Ogni contatto lascia una traccia: Il Brain Fingerprinting nella

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ALMA MATER STUDIORUM – UNIVERSITA’ DI BOLOGNA
CAMPUS DI CESENA
SCUOLA DI PSICOLOGIA E SCIENZE DELLA FORMAZIONE
Corso di Laurea in Scienze del Comportamento e delle Relazioni Sociali
OGNI CONTATTO LASCIA UNA TRACCIA:
Il Brain Fingerprinting nella neurocriminologia
Relazione della Prova Finale in Neuropsicologia
Relatore
Presentata da
Prof. Ciaramelli Elisa
Motta Jessica
Sessione II (I Appello)
Anno accademico: 2014/2015
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Sommario
INTRODUZIONE ........................................................................................................................................................ 5
1. NEUROCRIMINOLOGIA .................................................................................................................................... 7
1.1 CRIMINALITÀ APPARENTE ................................................................................................................................................. 7
1.2 BRAIN IMAGING E NEUROCRIMINOLOGIA ................................................................................................................... 10
1.2.1 Biologia dell’aggressività............................................................................................................................................. 11
1.2.2 Deficit della corteccia prefrontale e pedofilia ..................................................................................................... 12
1.2.3 I circuiti cerebrali implicati nelle decisioni morali ........................................................................................... 13
2. L’EFFETTO PRIMING ........................................................................................................................................ 17
2.1 MEMORIE MULTIPLE ........................................................................................................................................................ 17
2.2 EVIDENZE SUGLI EFFETTI DEL PRIMING...................................................................................................................... 20
2.2.1 Priming modalità specifico .......................................................................................................................................... 21
3. IL BRAIN FINGERPRINTING ......................................................................................................................... 25
3.1 IL RISCHIO DELLE TESTIMONIANZE DISTORTE ......................................................................................................... 25
3.1.1 Il Guilty Knowledge Test (GKT) ................................................................................................................................ 26
3.1.1.1 Il ruolo della memoria nel riconoscimento dei dettagli critici ......................................................................................................... 28
3.2 SCIENZA E TECNOLOGIA DEL BRAIN FINGERPRINTING ........................................................................................... 30
3.2.1 Onde cerebrali (EGG) e potenziali evento-relati (ERP) ................................................................................. 31
3.2.3 I risultati............................................................................................................................................................................... 33
3.3 IL CASO HARRINGTON ..................................................................................................................................................... 35
CONCLUSIONI .......................................................................................................................................................... 37
BIBLIOGRAFIA ........................................................................................................................................................ 39
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Introduzione
L’idea di sviluppare la mia tesi di laurea triennale su un argomento quale il Brain Fingerprinting,
relativamente recente e poco conosciuto soprattutto qui in Italia, deriva dal tentativo di volere
approfondire l’utilità delle neuroscienze nel campo dell’investigazione e delle scienze forensi, come
strumento in grado di fornire prove la cui certezza potrebbe essere utilizzata in tribunale e giocare
un ruolo importante al fine dell’incriminazione di un sospettato criminale.
Ciò di cui l’investigazione è alla ricerca sono infatti innumerevoli prove. Un principio che è di
fondamentale importanza in ambito investigativo, è quello di Edmond Locard, che tradotto in
italiano recita: “Ogni contatto lascia una traccia”; secondo questo principio, banalmente, ognuno di
noi viene visto come un personaggio dei fumetti che, spostandosi, porta con sé la nuvoletta dei posti
in cui è andato, delle cose che ha toccato e di ciò a cui ha lavorato; ognuno di noi quindi ha una
nuvoletta diversa (Lucarelli e Picozzi, 2009).
Appena mi sono avvicinata al funzionamento e all’utilizzo del Brain Fingerprinting ho subito
collegato il principio di Edmond Locard anche alle neuroscienze. Il Brain Fingerprinting,
rappresenta infatti uno strumento in grado di repertare anche le prove più astratte, non repertabili
manualmente, come le tracce di memoria presenti nella mente degli individui; inevitabilmente,
come sottolinea anche Rosenfeld (2005), le critiche rivolte al Brain Fingerprinting sono molteplici.
Come approfondirò successivamente in maniera dettagliata in questa tesi, l’obiettivo principale da
cui si sviluppa il Brain Fingerprinting è quello di non lasciare nulla al caso indagando anche sui
contenuti più nascosti della mente attraverso l’osservazione di differenti onde cerebrali prodotte dal
cervello umano; la presentazione di particolari stimoli, implicati in un reale crimine, è in grado di
attivare ricordi prodotti anche in maniera implicita che, se presenti nella mente umana, generano
onde di una lunghezza particolare chiamante onde MERMER (Farwell e Smith, 2001). La presenza
delle onde P300 MERMER, rappresenta una prova neuroscientifica che allo stato attuale delle
ricerche garantisce una validità del 99,9% (Farwell, 2012).
Una delle cose che principalmente mi ha colpito del Brain Fingerprinting, è stata quella di
evidenziare l’importanza del criminale stesso, che per quanto incredibile, spesso viene dimenticato,
cercando risposte solo nelle prove scientifiche, come test del DNA, analisi chimiche o
tossicologiche, dimenticando l’importanza che il criminale indubbiamente riveste.
Vista la mia grande passione per tutto ciò che riguarda l’ambito investigativo e in particolar modo,
per le scienze forensi, ho deciso di focalizzarmi sul Brain Fingerprinting, in quanto potrebbe
considerarsi un’attraente innovazione come supporto alle indagini criminali.
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1. Neurocriminologia
1.1 Criminalità apparente
L’idea secondo cui, guardando semplicemente il volto di qualcuno, è possibile riconoscere in lui un
genio, un pazzo o un criminale, con la possibilità di derivarne condizioni e stati mentali, continua a
rappresentare un campo di studi molto affascinante. Per generazioni, gli scienziati hanno cercato un
metodo semplice ed efficace di identificare caratteristiche degli esseri umani, con lo scopo di poterli
classificare in geni, lunatici e criminali.
Uno dei primi autori a cui si deve il tentativo di ricercare un collegamento tra le caratteristiche
esterne del corpo e il carattere, è Aristotele con il suo volume Physiognomica, assumendo la
possibilità di leggere le caratteristiche interne a partire dall’apparenza esterna (Vogt, 1999). Un
ulteriore sviluppo in questa direzione si ebbe tra il XVIII e il XIX secolo con la nascita della
grafologia concentrata sulla scrittura di una persona per determinare il suo carattere e la sua attività
cerebrale e la frenologia volta all’analisi del carattere e del temperamento grazie alle misure del
cranio, in modo da prevedere il successo di un bambino osservandone nel dettaglio rientranze e
sporgenze ed effettuando precise misurazioni in pazienti all’interno di ospedali, manicomi o
rinchiusi in carcere (Fleming, 2000).
Tuttavia, non fu prima della nascita dell’antropologia criminale e delle numerose pubblicazioni di
Cesare Lombroso, che la connessione tra l’apparenza fisica, la personalità e i rischi per la società, in
particolare i rischi connessi ai crimini, assunsero seria importanza. Oggi, tutte queste idee sono
considerate “pseudo-scientifiche”, ma il desiderio di essere in grado di calcolare e predire i rischi e i
successi è ancora molto presente; inoltre, nonostante le conclusioni di Lombroso furono
successivamente considerate infondate, gli stereotipi e le immagini che presentò come scoperte
scientifiche, sono ancora parte integrante della nostra cultura (Fleming, 2000). Questi stereotipi
sono individuabili nei film e nelle serie televisive, ma anche all’interno della disciplina che prende
il nome di Criminal Profiling adottata in ambito forense, ma non riconosciuta e accettata in Europa
a livello giuridico che, se non applicata e studiata con criterio e scientificità, può dare addito a
credenze del tutto errate e anche eccessivamente fantasiose relative alla comprensione dei
comportamenti criminali (Gkotsi e Benaroyo, 2012).
Criminologi, biologi, antropologi e fisiologi di tutto il mondo trovano difficile ancora oggi,
abbandonare il sogno di tentare di riconoscere, predire e controllare i cosiddetti criminali nati.
Essenzialmente, l’idea centrale di Lombroso era che un’alta percentuale di individui fossero
criminali nati. Questi non opererebbero in seguito ad incentivi razionali o scelte, il loro
comportamento potrebbe essere classificato come atavico. In questa direzione di pensiero, il
compito degli antropologi criminali sarebbe quello di identificare le caratteristiche esterne in grado
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di rispecchiare atteggiamenti criminali in modo da proteggere la società da questi individui
pericolosi (Gkotsi e Banaroyo, 2012).
L’opera principale di Lombroso, L’uomo delinquente, descrive le sue credenze in merito
all’ereditarietà dei tratti criminali; esisterebbero infatti tratti fisici distintivi dei soggetti con
comportamenti criminali e devianti che si trasmetterebbero di generazione in generazione; è proprio
per questi suoi contributi, che Lombroso viene definito il pioniere della fisiognomica e
dell’antropologia criminale. Lombroso fondò la sua teoria sull’ipotesi di una distinta classe
ereditaria di criminali biologicamente regressi ad uno stato primitivo; questi criminali esibiscono
alcune anomalie di tipo fisico e mentale, definite stigmate fisiche (Gatti e Verde, 2012).
Lombroso fu in grado di suddividere i criminali in 2 grandi categorie: la prima comprende i nativi
criminali, i criminali insani e i criminali epiletici. I criminali insani, a differenza dei criminali,
diventano tali solo in seguito ad un’alterazione del cervello in grado di sconvolgere la loro natura
morale. La seconda categoria comprende invece gli occasionali, i criminaloidi e gli abituali, che non
possiedono nessuna peculiarità fisica, a differenza degli appartenenti alla prima categoria (Fleming,
2000). Sulla base di questa classificazione, Lombroso sottolineò come gli appartenenti alla prima
categoria non dovessero essere ritenuti responsabili delle loro azioni, in quanto qualche anomalia
cerebrale li aveva resi non in grado di controllare il loro comportamento; secondo questo filone di
pensiero, la pena dovrebbe essere imposta solo a coloro che hanno commesso il crimine per loro
libera scelta (Gkotsi e Benaroyo, 2012). Le caratteristiche fisiche che secondo Lombroso erano in
grado di distinguere i criminali nati erano braccia lunghe, piedi prensili con alluci mobili, fronte
bassa e stretta, orecchie grandi, testa dura, mascella sporgente, ecc. (Preçi e Vyshka, 2014). Per
molteplici ragioni, le teorie di Lombroso non resistettero a lungo, furono infatti più volte rivisitate e
criticate soprattutto per ragioni razziali.
