Nuove prassi della regia nel teatro contemporaneo e nelle arti

ALEKSANDRA JOVIĆEVIĆ
Nuove prassi della regia nel teatro contemporaneo e nelle arti performative: Estetica o Inestetica
I
Il mestiere della regia esiste da non più di un secolo e mezzo, ma la sua descrizione è cambiata
già numerose volte. Così, a dispetto dei ripetuti sforzi dei teorici del teatro per produrre una
teoria generale della regia teatrale (Richard Schechner, Ferruccio Marotti, Patrice Pavis, Eugenio
Barba), risulta complesso se non impossibile definire quali siano esattamente i compiti di un
regista, se egli sia semplicemente un «misuratore»1 o se il suo lavoro sia un «mestiere, una
professione, e nei casi migliori un’arte»2. Gli esempi storici su quali attività siano proprie del
regista sono inconsistenti. Mejerchol’d sostiene che il regista «serva solo come una sorta di ponte
teso tra l’anima dell’autore e l’anima dell’attore»:3 Richard Schechner ha descritto il regista
teatrale come il genitore neofita del performer: «Attraverso la giuda del regista, e compiendo gli
esercizi che egli propone, il performer inizia a trovare se stesso»4. Schechner ha definito la
relazione tra il regista e il performer nel teatro di gruppo come la relazione tra due diverse
generazioni o tra fratelli, sostenendo che le lotte e le ribellioni caratteristiche di una vita familiare
siano le stesse che si verificano in un gruppo teatrale. Non appena il gruppo, durante le prove o i
workshop, apre le sue porte agli estranei, ovvero al pubblico, il ruolo del regista risulta ridotto,
circoscritto e maggiormente flessibile. Secondo Schechner, il regista dunque «non è più genitore,
nemico, emarginato, salvatore, amante, amico, semi-dio. È chi è responsabile di controllare che
l’opera sia messa in scena. Ed è un lavoro che non fa da solo»5.
Il concetto di Schechner di una figura simile a quella paterna ha implicato allo stesso tempo
l’inevitabilità di un controllo artistico centralizzato. Questo aspetto è stato desunto dall’analogia
proposta da E. G. Craig in quale sostiene che, se il teatro è un’arte, allora dovrebbe esistere
un’artista centrale di questa arte. Ben presto questo artista è stato investito di un potere totale:
una giurisdizione sul significato, la forma, lo stile, e una libertà di modificare tutto e tutti quelli
che non aderiscono alle sue idee. Ciò ha contribuito inoltre alla creazione di un canone della
regia teatrale (incarnato da Stanislavskij, Craig, Mejerchol’d, Piscator, Reinhardt, a Grotowski,
Brook, Wilson, Sellars, Stein, Castorf, e così via). Nella seconda metà dello XX secolo, accanto e
in conseguenza al cambiamento nel ruolo del regista, la neoavanguardia euro-americana ha
introdotto l’idea di una relazione critica tra teatro e società, sostenendo l’importanza del teatro di
gruppo, del teatro ambientale, del para-teatro, dei workshop e dei laboratori. Il nuovo teatro
sperimentale ha subito affrontato questioni che erano state disattese per secoli: che tipo di
contesto sia adatto a un certo tipo di produzione, se un teatro tradizionale, un garage o una
piazza; quale estetica può essere utilizzata in un particolare lavoro: una mera ricostruzione
storica, una decostruzione, un minimalismo, ecc. Critici e teorici hanno utilizzato la parola “stile”
per distinguere una particolare produzione dalle altre. Stile è stato un termine sempre
accompagnato da un’aggettivazione, come “realistico”, “espressionistico”, “moderno” o
“postmoderno” per definire un approccio o una premessa estetica. Inoltre vengono assunti
1 P. Pavis, L’analisi degli spettacoli: teatro, mimo, danza, teatro-danza, cinema, Lindau, Torino 2008, pp. 377-378.
2 H. Clurman, On Directing, Mcmillan, New York 1972, p. 9.
3 V. E. Meyerhold, Meyerhold on Theatre, Hill and Wang, New York 1969, p. 254.
4 R. Schechner, Director, in Id., Environmental Theatre, Hawtworn Books, New York 1973, p. 285.
5 Ivi, p. 286. Secondo Schechner, il regista per un attore è Tiresia, Orazio, Sganarello, Pilade, Amico, Servo,
Supporto, Profeta. Schechner ammette che questa tipologia di caratteri è stato cancellato dai drammi nel momento
dello sviluppo del regista.
nell’analisi teatrale termini specifici della critica artistica o musicale come tempo, colore,
composizione, immagine ecc.
Ciò ha contribuito al dibattito intellettuale che vede i sostenitori del lavoro della regia come arte
in sé contro quelli che non lo reputano tale. Un simile argomento in genere prevede delle
distinzioni tra creazione e interpretazione, oltre all’introduzione di una categoria ermeneutica
all’interno delle arti che ha condotto a frequenti comparazioni tra la direzione teatrale e la
conduzione d’orchestra. «Nella polifonia estrema della nostra epoca la regia, simile a una
direzione d’orchestra, è indispensabile purché mostri la sua vocazione plurale e sappia costruire
un’atmosfera generativa comune e capace di iscrivere nei lavori prodotti, seppur diversi, una
sottile scrittura invisibile che li rende efficaci emotivamente»6.
Quale che sia la definizione scelta per il lavoro di un regista teatrale del passato, la struttura
collaborativa e l’utilizzo di diversi media nell’arte performativa, specialmente negli ultimi due
decenni con l’utilizzo massiccio delle nuove tecnologie, contribuiscono a far diventare il mestiere
registico un’operazione complessa, composta da molte voci, molte parti, e un set
imprevedibilmente interattivo di mezzi e strumenti. Inoltre, non andrebbe dimenticato che la
regia è un processo che si sviluppa in un tempo considerevole, e non ha nulla a che vedere con la
cosiddetta ispirazione né con il flash lirico7. Come evidenziato da diversi teorici, specialmente da
Richard Schechner, qualche volta trascorrono settimane, mesi, a volte persino anni tra il primo
concetto o l’idea iniziale e le ultime prove tecniche in cui tutti gli elementi sono fissati e i tempi
definiti. Ciò che può avvenire nel corso di questo tempo è chiaramente imprevedibile poiché
mutano le circostanze e le persone, e le idee ne vengono influenzate8. Infine, la definizione stessa
di teatro si è allargata rispetto alla centralità tradizionalmente accordata alla presenza umana.
Infatti, con l’introduzione dei teatri del web e della performance digitale ciò non è più
necessariamente vero (basti citare il lavoro dei gruppi Desktop Theatre, Critical Arts Ensemble,
Surveillance Camera Players, o anche una delle ultime produzioni di Heiner Goebbels, Stifter
Dinge). In questi lavori il qui e ora, così come l’idea di “dal vivo” sono messi in discussione.
Ritengo dunque che il momento attuale, per quanto confuso, manifesti un movimento che
conduce verso nuove informazioni, interrogativi e teorie, e che sia lo sfondo perfetto per una
mutazione del ruolo di regista, sorta a partire dalle generazioni precedenti e derivata da esempi e
miti che lo annunciavano: risulta sempre più ovvio che il regista da solo non può essere in grado
di controllare l’intero processo, che lui o lei debbano delegare determinati aspetti del lavoro al
proprio gruppo, che debbano dividere le responsabilità.
Per la loro natura e struttura, le arti performative incorporano la dinamica del cambiamento.
Nonostante chi firmi, alla fine, lo spettacolo, i suoi autori cambiano continuamente e potrebbero
essere uno scrittore, un drammaturgo, i performer, il regista, lo scenografo, i tecnici audio e luci,
un videomaker, e anche gli spettatori. Così, gli autori del teatro scambiano sempre i loro ruoli nel
processo autoriale e lo spettacolo diventa il risultato di un’interazione costante tra i suoi elementi
non completi (testo, messa in scena) con quelli finiti (regista, performer, spettatori). Di
conseguenza, il regista teatrale non è più necessariamente una figura centrale o paterna, né un
leader, e neanche una persona che ha studiato regia, ma può anche essere un coreografo, uno
scrittore, un teorico, un compositore, un artista visivo, o tutto ciò insieme (per esempio, come i
due artisti presentati in questo volume, João Fiadeiro e Jérôme Bel). In molti esempi qui citati il
regista non è più la figura determinante in una gerarchia produttiva in cui non esiste più un
centro autoritario né ruoli fissi o una precisa divisione del lavoro, e può essere anche un team di
uguali, senza ruoli assegnati (Rimini Protokoll). Si registra qui un deciso mutamento rispetto ai
famosi gruppi dell’avanguardia come il Living theatre, il Wooster Group o i Forced
6 Cfr. V. Valentini, La vocazione plurale della regia. Conversazioni con Paolo Rosa, CITAZIONE INTERNA. Per
un’analogia con la conduzione d’orchestra, cfr. l’intervista a H. Goebbels in questo stesso volume.
7 Cfr. Ead., Sulla drammaturgia delle installazioni multimedia, CITAZIONE INTERNA.
8 Si vedano le interviste a Tim Etchells, Romeo Castellucci e Heiner Goebbels in questo volume.
Enterteinment, che erano e sono tuttora fondati su una personalità centrale (Julian Beck e/o
Judith Malina per il Living; Richard Schechner ed Elizabeth LeCompte rispettivamente per il
Performing Group e il Wooster Group, e Tim Etchells per i Forced Entertainment).
Non sorprende, allora, che Patrice Pavis sia persuaso che nel teatro e nelle arti performative
contemporanei il regista «tende a perdere la sua responsabilità globale, artistica, a “vantaggio” di
una semplice responsabilità tecnica (misuratore, montatore, presentatore…). L’antico maestro
universale delega frequentemente il suo potere a diversi agenti di maestranza, ai responsabili delle
differenti componenti dello spettacolo (suono, luci, musica, tecnologia, ecc.). Egli non raggruppa
né compone più nulla, ma si limita a giustapporre suoni, rumori, immagini, corpi»9. A ogni modo,
come vedremo, la relazione tradizionale di potere e gerarchia non è più possibile in questo nuovo
teatro «anti-semiotico», che Lyotard ha definito «energetico», così come non è più possibile il
dominio del regista o dell’autore, del drammaturgo, del coreografo, del performer, dello
scenografo ecc. Nel suo rimpianto per il vecchio, buon regista, Pavis insiste sul fatto che «questa
degerarchizzazione rende qualsiasi metatesto, qualsiasi commentario sull’insieme dei segni
illeggibile, o contraddittorio: nessuna veduta d’insieme, nessuna prospettiva generale sembra
ormai in misura di rendere conto della messa in scena. La differenza con la posizione classica è
che questa illeggibilità (o invisibilità) è definitiva: non si può più giudicare la messa in scena
secondo un commento chiaro e depositato in un metatesto facilmente leggibile»10.
