pertanto il licenziamento irrogato in ragione dell’età pensionabile, ma prima del limite massimo di flessibilità è, semplicemente, ingiustificato, con applicazione delle tutele indennitarie previste dagli artt. 18, comma 5, Stat. lav. e 3, comma 1, D.Lgs. n. 23/2015. Ciò detto, resta da chiedersi se l’ingiustificatezza rilevi sotto altro e diverso profilo. Certa dottrina e giurisprudenza sembrano adombrare che il riferimento al fattore età, o meglio al raggiungimento dei requisiti anagrafico e contributivo per la pensione, possa implicare un’ingiustificatezza qualificata e, in particolare, una discriminazione per età (53). Per tale via troverebbe sanzione anche il licenziamento dei lavoratori occupati in imprese soggette a stabilità obbligatoria e quello dei dirigenti, visto che la reintegrazione opera a prescindere dal fatto che il rapporto di lavoro sia o meno caratterizzato da un regime di recedibilità ad nu- tum. Con qualche difficoltà applicativa poiché, pure qui, si ripropongono i medesimi problemi inerenti l’esclusività o meno dell’intento discriminatorio; se in sede comunitaria prevale una nozione oggettiva della discriminatorietà (54), la giurisprudenza nazionale (55) continua ad essere assestata su una concezione soggettiva secondo la quale è richiesta la prova (56) dell’intenzionalità ed esclusività del motivo discriminatorio, in un’impostazione che fonde e confonde la nozione di discriminazione e quella di motivo illecito determinante (57). Questa, ictu oculi, sembrerebbe la conclusione cui pervenire alla luce della Dir. 2000/78/CE: in quanto discriminazione per età, sarebbero illegittime previsioni normative o clausole contrattuali che prevedano la risoluzione del rapporto in ragione del conseguimento dell’età pensionabile (58). Anche se, bisogna dirlo, la posizione della Corte di Giustizia non è univoca, ma modulata secondo le specifiche caratteristiche del caso concreto (59). Una serie di considerazioni evidenziano tuttavia i problemi sottesi a questa ricostruzione. Già ad una prima analisi, se optiamo per la discriminatorietà ci troviamo di fronte ad un cane che si morde la coda. Di fatto si arriva a dire che l’art. 4 statuisce che il raggiungimento dei requisiti pensionistici sia il presupposto per la libera recedibilità, ma non possa assurgere a legittima causale del recesso, o meglio che sarebbe ammissibile il licenziamento ogniqualvolta non sia motivato da ragioni (discriminatorie e in particolare) inerenti all’età. Questa affermazione implica un’evidente contraddizione concettuale: a ben vedere, infatti, proprio il fattore età opera quale fondamento (esclusivo o con altri motivi) del licenziamento, facendo venir meno la necessità di una giustificazione causale. (52) E questo lo rilevava già A. Pileggi, op. cit. (2), 163 con riferimento alle opzioni di cui al D.L. n. 791/1981 e alla L. n. 407/1990. (53) O. Bonardi, op. cit. (54) Si veda anche nel merito, Trib. Roma 14 ottobre 2014, Est. Armone, in www.osservatoriodiscriminazioni.org, che rileva come vi siano plurimi indici normativi da cui sia desumibile una propensione del legislatore verso l’abbandono di una concezione soggettivistica in favore di una concezione oggettiva della discriminazione (ad es. l’art. 2 del D.Lgs. n. 216/2003, l’art. 4 della L. n. 125/1991). In dottrina (C. Cester, op. cit.) si sottolinea che è questa, in materia di licenziamenti, la direzione indicata a livello normativo: infatti, l’art. 18, comma 1, Stat. lav., nella versione ex lege n. 92/2012, distingue nettamente l’ipotesi di licenziamento discriminatorio da quello per motivo illecito. Ci si è chiesti se la mancata menzione, nell’art. 2, D.Lgs. n. 23/2015, del motivo illecito riconduca ad unità le due nozioni, con conseguente reviviscenza della connotazione soggettiva e volontaristica della discriminazione: soluzione, questa, che sembra doversi escludere, visto che il licenziamento per motivo illecito non appare scomparso dall’orizzonte so- stanziale della disposizione, né la formula della legge delega pare sottintendere una diversa nozione strutturale di licenziamento discriminatorio. (55) Cass., Sez. lav., 16 luglio 2015, n. 14928 e la giurisprudenza ivi richiamata; 8 agosto 2011, n. 17087; 9 marzo 2011, n. 5555 e le pronunce ivi richiamate. (56) Il cui onere è in capo al lavoratore che agisce in giudizio. Per una disamina in materia, cfr. E. Tarquini, I licenziamenti discriminatori, in M. Cinelli - G. Ferraro - O. Mazzotta (a cura di), Il nuovo mercato del lavoro, Milano, 2013, 253 ss. (57) Questo anche per una circostanza di ordine meramente pratico, ossia il fatto che la casistica giurisprudenziale è dominata dai casi di licenziamento a scopi ritorsivi, mentre rari sono gli altri casi di licenziamento discriminatorio: si veda M.T. Crotti - M. Marzani, La disciplina del licenziamento per motivi discriminatori o illeciti, in M. Magnani - M. Tiraboschi (a cura di), La riforma del lavoro,Milano, 2012, 221 ss. (58) Tra le molte, Corte di Giustizia UE 13 settembre 2011, causa C-447/09, Prigge e a. (59) Per una disamina in materia, D. Izzi, Invecchiamento attivo e pensionamenti forzati, in Riv. it. dir. lav., 2014, 4, 484. 774 il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Dottrina Rapporto di lavoro Ravvisando una discriminazione per età, quindi, si rischierebbe di far ricadere nell’alveo della discriminatorietà ogni recesso intimato ex art. 4, L. n. 108/1990, riecheggiando quella dottrina (60) - irta di difficoltà applicative- che ampliava a dismisura l’area del licenziamento discriminatorio e, ancor di più, travolgendo la volontà legislativa sottesa all’art. 24, comma 4, D.L. n. 201, per cui sono esclusi dalla prosecuzione fino a settant’anni i lavoratori delle imprese soggette a stabilità obbligatoria. E infatti nell’ambito di questo orientamento c’è chi va direttamente oltre, concludendo per l’incompatibilità della libera recedibilità con la Dir. 2000/78/CE (61). Ma vi sono anche altre, più pregnanti, osservazioni. Quand’anche si ritenesse che il licenziamento per raggiungimento dei requisiti pensionistici integri discriminazione per età o, ancor di più, che l’art. 4 della l. n. 108/1990 debba essere disapplicato per contrasto con la Dir. 2000/78/CE, in tale direttiva c’è pur sempre un articolo 6 par. 1 che esclude la sussistenza di una discriminazione ove la disparità di trattamento sia oggettivamente e ragionevolmente giustificata da una finalità legittima, compresi obiettivi di politica del lavoro (62), e i mezzi per il suo conseguimento siano appropriati e necessari. Proviamo quindi a sottoporre la norma a prova di resistenza, modulandone l’analisi secondo i principi comunitari. Dal punto di vista teleologico, a più riprese la Corte costituzionale ha esplicitato che l’assenza di stabilità viene ammessa proprio perché, quale contro- partita, i lavoratori pensionabili possono accedere al trattamento di quiescenza: la mancata piena tutela è il riflesso giuridico dell’esigenza pratica, valutabile discrezionalmente dal legislatore, di garantire il necessario ricambio generazionale (63). Scopo, questo, che rientra appieno tra le finalità di politica sociale indicate nella direttiva. D’altro canto, la mancata specificazione degli obiettivi sottesi alla norma è irrilevante visto che, secondo la giurisprudenza comunitaria, basta che essi siano desumibili dal contesto generale della misura interessata (64). Inoltre, si badi bene, nel caso di specie non viene in rilievo l’età per se stessa, ma l’età unitamente alla possibilità di conseguire un trattamento di quiescenza: la stessa Corte di giustizia ha ritenuto che le norme sulla libera recedibilità per possesso dei requisiti pensionistici (nel caso considerato, rectius, le clausole colletive sul pensionamento obbligatorio) non fossero irragionevoli, ma costituissero misure appropriate e necessarie “in quanto la normativa pertinente non si basa unicamente su un’età determinata, ma prende altresì in considerazione la circostanza che gli interessati beneficino al termine della loro carriera professionale di una compensazione economica per mezzo della concessione di una pensione di vecchiaia” (65). Da ultimo, una questione trasversale al tipo di sanzione applicabile potrebbe sorgere circa il risarcimento del danno, e in particolare sulla deducibilità a titolo di aliunde perceptum del trattamento pensionistico medio tempore percepito: se già in passato c’era chi propendeva per una risposta affermativa (66), la giurisprudenza maggioritaria sembra in- (60) M. T. Carinci, Il licenziamento discriminatorio o “per motivo illecito determinante” alla luce dei princìpi civilisti: la causa del licenziamento, Riv. giur. lav., 2012, 641. (61) O. Bonardi, op. cit., 162; cfr. anche Trib. Genova 3 dicembre 2012, cit. (62) Benché in dottrina vi sia chi ritiene che le disparità legate al fattore età siano giustificate solo ove attuate allo scopo di recare un vantaggio allo stesso gruppo di soggetti destinatari del trattamento (così O. Bonardi, op. cit., 125 ss.), la Corte di Giustizia invece assume invece altra direzione, ritenendo legittimi trattamenti differenziati anche se a vantaggio di categorie diverse: ad esempio, nella tematica che ci interessa, al fine di favorire l’occupazione giovanile e garantire un’equa ripartizione generazionale. Cfr., ex multis, Corte di Giustizia UE 21 luglio 2011, cause riunite C-159/10 e C-160/10, Fuchs. (63) Corte cost. 1° febbraio 1983, n. 15; 14 luglio 1971, n. 174. D’altro canto, afferma la Corte di Giustizia, “la promozione delle assunzioni costituisce incontestabilmente una finalità legittima di politica sociale o dell’occupazione degli Stati membri, in particolare laddove si tratta di favorire l’accesso dei giovani all’esercizio di una professione”: così, richiamando la sentenza 18 novembre 2010 Georgiev, cause riunite C-250/09 e C268/09, ha statuito la Corte nella decisione del 21 luglio 2011, Fuchs, cit., 49. (64) Così Corte di Giustizia UE 5 marzo 2009, causa C- 388/07, Age Concern England. Ma, rileva la Corte, “Semplici affermazioni generiche, riguardanti l’attitudine di un provvedimento determinato a partecipare alla politica del lavoro, del mercato del lavoro o della formazione professionale, non sono sufficienti affinché risulti che l’obiettivo perseguito da tale provvedimento possa essere tale da giustificare una deroga al principio in discorso, né costituiscono elementi sulla scorta dei quali poter ragionevolmente ritenere che gli strumenti prescelti siano atti alla realizzazione di tale obiettivo”. Spetta quindi al giudice nazionale verificare se la norma risponde ad una finalità legittima ed i mezzi adottati siano appropriati e necessari. In questo senso anche Corte di Giustizia UE 21 luglio 2011, C159/10 e C-160/10, Fuchs, cit., punto 39; 12 ottobre 2010, causa C-45/09, Rosenbladt, punto 58; 12 gennaio 2010, causa C341/08, Petersen, punto 40; 16 ottobre 2007, causa C-411/05, Palacios de la Villa, punti 56 e 57. Si veda F. Amato, Discriminazione per età: Cenerentola troverà la sua scarpetta?, in DL-Rivista critica di diritto del lavoro privato e pubblico, 2009, 1, 96; M. Russo, op. cit. (2). Nella giurisprudenza di merito, Trib. Genova 11 novembre 2013, cit. (65) Corte di Giustizia UE 16 ottobre 2007, causa C-411/05, Palacios de la Villa; così anche 5 luglio 2012, causa C-141/11, Hörnfeldt, punto 42 e 12 ottobre 2010, causa C - 45/09, Rosenbladt, punto 48. (66) Cfr. A. Pileggi, op. cit. (2), 133 ss., che menziona Cass. il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 775 Sinergie Grafiche srl Dottrina Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Rapporto di lavoro vece orientata in senso contrario. Questo perché “il diritto alla pensione discende dal verificarsi di requisiti di età e contribuzione stabiliti dalla legge, prescinde del tutto dalla disponibilità di energie lavorative da parte dell’assicurato che abbia anteriormente perduto il posto di lavoro e non si pone, di per sé, come causa di risoluzione del rapporto di lavoro, sicché le utilità economiche che il lavoratore ne ritrae, dipendendo da fatti giuridici del tutto estranei al potere di recesso del datore di lavoro, si sottraggono all’operatività della regola della ‘compensatio lucri cum damno’” (67). Nel caso di specie, poi, la declaratoria di illegittimità travolgerebbe ex tunc il diritto al pensionamento, con conseguente ripetizione da parte dell’ente previdenziale degli importi percepiti, che quindi non si traducono in un arricchimento patrimoniale per il lavoratore. Brevi considerazioni finali Per quanto si sia cercato di sbrogliare l’intricata matassa legislativa, l’esame del testo normativo evidenzia notevoli aporie che richiederebbero, in ultima analisi, un intervento chiarificatore del legislatore. La pronuncia delle Sezioni Unite, infatti, non sembra dirimente, e d’altronde un testo legi- 5 giugno 1996, n. 5228. (67) Cass., SS. UU., 13 agosto 2002, n. 12194 ripresa, tra le molte, da Cass. 15 luglio 2014, n. 16143 e 14 giugno 2007, n. 13871; Cass. 19 maggio 2000, n. 6548, con nota di C. Corsinovi, Risarcimento del danno da licenziamento illegittimo e deducibilita delle erogazioni pensionistiche percepite medio tempore dal lavoratore, Riv. it. dir. lav., 2001, 351. Cfr. anche Fondazione Studi Consiglio Nazionale dell’Ordine Consulenti del lavoro, Parere 13 febbraio 2012, n. 4. Questa soluzione si spiega sulla base dell’assunto (non pacifico in giurisprudenza) che, in materia di compensatio lucri cum damno, il pregiudizio e l’incremento patrimoniale si fondino sul medesimo fatto. Si segnala Cass., Sez. lav., 22 dicembre 2009, n. 26988 in cui, a fronte di una precedente sentenza che aveva dedotto dal risarcimento del danno quanto percepito dal lavoratore a titolo pensionistico, il datore di lavoro ha subito l’ulteriore condanna a restituire all’ente previdenziale i ratei portati in detrazione dalle somme corrisposte a titolo risarcitorio. 776 slativo sì lacunoso non rende di certo agevole il compito per l’interprete. Lacunosità probabilmente dovuta ad una tecnica legislativa convulsa, a suon di decretazione d’urgenza, che lascia poco tempo non solo per ponderare gli effetti della legge, ma anche per elaborare un testo dotato di sufficiente chiarezza sistematica. D’altro canto, sul piano della politica del diritto, simili operazioni lasciano senz’altro perplessi: se scopo del legislatore è incrementare l’occupazione giovanile, ci si rende conto che è un po’ difficile perseguire l’obiettivo prolungando ad libitum la vita lavorativa dei più anziani e prevedendo, quale contraltare, il palliativo di una drastica riduzione delle tutele per i nuovi assunti (68). Ma, paradossalmente, si ritiene che solo questa possa essere la via da percorrere se si vuole che un domani i sistemi pensionistici siano in grado di garantire pensioni adeguate anche alle future generazioni (69). Ciò rende evidente l’urgenza di porre mano al sistema previdenziale, adottando scelte coraggiose che abbattano privilegi acquisiti, verso la generale corrispettività delle prestazioni in un’ottica di necessaria equità intergenerazionale. (68) Cfr. M. Russo, op. cit. (1); M. Cinelli, op. cit. Quest’ultimo Autore rileva inoltre come tali misure possano determinare una notevole destabilizzazione, almeno nell’immediato, nelle programmazioni aziendali, con una possibile discrasia rispetto a quanto delineato nello stesso decreto che prevede, all’opposto (art. 4, commi 1-7), misure di incentivo all’esodo dei lavoratori più anziani, configurando una sorta di prepensionamento: le politiche di elevazione dell’età pensionabile finiranno col “favorire le istanze di implementazione degli ammortizzatori sociali e, dunque, per porsi in contrasto, di fatto, con le politiche di contenimento della spesa, indubbiamente rilevanti anche in quel settore ”. (69) Si veda, al proposito, The 2015 Pension Adequacy Report: current and future income adequacy in old age in the EU, redatto dalla Commissione europea e dal Social Protection Committee, il cui testo è reperibile all’indirizzo http://europa.eu/rapid/press-release_IP-15-5769_it.htm. il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Lavoro autonomo Tutela della paternità Indennità di maternità e diritti del padre avvocato Cassazione Civile, Sez. lav., 2 maggio 2016, n. 8594 - Pres. G. Napoletano - Rel. G. Bronzini C.E. c. Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense Indennità di maternità - Libere professioniste - Mancata estensione della provvidenza al padre avvocato al di là delle ipotesi espressamente previste - Discriminazione - Non sussiste (D.Lgs. 26 marzo 2001, art. 70) L’indennità di maternità per le libere professioniste, disciplinata dall’art. 70 del D.Lgs. n. 151 del 2001, è finalizzata, oltre che alla protezione del nascituro e del nucleo familiare, alla tutela della salute della madre biologica che nel periodo anteriore e successivo al parto ha una posizione non assimilabile a quella del genitore di sesso maschile, sicché, come evidenziato nella sentenza della Corte cost. n. 285 del 2010, non è irragionevole né discriminatoria la mancata estensione al padre della relativa provvidenza oltre le ipotesi di decesso e infermità della madre o suo abbandono del nucleo familiare o nei casi di adozione e affidamento, Né l’ordinamento comunitario, che promuove l’equiparazione tra i sessi e la tutela antidiscriminatoria dei lavoratori, preclude l’adozione di misure specifiche a tutela della salute della donna durante la gravidanza o i primi mesi di maternità. ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme Corte cost. 28 luglio 2010, n. 285. Difforme Trib. Firenze, Sez. lav., 20 giugno 2008; Trib. Catania, 2 novembre 2011. La Corte (omissis). Motivi della decisione Con il primo motivo si allega ex art. 360 c.p.c., n. 1 e 3 la violazione e falsa applicazione di norme di diritto. Violazione e falsa applicazione dell’art. 136 Cost., violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 151 del 2001, artt. 70 e 72, così come dichiarati illegittimi dalla corte costituzionale con la sentenza n. 385/2005 nella parte in cui non prevedono il principio che al padre spetti di percepire in alternativa alla madre l’indennità di maternità, attribuita solo a quest’ultima. La decisione di primo grado era corretta e doveva essere confermata alla luce del dispositivo della sentenza n. 385/2005 che dichiarava l’incostituzionalità sia dell’art. 70 sia dell’art. 72, senza fare alcun riferimento ai soli casi di adozione ed affido. La decisione di incostituzionalità riguardava tutti i casi di paternità ed aveva un chiaro carattere precettivo non creando alcun vuoto normativo; in ogni caso implicava un obbligo di interpretazione conforme in senso antidiscriminatorio e volto a garantire parità di trattamento per padri e madri. Tale interpretazione costituzionalmente conforme era tanto più legittima alla stregua dell’evoluzione del diritto Europeo con la direttiva sui congedi parentali ed alla luce dell’art. 16 della Carta comunitaria dei diritti sociali del 9.12.1989. Inoltre la stessa legislazione italiana mostrava il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 una chiara tendenza ad estendere anche ai padri una serie di misure volte a rafforzare il nucleo familiare ed a proteggere ed a valorizzare i bisogni e la personalità del bambino. La più recente sentenza n. 285/2010 non conferiva alcun crisma di legittimità costituzionale alla norma impugnata (art. 70) e comunque lasciava la possibilità di una nuova remissione alla Corte della questione o comunque di interpretare diversamente la medesima disposizione. Il motivo appare infondato. Giova premettere che il caso sottoposto all’attenzione di questa Corte concerne la domanda dell’Avv.to C. di percepire, a carico della Cassa nazionale di previdenza ed assistenza forense, l’indennità di maternità D.Lgs. n. 151 del 2001, ex art. 70 in luogo della moglie in un caso di maternità (e paternità biologica): l’Avv.to C. invoca la precettività “autoapplicativa” della sentenza n. 385/2005 che non sarebbe limitata al caso concretamente esaminato che concerneva la fattispecie di un genitore adottivo ed in ogni caso richiama la necessità di una interpretazione “costituzionalmente” orientata adottata dal giudice di prime cure) e comunque coerente con le linee evolutive del diritto sovranazionale e dello stesso diritto interno che tenderebbe ad assimilare, nell’interesse della protezione nel suo complesso del nucleo familiare e della valorizzazione dei bisogni del bambino, la situazione del padre e 777 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Lavoro autonomo della madre rispetto all’evento maternità, in funzione antidiscriminatoria. Questa Corte osserva che questioni sollevate hanno già trovato una condivisibile e ragionevole risposta nella sentenza n. 285/2010 con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato la inammissibilità della questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 70 (sollevata dalla Corte di appello di Venezia) con riferimento proprio ad un caso nel quale si rivendicava l’indennità di maternità per un padre biologico. La Corte delle leggi in motivazione ha affermato che “la rimettente basa il proprio dubbio di costituzionalità sul presupposto che il D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 70, non consentendo al padre libero professionista di usufruire, al posto della madre, della indennità di maternità, non tiene conto del principio secondo cui, in ragione del preminente interesse del bambino, i genitori devono godere di analoghe tutele in ambito lavorativo e, in particolare, del fatto che il suddetto beneficio è riconosciuto al padre adottivo, libero professionista, per effetto della sentenza n. 385 del 2005 di questa Corte, e al padre lavoratore subordinato, in applicazione del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 28. Tale questione non tiene conto che le situazioni poste a raffronto sono tra loro differenti, pur essendo esse accomunate dalla finalità di protezione del minore. Occorre a tal fine rilevare che la tutela della maternità e della paternità è frutto di un’evoluzione normativa - L. 8 marzo 2000, n. 53 (Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città); L. 9 dicembre 1977, n. 903 (Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro); L. 30 dicembre 1971, n. 1204 (Tutela delle lavoratrici madri) - che trova oggi la sua sintesi nel D.Lgs. n. 151 del 2001. Il legislatore con quest’ultimo testo normativo ha voluto disciplinare i diversi istituti posti a fondamento della sopra indicata tutela (congedi, riposi, permessi), valorizzando l’uguaglianza tra i coniugi e tra le varie categorie di lavoratori, nonché tra genitorialità biologica e adottiva, al fine di apprestare la migliore tutela all’interesse preminente del bambino. Sul punto assumono rilevanza le norme che riconoscono in condizione di parità, al padre e alla madre, indipendentemente dall’essere genitori naturali o adottivi, il congedo parentale (D.Lgs. n. 151 del 2001, artt. 32 e 36) e i riposi giornalieri (D.Lgs. n. 151 del 2001, artt. 39, 40 e 45). A questa evoluzione normativa ha contribuito in modo significativo la giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 371 del 2003, n. 197 del 2002, n. 405 del 2001). Dall’esame della legislazione e della giurisprudenza richiamate si evince che l’uguaglianza tra i genitori è riferita a istituti in cui l’interesse del minore riveste carattere assoluto o, comunque, preminente, e, quindi, rispetto al quale le posizioni del padre e della madre risultano del tutto fungibili tanto da giustificare identiche discipline. Diversamente, le norme poste direttamente a protezione della filiazione biologica, oltre ad essere finalizzate alla protezione del nascituro, hanno come scopo la tutela della salute della madre nel periodo anteriore e successivo al parto, risultando, quindi, di tutta evidenza che, in tali ca- 778 si, la posizione di quest’ultima non è assimilabile a quella del padre. Sul punto appaiono significativi il D.Lgs. n. 151 del 2001, artt. 16 e 28. L’art. 16, nel disciplinare il congedo di maternità, stabilisce che la donna lavoratrice dipendente non può essere adibita al lavoro nei due mesi antecedenti al parto e nei successivi tre. L’art. 28 prevede poi che “Il padre lavoratore ha diritto di astenersi dal lavoro per tutta la durata del congedo di maternità o per la parte residua che sarebbe spettata alla lavoratrice, in caso di morte o di grave infermità della madre ovvero di abbandono, nonché in caso di affidamento esclusivo del bambino al padre”. Al suddetto periodo è ricollegato il godimento dell’indennità di maternità pari all’80 per cento della retribuzione (D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 22). Dalla lettura dell’art. 28 risulta evidente che la posizione del padre naturale dipendente non è, come invece erroneamente sostenuto dalla Corte rimettente, assimilabile a quella della madre, potendo il primo godere del periodo di astensione dal lavoro e della relativa indennità solo in casi eccezionali e ciò proprio in ragione della diversa posizione che il padre e la madre rivestono in relazione alla filiazione biologica. Nel caso di specie, alla tutela del nascituro si accompagna, appunto, quella della salute della madre, alla quale è finalizzato il riconoscimento del congedo obbligatorio e della collegata indennità. In proposito va rilevato che questa Corte, con la sentenza n. 1 del 1987, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del L. n. 903 del 1977, art. 7 nella parte in cui non prevedeva che il diritto all’astensione dal lavoro, riconosciuto alla sola madre lavoratrice, fosse attribuito anche al padre lavoratore ove l’assistenza della madre al minore fosse divenuta impossibile per decesso o grave infermità. Alla suddetta pronuncia di incostituzionalità la Corte è giunta dopo aver affermato che il fine perseguito dal legislatore mediante l’istituto dell’astensione obbligatoria è quello di tutelare la salute della donna nel periodo immediatamente precedente e successivo al parto, tenendo conto anche delle esigenze relazionali e affettive del figlio in tale periodo. Pertanto, la Corte ha ritenuto irragionevole non estendere al padre il diritto all’astensione obbligatoria e, conseguentemente, all’indennità di maternità ad essa collegata, nei casi in cui la tutela della madre non sia possibile a seguito di morte odi grave impedimento della stessa, e ciò in quanto in simili ipotesi gli interessi che l’istituto dell’astensione obbligatoria può tutelare sono solo quelli del minore ed è quindi rispetto a questi che esso deve rivolgersi in via esclusiva. Tali condizioni non ricorrono evidentemente nel caso di specie”. Ora alla stregua delle precisazioni della Corte delle leggi risulta del tutto evidente che la decisione del 2005 non è auto- applicativa (self-executing), sempre che la stessa decisione possa riguardare anche casi diversi da quello espressamente esaminato che non riguardava la paternità biologica, essendo comunque necessario un intervento del legislatore volto a delineare il punto di bilanciamento tra principio di parità di trattamento tra coniugi, diritti del bambino e protezione specifica della salute e dell’integrità psico-fisica della madre in ordine a tutte le provvidenze che sono connesse all’evento “nascita biologica”. il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Lavoro autonomo La Corte delle leggi ha evidenziato come nel caso dell’indennità di maternità sussiste una specificità protettiva (che giustifica una tutela più intensa della sola donna) che riguarda proprio la salute della madre biologica (che si aggiunge alle finalità concernenti la protezione del bambino e del nucleo familiare), per cui la parità di trattamento tra coniugi- come osserva correttamente anche la sentenza impugnata- è stata assicurata in relazione a diverse ipotesi come l’infermità della madre o il suo abbandono del nucleo familiare o nei casi di adozione ed affidamento che giustificano, per ragioni piuttosto evidenti, un’estensione anche al padre della provvidenza in discorso. Il riferimento all’evoluzione del diritto sovranazionale non appare determinante e conclusivo perché proprio l’esempio citato della direttiva sui congedi parentali dimostra come l’azione regolatrice dell’Ue abbia voluto l’equiparazione tra sessi ad un istituto in cui viene prioritariamente in gioco l’interesse preminente del nucleo familiare (e dei minori) e non già quello alla salute della donna- madre. Inoltre il riferimento all’art. 16 della Carta del 1989 (prescindendosi dalla nota questione sul carattere precettivo o meno degli impegni di cui parla il Testo del 1989) oltre che generico non appare pertinente perché l’art. 16 certamente vuole promuovere la parità tra sessi nell’ambito del lavoro, ma non preclude una tutela più intensa protezione della donna in presenza, come nel caso in esame, di rischi specifici soprattutto alla salute in periodi delicati come la gravidanza ed i primi mesi di maternità. Questa differenziazione è peraltro resa evidente dalla formulazione dell’art. 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che al suo capoverso precisa che “il principio di parità non osta al mantenimento o all’adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato”. Pur non essendo la Carta direttamente applicabile come fonte vera e propria (art. 6 TUE) al caso l’esame che non esibisce una qualche connessione con il diritto Europeo (ex art. 51 della stessa Carta) certamente può, invece, offrire elementi di interpretazione “libera” posto il suo carattere espressivo dei “principi comuni agli ordinamenti Europei (cfr. Corte costituzionale n. 135/2002) che si deve presumere gli Stati membri rispettino. Pertanto la natura discriminatoria dell’esclusione dall’indennità di maternità dei genitori di sesso maschile non sembra presentare i denunciati connotati discriminatori né sotto il profilo interno che sotto quello sovranazionale. Si deve quindi rigettare il proposto ricorso. Le spese di lite del giudizio di legittimità, liquidate come al dispositivo- seguono la soccombenza. (omissis). IL COMMENTO di Roberta Nunin Con la sentenza in epigrafe la Corte di cassazione interviene in tema di diritti del padre libero professionista, negando che alla sentenza della Corte cost. n. 385/2005 possa riconoscersi una percettività “auto-applicativa” e ribadendo l’esclusione dei padri professionisti dalla possibilità di fruire dell’indennità di maternità, riservata alle professioniste madri, al di fuori dei pochi casi espressamente previsti. Il caso La sent. 2 maggio 2016, n. 8594, con la quale la S.C. ha negato la possibilità di estendere (al di fuori dei pochi casi espressamente previsti) al padre professionista la fruizione, in alternativa alla madre, dell’indennità di maternità riconosciuta alle professioniste madri dall’art. 70 del D.Lgs. n. 151/2001, (1) In argomento v. D. Gottardi (a cura di), La conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro. Il nuovo T.U. n. 151/2001 ai sensi del d. lgs. n. 80/2015, Torino, 2016; sia inoltre consentito rinviare anche a R. Nunin, I congedi parentali dopo il d. lgs. 15 giugno 2015, n. 80, in questa Rivista, 2016, 1, 14 ss. Per la ricostruzione del quadro normativo antecedente alla riforma, v., per tutti, M.L. Vallauri, Sub D. lgs. n. 151/2001, in R. De Luca Tamajo - O. Mazzotta (a cura di), Commentario breve alle leggi del lavoro, Padova, 2013 (V ed.), 1499 ss.; L. Calafà, Congedi e rapporto di lavoro, Padova, 2004; D. Gottardi, La tutela della maternità e della paternità, in L. Lenti (a cura il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 fornisce l’occasione per fare il punto sul contesto normativo di riferimento, dopo le recenti riforme attuate, nel quadro complessivo del c.d. “Jobs Act”, con il D.Lgs. n. 80 del 15 giugno 2015 (1). Nel caso di specie, la pronuncia del giudice di legittimità è stata originata da una vicenda che aveva visto un avvocato presentare domanda alla Casdi), Tutela civile del minore e diritto sociale della famiglia, in Trattato di diritto di famiglia diretto da P. Zatti, Milano, 2002, 522 ss.; R. Del Punta - D. Gottardi (a cura di), I nuovi congedi, in Lex 24, Milano, 2001; M. Miscione (a cura di), I congedi parentali, Milano, 2001. Con riguardo alle modifiche apportate al T.U. tra il 2010 e il 2012, nel quadro del collegato lavoro e della legge “Fornero”, v. L. Calafà, Congedi, aspettative, permessi, dopo il collegato lavoro, in Il nuovo diritto del lavoro, diretto da A. Perulli - L. Fiorillo, II, Rapporto individuale e processo del lavoro, Torino, 2014, 365 ss. 779 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Lavoro autonomo sa di previdenza e assistenza forense per ottenere la fruizione dell’indennità di maternità di cui all’art. 70 del D.Lgs. n. 151/2001 in luogo della moglie, sulla base di una presunta precettività “auto-applicativa” della pronuncia della Corte cost. n. 385/2005, che avrebbe dovuto ritenersi non limitabile al caso espressamente dalla stessa considerato e cioè alla fattispecie del genitore adottivo - in un’ottica di interpretazione costituzionalmente orientata della normativa di tutela dei diritti dei genitori, tendente ad assimilare la posizione del padre e della madre rispetto all’evento nascita, anche in chiave antidiscriminatoria. In effetti, una tale ricostruzione aveva trovato ascolto da parte del giudice di prime cure - il Tribunale di Catania (2) - che aveva riconosciuto il diritto del padre libero professionista a percepire l’indennità di cui all’art. 70 in alternativa alla madre e aveva condannato all’erogazione la Cassa forense. In sede di giudizio di secondo grado, tuttavia, la Corte d’Appello di Palermo aveva ritenuto che tale domanda dovesse essere rigettata, rilevando che la Corte costituzionale - nella sentenza in primo grado richiamata - aveva demandato al legislatore di stabilire un eventuale meccanismo attuativo per il riconoscimento al padre di tale indennità, che tuttavia non era stato attuato; inoltre, i giudici di secondo grado avevano anche osservato come la stessa Corte costituzionale, con la successiva sent. n. 285/2010, avesse sottolineato - in relazione sempre all’art. 70 del D.Lgs. n. 151/2001 - la possibile giustificazione della lamentata diversità di trattamento, in relazione alla protezione specifica della salute della madre, spettando solo al legislatore l’eventuale perequazione della minorata tutela approntata per il padre. Questa posizione è stata fatta propria anche dalla S.C. che, con la decisione in epigrafe, ha ribadito la carenza di un carattere selfexecuting della sentenza del 2005 della Consulta ed ha riconosciuto il carattere non discriminatorio dell’esclusione del padre professionista dalla possibilità di godimento dell’indennità di maternità, al di là dei casi espressamente previsti (morte o grave (2) V. Trib. Catania 2 novembre 2011. (3) V. D. Gottardi, Introduzione, in D. Gottardi (a cura di), La conciliazione, cit. 1 ss.; per un commento al quadro delle tutele per i genitori professionisti dopo la novella sia consentito rinviare qui a R. Nunin, Diritti e tutele per i genitori liberi professionisti e lavoratori autonomi, in D. Gottardi (a cura di), La conciliazione, cit., 109 ss. (4) Il carattere poco innovativo della riforma appare confermato, banalmente, anche dallo stesso lessico usato dal legislatore, che - ignorando completamente il dibattito degli ultimi anni per un uso non sessista della lingua - ha ritenuto di “rinominare”, rispettivamente, il Capo XI ed il Capo XII del D.Lgs. n. 151/2001 sostituendo alle precedenti rubriche declinate al 780 infermità della madre, abbandono del figlio, adozione e affidamento). La tutela dei genitori liberi professionisti nel decreto n. 80/2015 Il complesso intervento di riforma del lavoro del 2015 ha toccato anche il tema del work-life balance, mediante una rivisitazione complessiva della materia dei congedi e delle tutele per i genitori lavoratori, operata tramite il già citato D.Lgs. n. 80/2015 con l’obiettivo di aggiornare i contenuti del T.U. del 2001 (D.Lgs. n. 151/2001) tenendo conto anche dei diversi interventi della giurisprudenza della Corte costituzionale succedutisi negli anni precedenti. Tale articolata manutenzione della normativa di riferimento, se da un lato ha portato ad alcuni risultati sicuramente apprezzabili, ha lasciato tuttavia alcuni nodi irrisolti (3), tra i quali sicuramente uno dei più evidenti è legato alla persistente asimmetria che, anche dopo la riforma, continua a connotare i diritti e le tutele riconosciuti ai/alle lavoratori/trici nell’ambito delle libere professioni e del lavoro autonomo rispetto a quelle assicurate al lavoro subordinato, nonché per la confermata disparità nei diritti riconosciuti, in tali contesti, rispettivamente, alle madri ed ai padri. L’opzione del legislatore è stata chiaramente quella di muoversi in un’ottica di prudente continuità rispetto al passato, con una controllata e limitatissima estensione all’area del lavoro autonomo e libero-professionale di alcune tutele prima riservate al solo lavoro dipendente, senza avere però il coraggio di operare una riforma di carattere più radicale - anche in relazione ai problemi legati all’effettività delle tutele stesse - e maggiormente innovativa (4), che fosse attenta, ad esempio, al tema della difficile fruibilità dei diritti da parte delle lavoratrici e dei lavoratori autonomi titolari di rapporti caratterizzati da elevati livelli di discontinuità e precarietà (5). Rispetto alla posizione dei liberi professionisti - padri e madri - resta dunque innanzi tutto confermata, anche dopo la riforma, l’esclusione per professionisti e professioniste della possibilità di fruire femminile quelle al maschile plurale (“Lavoratori autonomi” e “Liberi professionisti”: v. artt. 14 e 17 del D.Lgs. n. 80/2015), inteso quest’ultimo come comprensivo anche del genere femminile. Sul punto v., già in sede di commento allo schema del decreto, le puntuali osservazioni critiche di D. Gottardi, Alcune osservazioni allo schema di decreto legislativo in materia di Conciliazione dei tempi di cura, di vita e di lavoro, 2015, 2 del dattiloscritto. (5) V. le considerazioni già espresse da chi scrive in R. Nunin, Diritti e tutele per i genitori liberi professionisti e lavoratori autonomi, in D. Gottardi (a cura di), La conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, cit., 109 ss. il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Lavoro autonomo In materia di diritti e tutele per i genitori professionisti, il legislatore del 2015 conferma dunque l’assetto regolativo precedente, che di fatto valorizza ancora la centralità della figura materna, prevedendo (v. art. 70 D.Lgs. n. 151/2001) che alle libere professioniste, iscritte ad un ente che gestisce forme obbligatorie di previdenza - enti elencati nella tabella D allegata al decreto n. 151/2001 (7) - sia riconosciuto il diritto alla corresponsione di un’indennità di maternità per i due mesi antecedenti la data del parto ed i tre mesi successivi alla stessa. Tale indennità è prevista nella misura dell’80% del solo reddito professionale percepito e denunciato ai fini fiscali come reddito da lavoro autonomo dalla libera professionista nel secondo anno precedente a quello dell’evento considerato, che è la nascita del bambino oppure l’aborto nel caso in cui, dopo il compimento del sesto mese di gravidanza, quest’ultima sia interrotta per motivi spontanei o volontari (8) (v. art. 71, comma 3, D.Lgs. n. 151/2001). La misura dell’indennità dovuta deve essere parametrata al reddito percepito e denunciato ai fini fiscali - con i limiti di cui subito si dirà senza che assuma rilievo la forma nella quale la professionista esercita la propria attività libero-professionale: di conseguenza, l’indennità dovrà essere corrisposta anche nell’ipotesi di attività svolta dalla lavoratrice avvalendosi delle forme dell’associazione professionale: in questo caso, tuttavia, dovrà tenersi conto della ripartizione del reddito complessivo in quote tra gli associati. Inoltre sono previsti un livello minimo ed un massimale per l’indennità di maternità: essa infatti non può essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione calcolata nella misura dell’80% del salario minimo giornaliero stabilito dall’art. 1 del D.L. n. 402/1981 nella misura risultante per la qualifica di impiegato, né può eccedere cinque volte l’importo minimo della prestazione, con la precisazione che, quanto al solo massimale, resta ferma “la potestà di ogni singola cassa di stabilire, con delibera del consiglio di amministrazione, soggetta ad approvazione del Mini- (6) Limitandoci all’ambito dell’avvocatura (particolarmente sensibile alle criticità sopra indicate, amplificate anche dal notevolissimo aumento del numero dei nuovi professionisti iscritti agli albi registrato nell’ultimo ventennio), segnaliamo che, proprio con riguardo a tali tematiche, è stato attivato a far tempo dal 2015 un progetto di collaborazione triennale tra la Cassa Forense ed il Censis che si propone di indagare, tra altre problematiche, anche la domanda di welfare degli avvocati e delle avvocate mediante l’approfondimento di una serie di questioni tra cui l’ingresso tardivo dei giovani nel mercato del lavoro, l’impatto della crisi sui redditi (e sulla capacità contributiva) e le persistenti e significative divaricazioni di genere (oltre che generazionali) interne al mondo libero professionale: v. http://notiziario.cassaforense.it. In argomento v. anche I. Troianiello, Casse di previdenza allo specchio: confronto su assistenza Welfare e futuro, in http://newsletter.cassaforense.it. (7) Gli enti elencati sono i seguenti: Cassa nazionale del notariato; Cassa nazionale di previdenza ed assistenza forense; Ente nazionale di previdenza ed assistenza farmacisti; Ente nazionale di previdenza ed assistenza veterinari; Ente nazionale di previdenza ed assistenza dei medici; Cassa nazionale di previdenza ed assistenza dei geometri liberi professionisti; Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei dottori commercialisti; Cassa nazionale di previdenza ed assistenza per gli ingegneri ed architetti liberi professionisti; Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei ragionieri e periti commerciali; Ente nazionale di previdenza ed assistenza per i consulenti del lavoro; Ente nazionale di previdenza ed assistenza per gli psicologi; Ente di previdenza dei periti industriali; Ente nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei biologi; Cassa di previdenza ed assistenza a favore degli infermieri professionali, assistenti sanitarie e vigilatrici d’infanzia; Ente di previdenza ed assistenza pluricategoriale; Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani (limitatamente alla gestione separata per i giornalisti liberi professionisti); Ente nazionale di previdenza per gli addetti e gli impiegati in agricoltura (limitatamente alle gestioni separate dei periti agrari e degli agrotecnici). (8) Nei casi previsti dagli artt. 4, 5 e 6 della L. 22 maggio 1978, n. 194. dell’istituto del congedo parentale: esclusione che appare sempre più discutibile, laddove si ponga mente ad un contesto che già da molti anni ha visto un significativo aumento della presenza femminile e che, nel contempo, appare sempre più segnato da una progressiva ‘proletarizzazione’ in diversi ambiti di attività delle/dei giovani professioniste/i, accentuato negli anni della crisi e caratterizzato da una rilevante contrazione delle aspettative reddituali rispetto al passato e dall’emergente esigenza (sostanzialmente ancora ignorata dal legislatore) di ripensare completamente anche per tali lavoratori e lavoratrici (considerati un tempo, a torto o a ragione, comunque dei privilegiati) strumenti innovativi di welfare e sostegno al reddito (6), in particolare per i più giovani, con lo specifico obiettivo di sostenere l’esercizio delle funzioni genitoriali e di favorire la conciliazione tra vita familiare e professionale. Le modifiche apportate si traducono quindi, nel contesto del lavoro libero professionale, in qualche ritocco alla normativa precedente, contenuta negli artt. 70-73 del D.Lgs. n. 151/2001, i quali avevano peraltro ripreso ed integrato nel T.U. le regole in materia di tutela della (sola) maternità introdotte a suo tempo per le libere professioniste dalla L. 11 dicembre 1990, n. 379. Padri liberi professionisti e tutela della genitorialità: un lungo percorso, ancora incompleto il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 781 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Lavoro autonomo stero del lavoro e delle politiche sociali, un importo massimo più elevato, tenuto conto delle capacità reddituali e contributive della categoria professionale e della compatibilità con gli equilibri finanziari dell’ente” (art. 70, comma 3 bis, D.Lgs. n. 151/2001) (9). Si ricorda che per le professioniste - a differenza di quanto previsto per le lavoratrici subordinate - la corresponsione dell’indennità di maternità non è subordinata all’effettiva astensione dall’attività lavorativa (v. art. 71, comma 1, D.Lgs. n. 151/2001), essendo la stessa rimessa alla scelta discrezionale della professionista: la normativa infatti, non casualmente, si esprime in termini di “indennità” e non di “congedo” di maternità (10). Su tale assetto regolativo la riforma del 2015 interviene proprio con specifico riguardo alla figura paterna. Infatti, delle poche modifiche apportate, la più significativa è sicuramente l’introduzione (ad opera dell’art. 18 del D.Lgs. n. 80/2015) all’art. 70 del D.Lgs. n. 151/2001 del nuovo comma 3 ter, il quale dispone che l’indennità di maternità di cui si è detto spetti ora anche “al padre libero professionista per il periodo in cui sarebbe spettata alla madre libera professionista o per la parte residua, in caso di morte o di grave infermità della madre ovvero di abbandono, nonché in caso di affidamento esclusivo del bambino al padre”. Abbiamo già so- pra richiamato la sent. n. 385/2005, con cui la Consulta aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 70 e 72 del D.Lgs. n. 151/2001 (11), nella parte in cui gli stessi non contemplavano il principio che al padre libero professionista potesse spettare di percepire in alternativa alla madre l’indennità di maternità attribuita solo a quest’ultima. In tale pronunzia, tuttavia, veniva considerato solo lo specifico caso dei genitori adottivi e affidatari e, per tale motivo, negli anni successivi non erano mancati in giurisprudenza dei contrasti interpretativi quanto all’applicazione dei principi affermati dalla Consulta anche ai padri biologici (12), con una parabola (temporaneamente) “chiusa”, cinque anni dopo, dalla sent. n. 285 del 2010, anch’essa già sopra ricordata, con la quale la Corte aveva respinto le questioni di costituzionalità relative all’art. 70 del D.Lgs. n. 151 nella parte in cui non prevedevano la piena estensione al padre professionista dell’indennità ivi contemplata (13). Trattasi, dunque, proprio del punto al centro della decisione della Corte di cassazione qui commentata. Con l’intervento della novella del 2015 - nell’ipotesi che entrambi i genitori siano liberi professionisti - è ora consentito al padre di fruire dell’indennità di maternità in alcune gravi e specifiche ipotesi: (9) Un massimale non era stato peraltro contemplato inizialmente dalla legge del 1990, ma esso venne successivamente introdotto (v. L. n. 289/2003) in seguito ad alcune vicende che avevano coinvolto in particolare la Cassa del notariato, vistasi costretta a corrispondere delle indennità di maternità che avevano in alcuni casi raggiunto degli importi notevolissimi. (10) Sul punto vi è stato a suo tempo un serrato dibattito in dottrina, poi composto dall’intervento della Corte costituzionale che con la sent. n. 3/98 aveva dichiarato l’infondatezza (con riferimento agli artt. 3, 32, 37 Cost.) della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, L. n. 379/1990, nella parte in cui prevedeva che l’indennità di maternità venisse corrisposta alle libere professioniste senza considerare la circostanza dell’effettiva astensione dal lavoro alla luce delle caratteristiche peculiari della categoria considerata e della possibilità per le professioniste di “autogestire” i tempi e le modalità del lavoro con la necessaria flessibilità, senza dover soggiacere a direttive eteronome e potendo comunque prevedere anche il ricorso a sostituti; la Corte, inoltre, guardando alla tutela della salute della madre e del nascituro ex art. 32 Cost., aveva avuto pure modo di osservare che “per assolvere in modo adeguato alla funzione materna, la libera professionista non deve essere turbata da alcun pregiudizio alla sua attività professionale”, apparendo tale obiettivo realizzabile solo “lasciando che la lavoratrice svolga detta funzione familiare conciliandola con la contemporanea cura degli interessi professionali non confliggenti col felice avvio della nuova vita umana”. V. Corte cost. 29 gennaio 1998, n. 3, in Riv. it. dir. lav., 1998, II, 226 ss., con nota di G. Pera, Indennità di maternità senza danno?; in Mass. Giur. lav., 1998, 550 ss., con nota di G. Della Rocca, La tutela della maternità tra lavoro subordinato e lavoro autonomo; in Riv. giur. lav., 1998, II, 385 ss. con nota di V. Lipari, Costituzionalità della disciplina dell’indennità di maternità alle libere professioniste, nella parte in cui non richiede l’effettiva astensione dal lavoro. Per una sintetica ricostruzione del dibattito dottrinale prima e dopo la sentenza della Consulta n. 3/98 sia consentito qui rinviare - anche per ulteriori riferimenti bibliografici - a R. Nunin, L’indennità di maternità per le professioniste: le ricadute della sentenza Corte Cost. n. 3/1998, in questa Rivista, 2000, 2, 149 ss. (11) Sia consentito in proposito rinviare a R. Nunin, Padre adottivo libero professionista e diritto all’indennità di maternità in alternativa alla madre, in questa Rivista, 2005, 12, 1129 ss., ed ivi ulteriori riferimenti bibliografici. Per un commento v. anche S. Borelli, Il padre lavoratore nella giurisprudenza costituzionale, in L. Calafà (a cura di), Paternità e lavoro, Bologna, 2007, 239 ss. (12) V. Trib. Rovigo 21 marzo 2008, n. 29, laddove si sottolinea come spetti necessariamente al legislatore prevedere e regolamentare i casi e le modalità di godimento dell’indennità di maternità per i liberi professionisti padri a seguito dell’intervento della Corte costituzionale con la sent. n. 385/05. Si sforza di dare una diversa lettura costituzionalmente orientata dell’art. 70 dopo la sentenza della Consulta, con il riconoscimento del diritto all’indennità di maternità anche al padre libero professionista in alternativa alla madre che decida di non avvalersene, Trib. Firenze, Sez. lav., 20 giugno 2008, in Riv. giur. lav., 2009, II, 140 ss., con nota di L. Calafà, Il padre libero professionista dopo la sentenza Corte Cost. n. 385/2005; si esprime in senso favorevole ad un’interpretazione conforme anche M. Papaleoni, Nuove frontiere di parità: i risvolti economici, in Mass. Giur. lav., 2008, 11, 863 ss. (13) V. Corte cost. 28 luglio 2010, n. 285, in Riv. giur. lav., 2010, II, 359 ss., con nota di L. Calafà, Padri liberi professionisti e tutela economica della maternità. La parabola interpretativa della Corte Costituzionale. 