Le ricerche attuali in materia antropometrica si focalizzano su studi neuro-radiologici analizzando
strutture cerebrali profonde come l’amigdala. Questa in particolare (dal punto di vista della
dimensione, ma anche e soprattutto della funzione), è stata considerata la principale struttura
responsabile di atteggiamenti aggressivi. Anche queste ricerche hanno sollevato non poche
polemiche, ma gli studi sulle funzioni e le dimensioni delle strutture cerebrali, come oltre
all’amigdala anche il cingolo e altre aree del sistema limbico, hanno ottenuto l’attenzione necessaria
per studiare il loro ruolo nell’aggressività, nei comportamenti antisociali e nei tratti personali (Preçi
e Vyshka, 2014).
Riprendendo la teoria di Lombroso, l’ipotesi di una correlazione tra genetica e criminalità venne
considerata improponibile; si tratterebbe infatti di mettere in relazione 2 entità non paragonabili: la
criminalità fa parte della categoria dei comportamenti sociali, variabili in base alla cultura e alle
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norme, i fattori genetici e quindi ereditari invece rientrano nella realtà biologica contenuta nel
DNA, indipendente dai fattori culturali e sociali. Una correlazione è invece presente tra il corredo
genetico degli individui e aspetti legati alle strutture mentali che possono favorire la criminalità
(come aggressività, intelligenza, reattività, ecc.) (D’Auria, 2006).
Alcuni studi, per indagare il ruolo dei fattori genetici e ambientali nel comportamento degli
individui, riguardano il “metodo gemellare” (Herrnstein e Murray, 1995) che consiste
nell’esaminare coppie di gemelli omozigoti, ognuno dei quali allevato in un contesto familiare,
culturale e sociale diverso. Questi studi sono stati possibili studiando coppie di gemelli divisi fin
dalla nascita perché affidati a genitori adottivi diversi, in base alle condizioni sociali. I risultati di
queste ricerche hanno dimostrato come esista una maggiore concordanza dei gemelli fraterni per
quello che riguarda il comportamento delinquenziale e come i comportamenti criminali dei figli
adottivi siano più frequenti in seguito alla presenza di padri biologici anch’essi criminali.
In conclusione, gli studi riguardanti i gemelli o le famiglie di criminali, hanno dimostrato come sia
troppo riduttivo parlare di disposizioni ereditarie al delitto; i fattori genetici non possono essere
considerati i responsabili della criminalità, dove interagiscono circostanze ambientali e situazionali,
culture, norme e valori morali, non legati all’ereditarietà. Le componenti ereditarie sono invece utili
per la ricerca di disposizioni genetiche rispetto ad aspetti psichici del singolo individuo che possono
avere una rilevanza mediata sulla condotta e possono quindi favorire un comportamento di tipo
criminoso (Herrnstein e Murrai, 1995).
Nonostante il successivo evolversi delle teorie originarie, con inevitabili modifiche e/o successive
dimostrazioni e correzioni, i contributi in particolare di Lombroso, considerato il padre della
moderna criminologia, sono fondamentali nell’ambito dei processi investigativi in quanto
consentono di tracciare una linea tra le varie esperienze che caratterizzano un soggetto definito
criminale nel momento in cui mette in atto comportamenti devianti.
Il settore investigativo, data la sua complessità, richiede e accetta la possibilità di contributi da parte
di molte materie scientifiche a partire dalla medicina, fisica, biologia, chimica, ma anche materie
psicologiche e negli ultimi anni anche neuroscientifiche. Quando si parla di materie implicate nelle
investigazioni criminali alcune delle principali che balzano alla mente sono la criminologia, la
criminalistica e la neurocriminologia.
La prima e forse la più comune deriva dall’associazione dei termini “crimine” e “psicologia”, per
indicare il contributo della psicologia nell’ambito investigativo. Nello specifico si occupa di
studiare i reati, gli autori, le vittime, le diverse modalità di condotta criminale e le relative forme di
controllo e prevenzione dei crimini; questi vengono studiati dal punto di vista sia dell’atto
(comportamento) che delle reazioni sociali (processi di incriminazione e pene) (Sette, 2011).
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La criminalistica si riferisce all’aspetto prettamente scientifico delle investigazioni relativo
all’analisi delle tracce fisiche, biologiche, papillari, ematiche, ecc. Più in generale, la criminalistica
è il settore che unisce le varie branche delle scienze forensi (dattiloscopia, balistica, entomologia,
antropometria, informatica forense, analisi documentale, ecc., solo per citarne alcune).
Infine la neurocriminologia, la materia a cui si ispira maggiormente la mia tesi, è un termine
relativamente nuovo che deriva dall’associazione di conoscenze neuroscientifiche, criminali e
psicologiche. Uno dei primi ad utilizzare questo termine fu Adrian Raine, nel suo libro The anatomy
of violence, ricollegandosi al principio di Cesare Lombroso che rimanda all’esistenza di differenze
fisiche e tratti biologici nella conformazione del cranio dei soggetti che compiono crimini violenti.
Alcune ricerche a favore della neurocriminologia, come ulteriore scienza di supporto alle indagini
investigative, derivano da studi di neuro imaging.
1.2 Brain Imaging e neurocriminologia
Alcune ricerche in campo neurocriminologico (Raine, 2013), utilizzando tecniche neuroscientifiche
di brain imaging, hanno dimostrato come una ridotta funzionalità del lobo frontale sia collegata a
comportamenti violenti e antisociali. In particolare, una riduzione nella funzionalità e nella struttura
del lobo frontale deriva principalmente da deficit riguardanti la corteccia orbitofrontale, la corteccia
cingolata anteriore e la corteccia dorsolaterale prefrontale. Nello specifico, la corteccia dorsolaterale
è associata alla regolazione di processi attentivi e di flessibilità cognitiva, a caratteristiche
antisociali, ad impulsività e a scarso controllo comportamentale. Un’altra regione molto visibile con
tecniche di neuro imaging e strettamente collegata a comportamenti antisociali, come detto
precedente, è l’amigdala. Questa regione essendo considerata il centro delle emozioni per
eccellenza, è implicata in comportamenti antisociali soprattutto relativamente al valore attribuito
alla violenza o all’impulsività (Raine, 2013). Inoltre, 2 studi di brain imaging (Pardini, Raine,
Erikson e Loeber, 2013; Aharoni et al., 2013) hanno evidenziato come la riduzione del volume
dell’amigdala sia associata all’attuazione di comportamenti aggressivi e persistenti, ed allo sviluppo
di una personalità di tipo psicopatica. Dati longitudinali provenienti da entrambi gli studi citati
hanno permesso di determinare una correlazione tra riduzione del volume dell’amigdala in soggetti
di sesso maschile ed aggressioni ed episodi psicopatici risalenti all’infanzia evidenziando un rischio
più elevato di comportamenti aggressivi e violenti, futuri. Riassumendo, i vari studi condotti
utilizzando tecniche di neuro imaging hanno dimostrato come informazioni relative alla struttura e
alle funzioni del cervello alle origini degli sviluppi neuronali o come testimonianze in seguito a
insulti cerebrali avvenuti più tardi nella vita del soggetto, potrebbero in qualche modo identificare
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quali individui corrono il rischio di mettere in atto comportamenti criminali, in modo tale da attuare
comportamenti preventivi per garantire una maggiore sicurezza.
1.2.1 Biologia dell’aggressività
A differenza di come di solito si è portati a pensare, il termine aggressività non è sinonimo di
criminalità, anche se molti delitti sono messi in atto da motivazioni aggressive (Ponti e Merzagora
Betsos, 2008).
Aggressività e tendenza alla fuga o al freezing, come comportamento di immobilizzazione di fronte
a stimoli paurosi, rappresentano stati emotivi di rabbia o paura, piuttosto che istinti primari che
condizionano i comportamenti di sopravvivenza e difesa e sono innanzitutto determinati da come
l’individuo o l’animale si percepiscono in relazione all’ambiente. L’ambiente svolge quindi un
ruolo fondamentale: è infatti l’interpretazione dell’ambiente da parte dell’animale a decidere il tipo
di risposta (aggressione o fuga) da attuare, non legata solamente a comportamenti istintivi. Nel
comportamento animale, l’aggressività risulta quindi funzionale alle finalità biologiche, senza
mettere in pericolo la specie in quanto frenata da meccanismi spontanei e di autocontenimento,
meccanismi ormai perduti e rifiutati nell’uomo, portando alla considerazione di quest’ultimo, come
l’essere vivente più distruttivo mai esistito.
La prospettiva attuale (Wolfgang e Weiner, 1987) ritiene che fattori biologici e sociologici
interagiscano tra loro nel produrre un comportamento violento. Le caratteristiche biologiche danno
all’organismo una gamma di comportamenti potenziali e non solo tratti comportamentali; queste
ultime interagiscono con le influenze sociali sviluppando manifestazioni sociali che possono
sfociare in comportamenti violenti. Le neuroscienze, hanno introdotto l’influenza dei fattori
biochimici, oltre che biologici, nel comportamento criminale; in particolare, il sistema
serotoninergico sarebbe implicato nella modulazione dei comportamenti violenti. Comportamenti
aggressivi, mancanza di autocontrollo e frequenti attacchi d’ira sono strettamente connessi a fattori
neuroendocrini; un esempio è la presenza di ormoni androgeni nei maschi, come aumento
dell’aggressività.
Le neuroscienze hanno assunto un ruolo di fondamentale importanza nella comprensione del
comportamento umano attraverso lo studio di particolari sostanze (neurotrasmettitori e
neuromodulatori) che intervengono nell’attività psichica. Da un punto di vista biologico e
anatomico, il comportamento violento è stato associato a disfunzioni o lesioni nei lobi frontali e
temporali (Merzagora Betsos, 2006). Alcune anomalie neuro comportamentali riscontrabili in
seguito a lesioni frontali sono rappresentate dalle cosiddette anomalie per eccesso presenti in
pazienti con lesioni nelle aree orbitofrontali; le evidenze di queste anomalie sono rappresentate da
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discontrollo emotivo-comportamentale in seguito ad un ridotto controllo degli impulsi, tipicamente
determinante comportamenti criminali (Glenn e Raine, 2014). Un altro esempio è la sociopatia
acquisita definita da Damasio (1994) come insieme di comportamenti anomali dovuti ad una lesione
della corteccia orbitofrontale con conseguente insensibilità e mancanza di empatia, ossia incapacità
di comprendere mentalmente i comportamenti e i sentimenti degli altri. Anche l’empatia è molto
presente nel caso di crimini contro la persona. Infine, un altro disturbo tipico degli individui con
comportamenti criminali è rappresentato dai deficit esecutivi, ossia incapacità di regolazione del
comportamento adattivo all’ambiente; le aree implicate in questi deficit sono soprattutto le aree
prefrontali, ma anche i nuclei della base o il talamo (Yang e Raine, 2009).