Nella sua lagnatio contro l’eclissi della regia, nella tradizione migliore rappresentata da Copeau,
Stanislavskij e Mejerchol’d, Pavis sottolinea che nel “nuovo teatro” la messa in scena e l’idea
centrale dello spettacolo non sono più implicite, e che il meta-testo non è più discreto, ma
contraddittorio e illeggibile. Secondo Pavis, ciò apre a due possibilità: o la produzione di una
messa in scena concettuale così ovvia e leggibile da diventare una sorta di commentario critico della
produzione stessa, una pura riflessione intorno al suo status, o nell’altro caso una messa in scena
che non risulta coerente, ma frammentata e priva di un linguaggio unitario. Quale che sia la
strategia registica, per lo spettatore diviene complesso seguire tutte le operazioni comprese nella
percezione e interpretazione dello spettacolo. In questo caso neanche la teoria viene in soccorso,
e secondo Pavis, «il lettore come lo spettatore è introdotto durevolmente nell’opera del sospetto,
e del rifiuto teorico»11.
Ma è davvero così? A dispetto di simile pretese, a partire degli anni Sessanta, un nuovo genere di
regista teatrale ha preso forma, visibilità e forza, anche se non si tratta affatto di una figura
definita o con un nome preciso. Tuttavia, pur manifestandosi attraverso diverse modalità di
lavoro e differenti approcci drammaturgici, è ancora possibile tracciare alcune convergenze
rilevanti. Negli ultimi decenni alcune produzioni artistiche si sono imposte a partire dai temi che
affrontavano e degli individui che coinvolgevano in misura altrettanto significativa dell’intervento
registico stesso. Di conseguenza, in teatro si è verificato un profondo cambiamento e una
trasformazione: dal cosiddetto teatro di regia dello XX secolo al cosiddetto «teatro-senza-ilregista» (uso questo termine in assenza di una definizione migliore che inquadri questo nuovo
paradigma) dell’inizio dello XXI secolo. In questo senso, il mio testo intende discutere la
questione relativa all’assenza di un concetto riferito alle implicazioni estetiche, etiche, politiche,
economiche e teoretiche che questo fenomeno comporta. Le mie conclusioni si basano sulle
interviste che Valentina Valentini, Annalisa Sacchi e io abbiamo condotto con registi, coreografi,
artisti visuali e performativi, indipendentemente dal fatto che il loro lavoro appartenesse
propriamente alla categoria della regia teatrale, ma precisamente perché questo lavoro propone
con particolare intensità una critica agli elementi costitutivi della regia teatrale tradizionalmente
9 P. Pavis, L’analisi degli spettacoli: teatro, mimo, danza, teatro-danza, cinema, cit., p. 378.
10 Ibidem.
11 Ivi, p. 379. Qui dovrebbe essere notato che nonostante tutti i cambiamenti che sono accaduti negli ultimi decenni,
Pavis è rimasto a favore di un teatro della messa in scena estetica e soggetiva di un testo teatrale pre-esistente.
intesa. Gli elementi critici che vorrei evidenziare nel loro lavoro sono l’interdisciplinarità, la
radicalità estetica e/o politica, il concetto della non rappresentazione, il lavoro collaborativo e
collettivo, nuove maniere di recitare oppure agire, e diversi aspetti della relazione col pubblico.
Inoltre, il fatto che alcuni di questi artisti non sono veramente registi teatrali, né che si definiscono
tali, continua a qualificarli come personaggi pertinenti per questa ricerca, poiché essi hanno
sperimentato direttamente il lavoro di regia, che è metodologicamente diverso dalla regia
tradizionale. Il loro lavoro permette di astrarre la regia dai confini artificiali marcati tra le
discipline del teatro. E come conferma Paolo Rosa di Studio Azzurro, la regia teatrale è
totalmente cambiata nella nuova divisione del lavoro:
Abbiamo maturato in tanti anni di attività e di frequentazione di discipline diverse, spesso praticando i loro
confini, una naturalezza che ci permette di spaziare tra tecniche e ambiti differenti. Senza cambiare maschera, ma
conservando una coerenza di discorso e di poetica. Abituarsi alle differenze aiuta ad arricchirsi nel travaso che fai
da una all’altra. In questi ultimi anni abbiamo avuto varie occasioni per incontrarci con discipline scientifiche,
storiche e filosofiche attraverso cui sono maturate riflessioni più fertili di quanto normalmente mi sia capitato
nell’ambiente dell’arte. Tra tutte queste differenze si riescono a trovare linee d’uguali preoccupazioni, di simili
soluzioni, di pensieri in sintonia. Segni di una mutazione così ampia e radicale che investe tutti i punti di vista12.
La mia ipotesi principale è che tali questioni, inerenti l’attraversamento dei confini e un tipo più
sfumato di distribuzione dei ruoli si presentano in maniera marcata nella scena teatrale attuale e
in quella delle arti performative contemporanee, dove ogni competenza artistica eccede il campo
che dovrebbe esserle proprio in un continuo scambio di posti e di potere con tutte le altre. Di
conseguenza, nel processo di ricerca di una nuova definizione di regia teatrale, abbiamo
incontrato artisti che stanno sperimentando nuovi generi: produzioni teatrali basate sulla pura
improvvisazione (Forced Entertainment, Rene Pollesch, Rachide Ouramdame), danza con testo
(Constanza Macras, Jérôme Bel), installazione e performance al posto di lavori “plastici” (Studio
Azzuro), proiezioni video trasformate in cicli di affreschi (Bill Viola), immagini fotografiche e
dipinte che diventano figure viventi (Heiner Goebbels, Socìetas Raffaello Sanzio, Alvis
Hermanis) o sculture che si trasformano in show ipermediali (Goebbels) ecc. Rivolgerci alla regia
teatrale fuori dai limiti stabiliti del teatro ci consente di espandere la regia come un oggetto
privilegiato d’analisi negli studi teatrali e di sconfinare in altre discipline artistiche, come le arti
visive e la musica, e di ri-pensare nuove possibilità per la relazione tra artisti performativi e
spettatori.
Questi lavori dovrebbero condurre a una rinascita della Gesamtkunstwerk, non come apoteosi
dell’arte in quanto forma di vita organica, ma come diminuzione di certi ego artistici molto forti
che sono ora pronti a collaborare con gli altri su basi egalitarie. Ciò potrebbe condurre anche alla
formazione di un nuovo artista multimediale, che è in un stesso tempo scrittore, compositore,
regista, scenografo, coreografo, video artista, performer, oppure un produttore (nella definizione
che ne ha dato Walter Benjamin). Secondo Benjamin «solo il superamento di quelle competenze
nel processo della produzione spirituale che secondo la concezione borghese gli danno ordine,
rende questa produzione politicamente idonea; e le barriere di competenza devono essere
spezzate dall’unione delle due forze produttive che esse avevano il compito di dividere»13.
Ciò ci offre la possibilità di parlare del regista teatrale come un produttore che può scoprire la
“solidarietà con gli altri produttori” ovvero con creatori e artisti simili a lei/lui. Contro l’idea
della Gesamtkunstwerk sta quella di una semplice “ibridazione” dei mezzi dell’arte che si
inseriscono in una «nuova epoca di individualismo di massa» vista come un’epoca di scambio
incessante tra ruoli e identità, tra reale e virtuale, vita e protesi meccaniche ecc.
Lo scavalcare i confini e la confusione dei ruoli mette in discussione il privilegio teatrale della
presenza vivente e fa arretrare la scena verso un livello di eguaglianza dove le differenti forme di
12 V. Valentini, La vocazione plurale della regia. Conversazioni con Paolo Rosa, cit., CITAZIONE INTERNA
13 W. Benjamin, L’autore come produttore, in Id., Avanguardia e rivoluzione: saggi sulla letteratura, a cura di C. Cases, Einaudi,
Torino 1973, p. 52.
performance possono essere tradotte le une nelle altre partecipando della «massa incandescente
da cui sono gettate le nuove forme»14.
La regia chiaramente comporta una tensione tra un’immaginazione primaria che crea ex nihilo e
una immaginazione secondaria interpretativa e di intermediazione. Piuttosto che utilizzare questa
tensione per dimostrare che la regia teatrale sia un’arte o meno, preferisco intenderla come un
argomento centrale per comprendere il paradosso di un regista emancipato come contrappunto allo
spettatore emancipato proposto da Jacques Rancière15, ritengo che questa tensione creativainterpretativa tra il regista e lo spettatore sia fondamentale nelle nuove prassi di regia nel teatro e
nelle arti performative all’inizio del XXI secolo, in particolare nel caso degli artisti qui presentati.
Se conserviamo la verità dialettica di questa tensione, potremmo meglio intendere che il lavoro
del regista teatrale non è mai individuale, che lui o lei non è mai l’unico/a responsabile dell’intera
produzione, ma che è libero/a di compiere le scelte finali, e che non detiene più né un ruolo
paterno né di insegnamento, ma solo un ruolo preminente tra pari. Il regista si è rivolto verso
l’immaginazione degli altri, verso lo scambio d’idee e le decisioni condivise. In tal senso, l’autorità
di regista è diminuita nella sua indipendenza e nel suo potere ma è cresciuta in termini di
responsabilità e criticismo intellettuale, o per dirla più semplicemente, da un maestro autoritario
lui o lei è diventato/a un regista emancipato.
Di conseguenza, piuttosto che parlare di regista come di un «individuo privato incaricato da
un’istituzione teatrale di apporre la sua firma su un prodotto artistico»16, intendo riferirmi alla
regia o alla mise-en-scène come a una disciplina amorfa, complessa e difficile da definire. Secondo
Schechner la mise-en-scène è «tutto ciò che comprende quello che viene esperito dal pubblico»17:
creare questa esperienza significa comporre qualcosa di completo, che è poi ciò che può essere
considerato il compito principale del regista. In termini generali, la mise-en-scène può essere definita
come ciò che unisce, o mette a confronto, diversi sistemi di significato, in un tempo e in uno
spazio dato, per un certo pubblico. In tal senso, la definizione più pragmatica di mise-en-scène è
quella proposta da Brecht: «Ciò che si presenta di fronte allo spettatore è quello che è stato
ripetuto più frequentemente tra ciò che non è stato escluso»18.
La mise-en-scène di seguito verrà considerata come un’entità strutturata, un soggetto teorico o un
oggetto di conoscenza, una rete di relazioni e associazioni che unisce i materiali eterogenei della
scena in sistemi significanti creati sia nella produzione che nella ricezione. Infatti, la mise-en-scène
come sistema strutturale esiste solo in quanto viene recepita e ricostruita dallo spettatore. Ciò
non significa una ricostruzione delle intenzioni del regista, ma la comprensione da parte dello
spettatore di un sistema che viene elaborato da coloro che sono responsabili della produzione,
un sistema che, inoltre, segue i cambiamenti della società.
