GIOVIARIUM Como 2016 PREFAZIONE Abbiamo riunito in questo agile testo (pro manuscripto) alcuni articoli elaborati in questi anni e già ospitati in parte sul sito del nostro Liceo. Ci sembrava giusto aprire la rassegna con un profilo di Paolo Giovio, per meglio conoscere questo illustre letterato comasco, cui dobbiamo il nome del nostro Liceo. Non poteva poi mancare una presentazione della recente attività poetica del collega Alessandro Quattrone. Seguono alcuni saggi di storia della filosofia antica, moderna e contemporanea. Questo lavoro, sia ben chiaro, non è una pubblicazione, ma semplicemente l’idea di quanto si potrebbe realizzare in futuro. Infatti per una pubblicazione concreta ci vorrebbe un progetto che fosse finanziato e che nascesse da un lavoro condiviso. Questa raccolta va quindi considerata come un esperimento ed un prototipo di un eventuale annuario o di un libro miscellaneo che sia il risultato di un iter reale di confronti e di sinergie. Il Comitato Editoriale 1 SOMMARIO Paolo Giovio, un simbolo del Rinascimento (L. Picchi) Tra ombre e distanze la poesia di Alessandro Quattrone (L. Picchi) Simmel e la modernità (P. Scilironi) L’amore platonico (G. Giudice) Hegel nella cultura francese del Novecento (P. Scilironi) 2 PAOLO GIOVIO, UN SIMBOLO DEL RINASCIMENTO Luigi Picchi Considerare la figura di Paolo Giovio significa avvicinarsi al Rinascimento attraverso uno dei suoi personaggi più emblematici e completi. Difatti nell’uomo e nel personaggio Paolo Giovio possiamo ritrovare le caratteristiche salienti di quell’epoca. Il Nostro nasce a Como nell’aprile del 1483 da Luigi Zobio, notaio di famiglia patrizia, e da Elisabetta Benzi, appartenente ad una gens originaria dell’Isola Comacina, economicamente non potente, ma prestigiosa e considerata patrizia. Il cognome Zobio venne latinizzato in Iovius quando Paolo si trovava a Roma, proprio all’inizio della sua carriera. Morto il padre, il fratello maggiore Benedetto provvide all’educazione di Paolo, cui seguirono a Milano le lezioni di retorica di Demetrio Calcondila e Giano Parrasio, quindi i corsi universitari a Pavia. Nel 1506 è a Padova per frequentare le lezioni di filosofia e di medicina. L’anno dopo continua gli studi di medicina a Pavia, dove si è trasferito uno dei suoi maestri, Marcantonio Della Torre. Documento di questa illustre formazione patavina sono le Noctes, una raccolta di testi pluridisciplinari (filosofia naturale, medicina, metafisica e logica). Nel 1512, neolaureato, si trasferisce a Roma; qui diventa lettore di filosofia morale presso lo Studio Romano. Insegnare, però, non gli piace: preferisce dedicarsi alla storiografia. Passato al servizio dei Medici come medico ed umanista (a quel tempo era pontefice Leone X, cioè Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico), Giovio si lega al cugino del Papa, il cardinale Giulio de’ Medici. Nel cenacolo antimediceo degli Orti Oricellari, nostalgico della repubblica e contrapposto alla Roma medicea, conosce Machiavelli. Non c’è da stupirsi se Giovio, cortigiano dei Medici, frequenta alcuni dei loro avversari: Paolo era famoso all’epoca per autonomia di giudizio e per schiettezza intellettuale. 3 Nel 1521 durante la guerra a fianco degli Spagnoli contro i Francesi per il reintegro degli Sforza a Milano, Giovio, al seguito del cardinale Giulio de’ Medici, assiste, impotente, al sacco di Como da parte degli imperiali. Intanto, mentre lavora alle Historiae sullo scenario storico contemporaneo, licenzia monografie di un certo spessore: De romanis piscibus, trattato di ittiologia e il De optima victus ratione, trattato di dietetica. Il Papa Clemente VII tronca l’alleanza con l’Impero; questo determina quell’evento traumatico che fu il Sacco di Roma (1527) da parte di truppe protestanti. Il Pontefice ricompensa Giovio per la sua fedeltà, concedendogli il vescovado di Nocera. È il 1528 e Giovio scrive il Dialogus de viris et foeminis aetate nostra florentibus. Continua ad occuparsi di etnografia e geografia. Dopo aver dato alle stampe uno studio sulla Russia, la Moschovia (1525), ecco il Commentario delle cose de’ turchi (1532) dove dimostra di conoscere molto bene la politica ottomana. Quando Paolo III Farnese sale al soglio pontificio, Giovio entra al servizio del nipote Alessandro Farnese. Ben addentro agli ambienti che contano, sempre aggiornato ed informato, Paolo è il consigliere ideale per chi vuole muovere i primi passi sulla strada del potere. Giovio spera inutilmente in una ripresa della politica filoimperiale grazie all’intervento dei Farnese, i quali, invece, finiscono per appoggiare i Francesi. L’edificazione del Museo a Como in via Borgovico e l’amicizia più stretta con esponenti della fronda filoimperiale, lo spingono ad allontanarsi dai Farnese, evitando così di partecipare al Concilio di Trento. Le ragioni della sua assenza sono dovute anche alla sua mentalità aperta, avversa ai dogmatismi che si facevano sempre più strada attraverso gli irrigidimenti del Concilio. Giovio crede nel dialogo e nel confronto, magari anche con il movimento dell’evangelismo italiano e come lui il suo amico cardinale inglese, Reginald Pole. Il Museo di Borgovico è una villa destinata ad ospitare la ricca collezione di ritratti di celebrità, i vip dell’epoca; non solo hortus conclusus oraziano, ma anche laboratorio mnemotecnico, collezione di eroi modello, uomini illustri, degni di elogio. Nascono così gli Elogia (recentemente editi da Einaudi nel 2006) finalizzati a illustrare, a guisa di brevi biografie, i quadri. 4 I rapporti con il pontefice, la corte papale e Roma in generale si fanno sempre più difficili, non solo a causa delle delusioni politiche e di carriera (a Giovio è negato il titolo di vescovo di Como), ma soprattutto per il clima sempre meno libero e aperto. Così nel 1549 Giovio si trasferisce a Firenze. Qui scrive delle Vitae e finalmente pubblica le Historiae e il Dialogo dell’imprese militari e amorose, un trattato di emblematica, la disciplina che associa epigraficamente un motto di due parole ad una figura araldica o allegorica. A Firenze si sente più libero: il suo epistolario testimonia contatti con intellettuali “pericolosi”, sospetti al Concilio di Trento. Nel dicembre del 1552 Giovio si spegne a Firenze, sfuggendo così probabilmente alle persecuzioni che si sarebbero abbattute ben presto sui pensatori eterodossi. La sua tomba è collocata nel chiostro di San Lorenzo dove lo ricorda una statua di Francesco da Sangallo. Paolo Giovio era un brillante uomo mondano, oltre che un ottimo e simpatico conversatore. Amava la buona tavola (De romanis piscibus e il Carmen facetum), le belle donne (Dialogus de viris et foeminis aetate nostra florentibus), la vita tranquilla. Era insomma il tipico prelato rinascimentale, per cui le responsabilità morali, pastorali e religiose erano all’ultimo posto. Fu anche accusato di essere adulatore e opportunista a fini carrieristici. Ai suoi tempi Giovio era considerato il “padre della storia”, quella contemporanea, attorno cui ha raccolto numerose informazioni e testimonianze dirette da amici, conoscenti e personalità dell’epoca. In questo senso il suo epistolario è una miniera di informazioni e di dati sulla vita del tempo, il cantiere di un raffinato “gazzettiere” che utilizza un volgare da conversazione, venato di lombardismi e latinismi. Merito di Giovio è anche l’aver posto attenzione al mondo orientale, asiatico ed extraeuropeo in genere (De legatione Basilii Magni Principis Moschoviae; Commentario de le cose de’ Turchi). Eclettico e poligrafo, ha scritto biografie (Elogia virorum litteris illustrium, Vitae, Vite degli artisti), si è occupato, oltre che di araldica, di geografia (Descriptio Britanniae, Scotiae, Hyberniae et Orchadum; Descriptio Larii Lacus). Ma la sua opera principale sono gli Historiarum sui temporis libri (“Libri delle Storie del suo tempo”) pubblicati in Firenze tra il 1550 e il 1552, quarantacinque libri 5 dedicati al cinquantennio che va dalla discesa nel 1494 del re francese Carlo VIII in Italia fino alla pace di Crépy nel 1547 (sono andate perdute, però, alcune sezioni: dal libro V al X e dal XIX al XXIV). Si tratta di una colorita e pittoresca storiografia a base di guerre, battaglie e personaggi illustri (re, generali, diplomatici), ricca di dettagli e descrizioni. L’opera già allora riscosse un certo successo per la bellezza delle caratterizzazioni e per la visione ampia degli scenari, per la dovizia di informazioni e per l’eleganza dello stile narrativo, sensibile anche a strutture modellate sul parlato con impasti linguistici veramente originali nel tentativo di piacere al grande pubblico, non solo ai letterati. Per un maggiore approfondimento si ricorda il volumetto miscellaneo realizzato nel 2002 dal nostro Liceo: Paolo Giovio. Guida alla Lettura, NodoLibri con saggi di Emilio Russo, Andrea Luppi, Paolo Ceccoli, Vincenzo Guarracino, Marcello Mochetti, Claudio Fontana e Margherita Giglio. 6 TRA OMBRE E DISTANZE LA POESIA DI ALESSANDRO QUATTRONE Luigi Picchi Alessandro Quattrone, professore di Lettere nel nostro Liceo, dopo quasi un ventennio di silenzio editoriale (Passeggiate e inseguimenti è del 1993 e Rifugi provvisori del 1996 entrambi presso Book Editore, Bologna) ha pubblicato nel giro di tre anni un paio di raccolte di poesie, Prove di lontananza (Book Editore, 2013) e L’ombra di chi passa (Puntoacapo Editrice, Alessandria 2016). La prima è una cospicua silloge nella quale si approfondisce e si sviluppa, in un gioco di sapienti variazioni, il tema della distanza rispetto al mondo. Lo spirito non può che essere quello dolente dell’elegia; infatti un senso di tenue malinconia pervade i versi, sempre eleganti e composti: Vagando per la spiaggia deserta svanisco ma non gemo, ascolto il suono estremo della vasta solitudine che come una marea fa il suo ritorno. Sembra di trovarsi davanti al famoso quadro di Caspar David Friedrich: Monaco sulla spiaggia. Il poeta avverte il bisogno di prendere le distanze dalla realtà, non per separarsene sdegnosamente, ma per meglio comprenderla e decifrarla, per meglio osservarla, come quando, dovendo scattare una foto, si retrocede per meglio mettere a fuoco un soggetto. Proprio a questo riguardo, sul sito Carteggi Letterari in una recensione del 31.12.14, scrive Daniela Pericone: «l’atto della visione, lo sguardo del poeta si pone come elemento fondativo del discorso poetico, agisce da filtro e nel contempo consente l’accesso all’esistente», così «lo sguardo assurge a gesto essenziale e a scelta discriminante di contatto con l’altro, in cerca di una redenzione personale che va al di là del rapporto amoroso». Dal momento poi che la vita è di passaggio rispetto a se stessa, la vita si ignora e non è sempre consapevole di sé, mentre il poeta guadagna per sé e per tutti un livello superiore di consapevolezza come in questa poesia dove si celebra il kairòs: 7 L’ora perfetta io l’ho conosciuta è immota e in movimento è quiete e turbamento provvisoria come l’estasi del ramo che perderà il frutto. La musa del poeta, sorta di rielkiana Euridice riemersa dagli inferi, è senza volto e senza voce: «ma tu ascolti la mia profezia/soltanto perché vana» e la donna s’innerva nella Natura, nella terra e nella vegetazione: Tuttavia il giorno che svanisti si udì un lieve mormorio qualcosa come un breve giuramento di radici. Così l’inanità degli sforzi umani e dei tentativi di contatto è un presupposto in questa avventura lirica: non è una dolorosa scoperta, ma un dato di fatto: Ma non ti voglio attendere o inseguire: continuo nel mio fervido chiarore a spargere colori, primavera tremenda nel suo accendersi invano. Testimoni di questa segreta desolazione, anche nelle giornate di sole e nel fervore delle stagioni, sono soprattutto le piante e i fiori con i loro nomi precisi, qualche animale o qualche oggetto, punti focali nell’aura nebulosa di questo limbo esistenziale. La rondine sa cos’è il richiamo cos’è il ritorno, il lieve turbamento. Il lampo sa che cos’è la solitudine del durare un istante illuminando. Altrettanto precisa è la geografia europea: Reggio Calabria, Como, Monza, Berna, la Provenza, la Normandia, l’Irlanda anche se come scrive ancora Daniela Pericone: «non fa differenza se si tratti di paesaggi stranieri […] o delle città del sud 8 e nord d’Italia […], estremi fisici e simbolici di una duplice condizione esistenziale e di carattere forgiato ad accogliere e comporre le diversità» (sempre sul sito Carteggi Letterari, recensione del 31.12.14). La sensazione complessiva è quella di una sorta di diario e di album per raccogliere momenti solo apparentemente idilliaci, ma in realtà svuotati della loro funzione di idillio, per diventare teatro di una solitudine allo stato puro dove solo la poesia può annullare la lontananza per un contatto autentico e proiettare un fascio di luce nelle nebbie del mistero. La forza di questa poesia sta nell’intensità dell’epigramma che è ormai la misura più consona all’indole poetica ed espressiva di Quattrone: Essere il colore dell’acero sotto il raggio di aprile offrire al giorno un tiepido clamore di rami e sperare. Vi propongo, a questo punto, la lettura integrale di due liriche dedicate a Como. Ammiriamo il gesto dei palazzi, ammiriamo il duomo con i suoi portali, cogliamo il festoso andare delle strade urbane verso i monti verdeggianti. Inferi e mostri lasciamoli stare tra le pagine di libri sonnacchiosi. Usciti ad osservare, ora godiamo delle rapide lusinghe architettoniche che la città ci rivolge al passaggio. E cosa importa se noi camminiamo insieme, lieti, solo per comprare un regalo, un semplice regalo? Il lago si addormenta volentieri nei nostri occhi ingenui: dobbiamo proseguire in fretta, senza cedere a scrupoli o ricatti metafisici. 9 Qui c’è tutta la spensieratezza di un momento di shopping, attività caratteristica della nostra città, probabilmente nelle vie suggestive del centro storico, visto che si fa riferimento alla presenza dell’architettura artistica al cui cospetto avviene la passeggiata. Interessante la chiusa che invita orazianamente al carpe diem. Ti addito il falco che vedi sicuro far cerchi crudeli nell’aria, adocchiare la preda sconvolta sull’acqua verdastra serale, ti addito il falco per non dirti come nel flutto solenne, calmissimo, si perda la mia voce illimitata. Qui invece la città sembra sparita, non esiste, così da sgombrare il campo e da lasciare libera la visuale all’evento venatorio del falco in picchiata sulla preda; è un momento di pura e selvaggia natura, la natura primitiva e secolare dove quel falco non è quello metafisico di Montale, ma è un falco reale, di sempre, predatore per istinto, solo che nella chiusa enigmatica della lirica a tuffarsi nell’acqua immota del lago non è il rapace, ma la voce del poeta. Passando quindi alla seconda silloge, recentissima, si può subito dire che il suo titolo ricorda l’io lirico di Ossi di seppia, attento all’ombra stampata dal sole a terra e sui muri: l’ombra come immagine di precarietà e di vacuità. E proprio all’insegna della transitorietà e della fragilità scorre la rassegna di situazioni e ritratti dell’album/galleria di Quattrone, ancora una volta poeta elegiaco dai toni misurati e assorti, attento ai ritmi precisi del verso: Rose secche, quale mano pallida o forse fervida vi ha composte per l’eternità nel vaso freddo? In questa terzina la mummificata natura morta è un paradossale e ossimorico monumento alla eternità. La realtà, «questo placido/purgatorio dove non accade niente/di quel che si vorrebbe», pulita da riferimenti troppo espliciti e riconoscibili e resa quindi essenziale, raggiunge un’aura metafisica e paradigmatica: 10 Le rovine, e tutto ciò che di antico rimane a consolare i nostri occhi troppo mortali, accettano una legge severa dalla voce sussurrata. Intanto sembrano dicano al viandante l’amore che ha la terra per i resti, un amore affannoso, temerario contro il tempo e i suoi gelosi divieti. Trovo nelle liriche di Quattrone istanze crepuscolari e barocche ben assortite e bilanciate, una sintesi di opposti, una fastosa malinconia, non priva di ironia: Celebra le montagne che non vede seduto sul divano, e ha pensieri innevati e desideri limpidi. Se qualcuno entrando all’improvviso se ne accorgesse, riderebbe forse, come ridono di certo le montagne candide che lui non vede e celebra restando lì seduto Ma il più bel ritratto di che cosa è il poeta oggi è questo umoristico autoritratto Esco nell’alba invernale con il mio cappotto dalle tasche piene di vecchi foglietti inutili, di biglietti per la spesa e appunti illeggibili, e non c’è un nome sacro o almeno umano sui rettangoli di carta, non un nome da ricordare o da dimenticare. Non escluderei poi anche una certa tendenza a creare nella poesia suggestioni e note narrative, a riprova che oggi molti elementi narrativi sono stati parassitati dalla lirica, avvicinando così la poesia alla prosa e viceversa: 11 Forse un giorno vedrà il bagliore di un fuoco millenario, che lo farà immortale per pochi minuti. Intanto esplora una musica deserta, un territorio esteso per chi freme illuso di poter aver un regno. Oppure come in questo ritratto femminile. Seduta sul treno ad inventarsi un altro amore, ad investigare le prime luci di una città invisibile, si abbandona alla corsa, a un certo punto, intorpidita, invadendo all’improvviso chi la guarda senza più sognare. Nella raffigurazione assorta che Quattrone dà di situazioni o persone trovo una sorta di sospensione metafisica come la si può trovare nei dipinti della corrente Novecento (Felice Casorati ed Antonio Donghi, ad esempio). Ma lo stesso poeta mi ha confidato i debiti con il Pascoli di Myricae dove la rappresentazione del reale assurge a simbolo e a piccola allegoria esistenziale. Infatti nella prima lirica della raccolta c’è tutta la filosofia di vita in cui inquadrare l’intero libro: una specie di schopenhaueriana Noluntas: Sapessimo imitare la saggezza delle cose ferme al loro posto da mesi o da decenni, noi anime in continuo movimento senza una terra né un giardino dove obbedire muti alle stagioni, sapessimo restare immobili come quadri appesi alle pareti, con i nostri colori che chiedono solo di avere una forma e una cornice. 12 Avere forma, cornice, cioè un limite, un perimetro dove situarsi, riconoscersi, percepirsi: la nostalgia per l’uomo aristotelico dopo le devastanti sbornie superomistiche di primo Novecento, al ricerca di un ubi consistam classico e tradizionale. Più avanti infatti Quattrone precisa che «La nobiltà è un’ansia/capace di aver forma/e nella forma requie.». Non per niente, per sfuggire al senso di sradicamento e di smarrimento, Quattrone insegue feticci classicheggianti e ogni tanto ci regala veri e propri cammei da Antologia Palatina: Anfora colma di vino paziente, ninfea silenziosa sull’acqua, ombra necessaria nella stanza, fuoco acceso per chi sa vederlo. Chi è saggio ritorna al classico o comunque lo rimpiange e lo rievoca tentando una sintesi tra l’inquietudine moderna, caotica e lacerata, e quella antica, misurata e apollinea, utilizzando il classico come antidoto ai devastanti veleni contemporanei. 13 SIMMEL E LA MODERNITA’ PIERGIORGIO SCILIRONI 1. Georg Simmel è forse il sociologo che meglio ricostruisce il panorama della modernità colto nel contesto, al tempo stesso generale e specifico, delle sue manifestazioni fondamentali, da quelle, per così dire strutturali e sistemiche, (razionalizzazione, differenziazione funzionale, specializzazione etc.) a quelle ritenute per lo più transitorie, fugaci, fortuite. In questo contesto i rapporti tra cultura e tecnica all’interno della città e della società, diventano luoghi in cui si sviluppano processi diversissimi tra i quali, quelli relativi alla disaggregazione e alla distanziazione, costituiscono, per molti versi, un continuum con la nostra epoca. Simmel ha una sensibilità straordinaria nel rilevare non solo gli aspetti positivi, ma anche le fratture, determinate dalla modernità. Il diritto, l’intellettualità, il denaro diventano forme che introducono inevitabilmente nella "totalità della vita" delle contraddizioni. Per brevità potremo soffermarci rapidamente solo su alcuni di questi temi cercando di accennare alla presenza attiva di Simmel nella società contemporanea nella quale il capitalismo con le sue contraddizioni, le sue ideologie, sta sprigionando, sotto gli occhi dell’umanità globale, gli spiriti animali di cui parlava Sombart. Prendiamo la questione delle forme. C’è una notevole assonanza tra Freud e l’ultimo Simmel della Lebensanschauung e del Konflikt der modernen Kultur. Il primo individua il conflitto nella repressione delle pulsioni, il secondo nella “tirannia” delle forme, nel disagio della cultura. Il mutamento continuo dei contenuti della cultura è indice ad un tempo della fecondità della vita, ma anche della sua profonda contraddizione “in cui sta il suo eterno divenire e mutarsi di fronte all’obbiettiva validità e l’autoaffermarsi delle sue manifestazioni e forme, con le quali o nelle quali essa vive” (Simmel 1976, p.107). La vita muore e diviene costantemente nel rapporto dialettico con le forme che si autonomizzano raggiungendo “una validità superiore al momento ed emancipata dalla pulsione della vita stessa” (Simmel 1976, p.108). Ciò determina “una latente opposizione che scoppia ora in questo ora in quel campo del nostro essere e agire” (Simmel 1976, ibid.). Il significato della vita non consiste in alcun suo fine determinabile, “ma nello svolgimento di se stessa, mediante il quale acquista, pel fatto che diviene sempre più vita, un valore che si eleva all’infinito” (Simmel 1976, ibid.]. Coi mutamenti culturali che “divergono” rispetto ai lenti mutamenti del passato, con lo sviluppo di nuove forme che vogliono abbattere le vecchie, si va determinando una sorta di “opposizione contro la forma in generale” (Simmel 1976, p.113). Quando la vita diventa cultura precipita inevitabilmente in un conflitto: 14 Questa vita deve o generare forme o muoversi entro forme. Noi siamo, sì immediatamente la vita, e con questo si congiunge un sentimento, di cui non si può dare una più precisa descrizione, di essere, di forza, di moto verso una meta; ma noi tale sentimento possediamo solo nella forma che esso ogni volta assume, la quale, come ho già sottolineato, nel momento del suo presentarsi si mostra appartenente ad un altro ordine, fornito di diritto, e significato attinti da sé, e che afferma e pretende un’esistenza sopravitale” (Simmel 1976, p. 132). 2.Il conflitto, si potrebbe dire, tra “mondi vitali” e forme apre una contraddizione profonda rispetto all’essenza della vita stessa che è caratterizzata da una “dinamica fluttuante”, dall’incessante differenziazione d’ognuno dei suoi momenti” e vincolata dalla necessità di realizzarsi solo nel suo opposto cioè in una forma. I processi di razionalizzazione danno vita a patologie che mortificano spesso le coscienze, le capacità di donne e uomini: “La razionalità oggettiva veicolata dalle istituzioni, dai saperi e dalle forme di vita, si affida a meccanismi “giroscopici” di autoregolamentazione, che certo transitano attraverso la coscienza individuale, ma solo in forma di automatismi anonimi, respingendo – per loro natura – l’intervento di un pensiero non preventivamente piegato a una tecnica, non instradato su percorsi virtualmente già programmati e preordinati. Senza un supplemento di energia soggettiva, ogni tentativo imprevisto di modificazione, di reinterpretazione e di riquadramento delle procedure o dei contenuti specifici in contesto di senso diversi o più articolati (ossia ogni risoggettivazione dell’oggettività) rischia di venire ignorato o penalizzato” (Bodei 2002, p. 184). Non solo non scegliamo di nascere ma non possiamo neppure evitare le trappole della vita. Tempo e spazio sono impastati di caos e caso, ci condizionano profondamente incatenandoci definitivamente alle forme, alla pena “d’esser così e di non poter più essere altrimenti” (Pirandello 1993, p. 51). In uno dei brani più noti de L’umorismo, Pirandello analizza i modi umani di fissare, di dare un che di stabile alle fluttuazioni della coscienza, ai sentimenti, alle emozioni, alle passioni, appunto, a questa sorta di “io multiplo” che si agita in noi: La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo d’arrestare, di fissare in forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi, perché noi già siamo forme fissate, forme che si muovono in mezzo ad altre immobili, e che però possono seguire il flusso della vita, fino a tanto che, irrigidendosi man mano, il movimento, già a poco a poco rallentato, non cessi. Le forme, in cui cerchiamo d’arrestare, di fissare in noi questo flusso continuo, sono i concetti, sono gli ideali a cui vorremmo serbarci coerenti, tutte le finzioni che creiamo, le condizioni, lo stato in cui tendiamo a stabilirci (Pirandello 1986, p. 159]. 15 I temi oggetto della riflessione e dell’esperienza teatrale di Pirandello sono pure al centro del pensiero filosofico, sociologico, e letterario. Le filosofie di Nietzsche, di Bergson, di Simmel, in particolare, e quelle sviluppate nelle opere letterarie di Proust e di Pirandello si muovono in una duplice prospettiva: o nel senso di potenziare il proprio io o in quello “di schiodarsi da un destino segnato in anticipo, di custodire in sé, in forma di abbozzate personalità multiple, una ricchezza di possibili sviluppi, non bloccati, almeno nel desiderio, dalle scelte compiute nel passato” (Bodei 2002, p.13). 