Nonostante le evidenze delle ricerche neurocriminologiche, nessuno degli studi in materia di brain
imaging è però stato in grado di dimostrare come un disturbo della corteccia prefrontale possa
essere considerato predittivo di un crimine violento.
1.2.2 Deficit della corteccia prefrontale e pedofilia
Per non correre il rischio di tramandare informazioni scorrette è opportuno sottolineare come le
inferenze derivanti da studi di neuro imaging non sono da considerarsi di natura prettamente
causale, in quanto si tratta di tecniche correlazionali; nonostante questo studio di casi individuali
potrebbero suggerire causalità (Glenn e Raine, 2014).
Un caso emblematico è quello di Michael, un insegnante di 40 anni felicemente sposato con una
figlia (Raine, 2013). Michael non aveva nessun precedente in materia di comportamento deviante o
criminale, tuttavia iniziò a cambiare improvvisamente. Diventò aggressivo nei confronti di sua
moglie e assunse comportamenti pedofili con sua figlia preadolescente sdraiandosi spesso a letto
con lei. Successivamente fu scoperto e venne accusato di molestie nei confronti di minori. Dopo
l’accusa scelse un programma di recupero e trattamento, piuttosto che la prigione, ma fu espulso dal
reparto di medicina urgente, nel quale era stato ricoverato per un forte mal di testa, per
comportamenti non permessi con personale femminile. In seguito a continui atteggiamenti di natura
sessuale, Michael fu sottoposto ad un esame di risonanza magnetica. L’esame rivelò un tumore che
si stava sviluppando dalla base della corteccia orbitofrontale.
Figura 1 Immagine ottenuta da una scansione MRI del cervello di Michael ai tempi
dell’iniziale valutazione neurologica. Come mostrato in figura, è presente una massa
tumorale crescente nella corteccia orbitofrontale destra (Glenn e Raine, 2014).
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Il tumore venne operato e i comportamenti di Michael tornarono normali e venne riunito a sua
moglie e sua figlia; dopo alcuni mesi la moglie scoprì foto pornografiche di minori sul suo
computer e in seguito ad un ulteriore esame si scoprì che il tumore al cervello era ricresciuto.
Un’altra volta il tumore venne asportato e il comportamento di Michael dopo 6 mesi tornò alla
normalità.
Il caso di Michael è solo uno degli esempi di come deficit cerebrali (come lesioni, tumori, insulti
cerebrali…) possono essere la causa di comportamenti criminali e devianti. Implicazioni come
quelle relative all’episodio di Michael, riguardano inevitabilmente l’aspetto legale, in merito alla
colpevolezza o meno da imputare all’individuo che ha assunto momentaneamente comportamenti
criminali, tornati alla normalità in seguito ad interventi chirurgici.
Queste evidenze, ottenute da recenti ricerche (Wright et al., 2008; Ericson et al., 2007; Fazel,
Lichtenstein, Grann e Langstrom 2011), affrontano il tema della neurocriminologia e sono a favore
dell’ipotesi secondo la quale esistono fattori biologici che predispongono alcuni individui a
commettere crimini; affermazione che non vuole in alcun modo togliere importanza a fattori di tipo
sociali e ambientali. È evidente, infatti, che entrambi i fattori, sia genetici che ambientali
definiscono la modalità secondo cui il sistema biologico si sviluppa e questo a sua volta influenza i
processi psicologici che sono importanti nel controllo e nella regolazione del comportamento
morale.
Nonostante la varietà delle conoscenze attuali, ci sono ancora poche conferme in merito al ruolo che
abbia la neurobiologia nella regolazione del crimine. Recentemente alcuni studi hanno cercato di
concentrarsi su come i fattori genetici e ambientali influenzano il cervello. Un esempio di questi
studi ha mostrato, come in età adolescente, nei figli di madri che hanno fumato durante la
gravidanza, è riscontrabile una diminuzione dello spessore in 2 regioni del cervello che sono
implicate nel comportamento antisociale, in particolare, la corteccia orbitofrontale e la corteccia
medio frontale (Glenn e Raine, 2014). Recenti studi in materia di criminologia hanno dimostrato
come sia improbabile che una predisposizione al comportamento criminale sia relativa a pochi e
semplici circuiti cerebrali, ma è molto più probabile che coinvolga molteplici disfunzioni cerebrali e
circuiti multipli, ognuno dei quali dà origine a diversi fattori di rischio per la violenza (Wahlund e
Kristiansson, 2009). È importante sottolineare però che, non sempre deficit della corteccia
prefrontale, predispongano i soggetti a comportamenti violenti o antisociali.
1.2.3 I circuiti cerebrali implicati nelle decisioni morali
Gli studi in materia di decisioni morali sono strettamente correlati a quelli relativi al
comportamento antisociale, quest’ultimo infatti è caratterizzato da immoralità; è evidente che i
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circuiti neurali sottostanti le decisioni morali siano differenti tra individui con comportamento
normale e deviante. In particolare, le differenze riguardano soprattutto la corteccia mediale
prefrontale, ventrale prefrontale, il giro angolare, il cingolo posteriore e l’amigdala come si può
vedere dalla figura sottostante (Raine e Yang, 2006).
Figura 2 Diagramma schematico delle regioni del cervello attivate esclusivamente durante la presa di decisioni
morali (evidenziate in verde), compromesse solo nei gruppi antisociali (evidenziate in rosso) e infine le regioni
comuni sia ai comportamenti antisociali che alla presa di decisioni morali (evidenziate in giallo) (Glenn e Raine,
2014).
Una conferma in questo settore è stata offerta dal già citato libro di Adrian Raine, The anatomy of
violence del 2013, in cui l’autore evidenzia come gli individui con deficit nei cosiddetti circuiti
morali, siano in grado di riconoscere la differenza tra comportamenti giusti e sbagliati, ma non
abbiano il sentimento di cosa sia in realtà giusto o sbagliato. Il sentimento morale centrato in parte
sull’amigdala è il motore responsabile dell’immoralità di un determinato comportamento, processo
che funziona meno bene in individui che mettono in atto comportamenti antisociali, come è emerso
da studi di Raine, nell’articolo di Lerner (2011), riguardanti compiti che implicano il giudizio
morale in cui è presente una ridotta attività dell’amigdala di soggetti con comportamento devianti
rispetto ai controlli.
Dati statistici (Preçi e Vyshka, 2014) hanno dimostrato come l’amigdala di soggetti con
comportamenti criminali abbia dimensioni del 18% più piccole, rispetto all’amigdala di soggetti
normali. Nel dettaglio, l’amigdala ha una funzione principale nelle emozioni, in particolar modo
relativamente alla paura condizionata. Le svalutazioni della componente emotiva, che comprende il
sentimento di ciò che è morale, sono viste come una caratteristica fondamentale di soggetti devianti.
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Un altro aspetto fondamentale evidenziato da Raine, riguarda come ci siano grandi differenze anche
all’interno della stessa categoria degli individui con comportamenti antisociali. È infatti emerso
come in studi su coppie di tossicodipendenti sposate di fronte a stimoli emotivi, le mogli abusanti di
sostanze avevano una maggiore attivazione dell’amigdala, un’area che solitamente aiuta a generare
le emozioni e una più ridotta attività della corteccia prefrontale che ha un ruolo fondamentale nella
regolazione delle emozioni rispetto agli individui non tossicodipendenti (Wright et al., 2008;
Fergusson, Boden e Horwood, 2008).
Le ricerche in neurocriminologia, in particolare e nelle neuroscienze in generale, non sono ancora in
grado di portare a termini gli obiettivi prefissati riguardo la previsione, prevenzione e punizione dei
colpevoli criminali; non è chiaro quanto il contributo delle neuroscienze sia forte e quanto le
ricerche scientifiche dovrebbero essere replicate, per poter avere valenza in casi legali e consentire
un’attenuazione in fase di processo penale, quesito già sorto ai tempi del caso di Michael citato
precedentemente. Allo stesso tempo però, nonostante le difficoltà nel determinare la causalità, sta
aumentando la credenza in merito all’influenza dei fattori neurobiologici nella predisposizione di un
individuo a mettere in atto comportamenti devianti.
Le evidenze più importanti delle ricerche effettuate in ambito neurocriminologico, consistono
nell’avere introdotto l’idea che le neuroscienze possono diventare sempre più un importante
approccio della società in materia di punizione, previsione e prevenzione di comportamenti
criminali, come prova accettata e riconosciuta in tribunale.
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2. L’effetto priming
2.1 Memorie multiple
La memoria è la funzione che permette agli animali e alle persone di acquisire, ritenere e recuperare
diversi tipi di informazioni; permette inoltre di trarre vantaggio da esperienze precedenti, in modo
tale da risolvere una moltitudine di problemi tra i quali riconoscere familiari, predire eventi o
ritornare in un posto visitato in precedenza.
Con sistema di memoria multiplo si intende la presenza di 2 o più sistemi di memorie caratterizzati
da fondamentali regole di funzionamento. Attualmente, le idee riguardo i sistemi di memoria
appoggiano l’esistenza di un sistema forte caratterizzato dalla presenza di diversi sistemi di
memoria che operano, non solo utilizzando differenti regole di funzionamento, ma anche senza
dividere nessun componente dei diversi processi (Làdavas e Berti, 2009). Le prime evidenze a
sostegno dell’ipotesi di sistemi multipli di memoria (Schacter e Tulving, 1994) derivano da studi
condotti su animali che hanno dimostrato l’impossibilità dell’esistenza di un sistema di memoria
unico, in seguito all’analisi di processi alla base di alcuni comportamenti tipici come
l’apprendimento di suoni, l’imprinting o l’orientamento.