La pratica performativa contemporanea (almeno quella che qui sto analizzando) è nella maggior
parte dei casi non rappresentativa e fondamentalmente politica. In tal senso, questi artisti
possono venire considerati gli eredi reali della critica della rappresentazione che fu una delle
principali caratteristiche delle performance, del teatro e della danza dell’inizio del ventesimo
secolo, almeno nei casi del teatro dialettico di Brecht e del teatro della crudeltà di Artaud che,
come ha notato Derrida, non soltanto annunciavano i limiti della rappresentazione, ma
proponevano un nuovo sistema di critica che smuoveva l’intera storia del teatro occidentale. Ad
esempio, René Pollesch cerca incessantemente strategie individuali di teatro non rappresentativo:
Il teatro non è solo uno strumento che ci permette di criticare la società, è in sé stesso un luogo che necessita
14 Ibidem.
15 J. Rancière, Le spectateur émancipé, La Fabrique, Paris, 2008.
16 P. Pavis, Theatre at the Crossroads of Culture, Routledge, New York-London 1992, p. 25.
17 R. Schechner, Director, in Id., Environmental Theatre, cit., p. 290.
18 B. Brecht, Brecht on Theatre, Hill and Wang, New York 1978, p. 204.
uno sguardo critico. Coloro che vogliono esprimere le loro visioni critiche in scena non dovrebbero fare
alcuna eccezione per loro stessi. Abbiamo bisogno di un teatro dove poter mettere in discussione il nostro
stesso modo di intendere la vita e le condizioni di lavoro piuttosto che un qualche luogo neutrale dove ci è
permesso criticare tutto e tutti ad eccezione di noi stessi. Inoltre, credo che il teatro possa diventare un luogo
dove non dobbiamo riprodurre alcun consenso sociale al modo in cui i ruoli tradizionali vengono assegnati ai
sessi – in teatro non abbiamo bisogno di nessun modello di ruolo degli generi specifici né di alcuna
opposizione binaria che troviamo nella vita di tutti i giorni. Il teatro può diventare un luogo dove il dominio
eterosessuale della società è messo in discussione. Penso anche che sia un’area che non dovrebbe essere
analizzata da una prospettiva economica, che non dovrebbe cioè essere solo orientata al profitto19.
L’analisi di Pollesch sull’ontologia politica del teatro prende la forma di una critica sistematica
della partecipazione del teatro al più ampio progetto di rappresentazione dell’Occidente. Il teatro
non rappresentativo ci permette inoltre di riconciliare l’estetica e l’etica delle pratiche
performative contemporanee e contribuisce a fondare il concetto di inestetica come la definisce
Alain Badiou: «Per “inestetica” intendo un rapporto della filosofia con l’arte che, conscio del fatto
che l’arte è in sé produttrice di verità non pretende affatto di farne un oggetto della filosofia. Al
contrario della speculazione estetica l’inestetica descrive gli effetti strettamente intrafilosofici
prodotti dalle singole opere dell’arte»20. Di conseguenza, quando parliamo di queste nuove
pratiche della regia, non stiamo affrontando né un’anti-estetica né una non-estetica e neppure
una contro-estetica, ma proprio l’inestetica che indica, allo stesso tempo, qualcosa interno
all’estetica, così come la sua disattivazione e l’ingresso dell’etica. In tal senso, la figura di Bertolt
Brecht è della massima importanza per capire l’inestetica del cosiddetto “teatro-senza-il-regista” o le
pratiche contemporanee delle arti performative. Secondo Badiou la grandezza di Brecht consiste
essenzialmente nell’aver «caparbiamente perseguito le regole immanenti ad un’arte platonica
(didattica)», invece di accontentarsi, come lo stesso Platone, di classificare le arti esistenti in
buone e cattive («meriti e demeriti»)21. Il teatro «non aristotelico» (ma neppure classico e
platonico) è un’invenzione artistica di Brecht di «primo calibro» (Badiou) all’interno
dell’elemento riflessivo della subordinazione delle arti alla società: «Brecht non ha fatto altro che
rendere teatralmente attive le ingiunzioni anti-teatrali di Platone. E l’ha fatto centrando l’arte
sulle forme possibili di soggettivazione di una verità esteriore»22.
L’importanza della dimensione epica nella performance origina da questo programma. Esso
rappresenta il coraggio della verità. Per Brecht l’arte non produce nessuna verità, ma piuttosto una
delucidazione sulle condizioni per il coraggio della verità. «L’arte è allora – se ben sorvegliata – una
terapia contro la vigliaccheria. Ma non contro la vigliaccheria in generale: contro la vigliaccheria
nei confronti della verità»23. In questa prospettiva, il teatro contemporaneo e le arti performative
sono le più prossime alla “verità estrinseca”. Poiché, come sostiene Badiou, se la verità su ciò di
cui l’arte è capace viene dall’esterno, e se l’arte è la didattica dei sensi, allora ne deriva che la
“buona” essenza dell’arte è contenuta nei suoi effetti pubblici, e non nell’opera d’arte in sé.
Dunque, in quanto maestro di spettacolo, il regista (o un leader di un gruppo, o un produttore) è
colui che controlla e regola gli effetti dell’apparenza, effetti che a loro volta sono regolati dalla
verità estrinseca.
Nel tentativo di spiegare la relazione tra la filosofia e arte, Badiou distingue tre schemi
fondamentali: didatticismo (l’arte è incapace di verità e ogni verità resta esteriore), romanticismo
(solo l’arte è capace di verità, in quanto porta a compimento ciò che la filosofia si deve contentare
19 P. Gruszczunski, Ambivalence, intervju saRené Pollesch, in «TR Warszawa», 2008, consultabile online all’indirizzo:
www.trwarszawa.pl/en.
20 A. Badiou, Petit manuel d’inesthétique [1998], trad. it. Inestetica, a cura di L. Boni, Mimesis, Milano 2007, p. 10.
21 Ivi, p. 28.
22 Ibidem.
23 Ibidem. Secondo Badiou è per questo che la figura di Galileo si rivela centrale, e la pièce omonima resta il
capolavoro tormentato di Brecht; quello che gira e rigira intorno al paradosso di un epopea interiore della esteriorità
del vero.
d’indicare), e infine il classicismo (tra la messa al bando dialettica e la glorificazione romantica
c’era un’intera epoca di pace relativa tra l’arte e la filosofia.) Aristotele, in quest’ottica, ha siglato
una sorta di trattato di pace tra arte e filosofia. Il dispositivo classico, nella sua versione
aristotelica, comporta essenzialmente due tesi: la vera natura dell’arte è mimetica e terapeutica,
niente affatto cognitiva e rivelatoria. «L’arte non appartiene alla teoria, ma all’etica (nel senso più
largo del termine). Quindi la sua norma è l’utilità dei suoi effetti sulle affezioni dell’anima»24.
Secondo Badiou, il XX secolo, non avendo introdotto nessuna modificazione alle dottrine
fondamentali sull’articolazione tra arte e filosofia, ne ha tuttavia sperimentato la saturazione. «La
saturazione di tutti e tre gli schemi disponibili tende oggi a produrre una sorta di disarticolazione
tra i termini, un de-rapporto disperato tra l’arte e la filosofia e il declino puro e semplice del tema
che le rilegava: il tema dell’educazione»25. Se la norma dell’arte è l’educazione, e la norma
dell’educazione è la filosofia, allora si dovrebbe proporre un nuovo schema, un’altra modalità del
legame tra arte e verità. «Sembra quindi difficile conciliare il desiderio di proporre uno schema
dell’articolazione filosofia/arte che non sia né classico, né didattico, né romantico con il
mantenimento dell’opera quale unità pertinente ad un’analisi dell’arte a partire dalle verità di cui
essa è capace»26.
Badiou propone allora una configurazione artistica inaugurata a partire da una rottura
evenemenziale (che rende in generale obsoleta la configurazione precedente). Una
configurazione siffatta è un multiplo generico (un multiple générique ) che non ha né nome proprio
né contorno definito, e che sfugge persino a ogni tentativo di totalizzazione sotto un solo
predicato, perché non si può mai darne conto in maniera esaustiva, ma solo descriverla in modo
imperfetto. «Si tratta infatti di verità artistiche, e si sa che non esiste la verità di una verità.
Bisogna allora contentarsi di concetti astratti (figurazione, tonalità, tragedia, etc.)»27.
Il mio punto di vista è che il teatro e le arti performative contemporanee richiamano il concetto
aristotelico che vede nel teatro un sito e uno strumento di primaria importanza per il pensiero e il
sapere. Aristotele definisce il teatro come un’attività filosofica più della storia, poiché esso non
ripete semplicemente qualcosa, ma mostra ciò che accade regolarmente secondo il logos della
necessità e della probabilità. Questo intreccio tra teatro e filosofia persiste nel tempo in modi
differenti, ed è importante oggi per comprendere cosa sia il “teatro-senza-il-regista” e la sua
inestetica. Piuttosto che avvicinarsi alla filosofia, questo nuovo teatro diviene una sorta d’utopia
per il pensiero: «Prova dello “com’è”, una visione delle relazioni della vita e delle questioni
essenziali dell’esistenza, una visione che rimane – nel suo illuminante e commovente potere – più
o meno vicina al discorso dei pensieri»28. Il teatro contemporaneo e le arti performative seguono
Aristotele nel considerare il teatro come una forma di visione, del genere del logos o quasi un logos:
si potrebbe dire un’«attività paralogica del pensare»29.
Una delle promesse di questo scritto è l’idea che la filosofia e la teoria da una parte e il teatro
dall’altra sono a un tempo intrecciate e opposte nel discorso europeo da un’affinità che è
turbolenta così come insistente. La teoria e il teatro sono due esperienze o pratiche ovviamente
differenti, ma al tempo stesso intimamente connesse. «Entrambe dipendono, per sviluppare un
punto, dall’autorità e dal valore di un genere di visione o “prospettiva”: qui la manifestazione
delle idee, la “nozione” di pensiero, là, l’apparentemente incontrovertibile presenza sensoriale, la
manifestazione irriproducibile di un ‘mondo’ rappresentato per mezzo del palco»30.
24 Ivi, p. 26.
25 Ivi, p. 29.
26 Ivi, p. 33.
27 Ivi, p. 34.
28 H-Th. Lehmann, Theory in Theatre: Observation on an Old Question, in Aa.Vv., Rimini Protokoll, edited by M. Dreyesse,
F.n Malzacher, Alexandar Verlag Berlin, Berlin 2008, p. 152.