782 il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Lavoro autonomo morte, grave infermità o abbandono della famiglia (quando vi sia l’affidamento esclusivo del bambino al padre). Il legislatore però qui si ferma e non va oltre, e questa è anche la soglia davanti alla quale si arresta la Suprema Corte con la decisione in epigrafe. Infatti la Cassazione ritiene di fare propria la cornice argomentativa già adottata dalla sent. n. 285/2010 della Consulta, peraltro già a suo tempo criticata da una dottrina che ne aveva individuato i limiti, riconducibili in particolare ad un equivoco relativo alle forme ed agli strumenti di tutela esistenti per le madri libere professioniste, la cui ricostruzione risultava disattesa dalla Corte, che aveva invece scelto di focalizzare la propria attenzione sull’analisi delle tutele previste per il lavoro subordinato, “in un processo di omogeneizzazione argomentativa che allontana dalla realtà della normativa nazionale”, che (invece) si concentra sul sostegno economico la tutela delle libere professioniste (14). Questo profilo non viene indagato dalla Suprema Corte, che - non valorizzando affatto la chiave di lettura da ultimo richiamata - preferisce secondo l’ottica tradizionale e consolidata evidenziare la circostanza che le norme in materia di congedo di maternità, oltre che alla protezione del nascituro, siano direttamente finalizzate alla tutela della salute biologica della madre, ed in quanto tali possano ben fondare una diversità di trattamento dei due genitori, superabile in caso di morte, grave infermità o abbandono della madre proprio perché, nell’opinione della Corte, in queste fattispecie gli interessi da tutelare risultano essere solo quelli (residui) del minore. Per negare poi il carattere selfexecuting della pronuncia della Consulta del 2005, la Corte si limita a sottolineare - oltre che la diversità delle ipotesi che vengono in gioco (non riguardando tale decisione la paternità biologica) - anche la necessità di un intervento eventuale del legislatore per modificare l’assetto delle tutele, ritenendo che nel caso dell’indennità di maternità sussista “una specificità protettiva (che giustifica una tutela più intensa della sola donna) che riguarda proprio la salute della madre biologica (...), per cui la parità di trattamento tra coniugi (...) è stata assicurata in relazione a diverse ipotesi come l’infermità della madre o il suo abbandono del nucleo familiare o nei casi di adozione ed affidamento che giustificano, per ragioni piuttosto evidenti, un’esten- sione anche al padre della provvidenza in discorso”. Dunque, le sollecitazioni della dottrina e della giurisprudenza di merito non trovano per il momento accoglimento da parte della S.C., che rinvia la palla ad un legislatore che è tuttavia difficile immaginare interessato ad attivarsi nel breve/medio periodo sul punto, atteso l’eloquente silenzio in materia nel recente intervento di riforma. Sul piano sistematico, resta, però, una piccola perplessità che ci sembra più che legittima, alla luce della ricostruzione operata dalla S.C. della “natura” del congedo di maternità, e riconducibile alla contraddizione tra la lettura data dalla Cassazione di questo istituto e la circostanza della recente introduzione nel nostro ordinamento, sia pure in via dichiaratamente sperimentale, di un “nuovo” congedo di paternità (15) (con valenza generale e non legato, dunque, a situazioni di impossibilità/assenza della madre come quello previsto dall’art. 28 T.U.), sia pure solo per i lavoratori dipendenti e sia pure nella versione “sperimentale”, oltre che assolutamente “avara” e minimale (laddove confrontata con altre realtà europee), proposta dal legislatore italiano a far tempo dalla legge Fornero (v. art. 4, comma 24, lett. a, L. 28 giugno 2012, n. 92). Con questo istituto, infatti, si riconosce sotto un nuovo profilo - ed in modo, sia chiaro, assolutamente (ed auspicabilmente) perfettibile - l’autonomia di una genitorialità paterna egualmente meritevole di tutela e non appiattita sulla figura, sul ruolo e sulla biologia della madre. Sarà interessante vedere se la giurisprudenza, ancora prima di un legislatore non molto attento, riterrà di poter valorizzare questo spunto, che potrebbe rivelarsi utile in chiave riconoscimento ai padri professionisti della possibilità di godimento in alternativa dell’indennità di maternità, atteso che la diversità di trattamento, riaffermata dalla S.C. ed ancorata all’enfasi tradizionale posta sulla tutela “biologica” della madre appare ancora meno convincente laddove si ponga mente alla circostanza che, nel caso di specie, di “indennità” appunto si tratta (anche per la madre) - e non di congedo atteso la mancanza per le professioniste di un obbligo sospensivo dell’attività, se non per quanto fisiologicamente legato alle esigenze immediate e contingenti del parto e del puerperio (16). (14) Così L. Calafà, Padri liberi professionisti, cit. (15) Sul congedo di paternità v. L. Calafà, Il congedo di paternità, in D. Gottardi (a cura di), La conciliazione, cit., 41 ss. (16) V. sul punto anche L. Calafà, Il congedo di paternità, cit., in part. 42 e 62. il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 783 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Società cooperative Esclusione del socio-lavoratore La comunicazione dell’esclusione del sociolavoratore nelle cooperative Cassazione Civile, Sez. lav, 1° aprile 2016, n. 6373 - Pres. Roselli - Est. Riverso - P.M. Sanlorenzo (conf.) - Sant’Andrea società cooperativa sociale c. V.C.Y. Società cooperative - Esclusione del socio - Delibera di esclusione del socio lavoratore - Onere di comunicazione a pena di inefficacia (Cod. civ. art. 2533; L. 15 luglio 1966 n. 604; L. 20 maggio 1970, n. 300 art. 18; L. 3 aprile 2001, n. 142; L. 14 febbraio 2003, n. 30 art. 9) La comunicazione dell’esclusione del socio lavoratore nelle società cooperative deve avere la forma scritta ad essentiam alla stregua di quanto è previsto per il licenziamento individuale. Non sono legittime forme alternative di comunicazione dell’esclusione dalla società. ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme Non vi sono precedenti in termini. Difforme Corte d’Appello di Roma 7 novembre 1989. La Corte (omissis). Motivi della decisione 1.1 Deve essere premesso ai fini della decisione che, come risulta dalla sentenza d’appello, la lavoratrice era stata licenziata per motivi disciplinari il 24 ottobre 2011 ed aveva impugnato il licenziamento l’8 ottobre 2012 richiedendo la tutela reale e in subordine quella obbligatoria. Nel costituirsi in giudizio davanti al tribunale in funzione di giudice del lavoro, il 23 giugno 2012, la società cooperativa Sant’Andrea, oltre ad affermare la legittimità del licenziamento, sosteneva che la lavoratrice fosse stata altresì esclusa dalla cooperativa con delibera del 31 ottobre 2011, cui aveva fatto seguito la restituzione della quota sociale accreditata nella busta paga di ottobre 2011. Con la decisione in primo grado, il tribunale riteneva legittimo il licenziamento nel merito; rilevando che, quand’anche fosse stato da ritenersi illegittimo, sarebbe stata in ogni caso preclusa la tutela reale o obbligatoria richiesta in ricorso in mancanza della contestuale impugnazione da parte della socia lavoratrice della delibera di esclusione dalla cooperativa del 31 ottobre 2011”. Avverso detta statuizione la lavoratrice V.C.Y. proponeva appello col quale censurava la pronuncia per aver 784 anzitutto ritenuto provate le condotte addebitate, affermato inoltre la proporzionalità della sanzione espulsiva comminata, sostenuto infine che fosse precluso il ripristino del rapporto o la tutela reale, anche quando la mancata impugnazione della delibera di esclusione fosse dipesa dalla sua omessa comunicazione. La Corte d’Appello di Milano ritenendo fondato il primo e il secondo dei motivi d’appello, ha sostenuto, da una parte, che (a parte la pacifica assenza ingiustificata dal lavoro di un giorno) non fosse stata provata la condotta di falsificazione della attestazione di regolare presenza in servizio; e dall’altra che, qualora la medesima condotta fosse stata provata (con l’assunzione delle prove testimoniali dedotte dalla società, ma non assunte nemmeno in primo grado), la massima sanzione espulsiva comminata alla lavoratrice non potesse comunque ritenersi proporzionata all’effettiva gravità dei complessivi comportamenti alla stessa contestati, che non apparivano idonei a determinare una irrimediabile lesione dell’elemento fiduciario, in considerazione della sporadicità della condotta, dell’assenza di recidiva, della sua limitazione nel tempo; e tenuto altresì conto dell’art. 42 del CCNL di settore che, per l’assenza arbitraria da uno a tre giorni e per la irregolarità volontaria nelle formalità del controllo delle presenze, prevedeva - in mancanza di recidiva - la sospensione dal servizio e non già il licenziamento. il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Società cooperative Per quanto riguardava invece la tutela, la Corte - premesso che la socia, pur in mancanza di comunicazione, sarebbe venuta a conoscenza della delibera di esclusione “a seguito dell’avvenuta restituzione della propria quota sociale, documentata dalla busta paga del mese di ottobre 2011” - ribadiva la tesi, già sostenuta dal tribunale, secondo cui in mancanza della contestuale impugnativa della delibera di esclusione dalla medesima cooperativa non si potesse emettere alcuna pronuncia in merito all’invocata tutela reale ex art. 18 Statuto; “atteso che detta norma è stata esplicitamente dichiarata inapplicabile ai soci lavoratori di cooperativa ogniqualvolta venga a cessare - come in questo caso - con il rapporto di lavoro anche il rapporto associativo (v. L. n. 142 del 2001, art. 2)”. Sulla scorta di questa premessa la Corte si limitava a dichiarare l’illegittimità del licenziamento senza disporre tutela alcuna, neppure obbligatoria. 1.2 Contro questa pronuncia la Sant’Andrea società cooperativa sociale ha interposto ricorso per Cassazione, lamentando col primo motivo la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 142 del 2001, art. 5, comma 2, come mod. dalla L. n. 30 del 2003, e/o dall’art. 2533 c.c., u.c., in quanto, non avendo la lavoratrice, socia della cooperativa, impugnato l’atto di esclusione dalla medesima cooperativa, il recesso dal rapporto di lavoro non poteva essere valutato in via autonoma, stante l’estinzione del rapporto di lavoro come effetto automatico della delibera di esclusione, stabilito dalla normativa indicata. Con il secondo motivo il ricorso denuncia la stessa violazione della L. n. 142 del 2001, art. 5, comma 2, come mod. dalla L. n. 30 del 2003, e/o dall’art. 2533 c.c., commi 3 e 4, in relazione al diverso piano relativo al termine di impugnazione della delibera di esclusione ex art. 2533 c.c., il cui definitivo decorso precluderebbe oramai qualsiasi accertamento dell’illegittimità del recesso dal rapporto di lavoro, al pari di quanto accade con il decorso del termine per il licenziamento ex L. n. 604 del 1966. Con il terzo motivo il ricorso deduce l’omessa considerazione circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, avendo la società cooperativa esplicitato fin dalla memoria di costituzione in primo grado che la lavoratrice fosse stata appunto esclusa dalla compagine sociale per gli stessi fatti che le erano stati contestati a fondamento del licenziamento; ma questo fatto non sarebbe stato per l’appunto valutato dal giudice d’appello in tutta la sua portata. 2.- I primi tre motivi di ricorso essendo finalizzati a censurare la sentenza d’appello in relazione al nesso di pregiudizialità che intercorre tra provvedimento di licenziamento e delibera di esclusione (anche in conseguenza dell’omessa impugnazione di quest’ultima per decorso dei relativi termini) possono, per la loro evidente connessione, essere valutati unitariamente. Vi si sostiene infatti che in mancanza di impugnazione nei termini della delibera di esclusione comunque conosciuta dalla lavoratrice; e stante gli assorbenti effetti estintivi ex lege del medesimo provvedimento rispetto a quello di risoluzione del rapporto di lavoro; nessuna pronuncia sul li- il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 cenziamento potesse essere più emessa, in base alle norme di legge citate. 2.1 In punto di fatto, deve però ritenersi pacifica la circostanza secondo cui la delibera di esclusione in oggetto, presa il 31.10.2011, non sia stata mai comunicata alla lavoratrice. La Corte milanese sostiene però che la lavoratrice ne fosse chiaramente a conoscenza, a seguito della restituzione della quota sociale risultante dalla busta paga del mese di ottobre 2011. Ebbene, contrariamente a quanto affermato dai giudici di merito, ritiene questo collegio che secondo la normativa di settore la delibera di esclusione debba essere comunicata al lavoratore, in mancanza della quale rimanga totalmente inefficace e non decorra alcun termine d’impugnazione. L’art. 2533 c.c., così formulato con D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, prevede che: “L’esclusione del socio, oltre che nel caso indicato all’art. 2531, può aver luogo: 1) nei casi previsti dall’atto costitutivo; 2) per gravi inadempienze delle obbligazioni che derivano dalla legge, dal contratto sociale, dal regolamento o dal rapporto mutualistico; 3) per mancanza o perdita dei requisiti previsti per la partecipazione alla società; 4) nei casi previsti dall’articolo 2286; 5) nei casi previsti dell’art. 2288, comma 1. L’esclusione deve essere deliberata dagli amministratori o, se l’atto costitutivo lo prevede, dall’assemblea. Contro la deliberazione di esclusione il socio può proporre opposizione al tribunale, nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione. Qualora l’atto costitutivo non preveda diversamente, lo scioglimento del rapporto sociale determina anche la risoluzione dei rapporti mutualistici pendenti”. La L. n. 142 del 2001, dedicata al socio lavoratore di cooperativa, all’art. 5, mod. con la L. n. 30 del 2003, art. 9, dispone poi che “Il rapporto di lavoro si estingue con il recesso o l’esclusione del socio deliberati nel rispetto della previsioni statutarie e in conformità agli artt. 2526 e 2527 c.c.” (recte, artt. 2532 e 2533 c.c.). La stessa L. n. 142 del 2001, all’art. 2, dispone inoltre che “Ai soci lavoratori di cooperativa con rapporto di lavoro subordinato si applica la L. 20 maggio 1970, n. 300, con esclusione dell’art. 18, ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo”. 2.3 Emerge dunque dalle norme appena citate che la deliberazione di esclusione da socio possa essere presa (art. 2533 c.c.) per una svariata gamma di motivi previsti dagli artt. 2531, 2533, 2286 e 2288 c.c., e dall’atto costitutivo. Che la sua adozione determini ex lege l’estinzione del rapporto di lavoro, senza necessità che venga adottato un ulteriore provvedimento estintivo (L. n. 142 del 2012, art. 5, e art. 2533 c.c., u.c.). Che contro la deliberazione di esclusione (art. 2533 c.c.) il socio possa proporre opposizione al tribunale, nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione. Ne discende quindi che la deliberazione debba essere sempre comunicata al lavoratore e che il termine di 60 giorni per proporre impugnazione decorra soltanto dalla comunicazione della deliberazione. Non solo, si evince ancora dalle medesime norme che la comunicazione debba ave- 785 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Società cooperative re una motivazione ovvero un contenuto minimo necessario finalizzato a garantire l’esercizio del diritto di difesa; un contenuto che non può essere soddisfatto dalla restituzione della quota sociale nella busta paga. Questa tesi si impone in base ad un’interpretazione letterale e sistematica della normativa Anzitutto perché la delibera di esclusione può essere deliberata appunto per una varietà di motivi che vanno comunicati al lavoratore per un elementare rispetto delle garanzie di difesa; ed inoltre perché, secondo la legge, proprio dalla comunicazione della delibera decorre il termine di decadenza per l’impugnazione. La medesima tesi si impone inoltre in base ad un’interpretazione logica e costituzionalmente orientata della normativa, ove si ponga attenzione agli effetti, che la stessa società ricorrente reclama in questo giudizio, discendenti dall’adozione della deliberazione di esclusione: la quale, ai sensi della L. n. 142 del 2003, art. 5, come mod. dalla 130/2003, determina l’estinzione ipso iure del rapporto di lavoro con assorbimento di qualsivoglia questione in merito alla sorte del licenziamento, pur di fatto irrogato. 2.4 In effetti, la mancata tempestiva impugnazione in giudizio della delibera di esclusione, secondo l’interpretazione della domanda demandata al giudice (da ultimo individuato nel giudice del lavoro dalla Corte di Cassazione con ordinanze nn. 19975/2015, 24917/2014), non consentirebbe di emettere alcuna statuizione in merito al licenziamento, pur di fatto irrogato ed impugnato, stante l’effetto estintivo legale che rinvenirebbe comunque dal provvedimento di natura societaria, divenuto irretrattabile. Mentre non è ammissibile l’impasse in cui è caduta la pronuncia d’appello che ha dichiarato illegittimo il licenziamento disciplinare ma non ha applicato alcuna tutela, stante la mancata impugnazione dell’esclusione. In realtà i due rapporti che formano la complessa posizione contrattuale del socio lavoratore di cooperativa risultano collegati in base ad un nesso genetico e funzionale, tale per cui - in linea di principio - non può esistere l’uno senza l’altro, perché i due rapporti stanno o cadono insieme. Perciò in presenza di un’esclusione non impugnata non può essere dichiarata l’illegittimità del licenziamento né ripristinato il solo rapporto di lavoro, venendo in tal modo alterata la disciplina legale sulla complessa figura; all’interno della quale l’esistenza della posizione sociale è pregiudiziale rispetto alla nascita, allo svolgimento ed alla stessa esistenza in vita del rapporto di lavoro (nesso genetico e funzionale). Inoltre, sotto il profilo delle tutele la medesima L. n. 142 del 2001, (artt. 2 e 5, come mod. dalla L. n. 30 del 2003), ha stabilito che siano assorbenti quelle relative al profilo associativo; anche perché, sotto il profilo casuale, le ragioni di inadempimento lavoristico costituiscono in pari tempo altrettante ragioni di inadempimento associativo (il rapporto di lavoro serve all’adempimento del contratto sociale, mentre l’art. 2533 c.c., prevede come causa di esclusione dalla cooperativa l’inadempimento del contratto sociale). 2.5 In sostanza, data la gravità degli effetti che scaturiscono dalla sua adozione, essendo la delibera di esclusio- 786 ne idonea ad estinguere ad un tempo sia il rapporto associativo sia il rapporto di lavoro, essa deve essere comunicata al lavoratore. La soluzione appare rispondente sia alla disciplina generale ex art. 2533 c.c., u.c.; sia, a maggiore ragione, a quella speciale ex L. n. 142 del 2001, per la valenza costituzionale rivestita del rapporto di lavoro la necessità della cui protezione non sarebbe per nulla garantita ove potesse prodursi la sua estinzione, anche ex lege, pur in difetto di qualsivoglia comunicazione al lavoratore dell’atto che la produce (ancorché di natura societaria). Sarebbe poi, in ogni caso, illogico e paradossale che un atto con effetti estintivi duplici - che autorizza a non emettere alcun licenziamento per estinguere il rapporto di lavoro o che renderebbe carente di interesse la stessa controversia pendente sul licenziamento comunque già intimato - possa essere adottato senza essere neppure comunicato al lavoratore. Pertanto, per quanto attiene la speciale figura del rapporto di lavoro del socio di cooperativa, la disciplina di legge (ex art. 2533 c.c.) va integrata nel senso che alla delibera di esclusione si applicano, in base ad una esigenza di coerenza logica e di sistema, quanto agli oneri di comunicazione, i medesimi principi valevoli per il provvedimento di licenziamento. 2.5 (n.d.r.: così nel testo originale) La tesi appena enunciata appare inoltre conforme alla giurisprudenza consolidata di questa Corte di legittimità che si è pronunciata sul tema della necessità di comunicazione della deliberazione di esclusione dalla cooperativa; sia nel settore civile che in quello del lavoro. In questo senso, si è espressa infatti la Sez. 1, sentenza n. 17337 del 25 giugno 2008 allorché (in un caso in cui il procedimento di esclusione si perfezionava con la determinazione del collegio dei “probiviri”) ha stabilito che solo “la comunicazione di tale determinazione segna la decorrenza del termine per adire l’autorità giudiziaria, fissato in trenta giorni dall’art. 2527 c.c., comma 3, nel testo antecedente la riforma di cui al D.Lgs. n. 6 del 2003”. La Sezione lavoro della Cassazione ha fissato gli stessi principi con la sentenza 14143/2012, allorché ha osservato che “L’art. 2533 c.c., prevede che la delibera di esclusione del socio possa essere impugnata nel termine di 60 giorni dalla comunicazione della delibera stessa. È vero che la disposizione citata, come già l’art. 2527 c.c., nel regime precedente la riforma del diritto societario, non prevede formalità particolari per la comunicazione. Però richiede che la delibera sia comunicata perché decorra il termine per impugnarla. Pertanto non è sufficiente la mera conoscenza che di fatto il socio abbia della delibera stessa prima della sua comunicazione; sicché correttamente la corte d’appello ha fatto decorrere il termine suddetto per l’impugnativa dalla comunicazione della delibera e non già da un momento precedente, quale quello della produzione in giudizio da parte del socio della delibera stessa”. Sulla funzione della comunicazione della deliberazione si è pronunciata pure la Cassazione Sez. 1 con la sentenza n. 11558 del 9 maggio 2008 osservando che “In il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Società cooperative tema di società cooperative, la comunicazione al socio della delibera di esclusione adottata ai sensi dell’art. 2533 c.c., svolge la funzione d’informarlo non tanto di ciò di cui si è discusso nel corso del procedimento, bensì delle ragioni in concreto ritenute giustificative dell’esclusione dall’organo deliberante, dal momento che su di esse egli dovrà articolare le proprie difese; la sua incompletezza non comporta pertanto l’invalidità dell’atto, ma incide esclusivamente sulla decorrenza del termine per l’opposizione, non assumendo alcun rilievo, a tal fine, la conoscenza da parte del socio degli addebiti contestatigli nel corso del procedimento, in quanto gli stessi possono anche non coincidere con quelli posti a base dell’esclusione come deliberata dal competente organo societario, ben potendo accadere che gli iniziali addebiti siano ridimensionati o riconfigurati nella decisione finale, ovvero che quest’ultima, in caso di pluralità di addebiti, si basi soltanto su alcuni di essi”. D’altra parte l’opposizione ex art. 2533 c.c., è il solo mezzo dato al lavoratore per far valere gli stessi vizi della relativa deliberazione, senza che si applichino al socio lavoratore le normali azioni di nullità e annullabilità delle delibere, ex art. 2377 c.c. e ciò spiega ancor di più la necessita della relativa comunicazione (in tal senso Cass. Sentenza n. 25945 del 5 dicembre 2011 “Il socio escluso dalla cooperativa può far valere i vizi della relativa deliberazione esclusivamente mediante l’opposizione ai sensi dell’art. 2527 c.c., previgente, ratione temporis applicabile (attualmente, art. 2533 c.c., penultimo comma), da proporre entro il termine di trenta giorni dalla comunicazione, essendo tale procedimento del tutto distinto dai normali mezzi d’impugnazione delle deliberazioni assembleari, previsti dall’art. 2377 c.c. e ss.”). 2.6 Quanto al valore della produzione della delibera di esclusione nel corso del giudizio contro il licenziamento, su cui peraltro nulla ha addotto nei motivi di ricorso la Cooperativa ricorrente, essendo stata la questione introdotta - peraltro in via subordinata - con il ricorso incidentale dalla difesa della lavoratrice, è opportuno osservare fin da ora che, oltre nel precedente lavoristico costituito dalla sentenza 14143/2012 (prima richiamata), la Corte di Cassazione aveva già estesamente affermato l’irrilevanza di tale forma di conoscenza con la sentenza della Sez. 1, n. 7592 del 17 luglio 1999, chiarendo che: “La comunicazione della delibera di esclusione del socio ai sensi dell’art. 2527 c.c., ha la funzione di far decorrere il termine per l’impugnazione e di rendere edotto il socio delle ragioni della sanzione adottata al fine di consentirgli l’esercizio delle proprie difese; per produrre i suoi effetti la comunicazione deve essere fatta personalmente al socio con un mezzo idoneo a garantire che l’interessato venga direttamente a conoscenza del provvedimento; non può ritenersi mezzo idoneo, sostitutivo della comune raccomandata, la produzione della delibera in un giudizio pendente tra il socio e la cooperativa, che ha un oggetto diverso dall’impugnativa della stessa delibera, poiché l’effetto della comunicazione di documenti mediante produzione è circoscritto al processo in cui avviene e non può estendersi a rapporti non dedotti”. il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 3.- Pertanto, per le ragioni fin qui addotte, in mancanza di qualsiasi comunicazione della delibera di esclusione, il procedimento contro il licenziamento segue il suo corso e dovrà essere trattato in quanto tale, come un normale giudizio su un caso di licenziamento. E non decorre alcun termine di impugnazione ex art. 2533 c.c. Gli effetti descritti dalla L. n. 142 del 2001, art. 2, che precluderebbero l’applicazione dell’art. 18; e quelli ancora più radicalmente estintivi previsti dalla L. n. 142, art. 5, come mod. dalla L. n. 30 del 2003, (che precluderebbero l’applicazione di tutto l’apparato normativo formale, causale e remediale del licenziamento) presuppongono che la delibera di esclusione sia stata comunicata al lavoratore. 3.1 Da ciò consegue che vanno respinti i primi tre motivi di ricorso con i quali la cooperativa ricorrente mirava a sostenere che, pur senza comunicazione della delibera: a) l’esclusione dalla cooperativa comporti, ai sensi dell’art. 5 cit., un sicuro effetto estintivo assorbente in ragion del nesso di pregiudizialità che essa esercita sul rapporto di lavoro; e perciò l’estinzione automatica del rapporto di lavoro, senza che la Corte d’Appello potesse pronunciare alcun accertamento sulla illegittimità del licenziamento. b) il decorso definitivo del termine di impugnazione della delibera di esclusione ex art. 2533 c.c., precluderebbe - pur in mancanza di formale comunicazione - qualsiasi accertamento dell’illegittimità del recesso dal rapporto di lavoro, “al pari di quanto accade con il decorso del termine per il licenziamento ex L. n. 604 del 1966” (soggetto peraltro invece all’onere di comunicazione); c) non sarebbe stato valutato dal giudice d’appello in tutta la sua portata, il fatto, esplicitato fin dalla memoria di costituzione in primo grado, che la lavoratrice fosse stata esclusa dalla compagine sociale per gli stessi fatti che le erano stati contestati a fondamento del licenziamento. 4.- Con il quarto motivo il ricorso lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., e comunque della L. n. 604 del 1966, art. 1 e/o art. 3, non essendosi la Corte attenuta alla nozione di giusta causa prevista dalla legge. Con il quinto motivo deduce violazione e/o falsa applicazione dell’art. 42 CNNL cooperative sociali 2006/2009 posto che alla lavoratrice non era stata addebitata una mera irregolarità nella formalità del controllo presenza, come ritenuto dal giudice, bensì una condotta che sostanziava gli elementi della truffa e che poco aveva a vedere con quanto previsto dall’art. 42 del CCNL di settore o con una qualsiasi delle condotte ivi punite con la sola sospensione. I motivi di ricorso (4^ e 5^) avverso le statuizioni effettuate dalla sentenza d’appello circa l’insussistenza della giusta causa sono inammissibili. Va osservato in proposito che mentre non è stata mai discussa la responsabilità della lavoratrice per il primo addebito, ovvero la assenza ingiustificata dal lavoro per il giorno 5.9.2011; è stata invece confutata dalla Corte d’Appello la contestazione disciplinare relativa alla condotta di falsificazione (“falsa attestazione di mancata/erronea timbratura per il giorno 5.9.2011 consegnata in ufficio personale in data 12.9.2011”), in quanto non 787 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Società cooperative provata ed affermata dal primo giudice sulla base di meri indizi, di per sé non certi, né gravi, precisi e concordanti. Va ora osservato che i motivi di ricorso in discussione (4^ e 5^), formulati dalla cooperativa con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, non aggrediscono questa preliminare affermazione in fatto, costituente autonoma ratio decidendi, in difetto della cui impugnazione essa deve quindi ritenersi passata in giudicato. Talché a nulla varrebbe soffermarsi sui medesimi motivi in diritto, che si occupano della nozione legale di giusta causa o dell’interpretazione dell’art. 42 del CCNL cooperative sociali relativo alle condotte disciplinarmente rilevanti ed ai corrispondenti provvedimenti sanzionatori. Vero è che la stessa prova testimoniale dedotta dalla Cooperativa, sulla condotta disciplinare in oggetto, non è stata ammessa dalla Corte d’Appello perché ritenuta superflua, avendo il giudice ritenuto che seppure fosse risultata provata (anche la condotta di falsificazione) la sanzione espulsiva irrogata per i due illeciti sarebbe stata, a parere della Corte, nondimeno sproporzionata ed il licenziamento comunque illegittimo. Tuttavia, poiché la sussistenza in fatto della condotta addebitata risulta un presupposto, logicamente preliminare, a qualsiasi disamina sulla sua giusta rilevanza disciplinare, era necessario gravare la sentenza impugnata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, per l’omessa ammissione della prova da cui sarebbe risultata l’erroneità dell’affermazione della Corte in punto di responsabilità; oppure ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, qualora la Corte avesse omesso di considerare un qualche fatto decisivo per il giudizio già oggetto di discussione tra le parti e da cui si fosse evinta la prova della responsabilità della lavoratrice negata dalla Corte. Fermo restando, in ogni caso, il rispetto del principio di autosufficienza con la riproduzione testuale nel ricorso di tutti gli elementi indispensabili a questo giudice di legittimità per poter effettuare la valutazione sulla sussistenza della censura. Si trattava di doglianze necessarie per contestare uno degli aspetti autonomi della valutazione della giusta causa quale emerge anche dalla costante giurisprudenza di questa Corte; la quale ha da tempo chiarito che in sede di legittimità può essere dedotto come vizio di violazione di legge soltanto la inosservanza degli elementi definitori di carattere generale che la norma contiene quale “fatto che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”. Mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito ed incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici. Peraltro, anche nel merito i due motivi si rivelano infondati; posto che non costituisce violazione di legge l’aver considerato il fatto in contestazione, nella concretezza del suo accadimento, insuscettibile di costituire giusta causa perché non indicativo di grave negazione 788 degli elementi del rapporto ed in particolare della carenza dell’elemento fiduciario, che non implica solo che non sia posta in dubbio l’onestà del dipendente ma anche che non venga meno l’affidamento nella corretta esecuzione della prestazione. Lo stesso giudizio risulta riscontrato in concreto dalla Corte territoriale in base alle circostanze, messe in luce in sentenza, sulla sporadicità della condotta, l’assenza di recidiva, la sua concentrazione nel tempo. Si tratta di affermazioni che non appaiono di per sé né illogiche né altrimenti viziate. E che anzi risultano ulteriormente supportate dalla valutazione dell’art. 42 CCNL che per l’assenza arbitraria di durata superiore ad un giorno e non superiore a tre e per l’irregolarità volontaria nelle formalità del controllo delle presenze prevede la sospensione dal servizio e non il licenziamento. Infatti anche la censura relativa all’interpretazione della norma collettiva non è fondata, atteso che alla falsa attestazione di presenza in servizio si attaglia meglio la più specifica previsione riferita alla “irregolarità volontaria nelle formalità per il controllo delle presenze” piuttosto che quella assai generica, richiamata dalla cooperativa, all’azioni in grave contrasto con i principi della cooperativa per la quale soltanto è invece comminato il licenziamento. 5.- Da quanto fin qui osservato discende quindi l’infondatezza dei cinque motivi del ricorso principale che va perciò disatteso. 6.- Va accolto invece il primo motivo del ricorso incidentale relativamente alla violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2533 c.c., laddove la Corte d’Appello ha affermato erroneamente che il termine per impugnare l’esclusione possa decorrere, pur in mancanza di formale comunicazione, in quanto la socia sarebbe venuta a conoscenza della stessa deliberazione a seguito della liquidazione della quota sociale; liquidazione che però, alla luce di quanto già detto, è palesemente insufficiente allo scopo di portare a conoscenza della socia lavoratrice la deliberazione di esclusione ed il suo contenuto ai fini delle garanzie di difesa e della decorrenza del termine di impugnazione. Va poi avvertito che nel caso in esame non potendosi discutere della tutela da assicurare al socio lavoratore L. n. 142 del 2001, ex artt. 2 e 5, stante la mancata comunicazione della delibera - non potendosi cioè riconnettere nessun effetto alla delibera di esclusione - la tutela da assicurare al lavoratore sarà quella normale che discende dal giudizio sul solo licenziamento; sulla quale dovrà provvedere il giudice di rinvio, esaminando il relativo capo della domanda. 7.- Con il secondo motivo, svolto in via subordinata, la ricorrente incidentale sostiene che l’impugnazione della delibera è comunque avvenuta con l’atto di appello depositato il 6 ottobre 2012, nel termine di 60 giorni dal deposito della delibera in giudizio il 23 giugno 2012 con la memoria di costituzione della società cooperativa. Nell’atto di appello la lavoratrice aveva infatti chiesto specificamente la nullità, inefficacia, disapplicazione della delibera di esclusione del socio mai comunicata. Mentre lo stesso termine sarebbe soggetto a sospensione il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Società cooperative durante il periodo feriale e pertanto non sarebbe mai decorso. Con il terzo motivo lamenta la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 142 del 2001, art. 2, come mod. dalla L. n. 30 del 2003, per la mancata applicazione della tutela reale, atteso che la norma esclude la tutela reale nel caso in cui sia l’esclusione a provocare il licenziamento, ma non in quello contrario allorché il rapporto associativo sia cessato in conseguenza di un licenziamento (illegittimo), come nella fattispecie. Con il quarto motivo la ricorrente incidentale lamenta l’omessa pronuncia sulla domanda di tutela obbligatoria L. n. 604 del 1966, ex art. 8, avanzata in via subordinata. 8.- L’accoglimento del primo motivo di ricorso incidentale determina l’assorbimento degli altri tre. Va peraltro osservato che nessuna inammissibilità del primo motivo sussista per aver la medesima ricorrente incidentale affermato nel secondo motivo di aver impugnato la deliberazione con l’atto di appello, e di averla perciò conosciuta in conseguenza della sua produzione in giudizio nel corso del procedimento di primo grado sul licenziamento. Si tratta infatti di un motivo presentato “in via subordinata”, per l’ipotesi in cui fosse stata ritenuta legittima l’omessa comunicazione al socio della deliberazione di esclusione. 9.- Per le considerazioni che precedono il primo motivo di ricorso incidentale deve essere accolto, mentre restano assorbiti gli altri; la sentenza impugnata deve essere cassata e la causa deve essere rinviata, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione, che per la decisione si uniformerà al seguente principio di diritto: “La deliberazione di esclusione del socio lavoratore di cooperativa ex art. 2533 c.c., e L. n. 142 del 2001, art. 5, è soggetta all’onere della comunicazione al socio lavoratore, come un licenziamento. Essa ha un contenuto minimo necessario costituito dalla indicazione delle ragioni dell’esclusione e produce effetti al momento della comunicazione; in mancanza della quale è tamquam non esset. Non costituisce comunicazione della delibera di esclusione la restituzione della quota sociale, né la sua produzione nel corso del giudizio avverso il licenziamento”. (omissis). IL COMMENTO di Luigi Angiello La Suprema Corte enuncia un principio di diritto sulla comunicazione dell’esclusione del socio lavoratore nella società cooperativa, disciplinata dall’art. 2533 c.c. La sentenza porta un importante elemento di chiarezza affermando la necessità della forma scritta per la comunicazione dell’esclusione del socio lavoratore. Tuttavia rimane qualche incertezza in relazione all’affermata parificazione, quanto agli oneri di comunicazione, tra la comunicazione di esclusione ed il licenziamento, sotto il profilo del contenuto dei due atti. Il caso Una dipendente, nonché socia, di una Società cooperativa sociale impugnava avanti il Tribunale di Milano il licenziamento intimatole per motivi disciplinari, chiedendo, in via principale, la tutela reale e, in via subordinata, la tutela obbligatoria. L’interessata, per quanto è dato di ricavare dalla ricostruzione in fatto nella sentenza qui annotata, impugnava il licenziamento sia sotto il profilo formale che sostanziale. Sotto il profilo formale il dato più rilevante era costituito dalla mancata comunicazione all’interessata della delibera di esclusione da socia. Sotto il profilo sostanziale la lavoratrice assumeva che non vi sarebbero stati i presupposti per il licenziamento per motivi disciplinari. il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Il Tribunale di Milano rigettava il ricorso ritenendo legittimo il licenziamento nel merito aggiungendo, comunque, che, anche qualora il licenziamento fosse stato illegittimo nel merito, sarebbe stata preclusa in ogni caso sia la tutela reale sia quella obbligatoria in mancanza della impugnazione della delibera di esclusione da parte dell’interessata. La socia - lavoratrice impugnava la sentenza che veniva riformata dalla Corte d’Appello di Milano, la quale, nel merito, reputava illegittimo il licenziamento, in quanto i fatti addebitati all’interessata, anche qualora fossero stati provati, non sarebbero stati tali da compromettere irrimediabilmente l’elemento fiduciario e che, comunque, la massima sanzione espulsiva veniva ritenuta eccessiva. 