3.La forma narrativa si presta particolarmente ad esprimere questo disagio che è moderno e postmoderno al tempo stesso nel rapporto complesso, doppio, prismatico con la realtà e con noi stessi. Fino alle sue manifestazioni più profonde: Ciò che angoscia il soggetto, molto più che la morte imminente, è innanzitutto la sua non-realtà, la sua non-esistenza. Sarebbe il male minore la morte se si potesse essere certi d’aver almeno vissuto: ora è proprio di questa vita, per quanto peritura possa essere, di cui viene a dubitare il soggetto nello sdoppiamento della personalità. Nelle coppia malefica che unisce l’io ad un altro da sé fantomatico, il reale non è dalla parte dell’io, ma dalla parte del fantasma: non è l’altro che mi sdoppia, sono io che sono il doppio dell’altro” (Rosset, in Davico Bonino 2004, pp. XII-XIII). Simmel scava in un contesto il cui framework continua ad essere con tutte le diversità storiche, ancora il nostro “tardo moderno”, post-moderno”, “dopo moderno” o come lo si voglia ancora definire. Si pensi, tra l’altro, non solo al Disagio della civiltà di Freud, alle patologie del moderno rilevate da Habermas,(a cominciare dalla colonizzazione dei mondi vitali operata dai sistemi), allo sviluppo dell’industria culturale e dell’ideologia capitalista analizzate da Horkheimer e Adorno, all’opera di Proust, di Musil,di Canetti e ad altre opere narrative, ma soprattutto al modo stesso in cui “ancora oggi pensiamo alle previste e impreviste conseguenze dell’avventura moderna” (Bauman 2002, p. IX) Peter Berger e Thomas Luckmann hanno parlato di smarrimento dell’uomo moderno e contemporaneo: “E’ possibile che il discorso sulla crisi di senso dell’epoca contemporanea di fatto non sia altro che una ulteriore forma di disorientamento nella vita degli uomini moderni. Quello che qui ci giunge all’orecchio non è forse la riproposizione più recente di un antico lamento? Quel lamento in cui si esprime il tormento che sempre ha colto l’uomo di fronte ad un ordine del mondo che incomincia a vacillare? E il lamento sulla vita umana come vita per la morte non fa forse emergere di nuovo il dubbio che una tale vita possa trovare il suo significato soltanto in una storia salvifica 16 di tipo trascendente, o al contrario non fa piuttosto erompere la disperazione che un tale significato non esista?” (Berger e Luckmann tr. it. 2010, p.7]. Il saggio su Le metropoli e la vita dello spirito individua, proprio in apertura, i problemi di fondo della modernità, la cifra di un’intera epoca, riassunta nella “pretesa dell’individuo di preservare l’indipendenza e la particolarità del suo essere determinato di fronte alle forze preponderanti della società, dell’eredità storica, della cultura esteriore e della tecnica” (Simmel 1995, p. 35). Ma la difesa della vita soggettiva sembra sempre tragicamente soccombere di fronte alla violenza della metropoli. Essa agisce sull’intensificazione della vita nervosa, accelera e altera l’immagine sensorio-spirituale della vita, determina ritmi, fagocita spazi, modifica la sentimentalità e le relazioni affettive. La metropoli come sede dell’economia monetaria riduce tutte le qualità e le specificità al livello di domande che riguardano solo la quantità: il tempo diventa il tempo del calcolo. Essa impone uno schema rigido e sovraindividuale e riproduce l’indifferenza e il blasé come “attutimento della sensibilità rispetto alle differenze fra le cose” (Simmel 1995, p. 43). E soprattutto nella metropoli domina, diffusa e capillare, l’indifferenza. La sfera dell’indifferenza è all’origine di un groviglio di sentimenti, di passioni di emozioni la cui manifestazione esterna più percepibile è la stravaganza metropolitana; ma essa può capovolgersi rapidamente in aggressione e odio. E’ sorprendente l’attualità del pensiero simmeliano, in una fase in cui nel nome di una concezione aberrante della globalizzazione, si potenziano processi omologanti. Di particolare importanza e di rilievo epistemologico è la sua analisi dell’uomo come “essere che distingue” (Simmel 1995, p.36). 4. La coscienza dell’uomo è prodotto di una differenza la quale è frutto di processi che Marx definirebbe “astrazioni determinate” e che Simmel, definisce come “astrazioni dalla totalità del reale”. Con riferimento a Luhmann, potremmo parlare di processi selettivi dalla prassi che “selezionano “dalla complessità esterna o interna delle cose delle serie unilaterali, dando luogo così ai grandi sistemi di interessi della cultura” [Simmel, tr. it.1984 p.124]. Cogliere le distinzioni significa attuare un processo conoscitivo significativo, essere permeabile nel rapporto con gli altri e con le cose, mantenere viva la sensibilità cercare ed elaborare le informazioni, ridurre la complessità: proprio l’esatto contrario del modo di essere del blasé analizzato da Walter Benjamin: “Ciò significa che la sua coscienza viene stimolata dalla differenza tra l’impressione del momento e quella che precede; le impressioni che perdurano, che si differenziano poco, o che si succedono e si alternano con una regolarità abitudinaria, 17 consumano meno coscienza che non l’accumularsi veloce di immagini cangianti, o il contrasto brusco che si avverte entro ciò che si abbraccia in uno sguardo, o ancora il carattere inatteso di impressioni che si impongono all’attenzione” (Simmel, 1995, ibid.). L’interazione sociale è frutto sia della capacità di distinguere, sia dello scambio, essendo quest’ultimo non solo condizione del valore economico, ma anche “forma di vita”. Già nella Vienna di Musil la realtà contemporanea, identica allo spettacolo di se stessa, si sovrappone al senso barocco del mondo quale teatro in cui si recitano, anche senza saperlo, ruoli e parti di significato universale” (Magris,1986, p.178-179). Sono temi simmeliani che saranno ripresi in grandi romanzi, ma anche nella scienze sociali e naturali. Si pensi in particolare a Laws of Form (1969) di Spencer Brown in cui è delineata una logica coerente e completa basata su 'distinzioni', che Maturana e Varela identificano come “il cognitivo atto elementare da uno sfondo e uno sfondo come il dominio in cui si distingue un soggetto" (Maturana e Varela 1985, p. xxii). Il dato di partenza di Spencer- Brown sono le idee - fondamentali come convergenti in un principio interdisciplinare - della “distinzione” (distinction), l’idea dell’“indicazione” (indication) e l’idea per la quale non possiamo fare un’indicazione senza tracciare una distinzione (1). In una realtà che abbandona le concezioni prospettivistiche per una concezione sempre più “aprospettica” non è più possibile un rapporto intelligente con il proprio tempo tutto fondato sulla relazione semplice tra un Io ingenuo e un mondo monoprospettico e ben strutturato. Come sostiene Peter Sloterdijk “l'universum diviene qui un multiversum e l’atomon individuale un polytomon, ente sfaccettato dalle molteplici divisioni” [Sloterdijk 1992, p.396]. Sloterdijk delinea addirittura i contorni di un vero e proprio cinismo mediale per il quale i mezzi di comunicazione di massa agiscono sulla società come climatizzatori artificiali delle coscienze. Nel vortice dei media ogni Weltanschauung diventa in modo sempre più netto “un'immagine di seconda mano, mutuata da sensali e imbonitori” (Sloterdijk 1992, ibid). L’analisi di Sloterdijk tocca toni che, a ben guardare la realtà odierna, sarebbe assurdo definire apocalittici: “I notiziari inondano la coscienza tele-infetta con frammenti di universo sminuzzati in particole informazionali; simultaneamente il mondo esterno è risolto in fluorescenti paesaggi a forma di notiziario che “nevicano” in un tubo catodico di qualità scadente, altrimenti noto sotto il nome di “coscienza individuale”. Di fatto, i media possiedono la capacità di riorganizzare ontologicamente il reale in quanto inerente alle nostre teste. Che tutto cominci in modo totalmente innocuo, fa parte del gioco. La gente legge i giornali; pensa di registrare cose che la “interessano”; dagli anni Venti ascolta anche la radio, s'affretta lungo vie sovraffollate, piene di réclames, ammira vetrine dalle offerte allettanti. La gente abita città che altro non sono se non 18 dei mass-media in cemento armato, fasciati tutt'intorno da reti di segni e comunicazioni: un traffico continuo preposto a dirigere il moto delle maree umane. La metropoli ci appare come un gigantesco boiler che pompa il plasma dei soggetti attraverso un sistema tubistico-semantico” (Sloterdijk 1992, p.397). Sloterdijk richiama una pagina significativa di Fuga senza fine di Joseph Roth (1927) in cui una Berlino che richiama in qualche modo la metropoli simmeliana, è così descritta: Vedemmo uno che correva in preda a furia omicida e una processione; la prima di un film, una ripresa cinematografica, il salto mortale di un saltimbanco a Unter den Linden, uno scippato, l’asilo dei senzatetto, una scena d’amore in pieno giorno al giardino zoologico, una colonna delle affissioni girevole, tirata da asini, tredici locali per coppie omosessuali e lesbiche [...] Era di nuovo il periodo in cui letterati, attori, registi cinematografici e pittori guadagnavano dei bei soldi. Era il periodo della stabilizzazione della moneta tedesca, si aprivano nuovi conti bancari, persino i periodici più estremistici guadagnavano corposi onorari nei supplementi letterari dei quotidiani borghesi. Il mondo era già consolidato a tal punto che i feuilletton potevano permettersi di essere rivoluzionari.... In questo nuova condizione gli Io si riducono a mezzi, a funzioni di questo “sistema tubistico-semantico”: “L’Io e il mondo, ciascuno nel suo proprio status di fluidificazione, pervengono entrambi alle strozzature ontologiche che stanno a monte delle mille e una teorie moderne della "crisi"” (Sloterdijk1992, ibid.). La nuova condizione medi-ontologica assesta il colpo decisivo alla metafisica classica e dissolve la vecchia aspirazione alla totalità e la rappresentazione stessa dell’individuo come tutto indivisibile. Secondo Sloterdijk, nessuno meglio di Robert Musil, “su un piano di superba ironia, ha saputo formulare la giustapposizione tra la vecchia e la nuova condizione dell’individuo. Il punto di riferimento è un brano del capitolo 54 di Der Mann ohne Eigenschaften, di Musil il romanzo che effettua, di fronte alle tesi della “non salvabilità del sé” (das unrettbar Ich), “un prolungato sforzo teso a questo salvataggio” (Berger 1992, p.9). E’ degno di lode chi ancor oggi serba aspirazione a essere un tutto”, disse Walter. “Oh, non ce n’è più”, significò Ulrich. “Ti basta una sola occhiata sul giornale. E’ zeppo di una sua immensa opacità. Vi si parla di talmente tante cose da travalicare la vis intellectiva di Leibniz. Eppure non lo si nota nemmeno; siamo mutati. Non c’è più 19 un uomo intero innanzi a un mondo intero, ma piuttosto un quid humanum che aleggia nel brodo di cottura universale” (Musil 1971, p.211). Non c’è più l’uomo nella sua interezza. E forse non c’è mai stato. Ma è certo che non è più l’individuo a governare il proprio “sé”: “Questo stesso processo di disintegrazione si applica anche al sé. Detto in altri termini, diventa sempre più difficile vedere il “sé” come il centro delle azioni dell’individuo. Piuttosto, queste azioni vengono ad essere percepite come eventi che accadono all’individuo, separate da lui, e spiegabili in termini di cause esterne (sociali) o interne (organiche e psichiche). Il soggetto di Cartesio, che era capace di dire cogito ergo sum, si dissolve nel flusso di oggettività di Mach. La soggettività moderna si rovescia al di fuori di sé stessa” (Berger 1992, p.13). La tecnica come spirito cristallizzato spinge l’individuo a reagire: “Così, l’elemento più personale, per salvarsi, deve dar prova di una singolarità e una particolarità estreme: deve esagerare per farsi sentire, anche da se stesso” (Simmel 1995, p.55). Si potrebbe operare u confronto fra la metropoli razionalizzata di Georg Simmel, città del cervello e dell’intelletto, con la metropoli fatata di Leopold Bloom: il protagonista di Ulysses di James Joyce città del segno e della magia. Sembrano due mondi diversi, separati, inaccostabili. Eppure, hanno ragione tutti e due, perché parlano di cose diverse: Simmel pensa alla città della produzione; Joyce, a quella del consumo. Nella prima, vige il duro “disincanto” di Max Weber; nella seconda, al contrario, il “bisogno di reincanto” [Moretti, 1994: 124]. Quello della modernità è il mondo delle dicotomie, dei dualismi, un mondo sdoppiato come afferma Ernest Gellner, tra “standardizzazione e anomia”. Moretti, ne estrapola il paradosso della pubblicità: “prendere dei prodotti standardizzati, e farli sembrare unici (Moretti 1994, p.125). 5. Il quadro intellettuale e spirituale dipinto da Robert Musil è quello di un’epoca in cui, con le sue stesse parole “lo spirito rassomiglia a un mercato pubblico” “Così - scrive Musil - lo spirito è il grande fabbricante di alternative, di “secondo i casi”, ma lui stesso non si lascia mai afferrare e quasi si potrebbe credere che solo suo effetto sia la distruzione. Ogni progresso è un guadagno nel particolare e uno smembramento nell’insieme; c’è un aumento di potenza che sbocca in un progressivo aumento d’impotenza, e non lo si può negare” (Musil 1972, pp.146-147). Potenza e impotenza crescono assieme in una simbiosi inestricabile quasi a segnare il ritmo inafferrabile della modernità scandito dal flusso perenne del denaro: 20 “Nessun simbolo dell’assoluto carattere dinamico del mondo è più chiaro del denaro. Il significato del denaro consiste nel fatto che esso viene ceduto; non appena si ferma non è più denaro nel suo valore e nel suo significato specifico. L’effetto che esercita in determinate circostanze in stato di quiete consiste nell’anticipazione del suo movimento ulteriore. Non è altro che il portatore di un movimento nel quale tutto ciò che non è movimento risulta completamente cancellato, è, per così dire, actus purus; vive in una continua autoestraneazione da ogni punto dato e costituisce così il polo opposto e la diretta negazione di ogni essere per sé” (Simmel 1984, p. 717). Il danaro come simbolo fondamentale della società in quanto “riflette le sue forme e i suoi movimenti”, è la cifra della modernità, ma anche l’elemento costante che caratterizza tutte le sue trasformazioni, le sue crisi, le sue evoluzioni. Ogni teoria del moderno o del postmoderno rischia di essere incomprensibile senza tenere conto del dato strutturale del continuo movimento e delle continue metamorfosi del denaro. E’ questo un dato inconfutabile sul quale convergono Simmel, Benjamin e Musil: “Plasticità, fluidità, metamorfosi: sono proprio gli emblemi nei quali Georg Simmel, nella Filosofia del denaro e Walter Benjamin nel Passagen-Werk, fissano il volto della modernità. Sullo sfondo di queste due monumentali enciclopedie dell’epoca “nuova” l’interpretazione della Zivilisation abbozzata da Musil mostra interamente il proprio spessore. Soprattutto su un punto l’analisi di Musil rivela una piena sintonia con i principali tratti della fenomenologia della vita metropolitana delineata da Simmel all’inizio del secolo, e poi successivamente ampliata da Benjamin: sulla capacità di aderire alla logica della modernità senza alcun pregiudizio, ma senza mai cedere, nello stesso tempo, alle effervescenti mitologie del progresso. La modernità sfugge, infatti, per Simmel come per Benjamin, ad ogni proiezione mitografica. E’ animata, certo, da una strenua, febbrile carica progettuale, ma si tratta, comunque, di un progetto che rimane perennemente “incompiuto” rispetto agli schemi tradizionali della filosofia della storia. Incompiuto, bloccato dalla logica stessa che regola la vita moderna. Un compito bloccato dalla fluidità che secondo Simmel - il denaro impone come unico valore: fluidità, o meglio relativismo, che vanifica, dissolve, la consistenza di ogni telos che non sia quello del puro “scambio”, sulla cui forma interamente si modella la cultura moderna...” (Mazzarella 1995, p.65). La sociologia di Simmel come "scienza delle relazioni in cui viene elaborato sia l’individuale sia il collettivo", è aperta in modo, per molti versi interdisciplinare e cosmopolitico, alla complessità. La riflessione sulla modernità è stata spesso al centro della riflessione sociologica e, più in generale, di tutte le scienze sociali. A partire dalla seconda metà del XIX secolo le estetiche che analizzavano i processi di transizione alla società moderna si 21 collegavano alle manifestazioni moderniste e a movimenti d’avanguardia che si proponevano programmaticamente di esprimere i “tempi nuovi”. Ma forse nessuno si rende conto meglio di Simmel che la comprensione e spiegazione della modernità non dipende tanto da una reductio ad unum, quanto dall’individuazione del nuovo, della diversità, della differenza. Per cogliere questi passaggi, le modalità specifiche attraverso le quali il “nuovo” si fa sistema, “coesione sociale” non è necessaria una teoria compatta della società quanto, piuttosto, una ricerca ed una cooperazione interdisciplinare tra le scienze. Questo spirito di ricerca caratterizzerà la sociologia “atipica” di Simmel la cui opera costituisce un ponte straordinario tra la modernità colta nei suoi processi originari e ciò che, con termine general generico, viene definito “post-moderno”. Come non riflettere su quanto la “postmodernità” si riveli come il regno della pluralità, della eterogeneità, della destrutturazione, dello spettacolo”. La storia del “postmoderno” è una vecchia e discontinua storia che si è sviluppata all'insegna di contraddizioni e di paradossi. Ha fatto notare Niklas Luhmann che la società moderna si trova oggi di fronte a se stessa. Ma non basta certamente che si concepisca solo come “risultato della sua storia” (Luhmann 1987, p. 97) in quanto “questa descrizione contiene troppo poca informazione” (Luhmann, ibid.). Si passa con grande facilità dal “postindustriale” al “postmoderno” alla “posthistoire” per cui a ragione sostiene Luhmann che una descrizione temporale della società dipende, per la sua integrazione, dalla sua descrizione strutturale, allo stesso modo procedono insieme teoria dell’evoluzione e teoria dei sistemi. Da questo punto di vista l’opera di George Simmel continua a fornirci strumenti importanti per riflettere criticamente sulla società contemporanea, sulle sue ideologie, sulle sue contraddizioni, sui suoi miti. Charles Baudelaire nell’introdurre il concetto di “modernité” in un saggio del 1863 (Baudelaire 1962) ne sottolineava gli aspetti di fluidità, dinamismo e libertà: moderno come ciò che è “transitorio, fugace, fortuito”. Alla fine di una Saison en enfer, scrive Roberto Calasso, dopo un capoverso ruvido e corrusco, squillano cinque parole: Il faut être absolument moderne”. Il perché non viene detto. Il moderno fiorisce “senza perché”, come la rosa di Angelus Silesius” (Calasso 2008, p. 201]. 22 Ma da quel transitorio, fugace e fortuito prenderà corpo l’industria moderna a cominciare da quella della cultura le cui caratteristiche saranno descritte anche da George Simmel, Joseph Roth, Walter Benjamin e Robert Musil: “L’industria culturale-espressione di Adorno e Horkheimer- che già suonava obsoleta poco tempo dopo essere stata introdotta – ebbe il suo inizio ufficiale a Parigi nei primi anni di luigi Filippo. Si dettero in quel momento le condizioni indispensabili perché il fenomeno si manifestasse: innanzitutto la stampa quotidiana, che in futuro si sarebbe ramificata nella pluralità dei media ma allora li comprendeva tutti, aumentò fortemente le tirature e abbasso altrettanto fortemente i prezzi, ricorrendo per la prima volta in modo sistematico alla pubblicità…Così, accanto alla macchina a vapore e alla fotografia, la pubblicità prese posto fra le novità decisive nella prima metà dell’Ottocento. Pubblicità significa innanzitutto che certi oggetti cominciano a parlare e produrre immagini. E’ un processo all’inizio risibile e goffo, ma dagli sviluppi incalcolabili. Nata come appendice della produzione, la pubblicità riuscirà un giorno a invertire il rapporto: gli oggetti vengono prodotti perché certe immagini, certi nomi, certe parole trovino un supporto. La moda è un accorgimento per rendere più erotico questo continuo debordare dalle immagini, assimilandolo alla incessante mutevolezza del desiderio. Modello e fondamento della pubblicità è l’inquietudine insanabile della vita mentale, la cui patria morale è la delectatio morosa (Calasso 2008, p.57). Calasso coglie le origini di un fenomeno della produzione e della riproduzione allargata dell’ideologia del capitalismo che Simmel descrive allo statu nascenti, che Marx analizza strutturalmente, e che successivamente Adorno e Horkheimer svilupperanno come “industria culturale” piegata alla logica del capitale e della merce, e Guy Debord come “società dello spettacolo”. Horkheimer e Adorno sostengono che con la perdita del sostegno sociale rappresentato dalla religione, con la “dissoluzione degli ultimi residui della società precapitalistica, la crescente differenziazione tecnica e sociale e la tendenza allo specialismo”, si determina un “caos sociale”, una “concentrazione dello spirito” diretto a celebrare “l’elogio del ritmo d’acciaio”, il “potere totale del capitale”, il dominio della tecnica la razionalità della quale, per i francofortesi, non è altro che “la riproduzione e ramificazione sociale della pratica e dell’ideologia capitalistica” (Adorno e Horkheimer 2010). Nella Philosophie des Geldes Simmel approfondisce alcuni di questi processi che sviluppa in relazione alla sua analisi del denaro come medium per molti versi legata a 23 quella marxiana. Scrive Marx nei Manoscritti economico filosofici del 1844 il denaro come medium fondamentale, onnipotente, dell’ideologia capitalista che penetra profondamente nei mondi vitali, condizionando l’esistenza stessa degli uomini: “Il denaro, poiché possiede la proprietà di comprar tutto, la proprietà di appropriarsi tutti gli oggetti, è così l’oggetto in senso eminente. L’universalità della sua proprietà è l’onnipotenza del suo essere; esso vale quindi come ente onnipotente… Il denaro è il lenone fra la vita e il mezzo di vita dell’uomo. Ma ciò che mi media la mia vita mi media anche l’esistenza degli altri uomini (Marx 1969, p.252). Senza voler fare alcuna forzatura, come non mettere in un rapporto di continuità il “medium denaro” col “medium spettacolo” che ha conquistato un ruolo di primo piano nella società contemporanea che il leader della corrente situazionista Debord definisce come “società dello spettacolo”? Lo spettacolo ha occupato l’intera scena sociale e rende visibili soltanto le relazioni fondate sulla merce, diventa un bene economico, un medium, una sorta di equivalente generale come il denaro. Parafrasando proprio l’incipit del Capitale (2), Debord così apre il suo La società dello spettacolo: Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli (3). L’era della globalizzazione sembra coincidere con lo sviluppo di quella che Debord caratterizza come unbroken continuity, come ininterrotta continuità dello spettacolo che ha penetrato profondamente le strutture della quotidianità. Per Debord lo spettacolo diventa un vero e proprio “regno autocratico dell’economia di mercato” che ha aderito a una irresponsabile sovranità e alla totalità delle nuove tecniche di governo che accompagnano questo regno. La costituzione del potere dello spettacolo implica una profonda trasformazione sociale che ha radicalmente cambiato l’arte del governo. Esso può essere definito come crogiolo, come simbolo dei simboli, come produzione individuale e sociale di movimento e visibilità; ha a che fare soprattutto con le facoltà visive, col “mostrare e mostrarsi”. Lo spettacolo ha occupato l’intera scena sociale e rende visibili soltanto le relazioni fondate sulla merce. Ad esso ci accostiamo non solo per “mostrarci” e “mostrare”, ma anche per cercare di “vederci”, per “rispecchiarci”. 24 Simmel continua ad insegnarci che esistono altre relazioni ben più significative di quelle fondate sulle merci che possono aiutarci se non a colmare, almeno ad attenuare “la mancanza di qualcosa di definitivo nel centro dell’anima” (Simmel 1984, p. 681]. 25 Note 1) Ogni “indicazione” per Spencer- Brown implica “dualità”. Non è possibile “produrre qualcosa” senza “cooprodurre ciò che esso non è”. Ogni “dualità” implica “triplicità”: ciò che la cosa è, ciò che non è, e i confini esistenti tra essi” [Spencer- Brown 1994, p. ix). Come Spencer- Brown spiega, nel primo capitolo di Laws non è posibile “indicare” (indicate) qualcosa senza “definire” (defining) due stati, e non è possibile “definire due stati” senza “creare tre elementi”. Nulla esiste in realtà in modo separato dagli altri. Scrive James Joyce: “Quando hai percepito quel cesto come una cosa una e poi l’hai analizzato secondo la sua forma e percepito come una cosa, tu fai la sola sintesi che sia logicamente ed esteticamente ammissibile. Tu vedi che in quel cesto è la cosa che è e nessun’altra. Lo splendore di qui parla san Tommaso è la quidditas scolastica, l’essenza di una cosa” (Joyce 1976, p.359). 2) Il famoso incipit del primo libro del Capitale, così recita: «La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una “immane raccolta di merci”» [Marx 1967-1968, I, 45]. 3) Cfr. Debord 1990, p. 85. Scrive inoltre Debord: «Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo» [Debord,1990, 92]. 26 Riferimenti bibliografici Baudelaire C. (1962), Le peintre de la vie moderne, in Curiosités esthétique: l’art romantique, Paris 1962. Bauman Z (2002) tr. it. Il disagio della postmodernità, Bruno Mondadori, Milano (ed. or. 2000). Berger L. Luckmann (2010), tr.it. Lo smarrimento dell’uomo moderno, il Mulino, Bologna (ed. or.1995). Bodei R. (2002), Destini personali. L’età della colonizzazione delle coscienze, Feltrinelli, Milano. Debord G. 1990, trad.it. 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Marsilio, Padova, (ed.or. 1980). 27 Mazzarella A. (1995), Parole sul “grembo del nulla”. Musil e l'artificialità dei segni, in “Cultura tedesca”, n. 3, aprile Moretti F. (1994), Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal Faust a Cent'anni di solitudine, Einaudi, Torino. Musil R. (1972), tr.it. L'uomo senza qualità, Einaudi, Torino, 2 vol,.(ed. or.1930-1933) Pirandello L. (1993), Uno, nessuno, centomila, Feltrinelli Milano, (ed.or. 1926). Pirandello L.(1986), L’umorismo, Mondadori, Milano (ed.or. 1908). Rosset C. (1993), Le Réel et son double, Gallimard, Paris. Simmel G. (1984), Filosofia del denaro, tr. it. di A. Cavalli, R. Liebhart, L. Perucchi, a cura di A. Cavalli e L. Perucchi, utet, Torino (ed. or. 1900). Simmel, G (1976), Il conflitto della cultura moderna, in id. Il conflitto della cultura moderna, a cura di C. Mongardini, Bulzoni (ed. or. 1918). Spencer- Brown G. (1969 –1994), Laws of Form, limited edition, BookMasters, Ashland, Ohio. Sloterdijk, P. 