Strutturalmente la configurazione del sistema di memorie multiple appare la seguente:
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Negli studi inerenti la memoria umana, evidenze chiave riguardanti l’esistenza di sistemi di
memoria multipli sono state fornite dalle investigazioni concernenti la descrizione delle differenze
tra forme implicite ed esplicite di memoria (Graf e Schacter, 1985; Schacter, 1987). La memoria
esplicita si riferisce al richiamo di esperienze precedenti, la memoria implicita invece si riferisce
alle variazioni delle prestazioni o comportamenti prodotte da precedenti esperienze, in test che non
richiedono nessun tipo di richiamo intenzionale o inconsapevole di quelle esperienze. La distinzione
fra memoria esplicita e implicita è simile alla distinzione tra memoria con consapevolezza e
memoria senza consapevolezza (Jacoby e Witherspoon, 1982), tra memoria dichiarativa e memoria
non dichiarativa (Squire et al., 1992) e tra memoria diretta e memoria indiretta (Johnson e Hasher,
1987). La memoria implicita e la memoria esplicita rappresentano due differenti modalità con cui la
memoria relativa all'esperienza precedente può essere espressa, non implica necessariamente
l'esistenza di uno specifico sistema di memoria (Schacter, 1992). Differente è il ruolo dei sistemi
multipli di memoria studiati da Schacter e Tulving (1994), in cui si osserva come l’attività neurale
originata dai recettori interni ed esterni scorra attraverso sistemi cerebrali paralleli, ognuno dei quali
specializzato ad estrarre differenti tipi di informazioni dall’attività continuativa. Ogni sistema ha
una struttura centrale che svolge la funzione di elaborazione delle informazioni indipendentemente
dagli altri. Le interazioni tra i sistemi avvengono a livello dei recettori di input e in fase di output
per produrre pensiero e comportamento.
È importante sottolineare come con il termine sistemi di memoria non si faccia riferimento a forme
di memoria o processi di memoria o ancora, ad espressioni di memoria (Shettleworth 1993). La
differenziazione tra memoria implicita ed esplicita non rappresenta la distinzione di 2 sistemi di
memoria differenti, questi termini hanno semplicemente uno scopo descrittivo intendendo la
memoria esplicita come intenzionale o consapevole richiamo di episodi passati, la memoria
implicita invece rappresenta un utilizzo non intenzionale e privo di consapevolezza di informazioni
acquisite precedentemente. Uno dei primi riferimenti al termine “sistema di memoria” deriva da
uno scritto di Tulving (1972) e successivamente da Warrington (1979), focalizzandosi su prove
neuropsicologiche a supporto della distinzione tra memoria a breve termine e a lungo termine e tra
due tipi di memoria a lungo termine: memoria episodica e semantica. Dal 1982 un’ulteriore
scoperta è riferita alla presenza di un altro sistema di apprendimento definito priming basato non
sulla memoria episodica o semantica, ma su altri sistemi di memoria (Tulving, Schacter e Stark,
1982). Uno dei primi significati del termine “sistema di memoria” fu un insieme di processi
correlati (Tulving, 1985) basati sulla differenziazione dei sistemi di memoria in base a:
-
comportamenti, funzioni cognitive, tipi di informazioni e conoscenze differenti, processate
-
operazioni collegate a differenti leggi e principi
18
-
differenti substrati neurali
-
differenze nel periodo di comparsa nello sviluppo filogenetico e ontogenetico
-
differenze nel formato di rappresentazione dell’informazione (Tulving, 1984).
Un sistema di memoria è quindi definito in base ai suoi meccanismi cerebrali, al tipo di
informazione processata, ai principi e alle operazioni.
Schacter e Tulving (1994) nel loro articolo sui sistemi di memoria, evidenziano i 5 maggiori sistemi
di memoria rappresentati dalla memoria proceduale, semantica, memoria di lavoro (più conosciuta
come working memory), memoria episodica e memoria percettiva. Il sistema di memoria principale
è rappresentato dalla memoria procedurale (Squire et al., 1992). La memoria procedurale è
implicata nell’apprendimento di differenti tipi di comportamento e conoscenze cognitive e
algoritmi; opera in maniera automatica, gli output non sono di tipo cognitivo e inoltre può lavorare
indipendentemente dalle strutture ippocampali (Hirsh, 1974; Squire, 1987). Questo tipo di memoria
è caratterizzato da un apprendimento graduale ed incrementale e sembra essere particolarmente
adatto per raccogliere e trattare informazioni provenienti dall’ambiente nel corso del tempo. Una
prova dell’esistenza della memoria procedurale e della sua esistenza come indipendente dai sistemi
di memoria cognitivi, è supportata da studi su pazienti amnesici che mostrano un normale priming
di fronte a compiti che implicano il riconoscimento di termini familiari, il completamento di coppie
di parole o esercizi simili (Moscovitch, 1982). Gli altri 4 sistemi di memoria sono di tipo cognitivo;
appaiono quindi contemplati dalla consapevolezza individuale. Uno di questi sistemi di memoria è
rappresentato dalla working memory che si differenzia per quello che riguarda il ricordo temporaneo
e il processo di informazioni. La working memory descritta da Baddeley (1992) è composta da 3
sottosistemi: un esecutivo centrale, un taccuino visuospaziale e un magazzino fonologico a breve
termine. In altre parole la working memory può essere considerata una versione molto più elaborata
e sofisticata della comune memoria a breve termine o primaria. Gli altri 3 sistemi sono sistemi di
memoria a lungo termine, in particolare la memoria percettiva ha un ruolo importante per quello
che riguarda l’identificazione di parole e oggetti ed opera ad un livello presemantico, inoltre è
principalmente coinvolta nelle espressioni implicite di memoria soprattutto nel priming.
L’indipendenza della memoria percettiva è confermata da studi che evidenziano come il priming
percettivo possa essere dissociato dalla memoria esplicita in soggetti normali amnesici e
tossicodipendenti (Roediger, 1990; Tulving e Schacter, 1990). Altre ricerche in campo
neuropsicologico sottolineano come pazienti con deficit nel processamento lessicale od oggettuale
mostrino di avere ancora preservato l’accesso alle conoscenze percettive in condizioni in cui
l’accesso alla conoscenza semantica è severamente compromesso (Tulving e Schacter, 1990).
19
La memoria semantica rende possibile l’acquisizione e il mantenimento di informazioni sul mondo.
La memoria episodica invece permette il ricordo di eventi personali relativi al passato.
SISTEMI
DEFINIZIONI
SOTTOSISTEMI
RECUPERO
Procedurale
Non dichiarativa
Implicito
Percettiva
Non dichiarativa
Semantica
Generiche conoscenze di
fatti
Memoria di lavoro
Capacità motorie
Capacità cognitive
Condizionamento semplice
Apprendimento associativo
semplice
Descrizione strutturale
Forma visiva
Forma acustica
Relazione spaziale
Visiva
Acustica
Esplicito
Primaria
Episodica
Memoria di eventi
Personale
Autobiografica
Implicito
Implicito
Esplicito
Tabella 1 Tabella riassuntiva dei sistemi di memoria e di apprendimento umani (Schacter e Tulving, 1994).
Gli studi sull’esistenza di memorie multiple derivano dalla necessità di spiegare come danni
cerebrali nell'uomo abbiano spesso effetti specifici sui tipi di memorie che possono essere formate e
richiamate. Un esempio è il famoso caso del paziente HM sottoposto ad asportazione bilaterale dei
lobi del cervello, nella fattispecie la parte che interessa l’ippocampo e le strutture ad esso correlate,
come trattamento dell’epilessia. In seguito all’operazione HM mostrò una grave forma di amnesia
anterograda, nonostante la sua memoria a breve termina fosse intatta, aveva inoltre un deficit
riguardo la capacità di formare nuova conoscenza semantica. La sua amnesia retrograda era a
gradiente, con una maggiore compromissione nella capacità di ricordare gli eventi personali più
recenti. Era intatta inoltre anche la capacità di HM di formare tracce di memoria procedurale
(Corkin, Amara, Gonzàles, Johnson e Hyman, 1997).
2.2 Evidenze sugli effetti del priming
Un elemento centrale della prova riguardo l’esistenza di forme multiple di memoria è rappresentato
dal fenomeno del priming. Il priming viene definito come il miglioramento nelle abilità di una
persona di identificare, produrre o classificare inconsapevolmente un item come risultato di un
incontro precedente con lo stesso. I test che di solito vengono utilizzati per fare emergere il
fenomeno del priming sono test di riconoscimento, implicito od esplicito che sfruttano il priming di
ripetizione e semantico. Esempi di questi test chiedono ai soggetti di identificare stimoli presentati
brevemente per completare frammenti di parole con la prima che viene in mente oppure per
prendere decisioni relativamente alle proprietà delle parole o degli oggetti o ancora per produrre
items di una categoria in risposta alla categoria del cue (Schacter, 1992).
20
Uno dei motivi per cui il fenomeno del priming ha ottenuto un grande interesse da parte degli
psicologi ad orientamento cognitivo e dei neuroscienziati deriva dal fatto che gli effetti del priming
sono dissociati dagli effetti di riconoscimento e rievocazione esplicita; infatti ad esempio, come
sottolineano Schacter, Dobbins e Schnyer, nel loro articolo (2004), pazienti amnesici con deficit nel
lobo medio temporale hanno notevoli problemi in test di riconoscimento e rievocazione esplicita,
ma presentano effetti di priming normali.
Gli studi sul priming utilizzando la PET e la fMRI hanno evidenziato come questo sia associato ad
una diminuzione dell’attività corticale, al contrario di quello che si vede con compiti di
rievocazione esplicita. Grazie ad esperimenti che richiedono un riconoscimento implicito, è emerso
come il priming non rifletta un mantenimento delle caratteristiche specifiche della parola o
dell’episodio in cui è stato rilevato, ma l’attivazione di una rappresentazione astratta creata durante
la fase di studio (Schacter et al., 2004). Studi critici (Graf e Ryan, 1990) hanno rilevato come,
cambiando le caratteristiche dello stimolo target studiato inizialmente, tra cui il suo orientamento
nello spazio, si riduca notevolmente l’effetto priming, ad esempio generando tempi di reazione
molto più lunghi.