789 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Società cooperative Sotto il profilo formale la Corte d’Appello confermava la sentenza di primo grado in ordine alla mancata impugnazione della delibera di esclusione dalla Cooperativa, da parte dell’interessata, che sarebbe venuta a conoscenza dell’esclusione a seguito dell’avvenuta restituzione della quota sociale, come risultante dall’ultimo foglio paga. La mancata impugnazione della delibera di esclusione avrebbe comportato - secondo i Giudici di appello - l’impossibilità di emettere alcuna pronuncia in ordine alla richiesta di applicazione dell’art. 18, L. n. 300/1970, secondo quanto stabilito dall’art. 2, L. n. 142/2001. Da ciò la declaratoria di ingiustificatezza del recesso senza che venisse accordata né la tutela reale né la tutela obbligatoria. La Società cooperativa ricorreva in Cassazione censurando la sentenza della Corte d’Appello sotto vari profili riguardanti la declaratoria sul licenziamento in assenza di impugnazione della delibera di esclusione. La socia lavoratrice resisteva con controricorso incidentale formulando quattro censure, la prima delle quali riguardava la comunicazione di recesso da socio, ai sensi dell’art. 2533 c.c., ed in particolare le caratteristiche di detta comunicazione, avendo la Corte d’Appello reputato sufficiente, quale comunicazione, la liquidazione della quota sociale alla socia-lavoratrice. La prima norma da prendere in considerazione è l’art. 2533 c.c., concernente le modalità di esclusione del socio nelle società cooperative, per la quale sono previsti due momenti finali: a) la delibera di esclusione del socio (1); b) la comunicazione della stessa al socio (2). La disciplina dettata dall’art. 2533 c.c. concerne l’esclusione del socio in generale. Essa va raccordata con la L. 3 aprile 2001, n. 142, parzialmente modificata dalla L. n. 30/2003, che all’art. 9 disciplina la figura del socio lavoratore nelle cooperative di lavoro (3). Come è noto, il rapporto di lavoro del socio lavoratore viene considerato un rapporto speciale di lavoro con caratteri peculiari distintivi rispetto al rapporto di lavoro subordinato. Il tema è stato oggetto di un vivace dibattito dottrinario sia per quanto concerne la coesistenza, accanto al rapporto sociale, di un ulteriore rapporto di lavoro subordinato (o autonomo) sia per quanto concerne lo svolgimento del rapporto sia, infine, in relazione all’estinzione del rapporto, sub specie di esclusione del socio lavoratore, punto focale che in questa sede viene trattato (4). Sulla necessità che il socio lavoratore sia posto a conoscenza dei motivi dell’esclusione la Cassazione si è già pronunciata in più di una occasione (5). Così pure la S.C. si è già pronunciata sulla sufficienza di un unico atto - la delibera di esclusioneper l’estinzione automatica del rapporto di lavoro senza che sia necessario uno specifico atto di licenziamento e sulla non applicabilità delle tutele previste dall’art. 7 Stat. lav. (6). Tuttavia, ciò non significa che, in ogni caso, il rapporto sociale prevalga sul rapporto di lavoro subordinato nella fase estintiva del rapporto con il socio lavoratore. È stato di recente affermato dalla S.C. che qualora la delibera di esclusione del socio lavoratore si fondi esclusivamente sul licenziamento disciplinare, in tal caso alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento consegue l’illegittimità della delibera di esclusione con applicazione dell’art. 18 Stat. lav. A tale risultato si giunge sulla base di quanto stabilito dall’art. 2 della L. n. 142/2001, che prevede l’applicazione dello Statuto dei lavoratori, salvo che con il rapporto di lavoro venga a cessare anche quello associativo (7). (1) “L’esclusione deve essere deliberata dagli amministratori o, se l’atto costitutivo lo prevede, dall’assemblea”: art. 2533, comma 2, c.c. (2) “Contro la deliberazione di esclusione il socio può proporre opposizione al tribunale, nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione”: art. 2533, comma 3, c.c. (3) Il riferimento è all’eliminazione delle parole “e distinto”, di cui tanto si è detto. (4) La letteratura giuridica sul tema è molto vasta. Mi limito in questa sede a richiamare la monografia di Palladini, Il lavoro nelle cooperative oltre il rapporto mutualistico, Padova 2006, nella quale l’A. ricostruisce approfonditamente il tema della qualificazione del rapporto di lavoro cooperativo, ponendo in luce i profili di espansione del diritto del lavoro all’area cooperativa (183 ss.). Più recentemente v. Gragnoli, Collegamento negoziale e recesso intimato al socio - lavoratore, in questa Rivista, 2007, 444 ss.; Imberti, Il socio lavoratore di cooperativa, Milano, 2012. (5) V. Cass. 6 agosto 2012, n. 14143 e Cass. 9 maggio 2008, n. 11558, entrambe richiamate nella sentenza qui annotata. È da rimarcare che la S.C. con la sent. n. 14143/2012 afferma l’irrilevanza della conoscenza aliunde dei motivi dell’esclusione. (6) V. In tal senso v. Cass. 12 febbraio 2015, n. 2802 con nota di Gamba, Questioni processuali controverse sulla tutela del socio di cooperativa estromesso, in Riv. it. dir. lav., 2015, II, 1122 ss. (7) In tal senso, abbastanza recentemente, Cass. 23 gennaio 2015, n. 1259, in Guida lav., 2015, n. 11, 63. La forma dell’esclusione del sociolavoratore ai sensi dell’art. 2533 c.c. 790 il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Società cooperative L’esclusione del socio lavoratore ha dato luogo ad un’elaborazione giurisprudenziale intensa, di cui si è sinteticamente dato conto. Peraltro, il tema della comunicazione dell’esclusione non è stato così diffusamente trattato. La sentenza annotata si segnala soprattutto per l’affermazione di un principio concernente la forma della comunicazione di esclusione e il contenuto della stessa, di cui ora si dirà. Come si è sopra posto in evidenza, il punto fondamentale della sentenza annotata riguarda la comunicazione della delibera di esclusione ed in particolare il contenuto della stessa. Secondo l’opinione prevalente, cui aderisce la sentenza annotata, la comunicazione dell’esclusione da socio vale ad estinguere entrambi i rapporti: sia quello sociale, sia quello di lavoro subordinato (8). Tuttavia, attesa la prevalenza del rapporto sociale su quello lavoristico, non sono applicabili al procedimento di esclusione le tutele previste dall’art. 7 Stat. lav. per i lavoratori subordinati (9). Ciò posto, occorre soffermarsi sui caratteri della comunicazione della deliberazione, a proposito dei quali alcun ausilio può essere tratto dall’art. 2533 c.c. La S.C., dopo avere affermato la necessità della comunicazione ai fini della decorrenza del termine per l’opposizione da parte del socio escluso, ha stabilito che “la disciplina di legge (ex art. 2533 c.c.) va integrata nel senso che alla delibera di esclusione si applicano, in base ad una esigenza di coerenza logica e di sistema, quanto agli oneri di comunicazione, i medesimi principi valevoli per il provvedimento di licenziamento”. Quest’ultima affermazione pone sullo stesso piano l’esclusione del socio e il licenziamento, per quanto concerne gli oneri formali. Ciò significa che anche per l’esclusione del socio è necessaria la forma scritta, essendo da escludere la possibilità di una comunicazione verbale (10). A tale conclusione la Cassazione giunge - anche se l’art. 2533 c.c. nulla dispone sulla forma della comunicazione - richiamando ragioni di coerenza logica e sistematica, che impedirebbero di trattare differentemente, quanto alla comunicazione, l’esclusione del socio e il licenziamento, i cui effetti nel rapporto di lavoro cooperativo coincidono. Tale conclusione è accettabile non soltanto in virtù di un’interpretazione sistematica ma anche facendo ricorso all’analogia ex art. 12 disp. att. c.c., potendosi ravvisare una lacuna nell’ordinamento. Peraltro, andando oltre la condivisione sul principio della forma scritta della comunicazione dell’esclusione, le questioni si complicano quanto alla natura della comunicazione e al contenuto della stessa. Occorre chiarirsi su cosa si debba intendere per comunicazione. Se, in particolare, la comunicazione vada intesa come atto in sé ovvero se vada intesa quale strumento finalizzato alla trasmissione di un atto. Qualora la comunicazione sia intesa come atto, come sarei propenso a ritenere, non potrebbe giungersi ad una perfetta parificazione, sotto il profilo del contenuto, tra la comunicazione dell’esclusione ed il licenziamento. L’atto del licenziamento, come è noto, deve essere scritto e motivato: art. 2, L. n. 604/1966, come novellato dalla L. n. 92/2012 (art. 1, comma 37), pena l’inefficacia. L’ambito di applicazione dell’art. 2 ora citato è limitato ai licenziamenti intimati per giustificato motivo oggettivo da datori di lavoro che abbiano sino a 15 dipendenti. Per i licenziamenti individuali per motivi oggettivi intimati dai datori di lavoro, ai quali si applica l’art. 18 L. n. 300/1970, è prevista la procedura preventiva regolata dall’art. 7, L. n. 604/1966, come novellato dall’art. 1, comma 40, L. n. 92/2012, che impone nella comunicazione di apertura oltre all’intenzione di licenziare di “indicare i motivi del licenziamento medesimo”. Per i licenziamenti disciplinari l’atto di recesso deve contenere i motivi, per tali intendendosi i fatti previamente contestati al dipendente. (8) In tal senso v. Cass. n. 2802/2015 cit.; in dottrina, v. Laforgia, Il lavoro in cooperativa, in Mass. Giur. lav., 2012, 850 (ivi ampi riferimenti di dottrina e giurisprudenza). (9) Cfr. Vincieri, Esclusione e licenziamento: quali tutele per il socio lavoratore di Cooperativa, in Riv. it. dir. lav., 2012, II, 866; in precedenza, molto chiaramente, Zoli, Le modifiche alla riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, in Scritti in onore di Giuseppe Suppiej, Padova, 2005, 1146 e Gragnoli, op. cit., 451. In giurisprudenza v. Cass. 12 febbraio 2015, n. 2802 e Cass. 5 luglio 2011, n. 14741. (10) Nel senso della necessità della forma scritta v. Cass. 12 gennaio 1988, n. 143: in quel caso la necessità della forma scritta venne affermata sulla base di una disposizione dello Statuto della Cooperativa, mentre con riferimento all’art. 2527 c.c. all’epoca vigente, la S.C. affermò che la comunicazione dell’esclusione “deve essere sufficiente a far conoscere al socio contenuto e motivi della decisione”. Difforme App. Milano 7 novembre 1989, in Giur. it., 1990, 2, 595. Il principio affermato nella sentenza annotata il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 791 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Società cooperative Sicché, nell’ambito dei licenziamenti individuali, il recesso, quale atto unilaterale motivato, va trasmesso (comunicato) al lavoratore nella sua interezza, non essendo possibile distinguere l’atto dalla comunicazione dello stesso, che è chiaramente strumentale. Di contro, la comunicazione dell’esclusione del socio lavoratore va intesa quale atto, distinto dalla delibera di esclusione. La comunicazione potrebbe, in ipotesi, coincidere con la delibera di esclusione, in caso di trasmissione in toto della stessa. Ma non pare che ciò sia richiesto, potendo essere sufficiente, come viene affermato nel principio di diritto enunciato nella sentenza annotata, “un contenuto minimo necessario costituito dalle ragioni dell’esclusione”. La sentenza annotata è in linea, quindi, quanto al contenuto della comunicazione di esclusione, con il precedente orientamento della S.C. la quale aveva già affermato, senza nulla statuire sulla forma, che la comunicazione dell’esclusione non necessariamente deve contenere in modo specifico i motivi dell’esclusione, essendo “sufficiente qualsiasi fatto o atto idoneo a rendere edotto il socio delle ragioni e del contenuto del provvedimento per porlo, conseguendosi in tal modo la finalità prevista dalla legge, nelle condizioni di articolare le proprie difese” (11). Ciò significa, quindi, che fermo il requisito della forma scritta, le ragioni a sostegno dell’esclusione possono legittimamente essere indicate in modo succinto, dovendosi però necessariamente far riferimento, per relationem, alla delibera di esclusione. La non perfetta equiparazione tra la forma del licenziamento e quella dell’esclusione lascia margini di incertezza circa il contenuto della comunicazione scritta di esclusione del socio, che comunque deve essere tale da porre in condizione l’escluso di valutare l’opportunità di proporre opposizione. Ciò implica che nella comunicazione scritta vi deve essere il riferimento alla delibera di esclusione e alle ragioni dell’esclusione, non necessariamente da indicarsi in modo specifico, come invece è richiesto nei licenziamenti individuali, come si è detto. Il principio di diritto enunciato nella sentenza annotata offre certamente elementi di chiarezza in ordine alla forma della comunicazione di esclusione, anche se, come si è visto, l’equiparazione con la forma del licenziamento lascia spazio a margini di incertezza. La pronuncia si pone, sotto tale profilo, nel solco di quella linea di tendenza, volta ad avvicinare sempre di più, per molti aspetti, la figura del sociolavoratore a quella del lavoratore subordinato sia dal punto di vista sostanziale che processuale. Pur riaffermandosi, con indirizzo che può dirsi ormai consolidato, la prevalenza del rapporto sociale sul rapporto di lavoro subordinato, si tende ad applicare le tecniche di tutela del lavoratore subordinato al socio lavoratore di cooperativa. Ciò detto sotto un profilo strettamente formale, riguardante la fase terminale del rapporto, restano in gran parte irrisolti i numerosi problemi scaturenti dall’interferenza tra il rapporto di lavoro sociale e quello di lavoro subordinato. In particolare, come si è già posto in rilievo, la giurisprudenza anche recente della Cassazione (12) in taluni casi ha fatto prevalere, nella fase estintiva, il rapporto di lavoro sul rapporto sociale stabilendo l’applicazione dell’art. 18 Stat. lav., pur in presenza di una delibera di esclusione del socio. Stabilire quali siano le gravi inadempienze del socio previste dall’art. 2533, n. 2, c.c. e quali siano le inadempienze del lavoratore in relazione al rapporto di lavoro subordinato potrebbe essere molto arduo in parecchi casi. Tale distinzione appare particolarmente difficoltosa in ipotesi di cessazione del rapporto sulla base del solo atto di esclusione. Qualora venga accertato che “nella sostanza” il rapporto di lavoro subordinato si sia risolto per motivi disciplinari e non per ragioni attinenti al rapporto societario, dovrebbe trovare applicazione la disciplina giuslavoristica e, quindi, trattandosi di licenziamento per motivi soggettivi, l’art. 7 Stat. lav. (13). La questione non è di poco conto, qualora la Società cooperativa, come accade spesso, decida di procedere con le regole del diritto societario limi- (11) Cass. 18 giugno 2004, n. 11402; conforme in dottrina, Vincieri, op. cit., 866. Parzialmente difforme la posizione di Zoli, op. cit., 1146 il quale afferma che la delibera di esclusione “dovrà essere idonea a consentire all’interessato di conoscere esattamente gli addebiti mossigli, a prescindere da una contestazione preventiva ed ai soli fin della garanzia del socio di esercitare con piena cognizione di causa il diritto di opposizione attraverso l’impugnazione della delibera stessa”. (12) V. Cass. n. 1259/2015, cit. (13) La S.C. nella citata sent. n. 1259/2015 afferma: “Ciò che rileva è che si sia avuta l’estromissione dalla società, con conseguente risoluzione del rapporto di lavoro subordinato per 792 Brevi considerazioni conclusive il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Società cooperative tandosi a comunicare, per iscritto e con motivazione adeguata, l’esclusione. In tali ipotesi, qualora fossero ritenute di natura disciplinare le ragioni addotte dalla Società, prenderebbe il sopravvento il rapporto di lavoro subordinato con l’applicazione della disciplina giuslavoristica (art. 18 Stat. lav. oppure L. n. 604/1966 oppure le regole dettate dal jobs act in tema di licenziamenti individuali). Il che porterebbe, nella maggior parte dei casi, ad esiti meno favorevoli rispetto alla tutela prevista dal diritto societario in ipotesi di annullamento della delibera di esclusione con i noti effetti ex tunc (14). Insomma, un bel pasticcio formale, procedimentale e sostanziale, intorno al quale ci sarà ancora molto da discutere. motivi disciplinari e non per ragioni attinenti al rapporto societario e che tali ragioni si siano rivelate inidonee a comportare detta estromissione, con illegittimità anche della risoluzione del rapporto di lavoro. In altri termini ciò che conta è la sostanza…”. (14) V. Sulle forme di tutela del socio lavoratore puntuali os- servazioni di Gragnoli, Collegamento negoziale e recesso intimato al socio lavoratore, cit., 452, il quale afferma che “non desta troppa preoccupazione il mancato operare dell’art. 18 St. lav.” e che “il socio non è in una posizione molto deteriore rispetto a quella che deriverebbe dall’art. 18 St. lav.”. il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 793 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Controversie del lavoro Onere della prova e repechage L’epilogo in tema di repechage e onere probatorio Cassazione Civile, Sez. lav., 22 marzo 2016, n. 5592 - Pres. Venuti - Rel. Patti - P.M. Mastroberardino - P.A. c. H.S.p.a. Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Onere della prova, del repechage in capo al datore di lavoro - Esclusione di allegazione a carico (legge n. 604/1966, artt. 5; cod. proc. civ. art. 414, nn. 3 e 4; cod. civ. art. 1175, 1206, 1375) In materia di illegittimo licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità dei repechage del lavoratore licenziato, in quanto requisito del giustificato motivo di licenziamento stesso, con esclusione di un onere di allegazione al riguardo posto a carico del lavoratore, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i due suddetti oneri, entrambi spettanti alla parte deducente la giustificatezza del licenziamento. ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme Cass. 18 marzo 2016, n. 4509. Difforme Cass. 14 gennaio 2016, n. 496 - Trib. Milano 13 gennaio 2016 - Cass. 23 settembre 2015, n. 18780. La Corte (omissis). Motivi della decisione Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3 e vizio di motivazione illogica, insufficiente e contraddittoria, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per mancato accertamento dell’effettiva cessazione, al di là del suo accorpamento ad altra, dell’attività della divisione Applicazioni Industriali e della soppressione delle proprie mansioni, senza alcuna giustificazione di ciò, nonostante la specificità al riguardo delle doglianze in appello. Con il secondo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, artt. 1175, 1375, 2697 e 2729 c.c. e vizio di motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per non ritenuto inadempimento dalla società datrice all’obbligo di repechage, pure con motivazione insufficiente e contraddittoria. Con il terzo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, artt. 1175, 1375, 2697 e 2729 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per erronea ripartizione dell’onere della prova, non posto a carico, secondo più rigoroso indirizzo interpretativo di legittimità, del datore di lavoro, senza alcun coinvolgimento collaborativo del lavoratore, come invece per altro indirizzo di minor rigore. 794 Con il quarto, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, artt. 1175, 1375 c.c. e vizio di motivazione illogica, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per mancata esatta valutazione della disponibilità manifestata allo svolgimento di mansioni anche inferiori, con la lettera del 25 marzo 2009 in risposta a quella datoriale di licenziamento senza preavviso del 17 marzo 2009, nell’impossibilità di manifestare prima una tale disponibilità, essendo all’oscuro della determinazione della propria datrice, con la conseguente inapplicabilità al caso di specie del principio acriticamente recepito dalla Corte territoriale, riguardante tuttavia ipotesi diversa di previa conoscenza della situazione dai lavoratori (prima oggetto di demansionamento impugnato giudizialmente e quindi) licenziati. Con il quinto, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, artt. 1175 e 1375 c.c. e vizio di motivazione contraddittoria, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per omessa valutazione del proprio carico familiare nella valutazione della preferenza datoriale per la conservazione dell’incarico di direttore della divisione Geotecnica al dr.B. in proprio danno. Il primo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3 e vizio di motivazione, per mancato accertamento dell’effettiva cessazione dell’attività della divisione Applicazioni Industriali e il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Controversie del lavoro della soppressione delle mansioni del lavoratore, è inammissibile. Sotto il profilo di violazione di legge, al di là della formale enunciazione della sua rubrica, esso non integra gli appropriati requisiti di erronea sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta regolata dalla disposizione di legge, mediante specificazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina (Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 31 maggio 2006, n. 12984). Né qui rileva una questione di sindacabilità, sotto il profilo della falsa interpretazione di legge, del giudizio applicativo di una norma cd. “elastica” (quale indubbiamente la clausola generale del giustificato motivo obbiettivo ai sensi della L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 3), che indichi solo parametri generali e pertanto presupponga da parte del giudice un’attività di integrazione giuridica della norma, a cui sia data concretezza ai fini del suo adeguamento ad un determinato contesto storico-sociale: in tal caso ben potendo il giudice di legittimità censurare la sussunzione di un determinato comportamento del lavoratore nell’ambito del giustificato motivo (piuttosto che della giusta causa di licenziamento), in relazione alla sua intrinseca lesività degli interessi del datore di lavoro (Cass. 18 gennaio 1999, n. 434; Cass. 22 ottobre 1998, n. 10514). E ciò per la sindacabilità, da parte della Corte di Cassazione, dell’attività di integrazione del precetto normativo compiuta dal giudice di merito, a condizione che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza del predetto giudizio rispetto agli standard, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (Cass. 26 aprile 2012, n. 6498; Cass. 2 marzo 2011, n. 5095): con limitazione, alla luce dell’esperienza applicativa della Corte, almeno nella sua teorica enunciazione, quando il giudice del merito sia chiamato ad applicare concetti giuridici indeterminati, del controllo di legittimità alla verifica di ragionevolezza della sussunzione del fatto e quindi ad un sindacato su vizio di violazione di norma di diritto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ben lontano da quello dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. s.u. 18 novembre 2010, n. 23287). Ed infatti, il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ricorre o non ricorre a prescindere dalla motivazione (che può concernere soltanto una questione di fatto e mai di diritto) posta dal giudice a fondamento della decisione (id est: del processo di sussunzione), per l’esclusivo rilievo che, in relazione al fatto accertato, la norma non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata male applicata (Cass. 15 dicembre 2014, n. 26307; Cass. 24 ottobre 2007, n. 22348). Sic- il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 ché, il processo di sussunzione, nell’ambito del sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto, presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata; al contrario del sindacato di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che invece postula un fatto ancora oggetto di contestazione tra le parti. Ciò che appunto si verifica nel caso di specie, in cui si controverte, non tanto (e per le ragioni dette) di esatta interpretazione di norme né di corretto esercizio del processo di sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta regolata dalla disposizione di legge denunciata (correttamente individuata nell’integrazione del giustificato motivo oggettivo dal processo di riorganizzazione aziendale comportante l’accorpamento della divisione già diretta da P. in quella Geotecnica, per crisi economica e finanziaria), quanto piuttosto di accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giustificato motivo soggettivo di licenziamento (effettiva soppressione delle mansioni del lavoratore): e pertanto sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli standard, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (Cass. 2 marzo 2011, n. 5095). Parimenti inammissibile è il denunciato vizio di illogica, insufficiente e contraddittoria motivazione, non più deducibile per l’attuale testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (di denuncia “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”), applicabile ratione temporis per la pubblicazione della sentenza impugnata in data posteriore (13 febbraio 2013) al trentesimo giorno successivo a quella di entrata in vigore della L. 7 agosto 2012, n. 134, di conversione del D.L. 22 giugno 2012, n. 83 (12 settembre 2012), secondo la previsione dell’art. 54, comma 3 del decreto legge citato. Esso ha, infatti, introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (nel senso che, qualora esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”; fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal 795 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Controversie del lavoro giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. Sicché, detta riformulazione deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Ed è pertanto denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053). Né l’omesso esame di elementi istruttori integra in sé il suddetto vizio, qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498): con la conseguente preclusione nel giudizio di cassazione dell’accertamento dei fatti ovvero della loro valutazione a fini istruttori (Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439). Il secondo (violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, artt. 1175, 1375, 2697 e 2729 c.c. e vizio di motivazione, per non ritenuto inadempimento dalla società datrice all’obbligo di repechage) e il terzo motivo (violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, artt. 1175, 1375, 2697 e 2729 c.c., per erronea ripartizione dell’onere della prova al riguardo) sono congiuntamente esaminabili per la loro stretta connessione. Essi sono fondati. Il collegio è ben consapevole di un consolidato indirizzo di questa Corte, ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 3 (accanto ad uno di chiara affermazione dell’onere datoriale della prova dell’impossibilità di impiegare il lavoratore in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, in relazione al concreto contenuto professionale dell’attività cui il lavoratore stesso era precedentemente adibito: Cass. 12 luglio 2012, n. 11775; 26 marzo 2010, n. 7381; Cass. 13 agosto 2008, n. 21579; Cass. 14 giugno 2005, n. 12769; Cass. 9 giugno 2004, n. 10916; Cass. 1 ottobre 1998, n. 9768; Cass. 26 ottobre 1993, n. 9369), secondo cui, se indubbiamente un tale onere competa al datore di lavoro, tuttavia esso conseguirebbe da un (diverso e propedeutico) onere, a carico dello stesso lavoratore che impugni il licenziamento, di allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro per la sua utile ricollocazione, in virtù di un preteso obbligo di collaborazione nell’accertamento di un possibile repechage (Cass. 6 ottobre 2015, n. 19923; Cass. 3 marzo 2014, n. 4920; Cass. 8 novembre 2013 n. 25197; Cass. 19 ottobre 2012, n. 18025; Cass. 796 26 aprile 2012, n. 6501; Cass. 8 febbraio 2011 n. 3040; Cass. 18 marzo 2010, n. 6559; Cass. 22 ottobre 2009, n. 22417; Cass. 19 febbraio 2008, n. 4068; Cass. 9 agosto 2003, n. 12037; Cass. 12 giugno 2002, n. 8396; Cass. 3 ottobre 2000, n. 13134): in una sorta, per così dire, di cooperazione processuale. Tuttavia, come chiaramente si evince dall’integrale lettura delle sentenze citate, un tale indirizzo imperniato su una netta (e inedita) divaricazione tra onere di allegazione (in capo al lavoratore) e di prova (in capo al datore di lavoro) è meramente tralaticio, fondandosi su una petizione di principio (secondo cui “il lavoratore, pur non avendo il relativo onere probatorio, che grava per intero sul datore di lavoro, ha comunque un onere di deduzione e di allegazione di tale possibilità di repechage”) assunta come postulato, in quanto affatto argomentata nel suo fondamento giuridico. Per trovare una spiegazione, occorre risalire ad una lontana sentenza, che, premesso l’onere datoriale, in tema di licenziamento per giustificato motivo obiettivo secondo costante orientamento della medesima Corte, di provare l’impossibilità di una diversa utilizzazione, trattandosi di circostanza pur sempre ricollegabile alle generali “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”, ha offerto la seguente giustificazione: “Pur sussistendo... siffatto carico probatorio sul datore di lavoro, resta peraltro pur sempre a carico del lavoratore, ricorrente in giudizio per ottenere l’annullamento del licenziamento, l’onere di dedurre ed allegare, in osservanza delle prescrizioni sulla forma della domanda dettate dall’art. 414 c.p.c. (secondo cui la domanda deve contenere, tra l’altro, l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali (essa) si fonda”: n. 3 cit. art. 414), le specifiche circostanze e ragioni costituenti i presupposti di tale azione. E pertanto - con riferimento al caso che qui interessa-è da ricondurre a tale onere, del lavoratore ricorrente, il dedurre e l’allegare circostanze di fatto e ragioni di diritto costituenti il fondamento della affermata illegittimità del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo: e così la insussistenza di un giustificato motivo, ovvero l’inadeguatezza in tal senso del motivo addotto dal datore di lavoro, ed anche la possibilità, comunque, di una sua diversa utilizzazione nell’impresa con mansioni equivalenti... Sarà poi onere del convenuto datore di lavoro, in opposizione alle suddette deduzioni e allegazioni attinenti agli elementi essenziali dell’azione contro di lui proposta, fornire la prova ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 5 cit. (che in sostanza contiene una specificazione del principio generale di cui all’art. 2697 c.c., comma 2) dei fatti impeditivi dell’azionato diritto ad ottenere l’annullamento del licenziamento: e fornire quindi la prova della sussistenza delle ragioni produttive e organizzative aziendali di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 3 cit. (ed in particolare, nel caso di specie, la prova della sostenuta riduzione dell’attività imprenditoriale per diminuzione degli appalti), nonché la prova che non v’era comunque possibilità di una diversa e adeguata utilizzazione del dipendente. Ma ove una siffatta possibilità di diversa utilizzazione (che costi- il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Controversie del lavoro tuisce elemento di fatto certamente collegato, ma pur sempre differenziato e distinto rispetto alle vere e proprie ragioni di carattere organizzativo, produttivo e funzionale riferite alla attività aziendale dal citato art. 3) non sia stata neppure allegata dal ricorrente tra gli elementi posti a fondamento dell’azione e tra i presupposti della sua domanda, non v’è ragione logica per cui il convenuto debba chiedere di provare la insussistenza di una tale circostanza, in quanto appunto nemmeno prospettata dalla parte interessata a farla valere” (Cass. 23 ottobre 1998, n. 10559). Appare evidente come i principi testualmente riportati (e che, si ribadisce, costituiscono la giustificazione del consolidato indirizzo qui confutato) non possano essere condivisi, e non solo perché già in precedenza smentiti, in particolare da due sentenze, secondo cui: “l’onere della prova della impossibilità di adibire il lavoratore allo svolgimento di mansioni analoghe e quelle svolte in precedenza, pur dovendo essere mantenuto entro limiti di ragionevolezza sì che può considerarsi assolto anche mediante il ricorso a risultanze probatorie di natura presuntiva e indiziaria... non può tuttavia essere posto direttamente o indirettamente a carico del lavoratore, neppure al solo fine della indicazione di posti di lavoro assegnabili invero, pur dovendosi tener conto della specificità dei vari settori dell’impresa, la superfluità del lavoro del dipendente licenziato deve essere valutata entro l’ambito dell’intera azienda e non già con riferimento al singolo posto ricoperto, nel senso che grava interamente sul datore di lavoro la dimostrazione della impossibilità di utilizzare il dipendente in altro settore della stessa azienda” (Cass. 7 luglio 1992 n. 8254); “La prova... dell’impossibilità di un diverso impiego della lavoratrice licenziata nell’azienda, senza dequalificazione, gravava per intero anch’essa sul datore di lavoro e non poteva quindi trasferirsi neppure in parte sulla lavoratrice (pur se al solo fine dell’indicazione di posti di lavoro a lei assegnabili). Non si vede in realtà come sia esigibile un’indicazione del genere da parte del lavoratore licenziato, che è estraneo all’organizzazione aziendale, e l’indirizzo in tal senso di questa Corte... può dirsi costante” (Cass. 18 aprile 1991, n. 4164). Con la loro enunciazione si ritiene, in buona sostanza, che la possibilità di una diversa utilizzazione del lavoratore licenziato in mansioni diverse (cd. repechage) sia elemento costitutivo della domanda di impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e perciò nell’onere di allegazione del lavoratore medesimo, cui il datore di lavoro opponga il fatto impeditivo “dell’azionato diritto ad ottenere l’annullamento del licenziamento”: in esso inclusa la negazione della “possibilità di una diversa e adeguata utilizzazione del dipendente”, purché“allegata dal ricorrente tra gli elementi posti a fondamento dell’azione e tra i presupposti della sua domanda”. Ma in realtà non è così, perché, se è indubbio che nel giudizio di impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo la causa petendi sia data dall’inesistenza dei fatti giustificativi del potere spettante al da- il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 tore di lavoro, gravando su quest’ultimo l’onere di provare la concreta sussistenza delle ragioni inerenti all’attività produttiva e l’impossibilità di utilizzare il lavoratore licenziato in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, è pur vero che l’indicazione (pur “possibile” da parte del “lavoratore” che si sia fatto “parte diligente”) di un posto di lavoro alternativo a lui assegnabile, o l’allegazione di circostanze idonee a comprovare l’insussistenza del motivo oggettivo di licenziamento, comporti l’inversione dell’onere della prova (Cass. 5 marzo 2015, n. 4460, con espresso richiamo sul punto di Cass. 7 luglio 1992, n. 8254, che in proposito, giova ribadire, ha testualmente affermato che: “l’onere della prova della impossibilità di adibire il lavoratore allo svolgimento di mansioni analoghe e quelle svolte in precedenza... non può tuttavia essere posto direttamente o indirettamente a carico del lavoratore, neppure al solo fine della indicazione di posti di lavoro assegnabili”). Ora, la L. n. 604 del 1966, art. 5 è assolutamente chiaro nel porre a carico del datore di lavoro “l’onere della prova della sussistenza... del giustificato motivo di licenziamento”: ed in tale senso esso è interpretato in ordine al controllo giudiziale dell’effettiva sussistenza del motivo determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive, addotto dal datore di lavoro, essendo invece insindacabile la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost. (Cass. 14 maggio 2012, n. 7474; Cass. 11 luglio 2011, n. 15157). Ed in esso rientra il requisito dell’impossibilità di repechage, quale criterio di integrazione delle ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa, nella modulazione della loro diretta incidenza sulla posizione del singolo lavoratore licenziato, derogabile soltanto quando il motivo consista nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile (dovendo in tal caso il datore di lavoro pur sempre improntare l’individuazione del soggetto da licenziare ai principi di correttezza e buona fede, cui deve essere informato, ai sensi dell’art. 1175 c.c., ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e quindi anche il recesso di una di esse: Cass. 28 marzo 2011, n. 7046) ovvero in caso di licenziamento del dirigente d’azienda per esigenze di ristrutturazione aziendali (per incompatibilità del repechage con la posizione dirigenziale del lavoratore, assistita da un regime di libera recedibilità del datore di lavoro: Cass. 11 febbraio 2013, n. 3175). Ed allora, la domanda del lavoratore è correttamente individuata, a norma dell’art. 414 c.p.c., nn. 3 e 4, da un petitum di impugnazione del licenziamento per illegittimità e da una causa petendi di inesistenza del giustificato motivo così come intimato dal datore di lavoro, cui incombe pertanto la prova, secondo la previsione della L. n. 604 del 1966, art. 5, della sua ricorrenza in tutti gli elementi costitutivi, in essi compresa l’impossibilità di repechage: senza alcun onere sostitutivo del lavoratore alla sua controparte datrice sul piano dell’allegazione, per farne conseguire un onere probatorio 797 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Controversie del lavoro (offrendogli, per così dire, l’affermazione del fatto da provare). Si tratterebbe di una divaricazione davvero singolare, in quanto inedita sul piano processuale, nel quale l’onere della prova è modulato in coerente corrispondenza con quello dell’allegazione, come inequivocabilmente stabilito dall’indicazione dei requisiti della domanda (“esposizione dei fatti... sui quali si fonda la domanda” e “indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi”: art. 414 c.p.c., nn. 4 e 5, con previsione del tutto analoga a quella dell’art. 163 c.p.c., comma 3, nn. 4 e 5), in funzione di una corretta ripartizione dell’onere probatorio secondo la previsione dell’art. 2697 c.c., a norma del quale ciascuna delle parti deve provare i fatti a fondamento delle proprie domande o eccezioni, espressione del rispettivo onere di allegazione, nell’evidente indisgiungibilità dei due piani (Cass. s.u. 16 febbraio 2016, n. 2951: in riferimento ad allegazione e prova della titolarità della posizione giuridica vantata in giudizio; Cass. 15 ottobre 2014, n. 21847 e Cass. 19 agosto 2009, n. 18399: in riferimento all’onere di provare le proprie allegazioni soltanto ove non specificamente contestate da controparte). La patrocinata ricostruzione sistematica della ripartizione dei rispettivi oneri di allegazione e di prova tra le parti nella fattispecie in esame trova piena conferma anche ove ricondotta ai principi in tema di responsabilità da inadempimento, di cui la normativa di carattere generale in materia di licenziamenti (come principalmente stabilita dalla L. n. 604 del 1966 e dalla L. n. 300 del 1970, art. 18) costituisce specificazione, essendo applicabile agli effetti del licenziamento, qualora non operi detta normativa, la disciplina civilistica dell’inadempimento (Cass. 22 luglio 2004, n. 13731). Sicché, in base a tali principi, il creditore attore (lavoratore impugnante il licenziamento come illegittimo) è onerato della (allegazione e) prova della fonte negoziale (o legale) del proprio diritto (rapporto di lavoro a tempo indeterminato) e dell’allegazione dell’inadempimento della controparte (illegittimo esercizio del diritto di recesso per giustificato motivo oggettivo), mentre il debitore convenuto (datore di lavoro) è onerato della prova del fatto estintivo (legittimo esercizio del diritto di recesso per giustificato motivo oggettivo nella ricorrenza dei suoi presupposti, tra i quali, come detto, anche l’impossibilità di repechage): in coerenza con i principi di persistenza del diritto (art. 2697 c.c.) e di riferibilità o vicinanza della prova (Cass. s.u. 30 ottobre 2001, n. 13533). E tale principio di riferibilità o vicinanza della prova, conforme all’esigenza di non rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto del creditore a reagire all’inadempimento, senza peraltro penalizzare il diritto di difesa del debitore, in quanto nella migliore disponibilità degli elementi per dimostrare le ragioni del proprio comportamento, ormai di consolidata applicazione (Cass. 29 gennaio 2016, n. 1665; Cass. 14 gen- 798 naio 2013, n. 2016; Cass. 2 settembre 2013, n. 20110; Cass. 17 aprile 2012, n. 6008; Cass. 6 giugno 2012, n. 9099), trova coerente riscontro anche nel caso di specie: per la maggiore vicinanza di allegazione e prova dell’impossibilità di repechage al datore di lavoro, non disponendo il lavoratore, al contrario del primo, della completezza di informazione delle condizioni dell’impresa, tanto più in una condizione di crisi, in cui esse mutano continuamente a misura della sua evoluzione e degli interventi imprenditoriali per rimediarvi o comunque indirizzarne gli sbocchi. Ciò che, d’altro canto, da tempo è stato ben presente a questa Corte, avendo in particolare essa osservato: “non si vede in realtà come sia esigibile un’indicazione del genere” (ossia dei posti assegnabili) “da parte del lavoratore licenziato, che è estraneo all’organizzazione aziendale” (Cass. 18 aprile 1991, n. 4164, che ha anche sottolineato la costanza di un indirizzo in tal senso della Corte). In via conclusiva, si comprende allora come la tralaticia affermazione di una sorta di cooperazione processuale del lavoratore, e più in generale di ogni parte, sul piano dell’allegazione in favore della controparte sia priva di alcun fondamento normativo; soltanto sul piano sostanziale un tale obbligo di cooperazione è, infatti, previsto tra le parti, siccome tenute ad un comportamento di collaborazione, conforme ai principi di correttezza e di buona fede, a norma degli artt. 1175, 1206 e 1375 c.c., quale obbligazione collaterale alle principali (Cass. 6 febbraio 2008, n. 2800; Cass. 16 gennaio 1997, n. 387). Dalle superiori argomentazioni, assorbenti l’esame del quarto (violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, artt. 1175 e 1375 c.c. e motivazione illogica, per mancata esatta valutazione della disponibilità manifestata allo svolgimento di mansioni anche inferiori) e del quinto motivo (violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, artt. 1175 e 1375 c.c. e motivazione contraddittoria, per omessa valutazione del proprio carico familiare nella valutazione della preferenza datoriale per la conservazione dell’incarico di direttore della divisione Geotecnica al dr. B.), discende coerente l’accoglimento dei due motivi congiuntamente scrutinati, con la cassazione della sentenza impugnata in relazione ad essi e rinvio, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Trieste in diversa composizione, sulla base del seguente principio di diritto: “In materia di illegittimo licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repechage del lavoratore licenziato, in quanto requisito del giustificato motivo di licenziamento, con