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Ciò che mi ha sempre colpito della filosofia platonica, è la costante e sistematica insistenza con cui il grande ateniese torna sul corpo, non su una generica materia diveniente, quando il filosofo pone il tema metafisico per eccellenza: la distinzione fra essere e divenire, idea e sensazione, scienza e opinione, insomma ripetibile e irripetibile. E’ una autentica ossessione quella platonica, perché ciò che appare più urgente da negare rendendolo ipso facto ripetibile, è proprio la corporeità, la più autentica minaccia alla potenza della metafisica, col suo essere dato irreversibile, dato per sempre. Bisogna sottolineare che man mano che la storia della metafisica si allontana dal modello platonico, sembra perdere la consapevolezza della propria radice che scaturisce dalla negazione della corporeità; per questo è importante tornare all’ idealtipo platonico della metafisica, perché lì si palesa in maniera chiarissima lo scioglimento del corpo nella soluzione chimica della metafisica intesa come scienza del ripetibile; la medicina dell’anima platonica da questo punto di vista è l’autentico modello universale di ogni scienza universale dei corpi. Lèon Robin nel suo classico La Thèorie platonicienne de l’Amour pubblicato nel 1908 (ed. it. a cura di G. Reale, CELUC, Milano 1973), definisce la natura sintetica dell’amore platonico, con particolare riferimento ai tre dialoghi in cui Platone affronta il tema dell’Amore, il Liside, il Simposio e il Fedro; dialoghi di cui lo studioso francese stabilisce anche la successione cronologica così come indicata. “L’Amore – scrive Robin – risulta dunque, anche qui, una sintesi della natura mortale con quella immortale” (ibidem, p. 142). La natura sintetica e intermediaria dell’amore, di cui è espressione il mito della nascita di Eros da Penia e Poros che leggiamo nel Simposio, è forza che trasforma ciò che è mortale, per antonomasia il corpo, in ciò che è immortale e vero, in quanto forma assoluta e ripetibile. Secondo Robin l’esigenza di mediazione fra mondo di quaggiù e mondo sopraceleste è strutturale nella filosofia platonica, per questa ragione l’erotica con la sua forza sintetica, è centrale nel discorso platonico. “L’Amore, che unisce gli esseri, rende possibile la comunione fra la terra e il cielo. E’ una relazione in perpetuo movimento fra Non – Essere e l’Essere; tuttavia il Non – Essere che sussiste in lui è un Non – Essere relativo, in fondo al quale vi è il desiderio a l’aspirazione verso l’Essere” 29 (Ibidem, p. 159). Il possesso duraturo dell’Essere può dunque essere dato solo dal superamento del corpo, segnato indelebilmente dal Non – Essere; il desiderio è spinta verso l’essere nella misura in cui si stabilisce la natura nichilista del corpo. Robin sottolinea come Platone colleghi il discorso sull’Amore a quello che riguarda l’Anima, proprio perché come ci dice il Fedro “la natura dell’Anima è essenzialmente sintetica nel senso, anzitutto, che ogni anima è legata ad un corpo vivente” (Ibidem). L’Anima è in relazione con le Idee, stabilisce una relazione con l’Assoluto attraverso la negazione – superamento della corporeità irripetibile. Questa funzione dell’Anima è possibile grazie al fatto che, come nota lo stesso Robin, “la totalità del corporeo ( ) è posta nel seno stesso dell’Anima “ (Ibidem, p. 160 ). Platone inserisce dunque il corporeo nell’Anima, con la distinzione fra anima mortale e anima immortale, al fine di operare più facilmente la sussunzione della corporeità irriducibile nella forma assoluta e ripetibile della verità. A proposito della evoluzione nella concezione platonica dell’anima che supera il dualismo più rigido e ingloba la sfera del somatico nello psichico, riporto una annotazione che Mario Vegetti fa nella sua Guida alla lettura della Repubblica di Platone (Laterza, Bari 1999): “Occorre rilevare la straordinaria novità che Platone introduce con la sua teoria della scissione dello psichico. In primo luogo, essa determina l’obsolescenza di una vecchia e illustre posizione di pensiero, con solide radici religiose nella tradizione orfico – pitagorica, che aveva ancora svolto un ruolo dominante nel Fedone platonico: l’opposizione radicale, insieme ontologica e morale, di anima e corpo, nella quale la prima rappresentava la polarita ‘divina’, immortale, incontaminata, il secondo invece il veicolo di contaminazione, di impurità morale e conoscitiva, di mortalità. In questo quadro, il corpo veniva pensato come la sorgente inesauribile dei desideri e delle conseguenti passioni, altrettanti ‘ chiodi che conficcano l’anima nel corpo ‘ (83 d – e). La Repubblica compie per questo aspetto una svolta teorica decisiva, attribuendo senza incertezze desideri e passioni alle istanze irrazionali dell’apparato psichico (437 c). La corporeità resta esclusa, o collocata sullo sfondo, della dinamica conflittuale intrapsichica, né la Repubblica, a differenza di quanto accadrà nel Timeo, prospetta alcuna forma di localizzazione somatica delle istanze in cui in cui l’io risulta articolato e scisso” (Ibidem, p. 56). La corporeità è dunque assorbita e sussunta nell’anima, così che la sua irriducibilità possa essere governata e controllata nella macchina ripetibile della verità assoluta. Se pensiamo all’analisi che Hegel fa nella sezione dedicata all’ Antropologia dell’ Enciclopedia delle scienze filosofiche, dove l’anima rappresenta esattamente la 30 negazione del corpo ( su questo mi permetto di rinviare al § 60 del mio scritto Per una filosofia dell’irripetibile), allora possiamo davvero misurare come abbiamo già osservato, l’importanza della filosofia platonica nel definire la forma stessa del pensare metafisico come controllo e ripetizione della singolarità irripetibile, ovvero nichilismo del corpo. Lo stesso Vegetti, traendo la conclusione del suo discorso in termini di filosofia politica scrive infatti: “Le conseguenze di questa svolta teorica sono di eccezionale importanza. Se infatti nel Fedone la polarità anima /corpo determinava la concezione della vita filosofica come una ascesi morale e intellettuale, un progressivo rescindimento dei vincili che legano l’anima al corpo, insomma come una preparazione alla morte e resurrezione, la Repubblica, interiorizzando il conflitto nell’anima stessa, apre la via a una politica dell’anima tutta mondana, al progetto di una strategia di condizionamento educativo del soggetto, destinato a superare quel conflitto in un orizzonte di pacificazione situato nella città degli uomini e non nel mitico aldilà delle anime ‘pure’ e dei loro dei “ (ibidem, p. 56 – 57). Insomma per Vegetti la svolta teorica che la Repubblica opera nella concezione dell’anima, inglobando il somatico, per Platone è necessaria al fine di rendere possibile una prospettiva politica sulla giustizia. Robin con riferimento al Fedro, ricorda come per Platone la parola Eros viene da ptèros, ovvero “alato”; dunque Eros è la forza che mette le ali all’anima immortale, e gli permette di liberarsi dal suo essere intrigata con la corporeità; “è nella Pianura della Verità che l’Anima cercherà il nutrimento che le conviene” (La teoria platonica dell’amore, cit. p. 163). L’anima mortale condivide lo stesso destino ontologico del corpo, ovvero la negazione e sottomissione all’anima immortale che rappresenta il tramite con la verità eterna, metafisica, la quale appare segnata inevitabilmente dal segno negativo del nichilismo. La funzione mediatrice e demonica dell’anima rappresenta l’essenza stessa dell’anima immortale che governa, come racconta il mito dell’auriga e dei corsieri del Fedro, le parti mortali dell’anima. Come abbiamo già ricordato, è da notare la coincidenza di vedute a proposito della funzione negatrice – mediatrice dell’anima, tra l’analisi platonica e quella hegeliana, contenuta nelle dedicate all’ “Antropologia” nell’ Enciclopedia delle scienze filosofiche. Ricordiamo in proposito la nota che Hegel fa seguire al §389 dell’Enciclopedia, dove il filosofo tedesco nel delineare l’emergere dello spirito soggettivo attraverso la negazione della corporeità irripetibile e immediata, scrive: “La questione circa l’immaterialità dell’anima non può avere alcun interesse; salvo 31 che la materia non venga ancora rappresentata come alcunché di vero, da una parte, e lo spirito, dall’altra, come una cosa. … Ma nello spirito in quanto concetto, la cui esistenza non è l’individualità immediata, ma la negatività assoluta, la libertà, - onde l’oggetto o la realtà del concetto è il concetto stesso, - l’esser fuori di sé, che costituisce la determinazione fondamentale della materia, si è volatilizzato del tutto facendosi l’idealità soggettiva del concetto, l’universalità. Lo spirito è la verità esistente della materia: è questa verità per l’appunto, che la materia medesima non ha verità nessuna” (G. W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, traduzione di B. Croce, Laterza, Bari 1989). Hegel, coerentemente con la logica metafisica intesa come scienza del ripetibile istituita da Platone; supera il dualismo materia – spirito nella identità del concetto, dell’Assoluto ripetibile che non a caso viene rappresentato dalla forma del circolo. Ma anche su questo va ricordato il nesso profondo che nella tradizione metafisica platonica e aristotelica esiste tra il percorso infinitamente ripetibile della forma circolare (identificabile col tempo platonico inteso come l’“immagine mobile dell’eternità”), e l’eternità intesa come forma che si ripete e si replica attraverso l’infinita negazione di ogni sua “apparente” singolarizzazione e materializzazione. Tornando a Platone, ciò che mette le ali all’anima elevandola sul piano della verità eterna, è la stessa forza che permette all’Intelletto di accedere alla scienza e all’universalità ripetibile che supera e nega insieme il corpo irripetibile a cui è legata inestricabilmente l’anima mortale. L’anima razionale è l’organo della scienza, ovvero della conoscenza eterna e ripetibile (replicabile circolarmente all’infinito, dunque senza novità di sostanza); la circolarità assoluta della verità metafisica equivale logicamente e ontologicamente alla negazione delle singolarità irriducibili. Robin nell’opera a cui stiamo facendo riferimento, pone giustamente il problema del significato della presenza nell’uomo della parte mortale e corruttibile dell’anima. Questa parte corruttibile dell’anima è strettamente intrecciata col corpo, ed ha una sua precisa funzione nella logica dell’essere che degrada; ovvero in quella gerarchia ontologica che caratterizza il platonismo e tutte le forme di platonismo che si succederanno nella storia del pensiero. L’essere per Platone si pone secondo un ordine gerarchico, da un massimo (Il Bene – Bello, l’Uno) ad un minimo di consistenza ontologica (lo spazio – materia, la chora); è evidente che intrinseco a questa visione dell’essere è l’idea di negazione, infatti solo andando dal più al meno, ovvero sottraendo e negando l’essere, è possibile istituire una gerarchia. L’alternativa 32 all’essere gerarchico è l’essere pieno, compatto, piatto, lineare. La sottomissione della corporeità necessita nella logica gerarchica dell’essere, che come abbiamo detto è logica di negazione e sottrazione dell’essere, di un’anima mortale che funga da mediatrice tra il piano della ragione eterna e il corpo mortale. La scienza della ripetizione è la scienza della negazione; la negazione si ripete istituendo la gerarchia dell’essere e degli esseri. Secondo Robin l’Anima nel suo atto essenziale per Platone è amore; infatti l’Anima “non è un’Idea, ma soltanto un ente che è imparentato con l’Idea, in ente che le somiglia. Ma d’altra parte, a causa della sua caduta, è legata a delle parti mortali, si trova imprigionata nel Sensibile e, per questo, è privata delle Idee; essa manca dunque di ciò che si addice alla sua natura; prova ne è che l’Anima, quando riesce a liberarsi dalla schiavitù che il corpo le impone, si innamora della Verità, e la Verità è ciò che possiede la semplicità e la purezza della Cosa in sé “(ibidem, p. 188). L’Amore è dunque forza mediatrice, tensione verso l’Assolto, da intendersi come progressivo superamento e negazione della materialità irripetibile, a vantaggio della forma (idea) eterna. Il senso profondo dell’Amore platonico è pertanto la sua forza negatrice, il suo essere forza del negativo che si manifesta attraverso la ripetizione del discorso, la ripetizione della dialettica che istituisce il ripetibile metafisico. Vedremo in modo preciso questo punto quando analizzeremo il testo del Simposio, vero monumento al nichilismo platonico. La corporeità è costituita da irripetibili, da infiniti e imperfetti irripetibili, laddove la perfezione attiene alla forma ripetibile, la cui essenza è armonia e finitezza. La forma eterna, in quanto modello, è ripetizione assoluta, forma ripetibile, finitezza che nella metafisica platonica (e in tutta la metafisica classica) si lega ai concetti di misura e armonia che caratterizzano la verità (metafisica). La forma metafisica è “uno”, laddove i corpi imperfetti sono infinita molteplicità. Credo che in questo crocevia teorico vada collocata quella “ paura dell’infinito “che caratterizza le metafisiche platonica e aristotelica, ovvero la linea vincente del pensiero antico, rispetto alla linea perdente degli atomisti, che invece proprio sul concetto di molteplicità infinita costruiva una immagine del mondo fondata sul caso e la necessità, ovvero su una eternità dell’irriducibile e irripetibile, e non su una eternità fondata sulla forza del modello ripetibile che sottomette negando, la molteplicità infinita alla forma assoluta; così come avviene grazie alla forza di Eros, grazie alla quale l’Anima immortale, pur legata al corpo, “trova nell’Amore un mezzo per liberarsi dal corpo, per realizzare nella virtù la perfezione della sua essenza e raggiungere in tal modo le realtà assolute“ (cfr. L. Robin, op. cit. , p. 194). L’Amore è forza, proprio perché si radica 33 nella corporeità ed in particolare nell’anima mortale. Eros è forza che rende attiva la forma ripetibile nel suo essere negazione del corpo, anzi dei corpi; giacché si può parlare di corporeità, secondo una corretta ontologia, solo in termini plurali. La grandezza del pensare platonico sta proprio nel suo radicare la negazione metafisica nelle stesse fibre della corporeità, il che dà una forza formidabile alla sua teoresi, che si fa ipso facto politica, trasformazione, paideia. Robin coglie benissimo questo punto quando osserva che “lo stupore, principio della scienza, è parente prossimo del turbamento dal quale vengono presi gli amanti” (ibidem, pp. 200-201). Se lo stupore è la molla della scienza, allora questo stupirsi e meravigliarsi si radica nel turbamento che è corpo, passione e financo appetito; ma lo stupore attiva la forza del negativo che tanto affonda le proprie radici nella corporeità, quanto arriva a negare quella stessa corporeità nel sapere assoluto. La bellezza che traluce nei corpi, come ci dice Platone in un celebre luogo del Simposio, in realtà li illumina per cancellarli nel loro essere irripetibili. L’amore fisico è condannato da Platone nel Timeo, in quanto delirio, manifestazione dell’anima inferiore che si ribella alla ragione; la passione degrada l’intelligenza e dunque va governato – negato dalla ragione, precisamente dall’anima razionale. Il che significa che la forza erotica va posta sotto il governo dell’anima razionale, che la utilizza al fine di superare la corporeità nella forma assoluta e ripetibile. La problematizzazione platonica dell’omosessualità si colloca in questo contesto. Scrive Robin: “L’amore per i giovani è superiore all’amore per le donne proprio in quanto è più suscettibile di affrancarsi dalla passione carnale e di raggiungere lo scopo conoscitivo e morale dell’amore” (ibidem, p. 216). Lo stesso Robin ricorda tuttavia la condanna platonica della pederastia nelle Leggi (1), e la limitazione dell’amore carnale allo scopo riproduttivo. Ma allora perché l’amore omosessuale maschile è superiore? Lo è, certo, a condizione che sia rivolto alla conoscenza e non alla passione carnale, come scrive Robin; resta tuttavia il fatto che esiste anche una tendenza omosessuale maschile che si radica nella pura corporeità, ed è tutta da conquistare da parte ragione. L’omosessualità è del tutto irriducibile alla logica della ri-produzione e conservazione della specie, dunque è del tutto irriducibile alla logica del ripetibile, come invece avviene per l’eterosessualità in cui la conservazione della specie da ragione dell’atto sessuale nella sua carnalità portatrice di appetiti e di piacere. L’amore eterosessuale è riconducibile alla ragione, proprio perché rende possibile eternizzare la specie; infatti come scrive Robin, “il desiderio dell’eternità che è la radice della generazione fisica, che ne è il principio e che ne 34 fissa contemporaneamente i limiti, è dunque anche la ragione profonda dell’amore filosofico. Ma l’eternità alla quale esso aspira è, almeno, un’eternità vera, quella che è conferita dal possesso del Vero assoluto e dell’Essere assoluto” (ibidem, p. 218). L’eternità colta dalla filosofia è la vera eternità, in quanto forma assoluta e ripetibile. Nel caso dell’omosessualità, ciò che resta, irriducibile, è il piacere limitato a chi lo prova, senza alcuna possibilità di riprodurre la forma in altro che nega la corporeità immediata di chi, coppia omosessuale, vive il piacere e il senso irripetibile di un rapporto d’amore che è animacorporeità inestricabile, data per sempre ed eterna proprio nel suo essere unica. Ma allora, riprendendo Foucault, possiamo dire che per Platone la superiorità dell’amore per i giovani, si lega proprio alla necessità di rispondere alla sfida più forte che la società del tempo poneva alla logica e alla scienza metafisica del ripetibile, ovvero l’omosessualità maschile con il suo essere puro ricettacolo di piacere e senso irripetibile; ecco che allora l’amore per il maschio da parte del maschio, si rovescia per Platone in qualcosa di superiore, pura ricerca del Vero assoluto e dell’Essere assoluto, proprio per moltiplicare la sua forza negatrice di ciò che è pura irripetibilità, ovvero piacere e senso irriducibile ad altro che non sia coppia omosessuata. Amore è mediatore tra Sentimento e Ragione; il cuore della metafisica platonica è istituito dalla forza negatrice posta al servizio della ragione. Nel Fedro Platone pone il delirio, che rappresenta una sorta di rivincita della corporeità, come condizione della ripetibilità della forma eterna. Amore è demone mediatore; il suo essere medio lo rende positivo, tuttavia la sua positività esprime la forza negatrice che supera e nega la materialità nella forma assoluta e ripetibile della Scienza, della Verità. “Come l’Anima – scrive Robin - , l’Amore introduce dunque nel divenire mobile dei fenomeni un principio di stabilità, di ordine e di unione “ ( ibidem, p. 233). Secondo Robin l’Amore è la tendenza attiva verso l’idea, in tal senso l’Amore è forza del negativo, negazione dell’eternità irripetibile del corpo e sua ripetizione nella forma assoluta. La forza motrice dell’Amore è rappresentata pertanto dalla tensione verso la forma ripetibile, la cui essenza è ordine, misura e l’armonia. Se il corpo irripetibile è eternità nel senso dell’evento la cui novità è data per sempre; la forma è eterna in quanto extratemporale, oppure in quanto data da sempre e per sempre; in entrambi i casi si tratta di eternità intesa come ripetibilità. 35 Nella nostra analisi della metafisica platonica come modello della metafisica come scienza del ripetibile, facciamo ora riferimento all’analisi che Giovanni Reale fa di Eros come demone mediatore, a partire dal suo celebre paradigma ermeneutico che assume le dottrine orali di Platone, come punto di riferimento essenziale per comprendere il senso più profondo della filosofia platonica, e anche per interpretare in maniera più ricca i dialoghi. Non abbiamo la competenza per entrare nel merito della validità di tale paradigma interpretativo, che pure non è condiviso da molti interpreti e studiosi del grande filosofo greco. Ciò che ci interessa sottolineare è il fatto che, anche prendendo come riferimento il paradigma delle agrafa dogmata, la cui esistenza, al di là del loro significato per la comprensione della filosofia platonica, è testimoniata innanzitutto da Aristotele; possiamo trovare un riscontro forte per comprendere lo strutturarsi della scienza metafisica, intesa come scienza della ripetibilità. Il testo di Reale che prendiamo in considerazione è Eros dèmone mediatore e il gioco delle maschere nel “Simposio” di Platone (Ed. Rizzoli, Milano 1997). Se, come osserva Reale, Eros è l’altra faccia della dialettica; allora davvero la metafisica come scienza del ripetibile si inscrive nel corpo, e per la precisione si inscrive attraverso la negazione della corporeità. La verità socratico – platonica sull’Eros, che è messa scena in quello che Reale definisce il “gioco delle maschere “del Simposio, è una verità scritta attraverso una dialettica che nega il corpo che ama l’altro corpo, ed in ciò istituisce un essere irripetibile e irriducibile a qualunque idea, se non negando sé stesso. Eros è un Essere intermedio, è un dèmone che ci mette in tensione rispetto a quello che non siamo; ma allora l’essenza di Eros è il negativo la mancanza. Scrive Reale che Eros “è desiderio e capacità di procreare nel Bello, sia a livello fisico del corpo, sia al livello spirituale dell’anima. Muovendo dalla bellezza dei corpi sale alla bellezza delle anime, e poi alla bellezza che è nelle attività umane e nelle leggi, e, poi, altresì, alla bellezza che è nelle scienze, per giungere, infine, al vertice delle visione e della contemplazione del Bello assoluto” (op. cit., p. 28). Eros è forza ascendente verso il bello assoluto, che coincide col Bene supremo; ma salire significa negare via via tutti i gradini che costituiscono la strada che ci conduce verso il Bello supremo, che essendo appunto “supremo”, non potrà che essere pura negazione; negazione dell’essere eterno e irripetibile, che al massimo potrà essere apparenza del bello, non certo la sua verità. Secondo Reale il Simposio contiene alcuni concetti e messaggi rivoluzionari, tra questi ne riprendiamo due; il primo: “Capovolgimento radicale del senso etico – 36 educativo dell’Eros maschile “; il secondo: “Metafisica della Bellezza e suo nesso strutturale con l’erotica” (ibidem, p. 30). Per quanto riguarda il primo punto, abbiamo precedentemente osservato che Eros maschile, proprio perché accettato e legittimato nella cultura greca aristocratica, è la quintessenza della irripetibilità, in quanto irriducibile alla funzione naturale della riproduzione. Ecco che allora per Platone diventa centrale e strategico rovesciare Eros maschile nella via dia accesso privilegiata per la Verità. Da elemento di massima sfida, Eros maschile diventa elemento di massima affermazione e costruzione di una strategia di verità. Per quanto riguarda la Metafisica della Bellezza, abbiamo già osservato come l’idea di Bellezza equivale alla negazione del corpo irripetibile. Eros in quanto mediatore è la macchina della negazione, capace di penetrare nei tessuti più intimi della irripetibilità corporea. Dalla corporeità si produce la ripetibilità dell’idea metafisica di Bellezza, grazie alla spinta e alla dinamica di Eros mediatore. Nel Simposio secondo Reale è in scena una grande gara fra la poesia e la filosofia, gara che si conclude con la vittoria della filosofia sulla poesia; ciò rimanda al confronto fra apollineo e dionisiaco; laddove l’apollineo rimanda alla filosofia e il dionisiaco alla poesia; dunque l’esito messo in scena dal Simposio è per Reale la vittoria dell’apollineo sul dionisiaco, che si scatena nel finale del dialogo col personaggio di Alcibiade. Il tema del rapporto filosofia – poesia è centrale anche nella Repubblica, e lo vedremo successivamente quando analizzeremo alcuni passi del grande dialogo platonico; quel che possiamo fin da ora osservare è il nesso logico – ontologico strettissimo che esiste tra la dimensione del corpo irripetibile e la follia irrazionale rappresentata da Dioniso, e quello che si stabilisce tra filosofia, ovvero scienza della verità metafisica, e logos ripetibile rappresentato da Apollo, dio solare della conoscenza profetica. Anche Werner Jaeger osserva a proposito del Simposio che Platone cerca di gettare un ponte tra Apollo e Dioniso, cercando di mettere al sevizio della sua idea la forza di Dioniso e di Eros; ha scritto lo studioso tedesco di Patone: “Vive in lui la certezza che la filosofia riempie di senso nuovo, e trasforma in un valore positivo, tutto ciò che è vita, anche quello che sta ai confini oltre i quali il pericolo comincia” (Cfr. W. Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, vol. 2, La Nuova Italia, Firenze 1978, p. 306). Il pericolo è la follia del corpo, le energie irrazionali di cui è portatore. Di fronte a questa sfida, e in particolare come vedremo di fronte alla sfida della pederastia, secondo Jaeger con la filosofia dell’amore Platone cerca “una giustificazione ideale del rapporto erotico” (ibidem, p. 310). 37 Reale interpreta il Simposio come un gioco di maschere che Socrate – Platone vuole rivolgere, con la forza de discorso, verso la Verità che supera e nega ogni posizione parziale, via via rappresentata dai diversi personaggi protagonisti del dialogo. Scrive Reale che “per Platone stesso l’amato, anche nel migliore dei casi, non può essere se non una immagine o un riflesso dell’Eros dell’amante” (ibidem, p. 62). Se l’amato è innanzitutto un corpo, l’amante in quanto tale, può oltrepassarlo, il che significa negarlo. La Verità di Eros consiste dunque nel superamento – negazione del corpo amato; nella negazione dell’irripetibilità corporea nella ripetizione di Eros, vera coazione a ripetere. Il tema della pederastia è centrale nel Simposio, né poteva essere altrimenti in un testo che tratta di Eros ed ha come sfondo la società greca e si rivolge in particolare alla parte colta e aristocratica della società di Atene. La pederastia è difesa in particolare dal personaggio di Pausania; come scrive Reale, “le idee che Pausania esprime dovevano essere quelle più diffuse fra gli Ateniesi colti e di alto rango, al fine di giustificare, dal punto di vista etico, la pederastia” (ibidem, pp. 66-67). Abbiamo già osservato che la pederastia rappresentava una sfida formidabile per la metafisica del ripetibile; per questo la filosofia platonica dell'Eros può in un certo senso essere considerata come la risposta a quella sfida; il risultato è la piena legittimazione dell’erotica omosessuale (maschile), intesa come forza e motore per la ricerca della verità metafisica. Ciò è essenziale per la costruzione dell’ordine politico, il che è del tutto coerente con la motivazione prima del pensare filosofico platonico, ovvero la ricostruzione della polis. “Il nocciolo del discorso – scrive Reale – sta dunque in questo: è bello che l’amato conceda i propri favori all’amante in vista della sapienza e della virtù. E in quanto questo Eros costringe sia l’amante che l’amato a prendersi cura della virtù, è Eros Celeste, e ha un grande valore anche politico, perché, mediante la virtù che fa nascere negli amati e negli amanti, porta ogni vantaggio alla Città e ai cittadini “(ibidem, p. 76). Attraverso la distinzione tra Eros Uranio o Celeste ed Eros Pandemio o Volgare, Platone definisce l’Eros filosofico come forza metafisica che, superando e negando la dimensione corporea e sensibile, coglie il Bello assoluto. L’Eros sessuale è dunque solo un primo gradino destinato ad essere negato dal vero Eros, quello filosofico. Certo, possiamo osservare che qualche filo continua a tenere legato l’uno all’altra le due forme di erotica; infatti come leggiamo nel Fedro, la sapienza è una forma di mania e di delirio, in un certo senso è una forma di follia, seppure di un grado più elevato rispetto al delirio e alla follia dell’erotica sessuale; 38 tuttavia pur ad un grado metafisico, resta qualcosa di delirante e di folle; possiamo chiamarla delirio e follia del negativo, laddove l’erotica sessuale è delirio e follia del positivo. A questo punto, come abbiamo detto, vediamo come secondo l’analisi di Giovanni Reale entrano in gioco nel Simposio le dottrine non scritte di Platone, e verifichiamo anche su questo terreno la forza costruttiva della metafisica del ripetibile, così come si definisce nella scienza platonica. Il riferimento è il discorso di Aristofane con la sua rappresentazione mitologica degli uomini di forma sferica; i sessi erano tre: uomo – uomo, donna – donna, uomo – donna. Dal discorso aristofanesco emerge che Eros “è il rimedio che consegue al male della divisione in due; è la ricerca dell’altra metà, ossia il fare di ‘due uno’ e il tentativo di risanare, in questo modo, ossia in funzione dell’‘uno’, la scissione diadica dell’umana natura “ (ibidem, p. 103). Secondo Reale qui c’è un preciso riferimento alle dottrine orali di Platone; dottrine che hanno come due principi supremi l’Uno, che corrisponde al Bene, e la Diade indeterminata di grande – e – piccolo, che corrisponde al Male. Eros sarebbe dunque secondo tale prospettiva, l’aspirazione perenne di ogni esserci verso l’uno originario che coincide col Bene – Bello. La Diade rappresenta la forma del molteplice, la forma della dispersione e della frantumazione irriducibile ad ogni forma assoluta e ripetibile. Da questo punto di vista l’Uno, che ha la preminenza assoluta tra i due principi supremi, rappresenta la forma assoluta della ripetibilità, la forma che nega ogni frantumazione diadica in funzione di una reductio ad unum. In tal senso la metafisica dei principi (cuore delle dottrine orali), è una metafisica della ripetizione. I numeri ideali sarebbero la prima produzione dei principi supremi, e quale forma è massimamente ripetibile se non quella numerica? Dai numeri ideali si degraderebbe via via alle Metaidee o Idee generalissime e poi in via subordinata alle Idee meno generali fino agli enti matematici, che a loro volta si suddividono nell’abito dell’aritmetica, della geometria, dell’astronomia e della musica. L’anima rientrerebbe in questo ambito come numero semovente. All’ultimo gradino di questa gerarchia c’è il mondo sensibile che si suddivide a sua volta in mondo sopralunare e mondo sublunare. cfr. G. Reale, Introduzione a H. Kramer, Platone e i fondamenti della Metafisica, Vita e Pensiero, Milano 1989, p. 23). Se dobbiamo individuare la forma stessa, la funzione che rende possibile a partire dall’Uno e dalla Diade, l’istituzione della gerarchia ontologica, tale forma è quella della ripetizione. L’Uno è il vertice assoluto dell’essere; l’Uno null’altro è se non la possibilità di ripetere la forma negando la molteplicità diadica di grande – e – piccolo. 