29 Ibidem.
30 Ibidem.
Oltre a ciò, l’intero pensiero contemporaneo sul teatro continua a interrogarsi su quale sia la sua
vera essenza, introdotta dalle avanguardie storiche. Nuove configurazioni artistiche prodotte
dalle avanguardie storiche, come la musica dodecafonica, la rottura con la figurazione o l’uso di
assemblaggi e di montaggi, persistono oltre le avanguardie che sono scomparse. Tuttavia, il
linguaggio specifico e peculiare del teatro non è stato determinato. Al contrario, e nell’ipotesi
migliore, il teatro può essere definito solo come un assemblaggio, un assemblaggio di
componenti disparate, sia materiali che ideali, la cui esistenza risiede esclusivamente nella
performance, nell’atto della rappresentazione teatrale. Queste componenti disparate (i performer, lo
spazio, il décor, la luce, il suono, il pubblico), sono unite in un evento, una performance, o come
direbbe Badiou in una rappresentazione. Non importa quante volte essa venga ripetuta: ogni
performance è un evento unico e diviene un «evento del pensiero». Ciò significa, secondo
Badiou, che l’assemblaggio di componenti produce direttamente idee, che egli definisce ideeteatro. Ciò significa anche che esse non possono essere prodotte con nessun altro mezzo, né in
nessun altro luogo. E che nessuna delle componenti usate separatamente può suscitare ideeteatro, neppure il testo della performance. «L’idea esiste solo all’interno e in virtù della
rappresentazione, irriducibilmente teatrale, non preesiste affatto alla propria venuta “in scena”»31.
Secondo Badiou l’idea-teatro giunge solo nel (breve) tempo della sua performance, la quale è
rappresentazione. «L’idea-teatro, come pubblica chiarificazione della storia e della vita, non è che
il risultato ultimo di tutto un processo artistico»32.
Inoltre il teatro è un esperimento, allo stesso tempo testuale e materiale, di semplificazione. Ma
sarebbe del tutto errato ritenere che il pervenire alla semplicità sia a sua volta qualcosa di
semplice. Al contrario, separare e semplificare il groviglio della vita comporta l’utilizzo dei più
disparati mezzi artistici. Senza dubbio l’arte del teatro è l’unica arte cui incomba di completare la
perdita dell’eternità con i mezzi dell’istantaneità. «Il teatro va dall’eternità al tempo, non nel senso
opposto. È dunque necessario capire che la rappresentazione teatrale che governa le componenti
del teatro (fino al punto in cui può, poiché esse sono estremamente eterogenee) non è
un’interpretazione, come viene comunemente ritenuto. L’atto teatrale è un singolo completamento
dell’idea»33. Di conseguenza, ogni performance o rappresentazione è un completamento possibile
ma temporaneo di questa idea. Quando parla dei suoi lavori, Romeo Castellucci sostiene che
esistano due tipi di tempo sui quali è possibile lavorare, uno è il tempo reale – più precisamente,
un tempo passato che continua a passare, mentre l’altro è il presente della scena:
Il tempo del palcoscenico non è di questo mondo. È il tempo della folgore di cui parla Eraclito, come quello di
una preveggenza in tempo reale. Lo snodo temporale del teatro in generale è quello, fattuale, della promessa ora.
Non c’è niente dopo. Non c’è niente prima. È un istante che sfonda il tempo presente di questo mondo che
sospende ma al tempo stesso annuncia. Si viaggia nella Storia come fa il parassita nelle vene dell’animale
ospitante: non sa niente di lui34.
Come sostiene Badiou, il teatro è sempre il completamento di un’idea eterna coi mezzi di una
possibilità parzialmente governata. Una produzione teatrale o una messa in scena è spesso un
processo ragionato di possibilità. L’arte del teatro risiede in una scelta, che da una parte può
essere molto informata (il lavoro del regista) e dall’altra pregna di possibilità (lo spettatore, che
completa l’idea). Di conseguenza, nessuno può ignorare il fatto che, a seconda del pubblico di
fronte cui si manifesta, può avvenire che l’atto teatrale rechi con sé o meno l’idea-teatro, che la
completi o meno.
31 A. Badiou, Inestetica, cit., p. 95.
32 Ibidem.
33 Ivi, p. 96. Sotto l’inestricabile della vita, Badiou attiene essenzialmente a due cose: il desiderio che circola tra i
sessi, e le figure, esaltanti o mortifere, del potere politico e sociale. Sono queste le basi sulle quali sono sempre
esistite, ed esistono tuttora, la tragedia e la commedia.
34 A. Sacchi, L’estetica è tutto. Conversazione con Romeo Castellucci, CITAZIONE INTERNA
II
La maggior parte dei lavori qui menzionati appartiene a quella che Richard Schechner ha definito
l’avanguardia corrente, che non offre alcuna sorpresa in termini di tecniche, temi, interazione col
pubblico o altro, ma che è diventata uno stile, un genere, un modo di lavorare, piuttosto che un
presagio. A differenza di alcuni esempi storici, l’avanguardia corrente non è un “mainstream”, ma
semplicemente un insieme di opzioni svuotate dal fervore dei loro impulsi originari. I
rappresentanti dell’avanguardia corrente sono generalmente virtuosistici nella padronanza delle
tecniche che sono state sperimentali per l’avanguardia classica.
Secondo Schechner questa padronanza, associata a una seconda e a una terza generazione di
artisti che lavorano nella stessa direzione, è quello che rende questa attuale avanguardia classica.
Nel tempo, l’avanguardia storica si è trasformata nell’avanguardia corrente: quello che in passato
costituiva le attività radicali della sperimentazione artistica, politica, e degli stili di vita è diventato
un inventario di alternative aperte alle persone che desiderano praticare o assistere a diversi tipi
di arte teatrale35. Dunque, piuttosto che optare per una teoria di «teatro-senza-il-regista», sto
disegnando l’ipotesi su uno schema teorico creato da Richard Schechner all’inizio degli anni
settanta, per catturare il processo della mise-en-scène nella neo-avanguardia americana, in
particolare perché la «divisione arbitraria» di Schechner è risultata utile sia per la teoria che per la
pratica dell’avanguardia corrente delle arti performative36.
1. Workshop
Eredità dell’avanguardia euro-americana degli anni Sessanta, il workshop offre diverse possibilità al
di fuori della produzione teatrale classica. Possibilità come la ricerca, lo scambio di lavoro e idee,
così come una certa attenzione al processo piuttosto che alla produzione teatrale. Ma, mentre nel
corso degli anni Sessanta esso serviva principalmente come uno strumento di comunicazione e di
educazione fuori dall’accademia regolare e dai teatri, e aveva un ruolo secondario rispetto alla
produzione, oggi il workshop è diventato se non il più utilizzato, certamente la più apprezzata
pratica di molte compagnie che presentano il loro lavoro in forma di workshop o di work-in-progress.
Il lavoro non è mai considerato completo, neanche quando raggiunge il suo pubblico: al
contrario, esso diventa un’opera d’arte aperta. (si veda il lavoro di Studio Azzuro, Rimini
Protokoll, Forced Entertainment e Árpád Schilling). Ad esempio, indipendentemente da quanto i
Rimini Protokoll possano lavorare liberamente sui materiali documentari, le loro opere
richiedono vaste ricerche e soprattutto lunghe discussioni con esperti, gran parte delle quali non
finiscono in scena. Questo materiale aggiuntivo a volte viene accolto direttamente nelle
performance come videoclip o citazione nei testi. A volte ciò serve al regista per ricavarne il
senso di come un particolare tema debba venir sviluppato. Ad ogni modo, la cosa riguarda più il
fatto di valutare un potenziale, di essere catturati da una storia, di tessere dei fili piuttosto che
comporre una trama coerente o semplicemente riferirsi a un certo tema37. Árpád Schilling e il suo
gruppo Krétakör, ad esempio, conducono una sperimentazione in forma di workshop, progetti
di ricerca e happening nelle scuole e in diverse istituzioni non teatrali.
2. Introduzione a un’azione o a un testo
Quando si riferisce a questa parte del lavoro, Schechner ha sempre in mente un testo scritto –
35 R. Schechner, Five avant-gards or…none, in The Twentieth Century Performance Reader, edited by M. Huxley, N. Witts,
Routledge, London-New York 2002, p. 345.
36 R. Schechner, Director, in Id., Environmental Theatre, cit.
37 Per un’ampia descrizione del metodo di lavoro dei Rimini Protokoll, cfr. F. Malzacher, Dramaturgies of Care and
Insecurity: The Story of Rimini Protokoll, in Aa.Vv., Rimini Protokoll, cit., pp. 14-46.
proveniente da una o più opere drammatiche sia contemporanee che classiche – che può essere
decostruito e combinato con altri testi, ma che rimane sempre il punto di partenza. Tuttavia,
nelle arti performative contemporanee non è presente alcun testo: un regista e il suo gruppo
partono da una frase, da un’idea, un concetto, un evento storico, un performer, un’immagine, o
un semplice titolo38. Ad esempio, la coreografa e regista Costanza Macras inizia a lavorare
sempre da un concetto, una visione che può essere completata solo con i suoi collaboratori.
Macras ha preparato il suo Big in Bombay (2005) a lungo:
È partito tutto da una sala d’aspetto a forma di cubo di vetro e da ciò che avviene quando le persone sono
costrette ad aspettare un treno e/o un bus a lungo. Ho anche pensato alla struttura drammatica dei film di
Bollywood, perché hanno una lunga durata e sono divisi in due parti, delle quali la prima è composta di molti
pezzi musicali, di danza e di canzoni, mentre solo nella seconda parte inizia il dramma vero, e può diventare assai
triste. Ho anche pensato alla manipolazione dell’industria dell’intrattenimento nei paesi del terzo mondo. Avevo
insomma un’idea molto precisa di cosa volevo e ho lavorato a qualcosa che può essere definito un processo
aperto. Allo stesso tempo ho lavorato col compositore così come con gli attori e i danzatori ai quali avevo
assegnato specifici ruoli in anticipo, così che potessero svilupparli e lavorare su materiali individuali39.
L’impegno maggiore nel produrre un’opera scenica è quello di condurre il lavoro collaborativo
verso una forma finale che abbia senso. Ovviamente, ci sono numerose divergenze tra le diverse
idee e la loro esecuzione, e il regista/coreografo diventa una sorta di mediatore, una persona che
coordina le varie idee e si prende cura del gruppo: «Quello che faccio è spingere i performer e gli
altri collaboratori a eseguire nel miglior modo possibile le loro idee. Così, osservo veramente da
vicino le persone mentre assegno i ruoli, do loro i testi che gli si addicono, e poi insieme
sviluppiamo testi e idee»40.