esclusione di un onere di allegazione al riguardo del secondo, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i due suddetti oneri, entrambi spettanti alla parte deducente”. (omissis). il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Controversie del lavoro ILCOMMENTO di Carmelo Romeo La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione sembra sia giunta al capolinea di un lungo e frastagliato percorso interpretativo in tema di riparto dell’onere probatorio circa la sussistenza o meno del c.d. “repechage”. Quest’ultima decisione, infatti, nel segno di un’esaustiva ricostruzione delle modalità di prospettazione della domanda di impugnativa del licenziamento e, soprattutto, nell’obbiettivo di fare chiarezza riguardo i contenuti e l’ampiezza del carico probatorio del datore di lavoro, approda ad un coerente risultato con l’esclusione di ogni margine, anche residuale e di mera allegazione, a carico del lavoratore licenziato. Il nuovo orientamento della Suprema Corte sul tema del repechage Con la sentenza che qui brevemente si annotata la Cassazione ha finalmente chiuso il cerchio sulla dibattuta e nota vicenda del riparto dell’onere della prova in materia di repechage del lavoratore licenziato; segnatamente sull’eventuale diritto di quest’ultimo di essere “ripescato” e, quindi, utilmente ricollocato a lavoro all’interno dell’azienda, stabilendone la ricaduta probatoria sulla parte datoriale. A ben vedere, è il caso di avvertire subito, nel segno della massima trasparenza e immediatezza, come quest’ultimo orientamento giurisprudenziale finisca ora, senza tentennamenti, per porre interamente a carico del datore di lavoro la dimostrazione, certa e inconfutabile, che non vi sia in concreto alcuna possibilità di reinserimento del lavoratore nella compagine dell’organico aziendale, escludendo a carico di quest’ultimo qualsiasi prova, sia pure soft, anche di semplice allegazione di possibili e concreti reinserimenti. Sotto tale (e centrale) profilo, la decisione in commento - la quale come primo motivo fa il punto, tra l’altro, sull’omesso esame di un fatto storico della controversia, nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui agli artt. 366, comma 1, n. 6 e 369, comma 2, n. 4,c.p.c. - rappresenta indubbiamente una svolta, ora finale e sicuramente emblematica. E ciò nel paradigma relativo al riparto dell’onere probatorio in materia di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo e, segnatamente, sulle con(1) In generale per un ricostruzione dell’istituto, cfr. M. Proietti, Il licenziamento e l’obbligo di repechage: il lavoratore deve essere avvisato se rischia il posto, in www.ilsoleventiquattrore.com che esemplifica i casi pratici più ricorrenti. (2) Si v. il commento di D. Zanetto, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo e l’obbligo di repechage dopo la riforma Fornero, a Trib. Milano 20 novembre 2012, in questa Rivista, 2013, 6, 581 ss., ove si sostiene che la mera violazione dell’obbligo di repêchage da parte del datore di lavoro esclude (on) la “manifesta insussistenza del fatto” e la conseguente tu- il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 crete aspettative del lavoratore licenziato di essere riadibito al lavoro. Per certi versi, come si avrà modo di spiegare meglio nel prosieguo della riflessione, quest’ultima sentenza finisce per semplificare, e non di poco, il precedente orientamento giurisprudenziale che aveva tradizionalmente operato un sistema di ripartizione complesso e articolato dell’onus probandi, proprio sulla tematica del repechage (1). Si viene così a realizzare il totale e definitivo rovesciamento del principio generale i forza del quale colui che agisce in giudizio per far valere una sua pretesa ha l’onere di dimostrare i fatti sui quali si fonderebbe detta pretesa, ben riassunta nel noto brocardo latino onus probandi ei incumbit qui agit,non qui negat. Orbene, la pronuncia qui al vaglio sembra indubbiamente concludere, il lungo percorso (2), a volte accidentato e contraddittorio, sulla prova assoluta e inconfutabile circa la concreta possibilità di diverso impiego del dipendente, introducendo un principio di maggior favore per il lavoratore licenziato, che non dovrà più essere onerato - come stabiliva la precedente giurisprudenza - di un’allegazione relativa alle concrete possibilità circa la materiale realizzazione del repechage. Sotto il profilo metodologico la sentenza, diversamente da altre recenti decisioni adottate sempre dalla stessa Cass., Sez. lav. (3), si apprezza soprattutto per un’ampia e articolata motivazione e tiene conto, in forma ineccepibile, dei precedenti arresti difformi della stessa Corte. Un tale modus operandi, tela reale. Il Tribunale di Milano, riconosce nel caso in questione la sola tutela risarcitoria. Secondo Zanetto, “viene così fornita una prima interpretazione giurisprudenziale del sibillino art. 18, comma 7, Stat. lav., come modificato dalla recente Riforma Fornero”. (3) Mi permetto di rinviare al mio commento critico Due sentenze gemelle della Suprema Corte che estendono la tutela reintegratoria in materia di licenziamento, a Cass. 13 ottobre 2015, nn. 20540 e 20545, in Mass. Giur. lav., 2015, 12, 850 ss. 799 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Controversie del lavoro a ben vedere, consente indubbiamente, non solo una ricostruzione sistematica degli istituti in questione, ma anche l’approdo ad una nuova interpretazione attraverso un ragionamento declinato essenzialmente sul piano della incongruenza di un riparto dell’onere della prova sull’argomento. In verità, è proprio l’ampiezza motivazionale in questione, nonché l’esaustiva spiegazione relativa all’approdo ad un diverso (e più convincente) indirizzo interpretativo, che fa apprezzare nel suo complesso il decisum della Corte. L’articolazione dell’onere della prova prima della decisione commentata I precedenti arresti della giurisprudenza, nel merito della problematica qui selezionata, avevano stabilito che, pur essendo il datore di lavoro tenuto a provare - anche mediante elementi presuntivi e indiziali -l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore, ciò non escludeva che parimenti il lavoratore licenziato avrebbe dovuto operare con una fattiva collaborazione nell’accertamento di un possibile repechage. Sullo specifico argomento si segnala, sia pure come ultima espressione della predetta interpretazione, una pur recente sentenza della S.C. (4). Orbene, senza approfondire (del) l’evidente e palese difficoltà di tale incombente probatorio, quest’ultima decisione, in verità, aveva inteso onerare il lavoratore di una sua precisa “collaborazione” nell’accertamento del risultato finale e poi, solo successivamente, il datore di lavoro avrebbe avuto l’onere di provare in concreto la non utilizzabilità dei posti di lavoro nell’ambito aziendale, utili per una possibile ricollocazione del dipendente licenziato. A ben vedere, tale orientamento, peraltro risalente anche a precedenti decisioni (5), incide profondamente sul riparto dell’onere probatorio, atteso che (4) Cfr. Cass., Sez. lav., 14 gennaio 2016, n. 496, in questa Rivista, 2016, 4, 401 ss. (5) Sul punto cfr. Cass. 22 ottobre 2009, n. 22 417, in questa Rivista, 2010, 1, 88 ss., la quale ha stabilito il diverso principio che la prova della mancata utilizzabilità del lavoratore licenziato in altra mansione non deve essere intesa in modo rigido, “dovendosi esigere dallo stesso lavoratore, che impugni il licenziamento, una collaborazione nell’accertamento di un possibile repêchage, mediante l’allegazione della esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato. A tale allegazione corrisponde l’onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità nei posti predetti, da intendersi assolto anche mediante la dimostrazione di circostanze indiziarie, come la piena occupazione negli altri cantieri e l’assenza di altre assunzioni in relazione alle mansioni del dipendente da licenziare”. È di tutta evidenza che, in tale decisione, viene sancito il principio di un parziale assorbimento dell’onere 800 finisce con l’essere il lavoratore a dover prospettare ab imis la concreta e tangibile possibilità di un suo recupero nell’organizzazione dell’impresa. A fronte di una tale allegazione di specifiche circostanze di fatto dovrà essere successivamente il datore di lavoro a provare l’impossibilità di continuare ad utilizzare il predetto dipendente, ad esempio attesa l’inesistenza di mansioni equivalenti. Il predetto orientamento, tra l’altro, emerge dalla stessa giurisprudenza di merito che aveva finito per ammettere l’onere, a carico del lavoratore, di prospettare una diversa utilizzazione nell’ambito aziendale (6). Sempre in tema di onere di allegazione da parte del dipendente licenziato, inoltre, si segnala il caso di sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore che, fermo l’onere della prova sul datore circa il reimpiego in mansioni equivalenti, dovrà il primo fornire le necessarie allegazioni per un possibile ricollocamento, che sia compatibile (mente) all’inidoneità fisica sopravvenuta (7). La precedente giurisprudenza aveva parimenti stabilito, riguardo l’inidoneità del lavoratore, che non vi fosse l’onere di una prova assoluta e inconfutabile da parte del datore di lavoro, atteso che la prova avrebbe potuto anche emergere dallo stesso contraddittorio tra le parti in causa (8). Onere della prova ad esclusivo carico del datore La decisione commentata, invece, a differenza da quanto stabilito nei precedenti arresti della giurisprudenza, esonera del tutto il lavoratore, che impugni il licenziamento, dell’onere di allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro. In altri termini, quest’ultimo orientamento trova discutibile la divaricazione concettuale in punto di onere della prova, tra un compito di allegazione in capo al lavoratore e un onere della prova in carico al datore, della prova in merito alla possibilità di reimpiego del lavoratore licenziato in capo a quest’ultimo. Più in particolare tale carico probatorio deve consistere nell’indicare gli altri posti di lavoro esistenti e non occupati dai dipendenti, conformi con la qualifica e le mansioni del dipendente licenziato. (6) Cfr. sempre questa Rivista, 2014, 10, 930 ove viene riportata una giurisprudenza di merito in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e obbligo di repechage, a cura di F. Collia e F. Rotondi. (7) Cfr. sull’argomento Cass. 10 marzo 2015, n. 4757, in questa Rivista, 2015, 6, 635, con nota redazionale di C.A. Giovanardi. Ma, anche Cass. 3 marzo 2014, n. 4920, in Dir. lav. e rel. Ind., 2015, 1, 6. (8) Sul punto specifico si rinvia al commento di G. Guarnieri, alla già citata sentenza di Cass., Sez. lav., 14 gennaio 2016, n. 496, in questa Rivista, 2016, 4, in particolare a pag. 403, ove si riportano numero precedenti sostanzialmente conformi. il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Controversie del lavoro sostenendo che trattasi di una costruzione meramente speciosa e tralatizia, “fondandosi su una petizione di principio secondo la quale il lavoratore ha comunque un preciso compito di deduzione e di allegazione”. Ovviamente, il lavoratore, all’atto della redazione della domanda giudiziale di impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, non potrà che rispettare i principi indicati dall’art. 414 c.p.c., ferma la diversa circostanza che dovranno gravare interamente sul datore di lavoro resistente le ragioni circa la concreta sussistenza delle contingenze economiche relative all’attività produttiva, ove siano impeditive e ostative della riadibizione del lavoratore licenziato in altre mansioni, sia pure sempre compatibili con la qualifica rivestita. Orbene, una tale allegazione, nella fase di redazione del ricorso, non comporta affatto l’inversione dell’onere della prova, ma solo una coerente e opportuna formalizzazione dell’atto introduttivo del giudizio che, per l’appunto, deve essere rispettoso dei termini indicati dalla norma sulla forma della domanda. D’altro canto, vi è da dire pure che anche la precedente giurisprudenza aveva affermato (9) come l’onere della prova non può e non deve essere posto direttamente o indirettamente a carico del lavoratore, “neppure al solo fine dell’indicazione dei posti di lavoro a lui assegnabili”, con un’evidente apertura riguardo il più recente orientamento qui in esame. La verità è che la decisione qui in commento si ispira ad una lettura assolutamente pacifica della portata dell’art. 5 della L. n. 604/1966 che sul punto impone direttamente a carico del datore di lavoro l’onere di dimostrare l’effettiva sussistenza della giustificatezza del motivo di licenziamento. Dunque, sullo specifico argomento è apprezzabile il netto distinguo tra coerenza della domanda del lavoratore nel rispetto dei principi indicati dall’art. 414,nn. 3 e 4,c.p.c., nel segno di un petitum volto all’impugnazione del licenziamento per palese illegittimità, nonché, sempre nel segno di una causa petendi di inesistenza del giustificato motivo, ma totale incombente probatorio a carico del datore che dovrà, nel segno negativo, dimostrare la mate- riale impossibilità del repechage. In tale prospettazione l’intero onere della prova è, quindi, posto a carico del datore, senza che il lavoratore abbia alcun onere integrativo, sostitutivo o di fattiva collaborazione con quest’ultimo per la ricerca della verità. D’altro canto, sarebbe veramente illogico pensare che possa trovare concreto riscontro un meccanismo di collaborazione tra le parti del processo, quando queste risultano, per citare una metafora, “l’un contro l’altra armate”. Si tratterebbe, infatti, di una prospettiva davvero singolare e al di fuori di ogni principio di effettività. Si conferma, pertanto, che la sentenza in commento suggerisce di prendere le distanze da una divaricazione dell’onere probatorio bifasico. Esso dovrà, invece, essere, nel caso qui in discussione, interamente posto a carico del datore e ciò nel segno di una lettura plausibile della norma dell’art. 2697 c.c., secondo la quale ciascuna delle parti deve provare i fatti a fondamento delle proprie domande, ovviamente rivisitata dalla lex specialis ex art. 5 sui licenziamenti individuali. Nello specifico, poi, la sentenza richiama, in generale, in riferimento all’argomento dell’allegazione e prova della titolarità della posizione giuridica vantata in giudizio, una recente sentenza delle Sezioni Unite (10) che non riguarda, però, lo specifico del processo del lavoro. È, tuttavia, anche vero che un onere della prova additivo a carico del lavoratore, in via teorica, potrebbe egualmente configurarsi. Potrebbe essere nel caso in cui egli voglia ottenere un ulteriore ristoro rispetto ai criteri ripristinatori e risarcitori stabiliti dalla legge. In altri termini, è onere del lavoratore provare l’ulteriore danno nascente dal licenziamento, al di là dei canoni di cui alla L. n. 604/1966 e dall’art. 18 dello Stat. lav. Diversamente, nel caso che qui ci occupa, la prova della legittimità del recesso grava esclusivamente sul datore di lavoro, il quale è tenuto a dimostrare la veridicità (e fondatezza) del fatto estintivo e cioè la solidità del provvedimento di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ovviamente nella ricorrenza di tutti i suoi presupposti e tra essi l’impossibilità di repechage. (9) Cfr. Cass. 5 marzo 2015, n. 4460, in Argomenti, 2015, 3, 649 con nota di Marranca che ha così stabilito. “Nel giudizio di impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l’onere di provare la concreta sussistenza delle ragioni inerenti all’attività produttiva e l’impossibilità di utilizzare il lavoratore licenziato in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita grava sul datore di lavoro. L’indicazione da parte del lavoratore, che può farsi parte diligente, di un posto di lavoro alternativo a lui assegnabile, o l’allegazione di circostanze ido- nee a comprovare l’insussistenza del motivo oggettivo di licenziamento, non comporta l’inversione dell’onere della prova”. (10) Cass., SS.UU., 16 febbraio 2016, n. 2951, in Pluris data 2016 che così ha statuito in generale. “La titolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva, vantata in giudizio è un elemento costitutivo della domanda ed attiene al merito della decisione, sicché spetta all’attore allegarla e provarla, salvo il riconoscimento, o lo svolgimento di difese incompatibili con la negazione, da parte del convenuto”. il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 801 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Controversie del lavoro Conclusioni Volendo trarre adesso talune considerazioni conclusive è il caso di ribadire che la soluzione prospettata dalla sentenza in commento suggerisce una via decisamente agevole, proprio in ragione della semplificazione dell’incombente probatorio, non più ripartito, ma interamente posto a carico della parte che deduce la legittimità del licenziamento: il datore di lavoro è tenuto a provare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziali, l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse compatibili. Ma, vi è di più: in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, determinato da esigenze aziendali per la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore, il datore di lavoro ha l’onere di provare, “non solo che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l’espletamento di mansioni equivalenti, ma anche, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, di aver prospettato al dipendente, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale” (11). La soluzione, in verità, semplifica le regole del gioco e rende più giusta la ripartizione dei criteri relativi all’incombente probatorio, atteso che v’è indubbiamente una maggiore vicinanza alla sfera del datore di lavoro della prova, in quanto il lavoratore licenziato non può certo disporre della comple- tezza di informazioni di cui gode il primo, soprattutto, afferma la sentenza in commento, “in una condizione di crisi in cui mutano continuamente la misura della sua evoluzione e gli interventi imprenditoriali per rimediarvi o comunque indirizzarne gli sbocchi”. In tale direzione la sentenza finisce per dare una decisiva spallata alla tralatizia affermazione “di una sorta di cooperazione processuale” tra le parti, nel senso della già denunciata manifesta illogicità di una via siffatta, non certo percorribile date le contrapposte esigenze e gli interessi del tutto inconciliabili. A mio giudizio non è seriamente praticabile un principio di cooperazione processuale tra datore di lavoro e lavoratore, atteso che solo nella fase dello svolgimento del rapporto e in conformità ai principi civilistici di correttezza e buona fede (cfr. artt. 1175, 1375, 2104 e 2105 c.c.), possono trovare accesso soluzioni volte alla collaborazione tra creditore e debitore. Diversamente, sul piano processuale (rectius: conflittuale) non è preconizzabile una soluzione protesa ad uno scambio di informazioni tendente alla ricerca della verità, considerato che il rapporto sostanziale, non solo è cessato con il licenziamento, ma si è instaurato un contenzioso che vede le due parti in causa in posizioni diametralmente opposte, incompatibili con qualsiasi forma di unanime cooperazione processuale. (11) Cfr. testualmente Cass. 8 marzo 2016, n.4509, già citata in precedenza. 802 il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Lavoro subordinato Tutela delle condizioni di lavoro Il mobbing attenuato: lo straining Cassazione Civile, Sez. lav., 19 febbraio 2016, n. 3291 - Pres. Stile - Est. Tria - P.M. Sanlorenzo - M.F. c. Azienda Ospedaliera Spedali civili di (omissis) Lavoro subordinato (rapporto di) - Tutela delle condizioni di lavoro - Art. 2087 c.c. - Norma di chiusura del sistema a tutela dei diritti fondamentali del lavoratore - Violazione - Conseguenze - Obblighi di astensione del datore di lavoro Straining - Prova presuntiva del danno da “straining” (Cod. civ. artt. 1175, 1375, 2059, 2087; Cost. artt. 2 e 32) L’art. 2087 c.c., è norma di chiusura del sistema prevenzionale ed è suscettibile di interpretazione estensiva in ragione del rilievo costituzionale del diritto alla salute nonché dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro. Ai sensi di tale norma il datore è tenuto ad astenersi dall’imporre al lavoratore condizioni lavorative “stressogene” (c.d. “straining”) che possono ledere i suoi diritti fondamentali. A tal fine il giudice del merito, pur se accerti l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di “mobbing”, è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati, esaminati singolarmente, ma sempre in sequenza causale, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili. ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme Cass., Sez. lav., n. 18927/2015. Difforme Non sono stati rinvenuti precedenti difformi. La Corte (omissis). Motivi della decisione (Omissis) 8.- Con il quarto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, “omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”. Si contesta la statuizione con la quale la Corte d’appello ha escluso la configurabilità di un caso di mobbing ed ha, invece, qualificato la vicenda come straining. Si sottolinea che l’erroneità di tale assunto emerge, ictu oculi. dal fatto che la Corte bresciana ha riconosciuto la sussistenza di un complesso di condotte illecite tenute sia dal primario prof. P. (che ha anche subito una condanna per il reato di ingiuria al riguardo) sia dall’Amministrazione ospedaliera reiterate nel tempo e ciononostante ha qualificato la fattispecie come straining quando questo fenomeno, diversamente dal mobbing, si riscontra nelle ipotesi in cui l’atto lesivo è unico. 8.1.- Il motivo, come si è detto, è integralmente inammissibile, per impropria applicazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5. A ciò può aggiungersi che - come esattamente afferma la Corte territoriale - le nozioni di mobbing e straining sono nozioni di tipo medico-legale, che non hanno autonoma rilevanza ai fini giuridici e servono soltanto per identificare comportamenti che si pongono in con- il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 trasto con l’art. 2087 cod. civ. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro. 9.- Con il quinto motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 2043, 2087 e 2059 cod. civ.; in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, “insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”; e) violazione degli artt. 2, 3, 32, 35 e 41 Cost. Si contesta la parte della sentenza impugnata in cui è stata negata la sussistenza di un danno da perdita di chance (per mancanza di specifica allegazione in ordine a possibili progressi lavorativi o mutamenti professionali osteggiati dalla condotta datoriale) nonché di un danno patrimoniale e non patrimoniale ulteriore rispetto al riconosciuto danno biologico. Si sottolinea che ai fini del danno per la lesione dell’immagine e della professionalità nonché da perdita di chance avrebbero dovuto essere adeguatamente valutati i seguenti elementi: la subita privazione degli incarichi professionali, la riduzione ad un solo giorno alla settimana dell’attività nel Laboratorio di Neuropsicologia (di cui prima era responsabile), la sottrazione della responsabilità dei letti di degenza nella Clinica di Neurologia e delle consulenze rimaste a carico esclusivo del Prof. P. e della sua equipe nonché la contemporanea assegnazione a turni di Pronto soccorso di sei ore. 803 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Lavoro subordinato Inoltre, si sostiene che la Corte d’appello avrebbe dovuto liquidare anche un autonomo danno morale ed esistenziale, derivante dall’emarginazione e dallo stravolgimento del tenore di vita subiti dalla M. in un lungo periodo di tempo. 9.1.- Il motivo è inammissibile sia per la parte di denuncia del vizio di motivazione sia per la parte in cui, senza specifiche argomentazioni, si prospetta la violazione delle norme costituzionali suindicate. È, invece, infondato per la parte in cui si denuncia la violazione delle norme codicistiche richiamate. 9.2.- Infatti, com’è noto, la consolidata e condivisa giurisprudenza di questa Corte, specialmente a partire da Cass. SU 11 novembre 2008, n. 26972, ha affermato che: “La liquidazione del danno non patrimoniale deve essere complessiva e cioè tale da coprire l’intero pregiudizio a prescindere dai nomina iuris dei vari tipi di danno, i quali non possono essere invocati singolarmente per un aumento della anzidetta liquidazione. Tuttavia, sebbene il danno non patrimoniale costituisca una categoria unitaria, le tradizionali sottocategorie del danno biologico e del danno morale continuano a svolgere una funzione, per quanto solo descrittiva, del contenuto pregiudizievole preso in esame dal giudice, al fine di parametrare la liquidazione del danno risarcibile” (Cass. 15 gennaio 2014, n. 687). Ebbene, la Corte territoriale si è attenuta a tale orientamento in quanto ha affermato che, ancorché il danno conseguente allo straining in linea teorica avrebbe potuto essere aggiunto al danno biologico, tuttavia la liquidazione di tale ultimo danno come effettuata dal giudice di primo grado era da considerare tale da comprendere esattamente sia la misura della sofferenza patita dalla M. sia il danno psichico permanente subito. Nella stessa ottica la Corte bresciana ha poi escluso un autonomo danno morale ed esistenziale, perché già compreso nella sovrabbondante liquidazione del danno biologico ed ha anche escluso la risarcibilità di un danno da perdita di chance, per mancanza di specifica allegazione in ordine a possibili progressi lavorativi o mutamenti professionali osteggiati dalla condotta datoriale, aggiungendo altresì che un simile danno non è neppure configurabile, nella specie, in quanto alla perdita parziale (meramente diagnostica) di professionalità si è accompagnato l’acquisito della professionalità inerente le scelte riabilitative da ritenere ugualmente importante e professionalmente qualificante. La ricorrente contesta solo la prima statuizione - peraltro senza il dovuto rispetto del principio di specificità dei motivi del ricorso per cassazione - ma nulla dice in merito alla seconda, che comunque rappresenta una ratio decidendi autonoma idonea da sola a sostenere il rigetto della liquidazione del danno da perdita di chance. (Omissis) 11.- Con il primo motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione degli artt. 112 e 113 cod. proc. civ.; b) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, error in procedendo, nullità della sentenza. Si sostiene che la sentenza impugnata sia viziata da ultrapetizione laddove, dopo l’esclusione della ricorrenza 804 del mobbing, la Corte ha riqualificato la fattispecie come straining, essendo soltanto due i “fatti eclatanti” posti in essere dal Prof. P., che però avrebbero innescato una reazione che si è cronicizzata a causa della situazione lavorativa disagevole in cui operava la M. 11.1.- Il motivo - inammissibile per la denuncia di nullità della sentenza, come si è detto - è infondato per la censura di ultrapetizione. AI riguardo va ricordato, in linea preliminare, che è ius receptum che il vizio di “ultra” ed “extra” petizione - derivante dalla violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 cod. proc. civ.) ricorre soltanto quando il giudice pronuncia oltre i limiti delle pretese e delle eccezioni fatte valere dalle parti, ovvero su questioni estranee all’oggetto del giudizio e non rilevabili di ufficio, attribuendo un bene della vita non richiesto o diverso da quello domandato, mentre al di fuori di tali specifiche previsioni il giudice, nell’esercizio della sua potestas decidendo resta libero non solo d’individuare l’esatta natura dell’azione e di porre a base della pronuncia adottata considerazioni di diritto diverse da quelle all’uopo prospettate, ma di rilevare, altresì, indipendentemente dall’iniziativa della controparte, la mancanza degli elementi che caratterizzano l’efficacia costitutiva od estintiva di una data pretesa della parte, in quanto ciò attiene all’obbligo inerente all’esatta applicazione della legge (vedi, per tutte: Cass. 1 ottobre 1994, n. 7977; Cass. 23 febbraio 1998, n. 1940; Cass. 16 maggio 1998, n. 4923; Cass. 5 ottobre 1998, n. 9887; Cass. 28 agosto 2003, n. 12265; Cass. 31 gennaio 2006, n. 2146; Cass. 22 marzo 2007, n. 6945; Cass. 26 ottobre 2009, n. 22595). Inoltre, nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata della domanda sottoposta alla sua cognizione, il giudice del merito non è tenuto ad uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali la stessa sia contenuta, in quanto deve anzi avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, quale desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante, senza limitare la sua pronuncia in relazione alla prospettazione letterale della pretesa, occorrendo accertare il suo effettivo contenuto sostanziale, tenendo conto anche delle domande che risultino implicitamente proposte o necessariamente presupposte, in modo da ricostruire il contenuto e l’ampiezza della pretesa medesima secondo criteri logici che permettano di rilevare l’effettiva volontà della parte in relazione alle finalità concretamente perseguite dalla stessa (Cass. n. 830 del 2006; 2 dicembre 2004, n. 22665; Cass. 10 febbraio 2010, n. 3012; Cass. 26 settembre 2011, n. 19630). Incorre, infatti, nel vizio di omesso esame il giudice che limiti la sua pronuncia alla sola prospettazione letterale della pretesa, trascurando la ricerca dell’effettivo contenuto sostanziale della stessa (Cass. 14 novembre 2011, n. 23794). Ciò ancor di più nel rito del lavoro nel quale la necessità di assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., nell’ambito del rispetto dei principi del giusto processo di cui all’art. 111 Cost., comma 2, e il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Lavoro subordinato in coerenza con l’art. 6 CEDU, comporta l’attribuzione di una maggiore rilevanza allo scopo del processo - costituito dalla tendente finalizzazione ad una decisione di merito - che impone di discostarsi da interpretazioni suscettibili di ledere il diritto di difesa della parte o che, comunque, risultino ispirate ad un eccessivo formalismo, tale da ostacolare il raggiungimento del suddetto scopo (vedi, per tutte: Cass. 1 agosto 2013, n. 18410). 11.2.- Comunque, non sussiste violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato allorché il giudice, qualificando giuridicamente in modo diverso rispetto alla prospettazione della parte i fatti da questa posti a fondamento della domanda, le attribuisca un bene della vita omogeneo, ma ridimensionato, rispetto a quello richiesto (Cass. 30 settembre 2015, n. 19502; Cass. 5 novembre 2009, n. 23490; Cass. 26 aprile 1971, n. 1232). 11.3.- Nella specie i fatti storici presi in considerazione dalla Corte territoriale sono i medesimi sui quali si è pronunciato il Tribunale e sui quali quindi si è svolto il contraddittorio delle parti, solo che la Corte d’appello ha ritenuto di qualificarli applicando la nozione di tipo medicolegale dello straining anziché quella del mobbing. Peraltro, è pacifico che lo straining consiste in una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie, come può accadere, ad esempio, in caso di demansionamento, dequalificazione, isolamento o privazione degli strumenti di lavoro. In tutte le suddette ipotesi: se la condotta nociva si realizza con una azione unica ed isolata o comunque in più azioni ma prive di continuità si è in presenza dello straining, che è pur sempre un comportamento che può produrre una situazione stressante, la quale a sua volta può anche causare gravi disturbi psico-somatici o anche psico-fisici o pscichici. Pertanto, pur mancando il requisito della continuità nel tempo della condotta, essa può essere sanzionata in sede civile sempre in applicazione dell’art. 2087 cod. civ. ma può anche dare luogo a fattispecie di reato, se ne ricorrono i presupposti (vedi, per tutte: Cass., 6 Sezione penale, 28 marzo - 3 luglio 2013, n. 28603). 11.4.- Detto questo, come già si è rilevato, ai fini giuridici ciò che conta è che, nella specie, sia stata accertato il compimento di una condotta contraria all’art. 2087 cod. civ. e alla successiva normativa in materia, di importazione comunitaria, senza che abbia rilievo - sotto il profilo di una eventuale ultrapetizione - la originaria prospettazione della domanda giudiziale in termini di danno da mobbing e non da straining, in tale diversa qualificazione (mutuata dalla scienza medica) è stata effettuata dalla Corte bresciana lasciando inalterati sia il petitum che la causa petendi e non attribuendo un bene diverso da quello domandato o introducendo nel tema controverso nuovi elementi di fatto (Cass. 23 marzo 2005, n. 6326; Cass. 1 settembre 2004, n. 17610; Cass. 12 aprile 2006, n. 8519). 12. Con il secondo motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 1173, 2087, 1225, 2043, 2055, 2056, 2059 cod. civ.; b) in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5, er- il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 ronea, illogica e/o contraddittoria motivazione nel punto in cui, nonostante l’esclusione del mobbing e del demansionamento, si è affermata la responsabilità anche dell’Azienda per il riconosciuto danno biologico, per la situazione lavorativa disagevole in cui la M. è stata mandata a lavorare. Si sottolinea che i due fatti sicuramente offensivi dai quali la Corte d’appello ha desunto la sussistenza del danno da straining - il referto stracciato in presenza di un paziente e la scheda di valutazione negata, rispettivamente posti in essere il (omissis) - sono da ascrivere a due condotte di impeto del P., non riferibili in alcun modo all’Azienda, neppure in termini di prevedibilità dell’evento. D’altra parte, tali due episodi sono antecedenti al trasferimento della attuale ricorrente alla Riabilitazione Funzionale (che, peraltro, come la stessa Azienda precisa, è avvenuto nell’(omissis) n.d.r. v. p. 57 del controricorso), legittimamente disposto nell’esercizio dello ius variandi che compete al datore di lavoro. Di qui la contraddittorietà, illogicità e comunque insufficienza della motivazione, non avendo la Corte bresciana chiarito le ragioni della contestata decisione. 12.1.- Il motivo è inammissibile in quanto, a parte l’invocazione impropria dell’art. 360 c.p.c., n. 5, tutte le censure si risolvono in una inammissibile critica della valutazione delle risultanze probatorie operata dalla Corte bresciana. Né va omesso di rilevare che l’Azienda Ospedaliere, dopo il primo episodio ingiurioso, anziché restare sostanzialmente inerte avrebbe dovuto adottare concrete misure e una adeguata vigilanza, secondo quanto disposto dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 54 dal D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 28 e dalle norme contrattuali conseguenti (vedi: Cass. 11 settembre 2008, n. 22858; Cass. 20 luglio 2013, n. 18093). Peraltro, la Corte d’appello fa esplicito riferimento allo svolgimento della prestazione professionale in un “ambiente di lavoro disagevole, per incuria e disinteresse nei confronti del benessere lavorativo” e queste affermazioni non sono utilmente prese in considerazione negli atti difensivi del presente giudizio di cassazione della Azienda Ospedaliera. (Omissis) 18.- Con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione degli artt. 2087 e 2697 cod. civ., per avere la Corte bresciana affermato la ricorrenza dello straining, pur non sussistendone i presupposti - come delineati dalla scienza medica - peraltro neppure dedotti e tanto meno provati. 18.1.- Anche questo motivo non è da accogliere. È pacifico che i fatti sui quali si è pronunciata la Corte d’appello sono sempre i medesimi discussi e provati in giudizio e sui quali vi è stato un ampio contraddittorio fra le parti. È anche noto che lo straining è una forma attenuata di mobbing e che, in ogni caso, entrambe tali nozioni sono proprie della scienza medica, mentre, ai fini giuridici, ciò che conta è l’accertata esistenza di una condotta intenzionale ingiuriosa - e penalmente sanzionata a tale titolo - mossa da motivazione discriminante, 805 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Lavoro subordinato da cui è nata una situazione di stress lavoro-correlata. Tanto basta per la affermazione della responsabilità dell’attuale ricorrente incidentale ex art. 2087 cod. civ. e D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 28. 19.- Con il terzo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omesso esame di un fatto decisivo e discusso tra le parti, essendovi nella sentenza “un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili”, laddove la Corte d’appello dopo aver affermato che per la sussistenza dello straining sono stati fissati sette parametri tassativi e necessari, aggiunge che nella specie tali parametri sono stati riscontrati, ma poi argomenta tale riscontro solo con riguardo a cinque di tali parametri, peraltro in modo insufficiente. Peraltro, di tali parametri ne sussisterebbe solo uno cioè l’ambiente lavorativo, quindi non essendo configurabile lo straining, la Corte bresciana avrebbe affermato la sussistenza di una responsabilità ex art. 2087 cod. civ. in assenza dei necessari presupposti. 19.1.- Il motivo, come si è detto, è, in linea generale, inammissibile in quanto benché nella relativa rubrica si faccia riferimento ad un “omesso esame” di un “fatto decisivo e discusso tra le parti”, nelle relative argomentazioni non si fa altro che riferirsi sostanzialmente al testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5 per il profilo della motivazione contraddittoria. Inoltre, essendo la nozione dello straining una nozione appartenente alla scienza medica - come anche nella sentenza impugnata viene sottolineato - i “fatti” che, ad avviso del ricorrente incidentale, sono stati omessi non sono fatti giuridici e, come tali, non hanno rilevanza decisiva. A ciò va aggiunto, per precisione, che la Corte d’appello ha espressamente ritenuto presenti i primi cinque parametri che caratterizzano lo straining per la scienza medica, mentre non ha espressamente fatto riferimento agli altri due parametri, rappresentati dall’andamento secondo fasi successive e dell’intento persecutorio. Tuttavia, il fatto stesso che siano stati accertati due comportamenti posti in essere dal P. forieri di danno e che sia stato affermato il carattere intenzionale e discriminatorio - affermazione, quest’ultima, che, nel presente ricorso incidentale, non viene efficacemente contestata - della condotta di P. ben possono indurre a considerare implicitamente sussistenti anche i due parametri non espressamente elencati e, quindi, ad escludere che anche solo dal punto di vista logico, visto che, dal punto di vista giuridico, ciò non rileva - non vi sia alcuna contraddizione nella specificazione operata dalla Corte bresciana in merito alla rinvenuta sussistenza, nella specie, di tutti e sette i parametri dello straining in oggetto. In ogni caso, a prescindere dalle definizioni e dalle classificazioni di tipo medico, ciò che conta, in questa sede, è che il CTU ha accertato che il comportamento illecito in argomento come ricostruito senza contestazioni, ha determinato una lesione di carattere permanente sull’integrità psico-fisica della lavoratrice, la quale risulta aver riportato un danno biologico permanente quantificato nella misura del 10%. 20.- Con il quarto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione degli artt. 2087 e 2697 806 cod. civ., per avere la Corte territoriale condannato il P. al pagamento, a titolo risarcitorio, di una somma di denaro “esorbitante” (specialmente in considerazione della operata riqualificazione della fattispecie), sull’erroneo presupposto che fossero stati provati i relativi danni. Infatti, in base alla giurisprudenza di legittimità, il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente del danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico) subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita - lesione che, per l’appunto, si profila idonea a determinare una dequalificazione del dipendente stesso - è tenuto ad indicare in maniera specifica il tipo di danno che assume di aver subito ed a fornire la prova dei pregiudizi da tale tipo di danno in concreto scaturiti e del nesso di causalità con l’inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una sua valutazione, anche eventualmente equitativa (vedi, per tutte: Cass. SU 24 marzo 2006, n. 6572). 20.1.- Il motivo è infondato. In merito alla quantificazione del danno subito dalla M. la Corte d’appello ha affermato che la liquidazione di tale danno come effettuata dal giudice di primo grado rispecchiava esattamente la misura della sofferenza patita e il danno psichico permanente subito dalla dottoressa senza che questo comporti alcuna duplicazione di voci di danno (come invece ritenuto dall’Azienda e dal P.) ed ha aggiunto che, d’altra parte, diversamente da quanto richiesto dalla M., non residuava alcuna altra voce di danno risarcibile né a titolo di perdita di chance (privo di allegazioni) né per un autonomo danno morale ed esistenziale (già compreso nella sovrabbondante liquidazione del danno biologico). Da ciò si desume che il danno è stato - discrezionalmente, ma motivatamente - così liquidato in quanto comprensivo di tutte le voci (esistenziale, biologico, morale) di danno alla persona. 20.2.- Il relativo onere probatorio è quello previsto per la violazione dell’art. 2087 cod. civ. Al riguardo va considerato che, grazie al carattere di “norma di chiusura” del sistema antinfortunistico pacificamente riconosciuta alla suddetta disposizione codicistica nonché all’ammissibilità della interpretazione estensiva della predetta norma alla stregua sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute (art. 32 Cost.), sia dei principi di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 cod. civ.) ai quali deve ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro, la giurisprudenza di questa Corte ha inteso l’obbligo datoriale di “tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, sancito da questa norma, nel senso di includere anche l’obbligo della adozione di ogni misura “atipica” diretta alla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, come, ad esempio, le misure di sicurezza da adottare in concreto nella organizzazione tecnico-operativa del lavoro allo scopo di prevenire ogni possibile evento dannoso, ivi comprese le aggres- il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Lavoro subordinato sioni conseguenti all’attività criminosa di terzi (Cass. 22 marzo 2002, n. 4129). Questo implica, reciprocamente, l’obbligo del datore di lavoro di astenersi da iniziative, scelte o comportamenti che possano ledere, già di per sé, la personalità morale del lavoratore, come l’adozione di condizioni di lavoro stressogene o non rispettose dei principi ergonomici, oltre ovviamente a comportamenti più gravi come mobbing, straining, bum out, molestie, stalking e così via, alcuni anche di possibile rilevanza penale (sulla scorta di quanto affermato anche dalla Corte costituzionale; vedi per tutte: Corte cost. sentenza n. 359 del 2003 e Cass. 5 novembre 2012, n. 18927). A ciò è da aggiungere che - poiché, in base al “diritto vivente”, nell’interpretazione delle norme il canone preferenziale dell’interpretazione conforme a Costituzione è rinforzato dal concorrente canone dell’interpretazione non contrastante con la normativa comunitaria e con la CEDU - al fine della corretta individuazione della potenzialità lesiva (nei detti termini) delle indicate condotte, si deve tenere conto anche degli esiti del lungo processo evolutivo che si è avuto in ambito comunitario, sulla scorta della giurisprudenza della Corte di giustizia, in materia di diritto antidiscriminatorio e antivessatorio, in genere e in particolare nei rapporti di lavoro, che ha portato - a partire dalla introduzione dell’art. 13 nel Trattato CE (Trattato di Amsterdam del 1997) divenuto poi art. 19 TFUE in materia di azioni positive e art. 141 TCE, ora art. 157 TFUE in materia di non discriminazione, che si limitavano a prevedere dei divieti strettamente funzionali ai differenti settori di competenza e di intervento dell’originaria CE - all’affermazione di un generale principio di uguaglianza analogo a quello previsto da molte delle Costituzioni degli Stati membri, declinato nei due diversi aspetti dell’uguaglianza e della non discriminazione, con un ulteriore rafforzamento, al livello di normativa primaria, per effetto dell’adozione della Carta di Nizza, ora Carta dei diritti fondamentali della UE, i cui artt. 20, 21 e 23 riconoscono rispettivamente in linea generale l’uguaglianza davanti alla legge, il principio non discriminazione e il principio di parità tra uomini e donne e la necessità di adottare azioni positive. Tale processo, poi proseguito in sede comunitaria e nazionale, ha portato, nel corso del tempo e principalmente per effetto del recepimento di direttive comunitarie, alla conseguenza che anche nel nostro ordinamento condotte potenzialmente lesive dei diritti fondamentali di cui si tratta abbiano ricevuto una specifica tipizzazione, come discriminatorie (in modo diretto o indiretto). Infatti, la prova presuntiva (o indiziaria) - che esige che il Giudice prenda in esame tutti i fatti noti emersi nel corso dell’istruzione, valutandoli tutti insieme e gli uni per mezzo degli altri e quindi esclude che il Giudice, avendo a disposizione una pluralità di indizi, li prenda in esame e li valuti singolarmente, per poi giungere alla conclusione che nessuno di essi assurga a dignità di prova (Cass. 9 marzo 2012, n. 3703) - consente attraverso la complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, gravità, frustrazione personale e/o pro- il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 fessionale, altre circostanze del caso concreto) di poter risalire coerentemente, con un prudente apprezzamento, al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove (vedi per tutte: Cass. 5 novembre 2012, n. 18927 cit.). Ciò, del resto, è conforme al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in materia di prova del danno da demansionamento (Cass. SU 22 febbraio 2010, n, 4063; Cass. SU 24 marzo 2006, n. 6572 del 2006; Cass. 19 dicembre 2008, n. 29832; Cass. 26 novembre 2008, n. 28274), oltre che trovare riscontro nella giurisprudenza amministrativa in materia di mobbing (Cons. Stato 21 aprile 2010, n. 2272). Tali principi sono applicabili anche nell’ipotesi dello straining individuata dalla scienza medica come forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie, le quali, ancorché finalisticamente non accumunate, possono risultare, se esaminate separatamente e distintamente, lesive dei fondamentali diritti del lavoratore, costituzionalmente tutelati, di cui si è detto (arg. ex Cass. sez. 6 pen. 8 marzo 2006 n. 31413). 