Le ricerche che maggiormente si sono concentrate sullo studio degli effetti del priming e che sono
alla base della tecnica del Brain Fingerprinting, su cui ho deciso di focalizzarmi in questa tesi,
riguardano gli stimoli specifici (ossia il fenomeno del priming in seguito alla presentazione dello
stimolo target nella fase di studio e lo stesso stimolo nella fase di test), altre varianti di questi
esperimenti prevedono che lo stimolo nella fase di studio e di test sia presentato in diverse modalità
(ad esempio, inizialmente in modalità visiva e successivamente in modalità uditiva o viceversa)
oppure nel caso di uno stimolo visivo, in diversi orientamenti (Schacter, 1992).
2.2.1 Priming modalità specifico
Nella mia tesi come detto precedentemente, mi concentrerò soprattutto sugli studi del priming
modalità-specifico in quanto è il punto base da cui è stata sviluppata la tecnica del Brain
Fingerprinting (Farwell, Richardson e Richardson, 2013).
Studi di neuroimaging, durante esperimenti che prevedono la presentazione di uno stimolo visivo
nella fase di studio e la presentazione dello stesso stimolo visivo nella fase di test, hanno mostrato
come il priming visivo sia associato ad una diminuzione dell’attività corticale nelle regioni
posteriori e prefrontali della corteccia extrastriata di destra (Backman et al., 1997; Squire et al.,
1992). Queste scoperte hanno aumentato la possibilità che le riduzioni dell’attività, in seguito
all’effetto priming nella corteccia fusiforme, riflettano l’influenza della presentazione dello stimolo
visivo. La riduzione dell’attività della corteccia extrastriata, soprattutto nell’emisfero destro, porta
21
ad ipotizzare la presenza di un sistema di rappresentazione percettiva paragonabile ad un sistema
presemantico che rappresenta la forma e la struttura degli oggetti e delle parole, ma non il loro
significato (Tulving e Schacter ,1990). Studi relativi al priming visivo riferito ad un oggetto in
individui sani hanno dimostrato come gli effetti del priming possono riferirsi a diversi esemplari di
uno stesso oggetto (ad esempio 2 ombrelli), ma il grado di agevolazione si attenua rispetto alla
rappresentazione ripetuta dello stesso identico oggetto (Biederman e Gerhardstein, 1993; Warren e
Morton, 1982). Inoltre Simons, Koutsaal, Prince, Wagner e Schacter, nel loro articolo (2003),
sottolineano come la sensibilità nei confronti dell’alterazione della forma percettiva degli oggetti su
presentazione ripetuta, vari a seconda dell’emisfero cerebrale a cui gli oggetti vengono
preferenzialmente presentati, utilizzando la metodologia dei campi visivi divisi (Marsolek, 1999).
Da queste ricerche emerge che l’emisfero destro è maggiormente sensibile alle alterazioni dello
stimolo, suggerendo il suo coinvolgimento nel processamento specifico delle informazioni visive
degli oggetti; mentre l’emisfero sinistro, che invece visualizza un pattern di generalizzazione tra i
diversi esemplari, potrebbe processare le informazioni più astratte o semantico/lessicali degli
oggetti. Questa ipotesi suggerisce, come deficit della corteccia posteriore dell’emisfero destro siano
associati ad una diversa forma di priming visivo (Vaidya, Gabrieli, Verfaellie, Fleischman e Askari,
1998).
22
Figura 3 Nella figura è presenta una mappa di attivazione funzionale derivante dalla combinazione di elementi nuovi e ripetuti. La
prima riga, relativa al contrasto tra item nuovi e ripetuti, mostra un’attivazione significativa per il priming per item ripetuti, soprattutto
per la corteccia fusiforme destra e sinistra occipitale laterale, la corteccia anteriore inferiore prefrontale di sinistra e la corteccia
prefrontale bilaterale inferoparietale. Nella seconda riga, relativa al contrasto tra item nuovi e ripetuti in maniera uguale, è presente
un’attivazione nelle stesse aree attivate precedentemente. La terza riga, relativa al contrasto tra item nuovi e item differenti, evidenzia
l’attivazione della corteccia fusiforme e laterale occipitale di sinistra e della corteccia prefrontale anteriore inferiore destra. Nell’ultima
riga, relativa al contrasto tra item ripetuti in maniera uguale e diversa, un’attivazione significativa è presente in entrambe le cortecce
fusiformi laterali occipitali e prefrontali posteriori inferiori (Simons, Koutsaal, Prince, Wagner e Schacter, 2003).
Partendo da queste ipotesi, studi di fMRI (Simons et al., 2003) hanno confermato che la corteccia
fusiforme fornisce un pattern di risposte asimmetriche durante un compito di priming visivo di un
oggetto, quando lo stesso esemplare o uno differente è presentato ripetutamente. È stata dimostrata
(Koutstaal et al., 2001) una discriminazione neurale relativa al priming, significativamente
maggiore tra differenti esemplari, nella corteccia fusiforme di sinistra, manifestata da una
significativa interazione tra le cortecce fusiformi di destra e di sinistra e dal tipo di item (esemplari
uguali o diversi). La corteccia fusiforme di destra e le regioni occipitali laterali non sono modulate
dalla manipolazione semantico-lessicale, suggerendo quindi che il loro ruolo nel riconoscimento
degli oggetti, visivamente, riguarda principalmente la discriminazione degli specifici esemplari. I
diversi ruoli delle regioni della corteccia occipito-temporale sono stati identificati dall’attivazione
della corteccia fusiforme sinistra, ma non della corteccia occipitale laterale sinistra, mostrando una
modulazione nella risposta per la percezione di entrambi gli esemplari. Ulteriori analisi
suggeriscono una progressione dal posteriore all’anteriore, all’interno della corteccia occipitotemporale sinistra, tra le regioni coinvolte nel processamento visuo-percettivo e semantico-lessicale
delle informazioni degli oggetti. Tuttavia, entrambi i sottosistemi contribuiscono all’abilità che è
critica per la sopravvivenza di percepire e identificare gli oggetti del mondo che ci circonda
(Simons et al., 2003).
23
24
3. Il Brain Fingerprinting
3.1 Il rischio delle testimonianze distorte
Le informazioni memorizzate nel cervello della vittima e del criminale sono spesso un migliore e
comprensivo sito di indizi in merito al crimine, rispetto alle prove che possono essere raccolte per
collegare le specifiche caratteristiche della scena del crimine con quelle del colpevole. La principale
difficoltà riguardo le informazioni memorizzate all’interno del cervello ha a che fare con la loro
accessibilità. Si tratta infatti di contenuti accessibili solo utilizzando appositi strumenti e tecniche
neuroscientifiche non sempre immediatamente disponibili. Spesso infatti, si fa ricorso alle
testimonianze sotto forma di interrogatorio o intervista che a seconda della tipologia prevedono
risposte a domande inquisitorie o un semplice racconto da parte del testimone degli eventi accaduti
e dei fatti osservati (Farwell, 2014). Le testimonianze costituiscono però resoconti puramente
soggettivi dei contenuti della memoria e la soggettività è una variabile che inevitabilmente modella
la testimonianza. Come sottolineato anche da Weaver, Krug, Trent, Teller, Holmes e Parra nel loro
articolo (2011), la memoria è un’entità limitata e imperfetta sotto diversi punti di vista; è
approssimativa, a volte distorta, selettiva e soggetta a numerose influenze tra cui deficit fisici
mentali o droghe ed è sempre meno precisa in relazione al passaggio del tempo.
Farwell presentando un tutorial relativo all’utilizzo del Brain Fingerprinting (2012) sottolinea
come la scena del crimine abbia 2 tipi di caratteristiche che possono essere utili: caratteristiche
permanenti e cambiamenti generati dal crimine. Le caratteristiche permanenti pre-esistono al
crimine stesso, come ad esempio gli edifici, le strade, la disposizione della terra ecc.; i cambiamenti
che hanno luogo in seguito al crimine invece includono alcuni elementi, come la disposizione del
corpo nel caso di omicidio, le impronte digitali, il sangue sulla scena del crimine ecc.
Inevitabilmente anche i partecipanti del crimine hanno caratteristiche permanenti e in cambiamento.
Le prime possono riguardare il DNA e le impronte digitali; le seconde possono includere ad
esempio, ferite generate nel corso del crimine stesso. Lo scopo fondamentale delle investigazioni è
comunque quello di stabilire accuratamente delle relazioni, tra le caratteristiche della scena del
crimine e la vittima da un lato e le caratteristiche dell’autore e dei testimoni dall’altro. Riprendendo
la frase del titolo della mia tesi “Ogni contatto lascia una traccia” (traduzione del principio di
Edmond Locard “Nul ne peut agir avec l'intensité que suppose l'action criminelle sans laisser des
marques multiples de son passage”), l’autore del crimine inevitabilmente contaminerà la scena del
crimine con sue tracce caratteristiche, come un inusuale tipo di suolo sulle sue scarpe o un
frammento di una sua unghia; viceversa la scena del crimine lascerà tracce sull’autore stesso, come
il sangue della vittima, fibre del tappeto ecc. e nello specifico della mia tesi, una delle tracce a cui
mi riferisco, non sarà repertabile con i comuni strumenti utilizzati dalle Polizie Scientifiche durante
25
un sopralluogo giudiziario, tra cui pinzette o tamponi sterili, ma sarà presente nel cervello
dell’autore stesso e potrà essere recuperata con l’utilizzo di tecniche neuroscientifiche, più
precisamente con il Brain Fingerprinting. In alcuni casi è possibile trovare una relazione tra autore
e crimine basandosi solo sulle evidenze scientifiche rinvenute sulla scena del crimine (impronte
digitali, tracce di sangue ecc.), in altri casi questo non è possibile o non fornisce prove sufficienti ed
è necessario ricorrere ad altri tipi di indagini che, nella maggior parte dei casi, si basano solo su
interrogatori e testimonianze libere (Farwell, 2014).
Parlando di testimonianze è necessario tenere presente i 2 processi che contribuiscono alla
formazione di un ricordo: la percezione dell’evento e il ricordo dell’evento che andrà a costituire la
memoria. I due principali svantaggi in materia di testimonianze riguardano l’imperfezione della
memoria e la possibilità che il testimone possa mentire (Ben-Shakhar e Dolev, 1996). In
conclusione, Farwell (2012) evidenzia 3 teorie che possono riassumere il discorso fatto fino ad ora:
il cervello è un magazzino sufficientemente accurato di eventi che è in grado di testimoniare,
costruendo rapporti soggettivi dei contenuti della memoria, universalmente riconosciuto e
considerato come prova; il cervello è altresì un magazzino imperfetto di eventi la cui testimonianza
non è mai presa come verità assoluta: è necessario tenere quindi in considerazione anche la
limitatezza della memoria umana; infine qualsiasi procedura che includa testimonianze deve
considerare la veridicità del testimone. Nel tentativo di eliminare una delle 3 maggiori limitazioni
delle testimonianze, gli investigatori hanno sviluppato dei metodi psicofisiologici volti a
smascherare l’inganno da parte dei testimoni, rilevando la veridicità delle testimonianze fornite, ne
sono un esempio il poligrafo o la cosiddetta macchina della verità (Meegan, 2008; Farwell, 1991,
2013).