39 Eros è forza unificatrice che ci pone in tensione verso l’Uno; ma “l’Uno e l’Intero di cui parla Platone, non sono affatto l’aggiunzione di una metà all’altra metà, ossia una mera somma di parti. […] Dunque, cercare di diventare da due uno significa cercare il Bene che è l’Uno trascendente, Misura suprema di tutte le cose, che tutto unifica a differenti livelli e in differenti modi, come Platone spiegava proprio con le sue ‘dottrine non scritte ‘ “(G. Reale, Eros, cit. p. 110). E’ importante sottolineare che la tensione dell’Eros filosofico verso l’Uno non è una somma di parti, perché le parti in gioco nella tensione amorosa sono i corpi irripetibili, laddove la Forma dell’Intero, dell’Uno, è ripetizione; pertanto non produce una somma, che rimarrebbe irripetibile essendo irripetibili le parti, bensì attua una negazione che invece è ripetibile all’infinito. Inoltre la ripetizione dell’atto negativo è priva di novità; immagine di una circolarità assoluta come il tempo lo è dell’eternità per Platone; l’irripetibilità e la tensione erotica tra corpi irripetibili è invece novità assoluta, puro evento. Jaeger coglie appieno questo punto quando scrive che “con questo porre l’oggetto di Eros in un sommo bene da lui desiderato, quello che appariva un mero impulso irrazionale, è da Platone spiritualizzato e riempito di significato profondo. D’altra parte, però, sembra che con questa interpretazione vada perduto il significato limitato, proprio e primo, di Eros, cioè il desiderio di un bello individuale, particolare “(op. cit., p. 326). Il bello individuale, particolare, è il bello incarnato in una corporeità unica e irripetibile, che certo non può essere conservata, anzi è negata nel Bello metafisico. La liberazione dell’idea universale del bello dalle sue apparenze finite, è infatti precisamente definita da Jaeger come “un processo graduale dal corporeo allo spirituale” (ibidem, p. 329). Il cuore del discorso platonico su Eros, come è noto, lo espone nel racconto di Socrate la sacerdotessa Diotima di Mantinea. Eros è amore, desiderio di quelle cose di cui si avverte la mancanza; per questo Eros è demone mediatore tra non essere ed essere, essendo figlio di Penia (mancanza) e Poros (espediente), come racconta il mito. Come sottolinea Reale, è a questo punto che si apre il sipario della Verità su Eros, dopo che nel corso del dialogo ci si è liberati e purificati dalle false conoscenze. Reale vede in questa teoria di Eros – demone mediatore, un riferimento preciso alla metafisica dei principi contenuta nelle dottrine orali; “ Eros nella sua struttura bipolare in senso dinamico esprime quella tendenza sempre crescente, a vari livelli, del principio materiale ( la Diade indefinita di grande – e – piccolo) a ricevere il principio formale ( l’Uno e l’azione determinante dell ‘Uno, che coincide con il bene) , elevandosi, così fecondato, sempre più in alto verso il principio primo e supremo 40 dell’Uno – Bene. E proprio nel suo riprodursi perennemente, e nel suo realizzarsi continuamente a vari livelli, in questa dimensione dinamico – bipolare, Eros garantisce la stabilità e il permanere dell’essere “(Eros, cit., pp. 174 – 175). Eros è forza unificatrice che si “riproduce perennemente “, ovvero è ripetibilità e unificazione della materialità corporea; la materia aspira all’unificazione, cioè aspira ad essere negata e ripetuta nell’Uno. Da questo punto di vista la procreazione fisica è espressione di Eros come tendenza a procreare nel bello e aspirazione all’immortalità; tuttavia questo è ancora un gradino imperfetto rispetto alla immortalità ed eternità di carattere metafisico che può essere garantita solamente dalla negazione assoluta di qualunque elemento irripetibile, segno inequivocabile della corporeità. Il vero amante ama quell’unica e identica bellezza che si ripete in tutti i corpi belli, non certo la singolarità corporea nella sua bellezza unica e irripetibile; l’idea del bello traluce in tutti i corpi che diciamo belli senza esaurirsi in alcuno di essi; anzi questi sono tutti negati e superati dall’idea assoluta di bellezza. Come scrive Reale, “il vero amante ama il corpo bello non già nel suo essere corpo, ma piuttosto, in modo determinante, nel suo essere bello. […] l’Eros del corpo per Platone, se rettamente inteso, porta subito oltre, a un secondo gradino della scala d’amore, ossia al gradino dell’anima “ (ibidem, pp. 208 e 210 ). L’anima in tal senso è davvero la negazione del corpo, vero organo della filosofia intesa come conoscenza della verità, del bello che si ripete eternamente nella forma dell’armonia, dell’ordine e della simmetria. Eros come forza creatrice del giusto ordine e della giusta misura, osserva sempre il Reale, è per Platone anche potenza formatrice dello Stato. Il punto che a me appare davvero essenziale nella teoria platonica dell’amore, è costituito dal fatto che la forza metafisica e negatrice di Eros sia radicata nelle fibre stesse della corporeità, da cui il motore erotico si mette in movimento nell’ascesa verso l’intellegibile. La forza erotica che fonda la metafisica del negativo è tanto più irresistibile quanto più trabocca dalla materialità corporea. Breve antologia di testi platonici sull’amore tratti dal “Simposio” con note di commento. “[Fedro] … Perché io non so dire un bene maggiore per l’adolescente che quello d’aver subito un valoroso amante e per l’amante d’aver il suo innamorato. Il principio 41 che deve essere di guida per tutta la vita agli uomini desiderosi di vivere nobilmente, né la parentela, né gli onori, né la ricchezza, nulla insomma può così bene ispirarlo come l’amore” (Platone, Opere complete, vol. 3, Laterza, Roma – Bari 1979, 178 c, trad. di P. Pucci, come tutte quelle che seguono della stessa opera). “[Fedro] … Senz’altro quel che dice Omero, che in alcuni eroi il dio inspira la furia, questa furia è Amore che la dona agli amanti, come cosa sua “(179 b). “[Fedro] … Gli è che l’amante è qualcosa di più divino che chi è oggetto d’amore, perché egli è pieno di dio. … “(180 b). “[Pausania] L’Amore compagno di Venere Volgare è veramente volgare e agisce a casaccio, ed è quello che amano gli uomini da poco. Costoro prima di tutto amano non meno le donne dei fanciulli, e poi di questi amano i corpi più delle anime, e infine prediligono le persone più insulse, tutti intenti come sono al loro fine, indifferenti del modo, se bello o meno. D’onde capita loro di imbattersi a caso, talora nel bene, tal’ altra nel male. Gli è anche che questo Amore procede dalla dea molto più giovane dell’altra, e partecipa per la nascita tanto del maschio che della femmina. . Ma l’altro procede da Afrodite Urania che innanzitutto non partecipa della femmina, ma solo del maschio (ed è questo l’amore per i fanciulli), e che poi è più antica e inesperta di sfrenatezza. Onde coloro che sono ispirati da tal amore si rivolgono al maschio, ammirandone la natura più forte e l’intelligenza più viva “(182 181 a – c). “[Pausania] … sotto questo aspetto si potrebbe pensare invece che qui la pederastia sia ritenuta vergognosissima. Ma così sta il fatto, credo. Non è semplice; e, come osservavo all’inizio, in sé e per sé non è né bella né brutta, ma se ben compiuta è bella, se disonorevolmente compita è vergognosa. Vergognosa è dunque bassamente compiacere un uomo da nulla, bello è invece compiacere nobilmente una persona eccellente. E’ da nulla quell’amante volgare che concupisce più il corpo che l’anima perché tale uomo non è amante duraturo in quanto cerca una cosa che non dura, e così insieme allo sfiorire del corpo che amava, egli ‘ si dilegua e vola via ‘, facendo torto a molte sue parole e promesse. Ma colui che ama l’anima, che è parte nobile, rimane amatore per la vita, in quanto fuso con una cosa che dura “(183 d – e). “[Pausania] Rimane alla nostra norma di condotta una sola via per permettere che l’amato si conceda onorevolmente al suo amante. Esiste cioè da noi la regola che, come per gli amanti non è piaggeria né infamia essere disposti a servire qualsiasi servitù agli amati, così ecco rimane un’altra sola servitù volontaria e onorevole per gli amati, e questa è quella che ha per fine la virtù “(184 b – c). 42 “[Pausania] … Ecco che queste due norme, quella che regge l’amore per i fanciulli e quella che governa l’amore per la saggezza e altre virtù, debbono concorrere allo stesso fine se deve risultare onorevole che l’amato si conceda all’amante “(184 c). Nell’ambito della problematizzazione platonica dell’omosessualità (tema centrale nel discorso di Pausania), possiamo notare come l’Amore volgare sia quello che spinge verso i corpi delle donne non meno che dei fanciulli. L’attrazione per il corpo femminile trova una propria giustificazione nella dimensione della riproduzione; si tratta in tal caso della ripetizione biologica, il primo gradino nella definizione della struttura metafisica del ripetibile la cui vetta è rappresentata nel Simposio dall’Idea del Bello in sé, pura forma la cui essenza è negazione - superamento di ogni bellezza incarnata che, per quanto perfetta, mai sarà la forma perfetta del ripetibile in quanto tale. Il rapporto uomo – uomo sta dalla parte di Eros volgare, Pandemio, se è rivolto unicamente al corpo; in tal caso è ancora più diabolico dell’amore per il corpo femminile. Infatti in tal caso c’è sempre la via d’uscita della ripetibilità biologica; nel caso dell’amore omosessuale (maschile, in quanto di omosessualità femminile non è proprio il caso di parlarne, considerato il ruolo che alla donna veniva assegnato in quel tempo), la sfida è estrema perché o soccorre la verità assoluta, oppure è solo attrazione corporea chiusa unicamente nell’irripetibilità e irriducibilità di due corpi erotici. Eros celeste, Uranio, come leggiamo nel Simposio non partecipa della femmina, ma solo del maschio; per questo il vero amore è quello dell’uomo maturo (amante) nei confronti del fanciullo (amato), perché solo attraverso questo rapporto si possono salire i gradini della conoscenza che, superando e negando ogni singolarità corporea, arrivano fino alla verità, alla Bellezza in sé, pura armonia e simmetria, pura forma ripetibile attraverso l’indefinita, illimitata e molteplice corporeità. La sfida dell’amore è la sfida della follia nei confronto del logos; ricordiamo che nel Fedro Platone include l’amore nella sfera della follia. Se la sfida dell’erotismo che si sviluppa nel rapporto corporeo tra l’uomo e la donna è superata dalla logica della riproduzione biologica (per quei tempi si trattava di una logica non metafisica, tuttavia immodificabile); la sfida dell’amore omosessuale tra due maschi, è superata da Platone grazie alla logica metafisica che definisce la verità come pura ripetizione della forma. Per la cultura del tempo, solo l’uomo aveva l’intelligenza per salire i gradini nella scala della verità; Platone può così vincere la minaccia estrema dell’omosessualità maschile alla logica del ripetibile, trasformando il piacere irripetibile in energia disponibile, che negando e scarnificando il corpo erotico ne lascia un mero simulacro metafisico: il Bello in sé che dunque nella sua essenza è pura negazione. Scrive a proposito del Simposio Camille Dumouliè (Le dèsir, trad. it., Einaudi, Torino, 2002, p. 20 ): “Nel bagliore della sua purezza, infatti, il bello non può in ogni caso essere uno specchio. Anzi, a rigor di logica, non è nulla. O è qualcosa di 43 definibile solo con formule negative. La bellezza ‘ semplice ed eterna ‘ ‘ non si rende visibile ‘ come un volto, o delle mani, o qualche altra forma corporea, né come un discorso o una conoscenza […] ‘. Qual è dunque il volto di questa bellezza senza volto? Se la funzione del bello è quella di guidare il desiderio verso un’immortalità che è il nome glorioso della morte stessa, se, dunque, il suo ruolo è quello di tessere un velo d’illusione tra il desiderio e la pulsione di morte, il Bello in sé corrisponde a quel momento di supremo piacere in cui il velo delle belle apparenze sta per lacerarsi “. Secondo Dumouliè il bello in sé di Platone anticipa la “metafisica negativa di Plotino, per il quale il bello in sé è l’ultimo bagliore dell’Essere prima dell’identificazione suprema con il Non – Essere dell’Uno “. Il Bello in sé è dunque Negazione e Ripetizione. “Ed ecco quel che disse Eurissimaco: Penso che sia necessario, dal momento che Pausania non è andato sufficientemente a fondo del discorso che però ha bene iniziato, che sia necessario, dico, cercare di completare la fine mancante. Buona mi è parsa la sua distinzione di due Amori; che però Amore viva non solo nelle menti umane e tenda verso i belli ma anche verso molte altre cose e viva i altre nature, cioè nei corpi di tutti gli animali e nelle piante della terra, e per dirla in una parola in tutti gli esseri, tutto ciò mi par d’averlo osservato bene dalla medicina, l’arte nostra … . Perché la medicina, per dirla in breve, è la scienza delle inclinazioni amorose del corpo verso la pienezza e il vuoto, e chi sappia riconoscere in esse la buona e la cattiva inclinazione, questi è medico espertissimo” (185 e – 186 d). “[Eurissimaco] La medicina dunque, come vi sto dicendo, è tutta governata dal dio Amore, e così pure la ginnastica e l’agricoltura” (186 e). Il medico Eurissimaco riporta il discorso su amore dal cielo alla terra; non a caso fa riferimento alla distinzione introdotta da Pausania tra Afrodite Celeste e Terrestre. La dimensione terrestre di Eros viene dal medico – scienziato rivalutata, proprio perché il criterio di giudizio non è morale, come accadeva nel discorso di Pausania, bensì scientifico. Pertanto amore è come una energia cosmica colta nella sua materialità, nel suo essere forza di riempimento e svuotamento; il pieno e il vuoto con i loro equilibri relativi producono la salute di cui la medicina è la scienza ma anche l’arte, memori dell’esperienza ippocratica di cui rimane più di una eco in Platone. Nella sua materialità, o meglio corporeità, possiamo dire che Eros sia dunque forza e potenza che afferma la vita, laddove Eros come forza metafisica che tende al Bello in sé, è potenza negatrice scorporante e scarnificante. “[Aristofane] Ecco dunque da quanto tempo l’amore reciproco è connaturato negli uomini: esso ci restaura l’antico nostro essere perché tenta di fare di due una creatura 44 sola e di risanare così la natura umana. Ognuno di noi è dunque la metà di un umano resecato a mezzo com’è al modo delle sogliole: due pezzi da uno solo; e però sempre è in cerca della propria metà” (191 d). “E quanti risultano tagliati da quell’essere misto che allora si chiamava androgino, sono grandi amatori di donna, ed è da questo ceppo che provengono per lo più gli adulteri; e parallelamente le donne che da qui provengono vanno folli per gli uomini e sono adultere; invece quante donne risultano parte di femmina, per nulla pensano agli uomini, ma più volentieri sono inclinate alle donne, e da questo sesso le tribadi; e quanti infine sono parte di maschio danno la caccia al maschio e finché sono fanciulli, cioè fettine di uomini, amano gli uomini e godono a giacersi e ad abbracciarsi con gli uomini. E questi sono i migliori fra i fanciulli e i giovani perché sono i più vicini alla natura” (191 e – 192 a). Nel famoso mito raccontato da Aristofane viene presentata una antropologia fantastica secondo la quale la conformazione degli uomini primitivi era doppia rispetto a quella attuale (a forma sferica), e la distinzione sessuale prevedeva il sesso maschile, quello femminile e l’androgino. Giove al fine di difendersi dalla loro tracotanza taglia questi esseri doppi in due parti separate e li adatta dal punto di vista fisiologico affinché possano procreare. La differenziazione nell’attrazione sessuale dipende dalla natura primitiva dell’umanità. Il mito aristofanesco riporta il discorso sul piano della metafisica, dopo la parentesi medico – scientifica introdotta da Eurissimaco. Se l’amore reciproco restaura l’antico nostro essere perché cerca di riportare all’uno ciò che era due, allora la forza di Eros in termini metafisici possiamo dire che sia la negazione del due, della differenza, a vantaggio dell’unificazione. Eros è forza unificatrice più che mediatrice; Amore raggiunge l’Uno in quanto nega il Due. Se in termini materiali Amore e forza equilibratrice del pieno e del vuoto, in quanto forza metafisica Eros è forza negatrice della differenza e affermatrice dell’Uno; in tal senso l’Uno (evocato miticamente dagli uomini palla) è pura forza annichilente come abbiamo già osservato. “[Socrate] Non è forse Amore, in primo luogo amore di qualche cosa, e poi di quelle cose di cui si trovi privo?” (200 e). Il discorso socratico del Simposio inizia con alcune puntualizzazioni sul significato stesso del concetto di Amore, che mettono in rilevo il carattere di mancanza e di carenza impliciti nell’esperienza stessa di chi ama qualcosa o qualcuno. Possiamo dire che l’idea di negazione appartenga strutturalmente al concetto stesso di Eros come chiarirà successivamente il grande discorso della sacerdotessa Diotima di 45 Mantinea raccontato da Socrate. Nel mito raccontato da Diotima Eros è concepito il giorno della nascita di Afrodite, quando durante il banchetto tenuto dagli dei Penia si accoppiò con Poro. Poiché Eros è figlio di Espediente e Povertà, ha i caratteri di entrambi e dunque è demone mediatore. “[Socr. / Diotima] Chi sono allora, o Diotima, replicai, quelli che si applicano alla filosofia, se escludi i sapienti e gli ignoranti? Ma lo vedrebbe anche un bambino, rispose, che sono quelli a mezza strada fra i due, e che Amore è uno di questi. Poiché appunto la sapienza lo è delle cose più belle e Amore è filosofo, e in quanto tale sta in mezzo fra il sapiente e l’ignorante” (204 a – b). Il vero amante è il filosofo; il vero uomo erotico come vedremo alla fine del dialogo, è Socrate nel suo incarnare la Filosofia. La filosofia per Platone è forza negatrice del contingente; questa è la forma del pensiero metafisico come pensiero negativo. La natura dell’amante per Platone è superiore a quella dell’amato; l’amante incarna perfettamente il desiderio e la sua forza negatrice. “[Socr./ Diotima] Possiamo dunque, continuava lei, dire semplicemente che gli uomini amano il bene ? Si, risposi. E che? Non si deve aggiungere che amano anche possedere il bene? Va aggiunto, sì. E non solo possederlo, ma anche possederlo sempre? Va aggiunto anche questo. Riassumendo quindi, l’amore è desiderio di possedere il bene per sempre. Verissimo dissi io “(206 a). La struttura del pensare metafisico trasfigura il Bello in Bene, stabilendo una loro sostanziale equivalenza. Passare dal Bello al Bene significa sottolineare i caratteri formali e di equivalenza universale della bellezza; significa affermare la ripetibilità della forma che alla fine dell’ascesa erotica possediamo per sempre. L’eternità della forma coincide con la sua ripetibilità universale (mi sovviene a questo proposito l’idea del denaro come equivalente universale di Marx). “[Socr. / Diotima] Poiché dunque l’amore è sempre questo, riprese lei, in quale modo e in quali azioni lo zelo e la tensione di coloro che lo perseguono possono essere chiamati amore? […] Te lo dirò io, allora – è la procreazione nel bello, secondo il corpo e secondo l’anima. […] Tutti gli uomini, o Socrate, sono pregni nel corpo e nell’anima, e quando giungono ad una certa età, la nostra natura fa sentire il desiderio di procreare. Non si può partorire nel brutto, ma nel bello, si. L’unione dell’uomo e della donna è procreazione; questo è il fatto divino, e nel vivente destinato a morire questo è immortale: la gravidanza e la riproduzione. Ma è impossibile che queste avvengano in ciò che è disarmonico. E il brutto è disarmonico a tutto ciò che è 46 divino; il bello invece gli si accorda; così che bellezza fa da Sorte (Moira) e da Levatrice (Ilitia) nella procreazione “(206 b – d). “[Socr. / Diotima] Perché la riproduzione è il qualcosa di sempre nascente e immortale per quanto è possibile a un essere mortale. …Da ciò consegue come necessario che l’amore sia anche amore dell’immortalità” (207 a). “[Socr. / Diotima] Giacché qui si ritorna allo stesso discorso: la natura mortale cerca con ogni mezzo, di perpetuarsi e di essere immorale. E può riuscirvi solo per questa via, mediante la riproduzione, perché lascia sempre un giovane al posto di un vecchio” (207 d). “[Socr. / Diotima] Ché in questo modo sia salva ogni esistenza mortale, pur non rimanendo come quella divina, sempre assolutamente uguale a se stessa, ma in quanto ciò che invecchia e se ne va, lascia al suo posto un’altra esistenza giovane, identica a quella di prima. Con questo espediente, o Socrate, il mortale partecipa dell’immortalità sia per il corpo sia quanto al resto. L’immortale tiene altra via. Non ti meravigliare dunque, se ogni essere tiene caro per natura il proprio germoglio: perché è in vista dell’immortalità che in ognuno procede cotanto zelo e amore “(208 b). Si partorisce nel bello perché il bello – bene è la forma, la perfezione che si ripete infinitamente negando ogni contingente. Senza forma che si ripete, è impossibile la procreazione; in tal senso la procreazione è semplice trasmissione della forma, come chiarirà meglio la metafisica biologica di Aristotele. Dal punto di vista della corporeità l’eternità è conseguita unicamente attraverso la riproduzione biologica; la procreazione è un atto di negazione/ affermazione della forma eterna. Nella riproduzione il bello è la forma negatrice che si riproduce negando l’irripetibilità del corpo. L’accoppiamento uomo – donna trova il proprio senso metafisico nell’assolvere alla funzione biologica della riproduzione, grazie alla quale la pura forma del vivente si perpetua in quanto nega ogni sua manifestazione singolare e irripetibile. L’accoppiamento uomo – uomo, non potendo trovare alcun senso nella riproduzione biologica, lo trova unicamente nell’accedere alla verità metafisica, attraverso un percorso conoscitivo e pedagogico tra amante e amato che sublima la follia irriducibile e irripetibile (anche nel senso che non può dar luogo ad alcuna riproduzione biologica) dell’eros omosessuale (maschile). L’omosessualità femminile come abbiamo visto è derubricata a mero sfregarsi di corpi in preda alla voluttà erotica (le tribadi che abbiamo incontrato in un passaggio precedente). 47 “[Socr. / Diotima] Chi vuole rettamente procedere a questo fine – disse – conviene che fin da giovane cominci ad accostarsi ai bei corpi e dapprima, se il suo iniziatore lo inizia bene, conviene che s’affezioni a quella persona sola e con questa produca nobili ragionamenti ; ma in seguito deve comprendere che la bellezza di un qualsiasi corpo è sorella a quella di ogni altro e che, se deve perseguire la bellezza sensibile delle forme, sarebbe insensato credere che quella bellezza non sia una e la stessa in tutti i corpi. Convinto di ciò deve diventare amoroso di tutti i bei corpi e allentare la passione per uno solo, spregiandolo e tenendolo di poco conto. Dopo di ciò giunga a considerare che la bellezza delle anime è più preziosa di quella del corpo, cosicché se qualcuno ha l’anima buona ma il corpo fiorisca di poca bellezza, egli ne sia pago lo stesso, lo ami, ne sia premuroso, e produca e ricerchi ragionamenti tali da rendere migliori i giovani per essere poi spinto a contemplare la bellezza nelle attività umane e nelle leggi, e a vedere come essa è dappertutto affine a se stessa finché non si convinca che la bellezza del corpo è ben piccola cosa “ ( 210 a – c). “[Socr. / Diotima] Chi sia stato educato fin qui nelle questioni d’amore attraverso la contemplazione graduale e giusta delle diverse bellezze, giunto che sia al grado supremo dell’iniziazione amorosa, all’improvviso gli si rivelerà una bellezza meravigliosa per sua natura, quella stessa, o Socrate, in vista della quale ci sono state tutte le fatiche di prima: bellezza eterna, che non nasce e non muore, non s’accresce e non diminuisce, che non è bella per un verso e brutta per l’altro, né ora sì e ora no; né bella e brutta secondo certi rapporti; né bella qui e brutta là, né come se fosse bella per alcuni ma brutta per altri. In più questa bellezza non gli si rivelerà con un volto né con mani, né con altro che appartenga al corpo, e neppure come concetto o scienza, né come risiedente in cosa diversa da lei, per esempio in un vivente, o in terra, o in cielo, o in altro, ma come essa è per sé e con sé, eternamente univoca, mentre tutte le alte bellezze partecipano di lei in modo tale che, pur nascendo esse o perendo, quella non s’arricchisce né scema, ma rimane intoccata” (210 e – 211 b). Siamo ai passaggi cruciali e famosi del grande discorso di iniziazione ai misteri d’amore rivolto dalla sacerdotessa Diotima a Socrate. La Bellezza traluce nel corpo, ma questo è solo l’inizio della scala che porta alla Bellezza in sé e per sé. La gerarchia è possibile solo grazie alla forza della negazione che consente di oltrepassare ogni momento relativo per lasciare spazio solo all’Assoluto. Il Bello in sé è univoco, non cresce né decresce, è pura ripetizione di se stesso, pertanto non può incarnarsi in alcun volto o mani. La Bellezza pura rimane intoccata proprio in virtù del suo essere pura negazione come abbiamo già osservato precedentemente. L’eternità dell’idea di bello coincide col suo essere ripetibilità e negazione; il cuore del pensare metafisico in tal senso è davvero il nichilismo come sostiene Emanuele 48 Severino, ma a questo punto possiamo dire che il cuore della metafisica sia il nichilismo che equivale al carattere ripetibile della verità. “[Socr. / Diotima] Ecco che quando uno partendo dalle realtà di questo mondo e proseguendo in alto attraverso il giusto amore dei fanciulli, comincia a penetrare questa bellezza, non è molto lontano dal toccare il suo fine. Perché questo è proprio il modo giusto di avanzare o di essere da altri guidati nelle questioni di amore: cominciando dalle bellezze di questo mondo , in vista di quella ultima bellezza salire sempre, come per gradini, da uno a due e da due a tutti i bei corpi e dai bei corpi a tutte le belle occupazioni, e da queste alle belle scienze e dalle scienze giungere infine a quella scienza che è la scienza di questa stessa bellezza, e conoscere all’ultimo gradino ciò che sia questa bellezza in sé “ (211 b – c). “[Socr. / Diotima] Che cosa allora dovremmo pensare, se capitasse ad uno di vedere la bellezza in sé, pura, schietta, non tocca, non contagiata da carne umana né da colori, né da altra vana frivolezza mortale, ma potesse contemplare la stessa bellezza divina nell’unicità della sua forma?” (211 e). Carne umana, colori, vane frivolezze mortali: sono questi tratti indistinguibili dell’irripetibilità che la bellezza in sé, nella unicità ripetibile della sua forma, non può che negare per sempre, eternamente. Passando dalle scienze alla scienza delle scienze, ovvero alla scienza del bello in sé (l’ascesa dialettica descritta in altri dialoghi platonici) si acquisisce la forma stessa dell’epistème in quanto pura ripetibilità e negazione assoluta del contingente. Il culmine della scienza è la forma del ripetibile coincidente con il Bello in sé. “[Socrate] Mio caro Alcibiade – disse – rischi di non essere affatto sciocco se per caso son vere le cose che dici di me e se c’è dio sa quale potere in me che ti potrebbe rendere migliore. Ecco tu vedresti in me una irresistibile bellezza del tutto incomparabile pure alla grazia delle tue forme: se avendola scoperta cerchi di appropriartene barattando bellezza con bellezza, miri a guadagnarci non poco alle mie spalle! Via, in cambio di una bellezza apparente tenti di guadagnarci una bellezza vera e calcoli, alla lettera, di scambiare ‘oro con rame’ “(218 d – e). “[Alcibiade] Malgrado tutti questi miei sforzi, costui di tanto mi superò, sdegnò e derise la mia bellezza, e la offese …eppure credevo che valesse qualcosa, o giudici (ché voi siete giudici della superbia di Socrate) … ebbene, sappiatelo, lo giuro, per gli dei e per le dee, dormii con Socrate e mi levai né più né meno che se avessi dormito col padre o con un fratello maggiore” (219 c- d). 