20.3.- La Corte bresciana, nella determinazione dei danni in argomento si è attenuta, con congrua e logica motivazione, a tutti i suindicati principi, sicché anche da questo punto di vista, la sentenza impugnata non merita alcuna censura. 5 - Conclusioni. 21.- In sintesi, tutti i ricorsi devono essere respinti. In considerazione della reciproca soccombenza le spese del presente giudizio di cassazione vanno compensate tra le parti, dandosi atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17. (omissis). 807 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Lavoro subordinato IL COMMENTO di Carmela Garofalo (*) Il contributo trae spunto dalla sentenza Cass. n. 3291/2016 che ha riconosciuto ad una lavoratrice il risarcimento del danno da straining. La decisione in commento offre lo spunto per definire i contorni di questa fattispecie, mutuata dalla scienza medica, ma posta in una posizione di secondo piano rispetto al mobbing, e mostra il favor della giurisprudenza verso un ampliamento della tutela dei lavoratori nei luoghi di lavoro di fronte ai comportamenti datoriali che in violazione dell’art. 2087 c.c. possono cagionare un danno alla loro salute psico-fisica. La sentenza in commento offre un interessante spunto di riflessione sul fenomeno dello “straining”, fino ad oggi, relegato ai confini più della scienza medica che giuridica, e ombreggiato dal fenomeno del mobbing largamente più diffuso da circa un ventennio nei dibattiti dottrinali e nelle aule di giustizia. Benché spesso venga utilizzato il concetto di mobbing per definire ogni situazione di malessere e disagio sul luogo di lavoro, nell’ambito nel panorama giurisprudenziale si vanno sempre con maggiore precisione delineando alternative per descrivere varie situazioni di conflittualità lavorativa che meritano ugualmente di essere tutelate. Di contro si deve prendere atto della scelta del legislatore di abdicare al proprio ruolo regolativo su questo tema e di demandare alla magistratura il compito di stabilire e definire le tutele dei lavoratori che subiscono pregiudizi alla propria salute psico-fisica a seguito di azioni ostili e persecutorie compiute a loro danno nel luogo di lavoro. Si comprende perciò l’atteggiamento cauto sino ad ora mostrato dai giudici che, in tema di mobbing, hanno circoscritto il più possibile i confini del fenomeno onde prevenire azioni pretestuose, se non temerarie, ed evitare lo svuotamento del potere direttivo di cui il datore di lavoro è titolare per controllare al meglio la propria attività (1). Ciò significa che non si può classificare come mobbing qualsiasi forma di conflitto nel posto di lavoro, in quanto il mobbing ha radici più profonde ed è caratterizzato da un’azione sistematica, premeditata consciamente o inconsciamente ai danni della vittima, con l’intento di danneggiarla o espellerla. Quindi la prima condizione per parlare di mobbing è il requisito temporale: le violenze psicologiche devono essere regolari, sistematiche, frequenti e durare nel tempo (almeno sei mesi secondo una certa giurisprudenza) (2); a ciò si aggiunge la necessità di dimostrare l’intento persecutorio del mobber, cioè la finalità illecita di discriminare, emarginare o recare altrimenti pregiudizio alla vittima, ritenuto addirittura un elemento costitutivo della fattispecie (3). Pur tuttavia, non si può tacere che esistono situazioni lavorative in cui i lavoratori maturano un senso di disagio che si ripercuote sulla propria salute psico-fisica e che seppur non riconducibili al mobbing non possono rimanere impunite ove si accerti che siano state deliberatamente provocate ai danni di un determinato lavoratore. Anche siffatti comportamenti illeciti posti in essere dal datore di lavoro con particolare ostilità ed avversione verso il proprio dipendente, infatti, possono integrare una violazione dell’art. 2087 c.c. e necessitare di un’adeguata e congrua sanzione sul presupposto che il lavoro, come più volte affermato dalla giurisprudenza, non rappresenta solo un mezzo di guadagno, ma anche una forma di importante estrinsecazione della personalità dell’individuo sul luogo di lavoro, tutelata dagli artt. 2 e 3 Cost. (4). Lo straining nasce infatti proprio dall’esigenza di voler dare una tutela (anche risarcitoria) a coloro che, pur subendo vessazioni, determinanti danni fisici rilevanti, non possono godere di alcuna tutela poiché i maltrattamenti subiti sono privi della fre- (*) N.d.R.: Il presente contributo è stato sottoposto, in forma anonima, al vaglio del Comitato di valutazione. (1) Cfr. T.A.R. Campania, n. 599/2013 in cui si ribadisce la necessità di tracciare un linea di demarcazione tra “l’esigenza di tutelare i lavoratori che rimangano vittime di iniziative persecutorie e la necessità di evitare l’eccessiva e patologica valutazione di ogni screzio in ambito lavorativo, che non deve comportare alcuna sanzione giuridica per qualsivoglia scorrettezza o per qualunque evento negativo occorso nel luogo di lavoro”. (2) V. ex plurimis Cass. n. 17698/2014; Cass. n. 12725/2013; Cass. n. 12048/2011; Cass. n. 7382/2010; Cass., n. 3785/2009. (3) V. A. Pizzoferrato, Mobbing e danno esistenziale: verso una revisione della struttura dell’illecito civile, in Contr. e impr., I, 2002, 307, che parla proprio di necessità dell’intenzione molesta, e quindi del dolo o della colpa dell’agente; E. Gragnoli, Mobbing, in DRI, 2003, 1051; T. Greco, Le violenze psicologiche nel mondo del lavoro, Milano, 2009; G. Loy, Il “mobbing”: profili giuslavoristici, in Dir. lav., 2005, I, 267. (4) Cfr. Cass. n. 12553/2003, n. 15686/2002 e n. 8835/1991. Premessa 808 il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Lavoro subordinato quenza prevista ovvero più genericamente non possono farsi rientrare nell’accezione di mobbing elaborata dalla dottrina e successivamente recepita dalla giurisprudenza. Il fenomeno dello straining, come quello del mobbing, viene mutuato dalla scienza medica, a dimostrazione che le vicende turbative della serenità del prestatore di lavoro all’interno dei luoghi in cui egli è chiamato a svolgere la propria opera professionale, integrano una di quelle fattispecie in cui il diritto e la psicologia si incontrano, in un ambito nel quale una scienza si trova a non poter fare a meno dell’altra. Ed è sempre lo psicologo Harald Ege che dà una definizione di straining come “una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante. La vittima è rispetto alla persona che attua lo straining, in persistente inferiorità. Lo straining viene attuato appositamente contro una o più persone, ma sempre in maniera discriminante” (5). Ege, durante i colloqui con le vittime di soprusi e violenze psicologiche sul posto di lavoro, si è reso conto che, gran parte di queste persone, pur essendo convinte di essere state mobbizzate, in realtà avevano subito una forma di vessazione diversa. Pur non essendo vittime di mobbing, risultavano comunque, essere state sottoposte a trattamenti ingiusti e discriminanti sul posto di lavoro. Dopo varie riflessioni, l’Autore identificò dal punto di vista della psicologia del lavoro quei conflitti organizzativi non rientranti nel mobbing, ma comunque comprendenti situazioni lavorative stressanti, ingiuste e lesive, quali per esempio la dequalificazione o l’isolamento professionale, con il termine originale ed esclusivo di straining. Il termine straining deriva dall’inglese “to strain”, e letteralmente può essere tradotto come “tendere”, “mettere sotto pressione”, “stringere”. Il significato del verbo inglese “to strain”, inoltre, è molto vicino a quello di un altro verbo inglese, “to stress”, ed infatti, il legame tra straining e stress occupazionale è evidente, poiché in una situazione di straining, l’aggressore o strainer, tenderà, sempre, a far cadere la propria vittima in una condizione particolare di stress. Si tratta, in questo caso, di un tipo di stress, che potremmo definire superiore rispetto a quello connaturato alla natura stessa del lavoro e alle normali (5) H. Ege, Oltre il Mobbing. Straining, Stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro, Milano, 2005, 70. il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 interazioni organizzative. Esso, infatti, è diretto nei confronti di una vittima o di un gruppo di vittime in maniera intenzionale, e con lo scopo preciso di provocare un peggioramento permanente della condizione lavorativa delle persone coinvolte. Ecco dunque che lo straining rappresenta una condizione psicologica posta a metà strada tra il mobbing e il semplice stress occupazionale, tant’è che lo straining può anche essere considerato quale naturale anticamera del mobbing. Il datore di lavoro potrebbe cominciare a vessare il proprio dipendente con comportamenti integranti lo straining per poi decidere di intensificare la forza lesiva e la frequenza dei propri atti discriminatori fino ad arrivare a porre in essere un vero e proprio mobbing attraverso la persecuzione psicologica, la violenza morale e l’emarginazione. Di contro lo straining potrebbe essere facilmente scambiato per un semplice caso di stress occupazionale, se non fosse per il fatto che la vittima di solito lo percepisce come mobbing, data l’alta componente di intenzionalità e di discriminazione. Lo straining nella giurisprudenza La definizione di straining elaborata in campo medico è stata recepita dalla giurisprudenza italiana attraverso l’ormai famosa sentenza 21 aprile 2005 n. 286 del Tribunale del Lavoro di Bergamo (6), che è stata la prima sentenza in tema di straining. In quella occasione il Giudice del Lavoro fu chiamato a pronunciarsi sul caso di una lavoratrice posta in condizione di totale e forzata inattività per più di due anni e per corroborare il proprio convincimento si avvalse della consulenza tecnica di ufficio proprio dello psicologo Harald Ege. Quest’ultimo, nell’analizzare la vicenda, sebbene ritenne sussistenti alcuni elementi costitutivi del mobbing quali l’ambiente lavorativo, in cui si svolsero i fatti, la durata della conflittualità, superiore ai sei mesi (tempo ritenuto necessario per configurare un caso di mobbing), la tipologia delle azioni ostili, alcune delle quali tipiche del mobbing, come ad esempio l’isolamento ed il cambiamento delle mansioni lavorative, il dislivello tra gli antagonisti, in quanto la vittima si trovava in posizione di inferiorità rispetto alle decisioni dei superiori, non ravvisò altri elementi caratterizzanti la fattispecie. Pur nell’assenza di alcuni elementi tipici del mobbing, il CTU arrivò alla conclusione che il comportamento tenuto nei confronti della ricorrente fosse stato (6) Cfr. Trib. Bergamo 21 aprile 2005. 809 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Lavoro subordinato ugualmente fonte di un danno alla salute, riconducibile al diverso fenomeno dello straining. Pertanto il Giudice del Lavoro di Bergamo, accertò che il danno subito dalla ricorrente non poteva essere ricondotto al mobbing, ma allo straining, facendo propria la definizione del fenomeno data dallo stesso Ege e condannò la società resistente al risarcimento del danno biologico in quanto, a prescindere dalle definizioni e dalle classificazioni, il CTU aveva accertato che il comportamento illecito tenuto dal datore di lavoro aveva determinato una lesione all’integrità psicofisica della lavoratrice, la quale risultava aver riportato un danno biologico permanente sostanziatosi in una patologia diagnosticabile come “disturbo depressivo-ansioso” (consistente in disturbi alimentari e del sonno, insicurezza, tendenza all’isolamento e alla esclusività degli affetti, agorafobia, diffidenza generalizzata verso gli estranei). Successivamente nel 2007 una seconda pronuncia, emessa dal Tribunale di Sondrio (7), ritornò sull’argomento, affrontando questa volta il caso di un dipendente soggetto ad alcuni spostamenti di ufficio a breve distanza l’uno dall’altro, privato di collaboratori e di pratiche e sottoposto a pressioni e bruschi richiami da parte del superiore. Anche in questo caso, ad avviso del CTU nominato dal Giudice del Lavoro, la strategia negativa attuata dal datore di lavoro nei confronti del proprio dipendente, pur non presentando le caratteristiche del mobbing in quanto mancavano la frequenza e l’adeguatezza delle azioni, si inquadrava tuttavia nel diverso fenomeno dello straining definito come una situazione lavorativa conflittuale in cui la vittima subisce azioni ostili limitate nel numero e/o distanziate nel tempo (e quindi non rientranti nei parametri del mobbing), tuttavia tali da provocare una modificazione in negativo, costante e permanente, della sua condizione lavorativa. Dunque il Giudice del Lavoro concluse dichiarando l’illegittimità del comportamento della società datrice, in quanto fondato su un motivo discriminatorio e mosso da un intento espulsivo (e quindi contrario ai principi di correttezza e buona fede) che aveva determinato nella lavoratrice il danno risarcibile. L’ultima e più importante pronuncia in materia di straining, prima di quella in commento, proviene proprio dalla VI Sezione Penale della Corte di cas- sazione (8), che ha accolto il ricorso di un dipendente di banca, vittima di una serie di comportamenti vessatori esplicatisi nei suoi confronti (sottrazione di compiti di alta responsabilità in favore di un’altra dipendente, aspre ed ingiustificate critiche alla sua professionalità, convocazione di un incontro intersindacale finalizzato a criticare il suo comportamento proprio nel periodo in cui si era messo in ferie per riprendersi dalla dure critiche ricevute dai suoi superiori, svolgimenti di mansioni meramente esecutive e ripetitive con allocazione in un “vero e proprio sgabuzzino, spoglio e sporco, con mansioni dequalificanti, meramente esecutive e ripetitive”). Questa situazione oltre ad integrare una dequalificazione del lavoratore, gli aveva procurato una grave lesione, e cioè “un’incapacità di attendere alle proprie ordinarie occupazioni per un periodo di tempo superiore a 40 giorni”. Le pronunce richiamate, consentono sin qui di individuare i tratti caratteristici dello straining. Se, infatti, i tratti distintivi del mobbing sono la sistematicità, la frequenza e la regolarità delle vessazioni perpetrate ai danni della vittima da un singolo o da un gruppo di persone, nello straining, viceversa, i soggetti coinvolti sono destinatari di azioni ostili sporadiche, ma con effetti simili al mobbing: problemi di autostima e salute, turbative professionali e di serenità familiare, che si ripercuotono sovente sulla qualità della vita del soggetto. Nella pratica, però, il confine tra i due fenomeni può presentarsi meno definito, come testimoniato dai casi innanzi esaminati nei quali alla sottrazione di mansioni si sono sommati ulteriori comportamenti del datore di lavoro aventi contenuto persecutorio; nel complesso, dalle prime sentenze edite pare che una particolare aggressività nel comportamento del datore di lavoro (manifestata per la repentinità o la natura eclatante o per le circostanze del demansionamento, ovvero il concomitante verificarsi di altri atti o provvedimenti volti ad isolare anche dal punto di vista umano il lavoratore) sia considerata dalla giurisprudenza elemento costitutivo dello straining, in quanto rivelatrice del precipuo intento persecutorio ad esso sotteso (9). Quanto all’intento persecutorio, è sufficiente nello straining che siano riscontrati uno scopo politico ed un obiettivo discriminatorio, ovverosia una scelta consapevole sia della vittima che delle vessazioni (7) Cfr. Tribunale di Sondrio 7 giugno 2007; sullo straining v. altresì Trib. Brescia 15 aprile 2011, in DL, 2011, 3, 637 con nota di D. Bonsignorio, Straining e autotutela del lavoratore: qual è il confine della reazione legittima?; Trib. Massa 11 ottobre 2011. (8) Cfr. Cass. Pen., Sez. VI, n. 28603/2013, in ADL, 2014, 1, 182, con nota di S. Di Stasi, Una eccellente sintesi di presente e futuro: la Suprema Corte riconosce la rilevanza giuridica dello “Straining”. (9) Cfr. Bonsignorio, Straining e autotutela: qual è il confine della reazione legittima?, op. cit., 643. 810 il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Lavoro subordinato da perpetrare, laddove, nel mobbing, il disegno vessatorio realizzato deve racchiudere in sé i caratteri dello scopo politico e dell’obiettivo conflittuale (10) oltre che presentare una carica emotiva e soggettiva (11). Lo straining nella sentenza Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291 La sentenza in commento si colloca indubbiamente nella scia tracciata dalle pronunce prima menzionate, ma per analiticità delle argomentazioni sviluppate, costituisce diritto vivente in tema di straining. Anche in questo caso agiva in giudizio una dipendente di un’Azienda Ospedaliera per vedersi risarcire il danno da demansionamento e da mobbing. In sede di gravame, era stata respinta la prima domanda e confermato invece il diritto al risarcimento dei danni in relazione ad una situazione di stress lavorativo subito dalla lavoratrice ricondotta non al mobbing, ma allo straining, facendo richiamo alla responsabilità ex art. 2087 c.c. secondo cui “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. A differenza che nelle pronunce sin qui analizzate, ove viene sempre riconosciuta l’inerenza del demansionamento ad una strategia di straining, la Cassazione nella pronuncia in esame conferma la decisione della Corte di Appello di Brescia di escludere il danno da dequalificazione in quanto, pur se nel periodo immediatamente successivo al trasferimento della lavoratrice, vi fossero state indubbie difficoltà logistiche e organizzative, non era emerso alcun danno alla professionalità, del resto difficilmente conciliabile dal punto di vista concettuale con il conferimento di un incarico di direzione di una struttura semplice, da cui anzi era derivato un arricchimento professionale. Viene escluso altresì il mobbing in quanto gli unici due episodi provati (consulenza effettuata dalla dottoressa in reparto senza il consenso del primario cui quest’ultimo ha reagito con un atteggiamento (10) V. H. Ege, Mobbing conoscerlo per vincerlo, Milano, 2001, 63 il quale riferisce il termine “scopo politico” alle motivazioni che sono alla base dell’azione del mobber. Tra queste si può annoverare l’ambizione, l’invidia, la gelosia, l’antipatia, la diversa convinzione politica e religiosa della vittima, la sua provenienza, il sesso, il tipo di qualifica e di educazione ricevuta. Se manca lo scopo politico, ossia la motivazione, il conflitto è destinato a spegnersi nel tempo, poiché la carica emotiva il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 aggressivo culminato con il gesto di stracciare la relazione di consulenza della lavoratrice e quello della mancata consegna da parte dello stesso primario della scheda di valutazione della dottoressa) non avevano dato luogo ad un vero e proprio mobbing, mancando l’elemento della oggettiva frequenza della condotta ostile, al di là della soggettiva percezione da parte della lavoratrice di una situazione di costante emarginazione. Ciò, tuttavia, non ha impedito alla lavoratrice di ottenere il risarcimento da straining. Infatti i giudici di legittimità hanno ritenuto, che pur in assenza di demansionamento o di mobbing, le condotte vessatorie ed ostili perpetrate dal primario nei confronti della dottoressa le avevano procurato un danno biologico quantificato dal CTU nella misura del 10%, in ragione di un “disturbo dell’adattamento con ansia e umore depresso poi cronicizzato” e potevano essere ricondotte allo straining. Nella sentenza si possono individuare quattro passaggi essenziali che richiedono una specifica e separata trattazione. La nozione di straining La Corte di Cassazione fa propria la definizione di straining ormai consolidata e cioè una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie, come può accadere, ad esempio, in caso di demansionamento, dequalificazione, isolamento o privazione degli strumenti di lavoro. In tutte le richiamate ipotesi se la condotta nociva si realizza con un’azione unica ed isolata o comunque con più azioni, ma prive di continuità si è in presenza dello straining, che può produrre una situazione stressante, causativa di gravi disturbi psico-somatici o psico-fisici o solo psichici. Pertanto, pur mancando il requisito della continuità nel tempo della condotta, essa può essere sanzionata, sia in sede civile ex art. 2087 c.c. sia in quella penale, se ne ricorrono i presupposti. Dal punto di vista definitorio, i giudici di legittimità nulla aggiungono rispetto a quanto già stabilito dalla scienza medica e recepito nelle prime sentenze sul tema alle quali viene fatto peraltro esplicito rinvio per relationem. può alimentarlo per un breve periodo. Per esserci mobbing invece il conflitto deve perdurare per molto tempo, e questo si realizza solo se il mobber ha un preciso obiettivo. (11) V. H. Ege, Mobbing conoscerlo per vincerlo, op. cit., 63 il quale riferisce il termine “carica emotiva” al flusso emozionale che sottostà al conflitto che toglie i freni inibitori e lo porta sul piano personale e soggettivo fornendo coraggio necessario per attuare le azioni mobbizzanti. 811 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Lavoro subordinato Emergono anche in questo caso i tratti caratterizzanti dello straining inteso come una situazione lavorativa conflittuale in cui la vittima ha subito azioni ostili limitate nel numero e/o distanziate nel tempo (e quindi non rientranti nei parametri del mobbing), tuttavia tali da provocare una modificazione in negativo costante e permanente della sua condizione lavorativa e ripercussioni non solo sulla salute in senso stretto, con sintomi psicosomatici anche gravi, spesso sconfinanti nella patologia vera e propria, ma anche a livello di autostima e di qualità della vita in senso lato. In alcuni casi tali effetti sono del tutto paragonabili, se non a volte addirittura più gravi, a quelli derivanti da un’azione mobbizzante vera e propria. Per rilevare una situazione di straining deve essere presente e attestata almeno un’azione ostile, che abbia una conseguenza duratura e costante a livello lavorativo e un carattere intenzionale e discriminatorio. La vittima di straining, dunque, deve aver subito almeno una azione negativa che non si è esaurita, ma che continua a produrre i suoi effetti a livello lavorativo a lungo termine ed in modo costante (per esempio un cambio di mansioni e/o di qualifica, uno spostamento/ trasferimento penalizzante, una perdita di chance, la soppressione di un bonus, etc). È evidente dunque la differenza rispetto al mobbing, per la cui configurabilità sono necessarie più azioni ostili, che si ripetono con sistematicità e con una certa frequenza (almeno alcune volte al mese) e per un certo periodo di tempo (almeno sei mesi). La vittima dello straining deve poi essere confinata in una posizione di costante inferiorità rispetto ai suoi aggressori: essa non ha più le stesse capacità e possibilità di azione e di gestione del conflitto rispetto a prima e rispetto ai suoi aggressori e quindi non è più in grado di tutelare i propri diritti (nel senso del rispetto delle sue mansioni, della sua professionalità, del suo ruolo, delle sue competenze, etc.). Infine, per essere inquadrata nello straining l’azione ostile deve avere carattere intenzionale e/o discriminatorio, ossia deve essere deliberatamente predisposta ai danni di una certa persona o di un certo gruppo di persone, a cui deve essere riservato un trattamento diverso, in senso negativo, rispetto agli altri. Il potere qualificatorio del giudice Se sul piano definitorio si può quindi riscontrare una perfetta coincidenza tra la sentenza in com- mento e la giurisprudenza precedentemente formatisi sul tema, un aspetto rilevante trattato dai giudici di legittimità è quello del potere qualificatorio del giudice che pur ove accerti l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi, in modo da potersi configurare una condotta di mobbing, è tenuto a valutare se dagli altri elementi dedotti, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto, possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell’esistenza del più tenue danno da straining. La Suprema Corte affronta tale profilo in quanto parte ricorrente contestava la decisione della Corte territoriale di riqualificare la fattispecie come straining, dopo aver escluso la sussistenza del mobbing, andando in ultrapetizione. I giudici di legittimità ricordano che il vizio di ultrapetizione, derivante dalla violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.), ricorre solo quando il giudice pronuncia oltre i limiti delle pretese e delle eccezioni azionate dalla parti, ovvero su questioni estranee all’oggetto del giudizio e non rilevabili di ufficio, attribuendo un bene della vita non richiesto o diverso da quello domandato (12); al di fuori di tali specifiche ipotesi il giudice, nell’esercizio del sua potestas decidendi, resta invece libero, non solo di individuare l’esatta natura dell’azione e di porre a base della pronuncia considerazioni di diritto diverse da quelle prospettate dalla parti, ma di rilevare, altresì, la mancanza degli elementi che caratterizzano l’efficacia costitutiva od estintiva di una data pretesa della parte, in quanto ciò attiene all’obbligo inerente all’esatta applicazione della legge. Conseguentemente i giudici non sono tenuti ad uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti di causa, ma devono avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, tenendo anche conto delle domande che risultino implicitamente proposte o necessariamente presupposte, in modo da ricostruire l’effettiva volontà della parte in relazione alle finalità concretamente perseguite. Alla stregua di tale ragionamento, il vizio di ultrapetizione è escluso allorché il giudice, qualificando giuridicamente in modo diverso, rispetto alla prospettazione della parte, i fatti da questa posti a fondamento della domanda, le attribuisca un bene della vita omogeneo, ma ridimensionato, rispetto a quello richiesto. (12) Sul punto cfr. Cass. n. 13876/2016. 812 il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Lavoro subordinato Tanto si è verificato nel caso affrontato dalla sentenza in commento, laddove, una volta accertato il compimento di una condotta contraria all’art. 2087 c.c., senza dare rilievo all’originaria prospettazione della domanda giudiziale in termini di danno da mobbing e non da straining, la Corte territoriale era giunta ad una diversa qualificazione senza mutare il petitum e la causa petendi e senza attribuire alla lavoratrice un bene diverso da quello domandato (13). Tale conclusione, che si ritiene di condividere, produce un impatto di notevole importanza ai fini processuali e sostanziali in quanto consente al lavoratore che sostiene di aver subito un danno da mobbing, di non vedersi rigettare la domanda qualora non si ravvisino i requisiti costitutivi della fattispecie, ma di ottenere in ogni caso un risarcimento del danno, seppur in forma attenuata. E ciò assume ancora più valore di fronte al difficile e rigoroso onere probatorio che incombe sul lavoratore nei giudizi di mobbing (14), il cui mancato assolvimento porta, il più delle volte, al rigetto delle pretese risarcitorie. Indubbiamente in questo modo viene ampliata la tutela del lavoratore nei casi di condotte vessatorie ed ostili compiute dal datore di lavoro che, una volta accertate, garantiscono sempre un risarcimento in favore della vittima per violazione dell’art. 2087 c.c., a prescindere dall’originaria qualificazione della domanda giudiziale. I sette parametri per la sussistenza dello straining Interessante è altresì la sentenza quando affronta la problematica della valutazione da parte dei giudici dei sette parametri individuati dalla scienza medica (Metodo H. Ege 2002) per qualificare la condotta di mobbing (15). Invero tali requisiti valgono anche per lo straining, sebbene con talune differenze. I sette requisiti sono i seguenti: (13) In tal senso v. anche Cass. n. 8519/2006; Cass. n. 6326/2005; Cass. n. 17610/2004. (14) Sia consentito il rinvio a C. Garofalo, Mobbing e onere della prova, in Giur. it., 2016, 6, 1428 ss. ed ivi ampi riferimenti di dottrina e giurisprudenza. (15) V. H. Ege, La valutazione peritale del Danno da Mobbing, Milano, 2002, 69. (16) Il test LIPT Ege Professional (versione modificata ed ampliata del noto Leymann Inventory of Psychological Terrorism) è uno degli strumenti più usati in Europa per la rilevazione del grado di conflittualità nei contesti organizzativi. Tale questionario contiene una lista di azioni ostili, suddivise in cinque categorie (Attacchi ai contatti umani, Isolamento sistematico, Cambiamenti di mansioni, Attacchi alla reputazione, Violenza e minacce di violenza), che il soggetto deve indicare di aver subito; vi sono poi domande relative alla frequenza e alla il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 1. Ambiente lavorativo: lo straining, così come il mobbing, è un fenomeno che si sviluppa e prende forma nei luoghi di lavoro; 2. Frequenza: a differenza del mobbing, che richiede comportamenti vessatori che si verificano almeno 1 volta al mese, nel caso dello straining, come già detto, può essere sufficiente anche una sola azione lesiva, purché le conseguenze risultino avere una durata costante; 3. Durata: così come nel mobbing, il conflitto deve perdurare per almeno 6 mesi; 4. Tipo di azioni: le azioni devono appartenere ad almeno una delle categorie del LIPT Ege e non ad almeno due categorie del medesimo test, come richiesto per il mobbing (16); 5. Dislivello tra gli antagonisti: la vittima, così come nel mobbing, deve essere cosciente della sua posizione di inferiorità rispetto al suo carnefice e tale soggezione può andare oltre quella naturale rinveniente dal rapporto lavoratore/datore; 6. Andamento secondo fasi successive: occorre che la vessazione abbia raggiunto la seconda fase delle 4 individuate da Ege nel caso di mobbing (17); 7. Intento persecutorio: è necessario che venga riscontrato un intento persecutorio e/o un obiettivo discriminatorio. Con riferimento ai richiamati sette parametri, la Corte di cassazione precisa che essi appartengono, come la definizione stessa di straining, alla scienza medica e non hanno una valenza prettamente giuridica. È indubbio che essi possono supportare il convincimento del giudice circa la sussistenza o meno della condotta vessatoria, ma non possono da soli fondare una decisione giudiziale non essendo fatti giuridici di rilevanza decisiva. Viene così stabilito che, a prescindere dalle definizioni e dalle classificazioni di tipo medico, ciò che conta ai fini dell’indagine giudiziale, è che il CTU accerti che il comportamento illecito riconducibile allo straining abbia determinato una lesione di cadurata del trattamento negativo e alle conseguenze psicofisiche patite. Le segnalazioni vengono poi integrate ed eventualmente corrette e/o ridimensionate da un successivo colloquio specialistico, nel corso del quale, se necessario, l’esperto procede a valutare anche le attuali condizioni psicofisiche ed “esistenziali” del soggetto. (17) V. H. Ege, Oltre il Mobbing. Straining, Stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro, op. cit. Il modello Ege prevede 4 fasi: la prima fase è quella in cui l’azione ostile viene posta in essere; la seconda fase è quella nella quale la vittima prende coscienza delle conseguenze dirette dell’azione discriminatoria, si convince che la conseguenza di quella azione avrà carattere duraturo; la terza fase è caratterizzata dall’insorgenza dei danni psico-fisici, mentre nella quarta fase la vittima lascia il suo posto di lavoro. 813 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Lavoro subordinato rattere permanente dell’integrità psico-fisica del lavoratore. Emerge nuovamente il favor lavoratoris mostrato dai giudici di legittimità laddove, non ritenendo necessaria o rilevante la compresenza di tutti i sette parametri, agevolano ulteriormente l’onere probatorio incombente sul lavoratore. La conclusione a cui perviene qui la Suprema Corte sembrerebbe, tuttavia, discostarsi da una recente pronuncia di legittimità (18) nella quale, invece, il decisum del giudice recepisce integralmente le risultanze della perizia, allegata agli atti, eseguita da uno dei massimi esperti di mobbing il quale, esaminata la vicenda lavorativa, aveva riscontrato la presenza contestuale di tutti i citati sette parametri. A parere di chi scrive il contrasto tra le due pronunce è solo apparente, potendosi invece riscontrare tra di esse un rapporto di complementarietà in considerazione del fatto che il giudice di merito, nel momento in cui fonda il proprio convincimento sulle risultanze della CTU medico-legale disposta, indirettamente si avvale del metodo di indagine proposto da Ege (i sette parametri tassativi) per accertare la sussistenza dello straining (o del mobbing). Di contro, sulla base del principio del ‘iudex peritus peritorum’, al giudice è consentito, in ogni caso, valutare la complessiva attendibilità delle conclusioni peritali e, se del caso, disattendere le sottese argomentazioni tecniche laddove queste risultino intimamente contraddittorie (19). Ben può accadere, quindi, che seppur il CTU riscontri la presenza dei summenzionati sette parametri, il giudice ritenga non integrata la fattispecie di straining/mobbing con contestuale rigetto della domanda attorea di risarcimento del danno. L’onere probatorio L’ultimo aspetto trattato dalla sentenza in commento riprende l’annosa questione dell’onere probatorio previsto in caso di violazione dell’art. 2087 c.c. a cui è riconducibile anche il fenomeno dello straining. Il principio della ripartizione dei carichi probatori valido per le cause di dequalificazione professionale, spesso associate a fattispecie di vero e proprio (18) V. Cass. n. 10037/2015. (19) V. ex plurimis Cass. n. 23592/2010; Cass. n. 13530/2009; Cass. n. 11440/1997. (20) V. Cass. n. 1258/2015; Cass. n. 826/2015, in D&G, 2015, 21 gennaio (s.m.) con nota di S. Calvetti, Inadempimento parziale e onere della prova; Cass. n. 15659/2015; Cass. n. 3373/2010; Cass. n. 6205/2010; Cass. n. 15677/2009; Cass., SS.UU., n. 13533/2001, in Foro it., 2002, I, 770 con nota di P. 814 mobbing, vale anche nei casi di straining, vertendosi sempre in tema di responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c. Come affermato dai giudici di legittimità nella decisione in esame, l’art. 2087 c.c., alla stregua del diritto alla salute previsto dall’art. 32 Cost. e dei principi di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., impone al datore di lavoro l’obbligo di astenersi da iniziative, scelte o comportamenti che possono ledere, già di per sé, la personalità morale del lavoratore, come l’adozione di condizioni di lavoro stressogene o non rispettose dei principi ergonomici, oltre ovviamente a comportamenti più gravi come il mobbing, straining, burn out, molestie, stalking e così via. Da ciò deriva la ripartizione degli oneri probatori secondo le regole di cui agli artt. 1218 e 1223 c.c., con conseguente parziale inversione dell’onere probatorio di cui all’art. 2697, comma 1, c.c., per quanto attiene alla presunzione legale della colpa. Sicché, in base al consolidato orientamento giurisprudenziale (20), grava sul lavoratore l’onere di provare l’inadempimento e il nesso causale tra questo e il danno patito, mentre incombe sul datore di lavoro, l’onere di provare l’assenza di colpa (21). Il lavoratore deve quindi dimostrare gli elementi di fatto che concretizzano la condotta vessatoria posta in essere dal datore o da un superiore gerarchico (ben potendosi qui richiamare i sette parametri tassativi previsti dal modello Ege). Al datore di lavoro spetta, invece, provare che gli elementi di fatto dedotti non costituiscono, singolarmente considerati, altrettante violazioni dell’obbligo di protezione e, in ogni caso, che tali episodi non sono collegati tra loro da un finalismo orientato a vessare, discriminare e accerchiare il lavoratore; o, ancora, che l’inadempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione dipendente da causa a lui non imputabile ex art. 1218 c.c. Ma la Suprema Corte accanto ai consolidati assunti richiamati, menziona, in maniera additiva, il lungo processo evolutivo che si è avuto in ambito europeo in materia di diritto antidiscriminatorio e antivessatorio, a partire dall’art. 13 del Trattato di Amsterdam (ora art. 157 TFUE) sino all’affermazione di un principio di uguaglianza declinato nei Laghezza, Inadempimenti ed onere della prova: le sezioni unite e la difficile arte del rammendo. (21) In tal senso, ex plurimis Cass. n. 9209/2015; Cass. n. 10529/2008, in Riv. it. dir. lav., 2008, 4, II, 795 (s.m.) con nota V. Pasquarella, La natura contrattuale della responsabilità ex art. 2087 c.c.: conferma dell’orientamento già da tempo dominante; Cass. n. 10441/2007. il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Lavoro subordinato due diversi aspetti dell’uguaglianza e della non discriminazione poi rafforzato ulteriormente, a livello di norma primaria, con l’adozione della Carta di Nizza, ora Carta dei diritti fondamentali della Unione Europea. Tale processo ha portato, nel corso del tempo e principalmente per effetto del recepimento di direttive comunitarie, alla conseguenza che anche nel nostro ordinamento condotte potenzialmente lesive dei diritti fondamentali di cui si tratta abbiano ricevuto una specifica tipizzazione, come discriminatorie (in modo diretto o indiretto). I contorni di questa complessa normativa sono divenuti più netti, soprattutto, a partire dall’entrata in vigore dei D.Lgs. nn. 215 e 216 del 2003, nei quali sono stati specificamente individuati alcuni fattori di discriminazione (orientamento sessuale, religione, convinzioni personali, handicap, età, razza, origine etnica) e, quanto all’onere della prova, si è stabilito che, quando la vittima fornisce elementi di fatto desunti anche da dati di carattere statistico, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori per una delle ragioni prese in considerazione, spetta al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della discriminazione, cioè principalmente della insussistenza dell’elemento psicologico. La ricostruzione del quadro normativo a cui è pervenuta la sentenza in commento (22), tuttavia, merita alcune precisazioni, in quanto seppur è rinvenibile una continuità tra le fattispecie di straining/mobbing e i comportamenti discriminatori (nello specifico le molestie), entrambi lesivi della dignità della persona, non si possono ritenere pienamente utilizzabili nel primo caso i rimedi posti a tutela delle discriminazioni ed in particolare quelli di tipo processuale. È indubbio che la vittima di mobbing o di straining è spesso anche vittima di discriminazioni nelle ipotesi in cui le condotte vessatorie assumono connotati discriminatori, essendo rivolte nei confronti di persone che si trovino in una delle condizioni tutelate dal diritto antidiscriminatorio (es. portatori di handicap fisici o psichici, appartenenti a minoranze etniche o a un determinato sesso, etc.). In simili ipotesi il fenomeno considerato assume una particolare natura, poiché le condotte illegittime presentano un’ulteriore carica di antigiuridicità che legittima il lavoratore ad avvalersi delle tutele so- stanziali e processuali previste dal diritto antidiscriminatorio. Tuttavia è vero anche il contrario e cioè che nelle fattispecie di mobbing o straining può non riscontrarsi un motivo discriminatorio in capo all’agente, il quale può porre in essere condotte indirizzate nei confronti di un soggetto, privo di qualità personali riconducibili ai divieti di discriminazione. In questo caso l’interrogativo da porsi è se le tecniche di tutela contro le discriminazioni sono adatte a combattere, in assenza di una specifica normativa in materia, tali fenomeni di vessazioni sui luoghi di lavoro. A parere di chi scrive la risposta è negativa per due ordini di ragione. Il primo attiene alla specialità della disciplina processuale in materia antidiscriminatoria che non può estendersi in via analogica in casi non tipizzati dalla legge. Il secondo riguarda il regime di presunzioni utilizzabili nel diritto antidiscriminatorio incompatibile con le fattispecie di mobbing/straining. Si pensi in particolare alla rilevanza dei dati statistici prevista dagli artt. 40, D.Lgs. n. 198/2006 e 28, D.Lgs. n. 150/2011 che implicano un giudizio comparativo, difficilmente realizzabile nei casi di condotta mobbizzante. Lo stesso dicasi con riferimento alla tutela inibitoria prevista dall’art. 38, D.Lgs. n. 198/2006 per la quale il giudice ordina la cessazione del comportamento e la rimozione degli effetti, a cui si può associare quella risarcitoria, vista come ulteriore domanda a cui il ricorrente è legittimato rispetto ai rimedi principali. Sotto questo profilo si delinea pertanto una differenza rispetto all’elaborazione più generale in tema di mobbing, che ha visto viceversa prevalere la tecnica di tipo risarcitorio. A ciò si devono aggiungere le ulteriori sanzioni accessorie previste nel diritto antidiscriminatorio (la sanzione penale se il datore di lavoro non ottempera all’ordine del giudice, l’esclusione da appalti e la revoca di benefici pubblici, il pagamento di una somma per ogni giorno di ritardo nell’ottemperare all’ordine del giudice solo per le discriminazioni di genere) che non possono essere estese al mobbing o allo straining. Infine la possibilità prevista dall’art. 37, D.Lgs. n. 198/2006 di esperire l’azione collettiva quando non sono individuabili in modo immediato e diretto le vittime delle discriminazioni che non si presta ad essere utilizzata nelle fattispecie di mobbing/straining caratterizzate da una dimensione tendenzialmente individuale. (22) Sul punto v. Cass. n. 18927/2012. il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 815 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Lavoro subordinato Pertanto sotto questi profili, la divergenza tra il diritto antidiscriminatorio e le fattispecie di mobbing o di straining rimane ampia, lasciando aperto l’interrogativo sull’effettività della tutela conseguibile. Tuttavia, non si può trascurare l’argomentazione che viene complessivamente sostenuta nella sentenza in commento e che fa leva sulle presunzioni utilizzabili dal giudice anche in via