3.1.1 Il Guilty Knowledge Test (GKT)
Come detto precedentemente, la più comune tecnica utilizzata dagli investigatori per raccogliere
informazioni è rappresentata dall’interrogatorio. Questo si articola con una serie di domande che
sono perlopiù domande pertinenti e dirette, riguardanti la partecipazione al reato, come ad esempio:
“Ha sparato a XY?”. I primi passi verso l’introduzione di un metodo più convenzionale per
verificare l’attendibilità o meno delle testimonianze fornite dai testimoni furono compiuti da
Lykken (1959, 1960), introducendo il Guilty Knowledge Test (GKT). Il GKT rappresenta un
aggiunto all’interrogatorio e alle testimonianze. È un metodo che non prevede la rilevazione diretta
della prova di un crimine memorizzata nel cervello, ma si basa sulla determinazione della veridicità
delle informazioni fornite da un soggetto che sta testimoniando sulle prove e che potrebbe cercare
di nascondere la sua connessione con il crimine in questione e utilizza un sistema di orientamento di
26
risposte (OR). Nello specifico, la tecnologia OR rappresenta un complesso di reazioni fisiologiche e
comportamentali evocate dalla presentazione di un qualsiasi stimolo nuovo o dal cambiamento di
stimolazione (Siddle, 1991; Sokolov, 1963, 1966). Il GKT utilizza una serie di domande a scelta
multipla, ognuna avente un’alternativa rilevante con l’evento criminoso oggetto di interrogatorio e
altre alternative neutre, scelte in modo tale per cui un individuo innocente non sarebbe in grado di
discriminarle da quelle rilevanti (Lykken, 1998). Questa strategia assicura una protezione per gli
innocenti; infatti se le risposte fisiologiche del sospettato all’alternativa rilevante sono più marcate
rispetto a quelle neutrali, le conoscenze circa l’evento criminoso sono inferite. Finchè le
informazioni sull’evento non sono fuoriuscite, la probabilità di risposte fisiologiche più marcate per
le alternative rilevanti rispetto a quelle neutrali è indirettamente proporzionale al numero di
domande, in questo modo viene controllato il rischio dei falsi positivi. Dati statistici (Ben-Shakhar e
Furedy, 1990) hanno confermato questa ipotesi sottolineando come, utilizzando i risultati di 10
Guilty Knowledge Test, l’83,9% dei 248 individui realmente colpevoli e il 94,2% di 208 individui
innocenti esaminati, sono stati classificati correttamente. Uno studio più recente (Elaad, 1998) ha
evidenziato un’accuratezza del GKT intorno all’80% per quello che riguarda gli individui innocenti
e del 96% in riferimento agli individui colpevoli, senza mostrare falsi positivi.
Nonostante risultati statistici a sostegno del GKT o altre tecniche simili per quello che riguarda la
rilevazione di falsità o credibilità, questi strumenti hanno avuto un successo limitato. Il loro utilizzo
ha riguardato più che altro un’analisi primaria per guidare le investigazioni, piuttosto che per
stabilire definitivamente i fatti rilevanti. I principali limiti riguardanti l’applicazione del GKT
riguardano soprattutto la difficoltà nella formulazione di domande appropriate e la loro eccessiva
dispersione. È evidente infatti la difficoltà nell’identificare un numero sufficiente di caratteristiche
relative all’evento che possono essere utilizzate per formulare appropriate domande nel GKT. Nello
specifico una domanda appropriata si riferisce ad una caratteristica dell’evento, che ha un’elevata
probabilità di essere notata da parte del soggetto colpevole. Relativamente al rischio della
dispersione di elementi critici è facile notare come alcune informazioni rilevanti, che per la loro
crucialità nell’evento non possono essere testate e vengono perse, aumentano la probabilità della
creazione di falsi positivi da parte degli individui in realtà innocenti. Un ulteriore limite nei
confronti del Guilty Knowledge Test riguarda le contromisure (Ben-Shakhar e Elaad, 2002). È
possibile e relativamente facile addestrare gli individui colpevoli e prepararli ad un’esaminazione
basata sull’utilizzo del poligrafo o tecniche simili, in modo tale che le informazioni da essi fornite
vengano considerate veritiere (Ben-Shakhar e Dolev, 1996). In questo modo contromisure di tipo
mentali e fisiche potrebbero influenzare i risultati del GKT e aumentare il rapporto dei falsi
negativi.
27
3.1.1.1 Il ruolo della memoria nel riconoscimento dei dettagli critici
Concealed information test è l’affermazione utilizzata per descrivere i test volti alla verifica delle
testimonianze fornite dai testimoni implicati in un evento criminoso, ma anche e soprattutto fornite
da quegli individui che vengono considerati reali colpevoli o innocenti.
Nahari e Ben-Shakhar (2010) nel loro articolo sulla verifica della veridicità delle testimonianze
raccolte, propongono un paradigma sperimentale volto all’esame dell’utilità di test che si basano
sugli stessi principi del GKT tra cui il Concealed Information Test (CIT), Sympton Validity Test
(SVT) e Number Guessing Test (NGT), differenziando 3 categorie di individui: colpevoli, innocenti
informati e innocenti non informati, tutti esaminati in 2 condizioni: o immediatamente dopo il finto
crimine o 1 settimana dopo; inoltre è stato esaminato se la memoria e l’efficienza nella rilevazione
degli item critici è influenzata dal tipo di item (di importanza centrale o periferica). Il paradigma
sperimentale realizzato da Nahari e Ben-Shakhar utilizza 120 studenti laureati all’Università di
Gerusalemme sottoposti a misure di conduttanza cutanea. I partecipanti sono stati suddivisi
casualmente in 3 categorie: “colpevoli” coloro a cui spetta il compito di commettere un finto reato
(nella fattispecie un furto) “innocenti informati” coloro che vengono esposti ad elementi considerati
rilevanti per quello che riguarda il reato (come ad esempio la refurtiva rubata) ed infine gli
“innocenti non informati” coloro che non sono in possesso di informazioni rilevanti.
I risultati di questo esperimento hanno confermato il potere degli strumenti sopra indicati tra cui il
CIT, soprattutto per quello che riguarda l’identificazione degli individui in possesso di informazioni
rilevanti rispetto a coloro che non sono stati esposti a questo tipo di informazioni. Da questi risultati
è emerso che testati immediatamente dopo, i partecipanti della categoria “colpevoli” non
presentavano grosse differenze rispetto agli “innocenti informati”.
Figura 3 Il grafico mostra l’accuratezza dalle 3 categorie di partecipanti nelle 2
diverse condizioni sperimentali. Si evidenzia come non sono presenti differenze
significative per quello che riguarda i “colpevoli” e gli “innocenti informati”. Gli
innocenti “non informati” si discostano nettamente dai punteggi di accuratezza rilevati
nelle 2 precedenti categorie (Nahari e Ben-Shakhar, 2010).
28
Tutte le misure utilizzate in questo esperimento riflettono un effetto del tempo significativo, in
merito alle conoscenze dei partecipanti: soprattutto è stato rilevato un tempo di reazione inferiore
nella condizione di test non immediato confrontando gli “innocenti informati” e i “colpevoli”.
Questo risultato riflette il ruolo della partecipazione attiva da parte della memoria. Gli individui che
hanno realmente commesso il finto crimine hanno avuto una parte attiva nella produzione di item
che vengono poi ricordati, mentre gli “innocenti informati” apprendono i dettagli critici leggendoli
su un giornale. Questa differenza tra i 2 gruppi non influenza le loro risposte nella fase di verifica
iniziale, influenza invece la memoria, che impiega più tempo nella costruzione del ricordo che
deriva dall’immaginazione del furto e di conseguenza influenza anche i tempi di reazione,
riducendoli notevolmente (Nahari e Ben-Shakhar, 2010). Questo risultato è coerente con una vasta
letteratura a riguardo (Slamecka e Graf, 1978; deWinstanley, 1995; deWinstanley e Bjork, 2004)
che dimostra come gli individui tendono a ricordare meglio le informazioni quando rivestono un
ruolo attivo nella loro produzione (ad esempio, partecipanti che generano parole autonomamente
tendono a ricordarle meglio rispetto a coloro che hanno semplicemente letto le stesse parole),
(Slamecka e Graf, 1978).
Figura 4 Nella tabella sono presenti i risultati ottenuti dalle 2 categorie di partecipanti: “colpevoli” e “innocenti informati” nelle 2
diverse condizioni sperimentali sottoposti ai diversi test di riconoscimento della veridicità delle informazioni (“Concealed
Information Test”, “Sympton Validity Test” e “Number Guessing Test”) (Nahari e Ben-Shakhar, 2010).
Riassumendo, il paradigma di Ben-Shakhar e Nahari ha mostrato come tutti i test hanno identificato
i colpevoli, soprattutto nella condizione immediata, rilevando un miglioramento nell’efficienza del
riconoscimento dei dettagli critici, una declinazione della prestazione in condizione ritardata,
soprattutto per dettagli periferici e infine una differenziazione tra i partecipanti della categoria
“colpevoli” e “innocenti informati”, soprattutto nella condizione immediata. Questi risultati
suggeriscono che, il ritardo di tempo nel test può in qualche modo ridurre la capacità di rilevare i
colpevoli, diminuendo di conseguenza anche il pericolo di accusare innocenti informati in possesso
di alcune informazioni rilevanti, ma non per questo direttamente implicati nel crimine.
29
3.2 Scienza e tecnologia del Brain Fingerprinting
Fino a questi ultimi anni, non è mai stato rilevato nessun metodo scientifico per la verifica dei
record di informazioni memorizzate nel cervello, utili per poter collegare realmente un colpevole
con la scena del crimine. Il Brain Fingerprinting ha cercato di riempire questa lacuna; è stato
sviluppato con lo scopo di fornire un metodo obiettivo, per collegare le caratteristiche fondamentali
rilevate dalla scena del crimine con le informazioni del crimine memorizzate nel cervello del
criminale. Questa necessità è stata in parte risolta misurando la risposta a stimoli presentati sotto
forma di parole o immagini, per un periodo molto ridotto, su di uno schermo (Farwell et al., 2013).
