Pensieri perversi - Casa editrice Le Lettere

Pensieri perversi
Filosofia del linguaggio e psicopatologia della gelosia
a cura di
Antonino Bucca e Nunziante Rosania
Le Lettere
Indice
Premessa
Introduzione
L’universo di senso delle esperienze deliranti
di Antonino Bucca e Nunziante Rosania
1. La ‘normalizzazione’ della malattia mentale
2. Tra ‘mente’ e ‘corpo’: forme ontologiche del delirio
3. L’idea di gelosia nei disturbi mentali
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11
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Note ontologiche
1. Le patologie dell’evidenza naturale
Autismo, schizofrenia, anoressia
di Antonino Pennisi
21
Introduzione
1.1. ‘Naturalezza’ ed ‘evidenza naturale’
1.2. Mind-blindness?
1.3. L’evidenza naturale come ‘cecità cognitiva’
1.4. La fortezza silenziosa: il linguaggio nell’autismo
1.5. Etologia autistica: la cognitività visuo-spaziale
21
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2. Malattia mentale e perdita del senso della realtà
Note sulla psichiatria bergsoniana di Rosalia Cavalieri
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2.1. L’influenza di Bergson sulle scienze della psiche e sulla medicina mentale
2.2. Attention à la vie e fonction du réel: Bergson e Janet
2.3. Dalla filosofia della durata alla psicologia esistenziale: Bergson e Minkowski
Osservazioni conclusive
3. Appunti per una prospettiva evoluzionistica nella psicopatologia cognitiva
di Alessandra Falzone
Introduzione
3.1. Il quadro epistemologico delle scienze cognitive: cinquantanni dopo
3.2. Psichiatria evoluzionista e neurofenomenologia: due modelli di integrazione
37
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55
6
A. Bucca, N. Rosania, Pensieri perversi. Filosofia del linguaggio e psicopatologia della gelosia
4. Il delirio: una questione di confini
di Valentina Cardella
61
5. Creazioni linguistiche della schizofrenia
Le metafore nella scrittura di Ernst Herbeck
di Paola Di Mauro
71
6. L’immagine fotografica negli archivi storici del ‘Mandalari’
di Paola Pennisi
6.1. Il progetto di ricerca
6.2. Fotografare la follia
7. Empatia e riconoscimento dell’idea di gelosia
La comprensione-condivisione delirante
di Antonino Bucca
Introduzione
7.1. Empatia: ‘sentire l’altro’
7.2. Teoria della mente: riconoscimento dell’altro
7.3. Sentimenti deliranti
Conclusioni
81
81
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91
91
92
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97
102
Note psicopatologiche e criminologiche
1. Psicodinamica del sentimento di gelosia
di Salvatore Settineri
105
1.1. Fenomenica del sentimento
1.2. Rappresentazione della gelosia
1.3. La lezione del mito
Conclusioni
105
106
110
114
2. La gelosia tra normalità e psicopatologia
di Donatella Marazziti e Giorgio Consoli
115
Introduzione
2.1. Questionario sulle relazioni affettive
2.2. Risultati
2.3. Gelosia normale, eccessiva, ossessiva
115
118
120
121
Indice
7
3. Gelosia criminogena
di Ugo Fornari
125
Premessa
3.1. L’approccio psicopatologico al problema clinico
3.2. Il contenuto clinico dell’infermità di mente
Conclusioni
125
131
135
136
4. Attaccamenti perversi
Riflessioni provvisorie su omicidio e legame di coppia
di Silvio Ciappi
137
Introducendo: alcune domande
4.1. Essere all’altezza
4.2. Erba: una coppia ‘perversamente’ co-empatica
4.3. Ti uccido così ti avrò per sempre
137
139
141
146
5. Gli omicidi di coppia in Italia (1996-2004)
149
di Gaetana Russo, Danilo Delia, Patrizia D’Arrigo e Novelia Falduto
Introduzione
5.1. Incidenza degli omicidi di coppia
5.2. Fonte di rilevazione dei dati
5.3. In quali contesti matura l’omicidio di coppia?
5.4. Chi sono gli autori degli omicidi di coppia?
Conclusioni
149
149
150
151
152
158
6. Cronaca di un delirio di gelosia, cronaca di un omicidio
Esperienze di psichiatria forense di Nunziante Rosania
159
Bibliografia
Indice dei nomi
Gli autori
167
181
187
6.1. Prologo: l’ambizione personale per un brillante avvenire
6.2. La famiglia, il sesso e la gelosia
6.3. Epilogo: un delirio cruento
159
160
164
1.