49 L’irruzione di Alcibiade alla fine del Simposio rappresenta in un certo senso la chiusura del cerchio. La bellezza fisica di Alcibiade rispetto alla bellezza interiore di Socrate (a cui fa da contraltare la sua bruttezza fisica esteriore) è come il rame rispetto all’oro. Non ci può essere umiliazione maggiore per la bellezza corporea incarnata da Alcibiade; il corpo erotico è negato dalla bellezza in sé a cui perviene la scala che accede alla realtà metafisica illustrata dalle parole della sacerdotessa Diotima. L’omosessualità maschile è trasfigurata nella ricerca della verità eterna e ripetibile dell’idea che nega ogni contingenza, a partire da quella corporea in cui può solo albergare un pallido e scolorito riflesso della Bellezza assoluta. La negazione del corpo è la verità della negazione del Bello/Bene in sé (ricordiamo che in sé equivale a non in altro). 50 Note 1) Vediamo precisamente cosa scrive Platone nelle Leggi a proposito dell’omosessualità ( trad. di A. Zadro, in Platone, Opere complete con testo greco, CD-ROM a cura di G. Iannotta, A.Marchi, D. Papitto, Laterza Multimedia, 1999). L’Ospite ateniese discute con Clinia di Creta e Megillo di Sparta sulla costituzione e le leggi della città; ad un certo punto afferma:“ Ebbene, se ora proseguendo prenderemo in esame quello che ci propone l’ordine già esposto, o Clinia e tu ospite spartano - voi sapete che tocca di parlare della saggia temperanza dopo il coraggio- credete che troveremo qualche cosa di notevole nelle vostre due costituzioni rispetto a quelle altre dei popoli che a caso siano ordinati, così come abbiamo notato or ora riguardo alla guerra?… Par difficile, ospiti, che tutto ciò che riguarda le costituzioni, ancora quand’è discorso così come sul piano dei fatti, riesca in qualche modo ad avere una validità indiscussa. C’è il pericolo, come per i corpi, di non poter prescrivere a uno di questi una pratica senza che questa stessa risulti da una parte dannosa, dall’altra utile ai nostri corpi. Perché anche questi "ginnasi" e i "pasti in comune" sono ora di giovamento in moltissimi casi allo stato ma nelle sedizioni sono una difficoltà, lo mostrano i figli dei Milesi e dei Beoti e dei Turii. E ancora pare che quest’uso abbia corrotta una antica legge di natura che dovrebbe governare sempre i piaceri sessuali non solo degli uomini ma anche delle bestie. E di questi mali si potrebbero accusare primi i vostri stati e tutti gli altri poi che fanno uso larghissimo dei "ginnasi "; e sia che di questo argomento si pensi per gioco o seriamente, bisogna riconoscere che tale piacere sembra esser stato attribuito dalla natura al genere femminile e a quello dei maschi in quanto fra loro si uniscono per la generazione, ma l’unione dei maschi coi maschi, o delle femmine con le femmine è contro natura, atto temerario creato fin da principio da disordinato piacere” (Leggi I, 636 a - d ). L’accoppiamento tra maschio e maschio (che coinvolge in particolare giovani maschi) e tra femmina e femmina è contro natura perché inutile rispetto alla riproduzione, essendo tutto compresso nella meccanica del piacere. Il tema ritorna nel libro VIII delle Leggi, laddove si tratta del controllo dei magistrati sul rispetto delle leggi da parte dei cittadini; infatti è evidente che è assai difficile controllare la sfera privata delle persone, soprattutto per quanto attiene i comportamenti sessuali. Si domanda infatti Clinia: ” Come potranno, in tale stato, star lontani dai desideri che molti molte volte trascinato a conseguenze estreme, desideri da cui il discorso, nel tentativo di diventar legge, comanderebbe di astenersi? E non v’è dubbio che non c’è da meravigliarsi se le norme stabilite fin qui terranno a freno la maggior parte dei desideri - il divieto infatti di appropriarsi di una ricchezza eccessiva è non piccolo aiuto alla saggia temperanza; così tutto il sistema educativo è stato regolato adeguatamente allo stesso scopo, e, oltre a ciò, lo sguardo dei magistrati, costretto a non guardare altrove, ma invece a guardare sempre da questa parte e in particolare i giovani, è sufficiente a controllare le altre passioni, per quanto ciò è possibile agli uomini - ma io domando come si potrebbe guardarsi dagli amori per i bambini, maschi e femmine, e per le donne che sostituiscono l’uomo, e per gli uomini che fanno da femmina, cose dalle quali infinite conseguenze sono derivate agli uomini, per i singoli privatamente e per gli stati interi? (Leggi VIII, 835 e – 836 51 b). Se Sparta e Creta sono modelli da seguire per molte questioni, non lo sono affatto per quanto concerne l’etica sessuale; dice infatti L’Ospite ateniese: “E infatti mentre tutta Creta e Sparta ci danno un aiuto, io direi, non piccolo per molte altre questioni, lo danno a noi che stiamo stabilendo leggi diverse dai costumi comuni, tuttavia per gli amori - diciamolo pure perché siamo fra di noi – ci sono del tutto contrarie. Se infatti qualcuno seguendo la natura stabilisse la legge in vigore prima di Laio affermando che era giusto non accoppiarsi con giovani di sesso maschile, per le relazioni sessuali, come se questi fossero donne, e portasse a testimonianza la natura degli animali mostrando che nessuno di loro maschio tocca a tale scopo un maschio perché è contro la natura, userebbe forse di un argomento persuasivo ma in assoluto disaccordo a quanto si usa fare nei vostri stati. Inoltre ciò che noi diciamo dover essere oggetto della perenne vigilanza del legislatore non si accorda a queste abitudini. Noi infatti cerchiamo sempre quale delle leggi che vengono poste conduce alla virtù e quale no; e allora, rispondetemi, se noi anche concediamo nelle nostre leggi che queste vostre abitudini sono belle cose o almeno non affatto disoneste, per quale aspetto potrebbero aiutarci nei confronti della virtù? “(Leggi VIII, 836 b – 836 d). Ma quali leggi possono domare quella che per Platone è una delle passioni più sfrenate nell’uomo, ovvero il piacere sessuale; una energia che prorompe nell’uomo e nella donna, senza preoccuparsi troppo che la coppia sia eterosessuale. Leggiamo: “ATEN. E’ corretto dunque ciò che ora si è detto e cioè che il legislatore, che intende domare una delle passioni che dominano di più gli uomini, può scoprire facilmente il modo di realizzare la sua intenzione e cioè che infondendo un carattere sacro a questa tradizione e confermandola nel suo essere identica presso di tutti, schiavi, liberi, bambini, donne, in tutto lo stato, in tal modo avrà realizzato a proposito di questa legge la sua più sicura stabilità. MEG. E’ del tutto vero; ma bisogna vedere come sarà possibile far sì che tutti vogliano accettare di dire una cosa siffatta. ATEN. Giusta osservazione; proprio questo infatti era ciò che dissi e cioè che io avevo un’arte per formulare questa legge relativa all’usare secondo natura delle unioni per la procreazione dei figli, astenendosi dall’unione fra maschi ed evitando la soppressione deliberata del genere umano e evitando che il seme sia gettato su pietre e macigni, dove esso non potrà trovare luogo adatto alle sue radici e mai potrà assumere la propria natura capace di generare, astenendosi da ogni campo femminile nel quale ciò che vien seminato non accetteresti mai dovesse germogliare. Se una tal legge acquisterà permanenza e potere, come ora ha potere sugli accoppiamenti fra genitori e figli, se vincerà, come è giusto, anche su ogni altro rapporto illecito, essa ha con sé infinito numero di beni. E infatti è stabilita in modo conforme alla natura, prima di tutto, e poi essa dal furore e dalla follia erotica e da tutti gli adulterii tien lontano gli uomini e da tutti gli eccessi nel mangiare e nel bere e lega i mariti alle loro mogli e molti altri vantaggi potrebbero derivarne, se qualcuno potesse diventare signore di questa legge. Può darsi però che si ponga davanti a noi un uomo giovane e ardente, gonfio di molto seme, e sentendo la legge che da noi vien posta ci insulterà come se noi ponessimo regole sciocche ed impossibili e riempirà tutto delle sue grida; ed è guardando proprio a queste cose che io dissi quella frase, che [c] cioè ho un’arte, per un verso la più facile di tutte, per un altro la più difficile, un’arte in relazione alla stabilità di 52 questa legge una volta enunciata. E’ infatti facilissimo capire che è cosa possibile e come lo è - diciamo infatti che una volta adeguatamente consacrata questa regola, ogni anima renderà sua suddita e la farà temere o obbedire senza eccezione alle leggi stabilite, ma ora siamo giunti a un punto tale che non ci pare che ciò potrebbe avvenire nemmeno in tal caso, tanto quanto non si crede possibile che tutto uno stato possa vivere tutta la sua esistenza praticando l’usanza dei "pasti in comune", e mentre ciò i fatti provano e da voi accade tuttavia neppure nei vostri stati sembra che sia secondo la natura che ciò si realizzi anche per il genere femminile. E’ questa un’altra ragione, la forza della incredulità, per cui ho detto che ambedue queste pratiche incontrano serie difficoltà ad essere stabilmente fissate con leggi” Leggi VIII, 838 d – 839 d ). L’accoppiamento eterosessuale fra adulti è ciò che differenzia gli esseri umani dagli animali; infatti l’Ateniese afferma: “ Poiché dunque siamo giunti a questo punto trattando di questa legge, e siamo caduti per la corruzione dei molti, in una difficoltà, io affermo che la nostra legge deve assolutamente procedere e dire, su questo stesso argomento, che non bisogna che i nostri cittadini divengano inferiori agli uccelli ed a molti altri animali i quali riuniti, al momento della nascita, in grandi greggi fino all’età della procreazione, non ancora accoppiati, si conservano puri e casti da nozze illecite, e poi, raggiunta quella età, il maschio si accoppia, per simpatia, alla femmina, la femmina al maschio e vivono santamente e rettamente il tempo rimanente mantenendosi fedeli ai primi patti d’amore. I nostri cittadini debbono essere dunque migliori degli animali” (Leggi VIII, 840 d – e). Infine, se proprio alle tentazioni di Eros non si può resistere, dopo avere orientato le energie corporee verso altro, allora che almeno ci si accoppi di nascosto: “ E se i nostri cittadini si lasciano corrompere dagli altri Greci e dalla maggior parte dei barbari vedendo e sentendo dire che quell’Afrodite che viene chiamata ‘Colei che è senza legge’, presso di quelli ha grandissima potenza e così divengono incapaci di dominarla, bisogna che i custodi delle leggi in funzione di legislatori escogitino per loro [841a] una seconda legge. CLIN. Quale legge consigli loro di stabilire, se quella stabilita ora sfugge loro dì mano? ATEN. Evidentemente la legge che segue la prima da vicino ed è seconda dopo di quella. CLIN. Quale legge dici? ATEN. E’ possibile, l’abbiamo visto, rendere quanto più si può priva d’esercizio la forza dei piaceri, orientando verso un’altra parte del corpo per mezzo di esercizi faticosi l’afflusso e il nutrimento del piacere stesso. Si potrebbe raggiungere questo scopo se non ci fosse una generale impudicizia nell’uso dei rapporti sessuali. Infatti, se per [b] la vergogna, quelli usassero dei rapporti sessuali più di rado, con poca frequenza, avrebbero per sé in Afrodite una padrona più debole. Sia presso di loro ritenuta cosa bella il nascondersi nel fare questi atti, e questa norma sia praticata come norma di costume e per una legge non scritta, e sia turpe il non nascondersi, ma non in modo da non agire in questo senso assolutamente. Così ciò di cui si è parlato e che è venuto ad essere bello e turpe nella nostra legge in base a un criterio di secondo grado potrà essere in tal modo stabilito, ed avrà appunto una correttezza di secondo grado, e coloro che sono corrotti nella [c] loro natura, quelli che noi chiamiamo ‘inferiori a se stessi’ e formano un unico genere, li comprenderanno tra altri generi e li costringeranno a non violare la legge. CLIN. Quali sono? ATEN. Il rispetto degli dei, l’amor dell’onore e l’aver desiderio non dei corpi ma 53 delle anime belle nella loro indole. Queste cose dette ora come in una favola non sono che cose che ci auguriamo, ma se mai si realizzassero, sarebbero ciò che vi ha di migliore in tutti gli stati. E forse, se dio vorrà, noi potremmo imporre, [d] sull’amore, almeno una di queste due condizioni: o che nessuno osi toccare nessun altro cittadino legittimo, nessun’altra persona libera se non la propria moglie e che nessuno semini semi illegittimi e bastardi nelle concubine e semi infecondi negli uomini, contro natura, oppure, d’altra parte, bandita completamente l’omosessualità fra maschi, nei riguardi delle donne ci si comporti in modo che se qualcuno si unirà con un’altra oltre a quelle entrate in casa sua con l’auspicio degli dèi e nozze regolari e sacre, [e] le abbia comprate o se le sia procurate in qualsiasi altro modo, e tutti gli altri, uomini e donne, se ne accorgano, noi risulteremo dare una giusta legge probabilmente stabilendo per legge che sia privato di ogni onorificenza civile come se fosse realmente uno straniero. Questa (sia che bisogni dire che è una legge sola sia che sono due) valga come legge a disciplinare tutta la materia relativa ai piaceri sessuali e tutti gli amori, quanti sono i modi con cui [842a] gli uomini si congiungono insieme mossi da siffatti desideri e per cui agiscono qualche volta in modo onesto, qualche altra disonesto. MEG. E allora molto volentieri io accetterei questa tua legge, ospite, e Clinia dica lui stesso che cosa ne pensa. CLIN. Parlerò quando riterrò che ne sia giunto il tempo opportuno, Megillo, ora lasciamo che l’ospite proceda ancora nella sua esposizione delle leggi. MEG. E’ giusto” (Leggi VIII 840 e – 842 a). 54 HEGEL NELLA CULTURA FRANCESE DEL NOVECENTO Piergiorgio Scilironi A partire dagli studi del Dilthey (1905) e del Nohl (1907) le interpretazioni della filosofia di Hegel sono state oggetto di una rinnovata considerazione, che hanno permesso di ridimensionare molti luoghi comuni sedimentatesi lungo la seconda metà dell’Ottocento .Da questo momento si sono aperte prospettive che mirano a considerare la Fenomenologia in maniera più autonoma rispetto al sistema, prospettive che hanno trovato la maggior espressione speculativa in ambito francese con la cosiddetta Hegel-renaissance degli anni trenta e quaranta (Wahl, Kojève, Hyppolite, Koyrè),ma che ha datoi suoi frutti anche da noi (Della Volpe, De Negri). Dopo la seconda guerra mondiale, in Francia, ci si trova davanti ad una prospettiva filosofica che, per quanto varia, ha come punto di fuga un pensiero «essenzialmente umanista» (1). Sia se si guardi a realtà esistenzialistiche cristiane o atee, o che si guardi a realtà personalistiche interamente cristiane, il tappeto sonoro su cui i filosofi cantano le loro dottrine ha come tonalità di impianto la nozione di «realtà-umana», che sta a significare la volontà di rifondare in senso profondo l’uomo, ossia di sostituire a tale nozione singola - vertice e sintesi di un concetto unitario e sostanzialistico proveniente dalle “ radici” della metafisica - una nozione onnicomprensiva, ma neutralizzata di umanità. Sicuramente questa fu anche una reazione a ciò che per lungo tempo imperò nelle università francesi, fino alla fine degli anni ’20, cioè a filosofie come lo Spiritualismo, il bergsonismo (nei nomi di Alain Brunschvicg, Bergson e i loro epigoni).Tuttavia questa reazione che portava o presumeva essere una neutralizzazione-rifondazione dell’anthropos nella sua unità non-metafisica, nonspeculativa, era in un certo qual modo come la «fedele» eredità della fenomenologia trascendentale di Husserl e dell’ontologia fondamentale di Sein und Zeit di Heidegger, opera conosciuta (tra l’altro in parte) in Francia insieme a Was ist Metaphysik? e Kant und das Problem der Metaphysik. E, fatto molto importante, la riscoperta “tutta francese” di alcuni testi di Hegel, che dopo il 1930 pervade definitivamente ogni dibattito filosofico in vari modi e sfumature (2). Importante è ora riprendere le fila del discorso e riallacciarmi a quanto ho detto all’inizio. Cosa significa avere come sfondo di un progetto la nozione di «realtà-umana»? Perché quella singola nozione è sintomatica di tante altre suggestioni che vanno rilevate? Innanzitutto occorre dire che «realtà-umana» è la traduzione francese del termine tedesco heideggeriano Dasein, traduzione che Derrida definisce «mostruosa, ma tanto più significativa» dal momento che «sia stata allora adottata, che abbia regnato grazie all’autorità di Sartre» e «che dà molto a 55 pensare sulla lettura o non-lettura di Heidegger in quest’epoca, e sull’interesse che c’era allora a leggerlo o a non leggerlo in tal modo». Questa traduzione, secondo Derrida, è stata proposta da H. Corbin per la prima volta, e, se così fosse, non resta che pensare che fu successivamente divulgata ad un pubblico assai particolare da A.Kojève nelle sue lezioni hegeliane sulla Fenomenologia dello Spirito, che dal 1933 fino al 1939 egli tenne presso l’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Oppure c’è un’altra possibilità, cioè che Corbin abbia in realtà tradotto inizialmente Dasein con “esistenza” e solo dal 1938 abbia optato per una traduzione diversa (quella appunto di «realtà-umana» mutuata successivamente da Sartre), dopo che ebbe partecipato alle lezioni di Kojève, iniziate nel 1933, in cui già compare tale interpretazione-traduzione sulla scorta del testo hegeliano: «Ora, l’analisi del “pensiero”, della “ragione”, dell’ “intelletto”,ecc. –in generale del comportamento cognitivo, contemplativo, passivo di un essere o di un “soggetto conoscente”- non scopre mai il perché o il come della nascita della parola “Io”, e, quindi, dell’autocoscienza, cioè della realtà umana.” (3). Se così fosse, alla radice di tutto ci sarebbero le lezioni kojèviane a cui parteciparono una lista cospicua di personaggi (4). Questa seconda ipotesi si può ricavare da una nota di Denis Hollier contenuta nella sua famosa raccolta sul «Collegio di sociologia» (5), la rivista di Georges Bataille, Michel Leiris, Roger Callois, cui parteciparono tra gli altri anche Kojève, Klossowski, Walter Benjamin, Hans Mayer. Al di là di queste considerazioni e tornando all’analisi derridiana di questo momento particolare francese, con i suoi intenti e con le sue reali riuscite, si dice che la pretesa «neutralizzazione dei presupposti metafisici», «che costituivano da sempre il concetto dell’unità dell’uomo» non va a compimento, e che «peraltro […] l’unità dell’uomo non viene interrogata in se stessa». Anche se «il tema della storia è molto presente nel dibattito di quest’epoca, la storia dei concetti viene poco praticata; per esempio, non viene mai interrogata la storia del concetto di uomo. Tutto si svolge come se il segno “uomo” non avesse alcuna origine, alcun limite storico, culturale, linguistico. E nemmeno alcun limite metafisico». Continua Derrida «non soltanto l’esistenzialismo è un umanismo, ma il terreno e l’orizzonte di quello che Sartre chiama a quel tempo la sua “ontologia fenomenologica” (è il sottotitolo dell’Essere e il nulla) rimane l’unità della realtà umana. Tale ontologia fenomenologica non è altro che una descrizione delle strutture di questa unità, e per tanto è un’antropologia formata da un amalgama filosofico hegeliano-husserliano -heideggeriano, che ciononostante non rompe con le antropologie classiche di stampo schiettamente metafisico. Dice Derrida che aldilà delle «rotture marcate da questa antropologia […] non viene interrotta una familiarità metafisica con ciò che, con tanta naturalezza, mette in rapporto il noi del filosofo con “noi-uomini”, col noi nell’orizzonte dell’umanità». 56 Questa onnicomprensività pervasiva «del segno “uomo”» butta giù la maschera e (dalle pretese neutralizzazioni e indeterminatezze che dovevano sospendere i sempiterni presupposti concettuali dell’unità dell’uomo) rivela «nient’altro che l’unità metafisica dell’uomo e di Dio, il rapporto dell’uomo a Dio, il progetto di farsi Dio come progetto costitutivo della realtà-umana». Ciò si può confrontare in quei «motivi metafisici» (6) sartriani al termine dell’Essere e il nulla riguardo alla totalità dell’in-sé e del per-sé. La ricerca di una conciliazione («una unità metafisica dell’essere» o «totalità dell’ente») fra coscienza e mondo, che non è avvenuta e, in realtà, non poteva avvenire. La trascendenza dei due poli metafisici è assoluta nella loro diversità ontologica: «l’in-sé è essere, il per-sé è nulla […], nel duplice senso di annullamento della fatticità esistente e di pro-gettamento di un essere che non-è ancora» (7). Ma questa aspirata totalità dell’in-sé e del per-sé è l’unità della realtà umana nel suo progetto: «l’essere in-sé e l’essere per-sé erano dell’essere; e questa totalità dell’ente, in ci essi trovavano composizione, si legava a se stessa, si rapportava e appariva a se stessa attraverso il progetto essenziale della realtà umana». «Ogni realtà umana è una passione, in quanto progetta di perdersi per fondare l’essere e per costituire contemporaneamente l’in-sé che sfugge alla contingenza essendo il proprio fondamento, l’Ens causa sui, che le religioni chiamano Dio. Così la passione dell’uomo è l’inverso di quella di Cristo, perché l’uomo si perde in quanto uomo perché Dio nasca. Ma l’idea di Dio è contraddittoria e ci perdiamo inutilmente; l’uomo è una passione inutile.» (8) Pertanto, Sartre conclude che «il per-sé e l’in-sé sono uniti da un legame sintetico che non è altro che il per-sé stesso» (9), questa unità sintetica è determinata come mancanza, «…il per-sé si determina nel suo essere come mancanza.» (10). La realtà-umana, come coscienza per-sé è l’unità della totalità dell’ente: quindi essendo il per-sé determinato nel suo essere come mancanza, l’unità della totalità dell’ente è mancanza, la realtà-umana è mancanza. Una mancanza che è coscienza infelice, che è mancanza di totalità dell’ente, mancanza di Dio, mancanza di essere Dio. «…l’ens causa sui resta, […] (come il) mancato» (11). Questa mancanza, intesa quindi come non-identità permanente a sé del soggetto, come coscienza non identica a sé, è sempre spinta dal desiderio e dall’Altro (che è anche in una lettura antropologica per eccellenza, desiderio) verso una dialettica che da allora diverrà banco di prova per molti intellettuali e filosofi francesi. L’Altro verso cui il soggetto (come coscienza) tende, può essere totalmente Altro (e quindi aldilà di ogni inutile sforzo) oppure Altro come Assoluto (quindi raggiungibile in un tempo differito) o ancora un Altro desiderio (quindi un’altra coscienza che io però desidero nel gioco di riconoscimenti riconosciuti); tutto ciò non cambia nulla in questa struttura fondamentale, poiché secondo la tesi heideggeriana, di cui Sartre è verifica, «ogni umanismo rimane metafisico» (12) essendo l’umanismo un nome per dire onto-teologia. 57 Tutto ciò è servito solamente a chiarire l’appartenenza dei vari atteggiamenti esistenzialistici (atei o cristiani), delle varie filosofie (spiritualistiche o personalistiche, sia di destra che di sinistra) o del marxismo classico, ad uno stesso territorio: quello dell’umanismo o antropologismo. Tale radice comune, che trasferita alla politica, raccoglie insieme marxismo, discorso social-democratico e democraticocristiano, nasce o viene “tirata su” dalle letture antropologiche di Hegel: quella che appunto fa Kojève nelle sue lezioni sulla Fenomenologia dello spirito; tali lezioni avvengono in un clima culturale che vede contemporaneamente la scoperta e lettura, sempre in tal senso, degli inediti giovanili di Marx: i Manoscritti del 1844, accessibili solo dal 1932, tradotti parzialmente nel1933 e successivamente pubblicati nel 19351937 (13). Ciò coincide con la prima traduzione francese di Kierkegaard nel 1929 (Le journal du séducteur) che aprirà la così detta “Kierkegaard-Renaissance” francese. Ma non basta, in questo periodo appare anche la fenomenologia husserliana(Husserl legge nel 1928 le Cartesianische Meditationen alla Sorbonne, tradotte nel 1931) grazie alle pubblicazioni di E. Lévinas La théorie de l’intuition dans la phénoménologie de Husserl (1930) e di Gurvitch, Les tendances actuelles de la philosophie allemande (1930); anche se in ordine cronologico il primo a parlare di Husserl in Francia fu V. Delbos con il suo Husserl, sa critique du psychologisme et sa conception d’une logique pure, un articolo di un volume collettaneo sulla filosofia tedesca (1912) (14). Infine, come ho già detto, c’è, in quest’epoca, la conoscenza dello Heidegger di Sein und Zeit o per lo meno della sua analitica esistenziale, che viene letta e interpretata su motivi antropologisti. Ciò, come è noto, porterà lo stesso filosofo tedesco ad intervenire per porre freno a questo atteggiamento peculiare dell’esistenzialismo francese verso la sua filosofia, quando nel 1947 pubblica la Lettera sull’umanismo che è una risposta ad una «inchiesta» del francese Jean Baufret su tale concetto. Infatti sarà una presa di posizione polemica verso l’esistenzialismo francese; quello più popolare esploso dopo la seconda guerra mondiale grazie soprattutto a Sartre, ma anche verso le sue radici ed elaborazioni precedenti condotte negli anni Trenta. Per quanto riguarda la ricezione del pensiero hegeliano in terra francese, ci si trova di fronte ad uno spartiacque o a una vera e propria Hegellosigkeit, che separa gli hegeliani ottocenteschi come V. Cousin, H. Taine e A. Vera (vero e proprio diffusore dell’hegelismo in Francia), dal primo ventennio del Novecento: periodo in cui si comincia a registrare un notevole incremento verso il pensiero del filosofo tedesco, testimoniato da una rinascita non solo di «studi hegeliani», ma anche da posizioni critiche ed atteggiamenti teoretici che dimostrano una presenza attiva del filosofo (15). 