Il Brain Fingerprinting rappresenta un metodo obiettivo e scientifico per rilevare la veridicità delle
informazioni memorizzate nel cervello, misurando le risposte elettroencefalografiche o le onde in
maniera non invasiva, grazie a sensori disposti sullo scalpo.
Il termine Brain Fingerprinting è basato sulla caratteristica distintiva di abbinare un elemento
caratteristico dell’individuo indagato, con un elemento caratteristico della scena del crimine. Le
impronte digitali consentono di far combaciare le impronte rinvenute sulla scena del crimine, con le
impronte presenti sui polpastrelli dei sospettati; lo stesso discorso può essere effettuato per il DNA
fingerprinting, ossia la comparazione delle tracce biologiche rinvenute sulla scena del crimine, con
quelle dei sospettati. Allo stesso modo, il Brain Fingerprinting compara le informazioni
memorizzate nel cervello dei sospettati, con le informazioni provenienti dalla scena del crimine
(Farwell et al., 2013). Questa tecnica richiede la presentazione sullo schermo di un computer, di
parole, frasi o immagini in serie o insieme ad altri stimoli rilevanti, contenenti dettagli salienti
riguardanti il crimine o la situazione oggetto di indagine. La risposta agli stimoli, da parte del
cervello viene ovviamente misurata. Da questi studi (Farwell, 2012) è emerso come, nel momento
in cui il cervello processa informazioni in un modo specifico, viene rilevato un particolare pattern
di onde elettroencefalografiche attraverso un’analisi computerizzata. Quando un soggetto riconosce
e prende nota di qualche elemento significativo nel contesto presente, il cervello emette
inconsciamente una risposta del tipo “Aha!”; ciò comporta l’attivazione dei neuroni definendo un
pattern specifico, identificabile dalla sigla P300-MERMER (“memory and encoding related
multifaceted electroencephalographic response”), che può essere rilevato attraverso un’analisi
tramite computer dei segnali EEG (Farwell e Smith, 2001). Quando un soggetto riconosce una
specifica caratteristica della scena del crimine, come ad esempio l’arma del delitto, il sistema Brain
Fingerprinting rileva la risposta e la fa corrispondere al segnale EEG; questo dimostra che il
soggetto conosce le informazioni rilevanti. Se il soggetto non possiede queste conoscenze rilevanti,
la risposta del cervello è assente. I dati vengono successivamente analizzati utilizzando un
algoritmo statistico e matematico per determinare se le informazioni rilevanti per il crimine sono
30
conosciute dal soggetto. Il Brain Fingerprinting calcola una percentuale di “informazioni presenti”
– informazioni critiche conosciute dai soggetti – e “informazioni assenti” – informazioni non
conosciute. Il sistema inoltre è in grado di calcolare efficacemente per ogni individuo le
“informazioni presenti” con una certezza del 99,9%; questo significa che c’è il 99,9% di probabilità,
che il soggetto conosca realmente le informazioni rilevanti testate. Nel caso in cui il Brain
Fingerprinting non sia in grado di fornire un risultato sufficientemente alto per riconoscere
l’implicazione del soggetto nella situazione criminale, il risultato che ne deriva è “indeterminato”;
attualmente, ricerche per verificare l’attendibilità di questo sistema hanno rilevato soltanto una
percentuale di risultati indeterminati pari al 3% (Farwell, 2012).
3.2.1 Onde cerebrali (EGG) e potenziali evento-relati (ERP)
Le onde generate dall’EEG comprendono le misure dei pattern dei cambiamenti del voltaggio
energetico che originano nel cervello. Queste misurazioni sono effettuate in maniera non invasiva
dallo scalpo. Quando il cervello svolge certi compiti vengono prodotti specifici pattern di attività
cerebrale. Un esempio di questi compiti richiede osservazione, riconoscimento e processamento
delle informazioni contenute in stimoli significativi, come l’arma del delitto presentata su uno
schermo durante il test di Brain Fingerprinting. Questi specifici pattern di attività cerebrali sono
conosciuti come potenziali evento-relati (ERPs) (Farwell e Smith, 2005).
La tecnica del Brain Fingerprinting (Farwell, 2012), utilizza potenziali evento-relati per
determinare quali informazioni sono memorizzate nel cervello di un individuo che variano in base a
come quest’ultimo processa informazioni specifiche, come nel caso delle caratteristiche che
riguardano il crimine. Allo stesso tempo, come sottolinea sempre Farwell (2012), durante
esperimenti scientifici, il cervello si attiva anche conseguentemente a stimoli di interesse personale,
non necessariamente legati al crimine; il Brain Fingerprinting ha anche il compito quindi di
eliminare queste attività indipendenti dall’oggetto dell’esperimento. La tecnica utilizzata nelle
ricerche relative al metodo ERPs per ridurre questi errori, è quella di presentare molte volte gli
stessi stimoli e mediare le risposte (Farwell e Donchin, 1988).
L’onda P300 è un potenziale evento-relato molto conosciuto utilizzato nel test del Brain
Fingerprinting. Su questo argomento sono state pubblicate decine di ricerche (Farwell e Donchin,
1988; Miller, Bashore, Farwell e Donchin, 1987), che hanno evidenziato come l’onda P300 venga
prodotta nel momento in cui il cervello riconosce e processa stimoli significativi in un determinato
contesto. Questo tipo di risposte, sono definite risposte evento-relate di tipo “esogeno” e non hanno
niente a che vedere con il significato dello stimolo in sé o altre attività cognitive che il soggetto
potrebbe svolgere (Sutton, Barren, Zubin e John ,1965); la risposta non dipende dalle caratteristiche
31
fisiche dello stimolo, ma piuttosto da come lo stimolo è stato processato cognitivamente. Il nome
P300 deriva dal fatto che si tratta di una risposta elettricamente positiva (P) e ha una latenza che
varia dai 300 agli 800 ms (300); il tempo di latenza varia in relazione alla complessità dello stimolo
presentato. Nelle prime ricerche relative al Brain Fingerprinting, Farlwell e Donchin iniziarono
utilizzando i potenziali evento-relati P300 (1986, 1988, 1991). Successivamente, si deve a Farwell,
et al., (2013), l’idea che l’onda P300 potesse essere considerata come parte di una risposta più
ampia, di cui fanno parte anche la memoria e la relativa codifica multiforme dello stimolo, da qui il
nome P300-MERMER.
3.2.2 Il metodo
Il Brain Fingerprinting prevede la presentazione di 3 tipi di stimoli consistenti in parole o frasi
presentati sullo schermo di un computer. Gli stimoli prova contengono specifiche informazioni
rilevanti con la situazione investigata. Il test ha il compito di rilevare le conoscenze o la loro
mancanza, in relazione alle prove considerate rilevanti nel contesto criminale.
Il paradigma utilizzato da Farwell et al., (2013) prevede la presentazione di stimoli rilevanti per il
contesto, irrilevanti o prove vere e proprie. Vengono definite prove gli stimoli che possiedono
determinate caratteristiche:
1. le prove contengono caratteristiche del crimine o della situazione indagata, con cui il
colpevole dovrebbe avere avuto esperienza nel giudizio dell’investigatore criminale, ad
esempio informazioni che gli autori avrebbero sperimentato nel commettere il reato o che i
soggetti avrebbero appreso, nel tentativo di acquisire le conoscenze specifiche, la
formazione o l’esperienza dell’indagato;
2. le prove contengono informazioni che i soggetti non hanno modo di conoscere se non hanno
partecipato al crimine o ad altre situazioni di interesse;
3. le prove contengono informazioni che i soggetti dichiarano di non conoscere o riconoscere
come significative, per una qualsiasi ragione (Farwell, 2012).
Per testare se gli individui riconoscono o meno le prove come significanti nel contesto della
situazione indagata, il Brain Fingerprinting prevede la presentazione di 2 tipi di stimoli addizionali.
Gli stimoli target elicitano una risposta, che fornisce uno standard che permette di capire la risposta
del cervello dei soggetti, in modo da conoscere le informazioni rilevanti. Gli stimoli irrilevanti
invece, producono una risposta che fornisce uno standard per quello che riguarda le informazioni
che i partecipanti all’esperimento realmente non conoscono. Gli stimoli cosiddetti irrilevanti
contengono informazioni plausibili, ma scorrette dal punto di vista del crimine oggetto di interesse;
32
per un individuo che non possiede informazioni rilevanti le prove e gli stimoli irrilevanti hanno la
stessa plausibilità dei dettagli rilevanti per il crimine (Farwell e Smith, 2001).
3.2.3 I risultati
I risultati derivanti da 4 studi di Brain Fingerprinting svolti in 4 contesti diversi (“CIA Real life
Study”, “The Real Crime Real Consequences $100,000 Reward Study”, “The FBI Agent Study” e
“The Bomb Maker Study”) hanno fornito differenti risultati. Gli stimoli target hanno prodotto
un’ampia onda P300-MERMER in tutti i partecipanti; questo risultato era quello previsto, dal
momento che contenevano informazioni conosciute. Sempre secondo le aspettative, gli stimoli
irrilevanti hanno prodotto un’onda P300-MERMER limitata; mentre nel caso degli stimoli prova
questi hanno prodotto una larga P300-MERMER, solo relativamente alle informazioni conosciute
dai partecipanti. L’algoritmo utilizzato per l’analisi dei dati nel Brain Fingerprinting ha prodotto
una percentuale dello 0% per quello che riguarda il tasso di errore e il 100% delle detezioni corrette.
Non sono stati riscontrati falsi positivi e falsi negativi o risultati indeterminati, come è possibile
vedere dalla tabella riassuntiva sottostante (Farwell et al. 2013).
Positivi corretti
62
100%
Negativi corretti
14
100%
Totale determinazioni corrette
76
100%
Falsi positivi
0
0%
Falsi negativi
0
0%
Indeterminati
0
0%
Accuratezza
76/76
100%
Tasso di errore
0/76
0%
Tabella 2 Tassi di accuratezza ed errore relativi agli studi condotti utilizzando la tecnica del Brain Fingerprinting
(Farwell et al., 2013).