esclusiva, attraverso un prudente apprezzamento e facendo ricorso “a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nelle valutazioni delle prove”. La prova presuntiva consente al giudice, attraverso la complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto) di poter risalire coerentemente al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno. Ecco come, per quel che riguarda l’onere della prova, a prescindere dalla normativa antidiscriminatoria, nel nostro ordinamento processuale è previsto che, nel rito del lavoro, il principio dispositivo deve essere contemperato con quello della ricerca della verità materiale, con l’utilizzazione da parte del giudice anche di poteri officiosi oltre che della prova per presunzioni, alla quale, specialmente in casi come quello in oggetto, va attribuito precipuo rilievo. E come anche affermato dai giudici di legittimità nelle sentenza in commento, ciò, è conforme al consolidato orientamento in materia di prova del danno da demansionamento. In questa fattispecie infatti il lavoratore non ha solo l’onere di allegare e provare i fatti costitutivi del lamentato demansionamento, ma deve anche provare il danno subito in conseguenza e per effetto di esso, non potendosi accogliere la teoria del danno in re ipsa. La prova del danno subìto può essere, però, fornita con tutti i mezzi che l’ordinamento processuale pone a disposizione, ivi compresa la prova per presunzioni sulla base di elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa; tipo di professionalità colpita; durata del demansionamento; esito finale della dequalificazione o altre circostanze del caso concreto (23). In questo senso, può rinvenirsi una continuità (ma non una sovrapponibilità) fra il regime probatorio utilizzato nel diritto antidiscriminatorio e quello proprio delle condotte di mobbing/straining, pur non (23) V. Cass. n. 4063/2010; Cass. n. 6572/2006; Cass. n. 29832/2008; Cass. n. 28274/2008. (24) Cfr. Girelli N., La protezione del benessere psicofisico 816 potendosi invocare in quest’ultima ipotesi la responsabilità risarcitoria nel caso in cui manchi la dimostrazione, neppure in via presuntiva, dell’esistenza di un effettivo pregiudizio. Conclusioni In conclusione non può non riconoscersi alla sentenza in commento il pregio di aver definito in maniera analitica i contorni dello straining, una fattispecie, come visto, che, a differenza del mobbing, si concretizza in comportamenti vessatori da parte del datore privi dei caratteri della frequenza e della ripetitività, potendosi manifestare anche in una sola azione ostile nei confronti del lavoratore. O che si tratti di mobbing o di straining, i giudici sono chiamati ad accertare la sussistenza in capo al lavoratore di un danno alla sua integrità psico-fisica eziologicamente riconducibile al comportamento vessatorio del datore di lavoro o del superiore gerarchico che deve risarcito sulla base della percentualizzazione individuata dal consulente tecnico di ufficio. Tuttavia l’emersione di tale fenomeno non fa altro che amplificare il vuoto normativo esistente in questa materia delegata integralmente al contributo giurisprudenziale. Se da un lato con la pronuncia in commento si irrobustisce la tutela dei lavoratori destinatari di condotte vessatorie nei luoghi di lavoro, dall’altro lato però si rischia di annullare l’intento dimostrato dai giudici in materia di mobbing, richiamato nella premessa del presente contributo, di condannare comportamenti ostili posti in essere dal datore di lavoro o dal superiore gerarchico esclusivamente nei casi di maggiore gravità, per evitare che qualsiasi decisione imprenditoriale non condivisa si tramuti in vessazione o persecuzione (24). Sicché si può concludere rinnovando l’auspicio di un intervento del legislatore, al fine di soddisfare una necessaria esigenza di certezza giuridica, ed evitare il rischio, diametralmente opposto, di espandere oltremisura, attraverso le pronunce della magistratura, i comportamenti integranti le fattispecie, con la conseguenza di comprimere il diritto del datore di effettuare le proprie scelte in equilibrio ed autonomia, seppur con il sacrificio fisiologico delle aspettative dei dipendenti. dei lavoratori: mobbing, molestie sessuali, straining, op. cit., 472. il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Sintesi Rassegna della Cassazione a cura di Carlo Alberto Giovanardi, Guerino Guarnieri, Giuseppe Ludovico, Giorgio Treglia CONTROVERSIE DEL LAVORO DANNO DA DEMANSIONAMENTO E SINDACATO DELLA CASSAZIONE SULLE MASSIME D’ESPERIENZA ADOTTATE DAL GIUDICE DI MERITO Cassazione Civile, Sez. Lav., 20 maggio 2016, n. 10536 - Pres. Nobile - Rel. Manna - P.M. - Fuzio (conf.) - Amministrazione provinciale di Roma c. F.B.F. Il giudizio di cassazione è limitato al sindacato sulle massime di esperienza adottate nella valutazione delle risultanze istruttorie, nonché alla verifica della correttezza logico - giuridica del ragionamento seguito dal Giudice di merito, senza che ciò possa tradursi in un nuovo accertamento o nella ripetizione dell’esperienza conoscitiva propria dei gradi precedenti. Il caso Nel 2012 la Corte d’Appello di Roma, riformando la sentenza di primo grado, condannava la Amministrazione Provinciale di Roma al risarcimento del danno da demansionamento in favore di una lavoratrice, “relativamente al periodo intercorso dal 20 settembre 2000 alla data di deposito del ricorso introduttivo del giudizio”. Secondo la Corte di merito, infatti, “la dipendente aveva patito, nel passaggio dalle mansioni svolte presso l’Ufficio beni storici e antropologici dell’Assessorato alla Cultura della Provincia di Roma a quelle di addetta all’Ufficio Studi, uno svuotamento significativo, per qualità e quantità, delle proprie attribuzioni, per l’effetto riportando un danno alla professionalità e un danno biologico”. Contro tale pronuncia proponeva ricorso in cassazione l’Amministrazione Provinciale di Roma, cui è successivamente “subentrata ex lege la Città Metropolitana di Roma Capitale, che a tal fine ha depositato memoria”. Tale ricorso era basato su di un solo, articolato, motivo, con il quale veniva denunciata la “violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 e 2697 c.c., degli artt. 112 e 115 c.p.c., e vizio di motivazione, per avere la sentenza impugnata genericamente motivato basandosi su pretesi riscontri della deposizione” di un solo testimone, “il tutto in contrasto con la specifica motivazione resa dal Tribunale, con le controdeduzioni svolte dall’amministrazione e con i numerosi documenti acquisiti in corso di causa. Da essi risulta - prosegue il ricorso -l’atteggiamento antagonistico e aggressivo della controricorrente rispetto ai compiti affidatile presso l’Ufficio Studi”, inoltre, sempre secondo la ricorrente, la sentenza d’appello aveva travisato il significato della deposizione dello stesso teste, “nel senso che nei primi tempi (cioè dall’ottobre al dicembre 2000) dopo la sua costituzione tutto l’Ufficio Studi, e non soltanto la ricorrente, aveva avuto poco lavoro da svolgere in considerazione delle difficoltà di avvio della nuova unità organizzativa”. Infine, “era stata la stessa controricorrente a chiedere di passare all’Ufficio Studi” e la sentenza impugnata, in violazione dell’art. 112 c.p.c., aveva altresì “erroneamente ritenuto provati il demansionamento e il supposto danno patrimoniale alla professionalità della dipendente, essendo invece ne- il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 cessario a tal fine dimostrare fatti e circostanze da cui presumere che in concreto vi fosse stata una perdita delle cognizioni acquisite nel precedente incarico, ovvero l’impossibilità d’un loro aggiornamento”. La decisione La Cassazione ha respinto il ricorso, condannando altresì il datore di lavoro al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, “liquidate in Euro 100,00 per esborsi e in Euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge”. La S.C., infatti, dopo avere preliminarmente appurato che il ricorso conteneva tutte le “indicazioni necessarie al fine di intendere il significato delle censure in relazione agli atti richiamati”, e quindi sfuggiva al rigetto per “difetto di autosufficienza” (così come richiesto preliminarmente dalla controricorrente), ha poi rilevato che lo stesso ricorso, “ad onta dei richiami normativi in esso contenuti, in realtà suggerisce esclusivamente una rivisitazione del materiale istruttorio (documentale e testimoniale) affinché se ne fornisca una valutazione diversa da quella accolta dalla sentenza impugnata, operazione non consentita in sede di legittimità neppure sotto forma di denuncia di vizio di motivazione”. Alla Cassazione infatti “spetta soltanto il sindacato sulle massime di esperienza adottate nella valutazione delle risultanze probatorie, nonché la verifica sulla correttezza logico-giuridica del ragionamento seguito e delle argomentazioni sostenute, senza che ciò possa tradursi in un nuovo accertamento, ovvero nella ripetizione dell’esperienza conoscitiva propria dei gradi precedenti”. E, a sua volta, “il controllo in sede di legittimità delle massime di esperienza non può spingersi fino a sindacarne la scelta, che è compito del giudice di merito, dovendosi limitare questa S.C. a verificare che egli non abbia confuso con massime di esperienza quelle che sono, invece, delle mere congetture”. Invece nel ricorso non era stato evidenziato “l’uso di inesistenti massime di esperienza né violazioni di regole inferenziali”, bensì erano state soltanto segnalate “possibili difformi valutazioni degli elementi raccolti, il che costituisce compito precipuo del giudice del merito, non di quello di legittimità, che non può prendere in considerazione quale ipotetica illogicità argomentativa la mera possibilità di un’ipotesi alternativa rispetto a quella ritenuta in sentenza”. Infine, nel ricorso non erano stati isolati, come invece si sarebbe dovuto, “singoli passaggi argomentativi per evidenziarne l’illogicità o la contraddittorietà intrinseche e manifeste (vale a dire tali da poter essere percepite in maniera oggettiva e a prescindere dalla lettura del materiale di causa)”, ma si è invece ritenuto “di poter enucleare vizi di motivazione dal mero confronto con documenti e deposizioni, vale a dire attraverso un’operazione che suppone un accesso diretto agli atti e una loro delibazione non consentiti innanzi a questa Corte Suprema”. Quanto poi alla prova del demansionamento, e del relativo danno, secondo la Cassazione i giudici di merito avevano “accertato uno svuotamento quantitativo e qualitativo delle mansioni all’atto del passaggio della controricorrente all’Ufficio Studi e, quel che più conta, un suo isolamento rispetto al contesto organizzativo e relazionale dell’ambiente di lavoro, cir- 817 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Sintesi costanze da cui i giudici d’appello hanno correttamente ricavato una presumptio hominis di impoverimento professionale proiettato nel futuro”; inoltre, “trattandosi di presunzione, consentita anche a fronte d’un accertato demansionamento, non è indispensabile la dimostrazione positiva d’una vera e propria impossibilità di aggiornamento”. I precedenti In senso conforme (e sempre con riferimento al motivo di ricorso di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. nel testo precedente alla radicale modifica operata nel 2012) si vedano, richiamate in motivazione Cass., Sez. trib., 4 febbraio 2004, n. 2090, in Mass. Giust. civ., 2004, 198 (secondo la quale “In tema di accertamento dei fatti storici allegati dalle parti a sostegno delle rispettive pretese, i vizi motivazionali deducibili con il ricorso per cassazione non possono consistere nella circostanza che la determinazione o la valutazione delle prove siano state eseguite dal giudice in senso difforme da quello preteso dalla parte, perché a norma dell’art. 116 c.p.c. rientra nel potere discrezionale - e come tale insindacabile - del giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento, apprezzare all’uopo le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza e scegliere, tra le varie risultanze istruttorie, quelle ritenute idonee e rilevanti con l’unico limite di supportare con adeguata e congrua motivazione l’esito del procedimento accertativo e valutativo seguito”), e Cass., SS.UU., 11 giugno 1998, n. 5802, ivi, 1998, 1283 (per la quale il vizio di motivazione “sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia, e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte perché la citata norma non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico - formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, all’uopo, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione”. Ricordiamo che, invece, dal 2012, si ritiene invece che il controllo della Cassazione sia ora limitato alla verifica della presenza, o meno, del c.d. “minimo costituzionale” motivazionale: cfr. ad es. Cass., Sez. lav., 7 aprile 2016, n. 6763, in corso di pubblicazione su questa Rivista, e Cass., SS.UU., 7 aprile 2014, n. 8053, in Corr. giur., 2014, 1241 ss., con nota di Glendi. Sui limiti al sindacato della Cassazione sull’utilizzo delle c.d. “massime d’esperienza” da parte del giudice di merito, v. poi Cass., Sez. III, 13 novembre 2015, n. 23201, in Mass. Foro it., 2015, 781, che (in una interessante fattispecie, in cui si discuteva se l’incendio di un immobile fosse stato, o meno, provocato dalla “autocombustione del fieno ammassato dai convenuti” in un locale del medesimo edificio), ha affermato che, in caso di prova per presunzioni (art. 2729 c.c.), il “percorso logico-giuridico” seguito dal giudice di merito è sindacabile solo nella misura in cui “siano stati pretermessi, senza darne ragione, uno o più fattori aventi, per condivisibili massime di esperienza, un’oggettiva portata indiziante”, nonché Cass., Sez. lav., 19 gennaio 2015, n. 777, ivi, 34; Cass., Sez. II, 4 ottobre 2011, n. 20313, in Mass. Giust. civ., 2011, 1402; Cass., Sez. III, 28 ottobre 2010, n. 22022, ivi, 2010, 1377 (secondo cui “Il giudice è tenuto ad avvalersi, come regola di giudizio destinata a governare sia la valutazione delle prove, che l’argomentazione di tipo presuntivo, 818 delle massime d’esperienza -o nozioni di comune esperienza-, da intendersi come proposizioni di ordine generale tratte dalla reiterata osservazione dei fenomeni naturali o socioeconomici.”); Cass., Sez. lav., 26 giugno 2004, n. 11919, in Foro it., 2004, I, 179 ss. Per quanto poi concerne in particolare la prova del demansionamento ed i criteri di liquidazione del relativo danno, cfr. Cass., SS.UU., 24 marzo 2006, n. 6572, in questa Rivista, 2006, 661 ss., con nota di Sorgi, e 773 ss., con nota di Petracci (ed anche, ad es., in Foro it., 2006, I, 2334 ss., con nota di Cendon, in Riv. it. dir. lav., 2006, 687 ss., con nota di Scognamiglio, e in Giur. it., 2006, 1359 ss., con nota di Bordon), nonché Cass., Sez. lav., 1° marzo 2016, n. 4031, Cass., Sez. lav., 10 novembre 2015, n. 22930, in Mass. Foro it., 2015, 777; Cass., Sez. lav., 12 giugno 2015, n. 12253, in Giur. it., 2015, 2683 ss., con nota di De Feo, e in Riv. it. dir. lav., 2015, 998 ss., con nota di Gargiulo; Cass., Sez. lav., 26 gennaio 2015, n. 1327, in Mass. Foro it., 2015, 53; Cass., Sez. lav., 18 marzo 2014, n. 6230, in questa Rivista, 2014, 711; Cass., Sez. lav., 8 gennaio 2014, n. 172, in Giur. it., 2014, 918 ss., con nota di D’Amelio, e in questa Rivista, 2014, 404; Cass., Sez. lav., 16 ottobre 2013, n. 23530, ivi, 2014, 183; Cass., Sez. lav. 19 aprile 2012, n. 6110, ivi, 2012, 720; Cass., Sez. lav., 23 novembre 2011, n. 24718, ivi, 191; Cass., Sez. lav., 1° giugno 2002, n. 7967, in Mass. Giust. civ., 2001, 945 (secondo cui la liquidazione del danno “può avvenire anche in via equitativa, eventualmente con riferimento all’entità della retribuzione risultante dalle buste - paga prodotte in giudizio”). Sul tema si segnala anche che, secondo Trib. Ravenna 22 settembre 2015, in questa Rivista, 2016, 183 ss., con nota di Aiello, “Non è applicabile la nuova normativa in materia di ius variandi, ex art. 2103 c.c., nel testo modificato dal d.lgs. n. 81/2015, qualora il demansionamento, fatto generatore del diritto alla tutela reintegratoria e risarcitoria, si sia prodotto nel vigore della legge precedente”. Guerino Giuarnieri DISCREZIONALITÀ DEL GIUDICE NEL DISPORRE LA RINNOVAZIONE DELLA CTU Cassazione Civile, Sez. lav., 4 maggio 2016, n. 8881 Pres. Amoroso - Rel. Riverso - P.M. Sanlorenzo (conf.) D.M.L. c. Comune di Cercemaggiore In tema di consulenza tecnica d’ufficio, il giudice di merito non è tenuto, anche a fronte di una esplicita richiesta di parte, a disporre una nuova consulenza d’ufficio, atteso che il rinnovo dell’indagine tecnica rientra tra i poteri istituzionali del giudice di merito, sicché non è neppure necessaria una espressa pronunzia sul punto. Il caso Nel 2013 la Corte d’Appello di Campobasso confermava la sentenza di primo grado, che aveva rigettato la domanda con quale la ricorrente aveva richiesto l’annullamento, per incapacità naturale, delle proprie dimissioni da vigile urbano, rassegnate nell’agosto del 2006, con conseguente ripristino del rapporto e condanna del Comune convenuto “al pagamento delle retribuzioni dovute o al risarcimento del danno”. I giudici d’appello, “alla luce delle prove raccolte in primo grado e della ctu ivi espletata”, avevano infatti ritenuto “che la ricorrente versasse in uno stato ansioso depressivo che ben può configurare un disturbo della personalità NAS senza determinare uno stato di incapacità natu- il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Sintesi rale; e che la ricorrente era stata indotta alle dimissioni da legittimi motivi personali e/o familiari come da ella addotto tanto nella lettera di dimissioni, tanto nella richiesta” di riammissione in servizio presentata nel febbraio del 2007. La lavoratrice proponeva quindi ricorso per cassazione, articolato in due motivi. Con il primo motivo venivano dedotti; a) un “vizio di motivazione per violazione e falsa applicazione dell’art. 428 c.p.c. anche in relazione all’art. 2697 c.c.”; b) il travisamento dei fatti e la illogicità della sentenza per contraddittorietà della consulenza tecnica d’ufficio; c) un vizio di motivazione “su un fatto deciso del giudizio e violazione e falsa applicazione dell’art. 115 e 116 c.p.c.”; in sintesi, con questo motivo si lamentava che “la Corte di merito avesse escluso la prova della incapacità naturale” e non avesse “esaminato le censure rivolte nell’appello alla consulenza tecnica posta a base della sentenza di primo grado”. I giudici di merito sarebbero inoltre caduti in contraddizione quando, recependo le conclusioni della consulenza tecnica, avevano “da una parte sostenuto che la” lavoratrice “fosse affetta dal disturbo della personalità NAS e dall’altra che le dimissioni fossero state rassegnate per motivi personali”. Con il secondo motivo, invece, veniva dedotto un “vizio dl motivazione per omessa ammissione di prova testimoniale e mancato rinnovo” della consulenza tecnica. La decisione La S.C. ha esaminato congiuntamente questi due motivi di ricorso, considerandoli legati da “connessione logica”, dopodiché li ha ritenuti entrambi inammissibili, condannando altresì la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate “in Euro 100 per esborsi ed in Euro 3000 per compensi professionali, oltre accessori di legge e spese generali al 15%”. Anzitutto, secondo la Sezione Lavoro “non è vero che la Corte avrebbe escluso la prova sullo stato di incapacità transitoria della lavoratrice al momento delle dimissioni. Il giudizio d’appello ha invece confermato la conclusione presa dal primo giudice sulla scorta di prove testimoniali e documentali univoche, assunte nel corso del giudizio e non fatte oggetto di alcuna censura in appello. La conclusione è altresì fondata sulla consulenza tecnica d’ufficio la quale ha pure concluso - sulla scorta del parere della psichiatra - che la ricorrente, pur avendo avuto stati di ansia associati a sintomi psicotici, non ha tuttavia subito alcun annullamento o riduzione della capacità di intendere e di volere al momento delle dimissioni”. E “nemmeno è vero”, prosegue la sentenza, “che la Corte non avrebbe esaminato le censure rivolte alla ctu nell’atto di appello. Al contrario, la sentenza si sofferma sui motivi per cui le crisi di cui soffriva la ricorrente non potevano aver comportato incapacità naturale al momento del dimissioni attraverso un’autonoma disamina dei fatti ed una ricostruzione storica dello svolgersi degli accadimenti a confutazione dei rilievi del gravame”. Infine viene ricordato che, secondo una giurisprudenza di legittimità ormai consolidata, “non sussiste vizio di motivazione allorché il giudice di merito non proceda alla rinnovazione della ctu”: infatti il giudice di merito, anche nel processo del lavoro, non è mai tenuto, neppure dinanzi ad una precisa istanza in tal senso, a ordinare lo svolgimento di una seconda consulenza tecnica d’ufficio, essendosi qui nell’ambito un suo potere esclusivo e discrezionale, del cui mancato esercizio non è pertanto neppure tenuto a rendere conto in sede di motivazione. il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 I precedenti In senso conforme si veda, anzitutto, espressamente richiamata in motivazione, Cass., Sez. lav., 24 settembre 2010, n. 20227, in Mass. Giust. civ., 2010, 1261, la cui massima è identica a quella qui sopra riportata e nella cui fattispecie la S.C., “nel confermare la sentenza impugnata, ha rilevato che non erano state denunciate malattie nuove o aggravamenti delle infermità che avrebbero imposto un’esplicita motivazione in ordine alle ragioni del mancato rinnovo della consulenza, potendo quest’ultima essere ritenuta superflua anche per implicito”), nonché Cass., Sez. lav., 5 febbraio 2004, n. 2151, in Mass. Foro it., 2004, 131, e Cass., Sez. III, 19 luglio 2013, n. 17693, ivi, 2013, 707 s., secondo cui “il rinnovo dell’indagine tecnica rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito”. In senso contrario si vedano. comunque Cass., Sez. I, 27 aprile 2011, n. 9379, in Mass. Giust. civ., 2011, 657, secondo la quale “In tema di consulenza tecnica d’ufficio, il giudice è tenuto a motivare sul rigetto della argomentata richiesta di rinnovazione delle indagini tecniche rivolta dalla parte”, e Cass., Sez. III, 2 agosto 2004, n. 14775, in Mass. Foro it., 2004, 1158, per la quale “se la parte chiede la rinnovazione delle indagini tecniche, specificando le ragioni della richiesta, il giudice è libero di disporla o meno, ma nel caso in cui non la disponga, a differenza del caso contrario, è tenuto a motivare sul punto”. In tema di rinnovazione della CTU e di discrezionalità del giudice, v. poi anche Cass., Sez. lav., 15 gennaio 2014, n. 684, in questa Rivista, 2014, 403; Cass., Sez. lav., 26 agosto 2013, n. 19572, in Mass. Foro it., 2013, 723; Cass., Sez. lav., 9 agosto 2012, n. 14338, ivi, 2012, 643 s. (per la quale “il principio secondo il quale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito valutare l’opportunità di rinnovare le indagini peritali va coordinato con il principio dell’effetto devolutivo dell’appello, sicché, qualora l’appellante non abbia censurato la consulenza tecnica d’ufficio svolta in primo grado e anzi ne abbia posto le risultanze a fondamento del gravame, incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice di appello che disponga la rinnovazione delle operazioni peritali, derivandone la nullità della nuova consulenza e della sentenza che vi aderisca”); Cass., Sez. lav., 31 marzo 2011, n. 7494, in Mass. Giust. civ., 2011, 510; Cass., Sez. lav., 29 aprile 2010, n. 9379, in questa Rivista, 2010, 726; Cass., Sez. II, 30 ottobre 2009, n. 23063, in Mass. Giust. civ., 2009, 1522 (qui la S.C. “ha cassato la sentenza di merito che aveva acriticamente recepito le risultanze della c.t.u. di secondo grado, senza fornire adeguata motivazione sulle ragioni che avevano portato ad escludere la fondatezza delle conclusioni raggiunte dalla consulenza espletata in primo grado”); Cass., Sez. lav., 27 febbraio 2009, n. 4850, ivi, 2009, 336; Cass., Sez. II, 19 marzo 1999, n. 2541, in Mass. Giust. civ. 1999, 615. Infine, sempre in tema di CTU, ma relativamente ad altra problematica, si veda Cass., Sez. lav., 19 dicembre 2013, n. 2848, in questa Rivista, 2014, 280, per la quale, “Posto che la consulenza tecnica d’ufficio non costituisce un mezzo di prova, ma solo uno strumento di controllo dei fatti costituenti la prova, il lavoratore che adduca di aver subito condotte discriminatorie e persecutorie è gravato del relativo onere probatorio, non essendo sufficiente riportarsi ad episodi riferiti” dal consulente tecnico. Guerino Guarnieri 819 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Sintesi ANCORA SUI LIMITI SOGGETTIVI ALLA PROVA TESTIMONIALE Cassazione Civile, Sez. lav., 22 aprile 2016, n. 8180 Pres. Di Cerbo - Rel. Tricomi - P.M. Celentano (conf.) O.N.V. c. Emmebi S.r.l. L’incapacità a testimoniare è correlabile soltanto a un diretto coinvolgimento della persona chiamata a deporre nel rapporto controverso, tale da legittimare una sua assunzione della qualità di parte in senso sostanziale o processuale nel giudizio, e non già alla ravvisata sussistenza di un qualche interesse di detta persona in relazione a situazioni e a rapporti diversi da quello oggetto della vertenza, anche in qualche modo connessi (nella specie, è stato ritenuto capace di testimoniare il lavoratore che aveva querelato il ricorrente, quale autore dell’aggressione subita). Il caso Nel 2014 la Corte d’Appello di Bologna respingeva l’appello proposto da un lavoratore contro la sentenza del Tribunale di Modena, che, nel 2012, “aveva rigettato la domanda del lavoratore di declaratoria di nullità o illegittimità del licenziamento irrogatogli”, in seguito ad una colluttazione con altri colleghi, e di “condanna del datore di lavoro alla reintegra e al risarcimento dei danni”. Il soccombente proponeva quindi ricorso in cassazione, per sei motivi, ed il datore di lavoro resisteva con controricorso. In particolare con il terzo motivo di ricorso veniva dedotta “la violazione e falsa applicazione dell’art. 246 c.p.c. avendo la Corte d’Appello ritenuto... capace di deporre” il lavoratore che (stando alla narrativa del ricorrente), aveva aggredito il ricorrente stesso e lo aveva colpito, e pertanto doveva essere considerato “incapace”, in quanto palesemente “legittimato a partecipare al giudizio sia come interventore principale, sia come interventore ad adiuvandum, e comunque, vi sarebbe stata mancanza di motivazione su questo punto”. Il teste, inoltre, aveva presentato contro il ricorrente “una denuncia querela”, nella quale proponeva una diversa ricostruzione dei fatti, asserendo di essere stato lui a ricevere il pugno al volto, il che confermava la sua legittimazione sia ad intervenire nel giudizio, in via principale, per il risarcimento del danno subito, sia ad intervenire “ad adiuvandum, poiché sulla circostanza oggetto della querela la società datrice di lavoro aveva fondato il licenziamento”. E comunque “l’attendibilità del teste doveva ritenersi nulla, atteso che lo stesso non potrebbe che confermare quanto oggetto della denuncia”. La decisione La Cassazione ha respinto tutti i motivi del ricorso ed ha quindi condannato il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, liquidate “in Euro tremilacinquecento per compensi professionali, oltre euro cento per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15 per cento e accessori di legge”. Per quanto poi specificamente concerne il terzo motivo, al riguardo la Cassazione ha rilevato che già la Corte d’Appello aveva posto correttamente in evidenza come il teste contestato “non fosse titolare di alcun interesse giuridico (e non fattuale) che avrebbe legittimato la sua partecipazione al giudizio, determinandone l’incapacità a testimoniare. Né può rilevare in proposito la presentazione di querela”. È infatti ormai sufficientemente pacifico nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo cui “l’interesse che determina l’incapacità a testimoniare, ai sensi dell’art. 820 246 c.p.c., è solo quello giuridico, personale, concreto ed attuale, che comporta o una legittimazione principale a proporre l’azione ovvero una legittimazione secondaria ad intervenire in un giudizio già proposto da altri cointeressati. Tale interesse non si identifica con l’interesse di mero fatto, che un testimone può avere a che venga decisa in un certo modo la controversia in cui esso sia stato chiamato a deporre, pendente fra altre parti, ma identica a quella vertente tra lui ed un altro soggetto ed anche se quest’ultimo sia, a sua volta, parte del giudizio in cui la deposizione deve essere resa. Neanche l’eventuale riunione delle cause connesse (per identità di questioni) può fare insorgere l’incapacità delle rispettive parti a rendersi reciproca testimonianza, potendo tale situazione soltanto incidere sulla attendibilità delle relative deposizioni”. Quanto poi alla fattispecie concreta, si trattava di un giudizio vertente tra un datore di lavoro ed un dipendente, ed avente ad oggetto un’impugnativa di licenziamento, e quindi non vi era alcun margine per configurare in capo al teste “un interesse giuridico alla partecipazione al giudizio”. Ciò posto, la S.C. ha anche rilevato che, comunque, la, presunta, incapacità del teste, derivante da fatti ben noti al ricorrente, avrebbe dovuto “essere eccepita subito dopo l’espletamento della prova, ai sensi dell’art. 157 c.p.c., comma 2, (salvo il caso in cui il procuratore della parte interessata non sia stato presente all’assunzione del mezzo istruttorio, nella quale ipotesi la nullità può essere eccepita nell’udienza successiva), sicché, in mancanza di tale tempestiva eccezione, la nullità deve intendersi sanata”. Invece nel formulare il motivo di ricorso per violazione dell’art. 246 c.p.c. il ricorrente non aveva né allegato di avere ottemperato a tale onere, né, tantomeno, indicato in quale scritto difensivo, o in quale verbale d’udienza, fosse stata tempestivamente sollevata la relativa eccezione. I precedenti In senso conforme e proprio con riferimento ad una, pretesa, incapacità da colluttazione, nonché per l’affermazione che l’eventuale incapacità del teste deve essere tempestivamente fatta valere, a pena di decadenza, già nel giudizio di merito, cfr., anzitutto, Cass., Sez. lav., 25 novembre 2014, n. 25015, in questa Rivista, 2015, 194 s., e in Riv. dir. proc., 2015, 1216 ss., con nostro ampio commento. Richiamate in motivazione si vedano poi anche Cass., Sez. lav., 21 ottobre 2015, n. 21418, in Mass. Foro it., 2015, 703 (anche per l’affermazione che l’eventuale riunione di cause connesse promosse da più lavoratori non farebbe insorgere l’incapacità a testimoniare ciascuno nella causa dell’altro); Cass., Sez. lav., 8 febbraio 2011, n. 3051, in Mass. Giust. civ., 2011, 199 (per la quale nel giudizio tra INPS e datore di lavoro, “avente ad oggetto il pagamento di contributi previdenziali che si assumono evasi, non è incapace a testimoniare il lavoratore i cui contributi non siano stati versati”, e che abbia già transatto la propria lite con il datore di lavoro). Tra le più recenti si veda poi anche Cass., Sez. lav., 25 gennaio 2016, n. 1256, in Mass. Foro it., 2016, 55, per la quale “Nel giudizio tra datore di lavoro ed ente previdenziale, avente ad oggetto il mancato pagamento di contributi, qualora sorga contestazione sull’esistenza del rapporto di lavoro subordinato, presupposto dell’obbligo contributivo, sussiste l’incapacità a testimoniare del lavoratore i cui contributi siano stati omessi; ciò non esclude, tuttavia, che il giudice, avvalendosi dei poteri conferitigli dall’art. 421 c.p.c., possa interrogarlo liberamente sui fatti di causa”. il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Sintesi In campo non lavoristico, cfr. inoltre Cass., Sez. I, 10 maggio 2010, n. 11314, in Mass. Giust. civ., 2010, 713 (“che, in un giudizio relativo alla titolarità di una quota di società di persone”, ha affermato che “gli altri soci della medesima non sono incapaci a deporre, perché l’esito della causa non è destinato in alcun modo a riflettersi sul loro patrimonio o sulla loro sfera giuridica individuale; né il loro eventuale interesse al modo in cui la compagine sociale è formata, allorché la libera trasferibilità delle quote non sia in discussione, ne giustificherebbe la personale partecipazione al giudizio”), nonché, sull’incapacità a testimoniare del c.d. terzo danneggiato in un incidente stradale, anche se abbia rinunciato al risarcimento, Cass., Sez. III, 18 aprile 2016, n. 7623, e Cass., Sez. III, 29 settembre 2015, n. 19258, in Mass. Foro it., 2015, 626. Nel senso che “La nullità della testimonianza resa da persona incapace, ai sensi dell’art. 246 c.p.c., essendo posta a tutela dell’interesse delle parti, è configurabile come nullità relativa e, in quanto tale, deve essere eccepita subito dopo l’assunzione della prova, rimanendo altrimenti sanata ai sensi dell’art. 157, secondo comma, c.p.c.”, cfr. poi Cass., SS.UU., 23 settembre 2013, n. 21670, in Mass. Foro it., 2013, 686 s., e conformi v. Cass., Sez. lav., 25 novembre 2014, n. 2505, cit.; Cass., Sez. lav., 19 agosto 2014, n. 18036, in questa Rivista, 2014, 1123, e già Cass., SS.UU., 13 gennaio 1997, n. 264, in Mass. Giust. civ., 1997, 46. Con riferimento ad una problematica diversa, ma collegata, segnaliamo infine la, recentissima, Cass., Sez. lav., 19 maggio 2016, n. 10347, per la quale la deposizione di un testimone “può essere ritenuta attendibile anche limitatamente a determinati contenuti, a condizione che, tra la parte del narrato ritenuta inattendibile ed il resto ritenuto meritevole di credito, non sussista un rapporto di causalità necessaria o l’una non costituisca un imprescindibile antecedente logico dell’altro”. Guerino Guarnieri LAVORO SUBORDINATO TRASFERIMENTO DEL LAVORATORE ED ESIGENZE DELL’IMPRESA Cassazione Civile, Sez. lav., 30 maggio 2016, n. 11126 Pres. Nobile - Est. Esposito - P.M. Giacalone (diff.) - Ric. San Raffaele S.p.a. - Res. F.S. Il controllo giurisdizionale delle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive legittimanti il trasferimento del lavoratore deve essere diretto ad accertare che vi sia corrispondenza tra il provvedimento datoriale e le finalità tipiche dell’impresa e non può essere ampliato al merito della scelta operata dall’imprenditore che non deve presentare necessariamente i caratteri dell’inevitabilità, essendo sufficiente che il trasferimento concreti una delle ragionevoli scelte adottabili sul piano tecnico, organizzativo e produttivo. (Nella specie, la S.C. ha annullato la sentenza di appello che, con riguardo al trasferimento di una terapista della riabilitazione, aveva affermato che il datore di lavoro non aveva provato la inutilizzabilità della sua prestazione lavorativa presso la sede di provenienza, né l’impossibilità di adottare presso di essa il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 una diversa soluzione organizzativa, alternativa al trasferimento). Il caso La dipendente di una casa di cura veniva assunta a tempo indeterminato in qualità di terapista della riabilitazione. Le parti del contratto di lavoro raggiungevano, nel tempo, un accordo scritto, a mezzo del quale il rapporto di lavoro si trasformava definitivamente in part - time per 24 ore settimanali e svolgimento della prestazione dal lunedì al sabato dalle 9,30 alle 12. Dopodiché la datrice proponeva una variazione dell’orario con previsione di turni pomeridiani e con avvertimento che, in caso di rifiuto, si sarebbe proceduto ad un trasferimento presso altra sede, ove, a dire della datrice, vi era esigenza di personale con la qualifica rivestita dalla terapista. La lavoratrice opponeva un netto rifiuto, anche avuto riguardo alle proprie esigenze familiari; la stessa continuava a svolgere la propria attività di lavoro nei modi e nei luoghi di sempre. A causa del rifiuto di cui sopra, la società, all’esito di un procedimento disciplinare, provvedeva a licenziare in tronco la propria dipendente. Avverso tale provvedimento, la lavoratrice proponeva ricorso al tribunale competente, il quale rigettava la domanda. Contro la pronuncia di primo grado, interponeva appello la soccombente e la Corte territoriale accoglieva le domande disponendone la reintegrazione nel posto di lavoro. In particolare la Corte di merito osservava che la società non aveva provato la sussistenza di un effettivo nesso causale fra le esigenze derivanti dalla riorganizzazione aziendale addotta ed il mutamento dell’orario di lavoro concordato con la lavoratrice e neppure l’inutilizzabilità della prestazione della medesima nella nuova sede, oppure ancora l’impossibilità di adottare, presso tale sede, una diversa soluzione organizzativa alternativa al trasferimento e meno gravosa per la dipendente. L’azienda soccombente proponeva ricorso per cassazione affidato a quattro motivi di impugnazione; la prestatrice d’opera resisteva con controricorso. La decisione La. S.C. critica severamente l’operato dei giudici di secondo grado, accusandoli di aver trattato confusamente le questioni attinenti all’immutabilità dell’orario nel lavoro a tempo parziale, nonché quelle relative alla presunta illegittimità dapprima del disposto trasferimento e poi dell’intervenuto licenziamento. Ed infatti occorreva verificare, in primo luogo, l’incidenza, nell’ambito dell’orario part-time, del trasferimento, alla luce dei principi enucleati dalla giurisprudenza di legittimità. Infatti il controllo giurisdizionale, relativo alle ragioni tecniche del trasferimento, deve essere diretto ad accertare che vi sia corrispondenza fra il provvedimento adottato e le finalità tipiche dell’impresa, ma non può dilatarsi fino a comprendere il merito della scelta operata dall’imprenditore. Scelta che non deve presentare i caratteri dell’inevitabilità, essendo sufficiente che il trasferimento concreti una delle possibilità che il datore può adottare sul piano tecnico, organizzativo e produttivo. Di più, la predetta scelta imprenditoriale fra più soluzioni organizzative è insindacabile da parte del giudice e non è necessario che l’imprenditore dimostri l’inevitabilità del provvedimento di trasferimento, sotto il profilo della sicura inutilizzabilità del dipendente presso la sede di provenienza. 