58 A partire dalle prime discussioni che videro Hegel al centro dell’attenzione, come quelle tra Berthelot, Delbos e Boutroux nel 1907 alla Sociéte française de philosophie (lo stesso anno della pubblicazione del saggio di Croce su Hegel – tradotto da H. Buriot nel 1910- e della pubblicazione delle hegeliane Theologische Jugendschriften –la celebre raccolta di testi giovanili curata da H. Nohl), il vero e proprio acclimatamento sul suolo francese si ebbe negli anni Trenta. Fiorirà allora la stagione della Hegel-Renaissance, e da allora Hegel non uscirà più da questa nazione. Ed è proprio da questo tardivo recupero del pensiero hegeliano che discendono le tipiche peculiarità dell’hegelismo francese: innanzitutto non si è mai formata una vera e propria “scuola” hegeliana, con il conseguente risultato che qui esso non ha assolto quel ruolo organico che si è verificato altrove, e, in secondo luogo, un certo Hegel fu considerato insuperabile proprio perché in Francia non si verificò, per quanto riguarda la filosofia, lo storiografico susseguirsi prospettico di esiti storicoteorici, con il risultato che, il filosofo tedesco, venne letto e interpretato insieme a gli esiti primo-novecenteschi della filosofia (e con gli strumenti concettuali propri di ognuno di essi). Una riflessione puramente storico-storiografica sulla totalità dell’opera hegeliana non ci fu mai. Hyppolite afferma infatti che «la scoperta di Hegel a partire dal 1930 (data considerata, all’unanimità, come inizio del renouveau hegeliano (16)) fu contemporanea alla scoperta dei suoi avversari, l’esistenzialismo e il marxismo» (17); e ciò fa dello Hegel francese un qualcosa di a sé stante. Nel 1930 in Francia si scopriva nello stesso momento l’Hegel giovane (in particolare la Fenomenologia), gli inediti giovanili di Marx, Kierkegaard, Husserl ed Heidegger. Bisogna comunque dire che, all’indomani della guerra, i primi ad appassionarsi a letture insolite per il clima cultural-accademico francese, furono i surrealisti, che nonostante non fossero filosofi di professione, si avvicinarono con un intuito “avanguardistico” ad Hegel, Feuerbach, Marx e Freud. Essi divulgarono il nome di Hegel a tutta una nuova generazione di filosofi, che si oppose per reazione al clima accademico parigino, orientato verso un ritorno al pensiero scientifico kantiano e cartesiano e prevenuto (politicamente) nei confronti dei “classici” tedeschi per un loro condizionamento indiretto alle cause della guerra. Scrive André Breton: «da quando ho conosciuto Hegel, o meglio l’ho presagito attraverso i sarcasmi […] del mio professore di filosofia, il positivista André Cresson, mi sono sentito imbevuto delle sue idee e per me il suo metodo ha eclissato tutti gli altri. Laddove la dialettica hegeliana non funziona, per me non c’è né pensiero né speranza di verità» (18), Breton sta parlando degli anni intorno al 1912, ma anche successivamente la situazione non è molto diversa. Scrive, infatti, Sartre: «quando avevo vent’anni, nel 1925, non esisteva una cattedra di marxismo all’Università e gli studenti comunisti si guardavano bene dal ricorrere al marxismo o anche solo di nominarlo nelle loro esercitazioni; sarebbero 59 stati bocciati a tutti gli esami. L’orrore della dialettica era tale che persino Hegel era sconosciuto» (19). Comunque, la testimonianza più interessante può essere quella di H. Lefebvre, che dopo aver detto di aver letto Hegel, per poi approdare a Marx, sotto l’invito di Breton, scrive che, ancora nel 1930, Léon Brunschvicg gli rifiutava indignato la tesi su Hegel che era andato a proporgli (20). Non è, pertanto, un caso che il clima culturale dell’epoca, condizionato da un certo spirito revanscista e da un equivoco nazionalismo, abbia affidato la riscoperta hegeliana a pensatori stranieri, emigrati in Francia tra gli anni ’20 e ’30. Basti pensare al polacco Meyerson, ai tedeschi Groethuysen e Basch, e ai russi Koyré e Kojève. Riprendendo il filo cronologico del discorso, voglio terminare la parentesi surrealista dell’ “invito alla lettura di Hegel” dicendo che le parole in favore di questo filosofo non furono solo approssimative, e a dimostrazione di questo mi pare sufficiente l’esperienza, che da lì ha preso in parte le mosse, di Queneau e Bataille (21). Ma bisogna aspettare il 1928 ed il 1929 prima di trovare due filosofi “di professione” che inizino ad occuparsi di Hegel: Jean Wahl e Dimitriu Rosca. Il primo, dopo intensi studi su Cartesio, sul Pragmatismo e su Platone, scrive il più importante studio su Hegel mai apparso prima in territorio francese, è il 1929 ed il libro, che raccoglie un insieme di studi, si intitola: Le malheurde la conscience dans la philosophie de Hegel (22). Il secondo pubblica nel 1928 una traduzione del Leben Jesu, corredandola di una significativa introduzione critica. La loro attività, comunque, risulta ben circoscritta e omogenea in un momento particolare, quello cioè del più intenso influsso diltheyano, sia per quanto riguarda le suggestioni sia le acquisizioni interpretative, che aveva avviato quest’ultimo riguardo a Hegel. Dilthey infatti «vedeva, non a torto, l’opportunità di una rivalutazione della categoria hegeliana dello “spirito oggettivo”, che diveniva di fatto la strada per una riscoperta di Hegel, e soprattutto del primo Hegel. E’ in questa prospettiva che nasce uno dei capolavori della storiografia filosofica di Dilthey, quella Storia della giovinezza di Hegel (23), che, insieme all’impulso dato allo studio dei manoscritti giovanili inediti [è lo stesso Dilthey a spingere l’allievo H. Nohl a farsi editore dei manoscritti giovanili inediti di Hegel, ritrovati in quegli anni a Berlino, e sulla base dei quali venne scritta l’opera diltheyana…], può essere considerata a buon diritto all’origine della HegelRenaissance del nostro secolo» (24). Se per Dilthey il “giovane Hegel”può essere considerato una tappa in una organica linea di sviluppo del proprio percorso filosofico,che vedeva Hegel inserito nella dinamicità del romanticismo tedesco, ed era così inquadrato in una continuità che andava dall’idealismo “classico” alla filosofia della vita; non è così per Wahl, che investe Hegel di risonanze concrete ed esistenziali, e non guarda al “giovane” Hegel in senso organico, ma circoscrive le sue analisi a singoli testi e a singole “figure”, che ritiene esemplari per tutta la condition humaine, al di là di ogni periodizzazione 60 storica. L’esistenzialismo francese attingerà a piene mani da questa visione. Rosca, nella sua introduzione alla Vie de Jésus (25), è molto chiaro rispetto al senso che egli attribuisce all’esegesi diltheyana e alla novità di essa. Per lui la riscoperta del “giovane Hegel” coincide con la scoperta di un Hegel esoterico, ma anche più umano rispetto alla glaciale personificazione di Hegel con il tardo sistema berlinese. Comunque sia, per Rosca, come per Wahl,non si deve separare di netto la produzione hegeliana o la vita hegeliana, ma bisogna parlare di “reale continuità” e non di “salto” fra il periodo “mistico” di Francoforte e il periodo “sistematico” di Jena. Infatti, lo stesso Rosca non si sottrae ad una personale ridefinizione del misticismo e del teologismo hegeliani, e insiste sul fatto che Hegel, anche nei primi scritti a carattere teologico, non è mai teologo nel modo di affrontare le peculiari problematiche. Tale atteggiamento, rivela Rosca, del giovane teologo-filosofo, si potrà riscontrare anche più tardi nel sistema dell’idealismo assoluto, ma in modo tale da dissimulare la loro origine religiosa. Pur non contestando la validità della tesi diltheyana del misticismo, Rosca ritiene che quello di Hegel sia un misticismo dinamico, e non un misticismo dell’inerzia teso a perdersi nel Tutto. C’è in questo approssimarsi a Hegel, la volontà di ricostruire e giustificare l’unità di sviluppo spirituale che presiede alla scansione biografico speculativa dell’Hegel “romantico e mistico”. Wahl e Rosca hanno un atteggiamento verso il filosofo tedesco, che consente quasi in tutto tranne nel fatto che il secondo si distacca assai poco dalla lettera dell’esegesi diltheyana, mentre Wahl distaccandosi da essa ravvisa già nell’Hegel della Vita di Gesù elementi fichtiani, romantici e prefeuerbachiani (26). Anche se questa fase degli studi hegeliani in Francia, che può anche essere definita “post-diltheyana”, e che ha come rappresentante simbolo l’opera di Wahl, rimane confinata un po’ in se stessa, senza una grossa risonanza accademica, è comunque una tappa importante, direi quasi uno snodo fondamentale tra l’immediato precedente e ciò che avverrà. Infatti nel 1930, e poi definitivamente nel 1931, ci sarà un forte impulso agli studi hegeliani e, conseguentemente una forte reazione contro la filosofia spiritualistica e neocriticista. Sarà il periodo in cui il panorama filosofico francese sarà dominato dalle “tre H.”: Hegel, Husserl ed Heidegger. Iniziamo a notare lo sviluppo significativo che subisce la situazione a causa di uno strano intreccio di recensioni che nel 1930 avviene sulla «Revue philosophique»: Wahl recensisce la monografia di A. Koyré dedicata a J. Böhme (mistico tedesco già caro a Wahl) uscita l’anno precedente (27); Koyré recensisce (di risposta) il libro di Wahl uscito anch’esso, come sappiamo, nel 1929 (28). A Hegel, lo studioso russo, era arrivato dopo anni di studio sulla filosofia della religione, toccando autori come Cusano, Anselmo, fino ad arrivare a Cartesio e 61 Böhme, che fu argomento della tesi per il doctorat ès lettres discussa nel 1927. Wahl, nella sua recensione, mettendo in evidenza il rapporto tra Hegel e Böhme, porta conferma alle tesi esposte nel suo libro del 1929 sullo Hegel “romantico e mistico” alla luce delle acquisizioni koyréiane. Afferma che Koyré espone il fondamento del pensiero di Böhme e tali concezioni gli appaiono assai prossime a quelle sviluppate più tardi da Hegel; vede nell’idea böhmiana della rivelazione la prossimità di quella hegeliana dell’identità tra interno ed esterno, oppure interpreta la costante contrapposizione luce/tenebre, come affermazione della necessità della sintesi. Wahl in questa entusiastica recensione, continua le correlazioni tra i due autori e, nelle idee böhmiane di mondo come divenire e lotta, ma al contempo eternità, oppure nell’idea che la realtà più profonda non è assenza di determinazione, ma ricchezza di determinazioni, vita contrastata e armoniosa, legge l’anticipazione di idee che si ritroveranno nella filosofia hegeliana. A.Koyré, allora trentottenne e appena nominato directeur d’études della V sezione dell’École pratique, nel 1930 compie il suo esordio “hegeliano” sia con una importante relazione sulla condizione degli studi hegeliani in Francia (29) tenuta all’Aia durante il I Congresso hegeliano nell’Aprile del 1930, sia con la suddetta recensione al libro di Wahl su Hegel. In quest’ultima, l’autore smorza subito i toni entusiastici usati da Wahl e avanza delle riserve e perplessità verso l’interpretazione hegeliana tracciata nel Malheur, affermando che è ben vero che il pensiero hegeliano ricalchi il ritmo del pensiero mistico, che in esso si possa ritrovare l'esperienza di Lutero e di Böhme, ma che Hegel non si può appiattire su questo senza che gli sia riconosciuta la sua vera identità: la meditazione hegeliana era fin dall’inizio orientata verso il sistema, tale idea era presente già nel 1800 e misconoscerlo significa togliere profondità e slancio al suo pensiero. Già in ciò Koyré prende le distanze nettamente da Wahl, ma proseguendo, i suoi toni si fanno sempre meno mediati e viene totalmente allo scoperto circa la distanza che lo separa dalla visione wahliana di Hegel. Afferma testualmente: «Devo confessare che, malgrado il libro di Wahl, non credo molto alla disperazione vissuta di Hegel; e il suo […] è un tragico pensato, non un tragico vissuto. Certo,Hegel sa di aver bisogno di lotta, di opposizioni e di sofferenze per nutrire il movimento dello spirito; ma il tragico, che è reale per l'uomo, non lo è affatto per Dio. Per Dio -come per Hegel- la tragedia è già superata» (30). E chiudendo la recensione dice: «Un Hegel più umano; ma occorre ad ogni costo umanizzare Hegel? La sua grandezza risiede proprio nella sua inumana freddezza. Non nel fatto di aver chiamato “amore” quel che in seguito avrebbe chiamato “nozione”, ma, al contrario, nell’aver finito col chiamare “nozione” quel che aveva cominciato col chiamare “amore”» (31). 62 Da questo momento, essi daranno vita a due versanti opposti interpretativi, pur rimanendo globalmente nella temperie culturale “concreta” e “antropologica” tipica dell’entre-deux-guerres. Si può dire oramai iniziato l’hegelismo francese, e mentre Wahl inizia a spostare nettamente il suo Hegel dal lato di Kierkegaard (32), Koyré, da parte sua, leggerà lo Hegel di Jena alla luce della fenomenologia e dell’esistenzialismo tedeschi, rispettivamente cioè di Husserl ed Heidegger. Questi contrapposti atteggiamenti interpretativi saranno fondamentali per tutta la filosofia francese degli anni ’30 e ’40, da Koyré e, per così dire, dal suo Hegel ateo-esistenzialistico, discenderà la lettura “di sinistra” di Kojève e su quest’ultima si formerà l’esistenzialismo ateo di Sartre. Dallo Hegel religioso e mistico di Wahl deriverà, invece, sia un certo esistenzialismo romantico-trascendentale alla Gabriel Marcel, sia l’ermeneutica hegeliana “di destra” di padre Niel e dell’intero côté cristiano. Personaggio assai importante per gli studi hegeliani, e che trae giovamento da ambe due le letture, sarà Jean Hyppolite. Dal 1930 al 1933 Alexandre Koyré è, come già sappiamo, directeur d’études presso la V sezione dell’École Pratique, e in uno dei suoi corsi tratta la Logik e la Realphilosophie dello Hegel jenese; frutto di ciò sarà il noto saggio del 1934 Hegel a Jena (33), in cui si annuncia, pur prudentemente, la lettura in chiave heideggeriana che tanto influenzerà la Renaissance francese. Punto di snodo sono due paragrafi dell’Enciclopedia (34) hegeliana, il 258 e il 259, in cui si analizza e si definisce il tempo (35), e dove Koyré non manca di chiamare in questione lo Heidegger di Sein und Zeit (pubblicato sette anni prima) nel tentativo di far reagire la categoria hegeliana dell’esser-fuori-di-sé, con la concezione heideggeriana del tempo, in modo tale da ridurre l’Aufhebung al movimento fluido delle estasi. Ma le formule che Hegel usa nell’ambito della Filosofia della natura, vengono usate o ricondotte, da Koyré, alla specifica struttura della autocoscienza umana, secondo un’operazione di mediazione tipica dell’esistenzialismo (36). Tutto ciò è molto importante perché sarà ripreso, consapevolmente, alla lettera da A. Kojève, così che, quanto in Hegel designa il tempo naturale, diverrà la cifra distintiva della sfera antropologica rispetto all’essere statico-naturale (e basterebbe questo per immaginare tutta l’ontologia dualista kojèviana ripresa poi da Sartre) (37). Koyré con una esegesi che spazia dagli scritti jenesi fino all’Enciclopedia, traduce il concetto di tempo hegeliano nel fondamento ontologico della dialetticità dell’essere. Ne risulterà una identificazione di uomo e tempo che comporterà la conversione dello spirito al processo di autotemporalizzazione e di auto-differimento della storia: «La dialettica del tempo è la dialettica dell’uomo. Solo perché l’uomo è essenzialmente dialettico, ossia negatore, è possibile la dialettica della storia, anzi la storia stessa» (38). Al di là delle difficoltà, che si vengono a creare proseguendo le analisi koyréane, a noi interessa ora raggiungere un risultato ben preciso, cioè vedere 63 come Kojève usi tale esegesi, e cosa riprenderà l’esistenzialismo francese da quest’ultimo. C’è un punto delle lezioni di Kojève su Hegel (di cui si parlerà più avanti) in cui, facendo esplicito riferimento a Koyré, si dice: «Il testo in questione [Hegel a Jena] mostra chiaramente che il Tempo, a cui Hegel pensa, è quello che, per noi, è il Tempo storico (e non il tempo biologico o cosmico). Difatti, questo tempo è caratterizzato dal primato dell’Avvenire. Nel Tempo che la Filosofia pre-hegeliana prendeva in considerazione il movimento andava dal Passato verso l’Avvenire, passando per il Presente. Nel Tempo di cui parla Hegel, invece, il movimento prende origine nell’Avvenire e va verso il Presente passando per il Passato: Avvenire_Passato_Presente(Avvenire). Ed è appunto questa la struttura specifica del Tempo propriamente umano, cioè storico» (39). Già in Koyré, pertanto, sono inscritti i presupposti teorici per teorizzare due distinte temporalità, destinate a divergere nella radicalizzazione di Kojève fino a porre un cuneo nell’ontologia di Hegel, che sottoposta alla trazione dei due interpreti russi, si spacca, aprendo una feritoia da cui uscirà l’esistenzialismo francese. Nella sua interpretazione Koyré, infatti, si è trovato di fronte ad una grossa difficoltà: l’infinitezza dello spirito, che non si lascia facilmente ridurre a tempo, senza che non si scada in una “cattiva infinità”. Per Koyré l’in-finito trae la sua determinazione nella relazione dialettica con il finito; in una tale opposizione, che sembra forse più fichtiana che propriamente hegeliana, l’infinito deve negare il finito e interiorizzarlo, e quindi finitizzarsi esso stesso nel movimento che trae incessantemente il secondo verso il primo, in un continuo scambio delle parti. L’unità dei due momenti, che sono pensati in un rapporto logico, ma mai in una prospettiva di quieta unità, richiama la dialettica dell’eternità e del tempo, che poi diventa dell’istante e del tempo. Essa fornisce il modello per comprendere come il movimento dell’eternità accada all’interno del dominio fenomenico. Ed è proprio qui che l’analisi di Koyré assume il più alto spessore di originalità teoretica (40). Procedendo, oramai è chiaro che tale taglio ermeneutico porta a concepire due distinte temporalità: il tempo astratto della fisica, quello newtoniano e kantiano, delle formule e degli orologi, e quello che l’autore stesso definisce il «tempo “stesso”, della realtà spirituale del tempo», che «non scorre uniformemente, non è un mezzo omogeneo attraverso il quale passiamo, non è né numero del movimento, né ordine dei fenomeni. E’ arricchimento, vita, vittoria. E’ esso stesso […] spirito e concetto». Questa distinzione lo porterà a elaborare una duplice chiave per l’esegesi del tempo storico: userà l’epistemologia della storia di Marx, per corrispondere all’escatologia innescata dal futuro, ma, poiché tale modello confuta la circolarità del sistema, Kojève, lo sincronizzerà, lo congiungerà con l’esistenzialismo di Heidegger; quest’ultimo infatti, deponendo nel futuro la necessità empirico/trascendentale della morte, consente la pensabilità della chiusura dell’umano-storico. 64 In conclusione, l’umanizzazione della negatività, l’antropologizzazione dello spirito (divenuto storia) (41), e la separazione dell’esistenza dialettica rispetto al regno ontico della vita, sono i temi fondamentali e comuni tanto a Kojève che all’esistenzialismo francese in generale, e, come si è visto, trovano le loro radici in queste letture “hegeliane”. In ultima analisi, gli strumenti concettuali che Kojève usa, e che pone alla base della sua interpretazione hegeliana, sono due, ed entrambi possono essere specificati con proposizioni testuali dell’articolo di Koyré: «Insistiamo sul termine umano, perché, ancora una volta, correttamente intesa, la Fenomenologia dello spirito è una antropologia» (42), la prima; «“Il tempo è il concetto medesimo che è là” (der daseiende Begriff selbst). L’essere per sé, autocosciente, è dunque essenzialmente negatore e temporale» (43), la seconda. Per quanto riguarda la prima frase, è facile notare che in questo modo la Fenomenologia è mozzata, sia in alto, sia in basso, cioè l’indagine su questo testo non terrà mai conto della religione e della natura. La seconda frase è una vera e propria forzatura ermeneutica del testo hegeliano. Così Koyré da una parte ritaglia nella Fenomenologia il profilo dell’essere autenticamente dialettico, l’uomo; dall’altra, completa la prima, con la riduzione metafisica del concetto al tempo storico. L’assoluto hegeliano, viene sobbalzato fuori dal sistema e dal fondamento intemporale su cui riposava, e si ritrova gettato nel vortice relativistico del tempo. Accade allora che il sistema di Hegel si apre alla possibilità del futuro così da legarne il destino alla responsabilità etica dell’agire; in tal modo sul terreno preparato da Koyré; si vengono ad inserire tutte le possibili dialettiche marxiste, che su questo ritrovato concret hegeliano, tenteranno di avviare la loro aspirazione ad un messianismo radicalmente ateo. Koyré, da parte sua, è consapevole del problema e nel suo testo lascia al sistema di Hegel una possibilità di realizzazione: «Così, solo il carattere dialettico del tempo rende possibile una filosofia della storia, ma nello stesso tempo il carattere temporale della dialettica la rende impossibile dal momento che, lo si voglia o meno, la filosofia della storia ne costituisce un arresto. Non si può prevedere il futuro, e la dialettica hegeliana non ce lo consente, poiché la dialettica, espressione del ruolo creativo della negazione, ne esprime insieme la libertà. La sintesi è imprevedibile: è impossibile costruirla; si può solo analizzarla. La filosofia della storia, e – quindi – la filosofia hegeliana, “il sistema”, sarebbero possibili solo se la storia fosse terminata, se non ci fosse più futuro, se il tempo potesse fermarsi. Può darsi che Hegel l’abbia creduto. Può darsi che abbia creduto che fosse non solo la condizione essenziale del sistema […] ma anche fosse già realizzata, che la storia fosse effettivamente terminata e che proprio per questo egli potesse – avesse potuto - suggellarla» (44). Questa è l’ambigua eredità che Koyré lascia a Kojève, insieme alla sua cattedra. Solo l’estinzione del futuro consente all’assoluto di compiersi nel tempo. 65 Ma tutto ciò è molto di più di quanto possa apparire in un primo momento, infatti, in quelle ultime tre parole («potesse – avesse potuto –suggellarla.») entra in scena un assunto fondamentale per il dibattito filosofico a seguire: la fine della storia. Pensiero della fine come compito futuro, fissamento di una meta prospettica o decretazione di uno stato di fatto, la fine della storia diviene la condizione della possibilità del concetto; quest’ultimo che nelle prime ipotesi aveva per contenuto solo il tempo, ora ha, quale oggetto, la comprensione concettuale della fine. Tale difficoltà, porterebbe a far cadere la fine della storia dentro e fuori sé stessa, ma comunque nel tempo. E se così è, il discorso della fine, comunque sia, soggiacerà al primato trascendentale del futuro, diverrà escatologia: così non dirà più “la storia è finita”, ma “la storia ha da finire”, determinando conseguenze relativistiche. Kojève cadrà consapevolmente in questa “trappola” aperta da Koyré, convinto che si trattasse del problema filosofico per eccellenza. Ripercorrendo dopo molti anni il passaggio del testimone da parte del collega-amico Koyré, affermerà: «Nel corso degli anni, ho letto tre volte questo scritto [la Fenomenologia] da un capo all’altro senza capirne nulla [..]