L`originalità dell`opera tra oggetti, strumenti e atti nella prospettiva di

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L’originalità dell’opera tra oggetti, strumenti e atti
nella prospettiva di H.-G. Gadamer
di Carla Danani
Hans Georg Gadamer attribuisce «rilevanza ermeneutica» al concetto di
«opera», e gli riconosce anche «sostanzialità ermeneutica»1; in un contesto di riflessioni sul tema che, seppur in un movimento di diversi argomenti che si intrecciano,
articolandosi su differenti dimensioni del discorso, può offrire un contributo importante per la messa a fuoco della rilevanza antropologica dell’opera e dell’operare.
1. L’opera come ergon
Rileviamo, innanzitutto, che egli afferma che «opera» non significa altro che
ergon, e che, come ogni altro ergon, essa è caratterizzata dal fatto di rendersi autonoma da colui che la produce e dall’atto stesso del produrre. Così afferma in un saggio del 1995, L’opera d’arte in mutamento, dove ribadisce che «nel concetto di
opera, ergon, è implicito che essa sia staccata dal processo della sua produzione e
che possieda una sorta di essere in sé. Essa è compiuta, téleion»2.
Questo vale per ogni opera ma, in misura eminente, per l’opera d’arte.
In modo paradigmatico l’opera d’arte, approdo di uno sforzo operativo intenzionale che procede secondo regole, si pone come libera: licenziandosi dal tessuto connettivo del fare che l’ha prodotta, essa «sta lì» con una propria intentio. Le opere
d’arte, anzi, iniziano a parlare proprio in virtù della separazione dalla loro provenienza; e ciò che allora iniziano a dire può apparire sorprendente al loro stesso autore.
Nell’ambito della tecnica produttiva, l’autonomia dell’opera dall’intenzione
che l’ha originata può avere un duplice significato: l’opera è stata abbandonata
all’uso, e con ciò anche esposta all’abuso e al logorio; dall’altro lato essa è stata
prodotta per l’uso, e ciò significa che l’utente, non l’autore, ha ormai voce in capitolo su di essa. Il produttore può vantarsi di fare qualcosa che è utile per l’uso, ma
con questo egli riconosce la priorità dell’utente.
Le parole, però, avvisano qui di una differenza: quando si acquista un oggetto
di uso pratico o domestico non si dice, propriamente, che è un’opera (Werk), quanto piuttosto che è un «prodotto», di cui ne esistono tanti uguali. Costituito dal nesso
funzionale in cui si istituisce, esso è del tutto sostituibile, e in questa sostituibilità
si rivela la sua natura preponderante di strumento. L’opera d’arte, invece, ha il pro163
prio significato nella sua semplice configurazione3, non viene tanto approntata per
un uso quanto esibita, o esposta: è qui solo per esser qui, e trova compimento in
questo mostrarsi, non nell’essere mezzo per qualche altro fine. In questo senso
Gadamer afferma che «l’opera d’arte è per così dire l’opera assoluta», insomma
autonoma anche rispetto agli scopi dei fruitori.
«Opera» in senso vero e proprio, se ne ricava, è ciò che consiste proprio nel suo
comunicare qualcosa: mentre, invece, un’azione rimanda al proprio agente ed un
prodotto dell’artigianato, ancor più se di fabbricazione industriale, ha una funzione
di servizio ed è definito dall’uso che se ne fa.
Insomma, non conta tanto «come» un’opera sia prodotta, ad esempio l’avvalersi o meno di mezzi di approntamento di tipo meccanico, e in ultima analisi neppure l’intenzione dalla quale essa si genera; ma è rilevante il suo essere infine qualcosa che è per sé, che si dà per offrirsi alla considerazione (Betrachtung). Non si può
dire, però, che l’opera «serve» a rappresentare: essa non rimanda propriamente a
qualcosa, ma in essa vi è propriamente ciò a cui si rimanda. L’opera d’arte, quindi,
può esser detta mimesis 4, rappresentazione di qualcosa che in tal modo si fa presente nella pienezza sensibile. Con essa e in essa si dà qualcosa da comprendere: per
questo la sua natura può essere detta ermeneutica. La natura dell’opera, per così
dire, è di render presente qualcosa non come una oggettività che possa essere misurata o che fornisca informazioni di sorta, ma come il manifestarsi di qualcosa che,
appunto, viene ad esprimersi, a dirsi. E dall’opera viene una richiesta di comprensione, che chiede di essere soddisfatta; titolato a rispondere è solo chi sta alla
domanda, chi sta al gioco. Solo chi co-opera (mitspielt) può fare vera esperienza
dell’opera.