Le patologie dell’evidenza naturale
Autismo, schizofrenia, anoressia
di
Antonino Pennisi
Introduzione
Autismo, anoressia e schizofrenia sono tre gravi patologie mentali molto diverse tra loro. La prima ha probabili cause organiche,
colpisce sin dalla prima infanzia, non è mai completamente guaribile.
La seconda scatta nell’adolescenza, è spesso connessa a un’educazione ‘perfezionista’, può anche portare alla morte, ma la maggior
parte di volte può essere fuggita, o almeno tenuta sotto controllo.
La terza ha origini oscure, filogenetiche probabilmente, ma si realizza nell’età riproduttiva e, opportunamente curata, permette di invecchiare – in maniera più o meno consensuale – accanto al malato,
sino alla fine dei suoi giorni.
Di tutti e tre questi mali sappiamo ben poco ma, paradossalmente, assistiamo al sistematico tentativo di interpretarli in maniera univoca e di spiegarne esaurientemente le motivazioni e le origini prime
anche senza possedere alcun riscontro empirico alle ipotesi. Ciò ha,
ovviamente, un senso: si tratta, infatti, di patologie così invalidanti e
pericolose da richiedere in ogni caso un intervento: medico, psicologico e/o sociale. Poiché, inoltre, tutte e tre coinvolgono direttamente la vita familiare dei soggetti che ne sono portatori, comportano
una pressante e accorata domanda di aiuto.
Quest’ultimo aspetto ha come conseguenza diretta una florida
offerta terapeutica, troppo spesso fortemente interessata: ma – ce lo
insegna la storia sociale della medicina – questo è sempre accaduto.
Le patologie sensoriali e/o mentali endemiche hanno sempre costituito un business, oltreché un grave problema sociale.
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A. Bucca, N. Rosania, Pensieri perversi. Filosofia del linguaggio e psicopatologia della gelosia
Il fatto che sia sempre stato così non ci esime dall’affrontare i
problemi posti da queste tre gravi patologie tenendo sempre presente che dietro le sicumere terapeutiche e le certezze teoriche possono
nascondersi interessi che non hanno alcun rapporto con la ricerca
scientifica, da un lato, e la comprensione filosofica e umana dei fenomeni patologici dall’altro. Ci troviamo di fronte a fenomenologie
enigmatiche pronte continuamente a sconfessare i portatori di metodi ‘rivoluzionari’ e di interpretazioni ‘definitive’.
Tra le poche cose certe da cui possiamo partire per contribuire
a capire tutti assieme – medici, studiosi, famiglie e pazienti – la natura di queste patologie mentali, è che esistono due caratteristiche
costanti e comuni che si manifestano in esse, al di là di qualunque
diversità esteriore e/o sintomatologica dei singoli casi analizzati: a)
autismo, schizofrenia e anoressia, mentre possono anche lasciare intatte alcune capacità cognitive e fattuali complesse, colpiscono sempre alla radice la naturalità dei comportamenti umani più elementari
e vitali. In altri termini autistici, schizofrenici e anoressici hanno perso ciò che i fenomenologi chiamano l’evidenza naturale (Blankenburg
1971); b) seppure in maniera diversa, le tre patologie comportano
sempre problemi allo sviluppo linguistico-concettuale. Ciò che le
accomuna in questa direzione non è tanto l’apparire di uno o più
deficit articolatori, quanto l’anomalo modo di usare e/o elaborare la
semantica, i modi della significazione linguistico-cognitiva.