. E’ allora che il mio amico Alexandre Koyré diede inizio alla sua interpretazione della Fenomenologia all’ École Pratique des Hautes Études (alla Sorbonne). Egli parlò del Tempo hegeliano, e questa fu per me, come si dice, una rivelazione» (45). Alexandre Kojève nasce a Mosca nel 1902 da una famiglia della ricca borghesia, imparentata con quella di Vasilij Kandinsky, suo zio. Il padre muore nel 1905 in Manciuria, nella battaglia tra Russia e Giappone, ma nonostante la sua condizione di orfano, può accedere ugualmente ad una educazione privilegiata, grazie ai capitali del secondo marito della madre che è un ricco gioielliere. Frequenta, infatti, il prestigioso liceo moscovita “Medvednikov”. Già da questi anni si interessa a problematiche filosofiche che rivelano una attenzione specifica a temi metafisici, religiosi e politici. Di tutto ciò noi siamo informati tramite un Diario filosofico, che lui tiene dal 1917 fino al 1920, in cui raccoglie tutte le sue riflessioni giovanili (46). Nel 1918 viene arrestato dai bolscevichi per dei commerci illegali, condannato, trascorre in carcere un breve periodo. Nonostante si dichiarasse comunista, tra il 1919 e il 1920, decide di espatriare in Polonia, insieme all’amico Georges Witt, ma al termine di questo clandestino e avventuroso viaggio, vengono presi e arrestati con l’accusa di essere due spie bolsceviche. Nell’estate dello stesso anno esce dal carcere, e recuperata, grazie all’amico, parte dei beni rimasti in Russia, va a Berlino, per poi ripartire poco dopo verso l’Italia. Sempre il Diario filosofico ci informa che, in questo periodo, la sua riflessione si concentra attorno a temi esistenziali: una «filosofia dell’In-esistenza», come Kojève stesso la definì, che vede il pensiero come segnato da una mancanza strutturale originata dalla coscienza della morte. Tali riflessioni avranno la loro 66 prosecuzione in uno scritto che tenta una conciliazione tra prospettiva buddista e metafisica cristiana: I fini ultimi dell’etica del cristianesimo e del buddismo (47), datato Luglio 1920. Il buddismo in Kojève rimarrà un riferimento costante in tutta la sua opera, lui stesso alluderà sempre all’importanza che ha rivestito per comprendere a pieno talune problematiche filosofiche, sia in ambito hegeliano che heideggeriano (48). Durante questo stesso anno, precisamente nel soggiorno romano, si inizia ad interessare di problemi estetici e redige lo scritto Sull’In-esistente nell’arte e sull’arte dell’In-esistente (49). Nel 1921 si trasferisce ad Heidelberg dove segue i corsi di filosofia (tra i quali quelli di Jaspers, con cui ha anche uno scambio epistolare ancora inedito), e approfondisce lo studio del buddismo e delle lingue orientali (sanscrito, cinese, tibetano). Dopo un anno di studi, insoddisfatto del clima accademico e provinciale di Heidelberg, riparte per Berlino, ma riesce a terminare gli studi, e, tornato ad Heidelberg, si addottora nel Febbraio del 1926 in filosofia e in lingue orientali. Relatore della sua tesi su Soloviev è Jaspers (50). Nel frattempo aveva iniziato una relazione sentimentale con la sua futura moglie Cécil Shoutak, che era già sposata con il fratello minore di Alexandre Koyré. Fatto sta che quando Koyré conobbe questo pretendente, nonostante le sue intenzioni iniziali fossero di intervenire nella faccenda in favore del fratello, decise poi di tenere le parti del rivale; di lì nascerà una grande amicizia e una reciproca stima intellettuale che porterà Koyré, nel 1933, ad affidare la sua cattedra proprio a Kojève. Torna a Berlino, ma, nauseato dal montante clima politico, decide di partire, nel 1926, alla volta di Parigi, dove segue i seminari di Koyré all’École Pratique, approfondisce lo studio di Soloviev e delle lingue orientali. Dimostra, però, grande interesse anche per la matematica e la fisica, di cui prenderà lezioni private dal 1928 al 1931 (su quest’ultimo interesse avrà sicuramente influito Koyré). La crisi che, in questi anni, colpisce la Borsa annienta gli investimenti di Kojève, mettendolo in gravi ristrettezze economiche, a cui cerca di sottrarlo Koyrè offrendogli di collaborare alla rivista «Recherches philosophiques», da lui diretta (51). Il 1933 è un anno particolarmente importante per Kojève, ottiene, infatti, il diploma all’École Pratique discutendo una voluminosa tesi sulla filosofia religiosa di Soloviev (52), e immediatamente dopo vince il dottorato alla Sorbonne presentando lo scritto dal titolo L’idée du déterminisme dans la phisyque classique et dans la physique moderne (53). A suo dire però, lo scritto più importante di questo periodo è L’athéisme del 1931, rimasto inedito; c’è da notare anche una fitta corrispondenza con lo zio Kandinsky che ora è stata raccolta e pubblicata (54). Comunque il fatto saliente di questo anno è la chiamata presso l’École Pratique come successore di Koyré. Costui infatti decide di abbandonare la cattedra di filosofia delle religioni all’École Pratique per partire alla volta dell’università del 67 Cairo, e propone al Ministero come suo supplente proprio Kojève, che viene chiamato a sostituirlo. Così a partire dall’anno accademico 1933-34, Kojève inizierà l’interpretazione della filosofia di Hegel dal punto in cui l’aveva lasciata il suo predecessore, riprendendo il taglio ermeneutico e le riflessioni di quest’ultimo. Dal momento che Koyré aveva preso in esame, procedendo geneticamente, i testi giovanili fino al periodo di Jena, a Kojève toccherà la Fenomenologia dello spirito; da quel momento, fino allo scoppio della seconda guerra mondiale (quindi dal 1933 al 1939), quel seminario diventerà il punto di incontro e di discussione dei giovani intellettuali francesi: Raymond Queneau, Georges Bataille, Jacques Lacan, Eric Weil,Maurice Merleau-Ponty, André Breton, Raymond Aron, Roger Callois, Pierre Klossowski, padre Fessard, Henry Corbin, Robert Marjolin e lo stesso Koyré, erano tutti uditori di quelle lezioni. Il suo seminario divenne in pochi anni leggendario, le discussioni che esso suscitava si trasferirono dalle aule universitarie ai salotti culturali, ai circoli letterari, ai laboratori politici e sociologici, insomma le riflessioni di Kojève formarono tutta la cultura francese a venire, dalla letteratura alla psicoanalisi, dalla filosofia alla politica (55). Per quanto riguarda la presenza di Sartre al seminario, nell’elenco completo dei partecipanti anno per anno non compare; anche se è notorio che lo Hegel di Sartre sia quello dell’interpretazione kojèviana. Sicuramente Sartre conosceva bene l’articolo del filosofo russo apparso su «Mesures» nel Gennaio del 1939 (successivamente apposto da Queneau all’inizio dell’Introduzione alla lettura di Hegel, con il titolo A guisa di introduzione), che è una traduzione commentata della sezione A del capitolo IV della Fenomenologia, intitolata «Autonomia e dipendenza dell’Autocoscienza: signoria e servitù». Scrive Remo Bodei, in un saggio su Kojève (56), che il tema della consapevolezza di sé stessi, presuppone il rapporto consapevole con altre autocoscienze: il poter dire «io», presuppone lo «sdoppiarsi al proprio interno rispecchiandosi dapprima in un “io” diverso dal proprio», e ciò accade perché «la relazione diretta» della coscienza «con l’oggettività non è sufficiente […] a far sorgere l’autocoscienza, poiché “l’uomo si ‘perde’ nell’oggetto conosciuto”, viene assorbito e quasi risucchiato da esso». Al termine di questa osservazione, Bodei, riporta in nota che Sartre nelle sue opere, sia letterarie che filosofiche, sviluppa proprio questo tema «in un’efficace interazione di fenomenologia hegeliane e husserliana, allorché contrappone la coscienza non-tetica (dissipata nel ‘reale’, esposta al rischio di farsi “assorbire dalle cose come carta assorbente” oppure di perdersi, disintegrandosi o sciogliendosi nell’altro come se il mondo avesse “un foro di scarico, al centro del suo essere”) a quella tetica, in grado di ritornare in se stessa e di pensarsi quando l’individuo è “visto” dall’Altro (il tutto in relazione alla più generale teoria dell’uomo come “desiderio di essere”)» (57). La nota termina col 68 rimando a due opere sartriane, L’essere e il nulla e Il rinvio, in cui tale tema viene notevolmente considerato. Per quanto riguarda Sartre, mi sembra che a questo punto, sia chiaro il debito verso la riflessione kojèviana; si può comunque confrontare un articolo di Fessard, in cui si tratta della reticenza dei partecipanti al seminario a citare il debito verso di esso (58). Si noti inoltre, che c’è un assente d’eccezione, Jean Hyppolite, che evitò il seminario di proposito per paura di rimanere influenzato dalla forza persuasiva di Kojève (59). Mobilitato nel 1939, Kojève non viene direttamente impegnato nelle operazioni al fronte, ma successivamente partecipa attivamente alla resistenza. Catturato dalla polizia tedesca, riesce a evitare il plotone d’esecuzione; nello stesso anno (1943) scrive un libro concepito durante la guerra come chiarificazione della sua filosofia politica, Linee di una fenomenologia del diritto (60), che viene pubblicato postumo. Gli scritti successivi, tutti per lo più inediti, sono interamente dedicati ad una specie di filosofia geo-politica, che, partendo dalle sue teorizzazioni sulla fine della storia, e notando le contraddizioni con gli eventi scaturiti dal secondo conflitto mondiale, cerca di definire la situazione politica mondiale come un periodo di transizione, in cui il Weltgeist hegeliano, superata la forma dello stato nazionale, tende alla mondializzazione, soggiornando nella mediazione degli imperi. Tra il 1945 ed il 1968, Kojève entra in una seconda vita: il suo allievo Robert Marjlion, che nel frattempo era divenuto un alto funzionario del Ministero dell’Economia, lo chiama per rivestire l’incarico di “chargè de mission” presso la DREE (Direction des relation économiques extérieures): cominciava la sua nuova carriera di alto funzionario negli organismi economici europei e internazionali; il 4 Giugno del 1968 è l’ultimo giorno di vita di Kojève, si trova a Bruxelles per una riunione del Mercato Comune Europeo, e dopo aver preso la parola brevemente, si accascia per un infarto. La fortuna degli studi kojèviani è stata più forte in America che in Europa, dove è difficile trovare una monografia esauriente sul suo pensiero. Negli USA, stranamente, oltre a opere monografiche (61), sono stati scritti molti articoli e saggi, ed anche una notevole traduzione di opere edite e inedite. Fu importato sulla scia di Leo Strauss con il quale intrattenne un importante dialogo sul rapporto tra filosofia e potere (62). La ricezione statunitense, forse a causa di una lettura straussiana del pensiero kojèviano, è orientata a leggerlo come paradigma di un pensiero reazionario, che pone in primo piano i valori aristocratici dell’onore e della lotta contro l’omologazione genealogicamente perpetuata nella storia del cristianesimo, e lo condanna ad un pragmatismo etico che giustificherebbe ogni sorta di totalitarismo. Comunque, il messaggio politico che si può trovare nelle concezioni kojèviane (per esempio la fine della storia), è facilmente strumentalizzabile: c’è, chi vi vede il rappresentante dello stalinismo francese, ma solitamente il giudizio che si 69 incontra, è quello di un pensiero destrorso, in senso aristocratico ed iperstatalista. Tuttavia c’è anche chi vi ha rilevato un ideale essenzialmente a-politico. Una possibile spiegazione di questa ricezione americana, è l’enorme risonanza che ha avuto il libro The Closing of the American Mind (63) di Allan Bloom, che, essendosi sempre dichiarato allievo di Kojève, ne alimentò l’immagine di destra. Ciò si deve al fatto che il sopracitato libro trae ispirazione da una famosa nota dell’Introduzione, aggiunta posteriormente alla seconda edizione del 1968 (64), in cui Kojève dichiara di vedere nell’American Way of Life, la ricaduta dell’uomo nella predetta condizione post-istorica dell’animalità. Bloom da qui è partito per una ricognizione delle fonti ispiratrici che soggiacciono al pensiero del russo, rinvenendole in una linea nietzscheana, che distanziandosi dalla solita lettura marxista della teoria dell’“ultimo uomo”, lo lega alla così detta “rivoluzione conservatrice”, che porta la sua interpretazione hegeliana dal versante che va da Spengler a Schmitt. Francis Fukuyama, allievo di Bloom e apostolo (a suo dire) di Kojève, è invece persuaso che il russo sia il paladino del moderno liberalismo borghese, e nel recente libro La fine della storia e l’ultimo uomo (65) distorce nuovamente il pensiero kojèviano; partendo dalla nota che ispirò il suo maestro, Fukuyama approda ad un’interpretazione diversa: Kojève sarebbe il profeta del trionfo mondiale del liberalismo borghese, e quindi della democrazia. E’ da notare come, dalla “nota aggiunta” o dal carteggio con Strauss, la tradizione americana rinvenga in Kojève i tratti tipici di concezioni conservatrici, l’ermeneutica europea, invece, quelli della sinistra hegeliana. Resta comunque il fatto che in America, per quanto personali, distorte o superficiali, ci siano all’attivo molte più pubblicazioni sul pensiero del russo; in Italia o in Francia, invece, questa assenza si deve forse al bilancio tutto sommato negativo che si è fatto della sua interpretazione hegeliana e della riflessione filosofica che si ricava da essa. Mario Rossi (66) afferma, senza riserve, che l’interpretazione umanistica di Kojève è «personalissima (per non dire del tutto arbitraria)» (67), la sua analisi di Hegel si basa esclusivamente sulla dialettica tra signoria e servitù, Hegel viene trattato come se avesse scritto una serie di proposizioni simili che discendono unilateralmente da essa, «e dalla quale tutto il resto dipende». Che Hegel abbia voluto fondare e delineare una dialettica dell’assoluto (della quale l’uomo, e soprattutto il singolo, l’individuo, non è che un momento); che abbia descritto questa dialettica come una dialettica dell’estraneazione o alienazione dell’assoluto, che così si particolarizza, si determina; e che il ritorno in sé della condizione estraniata sia una riconquista che l’assoluto compie in sé stesso: di tutto questo Kojève non tiene alcun conto. «Per lui il soggetto della dialettica è l’uomo, e in questa sezione, non l’autocoscienza come momento dell’assoluto, ma l’autocoscienza in quanto essa 70 significa che… l’uomo si differisce dalla bestia» (68), e continua in nota, «quanto alla scoperta dell’ “ateismo” di Hegel, e cioè del “superamento” della religione nel sapere assoluto, sappiamo ormai non solo come essa non sia affatto nuova, ma anche come sia destinata, in quanto convalida della filosofia speculativa, a convertirsi in una suprema posizione teologica. Con la differenza che la teologia negativa di Bauer s’inserisce nello sviluppo storico della critica della Sinistra hegeliana che fece da ambiente e da sfondo alla formazione di Marx, dopo il quale, infatti, non si sa a che cosa potrebbe servire una sua riesumazione» (69).E commentando una nota - in cui Kojève loda Heidegger per aver ripreso i temi hegeliani della morte, pur rimproverandogli di trascurare i complementari temi della lotta e del lavoro (con la conseguenza di non riuscire a rendere conto della storia); e loda Marx per aver mantenuto quegli stessi temi(caratterizzando la sua filosofia in senso “storicista”), ma rimproverando a quest’ultimo di aver trascurato il tema della morte, con la conseguenza di non vedere che la rivoluzione è necessariamente ed essenzialmente sanguinosa (70), Rossi afferma che si tratta di una «dichiarazione estremamente pericolosa, perché sembra indicare che le simpatie di Kojève non vadano tanto alla sostanza “storicista” del marxismo, quanto ad una metafisica del sangue di carattere romantico degenerante che, per fortuna dei “marxisti”, è semplicemente l’opposto del marxismo, e non può far pensare, con buona pace di Kojève (che però scriveva questa frase nel 1939), alle contemporanee interpretazioni naziste di Hegel». E Aggiunge: «Ma su questo punto speriamo di esserci sbagliati» (71). Conclude quindi sarcasticamente il commento a Kojève dicendo: «Questi pochi accenni speriamo bastino a convincere il lettore che, per quanto suggestive o simpatiche possano riuscirgli le pagine di A. Kojève che abbiamo esaminate, pure, queste non hanno pressoché nulla a che fare né con Hegel né con la Fenomenologia dello spirito. Cerchiamo […] di spiegare Hegel non con Heidegger, né con Marx, né, putacaso, col neopositivismo logico, ma con Hegel stesso» (72). Non è facile trovare accuse così poco velate, ma è facile imbattersi in dichiarazioni che responsabilizzano l’operato del russo in Francia: «Comunque sia, è difficile comprendere i giudizi favorevoli o sfavorevoli a Hegel che si incontrano in Weil, Aron, Fessard, Lacan o Merleau-Ponty, per citare che questi, senza trovarsi innanzi all’immagine forgiata nel crogiolo kojèvano; si può dire senza partito preso che lo Hegel al quale la cultura francese, per circa mezzo secolo, ha avuto accesso è stato, in modo praticamente esclusivo, “lo Hegel di Kojève”» (73). Allora parlare di Kojève significa tirare in ballo la filosofia francese, che non mise le radici su Hegel, ma sulla filosofia di Kojève nascosta tra le righe del suo commento alla Fenomenologia. L’enorme diffusione, che ebbe il libro di Kojève in Francia, è fuori discussione, il problema sembra essere che «questo testo e il sentimento che esso sveglia sono spesso ciò che resta di Hegel quando si è 71 dimenticato tutto» (74) o per di più che «l’esistenza del libro del signor Kojève, come “momento storico” […] dell’influenza attiva di Hegel in Francia, contraddice a tal punto il contenuto reale riconosciuto da lui al pensiero di Hegel da farla quasi apparire demenziale» (75). Derrida appare molto più cauto. Egli scrive che «la lettura neo-marxista e paraheideggeriana della Fenomenologia dello spirito da parte di Kojève è interessante. Chi lo contesterà? Essa ha giocato un ruolo formatore e non trascurabile, sotto molti aspetti, per una certa generazione di intellettuali francesi, subito prima o subito dopo la guerra» (76). Di conseguenza chi attacca Kojève attaccherebbe tutti quegli intellettuali a cui Derrida allude. Derrida escluso o compreso? Kojève era chiaramente consapevole dell’ambiguità a cui stava dando vita nel depositare il suo pensiero all’interno di quello hegeliano, così che chi tende a dissociare Kojève da Hegel e rendere il suo commento una semplice interpretazione inautentica, fa il gioco di Kojève; ma chi lo accetta alla lettera e lo lega, nel bene o nel male, al nome di Hegel fa ugualmente il gioco di Kojève, nel senso che, comunque, ha legato il destino delle proprie riflessioni a quelle di Hegel (77). In una lettera di Kojève a Tran-Duc-Thao, datata 7 Ottobre 1948, c’è chiaramente scritto: «Vorrei tuttavia segnalare che il mio lavoro non aveva il carattere di uno studio storico; mi interessava relativamente poco sapere ciò che Hegel stesso abbia voluto dire nel suo libro; ho fatto un corso di antropologia fenomenologica servendomi dei testi hegeliani, ma dicendo solo quello che consideravo essere la verità, lasciando cadere tutto ciò che, in Hegel, mi sembrava un errore. Così, rinunciando al monismo hegeliano, mi sono coscientemente distaccato da questo grande filosofo. D’altronde il mio corso era essenzialmente un’opera di propaganda destinata a colpire gli animi. Ecco perché ho volutamente rafforzato il ruolo sella dialettica del Signore e dello Schiavo …» (78), allo stesso modo, il russo, dichiara che il tema della “vanità”, o del “desiderio di desiderio”, non esistono in Hegel e di averle introdotte perché la sua intenzione era quella di fare una interpretazione e non un commento (79). Lacan e Girard, che hanno importato di netto quest’ultimo concetto, devono molto a Kojève. Sappiamo oramai che l’interpretazione di Kojève del testo hegeliano, si può chiamare “umanista” e “antropologica”, ed è per questa via che essa va ad inciampare sulla morte o sul problema della finitezza, trasformandosi in un hegelismo della pura libertà-negatività; del resto sull’identificazione tra libertà e morte, Kojève è molto chiaro: «La filosofia “dialettica” o antropologica di Hegel è, in ultima analisi, una filosofia della morte (o, che poi è lo stesso, dell’ateismo)» (80), e «non c’è libertà senza morte, […] solo un essere mortale può essere libero. Si può anzi dire che la morte è la “manifestazione” ultima e autentica della libertà» (81). E su questo assunto 72 riposa tutto il problema della lettura di Hegel data da Kojève. Sottolineiamo che il problema della mortalità (troppo)umana, non è affatto un problema hegeliano. Per Hegel il sapere assoluto (lo dice il termine stesso) non è in alcun modo un sapere o una scienza dell’uomo finito; la Scienza della Logica (82), che in un certo senso è la monografia sul sapere assoluto, è definita da Hegel come «l’esposizione di Dio, com’egli è nella sua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito»83, ciò vale anche per la Fenomenologia, che illustrando le varie figure della coscienza e del sapere umano, arriva alla manifestazione fenomenologica dell’assoluto. Tale assoluto Hegel nella «Prefazione» designa anche come «vita dello Spirito», «che sopporta la morte e in essa si mantiene» (84): quasi una Kenosi (85) dello spirito, che dunque diviene fenomenalità finita, e che «nell’assoluta devastazione» sa «ritrovare sé» guadagnando «la sua verità», volgendo «il negativo nell’essere» (86). Pertanto il fatto che muoia lo spirito che si è finitizzato, non pone alcun problema ad Hegel, perché tale è la condizione (attraverso la molla del superamento) della manifestazione assoluta dello spirito come identità della sostanza e del soggetto, dell’in sé e del per sé, dell’identità e della differenza: «Che la Sostanza sia essenzialmente Soggetto, ciò è espresso in quella rappresentazione che enuncia l’Assoluto come Spirito» (87). Ora, in Hegel è lo spirito che si finitizza e soffre la propria morte per meglio rivelarsi a sé stesso, ma, se noi intendiamo e proponiamo di tradurre questo “spirito” con “uomo”, otteniamo quello che ha fatto Kojève; infatti nel commentare il primo capoverso di pagina 19 (cito direttamente dall’edizione italiana) della «Prefazione» alla Fenomenologia, scrive: «E’ questo il senso del passo della Prefazione alla PhG sopra citato. Interpretato sul piano ontologico, il passo significa che la Totalità (infinita) dell’Essere (o dell’Uno-che-è) non si rivela da sé a se stessa, ma è rivelata da una delle sue parti (limitate), la quale rivela anche se stessa. Metafisicamente parlando, il passo significa che lo Spirito, cioè l’Essere il quale si rivela da sé a se stesso, non è Dio, ma l’Uomo-nel-Mondo» (88). Allora, usando le parole di Hegel, il dolore, la pazienza e il travaglio del negativo, non vanno attribuiti all’assoluto o a Dio, ma ad una «parte limitata» di esso, cioè l’uomo. In questo modo si è compiuto il definitivo passo per entrare nell’interpretazione kojèviana, perché così la Fenomenologia diviene un’«antropologia» ed una «scienza dell’uomo» (89). Le interpretazioni a questo punto sono due. Se l’assoluto hegeliano fosse identico all’uomo, si otterrebbe una riappropriazione da parte dell’uomo della sua essenza infinita, assegnata fino ad allora a Dio. E questa, come già sappiamo, è la tesi della sinistra hegeliana, che Kojève, in un certo senso, fa propria quando scrive: «In via generale, l’antropologia hegeliana è una teologia cristiana laicizzata. E Hegel se ne rende conto perfettamente. A più riprese, egli ripete che tutto quanto la teologia cristiana dice è assolutamente vero, a 73 condizione che non venga applicato a un immaginario Dio trascendente, bensì all’Uomo reale che vive nel mondo. Il teologo fa dell’antropologia senza rendersene conto». Per Kojève questo vuol dire che è finita l’alienazione religiosa ed inizia l’umanismo ateo; di lì a poco Sartre dirà «L’esistenzialismo è un umanismo». Ma il secondo punto è il vero problema, cioè, come può l’uomo prendere il posto dell’assoluto se ne è solo una «parte limitata»? Kojève stesso sa bene che l’uomo è finito e mortale, e lo si deduce da quel «Uomo-nel-Mondo» che chiude la precedente citazione, poiché allude, chiaramente, all’ «Inder-Welt-Sein» di Heidegger e più in generale a tutta l’analitica esistenziale esposta in Sein und Zeit. Kojève è sicuramente tra chi ha contribuito maggiormente ad introdurre l’analitica esistenziale in Francia, e tale analitica è presentata esplicitamente da Heidegger come analitica della finitezza, cioè, mentre nella tradizione metafisica si era sempre pensato l’uomo sullo sfondo di un essere infinito, Heidegger propone di invertire la corrente e di pensare l’essere nei termini di finitezza radicale; ma tutto questo lungo e complesso discorso heideggeriano, non significa affatto che l’essere venga “riassorbito” nell’uomo, come invece sembra faccia Kojève. Heidegger non ha mai pensato ad un essere di cui si possa appropriare l’uomo; l’essere, quale lo definisce Heidegger, è l’essere dell’«essente che noi siamo», ma soltanto nel senso in cui è l’essere di un essente che non ha il suo essere in sé. Ed è per questa ragione che Heidegger chiama «l’essente che noi siamo» Dasein, così che non si possa confondere con l’“uomo” dell’antropologia filosofica (90), quest’ultimo, infatti, lo si dovrebbe ancora pensare nell’orizzonte di ciò che Heidegger chiama il Vorhandensein, cioè «l’essere-a-portata-di-mano», una categoria fondamentale del modo di essere degli enti che il Dasein incontra nel mondo. Questa categoria assieme alla Zuhandenheit,«utilizzabilità», indica un modo di essere delle cose, e precisamente quello in cui si trovano quando l’esserci (Dasein) si rapporta loro nell’atteggiamento osservativo e constatativo, un atteggiamento di tipo teoretico; al contrario, quando l’esserci si rapporta all’ente secondo l’atteggiamento praticopoietico, esso allora si rivela sotto l’aspetto categoriale dell’utilizzabilità, e rispetto alla Vorhandenheit la Zuhandenheit ha un carattere primario, è, cioè, il modo d’essere in cui il Dasein incontra, innanzitutto e per lo più, l’ente. L’esserci, invece, «ek-siste», la sua «essenza» è l’«esistenza», ed è gettato (geworfen) in essa senza essere a fondamento di sé stesso, e contemporaneamente proiettato (entworfen) dinanzi a sé verso il proprio essere. Al contrario dell’essente che sussiste nel mondo (Vorhandensein), l’esserci deve essere al di là di ogni essente (di tutto ciò che è), e per questo tanto è più libero quanto è fondamentalmente finito. E’ condannato a scegliere tra diverse possibilità che gli si offrono (quindi a negare tale possibilità per qualche altra), oltrepassando di continuo ogni essente, caratterizzandosi, così, in quanto «trascendente puro e semplice». In questo modo 74 l’uomo non raggiungerebbe mai il suo essere, la sua realizzazione la otterrebbe nella possibilità estrema, ossia nel momento della sua morte, il momento impossibile in cui non “ek-siste” più, in cui non è più (nicht- mehr-Dasein). La libertà dell’esserci, che gli consente di oltrepassare ogni essente, è una «libertà-per-la-morte» (Freiheit zum Tode), pertanto inappropriabile; l’esserci finché ek-siste è un «essere-per-la-morte» (Sein-zum-Tode). Heidegger è tradotto da Kojève in questo modo: l’«essere umano non è altro che […] la morte che vive una vita umana» (91). Così si dovrebbe essere compreso quanto il Dasein heideggeriano sia diverso sia dallo spirito hegeliano, sia dall’uomo dell’umanismo ateo; ciononostante è proprio un amalgama del genere che costituisce la definizione di «realtà-umana» data da Kojève. Costitutivo di tale «realtà-umana» è un altro concetto fondamentale di Kojève, cioè quello di «Desiderio»: «L’ uomo» in quanto Autocoscienza […] è cosciente di sé, della sua realtà e dignità umane, e in questo si differenzia essenzialmente dall’animale, che non va oltre il livello del semplice Sentimento di sé. […] Ora, l’analisi del “pensiero”, della “ragione”, dell’“intelletto”, […] non scopre mai il perché o il come della nascita […] dell’autocoscienza, cioè della realtà umana. L’uomo che contempla è “assorbito” da ciò che contempla; il “soggetto conoscente” si “perde” nell’oggetto conosciuto. La contemplazione rivela l’oggetto, non il soggetto. E’ l’oggetto, non il soggetto, a mostrarsi nel e mediante - o, meglio ancora, come - atto di conoscere. L’uomo “assorbito” dall’oggetto che contempla non può essere “richiamato a sé” se non da un Desiderio […]. E’ il Desiderio (cosciente) di un essere a costituire quest’essere come Io e a rivelarlo come tale […]. E’ il Desiderio a trasformare l’Essere, rivelato a sé da se stesso nella coscienza (vera), in un “oggetto”, rivelato a un “soggetto” da un soggetto diverso dall’oggetto e “opposto” ad esso. Solo nel e mediante, o meglio ancora, come, “suo” Desiderio, l’uomo si costituisce e si rivela- a sé e agli altri- come un Io, come l’Io essenzialmente diverso dal non-Io, e radicalmente opposto al non-Io. L’Io (umano) è l’Io di uno del- Desiderio» (92). Come sappiamo, Hegel tratta dell’«autocoscienza» nel capitolo IV della Fenomenologia, ossia della coscienza per la quale l’oggetto non è più l’oggetto «in sé» della conoscenza teorica, descritta nei tre capitoli precedenti («certezza sensibile», «percezione», «intelletto»), ma l’oggetto «per sé» di una libertà attiva. L’autocoscienza non contempla l’oggetto (fuori di sé), bensì lo “appetisce”, “concupisce” «per sé», «l’autocoscienza […] è concupiscenza, appetito» (93), scrive Hegel, essa non conosce alcuna alterità che non riduca immediatamente a se stessa. Appetendo se stessa attraverso l’altro, essa nega l’altro; e, questa prima fase dell’autocoscienza, è per Hegel quella della «Vita», che si sviluppa da sé, a partire da sé, e che quindi è «indipendente» dall’altro. Ma tale vita naturale resta profondamente inconscia e inconsapevole di sé («tale unità non è in pari tempo per se stessa» (94)), essa non si