In genere il testo della performance, nei lavori di Macras, proviene da fonti differenti, cultura
popolare, articoli di giornale, monologhi politici:
Per esempio in Big in Bombay ho usato un lungo discorso politico argentino. Al tempo stesso, ho inserito un
maestro di danza di Bollywood e gli attori e i danzatori hanno fatto un lavoro sulla voce. Le prove per questa
produzione in particolare sono durate quattro mesi, e prima ho lavorato per alcuni mesi sulle idee di base, ad
esempio su chi sono le persone reali che lavorano nell’industria dell’intrattenimento. Con i miei collaboratori
abbiamo anche guardato molti film perché ci ispirassero, un’intera filmografia di lavori relativi al mio lavoro
attuale. Ovviamente ho un drammaturgo che siede accanto a me nelle prove e “pulisce” e perfeziona i testi usati,
oltre ad aiutarmi a fare chiarezza nella mia regia. Alla fine, arriviamo allo script della performance, poiché tutto il
processo è stato documentato e ripreso. Mi piace improvvisare molto, perché da questo vengono fuori molte
buone cose. Ci sono sempre due momenti che sono fantastici nell’improvvisazione, la prima volta che la fai e il
momento in cui uno è davvero stanco dopo averla ripetuta più e più volte, che è al tempo stesso il momento in
cui si è più onesti col proprio lavoro41.
Secondo Schechner lavorare sulla mise-en-scène non è un processo graduale come «il trascorrere dei
colori nell’arcobaleno»42, ma si sviluppa attraverso scoperte innovative, periodi di apparente stallo
sconvolti dall’esplosione di una scoperta, periodi tranquilli che preparano l’avvento di
cambiamenti drammatici. Una performance passa per molte trasformazioni prima di essere finita,
e quando è finita non vale più la pena presentarla. Pertanto, piuttosto che essere un’idea sorta
nella mente del regista, il processo del fare teatro diventa un processo di ricerca di un testo e
forse più precisamente del comporre un testo della produzione, più che la sua interpretazione. Il
testo può certamente essere, in molti casi, il cosiddetto performance text (come viene definito da
Schechner) oppure testo spettacolare (Marco De Marinis), che può anche essere il prodotto finale,
documentato solo dopo la produzione, o può essere qualsiasi altro testo, inclusa un’opera
drammatica. Secondo Cesare Ronconi, nel lavoro della Valdoca «L’attore è una lapide. E il corpo
38 A. Sacchi, L’estetica è tutto. Conversazione con Romeo Castellucci, CITAZIONE INTERNA
39 A. Jovićević, Intervista inedita con Constanza Macras, Belgrado, 24/09/2008.
40 Ibidem.
41 Ibidem.
42 R. Schechner, Director, in Id., Environmental Theatre, cit., p. 290.
stesso diventa parola. Il testo diviene ciò che è tatuato sul corpo»43.
Mentre per Schechner un fattore determinante in questa fase non è tematico ma temporale,
perché la associazioni emergono non seguendo delle categorie ma nella coesistenza temporale, e i
collegamenti tematici sono composti solo in seguito, nel teatro contemporaneo è piuttosto
l’opposto, il fattore determinante è sempre tematico. Quando inizia a lavorare a una produzione
René Pollesch parte sempre da diversi testi teorici. Nel suo lavoro come drammaturgo, Pollesch
esplora spesso le diverse facce del capitalismo neo-liberale seguendo il motto: I don’t want to live it
(Non lo voglio vivere). Per il lavoro Pablo in der Plusfiliale (2004) che sembrava prodotto dall’estetica
dei videoclip, delle tele-novele, di vari testi tra il teorico e il trash, dal web e dalla pubblicità,
basato sul look lurido degli anni settanta e con l’epocale sound melodico a sostenere grossi
blocchi di testo, Pollesch ha utilizzato testi teorici di diversi esperti economisti, come Learning
from Lagos di Jochen Becker (2003), relativi al depauperamento e al brutale sfruttamento dei paesi
Terzi e delle loro economie grigie. Questo tuttavia è stato solo il punto d’inizio, perché le prove
sono diventate un’estensione di queste teorie e il loro linguaggio è stato usato in numerosi
dialoghi come improvvisazione degli attori nella forma del brainstorming.
Il linguaggio teorico dell’economia in questo lavoro appare de-familiarizzato in modo
paradossale come soliloquio dei personaggi. Nel processo, come in tutte le produzioni di
Pollesch, non c’è storia né soggetto e neppure la possibilità di una identificazione.
I personaggi di Pollesch diventano oggetti di un capitalizzazione a tutto campo, interfacce
multiple e visualizzazioni sociali. Distribuendo il gergo della tecnologia e del neo-liberismo, essi
parlano delle loro esistenze come fosse la cosa più ovvia del mondo. Durante le prove, ma anche
quando il lavoro apre al pubblico, non ci sono personaggi fissi, generi e identità44. I performer
nei lavori di Pollesch non sono meri interpreti delle sue idee, ma dibattono e interpretano le loro
stesse idee45. Così, nel lavorare in questo senso, gli attori accettano un certo rischio, perché non
sanno mai come il pubblico interpreterà la loro performance, e come finirà la serata46.
3. Il progetto (piuttosto che la produzione)
Per Schechner questa fase segna approssimativamente la fine del lavoro su una determinata
produzione. Viene lanciato un progetto su cui si depositano alcuni interessi che formano una
base che tiene insieme alcuni elementi e ne esclude altri, mentre i temi, i movimenti, l’ambiente,
la musica e la caratterizzazione convergono. Tuttavia, nelle arti performative contemporanee
questa fase può avvenire molto presto, così che l’intero gruppo artistico può partecipare alla
successiva ricerca. Oltre ai workshop e all’improvvisazione, questo può avvenire attraverso degli
incontri sulla mise-en-scène, che continuano per tutto il tempo della preparazione e rappresentano
una parte intellettuale del lavoro di argomentazione. Come descritto da Schechner, nel teatro di
gruppo tutte le persone coinvolte incontrano il regista per discutere, analizzare e scambiarsi idee,
opinioni, sentimenti e suggestioni. Nel lavoro dei Rimini Protokoll e dei Forced Enterteinment,
operare come collettivo non è sempre semplice, soprattutto perché la forza deriva dalle
differenze del gruppo e non dalle loro somiglianze. «Ci dobbiamo riscoprire da capo ogni
43 A. Pirillo, «Comporre in scena è come stare dentro una partitura musicale». Intervista a Cesare Ronconi, CITAZIONE
INTERNA
44 Nello suo spettacolo, Hallo Hotel (2004) Pollesch ha usato i testi di Giorgio Agamben senza nessun cambiamento
nella forma del discorso amoroso tra le due donne.
45 “Anche gli autori che cito nelle mie opere sono persuasi che le loro opere diventano più importanti cosi
presentate sul palcoscenico, perché il teatro è più soggettivo. Nel teatro dobbiamo provare a implementare queste
teorie. Il nostro teatro non le migliora, ma mostra che hanno qualcosa a che fare con le nostre vite.” René Pollesch,
Catalogo del Festival BITEF, Belgrado 2005).
46 Si veda anche il lavoro di Tim Etchells e di Rachide Ouramdame per l’importanza dell’improvvisazione.
volta»47.
Per iniziare, lo script gira tra i vari membri del gruppo o del team del regista, obiezioni e
cambiamenti avvengono durante lunghe discussioni, prima e dopo le prove. Come ha notato
Paolo Rosa: «Lavorando in un gruppo, la prima necessità è quella di condividere una
progettazione con altri. Posso avere io l’idea, posso sviluppare i primi passi del progetto, ma
immediatamente devo mettermi nell’attitudine di condividere il percorso con gli altri
relazionandolo a questa atmosfera creativa che è propria di Studio Azzurro»48.
4. Lo spazio della performance, i ruoli
Lo spazio per la performance è chiaramente sempre pre-stabilito e trovarlo precede l’intero
lavoro, divenendo anche l’elemento di integrazione dell’intero corpo della performance. Heiner
Goebbels, Romeo Castellucci, Studio Azzurro, Rimini Protokoll, Árpád Schilling, Bill Viola,
Jérôme Bel, Constanza Macras, sono tutti alla ricerca di una molteplicità di spazi
teatrali/performativi, specialmente per le produzioni che non hanno luogo in edifici teatrali.
Questi spazi divengono una sorta di narrazioni che servono come premessa alla produzione che
li trasformerà in spazi performativi, ri-creando la loro identità. I Rimini Protokoll hanno messo
in scena un’opera sulla bancarotta della compagnia aerea belga, Sabenation. Go Home and Follow the
News (2004) a Bruxelles, nell’edificio che in precedenza era stato un simbolo del successo della
compagnia. Anche nel caso di opere messe in scena in edifici teatrali classici, questi spazi
diventano parte del contesto della performance, e le loro peculiarità divengono fattori costitutivi,
oltre ad essere un punto di partenza e caratterizzante la struttura della produzione. Secondo
Paolo Rosa, gli ambienti video di Studio Azzurro, e ancor di più gli ambienti sensibili, hanno una
forte relazione con lo spazio che li ospita:
Ogni volta che vengono riproposti occorre rigenerare il dialogo con l’ambiente e magari anche le modalità di
relazione con il territorio. Diverso è fare una cosa in Cina piuttosto che in Marocco o negli U.S.A. Del resto se
pretendi di invitare uno spettatore “dentro” un’opera, è chiaro che devi creare delle condizioni perché questo
avvenga. Il fruitore deve potersi riconoscere nell’ambiente attraverso una narrazione aperta e processuale.
L’opera che può essere “toccabile” e non “intoccabile” tende a trasformarsi in relazione ad altri elementi dal
carattere partecipativo49.
Il nuovo teatro ambientale (site specific theatre) sta alterando le prospettive tradizionali e il
posizionamento degli spettatori, cancellando la classica gerarchia tra i membri della performance
e quelli del pubblico così come la relazione tra l’agire e il guardare. Quando i performer
condividono lo spazio col pubblico, il centro della performance diventa flessibile e variabile.
Ogni elemento della produzione parla per se stesso, e nessuno è necessariamente subordinato
agli altri50. Per esempio la performance dei Rimini Protokoll Cargo Sofia (2006) è stata messa in
scena in un camion con quarantasette posti predisposti per gli spettatori, mentre la parete di
fondo era stata sostituita da una vetrata che serviva anche come schermo di proiezione. Il
pubblico veniva condotto all’interno del camion per luoghi differenti, mentre due viaggi
andavano sovrapponendosi: il viaggio reale della durata di due ore per la città dove la
performance aveva luogo, visibile attraverso la vetrata, e il viaggio immaginario da Sofia alla
Germania proiettato sullo schermo. Dalla cabina di guida i due veri camionisti bulgari a volte
commentavano attraverso un microfono il loro viaggio da Sofia a Berlino, un viaggio che in
genere dura circa quattro giorni e che intanto veniva proiettato in video. Di conseguenza, spazi
transitori venivano trasformati nel tema di una produzione site-specific. E secondo Romeo
47 H. Haug in F. Malzacher, Dramaturgies of Care and Insecurity: The story of Rimini Protokoll, cit., p. 21.
48 V. Valentini, La vocazione plurale della regia. Conversazioni con Paolo Rosa, cit., CITAZIONE INTERNA
49 Ibidem.
50 R. Schechner, Six Axioms for the Environmental Theatre, in «The Drama Review», 12, 3, 1968.
Castellucci, se lo spazio parla, parla come una persona.