Figura 5 Le onde rappresentate in figura vengono prodotte dal cervello dell’individuo sospettato
nel momento in cui gli vengono presentate informazioni a lui conosciute (indice di colpevolezza) e
informazioni a lui sconosciute (indice di innocenza) (Gupta, Shakya e Sharma, 2013).
33
Figura 6 Basandosi esclusivamente su onde cerebrali, il Brain Fingerprinting presenta onde
differenti in base alla conoscenza o meno di determinate informazioni. Le onde rosse si
riferiscono alle informazioni che l’individuo sospettato si pensa che conosca, le onde verdi
rappresentano le informazioni non conosciute e infine le onde blu sono le informazioni
pertinenti al crimine che solo l’autore può conoscere. Come è presente in figura (a destra)
quindi, la sentenza di colpevelozza richiede che le onde blu e rosse siano strettamente
correlate. Nella figura di sinistra invece, la linea rossa e quella blu non sono assolutamente
sovrapposte, ad indicare di conseguenza la non colpevolezza dell’individuo indagato (Gupta et
al., 2013).
I risultati derivanti da questi studi fanno emergere una certezza quasi assoluta relativa all’utilizzo
del Brain Fingerprinting. A questo proposito sorge spontaneamente una domanda a cui Farwell e
Smith (2001) rispondono ampiamente. Le onde MERMER generate dal cervello potranno
potenzialmente risolvere ogni caso? La risposta è no. Le impronte digitali e il DNA possono
determinare, scientificamente, se una persona era o meno presente sulla scena del crimine, nel caso
in cui queste tracce siano disponibili. Le onde MERMER permettono gli stessi risultati anche nei
casi in cui non sono disponibili tracce fisiche. È sottointeso però, come anche la tecnologia
MERMER non sia applicabile in tutti i casi. Le onde MERMER rivelano la presenza o l’assenza di
informazioni, non la colpevolezza o l’innocenza dei soggetti. In alcuni casi un individuo può
possedere virtualmente tutte le informazioni disponibili relative al crimine, tuttavia senza essere
direttamente implicato in esso. Ad esempio nel corso dell’interrogatorio gli investigatori potrebbero
avere commesso errori, rivelando al sospettato informazioni cruciali di cui sono in possesso prima
di sottoporlo al test delle onde MERMER. In questi casi, possedere informazioni crime-relevant,
quindi strettamente correlate al crimine, non identifica un individuo come l’autore del reato e le
onde MERMER non possono essere applicate per risolvere il caso. Da questo limite ne deriva,
come sottolineano Farwell e Smith nel loro articolo (2001), la necessità da parte degli investigatori
di prendere le adeguate precauzioni per proteggere il più possibile, dettagli utili da utilizzare nella
fase di test. Un ulteriore limite si riferisce all’eventualità in cui sulla scena del crimine siano
34
presenti 2 individui di cui uno svolge il ruolo di autore e l’altro di semplice testimone; in questo
caso il test MERMER non è in grado di determinare i ruoli occupati dai 2 individui per stabilire
quali di questi era il vero autore del reato. Inoltre, per ottenere risultati attendibili con un grado di
significatività piuttosto elevato dal test MERMER, è necessaria una conoscenza abbastanza vasta di
informazioni in merito al crimine da parte degli investigatori, in modo da identificare accuratamente
le categorie (rilevanti, irrilevanti e target) all’interno delle quali inserire gli elementi di cui sono a
conoscenza.
Riassumendo come tutte le tecniche, anche il Brain Fingerprinting presenta alcuni limiti, che
possono essere raggirati o ridotti, attuando come detto prima le opportune precauzioni e non
basandosi solo sul risultato derivante dal test, come prova assoluta di colpevolezza o innocenza di
un sospettato.
3.3 Il caso Harrington
Il caso Terry Harrington fornisce un’evidenza dell’utilizzo del Brain Fingerprinting in un caso reale
di omicidio. L’episodio risale al 1977 quando John Shweer, un ex poliziotto all’epoca impiegato
come guardia di sicurezza in una concessionaria di auto, viene assassinato. I principali sospetti
ricaddero su Terry Harrington e Curtis McGhee, entrambi minorenni, implicati in un giro di auto
rubate, in seguito alla testimonianza di un loro amico Kevin Hughes. Quest’ultimo durante
l’interrogatorio fornì numerose dichiarazioni false, tra cui quella relativa alla colpevolezza
dell’amico Harrington che, mentre Curtis McGheee era impegnato nel tentativo di furto di un auto,
avrebbe ucciso il suddetto Shweer con un fucile da caccia. Al processo emersero ulteriori prove
contro Harrington, tra cui testimonianze relative alla presenza della sua auto al di fuori della
concessionaria, la fatidica sera del 22 luglio 1977, ad un orario pertinente con l’omicidio di Shweer
e residui di sparo su una sua giacca rinvenuta in casa propria. Malgrado Harrington avesse l’alibi di
essere ad un concerto, insieme al suo amico McGhee, furono dichiarati entrambi colpevoli e
condannati all’ergastolo. In seguito a tentativi di revisione dei documenti inerenti il caso, nel 2000
Farwell sottopose Harrington al test del Brain Fingerprinting, dimostrando l’assenza nella sua
memoria di tracce relative ai dettagli dell’omicidio, risalente ormai a 20 anni prima e invece la
presenza di informazioni riguardanti l’alibi del concerto da lui dichiarato.
Il caso Harrington ha assunto tale importanza in quanto, è stato il primo caso che ha permesso
l’utilizzo del Brain Fingerprinting in tribunale dichiarandolo ammissibile come prova scientifica, in
accordo con i criteri del Daubert Standard 1 . 3 anni dopo infatti il caso fu riaperto e venne
1 Il Daubert Standard rappresenta un insieme di norme che consentono l’ammissibilità in tribunale delle testimonianze, in
riferimento ai processi federali di Corte Suprema negli Stati Uniti. Ai sensi della norma, una parte ha il diritto di sollevare una
35
reinterrogato il testimone iniziale Kevin Huges, il quale a fronte delle prove del Brain
Fingerprinting, confessò di avere mentito nei confronti di Harrington, per paura di essere
incriminato per l’omicidio di John Shweer (Farwell e Makeig, 2005).
mozione, prima o durante il processo, in modo da escludere la presentazione di prove senza nessuna riserva da parte della
giuria.
36
Conclusioni
Concluderò la mia tesi nello stesso modo in cui l’ho iniziata: “ogni contatto lascia una traccia”. Ad
oggi esistono decine di discipline che hanno l’obiettivo di analizzare queste tracce: la dattiloscopia
analizza le impronte digitali, la grafologia studia la scrittura, la balistica analizza i proiettili di arma
da fuoco, la geologia si occupa dei residui di terriccio, la chimica effettua analisi del DNA…e
potrei citarne tantissime altre. Queste materie rappresentano solo una parte delle branche in cui si
articolano le scienze forensi che forniscono un ausilio scientifico alla tradizionale analisi
investigativa. Nessuna di queste però si focalizza sul criminale, che invece rappresenta il punto di
partenza e allo stesso tempo il punto di arrivo dell’indagine stessa, ma che spesso viene tralasciato.
Attualmente il primo strumento utilizzato dalle Forze dell’Ordine per guidare l’attività investigativa
è costituito dall’interrogatorio. Questa tecnica non costituisce una branca specifica delle scienze
forensi, anche se è stata più volte oggetto di studio soprattutto per la psicologia, ma rappresenta solo
uno strumento di ausilio a volte nemmeno preso seriamente in considerazione per il rischio di
ottenere testimonianze distorte. Alcuni tentativi di sopperire a questo problema sono stati i
cosiddetti Guilty Knowledge Test, test volti all’accertamento della veridicità delle informazioni
reperite dagli individui interrogati con l’ausilio di metodi psicofisiologici.
Il Brain Fingerprinting rappresenta il pezzo di puzzle mancante fino ad ora, in quanto si concentra
sull’autore del reato per quello che riguarda gli elementi presenti nel suo cervello. Nessuna ricerca
di un alibi, nessuna ricerca di un movente, nessuna tecnica psicologica per indicare una
momentanea incapacità di intendere e volere, niente di tutto questo; nel Brain Fingerprinting è il
cervello che viene sottoposto ad un interrogatorio e risponde in maniera oggettiva alle domande che
vengono poste. La difficoltà ed allo stesso tempo la caratteristica distintiva del Brain Fingerprinting
non consiste nel valutare la correttezza o meno delle informazioni fornite, ma nella capacità di
decriptarle e comprenderle. Le onde P300 MERMER (Farwell e Smith, 2001) rappresentano quindi
una sorta di dizionario e traduttore del linguaggio cerebrale. Proprio l’oggettività caratteristica del
Brain Fingerprinting ha permesso il suo utilizzo in tribunale come fonte di prova riconosciuta a
livello giuridico e penale, come si può osservare dal citato caso Harrington (Farwell e Makeigh,
2005).
Indubbiamente forse la verità assoluta sulla commissione di un reato, sulle sue motivazioni, sui suoi
rituali e sulle caratteristiche specifiche non si saprà mai con nessun tipo di analisi, studio o ricerca,
così come non basterà l’utilizzo della sola chimica, della sola psicologia, della sola psichiatria e
nemmeno delle sole neuroscienze a portare a termine una buona investigazione; l’unica cosa che
davvero potrebbe fare la differenza e permettere di raggiungere il miglior risultato possibile,
sarebbe l’ausilio di tutte queste discipline insieme, ognuna specializzata in una piccola porzione di
37
analisi. Come ho avuto modo di osservare direttamente svolgendo il tirocinio al Comando della
Polizia Locale di Milano, quello che si osserva tra i diversi Corpi Militari è la gelosia delle proprie
conoscenze e dei propri strumenti, che non rende possibile quel rapporto di collaborazione
reciproca che invece sarebbe necessario e darebbe valore aggiunto all’Investigazione vera e propria.
Un primo passo in avanti, in questa direzione, è rappresentato dal Brain Fingerprinting, che sta
gettando le basi per lo sviluppo della neurocriminologia, basata su conoscenze neuropsicologiche e
neuroscientifiche, come sussidio all’attività investigativa. Nella speranza che nasca la voglia di
condividere i propri “segreti”, per raggiungere risultati migliori di quelli attuali, un segno di
progresso in questo settore, potrebbe indubbiamente essere lo sviluppo e l’accettazione dell’ausilio
di altre materie scientifiche, tra cui le neuroscienze.
38
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