sa libera, non si vede vivere; nega immediatamente tutto ciò 75 che essa non è, «è quindi l’infinito movimento che consuma quel calmo mezzo, è la vita come vivente» (95), e come tale non dispone di alcuno specchio per vedere se stessa, abbisognerà, quindi, che si medi: si opponga a se stessa e si rifletta per “sapersi”, e allora affronterà la morte, negherà se stessa come vita naturale e acquisterà la libertà come coscienza di sé. Questo è il momento che interessa tanto a Kojève, perché c’è l’io umano in opposizione alla vita naturale; anche se, in Hegel, questa opposizione si presenta come una auto-opposizione «della vita», che acquista coscienza di sé attraverso la prova della morte, in Kojève diverrà una opposizione radicale dell’uomo alla vita naturale ed immediata, un dualismo netto, preciso e mai superato in quanto caratteristica essenziale dell’umanità: «L’uomo […] si differenzia essenzialmente dall’animale» per il fatto che affronta la morte e così «oltrepassa la realtà data» (96), la realtà propriamente umana, è la realtà che differisce da sé, che si nega di continuo come realtà. Di colpo, tutto questo, non ha più nulla di hegeliano, ci troviamo dentro un brutale dualismo ontologico irriducibile, che Kojève stesso descrive come «indispensabile» e come «il principale compito filosofico dell’avvenire» (97). Da un lato, infatti,abbiamo l’essere naturale, cosale, sostanziale, sempre identico a se stessoquello che Kojève chiama «l’Essere puro e semplice» oppure il «Reale»-, dall’altro, invece, abbiamo l’essere non naturale, che «annienta nell’Essere» (98), negando, oltrepassando, trascendendo ogni «Reale», quello che Kojève chiama indifferentemente, l’«Uomo», il «Soggetto», il «Desiderio» oppure il «Discorso» (99). Sembra, allora, che Kojève abbia reinterpretato le due categorie heideggeriane di Dasein e Vorhandensein, adattandole al discorso hegeliano, e ribattezzandole per l’occasione «realtà-umana» e «realtà data»; allo stesso modo, l’impianto caratteristico dell’ontologia dualistica kojèviana sembra far leva sulla «differenza» heideggeriana dell’essere e dell’essente, qui drasticamente reinterpretata in termini di differenza tra due regioni dell’essente. E’ evidente che questo amalgama filosofico che Kojève costruisce, unendo Heidegger ed Hegel, scontenta entrambi i filosofi e i puristi della storia della filosofia: non si capisce, infatti, come Hegel potrebbe acconsentire ad un assoluto scisso in due, e ad una dialettica bloccata sul momento della «riflessione» finita. E dal canto suo Heidegger rifiuta di riconoscere all’essere un potere di annientamento, di cui potrebbe semplicemente appropriarsi l’essere umano (vedi la già citata Lettera sull’umanismo che può essere considerata una risposta sia a Kojève che a Sartre, in quanto suo “erede filosofico”). Ma vediamo brevemente come la chiave di volta del discorso kojèviano poggi sull’efficacia di un termine, o meglio dire sull’effetto di traduzione di un termine, dal tedesco al francese, della resa, cioè, della Begierde con désir (100). Per Kojève, si trattava, forse, di evitare il possibile appiattimento del termine tedesco sullo spettro 76 semantico dell’istinto e del bisogno naturale, dimenticando il carattere spirituale, riferentesi, cioè, alla sfera dello spirito inteso come quell’ «io che è noi e noi che è io», che certamente è operante in Hegel. Ma al di là delle successive forzature, che Kojève fa del testo hegeliano, l’effetto di tale traduzione è certamente di grande portata. Se il termine tedesco va inteso correttamente nel senso di appetito e/o concupiscenza, come lo ha tradotto il De Negri, con cui si fa riferimento ad una funzione del vivente all’interno della coscienza, e quindi già pronta a trapassare nell’autocoscienza (confronta la triade spinoziana di conatus, appetitus, cupiditas), la resa kojèviana scatena invece tutt’altra catena semantica. Désir, ed il suo relativo italiano desiderio, discendono dal latino desiderium, che letteralmente significa” aver cessato di contemplare gli astri a scopi augurali” o, in altri termini, l’essere stati privati della protezione delle stelle (101). Pertanto il desiderio è caratteristico, etimologicamente, di una situazione di privazione, da una stato precedente di protezione degli astri, a una condizione di non salvaguardia. L’uomo non contempla più gli astri a scopi augurali, ma si è venuta a creare una frattura tra esso e le stelle, e allora il desiderio designa tale situazione di mancanza, ma non nel senso biologico naturale, la cui soddisfazione è regolata dall’istinto, bensì è proprio di una mancanza essenzialmente umana: quell’impossibilità per il soggetto, che Hegel attribuiva alla coscienza vivente, di poter attingere alla felicità che deriverebbe dalla sempre riconquistata identità con sé. C’è, nel desiderio, il rimando alla “mancanza ad essere”, quindi allo stato di scissione del soggetto, ed è l’effetto della rottura inevitabile dalla natura “mitica”, in senso stretto, dal potere mitico degli astri (che però è già un prodotto della cultura chiamato ad esorcizzare la natura del desiderio). «Se l’uomo de-sidera, non è tanto perché ha cessato di fare tutt’uno con la natura, quanto perché è l’effetto di un dis-astro. La necessità divina ed astrale non governa più l’ordine del cosmo, le stelle non rispondono più alle domande degli uomini e gli auguri non sono più in grado d’interpretare i presagi che giungono o confusi od ambigui. Come diceva Plutarco, è perché Pan è morto e la natura è ammutolita, che l’uomo si trova catapultato nell’universo del desiderio e della catastrofe. Da ciò deriva quel significato secondario, ma non per questo meno decisivo, del desiderio, che consiste nel fatto che, mentre desiderare è rivolgersi al futuro, la sua soddisfazione coincide con il ripristino di uno stato che appartiene al passato: un tempo mitico perché anteriore al tempo proprio del desiderio. Quest’ultimo è governato da un movimento temporale complesso: mentre, infatti, si dispone nell’attesa del futuro, è in realtà dal passato che attende il ritorno di ciò che desidera. Allora, desiderare significa, anche, aver fede nel fatto che ciò che si ritiene perduto, sopravviva e possa ritornare un giorno a noi dall’avvenire, come se, insistendo in un altro tempo da quello della nostra coscienza, esso non solo fosse 77 eterno, ma anche superasse d’un balzo il tempo finito dell’esistere umano e ci venisse incontro, cioè ci attendesse, nel punto d’incrocio fra il tempo e l’eternità» (102). E dopo questa digressione, tornando al testo hegeliano dell’interpretazione che ne dà Kojève, vediamo quando il desiderio che desidera se stesso nel suo oggetto, diviene propriamente «umano» e non «naturale» o «animale». Ebbene, per Kojève, ciò accade nel momento in cui il desiderio si dirige verso un oggetto non naturale: poiché esso stesso, il desiderio, diviene allora quell’oggetto, facendolo proprio e conseguentemente sopprimendolo. Ma quell’oggetto altro non è che un altro desiderio anzi, in un certo senso, lo stesso desiderio. «Perché ci sia Autocoscienza, occorre dunque che il Desiderio si diriga verso un oggetto non-naturale, verso qualcosa che oltrepassi la realtà data. Ora, la sola cosa che oltrepassi questo reale dato è lo stesso Desiderio» (103). In Kojève, si deve notare, ancora l’uso frequente delle maiuscole per le parole chiave, oggi completamente in disuso; e qui, infatti, compare “Desiderio”, come a sottolineare che non si tratta del desiderio di questo o quello, bensì, del Desiderio, nella sua essenza di Desiderio. E questo Desiderio in quanto Desiderio, dirà Kojève, cos’è mai se non un desiderio di vuoto? «Infatti, il Desiderio, assunto come tale, cioè prima della sua soddisfazione, è in realtà solo un niente rivelato, un vuoto irreale. Dato che il Desiderio è la rivelazione di un vuoto, la presenza dell’assenza di una realtà, esso è essenzialmente altro dalla cosa desiderata, altro da una cosa, da un essere reale statico e dato, eternamente mantenentesi nell’identità con se stesso. Il Desiderio che si dirige verso un altro Desiderio, assunto in quanto Desiderio, creerà dunque, mediante l’azione negatrice e assimilatrice che lo soddisfa, un Io essenzialmente altro dall’ “Io” animale» (104). E continua, «Quest’Io che si “nutre” di Desideri sarà anch’esso nel suo stesso essere Desiderio, creato nella e dalla soddisfazione del suo Desiderio. E, dal momento che il Desiderio si realizza in quanto azione negatrice del dato, l’essere di questo Io sarà azione. Quest’Io non sarà come l’“Io” animale, “identità” o eguaglianza con sé, ma “negatività-negatrice”. Detto altrimenti, l’essere di questo Io sarà divenire, e la sua forma universale non sarà spazio, ma tempo. Dunque, per quest’Io il mantenimento nell’esistenza significherà: “non essere ciò che è (in quanto essere statico e dato, in quanto essere naturale, in quanto ‘carattere innato’) ed essere (ossia divenire) ciò che non è”. Quest’Io sarà così la sua propria opera: sarà(nell’avvenire) ciò che è diventato mediante la negazione (nel presente) di ciò che è stato (nel passato), dato che questa negazione è stata effettuata in vista di ciò che esso diverrà. […] Quest’Io è divenire intenzionale, evoluzione voluta, progresso cosciente e volontario. E’ l’atto di trascendere il dato che gli è dato e che esso stesso è. Quest’Io è un individuo (umano), libero (di fronte al reale dato) e storico (in rapporto a se stesso). E’ questo, e soltanto questo, l’Io che si rivela a sé e agli altri come Autocoscienza». 78 Il Desiderio umano è dunque Desiderio che si desidera come desiderio insoddisfatto: pura negatività (in termini hegeliani), pura trascendenza (in termini heideggeriani). Ma in questo amalgama hegelo-heideggeriano, in che senso il Desiderio “si” desidera, come altro o come se stesso? Vediamo che in Hegel il desiderio desidera se stesso attraverso la negazione dell’altro, ed è per questo che Hegel parla di uno «sdoppiamento dell’autocoscienza: essa si desidera nell’altro che essa stessa è, e deve dapprima alienarsi in un altro desiderio per potersene poi riappropriare e riconoscerlo come proprio, e così soddisfare l’appetito. Al contrario, se il desiderio viene definito, in termini para-heideggeriani, come trascendenza verso il nulla, è chiaro che esso “si” desidera come negatività pura e alterità assoluta: questo Desiderio (con la maiuscola) “si” desidera come Altro (con la maiuscola), al di là di se stesso e di ogni «io». Kojève potrà, anzi arriverà, a dire in un codice esplicitamente ambiguo da poter essere interpretato in entrambi i sensi, che il Desiderio è «Desiderio di Desiderio», o anche che è «Desiderio del Desiderio dell’altro». E in questo codice “bi-fronte”, il desiderio umano si definisce, kojèvianamente, come Desiderio che si dirige verso un altro Desiderio umano: quello che desidera è di essere desiderato da un altro- vale a dire di essere «riconosciuto» - come puro desiderio di “nulla”. Non c’è altro Desiderio davvero umano che il «Desiderio di riconoscimento», e non c’è «realtà umana» che non sia «realtà riconosciuta» o «realtà sociale»: «Se la realtà umana è una realtà sociale, la società umana è umana solo in quanto insieme di Desideri che reciprocamente si desiderano come Desideri. […] Così, per esempio, nel rapporto tra l’uomo e la donna, il Desiderio è umano unicamente se l’uno non desidera il corpo bensì il desiderio dell’altro, se vuole “possedere” o “assimilare” il Desiderio assunto come tale, se cioè vuole essere “desiderato”, “amato” o, meglio ancora, “riconosciuto” nel suo valore umano, nella sua realtà di individuo umano. Parimenti, il Desiderio che si dirige verso un oggetto naturale è umano soltanto nella misura in cui è “mediato” dal Desiderio di un altro che si dirige sullo stesso oggetto: è umano desiderare ciò che gli altri desiderano, perché lo desiderano. […] La storia umana è la storia dei Desideri desiderati» (105). Però, c’è un problema che non fa che acuirsi, procedendo la lettura, cioè non si capisce da dove provenga il Desiderio di riconoscimento, poiché in linea con l’ontologia dualistica, la realtà umano-sociale sorge ex abrupto dalla realtà naturale, senza alcuna mediazione o transizione, né si capisce in che modo possa essere soddisfatto, dal momento che, come dice Kojève, esso sia un puro desiderio di nulla. L’unica soluzione, allora, dalla realtà umana, affinché possa farsi riconoscere e desiderare come Desiderio allo stato puro, sarebbe quella di morire, di negarsi totalmente come vita animale e realtà data. Kojève, per risolvere tale problema, ricorre a Hegel: sarà la lotta per il riconoscimento e la dialettica che ne discende, del servo e del signore. La lotta per il riconoscimento è definita da Kojève «di puro prestigio», poiché le coscienze vi si 79 battono per nulla. Però accade che una delle due coscienze in lotta ha avuto paura della morte, cioè del Desiderio più proprio(inconscio), e allora ha preferito riconoscere l’altra –unilateralmente- come sua signora: iniziando così il lungo processo della Storia e del Lavoro, come Lotta per un riconoscimento finale e definitivo. Così, però, sarà solo alla fine della Storia che l’Uomo potrà soddisfare il suo autentico. Desiderio umano, solo nel momento in cui non sarà più un Uomo, ma diverrà un Saggio (assunto fondamentale e consequenziale in Kojève di cui qui è impossibile trattare): «Ma se l’opposizione della “tesi” e dell’ “antitesi” ha senso solo all’interno della conciliazione mediante la “sintesi”, se la storia, nel senso forte della parola, ha necessariamente un termine finale, e se l’uomo che diviene deve raggiungere il suo apice nell’uomo divenuto, se il Desiderio deve portare alla soddisfazione, se la scienza dell’uomo deve avere il valore di una verità definitivamente e universalmente valida, l’interazione del Signore e del Servo deve alla fine condurre alla loro “soppressione dialettica”» (106). Il servo, come noteranno Bataille e Lacan, è restato in vita, è arretrato di fronte alla morte, la «Signora assoluta»: pertanto, il Desiderio che ha trovato soddisfazione alla fine, non è in alcun modo quello messo in gioco all’inizio, cioè il puro Desiderio di morte. Quest’ultimo, infatti, come insiste Kojève, posto come Desiderio umano, non può essere soddisfatto: non c’è alcun modo di poter fare esperienza di questa pura negatività che «egli stesso è», se non differendola di continuo, o meglio, desiderandola. Se il Desiderio veramente umano è il desiderio che si desidera come desiderio di nulla, allora l’uomo non potrà mai incarnare altro che il desiderio di se stesso, il desiderio impossibile di sé. L’uomo, allora sembra, essere il nome di quella categoria che è l’impossibile, poiché diverrebbe per sua propria essenza “colui che è sempre al di là di sé”. 80 Note (1) In questa prima parte tutte le parole o interi periodi riportati tra virgolette, salvo mia esplicita indicazione, sono citazioni testuali tratte da Jacques Derrida, Fini dell’uomo, in Margini della filosofia, trad. it. di M. Iofrida, Einaudi,Torino 1997. (2) Si arriverà ad affermare che il punto di vista filosofico di Hegel «è l’unico direttamente accessibile a un uomo moderno, poiché quest’uomo (a meno che non sia un grandissimo filosofo) non può far altro che essere ‘hegeliano’ (a rigore senza saperlo)». Frase di Alexandre Kojève tratta da Les romans de la Sagesse, in «Critique», 60, 1952, p. 389. (3) Alexandre Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, Adelphi, Milano 1996, p. 17. (4) Vedi Raymond Queneau, Segni, cifre e lettere, Einaudi, Torino 1981, p. 365-372. (5) Denis Hollier, Il collegio di sociologia, ed. it. a cura di M. Galletti, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 518. (6) J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, il Saggiatore, Milano (1965) 1991, p. 741. (7) S. Moravia, Introduzione a Sartre, Laterza, Bari (1973) 1996, p. 82. (8) J.-P. Sartre, op. cit., p. 738. (9) ibid., p. 741. (10) ibid., p. 751. (11) Ibid., p. 744. Traduzione leggermente modificata. (12) M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 275. (13) Sulla loro entusiastica ricezione vedi, E. Mounier, Les cinq étapes d’ “Esprit”, in «Dieu vivant», 16, 1950. (14) Bisogna dire però che nel momento in cui l’autorità del pensiero husserliano arriva in Francia rimane del tutto inavvertita e senza effetto la critica dell’antropologia in esso contenuta. (15) Per un inquadramento storico di questa situazione francese rispetto a Hegel, si possono vedere in lingua italiana due opere di facile reperibilità: A. Negri, Hegel nel Novecento, Laterza, Roma-Bari 1987, in particolare pp. 42-51 e R. Salvadori, Hegel in Francia. Filosofia e politica nella cultura francese del Novecento, De Donato, Bari 1974. E anche W. Biemel, Die Phänomenologie und die Hegel-Renaissance in Frankreich, in «Stuttgarter Hegel-Tage, 1970», n. 11, Bouvier, Bonn 1974, pp. 643655. (16) «Di Hegel, in Francia, non si era mai neppure sentito parlare fino agli anni ’30 circa se non da V. Cousin, che, nel XIX secolo, lo impoverisce senza pietà»: J.-P. Aron, I moderni, Feltrinelli, Milano 1985, p.8. Ma anche R. Queneau,op. cit.; G. Canguilhem, Hegel en France, in «Revue d’histoire et de philosophie religieuses», 4, 81 1948-49, pp.282-297;R. Garaudy, Prospettive dell’uomo, Einaudi, Torino 1972, p.275. (17) J. Hyppolite, Figures de la pensée philosophique, Paris 1971, 2 voll., p.233. (18) A. Breton, Entretiens, N.R.F., Paris 1952, p.152 (19) J.-P.Sartre, Critica della ragione dialettica, Il Saggiatore, Milano 1963, p.25. (20) H. Lefebvre, Le temps des méprises, Paris 1975, pp.49 e 198. (21) R. Queneau, op. cit. (22) J. Wahl, Le malheur de la coscience dans la philosophie de Hegel, Rieder, Paris 1929; trad. it. La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, Laterza, Roma-Bari 1994. (23) W. Dilthey, Die Jugendgeschichte Hegels (1905), in Gesammelte Schriften, IV, Leipzig 1921; trad. it. Storia della giovinezza di Hegel e Frammenti postumi, Guida, Napoli 1986. (24) F. Bianco, Introduzione a Dilthey, Laterza, Roma-Bari 1985, p. 102. (25) D. Rosca, Vie de Jésus, Paris 1928. (26) J. Wahl, op. cit., pp. 43-50. (Il riferimento è alla traduzione italiana dell’opera). (27) J. Wahl, rec. a A. Koyré, La philosophie de Jacob Böhme, in «Revue philosophique», 3-4, 1930, pp. 315-6. (28) A. Koyrè, rec. a J. Wahl, Le malheur de la conscience dans la philosophie de Hegel, «Revue philosophique», 7-8,1930, p.136. (29) A. Koyré, Rapport sur l’état des études Hégéliennes en France, ora in Études d’histoire de la pensée philosophique,Colin, Paris 1961; trad. it. Rapporto sullo stato degli studi hegeliani in Francia, in AAVV, Interpretazioni hegeliane,La Nuova Italia, Firenze 1980. (30) A.Koyré, rec. cit., p. 141. (31) Ibid., pp. 142-3. (32) J.Wahl, Hegel et Kierkegaard, in «Revue philosophique», n. 11-12, 1931, numero speciale dedicato al centenario hegeliano; e successivamente dello stesso, Hegel et Kierkegaard, in Verhandlungen des dritten Hegelskongresse von 19. bis 23. April in Rom, Tübingen 1934; poi riprodotti dall’autore come cap. IV e sua Appendice in Études kirkegaardiennes, Aubier, Paris 1938. (33) A. Koyré, Hegel à Jéna, in «Revue d’histoire et de philosophie religieuses», XV, 1935, pp. 420-458.Precedentemente aveva già scritto un altro importante saggio hegeliano (Note sur la langue et la terminologie hégéliennes, in «Revue philosophique», n. 11-12, 1931) in cui accenna temi poi ripresi in Hegel à Jéna. Entrambi i saggi sono tradotti in Interpretazioni hegeliane. (34) G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1830), Laterza, Roma-Bari 1984. (35) A. Koyré, op. cit., p. 148. Cito la traduzione italiana dell’opera. 82 (36) «Il fatto è che il tempo hegeliano è, anzitutto, un tempo umano, il tempo dell’uomo. Anche l’uomo, infatti, è uno strano essere che “è quel che non è e non è quel che è”», ibid. p. 157. (37) «Detto altrimenti, l’essere di questo Io sarà divenire, e la sua forma universale non sarà spazio, ma tempo. Dunque, per questo Io il mantenimento nell’esistenza significherà: “non essere ciò che è (in quanto essere statico e dato, in quanto essere naturale, in quanto “carattere innato”) ed essere (ossia divenire) ciò che non è», A. Kojève, op. cit., p. 19. (38) A. Koyré, op. cit., p. 165. (39) A. Kojève, op. cit. p. 457. (40) Questa analisi, se pur fondamentale, è improponibile in tale contesto, poiché richiederebbe un approfondimento a sé stante; rinvio pertanto direttamente alle pagine in questione di A. Koyré, op. cit., pp. 156-159. (41) Esemplare questo passo di Koyré, che potrebbe essere attribuito tranquillamente anche a Kojève, in cui dice che la Fenomenologia dello spirito non è altro che «un’analisi delle strutture essenziali dello spirito umano, della costituzione, nel e attraverso il pensiero e l’attività dell’uomo, del mondo umano in cui egli vive», ibid., p.159. (42) Ibid. (43) Ibid. p. 164; la citazione tedesca è tratta da G.W.F.Hegel, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze1996, p. 491. (44) A.Koyré, op. cit., pp. 166-167. (45) A. Kojève, Le concept, le temps et le discours: introduction au système du savoir, Gallimard, Paris 1990, p. 32. Tra l’altro si può notare una gaffe involontaria di Kojève, poiché Koyré tenne i suoi corsi sugli scritti immediatamente precedenti alla Fenomenologia, ma mai su di essa. Fu lo stesso Kojève, che prese il suo posto nel 1933, ad iniziare a trattare quest’opera. (46) Su tali scritti, molti de quali sono ancora inediti e non tradotti dal russo, si veda D. Auffret, Alexandre Kojève. La philosophie, l’Etat, la fin de l’Histoire, Grasset, Paris 1990. (47) Inedito, alcuni estratti sono in Auffet, op. cit. (48) «C’est ainsi que l’étude des écrits bouddhistes (que j’ai pratiqués pendant de longues années) est extrêmement fructueuse tant pour la compréhension de la Religion et de la Théologie (“philosophique” ou autre) en général, que pour l’élucidation de certains problèmes proprement philosophiques, voir hégéliens», in A. Kojève, Essai d’une histoire raisonnée de la philosophie paï enne, Gallimard, Paris 1968, tomo I, p. 164. (49) Cfr. Auffret, op. cit. 83 (50) Die religiöse Philosophie Wladimir Solowijeffs, dissertazione parzialmente pubblicata come A.Koschewnikoff, Die Geschichtsphilosophie Wladimir Solowijews, Cohen, Bonn 1930. Cfr. Auffret, op. cit., p. 443. (51) Sull’attività di Kojève come recensore, vedi Auffret, op. cit., pp. 443-444. (52) La philosophie religieuse de Soloviev, discussa nel 1933 ed edita successivamente in due numeri della «Revue d’histoire et de philosophie religieuses», rispettivamente il n. 14 (1934) e il n. 15 (1935), con il titolo La métaphysique religieuse de Vl. Soloviev (53) Le livre de Poche, Paris 1990. (54) In Vassily Kandinsky, corrispondances avec Zervos et Kojève, Hors-Série, Paris 1992, tale edizione contiene anche il saggio che Kojève scrisse sulla pittura dello zio, Les peintures concrètes de Kandinsky, nel 1936, pubblicato con il titolo Pourquoi concret, in «XX Siècle», n. 27, 1966-74. (55) Comunque sull’importanza dell’insegnamento di Kojève per la filosofia francese del dopoguerra, oltre ai già citati Queneau e Auffret, si veda V. Descombes, Le Même e l’Autre, Minuit, Paris 1979; J.-M.Besnier, La politique de l’impossible, La Découverte, Paris 1988; G.Jarczyk-J.-P.Labarrière, De Kojève à Hegel, Albin Michel, Paris 1996; M.S. Roth, Knowing and History. Appropriations of Hegel in TwentiethCentury France, Cornell Press, Ithaca 1988; J.P.Butler, Subjects of Desire. Hegelian Reflections in Twentieth Century France, Columbia University Press, New York 1987; B. Drury Shadia, Alexandre Kojève. The Roots of Postmodern Politics, St. Martin’s Press, New York 1994. (56) R. Bodei, Il desiderio e la lotta, introduzione a A. Kojève, La dialettica e l’idea della morte in Hegel, Einaudi, Torino 1991, è in realtà la ristampa dell’edizione precedente, datata 1948, uscita senza alcuna introduzione all’opera di Kojève. (57) R. Bodei, op. cit., p. X. (58) G. Fessard, Hegel, le Christianisme et l’Histoire, Presses Universitaires de France, Paris 1990, p. 268. (59) J. Heckman, Hyppolite and the Hegel Revival in France, in «Telos», 16, 1973, pp. 128-145. (60) Jaca Book, Milano 1989. (61) Per esempio: B. Drury Shadia, op. cit.; B. Cooper, The End of History: An Essay on Modern Hegelianism, University of Toronto Press, Toronto 1984. (62) A. Kojève-L. Strauss, De la Tyrannie, Gallimard, Paris 1954-1983 (trad. ing. On Tyranny, The Free Press, New York 1991, con in appendice The Strauss-Kojève Correspondence). (63) Simon and Shuster, New York 1987. (64) Nella trad. it. è alle pp. 541-544. (65) Rizzoli, Milano 1992. 84 (66) M. Rossi, Da Hegel a Marx. I. La formazione del pensiero politico di Hegel, Feltrinelli, Milano 1970. (67) Ibid. p. 373. (68) Ivi. (69) Ibid., p. 446. (70) Cfr. A. Kojève, op. cit., p. 717. (71) M. Rossi, op. cit., p. 447. (72) Ibid., p. 374. (73) Jarczyk-Labarrière, De Kojève à Hegel, cit., p. 30. (74) Id., Les premiers combats de la reconnaissance. Maîtrise et servitude dans la Phénoménologie de l’esprit de Hegel, 1987, p. 9. (75) G. Canguilhem, Hegel en France, cit., p. 298. (76) J. Derrida, Spettri di Marx, Cortina Edizioni, Milano 1994, p. 94. (77) Per questa interpretazione vedi D. Auffret, introduzione a A.Kojève, L’idée du déterminisme…, cit., p. 9. (78) In Jarczyk- Labarrière, op. cit., pp. 64-66. (79) Ibid. (80) A. Kojève, Introduzione…, cit., p.669. (81) Ibid., p. 690. (82) Laterza, Roma-Bari 1978. (83) Ibid., p. 41. (84) G. F. W. Hegel, Fenomenologia…, cit., p. 19. (85) Vedi: San Paolo, Lettera ai Filippesi, 2-6,8. (86) Hegel, op. cit., p. 19. (87) Ibid. p. 14. (88) A. Kojève, op. cit., p. 683 (89) Ibid., p. 23. (90) Vedi: M. Heidegger, Essere e tempo, Utet, Torino 1969, § 10, p. 110. (91) A. Kojève, op. cit., p. 682. (92) Ibid., pp. 17-18. (93) G. F. W. Hegel, op. cit., p. 114. (94) Ibid., p. 111. (95) Ibid., p. 113. (96) A. Kojève, op. cit., pp. 17 e 19. (97) Kojève rimprovera Hegel di avere «esteso la sua ontologia dialettica “antropologica” alla Natura», dando atto alle gravi conseguenze che discendono da questo errore «monistico» hegeliano, altresì gli unici due filosofi che abbiano tentato di porre il problema della ontologia dualista, ma in modo «insufficiente», sono stati Kant e dopo di lui Heidegger. Per tutte queste considerazioni: A. Kojève, op. cit., pp. 603-605. 85 (98) Ibid. p. 575. (99) Per quest’ultimo vedi: ibid., pp. 680-681. (100) Scrive J. Hyppolite: «In francese noi abbiamo tradotto il termine tedesco Begierde usato da Hegel con désir e non con appétit. Il fatto è che questa Begierde contiene più di quanto non sembri a tutta prima: pur confondendosi inizialmente con l’appétit sensibile in quanto dà sui diversi oggetti concreti del mondo, reca in sé un significato infinitamente più ampio. Nel fondo in tale appetire (désir) l’autocoscienza cerca se stessa e si cerca nell’altro», in J.Hyppolite, Genesi e struttura della «Fenomenologia dello spirito» di Hegel, La Nuova Italia, Firenze 1972, p. 196. (101) Per tale riflessione vedi, B. Moroncini, Il discorso e la cenere, Guida, Napoli 1988, p. 203. (102) Ibid., p.204. (103) A. Kojève, op. cit., p. 19. (104) Ivi. (105) Ibid., p. 20. (106) Ibid., p. 23. 86