Per quanto attiene la questione dei ruoli nella performance, Schechner sta considerando questa
parte del lavoro come un momento di profonda crisi e di incertezza nella produzione, poiché
sono tutti consapevoli del terribile divario che si apre tra quello che la performance avrebbe
dovuto essere e quello che effettivamente diventa. Teorici e critici teatrali hanno definito i lavori
dei Rimini Protokoll come dei «ready made teatrali». In ogni caso, anche questi performer passano
attraverso precisi preparativi e trasformazioni. La cornice degli spettacoli e il fatto di lavorare con
un team artistico professionale conferisce loro un certo grado di sicurezza precedente all’andare
in scena di fronte al pubblico. Nei loro lavori è evidente che le azioni compiute in scena sono
strettamente formalizzate, «così, piuttosto che produrre un’impressione di spontaneità le azioni
appaiono come l’esecuzione calcolata di una sequenza già provata, che rivela la struttura formale
creata dal team di regia»51.
A un certo punto i performer, che non sono attori ma esperti e professionisti di campi diversi
(assistenti di volo, camionisti, scienziati, operatori telefonici, etc.) arrivano a un grado di
allenamento tale da acquisire la sicurezza necessaria a costruire il loro ruolo e interpretarlo in
scena, affermandosi così nel sistema teatrale. La maggior parte dei testi delle performance dei
Rimini Protokoll nascono da un processo di discussione e di ascolto. Prima e durante le prove,
questo materiale grezzo è composto in una forma che va fatta sempre più profondamente aderire
alla realtà del performer. Ciò che risulta fondamentale è stabilire come debbano essere
pronunciati e cosa si debba provare nel dire dei testi che una volta sono appartenuti ai
performer, e da cui essi hanno preso le distanze, raffinandoli e restituendoli sulla scena. I testi
finali rappresentano la riconciliazione tra ciò che i performer sono disposti a dire con quello che
sono in grado di dire. Una delle caratteristiche peculiari del lavoro dei Rimini Protokoll è che non
dipende mai né dal repertorio di materiale già esistente e modificabile, né da una produzione
drammatica recente, e che, a differenza dei reality show, i Rimini Protokoll non mettono in scena i
performer in uno stato di crisi, ma quando sono calmi e centrati. Inoltre, non nascondono il fatto
che in scena l’autenticità del performer è semplicemente un ruolo. Una performance dei Rimini
Protokoll non è mai perfetta, né potrebbe esserlo.
Una simile nozione di ready made performativo può essere rintracciata nell’opera di Romeo
Castellucci. Ad esempio nel suo lavoro sulla Divina Commedia (2008), nel caso di Inferno,
Castellucci non ha selezionato i performer per le loro capacità attoriali, ma per il loro aspetto e
per la maniera in cui camminavano, perché «in realtà stiamo parlando di un unico personaggio
esploso e che pervade tutto il palcoscenico. Il compito degli attori è quello di mescolarsi in
mezzo ai settanta figuranti, non di emergere, devono garantire il principio del movimento, il
ritmo, il corpo denso e sostanziale dello spettacolo»52.
Nel Purgatorio, invece, Castellucci ha selezionato gli attori come si trattasse di un film, ovvero per
le loro capacità psicologiche. Dovevano essere bravi attori per ricostruire lo stato di qualcuno
che non deve fare nulla per tutto il giorno: «La psicologia e la solitudine dei pomeriggi
domenicali – per intenderci; per il Purgatorio avevo bisogno di questo quadro umano. Ma prima di
scegliere gli attori avevo già in mente lo spettacolo. L’intuizione nella concezione del Purgatorio è
stata una, al contrario di Inferno che è una corona di piccoli eventi e di movimenti. […] Gli attori
devono rivestire dei ruoli che tutti conoscono, ma lo devono fare con uno spessore invisibile»53.
In caso di Paradiso, la selezione degli attori era molto più severa ma onesta perché era dichiarato
apertamente che Castellucci aveva bisogno degli attori con speciali fisicità: «Bisognava sapersi
51 J. Roselt, Making an Appearance, in Aa.Vv., Rimini Protokoll, cit., p. 60.
52 A. Sacchi, L’estetica è tutto. Conversazione con Romeo Castellucci, CITAZIONE INTERNA
53 Ibidem.
muovere e tenere la posizione. Bisogna crederci, in continuazione. Reggere il proprio corpo
sbalzato nello spazio buio e reggere ogni singolo corpo degli spettatori, che in quel caso
diventavano gli agenti»54.
Eugenio Barba ha osservato che i modi in cui gli individui usano il corpo nella vita quotidiana è
sostanzialmente differente dai modi in cui il corpo viene usato in situazioni performative. Nella
vita quotidiana usiamo tecniche corporee che sono condizionate dalla nostra cultura, status
sociale, professione o, come direbbe Schechner, dal «restauro del comportamento» (restoration of
behavioir). In una situazione performativa, invece, l’uso del corpo è completamente differente. È
dunque possibile operare una distinzione tra tecniche quotidiane ed extra-quotidiane55.
Inoltre, nelle arti performative contemporanee, tali tecniche extra-quotidiane sono associate alle
nuove tecnologie. Parlando dei corpi dei performer in scena Rachide Ouramdame non pensa
semplicemente a dei corpi in scena. Piuttosto, si riferisce a dei corpi-scena, che hanno la capacità
di essere in armonia coi differenti elementi del contesto. In ciò, la tecnologia gli viene in
soccorso per costruire i corpi degli interpreti.
Questi dispositivi mi consentono di costruire una dispersione del sé, della persona in scena. Significa riuscire a
mettere a soqquadro i segni che l’altro riconosce immediatamente in me così da far risuonare gli strati più
profondi connessi al mio immaginario e alla mia psicologia. L’uso scenico che faccio della tecnologia consiste
nel creare delle forme d’interiorità e d’intimità rivelate a me e al pubblico per mezzo d’immagini. Queste ultime,
per me, rappresentano il sacrificio del corpo che mi è dato a vedere. Il corpo come forma data e allo stesso
tempo la sua riconfigurazione. Il corpo esploso nello spazio56.
Nell’analizzare le pratiche performative di auto-presentazione dei Rimini Protokoll un aspetto
dell’azione scenica viene in primo piano, un aspetto che è solo indirettamente presente nel teatro
professionale: recitare è un’attività non solo estetica ma anche etica. Confrontarsi con i propri
materiali biografici di fronte a un pubblico manifesta la relazione individuale di ciascun
performer con lo spettacolo. Perciò, il processo del recitare crea momenti di vergogna e paura,
momenti di gioia, sforzo e frustrazione. Sebbene i performer agiscano all’interno di una cornice
chiaramente delineata e riconoscibile, essi non sembrano semplicemente realizzare le intenzioni
del regista: Piuttosto, le loro imperfezioni agiscono come una barriera tra i creatori e il pubblico e
in ciò contribuiscono all’idea che i performer siano responsabili delle loro proprie azioni.
5. Organizzazione
Questo è il momento, secondo Schechner, quando la produzione sta per essere inaugurata e
tutto l’apparato promozionale (dalla pubblicità ai manifesti) viene messo in moto, ma è anche il
momento in cui il testo prende la sua forma finale, le scene acquistano senso, una sequenza di
eventi (scenici e/o testuali) viene ratificata, mentre l’ambiente viene componendosi. Diversi anni
fa Schechner ha operato una distinzione tra teatro tradizionale e teatro ambientale (environmental
theatre) basandosi sui modelli del ritmo prova-performance. Nel teatro tradizionale, le prove
hanno luogo finché la produzione debutta. Dopo il debutto la performance prevede la possibilità
di operare poche modifiche. Qui, lo spettacolo è considerato come un oggetto o una proprietà
commerciale. Opponendosi al teatro tradizionale, nell’environmental theatre la performance si
sviluppa nel corso della sua intera esistenza, e molto del lavoro di composizione è condotto nel
corso di prove aperte e performance, dal momento che non vi è una netta differenza tra le due.
Anche dopo il debutto del lavoro i cambiamenti continuano in prove aperte e chiuse e durante le
54 Ibidem.
55 E. Barba, Technique, in The Secret Art of the Performer: A Dictionary of Theatre Anthropology, a cura di E. Barba, N.
Savarese, Routledge, London-New York 1995, pp. 227-236.
56 A. Menicacci, La costruzione della molteplicità. Conversazione con Rachid Ouramdane, CITAZIONE INTERNA
performance. Come sostiene Schechner «il processo delle prove è co-essenziale alla vita della
produzione»57.
Cambiamenti nella messa in scena vengono fatti non solo per migliorare la produzione ma anche
come conseguenza del fatto che gli autori del lavoro sono loro stessi soggetti al cambiamento.
Anche nel corso di performance “regolari” vengono sperimentate modalità che possono
trasformare l’opera in una prova aperta, mentre l’opera appare chiusa solo quando il processo di
cambiamento smette di interessare i performer e il regista. Dunque è la vita della performance, e
non la sua validità commerciale, che determina il suo corso.
6. Prove aperte
Le prove aperte sono il primo invito alla partecipazione rivolto allo spettatore. Secondo
Schechner questo è il momento nel quale il gruppo ri-lavora sull’intera opera dall’inizio.
Ovviamente il pubblico è invitato a prendere parte attiva in questo processo: a vederlo, parlarne,
criticarlo. Le modifiche, comprese le correzioni definitive, sono compiute seguendo le reazioni
degli spettatori. Schechner confessa che questo passaggio è per lui il più difficile, poiché la
presenza del pubblico fa provare a tutti un senso di inadeguatezza. Le prove aperte impediscono
a ciascuno di nascondersi dietro proclami e astrazioni. Secondo Schechner può accadere che un
lavoro non passi mai per questo processo, specialmente perché i performer e il regista non ne
hanno il controllo: esso emerge come qualcosa di esterno, capace di attingere a una realtà
obiettiva58.