In L’attualità del bello Gadamer sostiene che l’opera d’arte significa, propriamente, un accrescimento dell’essere; il fatto che essa non porti ad alcunché di
«utile» e non debba servire ad alcun uso, dice di una libertà dell’opera d’arte che è,
anche, il contrassegno del bello. Bello è qualcosa per cui non si chiede «per che
cosa c’è», ma di cui semplicemente si dice es kommt heraus, appare, vien fuori. Di
questo tipo non è certo il lavoro dell’artigiano, quanto piuttosto il modo di essere
della natura, che «fa uscire» le gemme, i germogli. L’analogia con l’elemento naturale sembra calzante anche sotto un altro punto di vista: dice di un «venir fuori» che
è un compimento, ma non può esser detto uno scopo. Infatti «dire che il frutto è il
fine della pianta – osserva Gadamer – è forse giusto dal punto di vista umano, e più
precisamente dal punto di vista della produzione agricola, ma non è vero dal punto
di vista della natura». Come scrive Aristotele nella Fisica, si deve piuttosto dire che
la natura «è in cammino» verso la natura.
In ciò che in qualche modo è «opera» si può leggere una relativa autonomia
dalla intenzione dalla quale proviene e dal suo uso possibile. Nel caso degli ogget164
ti dell’artigianato, che non sono meri utensili, meri «prodotti», si può forse dire che
questa natura dell’opera è come stratificata e deposta nelle pieghe dell’altra dimensione, per essi preponderante, che è la loro utilizzabilità. Ma non per questo, forse,
smentita.
2. L’opera come enérgheia
Volgendo attenzione al rapporto tra opera e concetto, invece, Gadamer ha
l’occasione di osservare che la verità dell’opera non è «tolta» e compiuta nella verità del concetto filosofico. Nell’opera avviene una manifestazione di verità che è
autonoma rispetto a quella che si esprime nella concettualità. L’opera non è semplicemente, come invece voleva Hegel, la manifestazione sensibile dell’idea: ciò che
già significa, comunque, un superamento della descrizione dell’essere dell’opera
d’arte a partire dalla soggettività del soggetto. Per l’impostazione hegeliana, tuttavia, l’opera deve realizzare la manifestazione sensibile dell’idea pensata nel pensiero autocosciente e nel pensiero dell’idea, dice Gadamer, e con ciò è «tolta» l’intera
verità dell’apparenza sensibile5. L’opera invece, egli sostiene, ha la sua verità nel
suo esser sensibile.
C’è poi un terzo ordine di considerazioni, che Gadamer introduce avvalendosi
del ricorso al termine greco enérgheia, che rimanda alla dimensione di uno svolgimento che perviene al proprio compimento, mentre tuttavia resta anche in via di
compiersi. Enérgheia rimanda alla dimensione del portarsi al compimento, del
Vollzug, che è la dimensione del manifestarsi.
In Wort und Bild – so wahr, so seiend 6, del 1992, viene ricordata la distinzione tra kínêsis ed enérgheia, dicendo: mentre il semplice movimento (kínêsis) non è
compiuto finché è in corso, c’è un’attività che, pur pervenendo sempre al fine nel
suo svolgersi, non ha una fine in questo pervenire. Così, ad esempio, diciamo, proprio mentre viviamo, che «si è vissuto», e si dice che «si è in vita», mentre ancora
si sta vivendo. Gadamer osserva che questo modo di essere raccoglie in sé l’unità
di passato e futuro: ha cioè, dice, la struttura dell’indugiare.
L’opera d’arte, indicata come l’opera assoluta, è massimamente ergon – perché
ha il suo esser compiuta in sé stessa e non nell’uso–; ed enérgheia – perchè ha proprio nel Vollzug, nel suo svolgimento, o anche potremmo dire nelle sue esecuzioni,
nella sua capacità di continuare a compiersi, il senso del suo esser compiuta.
Si perde di vista l’opera d’arte come tale, qualora la si consideri come una cosa
a disposizione, ad esempio come un pezzo d’arredo, e non si raccolga il suo appello ad esser compresa. Possiamo dire che l’opera è all’opera come appello a «farne
esperienza»: Gadamer precisa che questo fare (machen) non significa che facciamo
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(tun) davvero qualcosa, ma piuttosto che ci accade qualcosa; non si tratta di un
«metter dentro», o di un leggervi (hineinlesen), nell’opera, qualcosa che non c’è;
piuttosto si tratta di ricavare dalla lettura (heranlesen) qualcosa che nell’opera c’è
dentro, e di farlo nel modo del «lasciarlo venir fuori».