821 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Sintesi In conclusione la Corte territoriale non si è attenuta ai principi di cui sopra, essendosi erroneamente addentrata nel merito delle valutazioni imprenditoriali. Quanto sopra ha portato ad un procedimento argomentativo viziato; pertanto il ricorso è accolto, la sentenza è cassata con rinvio alla medesima Corte in diversa composizione, cui è affidato anche il regolamento delle spese. I precedenti Cass. 28 aprile 2009, n. 9921, in CED 2009; Cass. 2 marzo 2011, n. 5099, ivi, 2011. Giorgio Treglia LICENZIAMENTO DISCIPLINARE E DOVERI DI VERIFICA DEL GIUDICE Cassazione Civile, Sez. lav., 26 maggio 2016, n. 10950 Pres. Venuti - Est. Manna - P.M. Servello (diff.) - Ric. M.G. - Res. Casa di Cura Città di Roma S.p.a. Il giudice di secondo grado, investito del gravame con cui si chieda l’invalidazione d’un licenziamento disciplinare, deve verificare che l’infrazione contestata, ove in punto di fatto accertata o pacifica, sia astrattamente sussumibile sotto la specie della giusta causa o del giustificato motivo di recesso e, in caso di esito positivo di tale delibazione, deve poi, anche d’ufficio, apprezzare in concreto (e non semplicemente in astratto) la gravità dell’addebito, essendo pur sempre necessario che esso rivesta il carattere di grave negazione dell’elemento essenziale della fiducia e che la condotta del dipendente sia idonea a ledere irrimediabilmente la fiducia circa la futura correttezza dell’adempimento della prestazione dedotta in contratto, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore rispetto all’adempimento dei suoi obblighi. Il caso Il dipendente di una casa di cura ritiene di ridurre il suo tempo di lavoro, fino a svolgere la propria prestazione per sole tre ore al giorno. Tale fatto gli comporta la notifica di una contestazione disciplinare e, espletato il procedimento di cui all’art. 7 Stat. lav., la successiva irrogazione di un licenziamento per giusta causa. Ne nasce un contenzioso regolato dalla L. n. 92/2012. Sia l’ordinanza della prima fase, che la successiva sentenza - emessa a seguito di opposizione - che, infine, la sentenza della Corte territoriale su reclamo, confermano la totale legittimità dell’intimato recesso. Avverso la sentenza di secondo grado, il lavoratore ha promosso ricorso per cassazione, affidato a ben otto motivi di gravame; la società ha resistito con controricorso. La decisione Con la pronuncia in breve commento, la S.C. chiarisce importanti principi in tema di poteri del giudicante ai fini della corretta individuazione dell’eventuale giusta causa di licenziamento. Innanzitutto è precisato che la sentenza di merito premette di non potersi pronunciare sulla proporzionalità della sanzione espulsiva, rispetto all’infrazione contestata, per “difetto specifico di reclamo”. Ora, per la S.C. trattasi di errore evidente, in quanto il giudice di merito deve sempre valutare la sussistenza o meno del rapporto di proporzionalità tra l’infrazione del lavoratore 822 e la sanzione irrogatagli, tenendo conto delle circostanze oggettive e soggettive della condotta del lavoratore e di tutti gli altri elementi idonei a consentire l’adeguamento della disposizione normativa dell’art. 2119 c.c. In sostanza, il giudice di merito, laddove gli si richieda di giudicare in ordine alla legittimità del licenziamento disciplinare, deve verificare che l’infrazione contestata sia astrattamente inquadrabile nella specie della giusta causa o del giustificato motivo, per poi apprezzare in concreto la gravità dell’addebito. La sentenza impugnata, ad avviso della S.C., non si è attenuta a tale principio ritenendo di dover fermare la cognizione alla sola gravità del fatto in astratto, solo perché la parte non avrebbe mosso una specifica censura in ordine alla proporzionalità della sanzione, trattando solo il tema dell’insussistenza dell’addebito. Tuttavia l’apprezzamento relativo, come detto, alla proporzionalità fra sanzione ed illecito disciplinare deve essere svolto anche d’ufficio; “diversamente risulterebbe interrotta la sequenza logica “fatto norma effetto giuridico” attraverso la quale si afferma l’esistenza di un fatto sostenibile sotto una norma che adesso i colleghi un dato effetto giuridico” (così specificamente si legge nella motivazione). La sentenza affronta poi gli altri motivi di gravame, ritenendoli infondati e, alla conclusione del proprio argomentare, cassa la sentenza impugnata e rimette le parti avanti la medesima corte d’appello, in diversa composizione, indicando il principio di diritto riportato nella massima. Pertanto il ricorso è soltanto parzialmente accolto ed al giudice di merito è demandato il compito di riesaminare l’intera questione soprattutto con riguardo alla proporzionalità o meno del licenziamento disciplinare in relazione all’addebito di cui è causa, proprio al fine di valutare tutti gli aspetti oggettivi, quali la gravità della condotta e l’entità del danno arrecato. Pure egli dovrà compiere una valutazione degli aspetti soggettivi, quali il grado della colpa o l’intenzionalità della condotta e della sua intensità, avendo così conferma o smentita che il fatto, oggetto di contestazione disciplinare, sia stato tale da minare irrimediabilmente la fiducia del datore di lavoro nei confronti del proprio dipendente. I precedenti Cass. 11 aprile 2011, n. 8456, in Mass. Giur. it., 2006; Cass. 23 gennaio 2002, n. 736, in Not. giur. lav., 2002; Cass. 2000, n. 1144, in D&G, 2000, 6; Cass. 14 luglio 2015, n. 14670, in CED, 2015. Giorgio Treglia VENDITA DI PRODOTTI ON LINE DURANTE L’ORARIO DI LAVORO ED INSUSSISTENZA DI UNA GIUSTA CAUSA DI RECESSO Cassazione Civile, Sez. lav., 16 maggio 2016, n. 10020 Pres. Nobile - Est. Spena - P.M. Giacalone (conf.) - Ric. Mille Uno SpA - Res. R.A. Non rappresenta una giusta causa il licenziamento di un dipendente che vende prodotti online durante l’orario di lavoro se la vendita non interessa i clienti del datore di lavoro da cui dipende ed è svolta in un tempo determinato. il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Sintesi Il caso Il dipendente di una società, che gestiva una sala per il gioco del bingo, cominciava ad esercitare una propria attività commerciale. In particolare, durante l’orario di lavoro, vendeva prodotti di vario genere (fra cui pillole antirussamento), rivendita di ricariche, prodotti afferenti a scommesse sportive. Venuta a conoscenza dei fatti, la datrice riteneva di dover considerare risolto per giusta causa il rapporto di lavoro e, pertanto, attuata la procedura di cui all’art. 7 Stat. lav. provvedeva, come detto a licenziare in tronco il proprio dipendente. Questi se ne adontava e, pertanto, si rivolgeva alle cure del giudice di primo grado con il rito previsto dalla L. n. 92/2012. Il tribunale adito, sia nella prima fase che in quella di opposizione, rigettava il ricorso, affermando la sussistenza di una giusta causa di recesso. La Corte territoriale, adita su reclamo del lavoratore soccombente, era di contrario avviso; ed infatti, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava risolto il rapporto di lavoro, condannando la datrice al pagamento di 18 mesi di retribuzione. Più specificamente, i giudici di secondo grado ritenevano non proporzionata la sanzione, in ragione della prova dell’esercizio delle predette attività commerciali nei confronti dei soli colleghi di lavoro e non anche della clientela della sala bingo, della mancanza di danno alla società, del limitato arco temporale di svolgimento degli episodi contestati. Avverso tale pronuncia, proponeva ricorso per cassazione la società, affidando l’impugnazione a due motivi di gravame. Resisteva il lavoratore che proponeva anche un ricorso incidentale. La decisione Nel proprio ricorso principale la società valorizzava alcuni aspetti del comportamento posto in essere dal proprio dipendente, quali: il carattere illecito della condotta, lo scopo di lucro dell’attività svolta, la normativa sul divieto di esercitare attività di intermediazione, le ipotetiche ripercussioni sulla sala gioco, ove si fosse diffusa la notizia di un commercio non autorizzato al proprio interno. La S.C. ha ritenuto di dover spostare l’attenzione su altre questioni, ovvero sul fatto, per come accertato dalla sentenza di merito e sul potere discrezionale di valutazione delle prove da parte del giudice. In particolare è detto che, rispetto ai fatti accertati dalla sentenza, la valutazione di insussistenza della giusta causa di recesso appariva esente da censure. Infatti la sentenza di secondo grado aveva chiarito che era stata attuata una mera proposta di vendita ai colleghi di lavoro di merce e di abbonamenti ad un sito internet di scommesse sportive, senza esibizione della merce e senza interruzione della prestazione di lavoro e senza esercitare attività di persuasione verso il colleghi stessi. Di più la corte territoriale avrebbe valutato anche la breve durata delle singole condotte ed il limitato arco temporale di verificazione dei fatti (il periodo prenatalizio). Francamente la motivazione, in parte qua, desta qualche perplessità, anche perché la sentenza in breve commento non fa alcun cenno ai principi che informano ogni rapporto di lavoro subordinato e, segnatamente, quelli indicati negli artt. 2104 e 2105 c.c. (dovere di diligenza nella prestazione e obbligo di fedeltà). il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Ad ogni buon conto, la pronuncia affronta poi la tematica relativa al secondo mezzo di impugnazione, ovvero l’omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio consistente nella circostanza che il lavoratore aveva un doppio listino prezzi: per i beni da vendere ai colleghi e per quelli da vendere alla clientela. Sul punto è chiarito che il fatto storico della eventuale attività di vendita di prodotti a terzi era stato esaminato dal giudice di merito, con la conseguenza che la censura riguardava, in realtà, il mancato esame di elementi di prova e la mancata ammissione di mezzi istruttori; ipotesi queste non rientranti nel disposto di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. La S.C., su tale ultimo punto, ha chiarito che l’omesso esame di elementi istruttori non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma; e ciò quand’anche il fatto storico sia stato comunque preso in considerazione dal giudice di merito, anche se questi non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie astrattamente rilevanti. Per quanto sopra il ricorso principale è stato rigettato. In ordine al ricorso incidentale formulato dal lavoratore, lo stesso è stato dichiarato inammissibile, poiché non erano state individuate, nel libello di riferimento, le statuizioni della sentenza oggetto di censura e neppure erano stati articolati specifici motivi di ricorso. Qui la S.C. ricorda che il giudizio di cassazione è a critica vincolata, delimitato dai motivi del ricorso che assumono una funzione identificativa, condizionata dalla loro formulazione tecnica. Dunque il motivo di ricorso deve possedere i caratteri della tassatività e della specificità, in modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie previste dall’art. 360 c.p.c. I precedenti Cass., SS.UU., 22 settembre 2014, n. 19881, in Dir. prat. trib., 2015, 4, 730 con nota di Dalla Bontà; Cass., SS.UU., 7 aprile 2014, n. 8053, in questa Rivista, 2014, in Foro it., 2015, 1, 1, 210, in Corr. giur., 2014, 10, 1241 con nota di Glendi. Sui fondamenti del giudizio di cassazione, cfr. Cass. 28 novembre 2014, n. 25332, in CED 2014; Cass. 22 settembre 2014, n. 19959, ivi, 2014; Cass. 17 settembre 2013, n. 21165, in CED 2013. Giorgio Treglia BADGE, CONTROLLO A DISTANZA E LICENZIAMENTO Cassazione Civile, Sez. lav., 13 maggio 2016, n. 9904 Pres. Venuti - Rel. Patti - P.M. Mastroberardino (conf.) Grandi stazioni Spa c. C.F. È illegittimo il licenziamento fondato sui dati risultanti dal badge elettronico in uso al dipendente se le modalità di rilevazione dei dati di entrata e uscita, incluse le pause, non sono state concordate con le rappresentanze sindacali né autorizzate da parte della DTL. Il caso In base ai dati acquisiti tramite badge, la società, contestando alcune anomalie consistenti nella non coincidenza delle timbrature in entrata e in uscita rispetto agli orari di lavoro, procedeva al licenziamento per giusta causa. Su ricorso del lavoratore, il Tribunale e la Corte d’Appello di Napoli (quest’ultima con sentenza del 28 dicembre 2012) dichiaravano non utilizzabili ai fini del recesso i dati acquisiti, specificatamente a causa dell’illegittimità dell’impianto di rilevazione aziendale, realizzante un controllo a distanza dei lavoratori, in violazione dell’art. 4 della L. n. 823 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Sintesi 300/1970, in quanto avvenuto in assenza di accordo scritto con le rappresentanze sindacali o, in difetto, di autorizzazione della Direzione Territoriale del lavoro. Nel caso di specie, il lavoratore, a seguito della declaratoria di illegittimità del recesso, era stato reintegrato nel proprio posto, con conseguente condanna della società al risarcimento del danno dalla data di estromissione e fino a quella di effettiva reintegrazione. La decisione e i precedenti Va anzitutto premesso che l’art. 4 della L. n. 300/1970, modificato dal D.Lgs. n. 151/2015, dispone che impianti audiovisivi e altri strumenti da cui derivi anche il controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati solo per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati dopo accordo con la RSU, le RSA o le associazioni sindacali (in difetto di accordo tali impianti e strumenti possono essere installati su autorizzazione della DTL o del Ministero). La stessa norma prevede che tale disposizione non si applica agli strumenti usati dal lavoratore per rendere la prestazione e a quelli di registrazione degli accessi e presenze; e, infine, che le informazioni raccolte ai sensi di quanto sopra sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro purché sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto del Codice della Privacy. Orbene, nel ricorso la società evidenzia che il badge elettronico in dotazione ai dipendenti non configura un dispositivo rientrante nella previsione normativa, in quanto non consente il controllo a distanza dell’attività lavorativa, ma tale allegazione non è stata ritenuta fondata in quanto anche la rilevazione dei dati di entrata e uscita con un apparecchio predisposto dal datore, utilizzabile anche per il controllo dei doveri di diligenza (rispetto dell’orario di lavoro e correttezza nell’esecuzione della prestazione), non concordata con il sindacato né autorizzata dalla DTL, si risolve in un controllo sull’orario di lavoro e in un accertamento sul quantum della prestazione, rientrante nella fattispecie ex art. 4 della L. n. 300/1970. Nel caso di specie, è stato accertato che il badge, con tecnologia RFID, consistente in un chip ivi contenuto e in un lettore collegato in rete con l’ufficio del personale, consentiva la trasmissione on line, alla centrale operativa di tutti i dati acquisiti con la lettura magnetica del badge del lavoratore, riguardanti non solo l’orario di entrata e uscita, ma anche le sospensioni, i permessi, le pause, così realizzando il controllo costante e a distanza circa l’osservanza dei dipendenti del loro obbligo di diligenza, sotto il profilo del rispetto dell’orario di lavoro. In argomento si vedano: Cass. 27 maggio 2015, n. 10955, in Foro it., 2015, I, 2316; Cass. 23 febbraio 2012, n. 2722, in Mass. Giur. lav., 2012, 553; Cass. 23 febbraio 2010, n. 4375; in Riv. it. dir. lav., 2010, 3, II, 564; Cass. 1° ottobre 2012, n. 16622, in D&G, 2012, 2; Cass. 17 luglio 2007, n. 15892, in Riv. giur. lav. prev. soc., 2008, II, 358, con nota di A. Bellavista. Carlo Alberto Giovanardi “PISOLINO” SUL POSTO DI LAVORO E LICENZIAMENTO Cassazione Civile, Sez. lav., 10 maggio 2016, n. 9486 Pres. Napoletano - Rel. Esposito - P.M. Celentano (conf.) - C.R. c. Società Autostrade per l’Italia S.p.a. 824 È legittimo il licenziamento per giusta causa intimato nei confronti di un dipendente il quale, pur essendo addetto al pattugliamento notturno dell’autostrada, durante il turno di servizio sia stato sorpreso mentre era intento a dormire in auto. Il caso Un lavoratore, adibito al pattugliamento notturno di un tratto di autostrada, disposto dalla società concessionaria allo scopo di intervenire in caso di necessità o di pericolo, era stato sorpreso mentre dormiva all’interno dell’auto di servizio. La società datrice di lavoro, ritenendo che tale condotta, commessa nel pieno dell’orario di lavoro, costituisse totale inadempimento della prestazione lavorativa affidata, procedeva - anche alla luce del fatto che l’interessato non era intervenuto neppure in seguito a una chiamata da parte della centrale, condizionando altresì le modalità di intervento del collega - al licenziamento per giusta causa. La Corte d’Appello di Ancona, con sent. del 22 gennaio 2013, ritenendo che la violazione che era stata accertata e contestata fosse di gravità tale da giustificare l’immediato recesso, modificando la decisione del tribunale, rigettava la domanda del lavoratore e dichiarava legittima la risoluzione del rapporto a seguito di licenziamento. La decisione e i precedenti Il lavoratore ricorre quindi davanti alla S.C., lamentando di essere notoriamente diabetico e come, nonostante ciò, era stato adibito a turni notturni, che egli non era mai incorso in provvedimenti analoghi, riconducibili alle ipotesi di recidiva, o in altre sanzioni disciplinari, e infine che sarebbe stato violato il principio di proporzionalità tra i fatti commessi e la sanzione disciplinare applicata. Tutti tali motivi sono però stati disattesi dalla Cassazione, la quale ha evidenziato - richiamando l’operato della Corte d’Appello - come le modalità di commissione del fatto contestato apparissero significative di un inadempimento preordinato e sistematico della obbligazione lavorativa; nonché come si fosse trattato di un fatto della massima gravità, in quanto tale di per sé solo idoneo a compromettere irrimediabilmente la fiducia del datore di lavoro, non potendosi attribuire qualsivoglia rilevanza alla considerazione della condotta tenuta dal lavoratore in epoca anteriore ai fatti oggetto di giudizio. Del pari, i giudici hanno ritenuto inconsistente il motivo d’appello fondato sulla pretesa lesione del principio di proporzionalità, confermando quindi la decisione della Corte territoriale, la quale aveva ritenuto che il fatto addebitato al lavoratore fosse certamente idoneo a minare in radice il rapporto fiduciario con la controparte, il che ha condotto al rigetto del ricorso, alla convalida del provvedimento espulsivo e, infine, alla condanna del lavoratore al pagamento delle spese di giudizio. In tema di giusta causa di licenziamento si rimanda a: Cass. 10 dicembre 2007, n. 25743, in Dir. prat. lav., 2008, 39, 2242; Cass. 26 luglio 2011 n. 16283, in Mass. Giust. civ., 2011, 7-8, 1117; Cass. 3 gennaio 2011 n. 35, ibidem, 1, 9; Cass. 15 novembre 2006, n. 24349, in questa Rivista, 2007, 5, 518; Cass. 7 luglio 2006, n. 15491, ibidem; 2007, I, 85; Cass. 21 aprile 2005, n. 8305, ibidem, XI, 1087; Cass. 19 agosto 2004, n. 16260, ibidem, 2005, IX, 845; Cass. 23 agosto 2004 n. 16628, ibidem, 2005, 2, 182. Carlo Alberto Giovanardi il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Sintesi TRASFERIMENTO E LICENZIAMENTO Cassazione Civile, Sez. lav., 4 maggio 2016, n. 8882 Pres. Amoroso - Rel. Riverso - P.M. Sanlorenzo (diff.) Farmaceutici Damor S.p.a. c. M.S. In assenza di una disposizione normativa o contrattuale che imponga al lavoratore di rendere nota in maniera esplicita l’accettazione del proprio trasferimento ad altra sede, è illegittimo il licenziamento disciplinare disposto per siffatta ragione: a tal fine, all’invio del certificato medico di malattia non può essere attribuito il significato di rifiuto del trasferimento. denza - entro i 60 giorni decorrenti dalla data di ricezione della relativa comunicazione. In giurisprudenza si vedano: Cass. 22 marzo 2005, n. 6117, in Dir. prat. lav., 2008, 24, 1425; Cass. 4 ottobre 2004, n. 19837, in Or. giur. lav., 2004, 943; Cass. 23 marzo 2012, n. 4709, in CED, 2012; Cass. 15 maggio 2004, n. 9290, in Guida dir., 2004, 25, 65. Per ulteriori approfondimenti cfr.: F. Rotondi: Dir. lav. e rel. Ind., Milano, 2014, 291. Carlo Albero Giovanardi PREVIDENZA Il caso La Corte d’Appello di Ancona, con sentenza depositata il 15 gennaio 2013, riformando la decisione del Tribunale di Ascoli Piceno, accoglieva la domanda di annullamento del licenziamento intimato a un lavoratore e condannava la società alla reintegrazione del dipendente nel proprio posto di lavoro e al pagamento dell’indennità risarcitoria prevista dall’art. 18 della L. 20 maggio 1970, n. 300, in misura pari alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino alla reintegrazione, oltre a contributi e spese. I giudici dell’appello avevano infatti stabilito che non esisteva alcun obbligo del lavoratore di comunicare al datore l’accettazione del proprio trasferimento ad altra sede: nel caso di specie, in mancanza di tale espressa accettazione era stato intimato il licenziamento per giustificato motivo oggettivo per soppressione del posto. Non solo: secondo la Corte territoriale, essendo il lavoratore caduto in malattia dopo l’annunciato trasferimento, l’invio del certificato medico da parte sua, appunto dopo la richiesta del datore di pronunciarsi sull’accettazione o meno del trasferimento, aveva valore di accettazione dell’ordine di mutamento della sede di lavoro. La decisione e i precedenti Contro la sentenza di secondo grado ricorre la società allegando, in particolare, l’esistenza di un obbligo di correttezza e buona fede del dipendente (ex artt. 1175 e 1375 c.c.), consistente nell’obbligo di rispondere alla richiesta di accettazione o meno del trasferimento disposto da parte del datore di lavoro. Tale prospettazione è stata però disattesa dai supremi giudici, i quali hanno ritenuto che tale questione fosse assorbita, così come deciso in appello, dal valore da attribuirsi al certificato di malattia inviato nel frattempo. Proprio a tale proposito, la motivazione della sentenza in commento evidenzia come il datore di lavoro, una volta ricevuto un atto che, come nel caso del certificato medico di malattia, produce effetti sospensivi sul rapporto di lavoro, prima di licenziare il dipendente, avrebbe potuto chiedere espressamente a quest’ultimo di specificare la propria volontà in merito, ove residuassero dubbi sul suo proposito di trasferirsi nella nuova sede all’esito della malattia, come peraltro affermato dall’interessato già nella lettera di impugnazione del recesso. In argomento merita rilevare come il novellato art. 2103 del codice civile, anche dopo le modifiche apportate dall’art. 3 del D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, dispone che il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Infine, va ricordato che, ai sensi dell’art. 32 della L. 4 novembre 2010, n. 183, il trasferimento deve essere impugnato da parte del lavoratore dissenziente - a pena di deca- il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 SUI PRESUPPOSTI DELLA PENSIONE DI REVERSIBILITÀ IN FAVORE DEL CONIUGE DIVORZIATO Cassazione Civile, Sez. lav., 5 maggio 2016, n. 9054 Pres. G. Napoletano - Rel. A. Doronzo - P.M. M. Matera (conf.) - INPS c. C.F. In tema di divorzio, qualora le parti, in sede di regolamentazione dei loro rapporti economici, abbiano convenuto di definirli in un’unica soluzione, come consentito della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 8, attribuendo al coniuge che abbia diritto alla corresponsione dell’assegno periodico previsto nello stesso art. 5, comma 6, una determinata somma di denaro o altre utilità, il cui valore il Tribunale, nella sentenza che pronuncia lo scioglimento del matrimonio, abbia ritenuto equo ai fini della concordata regolazione patrimoniale, tale attribuzione, indipendentemente dal nomen iuris che gli ex coniugi le abbiano dato nelle loro pattuizioni, deve ritenersi adempitiva di ogni obbligo di sostentamento nei confronti del beneficiario, dovendosi, quindi, escludere che costui possa avanzare, successivamente, ulteriori pretese di contenuto economico e, in particolare, che possa essere considerato, all’atto del decesso dell’ex coniuge, titolare dell’assegno di divorzio, avente, come tale, diritto di accedere alla pensione di reversibilità o (in concorso con il coniuge superstite) a una sua quota. Il fatto Il giudice di appello confermava la condanna in primo grado dell’Inps al pagamento della pensione di reversibilità in favore della coniuge divorziata del defunto già pensionato, ritenendo che il diritto di abitazione in favore del coniuge costituito in sede di scioglimento del matrimonio con contestuale rinuncia di quest’ultima all’assegno di mantenimento avesse funzione alternativa all’assegno di divorzio, con la conseguente sussistenza del diritto alla pensione di reversibilità. Contro questa decisione l’Inps ricorreva in cassazione, mentre controparte resisteva con controricorso. La decisione e i precedenti Con la pronuncia in commento i giudici di legittimità tornano nuovamente ad occuparsi della condizione costituita dalla percezione dell’assegno divorzile richiesta ai fini del riconoscimento del diritto alla pensione di reversibilità in favore del coniuge divorziato. L’art. 9, comma 2, L. 1° dicembre 1970, n. 898, come modificato dall’art. 13 della L. 6 marzo 1987, n. 74, subordina infatti il diritto del coniuge divorziato alla pensione di reversibilità alla sussistenza di tre differenti condizioni: il mancato passaggio a nuove nozze, l’origine del rapporto (contributivo o di impiego) da cui trae origine il trattamento pensionistico, che deve essere ante- 825 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Sintesi riore alla sentenza di divorzio e, infine, la titolarità dell’assegno di divorzio. Su tale ultimo requisito l’art. 5 della L. 28 dicembre 2005, n. 263 ha chiarito, con norma di interpretazione autentica, che le disposizioni di cui all’art. 9, commi 2 e 3, della l. n. 898 del 1970, “si interpretano nel senso che per titolarità dell’assegno (...) deve intendersi l’avvenuto riconoscimento dell’assegno medesimo da parte del tribunale ai sensi del predetto articolo 5 della citata legge n. 898 del 1970”. Sul punto la Corte costituzionale ha ripetutamente chiarito che la pensione di reversibilità assolve ad una funzione di tipo solidaristico nei confronti del coniuge divorziato, il quale “avendo diritto a ricevere dal titolare diretto della pensione i mezzi necessari per il proprio adeguato sostentamento, vede riconosciuta, per un verso, la continuità di questo sostegno e, per altro verso, la conservazione di un diritto, quello alla reversibilità di un trattamento pensionistico geneticamente collegato al periodo in cui sussisteva il rapporto coniugale” (Corte cost. 4 novembre 1999, n. 419, in Nuova giur. civ. comm., 2000, I, 198, con nota di Quadri; Corte cost. 17 marzo 1995, n. 87, in Dir. fam., 1996, 13, con nota di Frezza; Corte cost. 7 luglio 1988, n. 777, in Dir. lav. 1988, II, 508). Prima delle precisazioni contenute nell’art. 5 della L. n. 263 del 2005, la giurisprudenza di legittimità aveva invece discusso in ordine al fatto se fosse necessaria l’effettiva titolarità in concreto dell’assegno divorzile (in questo senso l’orientamento maggioritario: Cass. 9 giugno 2011, n. 12546, in Foro it. 2011, I, c. 2697; Cass. 24 maggio 2007, n. 12149; Cass. 5 agosto 2005, n. 16560, in Giur. it. 2006, 1369, con nota di Sgroi; Cass. 13 marzo 2006, n. 5422, in Giust. civ. 2006, I, 1723; Cass. 27 novembre 2000, n. 15242, in Giur. it., 2001, 1111, con nota di Castagnaro) oppure se fosse sufficiente la titolarità in astratto dei relativi requisiti pur in assenza del concreto godimento dell’assegno in forza di uno specifico provvedimento giudiziale (in questo senso l’orientamento minoritario: Cass. 10 settembre 1990, n. 9309, in Foro it., 1991, I, 800; Cass. 12 novembre 1994, n. 9528, in Giust. civ., 1995, I, 943; Cass. 17 gennaio 2000, n. 457; Cass. 4 aprile 2001, n. 4925, in Mass. Giust. civ., 2001, 685; Cass. 25 marzo 2005, n. 6429, in questa Rivista, 2005, n. 7, 690). L’art. 5 della L. n. 263 del 2005 ha risolto la questione, chiarendo - come già detto - che per titolarità dell’assegno deve intendersi il suo effettivo riconoscimento da parte del tribunale. La norma non ha invece chiarito se alla titolarità dell’assegno di divorzio possa essere equiparata - come ammesso dal comma 8 dell’art. 5 della L. n. 898 del 1970 la corresponsione di una somma di danaro una tantum o di altra utilità diversa dalla erogazione periodica di una somma di danaro, o ancora dal trasferimento o dalla costituzione di un diritto, come l’usufrutto o l’abitazione. Secondo l’orientamento maggioritario, il diritto alla pensione di reversibilità spetterebbe soltanto nel caso in cui, in sede di regolamentazione dei rapporti economici al momento del divorzio, le parti abbiano convenuto di non regolarli mediante corresponsione di un capitale una tantum, posto che ove il tribunale, nel pronunciare la sentenza di divorzio, abbia ritenuto equa la corresponsione in una unica soluzione della somma concordemente proposta, “emette un giudizio di definitiva composizione della questione, atteso l’accertato presupposto che la soluzione prescelta sia idonea ad assicurare, anche per il futuro, la provvista, in favore del beneficiario del trasferimento del capitale, dei mezzi adeguati al suo sostentamento” (così Cass. 30 dicembre 2015, 826 n. 26168, ord.; Cass., 8 marzo 2012, n. 3635, in questa Rivista, 2012, 509-510; Cass. 3 luglio 2012, n. 11088; Cass. 18 luglio 2002, n. 10458, in Foro it. 2003, I, 3278; Cass. 14 giugno 2000, n. 8113, in Corr. giur., 2000, 1312, con nota di Liguori). In senso diametralmente opposto si sono invece pronunciate alcune decisioni, secondo le quali sarebbe indifferente, ai fini della spettanza della pensione di reversibilità, la corresponsione dell’assegno in un’unica soluzione anziché con versamenti periodici (Cass. 29 luglio 2011, n. 16744, in Giust. civ., 2012, I, 390; Cass. 5 agosto 2005, n. 16560, cit.) ovvero l’attribuzione dell’usufrutto sulla casa coniugale a titolo di corresponsione dell’assegno di divorzio in unica soluzione (Cass. 28 maggio 2010, n. 13108, in Giust. civ., 2011, I, 2662). La decisione in commento intende dare continuità al primo degli orientamenti sopra esposti, ritenendo che il diritto dell’ex coniuge alla pensione di reversibilità ha uno dei suoi necessari elementi genetici nella titolarità “attuale” dell’assegno, sicché solo nel caso in cui lo stesso benefici di una erogazione economica a carico dell’ex coniuge al momento del decesso di costui, ha ragion d’essere - nella medesima prospettiva solidaristico-assistenziale - la sua sostituzione con la pensione di reversibilità (o di una sua quota), allo scopo di continuare ad assicurare il sostentamento economico prima assicuratogli dal coniuge deceduto con l’assegno periodico di divorzio. Giuseppe Ludovico ERRONEO PROSPETTO CONTRIBUTIVO E RESPONSABILITÀ DELL’INPS Cassazione Civile, Sez. lav., 2 maggio 2016, n. 8604 Pres. P. Venuti - Rel. A. Doronzo - P.M. G. Servello (diff.) - G.F. c. INPS L’assenza di valore certificativo del prospetto contributivo, in quanto non emesso all’esito di un procedimento amministrativo all’uopo specificamente avviato su richiesta formale dell’interessato, non costituisce causa di esonero dalla responsabilità gravante sull’INPS nelle ipotesi in cui contenga informazioni inesatte. Il fatto Il giudice di appello, confermando la decisione di primo grado, respingeva la domanda proposta dall’assicurato di condanna dell’INPS al risarcimento dei danni patiti a causa della mancata percezione del trattamento pensionistico derivante dall’erronea comunicazione della sua situazione contributiva. La Corte motivava la propria decisone, ritenendo che il semplice prospetto contributivo sul quale l’assicurato aveva fatto affidamento, non avesse valore certificativo ai sensi dell’art. 54 della L. n. 88 del 1989, trattandosi peraltro di un documento privo di indicazioni circa la data o la sottoscrizione del funzionario responsabile. Detto prospetto peraltro risaliva al 2001, per cui il lavoratore ben avrebbe potuto richiedere un nuovo estratto contributivo con requisiti certificativi prima di accettare la risoluzione del rapporto di lavoro. Contro questa decisione l’assicurato ricorreva in cassazione, mentre l’INPS resisteva con controricorso. La decisione e i precedenti I giudici di legittimità sono stati ripetutamente chiamati a pronunciarsi sulla responsabilità dell’Inps per erronee comunicazioni agli assicurati che trova fondamento nella pre- il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Sintesi visione di cui all’art. 54 della L. n. 88 del 1989 che impone “agli enti previdenziali di comunicare, a richiesta esclusiva dell’interessato o di chi ne sia da questi legalmente delegato o ne abbia diritto ai sensi di legge, i dati richiesti relativi alla propria situazione previdenziale e pensionistica”, disponendo altresì che “la comunicazione da parte degli enti ha valore certificativo della situazione in essa descritta”. Un costante orientamento dei giudici di legittimità ha chiarito, al riguardo, che la responsabilità dell’ente derivante dalla violazione di tale disposizione ha natura contrattuale, con conseguente applicazione delle regole in materia di riparto degli oneri probatori che impongono all’INPS la dimostrazione della non imputabilità dell’errore che ha causato il danno (tra le più recenti Cass. 27 gennaio 2014, n. 1659, in questa Rivista, 2014, 409; Cass. 1° marzo 2012, n. 3195; Cass. 16 gennaio 2012, n. 448, in questa Rivista, 2012, n. 4, 408; Cass. 30 marzo 2010, n. 7683, in Mass. Giust. civ., 2010, 490; Cass. 10 febbraio 2010, n. 3023, in questa Rivista, 2010, n. 4, 409; Cass. 10 novembre 2008, n. 26925, in questa Rivista, 2009, n. 4, 413; Cass. 15 giugno 2005, n. 12823; Cass. 17 agosto 2004, n. 16044, in questa Rivista, 2005, n. 1, 82; Cass. 24 aprile 2004, n. 7859, in Dir. lav e rel. Ind., 2005, 478, con nota di Rausei; Cass. 17 dicembre 2003, n. 19340, in questa Rivista, 2004, 595; Cass. 24 gennaio 2003, n. 1104, in questa Rivista, 2003, n. 6, 578; Cass. 8 aprile 2002, n. 5002, in Mass. Giur. lav., 2002, 599, con nota di Parise; Cass. 22 maggio 2001 n. 6995, in Mass. Giust. civ., 2001, 1034; Cass. 19 maggio 2001, n. 6867, ibidem, 1011; Cass. 18 novembre 2000, n. 14953, in Mass. Giust. civ., 2000, 2373, Cass. 8 novembre 1996 n. 9776, in Foro it., 1997, I, 1895; con riguardo all’applicabilità dell’art. 54 della L. n. 88 del 1989 anche agli enti previdenziali con personalità giuridica di diritto privato (Cass. 27 gennaio 2014, n. 1659, in questa Rivista, 2014, n. 4, 409; Cass. 1° marzo 2012, n. 3195, in Mass. Giust. civ., 2012, 3, 249; Cass. 17 maggio 2003, n. 7743, inedita). Altrettanto prevalente è risultato finora l’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale la responsabilità dell’ente previdenziale e il conseguente diritto dell’assicurato al risarcimento del danno sarebbero esclusi ove l’errore sia contenuto in comunicazioni non richieste dall’assicurato, stante il riferimento dell’art. 54 alle sole comunicazioni richieste da quest’ultimo, ovvero nei casi in cui in dette comunicazioni siano presenti elementi che dovrebbero condurre l’assicurato ad approfondire i dati riportati senza riporre alcun affidamento sulla loro correttezza (così Cass. 17 aprile 2014, n. 8972, in questa Rivista, 2014, 715; Cass. 16 dicembre 2013, n. 28023; Cass. 8 novembre 1996, n. 9776, in Foro it., 1997, I, 1895; Cass. 19 maggio 2001, n. 6867, in Mass. Giust. civ., 2001, 1011; Cass. 22 maggio 2001, n. 6995, in Mass. Giust. civ., 2001, 1034; Cass. 17 dicembre il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 2003, n. 19340, in questa Rivista, 2004, 595; Cass. 28 marzo 2008, n. 8118, in Il civilista, 2008, n. 11, 24, con nota di Cimatti; Cass. 30 marzo 2010, n. 7683, in Mass. Giust. civ., 2010, 490; Cass. 3 febbraio 2012, n. 1660, in Mass. Giust. civ., 2012, 126). Soltanto alcune sporadiche decisioni, contrapponendosi all’orientamento maggioritario, avevano ritenuto comunque sussistente la responsabilità dell’INPS, facendo leva sull’affidamento riposto dall’assicurato nei confronti delle informazioni fornite dall’ente previdenziale, ritenendo la tutela del legittimo affidamento “un principio generale tanto dell’ordinamento costituzionale interno, quanto del diritto e dell’ordinamento comunitari” che ricorre “in qualunque ipotesi in cui la Pubblica Amministrazione fornisce notizie o comunicazioni errate relative alla posizione di un amministrato” (Cass. 8 settembre 2015, n. 17773; Cass. 19 settembre 2013, n. 21454, in questa Rivista, 2013, n. 11, 1043; cfr. Cass. 1° marzo 2012, n. 3195, cit., che, con riguardo ad un ente previdenziale di diritto privato, ha ritenuto ugualmente meritevole di tutela l’affidamento dell’assicurato, pur non risultando applicabile l’art. 54, L. 9 marzo 1989 n. 88). Con la decisione in commento i giudici di legittimità ritengono di doversi uniformare all’orientamento minoritario in ragione del principio della tutela del legittimo affidamento del cittadino che è immanente in tutti i rapporti di diritto pubblico, ritenendo in tale logica che la mancanza di valore certificativo del documento, in quanto non emesso all’esito di un procedimento amministrativo specificamente avviato su richiesta formale dell’interessato, non possa configurare una causa di esonero dalla responsabilità gravante sull’INPS. La tutela del legittimo affidamento dell’assicurato sarebbe tale in definitiva da giustificare la responsabilità dell’ente in qualunque ipotesi in cui la pubblica amministrazione abbia fornito notizie o comunicazioni errate relative alla posizione di un amministrato e, dunque, anche ove tali informazioni siano contenute in un documento - come l’estratto conto assicurativo - che è privo di valore certificativo ai sensi dell’art. 47 della L. n. 88 del 1989. Gli effetti di questo principio sono fortemente mitigati tuttavia dalla precisazione secondo la quale, pur escludendosi in via generale l’obbligo dell’assicurato di verificare l’esattezza dei dati forniti dall’INPS, incombe al medesimo l’onere, ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c., di adottare una condotta attiva o positiva idonea a limitare le conseguenze dannose del comportamento inadempiente del debitore per la cui valutazione la pronuncia in commento rinvia all’esame del giudice di merito. Giuseppe Ludovico 827 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Sintesi Rassegna del merito a cura di Filippo Collia, Francesco Rotondi APPALTO L’ATTIVITÀ DELL’APPALTATORE AI FINI DELLA CONFIGURABILITÀ DI UN’INTERPOSIZIONE ILLECITA DI MANODOPERA Tribunale di Firenze 27 aprile 2016 - Giud. Gualano T.C. c B.P.S. S.r.l. e N.P. S.p.a. Sussiste un’interposizione illecita di manodopera tutte le volte in cui l’appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa rimanendo in capo all’appaltatore-datore di lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo. Il caso La ricorrente adiva il Tribunale di Firenze promuovendo un ricorso nei confronti di due società, lamentando che fra le stesse si fosse configurata un’ipotesi di somministrazione irregolare/fraudolenta di manodopera e chiedendo conseguentemente la reintegrazione nel posto di lavoro nei confronti della società committente. La ricorrente allegava, in particolare, di essere stata assunta con un contratto a tempo indeterminato con una delle società resistenti ma di aver svolto sin da subito la propria attività lavorativa a vantaggio dell’altra società resistente, allegando tutta una serie di circostanze rilevatrici dell’effettiva sussistenza del rapporto di lavoro subordinato in capo a quest’ultima, tra cui l’assoggettamento al controllo e alla direzione dei dipendenti di tale società che impartivano delle direttive quotidiane per l’attività da svolgere, stabilendo priorità e tempi di lavoro. Entrambe le società si costituivano ritualmente in giudizio contestando tutte le avversarie allegazioni e chiedevano il rigetto del ricorso promosso dalla lavoratrice. La decisione Il Tribunale di Firenze ha evidenziato come i criteri distintivi fra appalto lecito ed interposizione illecita siano ora previsti dall’art. 29, D.Lgs. n. 276/2003, ossia, essenzialmente, l’assunzione da parte dell’appaltatore del rischio di impresa e l’organizzazione, da parte del medesimo appaltatore, dei mezzi necessari. Sicché, possono ritenersi leciti quegli appalti che, seppur espletati con prestazioni di manodopera o con mezzi modesti, costituiscano un servizio a sé, svolto con organizzazione e gestione autonoma da parte dell’appaltatore, con conseguente assunzione dei rischi economici, senza l’ingerenza del committente su tale organizzazione (specialmente con riferimento ai dipendenti dell’appaltatore). Ciò posto, il Tribunale ha quindi ricordato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui si configura un’ipotesi di interposizione illecita negli appalti tutte le volte in cui l’appaltatore non eserciti alcun ruolo decisivo nel- 828 l’organizzazione della prestazione lavorativa messa a disposizione del committente (che deve essere finalizzata alla realizzazione di un risultato produttivo autonomo), limitandosi invece ai soli compiti di gestione amministrativa del rapporto quali (ad esempio) la retribuzione dei dipendenti, le loro ferie, ecc. Nel caso di specie, il giudice di merito ha appurato dall’istruttoria di causa che la lavoratrice avesse svolto la propria attività lavorativa nell’ambito di un contratto di appalto intercorso fra le società resistenti ma che l’attività della ricorrente fosse stata di fatto assorbita nell’organizzazione aziendale della società committente, essendo la società appaltatrice rimasta del tutto estranea allo svolgimento dell’attività lavorativa della lavoratrice. Infatti, la ricorrente svolgeva la propria attività usufruendo delle informazioni e dei dati consultabili dal sistema informatico della società committente. Un rilevante numero di email tra di essa e i dipendenti della società committente (sin dall’instaurazione del rapporto di lavoro) dimostravano, inoltre, come quest’ultima esercitasse nei confronti della lavoratrice un costante potere di direzione e controllo sull’attività e sulla tempistica di lavoro della lavoratrice medesima. Il Tribunale di Firenze ha precisato che le suesposte evidenze sono state ulteriormente rafforzate anche dai prospetti delle ore lavorate dalla ricorrente, dai quali è stato possibile evincere il controllo della società committente sull’attività lavorativa della lavoratrice. Le considerazioni di cui sopra sono state considerate dal giudice di merito talmente dirimenti dal rendere assolutamente marginali tutta una serie di circostanze dedotte avverso le richieste della ricorrente, tra cui il fatto che alla medesima fosse stato consegnato un badge, l’account email, l’orologio marcatempo e il codice di accesso diversi rispetto a quello dei lavoratori dipendenti della società committente. Per tali motivi, il Tribunale di Firenze ha accolto il ricorso promosso dalla lavoratrice e ha conseguentemente dichiarato, ex art. 29, comma 3 bis, D.Lgs. n. 276/2003 la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato tra la società committente e la ricorrente. I precedenti Cass., Sez. lav., 13 marzo 2013, n. 6343, in Mass. Giust. civ., 2013, secondo cui viene violato il divieto di interposizione nelle prestazioni di lavoro tutte le volte in cui l’appaltatore metta disposizione del committente delle prestazioni di lavoro senza più esercitare, nei confronti di esse, alcun potere di organizzazione della prestazione finalizzata alla realizzazione di un risultato produttivo autonomo e limitandosi alla mera gestione amministrativa dei rapporti; Cass., Sez. lav., 5 novembre 2012, n. 18922, in D&G online, 2012, 7 novembre, secondo cui si verifica un’interposizione illecita di manodopera tutte quelle volte in cui l’appaltatore si limiti a gestire amministrativamente i rapporti di lavoro coinvolti nell’appalto, restando privo di un apprezzabile potere organizzativo delle prestazioni dei rapporti medesimi; Cass., Sez. lav., 17 febbraio 2010, n. 3681, in Mass. Giust. il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Sintesi civ., 2010, 2, 217, secondo cui nell’ambito di appalti endoaziendali, in cui la realizzazione di alcune attività del committente viene affidata ad un appaltatore esterno, si concretizza l’ipotesi di interposizione illecita di manodopera tutte quelle volte in cui l’appaltatore resti privo di una reale organizzazione della prestazione e si limiti, viceversa, alla gestione amministrativa dei rapporti (retribuzione, pianificazione delle ferie, ecc.). La dottrina R. Del Punta, Le molte vite del divieto di interposizione nel rapporto di lavoro, in Riv. it. dir. lav., 2008, 2, 129; R. De Luca Tamajo, Tra le righe del d. lgs. n. 276/2003 (e del decreto correttivo n. 251/2004): tendenze e ideologie, in Riv. it. dir. lav., 2004, 4, 521. Filippo Collia LAVORO SUBORDINATO INEFFICACIA DEL LICENZIAMENTO PER VIOLAZIONE ART. 2, L. N. 604/1966 Tribunale di Messina 9 giugno 2016 - Giud. Pavan Concetta Ciotto c. Gioielleria Francesco Sofia di Lucrezia Sofia e C. S.p.A. Ai sensi dell’art. 2 della L. n. 604/1966, il datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, deve comunicare in forma scritta il licenziamento, con la specificazione dei motivi che lo hanno determinato, a pena di inefficacia dell’atto di recesso datoriale. Nei rapporti sottratti al regime della tutela reale di cui all’art. 18 della L. n. 300 del 1970, il licenziamento inefficace per vizio formale ai sensi dell’art. 2 della L. n. 604/1966, non produce effetti sulla continuità del rapporto di lavoro e non può applicarsi la disciplina sanzionatoria prevista dall’art. 8 della L. n. 604/1966, che riguarda la diversa ipotesi di licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo. Vertendosi in materia di contratto a prestazioni corrispettive, l’inidoneità del licenziamento ad incidere sulla continuità del rapporto di lavoro non può determinare il diritto del lavoratore alla corresponsione delle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento inefficace, bensì solo il risarcimento del danno, da determinarsi secondo le regole in materia di inadempimento delle obbligazioni, anche eventualmente determinato tenuto conto delle mancate retribuzioni. Il caso La lavoratrice, dipendete di una società che non integrava i requisiti per l’applicazione dell’art. 18 Stat. lav., veniva licenziata per giustificato motivo oggettivo. Nella lettera di licenziamento il datore di lavoro non specificava le ragioni della risoluzione del rapporto limitandosi all’indicazione per cui il licenziamento era connesso ad una riduzione di personale. Con ricorso ex art. 414 c.p.c. la dipendente chiedeva che fosse accertata e dichiarata l’inefficacia del licenziamento con conseguente condanna del datore di lavoro a ripristinare il rapporto di lavoro ed al risarcimento del danno commisurato alla retribuzione dalla data del licenziamento alla re immissione in servizio. La lavoratrice inoltre chiedeva la corresponsione di alcune spettanze retributive maturate e non corrisposte. il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 La società si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto delle domande. La decisione Il Giudice affronta e decide la vicenda facendo riferimento alla disciplina dell’art. 2 della L. n. 604/1966, come novellato dalla L. n. 92/1912, in cui si prevede che il licenziamento sia comunicato al dipendente unitamente all’indicazione specifica delle motivazioni. Nel caso di specie, in considerazione del testo delle lettera di licenziamento, il Giudice ha ritenuto che non fosse soddisfatto il requisito di specificità delle motivazioni di cui al citato art. 2, L. n. 604/1966. Avendo a mente tale carenza della lettera di licenziamento, il Giudice determina la sua inefficacia a produrre la risoluzione del rapporto. Sotto questo profilo, vertendosi in un’ipotesi in cui non era applicabile l’art. 18 e quindi essendo esclusa la specifica disciplina ivi prevista, il Tribunale richiama i principi civilistici in tema di contratti a prestazioni corrispettive condannando la società resistente a ripristinare il rapporto di lavoro ed al risarcimento del danno commisurato nelle retribuzioni che la lavoratrice avrebbe percepito dal licenziamento alla riammissione in servizio. In particolare in ragione della dichiarata inefficacia per violazione dell’art. 2, L. n. 604/1966 il Tribunale esclude l’applicabilità dell’indennità risarcitoria di cui all’art. 8, L. n. 604/1966 riservata all’ipotesi in cui il licenziamento non fosse stato sorretto da giusta causa o giustificato motivo. I Precedenti Successivamente alla novella del 2012 Trib. Roma 18 settembre 2014, in www.ilgiuslavorista.it, 21 maggio. Sulla tutela connessa all’inefficacia Cass., SS.UU., 27 luglio 1999, n. 508, in Riv. it. dir. lav.; Cass. 30 agosto 2010, n. 18844, in Mass. Giust. civ., 2010, 9, 1202; Cass. 18 maggio 2006, n. 11670, in DL Riv. critica dir. lav., 2006, 3, 936; Cass. 18 agosto 2003, n. 12079, in Mass. Giust. civ., 2003, 7-8; Cass. 20 dicembre 2002, n. 18194, in Mass. Giust. civ., 2002, 2227. Francesco Rotondi L’ASSOLVIMENTO DELL’OBBLIGO DI PREVENTIVA CONTESTAZIONE NEL CASO DI REITERATI SPOSTAMENTI DI RESIDENZA DEL LAVORATORE Tribunale di Firenze 28 aprile 2016 - Giud. Torcini - E.C. c A. S.r.l. L’obbligo di preventiva contestazione, imposto dall’art. 7, comma 2, L. n. 300 del 1970 al datore di lavoro intenzionato ad adottare un provvedimento disciplinare contro il lavoratore, deve ritenersi soddisfatto - in virtù dei doveri di correttezza e diligenza (artt. 1175 e 1176 c.c.) gravanti su entrambe le parti del contratto obbligatorio sinallagmatico - attraverso l’invio della contestazione all’indirizzo del destinatario, senza che questi possa contrapporre spostamenti reiterati e di breve durata. Il caso Il ricorrente adiva il Tribunale di Firenze allegando di aver lavorato (con mansioni di cuoco) alle dipendenze della società convenuta con un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con una retribuzione che veniva successivamente ed illegittimamente ridotta dalla società me- 829 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Sintesi desima. Il lavoratore chiariva altresì che il rapporto professionale tra le parti si era progressivamente deteriorato e che il medesimo era stato destinatario inizialmente di provvedimenti disciplinari e che il rapporto si era infine risolto per l’illegittimo licenziamento del medesimo. Il lavoratore precisava, in particolare, che il licenziamento era da ritenersi illegittimo anche perché formalmente viziato, non essendo stata inviata