Parlando delle performance dei Forced Entertainment, Tim Etchells cita il “confronto” col
pubblico come la parte più importante del lavoro. All’inizio il gruppo era solito esibirsi in spazi
molto piccoli, simili a set cinematografici, in cui i performer stavano direttamente di fronte al
pubblico. Dopo qualche tempo i performer cominciarono a prestare attenzione alla presenza del
pubblico, un’attenzione sempre crescente e completamente imprevedibile nei loro venticinque
anni di attività. Questa considerazione è stata inoltre alla base del concetto di performance di durata.
Ad esempio nel loro lavoro 12 am: Awake & Looking Down, cinque performer silenziosi reinventano all’infinito le loro identità utilizzando pile di cartelli recanti didascalie tramite cui
nominano loro stessi e un negozio di vestiti usati (cappotti, abiti, tute, giacche a vento, pantaloni,
pigiami) dal quale attingono per vestirsi e ri-vestirsi. Il lavoro dura sei ore, e come in altre
performance di durata del gruppo, i performer improvvisano costante,mente mentre gli
spettatori sono liberi in ogni momento di entrare e uscire.
7. Costruire partiture
Secondo Schechner, quando vengono composte le partiture, le prove sono spesso tecniche,
poiché la necessità è di «localizzare le esatte azioni fisiche, i toni muscolari e i ritmi che incarnano
i temi e le atmosfere della produzione»59. Una linea trasversale si sviluppa per ogni ruolo, e
l’intera produzione viene accordata e armonizzata. Nonostante l’impressione di avere a che fare
principalmente con lavori aperti e work in progress, se questo livello è raggiunto significa che la
partitura può essere qualcosa come una partitura musicale, oppure la cosiddetta “partitura del
performer”, che gli fornisce dei punti di ancoraggio – momenti di contatto, un ritmo di base,
dettagli sicuri, elementi da cui partire e a cui arrivare. «La partitura è la parte più visibile della vita
del performer così come viene vissuta durante la performance […]. Quello che è la vita interiore
57 R. Schechner, Six Axioms for the Environmental Theatre, cit., p. 300.
58 Ivi, pp. 293-294.
59 Ivi, p. 294.
per ciascun individuo la partitura lo è per l’intero gruppo durante la performance»60.
Tuttavia, Schechner ammette che la partitura del regista è in qualche modo diversa da quella del
performer e il regista rimane nella performance solo per estensione e identificazione. Ma è
davvero così ancora oggi, nelle prassi performative contemporanee? Nonostante le sfumature
che si producono durante le prove aperte, dove il regista può essere trattato sia come un membro
del pubblico che come un intruso (poiché il suo ruolo è ufficialmente concluso) la produzione
teatrale non è mai conclusa. Quando parla dei suoi «spettacoli di durata» (durational performances)
Tim Etchells afferma che essi non sono mai fissi, e che i performer partono da un ordine di ruoli
all’interno dei quali possono improvvisare. Di conseguenza, ogni performance è unica e
diversissima a seconda delle scelte dei partecipanti. Le regole sono in genere molto semplici,
basate su quelle comuni e implicite delle modalità di gioco. Per quanto riguarda la regia non c’è
nulla che vada fatto poiché le regole sono già date. Di conseguenza, Tim Etchells abbandona il
ruolo del regista e la sua stessa autorità per essere presente, come uno dei performer, in ciò che il
gruppo produce.
Le prove aperte in genere proseguono finché si verifica uno stop. Fino a quel momento la prova
è assimilabile alla performance, e lo stop introduce una forte tensione. Se il regista inizia a parlare
ai performer, sia loro che il pubblico si troveranno a disagio. Solo se i performer stessi
interrompono la performance e chiedono di ripetere la scena o di discuterla, la situazione appare
relativamente semplice, perché i performer non desiderano che il pubblico sia testimone della
relazione parentale tra loro e il regista, e il pubblico ricava l’impressione di star partecipando alla
creazione del lavoro. L’intrusione del regista può rompere la relazione diadica tra i performer e
gli spettatori, ma la relazione effettiva è triadica, implicando anche la presenza del regista. «In
un’orchestra sinfonica il regista/direttore è presente anche se il suo ruolo durante la performance
effettiva può essere superficiale. In musica l’illusione è opposta rispetto al teatro: il direttore
appare essere più necessario di quanto non sia effettivamente»61.
Mejerchol’d considerava lo spettatore il quarto artista creativo nella produzione teatrale: «Noi
creiamo ogni lavoro a partire dalla considerazione che quello che apparirà in scena sarà
incompleto. Lo facciamo consapevolmente perché sappiamo che la revisione cruciale di un
lavoro è quella fatta dallo spettatore»62. In diverse occasioni Heiner Goebbels conferma
pressappoco la stessa idea, sostenendo che un pubblico di poche centinaia di spettatori è più
intelligente e vede meglio di un piccolo gruppo di pochi registi, e di conseguenza non considera
finiti i suoi lavori in assenza di pubblico. Possiamo trovare idee simili nei lavori di Studio
Azzurro e di Romeo Castellucci, che assegna allo spettatore il ruolo di Dio: «Per me quella dello
spettatore è una considerazione radicalmente semplice perché in teatro è la figura fondamentale;
francamente non mi sembra una mia invenzione. Senza lo spettatore il teatro cessa di esistere;
senza l’attore il teatro può – al limite – continuare a esistere. Lo spettatore è Dio che vede in una
luce figurativa, l’attore è la sua creatura»63.
Nel suo saggio sullo Spettatore emancipato Jacques Rancière auspica per lo spettatore un ruolo
attivo, che incarni sia la visione artaudiana che quella brechtiana dello spettatore, qualcuno che si
distacchi dalla passività del vedere, che sia affascinato dall’apparenza che si erge di fronte a lui e
che si identifichi con i personaggi in scena. Questa posizione appare unica ed estremamente
importante per le nuove configurazioni teatrali, poiché oggi lo spettatore sta di fronte allo
spettacolo come di fronte a un enigma: egli si trova a dover investigare le ragioni di quel mistero
passando da una visione passiva alla condizione dello scienziato, che osserva i fenomeni e guarda
60 Ivi, p. 295.
61 Ivi, p. 298.
62 V. E. Meyerhold, Meyerhold on Theatre, cit., p. 256.
63 A. Sacchi, L’estetica è tutto. Conversazione con Romeo Castellucci, CITAZIONE INTERNA
alle loro cause64, In molte occasioni Brecht ha sottolineato che «il pubblico è un insieme di
individui, capaci di pensare e ragionare, di produrre giudizi anche a teatro. Il teatro li considera
soggetti maturi intellettualmente ed emotivamente, e crede che essi desiderino essere così
considerati»65. Ma allo stesso tempo lo spettatore deve essere sottratto alla sua condizione di un
«maestro ignorante» e all’interno del potere magico dell’azione teatrale dove scambierà il
privilegio della spettatorialità razionale con il possesso delle autentiche energie vitali. Questo è il
paradosso del nuovo spettatore, poiché egli deve diventare più distaccato, ma allo stesso tempo
deve perdere ogni distanza66.
In questo senso il teatro contemporaneo e le arti performative ricapitolano di fatto i termini della
polemica platonica, attraverso una sorta di ri-arrangiamento che desume da Platone una
differente idea di teatro. Platone oppone alla comunità poetica e democratica del teatro una
“vera” comunità: «una comunità coreografica dove nessuno rimane spettatore immobile, dove
ognuno è in movimento secondo il ritmo comunitario determinato da proporzioni
matematiche»67.
Il teatro rimane l’unico luogo in cui un pubblico si confronta con se stesso in quanto collettivo,
poiché il pubblico teatrale è diverso da ogni altro pubblico, incluso quello del cinema. Ciò
significa che “teatro” rimane il nome per un’idea di comunità come corpo vivente e veicola
un’idea di comunità come presenza-a-sé, opposta alla distanza della rappresentazione che si trova
al cinema. «A teatro si tratta di fare un’esperienza d’incontro con l’idea che è esplicita, pressoché
fisica, mentre al cinema, si tratta di riscontrarne il passaggio quasi fantasmatico»68.
Di conseguenza, l’importanza del pubblico è probabilmente il maggiore cambiamento introdotto
nel teatro dagli anni Sessanta e solo oggi raggiunge il suo culmine. Lasciare che il pubblico
partecipi a un lavoro incompiuto, insistendo a che il lavoro sia mostrato come un work in progress
o come prova aperta nel corso della produzione attraverso cui si sviluppa, produce come
conseguenza il confrontarsi con una barriera palese, e forse l’erosione di questa barriera. Pertanto
i workshop, le prove aperte, i work in progress, le performance di durata, le improvvisazioni, ecc.,
contribuiscono ad allentare la tensione verso un successo immediato e producono un nuovo, più
rilassato e genuino rapporto tra lo spettatore e il performer. Cosa più importante, ciò aiuta ad
abolire o, almeno, a ridurre, la distinzione tra prove e performance, grazie all’anti-illusionismo
della prova aperta. Come già affermato, è necessaria una «demistificazione dell’intero processo»
così che i «lavoratori del teatro» possano lavorare alla creazione scenica «proprio come gli operai
edili lavorano a un edificio mentre i soprintendenti controllano. Con una grande differenza: gli
osservatori di una prova aperta possono produrre cambiamenti nell’opera»69.
Per questo motivo la maggior parte degli esempi forniti in questo numero hanno a che fare con
lavori anti-illusionisti e non-rappresentativi (Rimini Protokoll, Schilling, Bel): il rapporto con la
realtà al di fuori del teatro è del genere in cui la realtà è condotta entro la scena attraverso un
transfert. I Forced Entertainment, Rimini Protokoll, René Pollesch, e Árpád Schilling lavorano
tutti in maniera brechtiana, usando metodi d’interruzione, separazione e rivelazione nei loro
dispositivi. Nella maggior parte dei lavori messi in scena dai Forced Entertainment e dai Rimini
Protokoll, i performer stanno costantemente in piedi al centro della scena, dicendo i loro testi
direttamente agli spettatori. Non si verifica quasi mai un dialogo in scena tra di loro: in genere i
performer parlano senza interruzione per lunghe sequenze, sotto una luce costante che illumina
64 J. Rancière, Le Spectateur émancipé, cit., p. 20.
65 B. Brecht, Brecht on Theatre, cit., p. 79.
66 Cfr. anche il capitolo “Attore, Performer, Corpo, Spettatore”, in V. Valentini, Mondi, corpi, materie. Teatri del secondo
Novecento, Bruno Mondadori, Milano 2007, pp. 89-165.