L’opera si pone come qualcosa di cui «fare esperienza», e ciò che con essa
impariamo è, innanzitutto, ad indugiare. Indugiare è il modo di questo fare esperienza, significa proprio far sì che l’opera «venga fuori», lasciar che gemmi. E se si
deve dire che l’opera è sempre la stessa, pure «vien fuori» diversamente ad ogni
incontro. Essa si attua nel compimento del suo «venir fuori», perché appunto non è
un oggetto, un prodotto, un pezzo; né si lascia semplicemente ri-creare da chi la
esperisce.
Quando Gadamer parla dell’esperienza ermeneutica dice di una circolarità tra
attività e passività, e sottolinea che si tratta, innanzitutto, di lasciarsi dire qualcosa,
di lasciare che qualcosa si faccia valere «anche contro di noi». Il «non nascondimento» di ciò che vien fuori è nascosto nell’opera stessa, non in ciò che noi diciamo di essa.
Ne deriva la conferma che «questo però significa che così si supera sia la
dimensione di ciò che pensava il produttore dell’opera, sia di ciò che intende colui
che la ascolta»; senza che ciò significhi che allora l’opera sia realtà chiusa, inaccessibile in se stessa. Infatti essa, compiutezza in svolgimento – come si è detto – ha
la natura di un manifestare. L’opera si relaziona, provoca relazioni, istituisce relazioni perché è uno stare in sé nel modo del dirsi, del dire e dell’essere compresa.
Gadamer afferma che «l’arte è nell’esecuzione, come la lingua è nel dialogo (Kunst
ist im Vollzug, wie Sprache ist im Gespräch)». Essa si svolge nella differenza delle
sue esecuzioni: differenza però non arbitraria, in balia dei diversi interpreti, ma
sostanziale, provocata cioè dall’opera stessa all’incontro co-operante con chi la
interpreta.
È in ciò che l’opera dà luogo a una comunanza. L’opera non può essere separata dalla sua «rappresentazione»7, ed essa è sempre rappresentativa davanti ad
altri; distinguibile dalla sua esecuzione eppure consegnata ad essa. Un’opera rappresenta sempre qualcosa e lo rappresenta per qualcuno. Possiamo dire che c’è
quindi una reale intersoggettività dell’opera, anche se ricorriamo non senza una
certa cautela a questa espressione, perché Gadamer guarda ad essa con sospetto8.
Vi legge, infatti, quella logica del soggetto che ha segnato la modernità, con tutte
le relative difficoltà a guadagnare in seconda battuta, a partire dalla molteplicità
dei soggetti, la realtà costitutiva della dimensione relazionale, ed a pensare una
considerazione dell’altro che non cada inevitabilmente nell’assimilazione al medesimo. Chi pensa il linguaggio, dice Gadamer, si trova sempre al di là della soggettività.
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3. Tra teoria e prassi
Una domanda che a questo punto si pone, allora, è come debba essere intesa la
specificità dell’opera, e dell’agire dell’opera, nell’alternativa classica tra azioni che
hanno un fine in sé – dette intransitive – , che sarebbero le azioni perfette, e azioni
transitive, che hanno cioè per «fine» o scopo qualcosa d’altro da raggiungere, da
fare, una realtà altra dall’azione stessa. Sembra esserci, per l’opera, e per l’agire che
mette capo all’opera, quasi il compito di saldare questa dicotomia: l’indicare un’azione che nel suo svolgersi si coagula in qualcosa che non è più l’azione stessa e
che tuttavia non è lasciato all’uso, un qualcosa che l’azione ha «fatto sì» che prendesse forma e che si pone come un manifestare.
Gadamer sembra riferirsi a qualcosa del genere quando parla della stessa filosofia. Che cosa distingue, per lui, la filosofia dalla sofistica? Appunto quella che
chiama «l’armonia dorica di logos ed ergon». Al sapere, presuntuoso quanto inutile, che affascinava la vivace e loquace gioventù ateniese agli inizi del V secolo, egli
imputa la mancanza del peso dell’ergon; che al vero sapere non può mancare! Che
cosa significa? Che il sapere sa dar forma, non è solo un articolarsi di argomentazioni logiche ma un modo di essere: sapere è esser-sapiente. Chi sa, sa anche giustificare ciò che sa nel dialogo con sé o con altri, non solo perché è più bravo ad
argomentare, ma perché sa restar saldo al rendiconto. Chi sa «sta saldo» nel pensare, come l’opera sa «star lì», potremmo dire, continuando ad operare. Il dialettico è
proprio colui che è così: per Gadamer è Socrate colui che ne incarna il paradigma,
armonia di logos ed ergon, come dice in Logos e ergon nel Liside di Platone 9;
armonia di Rede e Sein, come dice in Sokrates Frömmigkeit des Nichtwissens10;
armonia di Begreifen e Tun, come dice in Platos dialektische Ethik – beim Wort
genommen11.