la lettera di licenziamento presso l’indirizzo del lavoratore medesimo tramite lettera raccomandata. La società resistente si costituiva ritualmente in giudizio precisando, anzitutto, che il licenziamento fosse pienamente legittimo, essendosi i rapporti tra le parti deteriorati al punto che fosse impossibile l’ulteriore prosecuzione del rapporto di lavoro. La società medesima precisava, inoltre, che il licenziamento fosse anche formalmente legittimo, poiché essa aveva inviato la lettera di licenziamento presso l’indirizzo del lavoratore conosciuto (che peraltro non si era preoccupato di modificare in seguito ai suoi spostamenti). Conseguentemente, la società resistente chiedeva il rigetto del ricorso. La decisione Relativamente all’asserito vizio formale del licenziamento lamentato dal lavoratore, quest’ultimo ha argomentato che la società avrebbe ben potuto ricavare l’indirizzo corretto cui inviare la lettera di licenziamento da quelli che erano indicati nelle giustificazioni presentate dal ricorrente avverso le contestazioni disciplinari mossegli. Il Tribunale di Firenze ha precisato, tuttavia, che tali argomentazioni spese dal lavoratore non sono condivisibili, poiché graverebbero il datore di lavoro di un peso che non gli compete, ossia la ricerca e l’utilizzo dello strumento più idoneo alla realizzazione degli effetti cui è destinata a produrre tale comunicazione. Viceversa, sempre secondo i giudici di merito, spetta (secondo i canoni di correttezza e diligenza ex artt. 1175 e 1176 c.c.) al lavoratore comunicare al proprio datore di lavoro la variazione del proprio indirizzo. Infatti, l’obbligo di preventiva contestazione di cui all’art. 7, comma 2, L. n. 300/1970 può ritenersi soddisfatto, secondo i canoni di correttezza e diligenza di cui agli artt. 1175 e 1176 c.c. che gravano entrambe le parti del rapporto sinallagmatico, con l’invio di tale comunicazione all’indirizzo del lavoratore conosciuto, senza che quest’ultimo possa eccepire i propri brevi e reiterati cambi di residenza. Tale principio può essere esteso anche alla consegna della lettera di licenziamento, tant’è che il lavoratore avrebbe dovuto comunicare in modo chiaro al datore di lavoro il proprio cambio di residenza (essendo peraltro suo onere quello di fornire prova di non aver potuto avere conoscenza effettiva della lettera di licenziamento), senza che quest’ultimo fosse tenuto a ricercarlo o a desumerlo dalle comunicazioni inviategli a giustificazione nei precedenti procedimenti disciplinari (le cui lettere di contestazione erano peraltro state inviate al medesimo indirizzo di cui alle lettera di licenziamento contestata dal lavoratore). Nonostante quanto suesposto con riferimento alla doglianza formale del licenziamento impugnato dal ricorrente, il Tribunale di Firenze ha comunque accolto le argomentazioni del lavoratore nel merito del provvedimento espulsivo. La resistente non ha, infatti, fornito alcuna prova della veridicità della violazione addebitata al lavoratore e posta a fondamento del licenziamento del medesimo e che, anzi, dall’istruttoria è stato possibile desumere l’esistenza di un clima particolarmente conflittuale tra le parti che ha lasciato presumere al giudice di merito che tale asserita violazio- 830 ne non fosse altro che un pretesto per espellere un lavoratore non più gradito. Con riferimento all’unilaterale riduzione della retribuzione del ricorrente, il Tribunale di Firenze ha appurato dall’istruttoria di causa che ciò fosse effettivamente avvenuto in conseguenza dell’assunzione di una nuova cuoca da parte della società resistente. Tale nuova assunzione aveva determinato, tuttavia, una diminuzione non concordata e non giustificata dell’orario di lavoro e della retribuzione del ricorrente, con conseguente violazione del principio di immutabilità della retribuzione. Conseguentemente, il Tribunale di Firenze ha accolto il ricorso promosso dal lavoratore e ha condannato la società resistente al pagamento di un’indennità risarcitoria e delle differenze retributive spettanti al ricorrente a causa dell’illegittima riduzione della retribuzione da parte della società medesima. I precedenti Cass., Sez. lav., 10 agosto 2006, n. 18150, in Mass. Giust. civ. 2006, 7-8, secondo cui è legittima la contestazione dell’addebito recapitata presso il primo indirizzo fornito all’azienda, essendo irrilevanti e non conformi al principio di diligenza i reiterati e ravvicinati spostamenti di residenza del lavoratore. La dottrina M. Borzaga, I recenti orientamenti della Cassazione con riguardo alla regolarità della comunicazione degli addebiti disciplinari alla legittimità del licenziamento conseguentemente irrogato, in Riv. it. dir. lav., 2009, 3, 570; M. Vinciguerra, Sulla presunzione di conoscenza della comunicazione del licenziamento all’indirizzo indicato dal lavoratore ai fini della reperibilità, in Riv. it. dir. lav., 2005, 4, 929. Filippo Collia LICENZIAMENTO ORALE E DIMISSIONI: RIPARTIZIONE DELL’ONERE PROBATORIO Tribunale di Firenze 24 marzo 2016 - Giud. Carlucci C.G.T. c. Azienda A.L.P. in persona del titolare R.F. Nel procedimento avente ad oggetto il quomodo della risoluzione del rapporto di lavoro, nell’alternativa tra licenziamento verbale e dimissioni, il giudice del merito è tenuto ad una indagine accurata che tenga conto del complesso delle risultanze istruttorie, in relazione anche all’esigenza di rispettare non solo l’art. 2697, comma 1, c.c. relativo alla prova dei fatti costitutivi del diritto da parte del ricorrente (licenziamento verbale), ma anche il comma 2 relativo alla prova dei fatti modificativi o estintivi del diritto da parte del convenuto (dimissioni). Di talché, in mancanza di dimostrazione delle dimissioni, l’onere della prova concernente il requisito della forma scritta del licenziamento, prescritta dalla legge a pena di nullità, resta a carico del datore di lavoro. Il caso Il lavoratore ha proposto ricorso nei confronti dell’azienda agricola datrice di lavoro chiedendo di accertare e dichiarare l’illegittimità del licenziamento orale intimato con ogni conseguenza reintegratoria e risarcitoria, condannare parte convenuta al pagamento del TFR e di differenze retributive maturate. Da ultimo il ricorrente chiedeva la condanna al il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Sintesi versamento dei contributi previdenziali per tutta la durata del rapporto di lavoro. In particolare il ricorrente deduceva di avere lavorato alle dipendenze della ditta individuale agricola per circa un anno per poi essere allontanato verbalmente. Nell’ambito di detto periodo deduceva di avere svolto mansioni di autista addetto alla consegna dei prodotti alimentari, da inquadrarsi al livello A1 del CCNL Operi Agricoli. Si è costituita l’azienda agricola resistente chiedendo il rigetto del ricorso. Sulla risoluzione la datrice di lavoro ha contestato la ricostruzione dei fatti allegando di avere formulato una contestazione disciplinare il 26 aprile 2014 effettivamente ricevuta dal ricorrente. Sulle differenze retributive ha eccepito la decadenza dalla indicazione dei mezzi istruttori. RAPPORTO DI LAVORO LA RESPONSABILITÀ DEL RAPPRESENTANTE DELL’ASSOCIAZIONE NON RICONOSCIUTA PER LE DIFFERENZE RETRIBUTIVE VANTATE DAI LAVORATORI Tribunale di Firenze 27 aprile 2016 - Giud. Torcini - L.D. c. Circolo MCL e M.S. Non è configurabile la responsabilità personale e solidale con l’associazione non riconosciuta del rappresentante della stessa in ordine agli obblighi retributivi nei confronti dei dipendenti dell’associazione ove i relativi rapporti non siano stati instaurati (mediante stipulazione dei relativi contratti) dal rappresentante medesimo. Il caso La decisione Il tribunale di Firenze affronta preliminarmente il tema delle differenze retributive considerando fondata la domanda nei limiti delle differenze di retribuzione rigettando la richiesta del TFR e ciò a motivo del riconoscimento dell’inefficacia del licenziamento intimato oralmente. Sul tema del licenziamento orale, il Tribunale richiama ai fini della propria decisione la giurisprudenza in tema di ripartizione dell’onere della prova del licenziamento orale e dell’eventuale prova di fatti modificativi ed estintivi del diritto nel caso di specie rappresentati dalle dimissioni. Sotto questo profilo il Tribunale statuisce che ove occorre individuare le modalità di risoluzione del rapporto, nell’alternativa fra licenziamento verbale e dimissioni, si impone un’indagine accurata da parte del giudice di merito, che tenga adeguato conto del complesso delle risultanze istruttorie, in relazione anche all’esigenza di rispettare non solo l’art. 2697, comma 1, c.c. relativo alla prova dei fatti costitutivi del diritto da parte del ricorrente (licenziamento verbale) ma anche il comma 2 relativo alla prova dei fatti modificativi o estintivi del diritto da parte del convenuto (dimissioni). In ragione di tale ripartizione dell’onere della prova, determina che in mancanza di dimostrazione delle dimissioni “l’onere della prova che concerne il requisito della forma scritta del licenziamento, prescritta per legge a pena di nullità, resta a carico del datore di lavoro, dal momento che nella normativa limitativa dei licenziamenti la prova che grava sul lavoratore riguarda esclusivamente la cessazione del rapporto di lavoro, mentre la prova delle dimissioni sostenute del datore, aventi valore di eccezione, grava sul convenuto”. Alla luce della citata impostazione il Tribunale accoglie le domande del lavoratore sulla risoluzione del rapporto. I precedenti Cass. 5 maggio 2015, n. 8927, in D&G, 2015, 6 maggio; Cass. 19 ottobre 2011, n. 21684, in Mass. Giust. civ., 2011, 10, 1482; Cass. 21 settembre 2011, n. 19236, in D&G online, 2011, 29 settembre; Cass. 27 agosto 2007, n. 18087, in Mass. Giust. civ., 2007, 7-8; Cass. 20 maggio 2005, n. 10651, in Riv. it. dir. lav., 2006, 2, 454; Trib. Milano 30 aprile 2014; Trib. Arezzo 19 gennaio 2012; Trib. Bergamo 12 aprile 2006. Francesco Rotondi il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 La ricorrente adiva il Tribunale di Firenze lamentando di aver svolto, dall’ottobre 2012 al novembre 2013, l’attività di barista presso il circolo resistente senza essere né regolarizzata né regolarmente retribuita, ricevendo unicamente un importo fisso mensile. Conseguentemente, la ricorrente chiedeva al Tribunale adito di accertare l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato fra la medesima ed il suddetto circolo e la condanna in solido del medesimo e del rispettivo legale rappresentante alle differenze retributive e alla regolarizzazione previdenziale della lavoratrice. Successivamente alla prima udienza, si costituiva unicamente il legale rappresentante del circolo, il quale contestava le avversarie pretese eccependo, in particolare, la nullità della notifica effettuata nei suoi confronti, la prescrizione dei crediti della lavoratrice e comunque la propria carenza di legittimazione passiva, poiché non era più il legale rappresentante del circolo in questione. Il circolo risultava irreperibile. La decisione Pronunciandosi anzitutto sulle eccezioni preliminari sollevate dal legale rappresentante del circolo resistente, il Tribunale di Firenze ha precisato che l’omessa indicazione delle ricerche sulla reperibilità del destinatario nella relata non costituisce causa di nullità della notificazione, essendo comunque sufficiente che la notifica effettuata ai sensi dell’art. 143 c.p.c. venga effettuata successivamente ed in forza dell’acquisizione della certificazione anagrafica attestante la residenza (soprattutto se il destinatario ha abbandonato l’originaria residenza senza curarsi di aggiornare le relative registrazioni anagrafiche). Ciò posto, il giudice di merito ha ricordato che secondo quanto disposto dall’art. 38 c.c., delle obbligazioni delle associazioni non riconosciute rispondono personalmente e solidalmente anche le persone che hanno agito in nome e per conto delle medesime. Tuttavia, tale responsabilità non può che essere riconosciuta nei confronti di chi pone concretamente in essere l’atto negoziale da cui derivano tali obbligazioni, sicché (con riferimento agli obblighi retributivi dei lavoratori dipendenti) non può essere riconosciuta la responsabilità del legale rappresentante dell’associazione riconosciuta se egli non ha concretamente contribuito ad instaurare i rapporti di lavoro da cui derivano le pretese avanzate in giudizio. In altri termini, non è la mera titolarità della carica che comporta la responsabilità personale e solidale di cui all’art. 38 c.c., bensì la concreta attività negoziale posta in essere e risoltasi nella creazione di rapporti obbligatori fra l’associazione non riconosciuta e terzi. 831 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Sintesi Nel caso di specie, il legale rappresentante del circolo non ha negato l’esistenza del rapporto di lavoro lamentato dalla lavoratrice, ma è stato altresì appurato che egli non era mai intervenuto né nell’instaurazione del rapporto di lavoro della ricorrente né nella sua successiva cessazione. In applicazione dei suesposti principi (e considerando che il circolo ha, nel frattempo, provveduto alla regolarizzazione contributiva della ricorrente), il Tribunale di Firenze ha respinto le domande della ricorrente e ha disposto l’integrale compensazione delle spese di lite. I precedenti Cass., Sez. lav., 11 maggio 2004, n. 8919, in Mass. Giust. civ. 2004, 5, secondo cui il rappresentante di un’associazione non riconosciuta non può essere chiamato a rispondere personalmente e solidalmente con l’associazione medesima per gli obblighi retributivi dei rapporti di lavoro che non siano stati instaurati dal rappresentante medesimo; Cass., Sez. III, 29 dicembre 2011, n. 29733, in Mass. Giust. 832 civ., 2011, 12, 1890, secondo cui nell’ambito delle associazioni non riconosciute la responsabilità personale grava esclusivamente sui soggetti che hanno agito in nome e per conto dell’associazione medesima, senza che l’eventuale successione di cariche comporti alcuna successione del debito in capo al soggetto subentrante; Cass. Sez. III, 24 ottobre 2008, n. 25748, in Riv. not., 2010, 2, 456, secondo cui la responsabilità personale e solidale di chi agisce in nome e per conto dell’associazione non riconosciuta non è connessa alla mera titolarità della rappresentanza dell’associazione, derivando invece dall’attività negoziale concretamente posta in essere per conto di essa. La dottrina L. D’Amelio, Sul fondamento dell’art. 38, seconda parte, cod. civ., in Riv. not., 2010, 2, 460. Filippo Collia il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Normativa Sintesi Novità legislative ed amministrative a cura di Alessia Muratorio Attività ispettiva CHIARIMENTI IN ORDINE AL REGIME SANZIONATORIO APPLICABILE IN CASO DI “DISCONOSCIMENTO” DELLA PRESTAZIONE LAVORATIVA EFFETTUATA IN REGIME DI TRASFERTA Messaggio INPS 16 giugno 2016, n. 2862 L’INPS è tornata a fornire chiarimenti in materia di sistema sanzionatorio applicabile in caso di “disconoscimento” della prestazione lavorativa effettuata in regime di trasferta, con particolare riferimento all’applicazione della sanzione di infedele registrazione sul LUL (Libretto Unico Lavoro), riprendendo la nota della Direzione Generale per l’Attività Ispettiva del Ministero del Lavoro e delle Politiche prot. n. 11885 del 14 giugno 2016. In essa vengono premessi i richiami in generale alle ipotesi in cui la condotta di infedele registrazione è integrata da scritturazione di dati che abbiano riflesso immediato sugli aspetti legati alla retribuzione o al trattamento fiscale o previdenziale del rapporto di lavoro; si è altresì ribadito che il concetto di infedele registrazione va riferito esclusivamente ai casi di difformità tra i dati registrati il quantum della prestazione lavorativa resa o l’effettiva retribuzione o compenso corrisposti. In relazione alla non conforme scritturazione/registrazione della voce “trasferta”, la fattispecie si può configurare tutte le volte in cui venga riscontrata, a seguito di accertamento ispettivo, una difformità tra la realtà “fattuale” e quanto registrato sul LUL e sempre che “l’erronea” scritturazione del suddetto dato abbia determinato una differente quantificazione dell’imponibile contributivo. Tale difformità si configura sicuramente nel caso in cui la trasferta non sia stata proprio effettuata o la relativa indennità occulti emolumenti dovuti ad altro titolo, con fine evidentemente elusivo. Qualora, invece, il personale ispettivo riscontri che sotto la voce trasferta siano state erogate somme per compensare le prestazioni lavorative rese dai trasfertisti, la difformità rilevata, oltre a determinare l’applicazione di un diverso regime previdenziale e fiscale, comporta la registrazione di un dato - la voce trasferta - che non corrisponde sotto il profilo qualitativo alla causale o titolo che sta alla base delle erogazioni effettuate dal datore di lavoro. Il regime sanzionatorio per infedele registrazione sul LUL può trovare applicazione quindi ove la registrazione del dato risulti sostanzialmente non veritiera sia in ordine ai dati meramente quantitativi della stessa, sia in ordine ai dati qualitativi non inerenti la qualificazione giuridica del rapporto di lavoro ma alla scritturazione sul LUL di una causale o titolo fondante l’erogazione economica che non trovi riscontro nella concreta esecuzione della prestazione. Occorre però sempre che dall’infedele registrazione sul LUL derivino ricadute sotto il profilo retributivo, previdenziale o fiscale. Depenalizzazione LA DEPENALIZZAZIONE PARZIALE DEL REATO DI OMESSO VERSAMENTO DELLE RITENUTE PREVIDENZIALI NEI CHIARIMENTI INPS Circolare INPS 5 luglio 2016, n. 121 Dopo il Messaggio n. 804 del 22 febbraio 2016, l’INPS è tornata sulla parziale depenalizzazione del reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali per chiarire il nuovo quadro normativo (D.Lgs. n. 8/2016, attuativo della L. n. 67/2016; art. 2, comma 1 bis, D.L. n. 463/1983, convertito, con modificazioni, L. n. 638/1983), alla luce delle indicazioni fornite dalla Direzione Generale per l’Attività Ispettiva del Ministero del Lavoro (nt. 3 maggio 2016, prot. 29/0002839/P). Il testo originario della norma, infatti, puniva con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a euro 1.032 qualsiasi condotta illecita del datore di lavoro che operasse le ritenute previdenziali previste dalla legge sulle retribuzioni senza provvedere al dovuto versamento all’INPS. L’evidente appesantimento del carico di lavoro degli organi giudiziari ha determinato il legislatore a riscrivere la norma che, nella versione attuale, opera un distinguo legato al valore dell’omissione compiuta dal datore di lavoro: la sanzione penale della reclusione fino a tre anni, congiunta alla multa fino a euro 1.032, risulta confermata per i soli omessi versamenti di importo superiore a euro 10.000 annui. Diversamente, se l’importo omesso resta sotto la predetta soglia, al datore di lavoro si applicherà la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a euro 50.000, fattispecie dequalificata in illecito amministrativo. La previsione di non punibilità con la sanzione penale per le omissioni più gravi permane, applicando la non assoggettabilità alla sanzione amministrativa per quelle sotto soglia qualora il versamento delle ritenute omesse venga effettuato entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’accertamento della violazione. Ai fini della determinazione dell’importo di euro 10.000 annui l’INPS precisa che l’arco temporale di riferimento per il controllo sul corretto adempimento degli obblighi contributivi è quello che intercorre tra il 1° gennaio ed il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 833 Sinergie Grafiche srl Normativa Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Sintesi il 31 dicembre di ciascun anno civile. Tenuto conto delle singole scadenze legali degli adempimenti dovuti dai datori di lavoro, in essi ricompresi sia i datori di lavoro che operano con il sistema Uniemens, sia i committenti della Gestione Separata nonché i datori di lavoro agricoli, i versamenti che concorrono alla determinazione della soglia sono quelli relativi al mese di dicembre dell’anno precedente all’annualità considerata (da versare entro il 6 gennaio) fino a quelli relativi al mese di novembre dell’annualità considerata (da versare entro il 16 dicembre). Pertanto, il valore soglia sarà determinato rispetto al periodo 1° gennaio - 31 dicembre di ciascun anno ricomprendendo in esso tutte le omissioni accertate anche se riferite alle diverse Gestioni previdenziali nelle quali può essere rilevata la fattispecie dell’omissione delle ritenute ed indipendentemente dallo stato gestionale di ciascuna denuncia. Ai fini della gestione di tali atti, prima di procedere alla notifica della violazione, per ciascuna annualità dovrà essere accertato se nei confronti del medesimo responsabile, avuto riguardo alla posizione contributiva aziendale contraddistinta dal medesimo codice fiscale, esistano ulteriori atti relativi a procedimenti penali distinti ma relativi al medesimo anno oggetto di lavorazione. L’INPS procederà anche a verificare se, al momento della trasmissione degli atti, siano in corso accertamenti per omissioni non riconducibili alle denunce già effettuate e oggetto di trasmissione da parte dell’Autorità giudiziaria: una volta completata l’attività di cancellazione di ciascuna denuncia oggetto di trasmissione da effettuare, solo all’esito della verifica le Sedi potranno procedere con atti distinti per ciascun anno considerato e secondo i procedimenti di seguito descritti, alla notifica dell’accertamento dell’avvenuta violazione da parte del datore di lavoro dell’obbligo del versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali. La notifica dell’accertamento della violazione costituisce l’avvio del procedimento sanzionatorio; entro trenta giorni dalla notifica, gli interessati potranno far pervenire scritti difensivi e documenti o fare richiesta di audizione; entro tre mesi dovrà avvenire il versamento delle ritenute omesse. L’assenza del pagamento nei termini assegnati consentirà l’avvio del procedimento di emissione dell’ordinanza ingiunzione per l’irrogazione della sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a euro 50.000. Qualora l’omissione delle ritenute superi nel corso dell’annualità considerata l’importo di euro 10.000, seppure l’illecito assuma in tali casi rilevanza penale, si dovrà comunque attendere la conclusione dell’annualità di riferimento quale termine utile per procedere alla configurazione piena del reato. Disabili L’INCENTIVO PER L’ASSUNZIONE DI LAVORATORI CON DISABILITÀ NEI RECENTI CHIARIMENTI DELL’INPS Circolare INPS 13 giugno 2016, n. 99 A seguito delle modifiche introdotte all’art. 13, L. n. 68/1999 dall’art. 10, D.Lgs. n. 151/2015, a decorrere dal 1° gennaio 2016 l’incentivo per l’assunzione di lavoratori con disabilità è gestito dall’INPS. La richiesta di fruizione deve essere inviata all’Istituto mediante apposite procedure telematiche. L’Istituto, a seguito dell’inoltro delle domande di autorizzazione alla fruizione del beneficio effettua, mediante i propri sistemi informativi centrali, i controlli circa i requisiti di spettanza dell’incentivo, verificando, in particolare, la natura privatistica del datore di lavoro che procede alla richiesta di riconoscimento dell’incentivo, l’esistenza del rapporto di lavoro con il lavoratore e la disponibilità di risorse. Superati i suddetti controlli, alle istanze inviate è attribuito un esito positivo comportante l’autorizzazione alla fruizione del beneficio. A seguito dell’autorizzazione, l’incentivo può essere fruito dal datore di lavoro mediante conguaglio nelle denunce con Il beneficio può essere autorizzato fino all’esaurimento delle risorse specificamente stanziate. In breve, l’incentivo in oggetto è riconosciuto a tutti i datori di lavoro privati, soggetti o meno all’obbligo di assunzione di cui alla L. n. 68/1999, a prescindere dalla circostanza che abbiano o meno la natura di imprenditore. L’incentivo può essere legittimamente fruito per l’assunzione di lavoratori disabili che abbiano una riduzione della capacità lavorativa superiore al 79% o minorazioni ascritte dalla prima alla terza categoria di cui alle tabelle annesse al T.U. delle norme in materia di pensioni di guerra; i lavoratori disabili che abbiano una riduzione della capacità lavorativa compresa tra il 67% il 79% o minorazioni ascritte dalla quarta alla sesta categoria di cui alle menzionate tabelle; i lavoratori con disabilità intellettiva e psichica che comporti una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45%. L’incentivo spetta per le assunzioni a tempo indeterminato e per le trasformazioni a tempo indeterminato di un rapporto a termine, anche a tempo parziale, decorrenti dal 1° gennaio 2016, ovvero per le forme associative, il lavoro a domicilio, le assunzioni a tempo indeterminato a scopo di somministrazione. Misura e durata dell’incentivo sono parametrati al grado di disabilità riscontrato, ferme restando le consuete condizioni per l’utilizzo (ad esempio l’adempimento degli obblighi contributivi; l’osservanza delle norme poste a tutela delle condizioni di lavoro; il rispetto degli altri obblighi di legge ecc.). In ragione della più volte richiamata finalità di realizzare una concreta promozione dell’inserimento e della integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro, nell’eventualità in cui sussistano sia i presupposti di applicazione dell’incentivo previsto per l’assunzione di disabili, sia i presupposti di applicazione di incentivi previsti da altre disposizioni sotto forma di riduzione contributiva in senso stretto, il datore di lavoro può godere per il medesimo lavoratore di entrambi i benefici purché la misura complessiva degli incentivi non superi la misura del 100% dei costi salariali. L’INPS ne fornisce in conclusione le indicazioni operative per il godimento. 834 il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Sinergie Grafiche srl Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Normativa Sintesi Malattia GLI INDIRIZZI OPERATIVI PER L’APPLICAZIONE DELLA NORMATIVA RELATIVA ALLE ESENZIONI DALLA REPERIBILITÀ PER I LAVORATORI DEL SETTORE PRIVATO Circolare INPS 7 giugno 2016, n. 95 Con propria circolare, l’INPS ha fornito gli indirizzi operativi in merito all’applicazione della normativa relativa alle esenzioni dalla reperibilità per i lavoratori del settore privato, allegando altresì le linee guida per l’individuazione delle patologie che danno diritto agli esoneri. In breve, sono esclusi dall’obbligo di rispettare le fasce di reperibilità i lavoratori subordinati la cui assenza sia connessa con patologie gravi che richiedono terapie salvavita, comprovate da idonea documentazione della Struttura sanitaria; ovvero connessa a stati patologici sottesi o connessi a situazioni di invalidità riconosciuta, in misura pari o superiore al 67%. I lavoratori interessati sono quelli con contratto di lavoro subordinato appartenenti al settore privato rimanendo esclusi i lavoratori iscritti alla gestione separata dell’INPS. Con riferimento, invece, all’ambito di applicazione della norma, le linee guida elaborate dall’INPS e dal Ministero sono rivolte ai medici che redigono i certificati di malattia e che, solo in presenza di una delle situazioni patologiche in esse enumerate, dovranno apporre la valorizzazione dei campi del certificato telematico riferiti a “terapie salvavita”/“invalidità”; nel caso di certificati di malattia redatti in via residuale in modalità cartacea, attestare esplicitamente l’eventuale sussistenza delle fattispecie in argomento ai fini dell’esclusione del lavoratore dall’obbligo della reperibilità. Le indicazioni contenute nelle linee guida costituiscono un punto di riferimento anche in ottica di possibili verifiche da parte dell’INPS e dei datori di lavoro in merito all’attestazione di eventi che danno diritto all’esonero dalla reperibilità. L’INPS ha già provveduto ad effettuare le modifiche procedurali finalizzate a recepire, nell’ambito del flusso automatizzato per la gestione dei certificati di malattia, le informazioni che consentono di selezionare i certificati relativi alle patologie esonerative. Pensioni IL RICONOSCIMENTO E LA SOSPENSIONE DEL DIRITTO ALLA PENSIONE AI SUPERSTITI IN FAVORE DEI FIGLI STUDENTI NEL PERIODO DI SVOLGIMENTO DI ATTIVITÀ LAVORATIVA Messaggio INPS 21 giugno 2016, n. 2757 L’INPS ha fornito alcuni chiarimenti in merito al riconoscimento ed alla sospensione del diritto alla pensione ai superstiti in favore dei figli studenti durante il periodo compreso tra due differenti ordini di studio (c.d. periodo di vacatio studii), ovvero nel periodo di svolgimento di attività lavorativa. In particolare si legge che il figlio superstite o equiparato, in caso di morte del dante causa nel periodo di vacatio studii compreso tra il completamento del secondo ciclo di istruzione e l’iscrizione all’università, nonché tra il completamento del corso di laurea triennale e l’iscrizione al corso di laurea specialistica, conserva lo status soggettivo di studente ed il diritto a percepire la quota di pensione ai superstiti riconosciuta in suo favore, a condizione che l’iscrizione al corso di studi successivo avvenga senza soluzione di continuità, entro la prima scadenza utile prevista dal piano di studi di nuova iscrizione. In tale caso la pensione ai superstiti decorre dal primo giorno del mese successivo alla morte del dante causa, ed il pagamento è dovuto dal primo giorno del mese successivo la data dell’avvenuta iscrizione comprensiva dei ratei arretrati. Diversamente, in caso di morte del dante causa nel periodo compreso tra cicli di studio diversi da quelli sopra indicati il figlio superstite o equiparato non ha diritto alla pensione ai superstiti. Quanto al periodo di attività, Il figlio superstite o equiparato che, alla data della morte del dante causa, presti lavoro retribuito dal quale derivi un reddito annuo inferiore al trattamento minimo annuo di pensione previsto dall’assicurazione generale obbligatoria maggiorato del 30% e riparametrato al periodo di svolgimento dell’attività lavorativa, ha diritto alla pensione ai superstiti. Diversamente, il figlio superstite o equiparato che, alla data della morte del dante causa, presti lavoro retribuito dal quale derivi un reddito superiore a quello sopra indicato, non ha diritto alla pensione ai superstiti. Al fine del riconoscimento del diritto alla pensione ai superstiti, in sede di presentazione della domanda, il figlio o equiparato ha l’onere di dichiarare, anche in via presuntiva, il reddito lordo da lavoro percepito nell’anno di morte del dante causa, nonché il relativo periodo di percezione. Il figlio o equiparato ha l’obbligo di comunicare ogni variazione del predetto reddito da lavoro e del relativo periodo di percezione, dichiarati in sede di domanda di pensione ai superstiti. In caso di superamento del limite reddituale secondo il criterio sopra indicato, successivamente alla liquidazione della pensione ai superstiti, si dovrà procedere alla revoca del trattamento pensionistico ed al recupero delle somme indebitamente corrisposte. Il figlio o equiparato titolare di pensione ai superstiti mantiene il diritto alla percezione del predetto trattamento pensionistico qualora presti lavoro retribuito dal quale derivi un reddito annuo inferiore al trattamento minimo annuo di pensione previsto dall’assicurazione generale obbligatoria maggiorato del 30% e riparametrato al periodo di svolgimento dell’attività lavorativa. Diversamente, durante il periodo nel quale il figlio o equiparato titolare di pensione ai superstiti svolge lavoro retribuito dal quale derivi un reddito superiore a quello sopra indicato, la pensione è sospesa. il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 835 Sinergie Grafiche srl Normativa Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Sintesi Sostegno al reddito LA DEFINIZIONE DEI CRITERI PER L’APPROVAZIONE DEI PROGRAMMI DI CIGO ED IL NUOVO PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO DI CONCESSIONE Messaggio INPS 1° luglio 2016, n. 2908 Prima della pubblicazione di una circolare sul piano interpretativo e sotto il profilo applicativo dei contenuti del D.M. 15 aprile 2016, n. 95442 circa i criteri per l’esame delle domande di concessione dell’integrazione salariale ordinaria, l’INPS è intervenuta per fornire le prime indicazioni concernenti le modalità di presentazione delle domande e di avvio dell’istruttoria. Il nuovo procedimento di concessione resta competenza esclusiva delle sedi INPS, con riguardo alla concessione della prestazione cui segue la soppressione delle Commissioni provinciali CIGO; fondamentale è l’individuazione di criteri univoci e standardizzati per la valutazione delle domande. I criteri fissati dal decreto derivano da situazioni aziendali dovute ad eventi transitori e non imputabili all’impresa o ai dipendenti, incluse le intemperie stagionali, ed a situazioni temporanee di mercato. Le aziende, quindi, potranno ricorrere alle integrazioni salariali ordinarie per i motivi definiti nelle causali del decreto ministeriale, corredate dai requisiti probatori ritenuti indispensabili per ciascuna di esse: resta il criterio di brevità di durata e di transitorietà. Ai fini della concessione della CIGO, l’azienda deve allegare alla domanda una relazione tecnica dettagliata, resa come dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, recante le ragioni che hanno determinato la sospensione o riduzione dell’attività lavorativa nell’unità produttiva interessata dimostrando, sulla base di elementi oggettivi attendibili, che la stessa continui ad operare sul mercato. La relazione tecnica dettagliata deve essere sottoscritta dal legale rappresentante dell’azienda o da suo delegato e inviata telematicamente. L’INPS ha facoltà di richiedere un supplemento istruttorio con richiesta anche d’integrazione della documentazione ai fini procedimentali. Anche la richiesta di proroga della domanda originaria deve essere accompagnata dalla relazione tecnica obbligatoria, poiché sono considerate comunque domande distinte e per la loro concessione devono essere presenti gli elementi probatori che manifestino il perdurare delle ragioni di integrazione presentate nella prima istanza. L’INPS sottolinea che, come supporto probatorio eventuale, previsto espressamente nel decreto, l’azienda ha facoltà di supportare gli elementi oggettivi già contenuti ed elencati nella relazione obbligatoria, con ulteriore documentazione da allegare relativa, per esempio, alla solidità finanziaria dell’impresa o a report concernenti la situazione temporanea di crisi del settore, oppure alle nuove acquisizioni di ordini o alla partecipazione qualificata a gare di appalto, all’analisi delle ciclicità delle crisi e la CIGO già concessa. Per alcune casuali il decreto ministeriale prevede che alcuni attestati o documenti tecnici, come i bollettini meteo, siano obbligatoriamente allegati alle domande. Il provvedimento di concessione o di reiezione totale o parziale della CIGO deve contenere una congrua motivazione, che menzioni gli elementi documentali e di fatto presi in considerazione e le ragioni del convincimento che hanno determinato l’INPS all’adozione del provvedimento, anche in relazione alla prevedibilità ex ante della ripresa dell’attività. La nuova disciplina si applica alle domande presentate dal 29 giugno 2016; per le domande presentate dal 29 giugno non corredate dalla relazione tecnica, obbligatoria nelle forme previste dal decreto ministeriale, le aziende dovranno procedere all’integrazione documentale. Per le domande presentate precedentemente, le Strutture territorialmente competenti, in sede di istruttoria, continuano ad osservare i criteri di esame ed a chiedere l’esibizione della documentazione di corredo come nelle prassi amministrative presenti con il precedente procedimento concessorio. 836 il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 ABCompos - 3B2 v. 11.0.3108/W Unicode-x64 (Dec 17 2013) - {A_LEGALE}0912_16-LAGI8-9/ 00134998_2016_08-09_0837.3d Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. il Lavoro nella giurisprudenza Indici INDICE DEGLI AUTORI 22 marzo 2016, n, n. 5592 ............................... 1 aprile 2016, n. 6373 ..................................... Angiello Luigi La comunicazione dell’esclusione del socio-lavoratore nelle cooperative........................................ 22 aprile 2016, n. 8180 ................................... 2 maggio 2016, n. 8594 .................................. 789 Collia Filippo Rassegna del merito....................................... 4 maggio 2016, n. 8881 .................................. 828 De Michele Vincenzo Le spese di giustizia nel giusto processo del lavoro tra legge e prassi ministeriale............................ 757 753 757 808 817 Guarnieri Guerino Rassegna della Cassazione............................... 817 Izzi Daniela Il licenziamento discriminatorio secondo la più virtuosa giurisprudenza nazionale .......................... 748 Tribunali 830 Firenze 27 aprile 2016.................................... 828; 831 Firenze 28 aprile 2016..................................... 829 Messina 9 giugno 2016................................... 829 Normativa e prassi Circolare INPS 7 giugno 2016, n. 95.................... Messaggio Inps 16 giugno 2016, n. 2862 ............. Messaggio Inps 21 giugno 2016, n. 2757 ............. 817 Messaggio Inps 1 luglio 2016, n. 2908................. Circolare INPS 5 luglio 2016, n. 121 .................... Miscione Michele La fine del precariato pubblico ma non solo per la scuola ........................................................ 26 maggio 2016, n. 10950 ............................... Circolare INPS 13 giugno 2016, n. 99 .................. Ludovico Giuseppe Rassegna della Cassazione............................... 20 maggio 2016, n. 10536 ............................... Firenze 24 marzo 2016.................................... Giovanardi Carlo Alberto Rassegna della Cassazione............................... 13 maggio 2016, n. 9904 ................................. 30 maggio 2016, n. 11126 ............................... Garofalo Carmela Il mobbing attenuato: lo straining ....................... 10 maggio 2016, n. 9486 ................................. 16 maggio 2016, n. 10020 ............................... Galleano Sergio Le spese di giustizia nel giusto processo del lavoro tra legge e prassi ministeriale............................ 4 maggio 2016, n. 8882 .................................. 5 maggio 2016, n. 9054 .................................. Frediani Marco Dimissioni, nuova forma smaterializzata ad substantiam e diritto al ripensamento............................ 2 maggio 2016, n. 8604 .................................. 794 784 820 777 826 818 825 825 824 823 822 817 822 821 835 834 833 835 836 833 745 Muratorio Alessia Novità legislative ed amministrative .................... 833 INDICE ANALITICO 779 Appalto Nunin Roberta Indennità di maternità e diritti del padre avvocato.... Pistore Giovanna Interposizione illecita di manodopera Prosecuzione del rapporto di lavoro oltre l’età pensionabile: nodi irrisolti e spunti di riflessione .......... L’attività dell’appaltatore ai fini della configurabilità di un’interposizione illecita di manodopera (Tribunale di Firenze 27 aprile 2016).................................... 764 Romeo Carmelo L’epilogo in tema di repechage e onere probatorio .. 799 Rotondi Francesco Rassegna del merito....................................... 828 Treglia Giorgio Rassegna della Cassazione............................... 817 828 Controversie del lavoro Ctu Discrezionalità del giudice nel disporre la rinnovazione della Ctu (Cassazione Civile, Sez. lav., 4 maggio 2016, n. 8881) .............................................. 818 Danno da demansionamento Danno da demansionamento e sindacato della Cassazione sulle massime d’esperienza adottate dal giudice di merito (Cassazione Civile, Sez. Lav., 20 maggio 2016, n. 10536) ........................................ INDICE CRONOLOGICO DEI PROVVEDIMENTI Onere della prova Giurisprudenza Cassazione Civile 19 febbraio 2016, 3291 ................................... il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 817 803 L’epilogo in tema di repechage e onere probatorio (Cassazione Civile, Sez. lav., 22 marzo 2016, n. 5592), commento di Carmelo Romeo .................. 794 837 ABCompos - 3B2 v. 11.0.3108/W Unicode-x64 (Dec 17 2013) - {A_LEGALE}0912_16-LAGI8-9/ 00134998_2016_08-09_0837.3d Numero Demo il Lavoro nella giurisprudenza - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Indici Responsabilità ente previdenziale Prova testimoniale Ancora sui limiti soggettivi alla prova testimoniale (Cassazione Civile, Sez. lav., 22 aprile 2016, n. 8180) 820 Spese di giustizia Le spese di giustizia nel giusto processo del lavoro tra legge e prassi ministeriale, di Vincenzo De Michele e Sergio Galleano ................................... 757 Precariato nella scuola La fine del precariato pubblico ma non solo per la scuola, di Michele Miscione ............................. Associazione non riconosciuta 777 Lavoro subordinato La responsabilità del rappresentante dell’associazione non riconosciuta per le differenze retributive vantate dai lavoratori (Tribunale di Firenze 27 aprile 2016) ......................................................... 831 Età pensionabile Dimissioni 753 Prosecuzione del rapporto di lavoro oltre l’età pensionabile: nodi irrisolti e spunti di riflessione, di Giovanna Pistore ............................................... Licenziamento Licenziamento discriminatorio Badge, controllo a distanza e licenziamento (Cassazione Civile, Sez. lav., 13 maggio 2016, n. 9904) ..... 823 Il licenziamento discriminatorio secondo la più virtuosa giurisprudenza nazionale, di Daniela Izzi........ Il licenziamento discriminatorio secondo la più virtuosa giurisprudenza nazionale, di Daniela Izzi ........ 748 Società cooperative 829 La comunicazione dell’esclusione del socio-lavoratore nelle cooperative (Cassazione Civile, sez. lav, 1 aprile 2016, n. 6373), commento di Luigi Angiello ... Inefficacia del licenziamento per violazione art. 2, L. n. 604/1966 (Tribunale di Messina 9 giugno 2016) ... 745 Rapporto di lavoro Tutela della paternità Dimissioni, nuova forma smaterializzata ad substantiam e diritto al ripensamento, di Marco Frediani ..... 826 Pubblico impego Lavoro autonomo Indennità di maternità e diritti del padre avvocato (Cassazione Civile, Sez. lav., 2 maggio 2016, n. 8594), commento di Roberta Nunin .................... Erroneo prospetto contributivo e responsabilità dell’INPS (Cassazione Civile, Sez. lav., 2 maggio 2016, n. 8604)...................................................... L’assolvimento dell’obbligo di preventiva contestazione nel caso di reiterati spostamenti di residenza del lavoratore (Tribunale di Firenze 28 aprile 2016)... 829 Licenziamento disciplinare e doveri di verifica del giudice (Cassazione Civile, Sez. lav., 26 maggio 2016, n. 10950)............................................. 822 Licenziamento orale e dimissioni: ripartizione dell’onere probatorio (Tribunale di Firenze 24 marzo 2016) 830 ‘‘Pisolino’’ sul posto di lavoro e licenziamento (Cassazione Civile, Sez. lav., 10 maggio 2016, n. 9486) .. 824 Trasferimento e licenziamento (Cassazione Civile, Sez. lav., 4 maggio 2016, n. 8882) ...................... 825 Vendita di prodotti on line durante l’orario di lavoro ed insussistenza di una giusta causa di recesso (Cassazione Civile, Sez. lav., 16 maggio 2016, n. 10020) ....................................................... 822 764 748 784 Straining Il mobbing attenuato: lo straining (Cassazione Civile, Sez. lav., 19 febbraio 2016, n. 3291), commento di Carmela Garofalo........................................... 803 Trasferimento del lavoratore Trasferimento del lavoratore ed esigenze dell’impresa (Cassazione Civile, Sez. lav., 30 maggio 2016, n. 11126) ....................................................... 821 Previdenza Pensione di reversibilità Sui presupposti della pensione di reversibilità in favore del coniuge divorziato (Cassazione Civile, Sez. lav., 5 maggio 2016, n. 9054) ............................ 838 825 il Lavoro nella giurisprudenza 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. itinera GUIDE GIURIDICHE IPSOA LAVORO La guida affronta, con taglio pratico, tutti gli istituti di diritto del lavoro e sindacale, evidenziando gli aspetti maggiormente interessati dal contenzioso. 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