67 J. Rancière, Le Spectateur émancipé, cit., pp. 8-9.
68 A. Badiou, Inestetica, cit., p. 100.
69 R. Schechner, Director, Id., Environmental Theatre, cit., p. 298.
la scena e la sala. Nelle performance dei Rimini Protokoll i performer non vengono mai
presentati come parti in causa, ma piuttosto introdotti come soggetti delle loro proprie biografie,
o piuttosto della loro soggettiva versione delle proprie biografie (si vedano Sabenation, Das Kapital,
100% Berlin). «La messa in discussione del contenuto fattuale è una conseguenza del
distanziamento, e questo rende possibile un processo di finzionalizzazione»70. Lo stile
performativo del distanziamento e della dimostrazione è chiaramente prossimo al concetto di
recitazione proposto da Brecht in La Scena di Strada (1940), con la differenza che i performer dei
Rimini Protokoll rendono conto di un evento in cui sono stati presenti e che ha
significativamente cambiato le loro vite. «Che i performer abbiano continuamente la possibilità di
distanziarsi entro la struttura formale dello spettacolo è una caratteristica distintiva della
performance dei Rimini Protokoll»71.
Il teatro diventa l’assetto intellettuale principale dello spettatore emancipato, specialmente se
l’emancipazione parte dal principio opposto, il principio d’eguaglianza, come nelle produzioni dei
Rimini Protokoll e di Árpád Schilling, dove gli spettatori diventano attivi poiché sono nella
situazione di osservare, selezionare, comparare, e interpretare:
Se ho delle persone sedute al buio in teatro per due o tre ore, che guardano cosa io penso del mondo, il mio
scopo non sarà di formare una comunità, ma di indirizzarmi a una comunità già esistente. Le persone amano
aprirsi solo quando si sentono tra pari. Così quando diciamo che siamo portatori di una responsabilità di fronte
al pubblico stiamo cercando l’opportunità di utilizzare la mutualità offerta dal teatro. Io ho trasceso forme già
utilizzate perché sono incapaci di condurre lo spettatore oltre la possibilità di esprimere le sue opinioni72.
Come sostiene Goebbels, lo spettatore collega quello che vede con molte altre cose che ha
osservato in altre scene, ed è capace di raccontare la sua personale versione della storia che si
dispiega di fronte a lui73. Ciò è assai prossimo a quello che Romeo Castellucci prova rispetto
all’abilità intellettuale dello spettatore: «Quello che rimane di uno spettacolo è cosa ha provato
una persona di fronte ad esso, come risuona in lui, come lo ha visto, come lo trasforma»74.
Secondo Rancière questo è il secondo punto chiave della spettatorialità: lo spettatore vede, sente
e comprende qualcosa al punto da comporre la sua opera, come gli attori, i danzatori e i
performer hanno fatto. Infatti il performer non vuole “insegnare” qualcosa allo spettatore. Lui o
lei vuole solo condurre a una forma di consapevolezza o alla forza di sentire o di agire. Tuttavia, i
creatori sostengono ancora che ciò che verrà sentito o compreso sarà quello che loro hanno
inserito nella drammaturgia della performance sperando nell’omogeneità tra la causa e l’effetto.
Ovviamente esiste la distanza tra i performer e gli spettatori che inerisce alla performance in sé, e
che si erge come “spettacolo” tra l’idea dell’artista e i sentimenti e le interpretazioni degli
spettatori. La performance è una terza cosa, alla quale entrambe le parti possono riferirsi, ma che
esclude ogni tipo di trasmissione “equa” o “non-distorta” poiché rappresenta una mediazione tra
di loro.
Nel suo community specific teatro, Árpád Schilling sta creando un’intera serie di nuove relazioni, che
poggiano su alcune equivalenze chiave e su alcune opposizione chiave: l’equivalenza tra il teatro e
la comunità, tra il guardare e la passività, tra l’esternazione e la separazione, la mediazione e il
simulacro; opposizioni tra collettivo e individuale, immagine e realtà vivente, attività e passività,
possesso di sé e alienazione. Il suo lavoro sullo spettatore emancipato include il paradigma
brechtiano dello spettatore consapevole della situazione politica sulla quale riposa il progetto e
che lo spinge ad agire di conseguenza. Al tempo stesso Schilling introduce il paradigma
70 M. Dreysse, The Performance is Starting Now. On the Relationship Between Reality and Fiction, in Aa.Vv., Rimini Protokoll,
cit., p. 84.
71 J. Roselt, Making an appearance, in Aa.Vv., Rimini Protokoll, cit., p. 61.
72 A. Vujanović, Il teatro community-specific di Árpád Schilling e del gruppo Krétakör: è veramente ancora teatro?, CITAZIONE
INTERNA
73 A. Jovićević, «A Museum for Our Perception». Conversation with Heiner Goebbels, CITAZIONE INTERNA
74 A. Sacchi, L’estetica è tutto. Conversazione con Romeo Castellucci, CITAZIONE INTERNA
artaudiano che fa abbandonare agli spettatori la loro posizione sicura: anziché stare di fronte allo
spettacolo come osservatori, essi sono accerchiati dalla performance, condotti nel cerchio
dell’azione che dovrebbe portarli a riappropriarsi della loro energia collettiva.
Questo ci riporta alla questione centrale di cosa accada specificamente ed esclusivamente agli
spettatori del teatro. C’è qualcosa di più interattivo, di più comune tra di loro che tra gli individui
che guardano nello stesso momento lo stesso programma televisivo o partecipano a una
trasmissione in diretta su Internet? Secondo Ranciére questo «qualcosa» è solo «il presupposto
del fatto che il teatro è comunitario in sé», oppure si potrebbe dire che la situazione in quale «i
corpi viventi sul palcoscenico si rivolgono ai corpi viventi raduni nello stesso luogo», bastano
come il vettore del senso della comunità, che è radicalmente diverso da quella situazione in quale
gli individui sono seduti in fronte ai schermi proiettati75.
Ciò richiama anche l’idea di Badiou d’evento, di rappresentazione, perché una rappresentazione
teatrale non abolirà mai l’azzardo e tra gli azzardi bisogna includere il pubblico come ciò che
completa l’idea. A seconda della natura del pubblico, l’atto teatrale trasmette o meno l’ideateatro, completandola. Comunque, occorre opporsi ad ogni concezione del pubblico come
comunità, entità pubblica o insieme consistente. Il pubblico rappresenta l’umanità nella sua
consistenza fondamentale, nella sua varietà infinita. «Più dunque il pubblico è unificato (dal
punto di vista sociale, nazionale, civile…) meno è utile alla complementazione dell’idea, meno è
all’altezza – nel tempo – della propria eternità e universalità. Il solo vero pubblico è dunque un
pubblico generico, un pubblico preso a caso»76. È il potere individuale del pubblico a traslare, a
modo suo, ciò che sta guardando e a cui sta partecipando; rappresenta il potere dell’uguaglianza
dell’intelligenza. Questo potere lega gli individui al punto di tenerli separati gli uni dagli altri,
capaci di tessere lo stesso potere ciascuno a suo modo. Questo può essere il principio di uno
«spettatore emancipato», come conseguenza alla posizione del regista emancipato77.
Secondo Rancière «La spettatorialità non è una passività che va trasformata in attività. È la nostra
condizione naturale. Lui si sta chiedendo perché individuiamo l’atto di guardare con la passività,
se no per la presupposta che guardare significa godere l’immagine e l’apparizione, senza sapere la
verità che si trova dietro l’immagine e la realtà fuori del teatro. Cosi lo spettatore viene
disprezzato come uno che non fa niente, mentre sul palcoscenico i performer stanno facendo
qualcosa con i loro corpi»78. Ciò che è necessario fare non è trasformare gli spettatori in
performer «poiché bisogna riconoscere che ogni spettatore è già attore della sua storia privata e
che l’attore è anche spettatore dello stesso genere di storia»79.
In tutti i lavori citati in questo testo, di fatto, è questione di connettere ciò che uno sa con quello
che non sa, di essere allo stesso tempo un creatore che mostra le sue competenze agli spettatori
che cercano quello che può essere prodotto in un nuovo contesto. Anche questa posizione non
può essere neutra, perché come ha sostenuto René Pollesch:
Il problema è che il teatro è dominato da un costrutto sociale: ha adottato una posizione narrativa e ora la
percepisce come neutrale. Questa posizione è bianca, maschile ed eterosessuale, e i miei sforzi mirano a
dimostrare che ciò è lungi dall’essere neutrale. Siamo sempre inclini a credere che questo non esiste, ma in effetti
non c’è niente oltre a questo! La posizione del narratore esiste! Io credo che il teatro deve dichiarare, ad esempio,
che quelli a nome dei quali esso parla hanno il loro proprio linguaggio! Che è quello per cui esso può parlare per
gli “insultati e umiliati”: a partire dall’affermazione che essi hanno il loro proprio linguaggio dovrebbe essere
preso sul serio. L’unico linguaggio che oggi il teatro prende sul serio è il suo – bianco, maschio, eterosessuale – e
dice a proposito di tutti gli altri: “Sono gli Altri a perdere il loro linguaggio e dunque devi parlare per loro”. Ai
J. Rancière, Le Spectateur émancipé, cit., p. 24.
76 A. Badiou, Inestetica, cit., p. 97.
77 J. Rancière, Le Spectateur émancipé, cit., pp. 18-19.
78 Ivi, p. 26.
79 Ibidem.
75
poveri e ai desiderati viene ascritta una specifica immagine e vengono poi presentati in base a questa. Credo che
questa immagine sia falsa. A teatro, quando parliamo per gli altri dobbiamo sottolineare sempre che sono Altri.
E non mi dispiacerebbe mettere in discussione questa immagine80.
Nelle arti performative contemporanee, il regista emancipato si interroga costantemente su
questa immagine complessiva, divenendo una sorta di ricercatore coraggioso che durante lo
spettacolo segue attentamente le reazioni dello spettatore. Secondo Badiou, l’idea-teatro non
avviene che nel breve tempo della rappresentazione. Perciò è importante allora capire che la messa
in scena, che governa le componenti eterogenee del teatro, non è una interpretazione come si
pensa solitamente, ma l’atto del teatro è una interpretazione specifica dell’idea teatro: i corpi, le
voci, le luci, ecc, portano l’idea a compimento oppure la possono radicalizzare. L’effetto di
questa interpretazione non può venire anticipato. Il carattere effimero del teatro non rileva del
semplice fatto che ogni rappresentazione cominci, si concluda e lasci alla fine una serie di tracce
enigmatiche: ma del fatto di mettere un’idea eternamente incompleta alla prova del suo
compimento nell’instante. È una lingua che si rivolge a quegli spettatori che sono attivi in quanto
interpreti, che cercano di inventare la loro traduzione al fine di appropriarsi della storia e di
produrre da ciò la propria storia. «Una comunità emancipata è in realtà una comunità di narratori
e traduttori»81.
Traduzione dall’inglese di Annalisa Sacchi
80 P. Gruszczunski, Ambivalence, intervju sa René Pollesch, cit.,
81 J. Rancière, Le Spectateur émancipé, cit., p. 33.