Il vero sapere, la dialettica, è allora fondata insieme nel logos e nell’ergon:
come a dire che coinvolge logica ed etica; non è quindi insegnabile come si istruisce qualcuno su delle informazioni. Gadamer, in alcune occasioni, afferma appunto che bisognerebbe riprendere la dialettica nell’etica, perché infatti anche l’abuso
del logos, ad esempio, non cessa affatto con la semplice chiarificazione logica di
qualcosa di errato.
Tutto ciò riporta ad una connessione che Gadamer ha molto a cuore: tra pensare ed agire, tra teoria e prassi, connessione che egli trova ben espressa nel theorein
greco. Teoria, appunto, è la partecipazione alla delegazione inviata in onore del dio,
dove partecipare è un’esperienza, attività e passività, e nell’esperienza non si resta
quelli che si era. Opera è ciò che «porta» questa relazione di passività ed attività,
manifestandosi nelle proprie rappresentazioni, in modo inesauribile, grazie alla
libertà in cui si costituisce. Aristotele portava l’esempio del costruire e del vedere:
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il processo del costruire trova compimento nella casa costruita, mentre nel vedere
il fine si identifica con l’attività stessa12. L’opera non sembra allora essere il ponte
teso tra l’esterno e l’interno?
Note
1
Frühromantik, Hermeneutik, Dekonstruktivismus (1987), in Die Aktualität der
Frühromantik, a cura di E. Behler e J. Hörisch, Schöningh, Paderborn 1987, pp. 251-260;
tr. it. di F. Cuniberto, Frühromantik, ermeneutica, decostruzionismo, «Rivista di estetica»,
1990, nn. 34-35, pp. 3-15.
2 Der Kunstbegriff im Wandel (1995), in Kunst ohne Geschichte?, a cura di A. M.
Bonnet e G. Kopp-Schmidt, Beck, München 1995, pp. 88-103; tr. it. di R. Dottori, L’opera
d’arte in mutamento, in La libertà del pensare. Saggi di ermeneutica, Vita e pensiero,
Milano 2002, pp. 161-178, qui p. 173.
3 Ivi, p. 174
4 Die Aktualität des Schönen. Kunst als Spiel, Symbol und Fest, 1974, in GW, VIII; tr.
it. a cura di R. Dottori, L’attualità del bello, Marietti, Genova 1986: a proposito del significato di mímêsis viene osservato: «In ogni opera d’arte v’è qualcosa del carattere della mímêsis, della imitatio. […] L’antico uso di questa parola trae la propria origine dalla danza delle
stelle [cfr. H. KOLLER, Die Mimesis in der Antike]. Le stelle sono la rappresentazione delle
pure leggi e proporzioni matematiche, che costituiscono l’ordine del cielo. In questo senso
credo che la tradizione abbia ragione quando dice: “L’arte è sempre imitazione”, cioè essa
produce la rappresentazione (Darstellung) di qualcosa», p. 39.
5 Die Wahrheit des Kunstwerks, GW, III, pp. 249-261; tr.it. di R. Cristin e G. Moretto,
La verità dell’opera d’arte, in I sentieri di Heidegger, Marietti, Genova 1987, p. 92.
6 Wort und Bild – so wahr, so seiend, 1992, in GW, VIII, pp. 373-399; tr. it. di D. Di
Cesare, Linguaggio, Roma-Bari, Laterza 2005, pp. 120-150.
7 Wahrheit und Methode. Grundzüge einer philosophischen Hermeneutik, 1960, GW,
I; tr. it. di G. Vattimo, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1972, p. 148.
8 Subjektivität und Intersubjektivität. Subjekt und Person, in GW, X, pp. 87-99; tr. it
di R. Dottori, Soggettività e intersoggettività. Soggetto e persona, in Verità e metodo 2,
Bompiani, Milano 1996, pp. 185-197.
9 Logos und Ergon im Platonischen Lysis, 1972, in GW, VI, pp. 171-186; tr. it. Logos
e ergon nel Liside di Platone, in Studi platonici 2, Marietti, Genova 1984, pp. 56-72.
10 Sokrates’ Frömmigkeit des Nichtwissens (1990), in GW, VII, pp. 83-117; tr. it. parziale in L’anima alle soglie del pensiero nella filosofia greca, Bibliopolis, Napoli 1988, pp.
11-40.
11 Platos dialektische Ethik - beim Wort genommen, 1989, in GW, VII, pp. 121-127
(già in «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 1989).
12 ARISTOTELE, Etica Nicomachea, 1094a 23.
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