La tesi che vorrei sostenere è che queste due costanti sono sempre connesse in tale genere di patologie poiché ciò che la psichiatria
chiama evidenza naturale non è altro che il frutto di un universo cognitivo fondato sulla specie-specificità etologica del linguaggio. Una
volta rimossa – per qualsivoglia causa: genetica, organica, sensoriale,
psicologica ecc. – vengono meno tutti i requisiti fondanti della normatività ontologica, sino ad arrivare ai casi più estremi: essere incapaci di ‘riconoscere’ persone e cose; non riuscire più a individuare
l’appropriatezza sociale delle parole e dei discorsi; disconoscere la
fame e il cibo.
In questo lavoro analizzerò in maniera specifica il caso dell’autismo, patologia in cui l’evidenza naturale e la sua caratterizzazione
etologica risultano evidentemente connesse.
A. Pennisi, Le patologie dell’evidenza naturale. Autismo, schizofrenia, anoressia
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1.1. ‘Naturalezza’ ed ‘evidenza naturale’
Qualsiasi malattia tende a colpire la naturalezza dei comportamenti umani. La stessa consapevolezza di soffrire di un male che
colpisce le proprie capacità e le proprie risorse, la lucidità, la volontà,
le motivazioni ad esercitare i propri compiti nella vita, causa sempre
una più o meno duratura perdita della fluidità dei ragionamenti e
delle azioni di cui è fatta la nostra esistenza. Il malato che perde le
abilità che gli sono sempre state proprie, le collaudate consuetudini
nell’agire e nell’affrontare i problemi, gli automatismi del fare e del
pensare, comincia a riflettere coscientemente su essi facendone un
oggetto di ‘resistenza’ esplicita. Anziché ‘intuire’ spontaneamente
ciò che deve fare in quello che Jurg Zutt ha chiamato l’ordine dell’habitat (1943), cioè l’insieme ordinato delle procedure esistenziali che
tutti necessariamente ci diamo per rendere sicura e percorribile la
vita, il malato – in relazione alla gravità del suo male – ricostruisce artificialmente, come se lo stesse re-imparando, il percorso del
proprio fare, incespicando in ogni tentativo di correggersi. Al di là
delle metafore: cosa c’è di più ‘innaturale’ di una dieta che l’obesità
o i problemi epatici ci intimano di intraprendere costringendoci a
riflettere coscientemente sugli automatismi del gusto, della sazietà,
del piacere? Persino respirare può diventare un atto ‘artificiale’ anche per un semplice raffreddore che non ci fa più usare il naso per
l’entrata e l’uscita dell’aria.
Non è necessario che il nostro corpo – per quanto lo si possa
separare dai processi psichici che lo comandano – sia direttamente
coinvolto perché si verifichi una perdita della naturalità dei comportamenti. Il disagio mentale è, anzi, il luogo elettivo dei ripensamenti
‘artificiali’ più spettacolari delle nostre abitudini. Al di là degli aspetti
più coloriti, il problema, tuttavia, esiste: una gran parte degli uomini
si affligge nel pensare e progettare come compiere gli atti più (apparentemente) istintuali dell’esistenza (la maternità ad esempio) ponendosi domande su ciò che dovrebbe sembrare ovvio. Ricostruire con
percorsi ‘ragionevoli’ ciò che dovrebbe essere compreso nel nostro
repertorio dei sentimenti, porta sempre con sé una riduzione della
«consequenziale naturalità dell’esistenza» (Binswanger 1990, p. 18).
24
A. Bucca, N. Rosania, Pensieri perversi. Filosofia del linguaggio e psicopatologia della gelosia
Sebbene siano fenomenologicamente imparentate, la naturalezza e l’evidenza naturale sono, tuttavia, due manifestazioni dell’essere
radicalmente diverse, per quantità e qualità. Così è pure della loro
perdita nelle vere e proprie patologie mentali. Se volessimo usare
un’espressione paradossale potremmo dire che la naturalezza è una
fenomenologia ontologica, l’evidenza naturale è una fenomenologia etologica. La prima è evolutivamente inclusa nella seconda. La
seconda costituisce il frame bio-psichico della prima. Così perdere la
naturalezza si può ancora inscrivere in una dialettica costante tra il
corso fisiologico e quello patologico dell’esistenza umana: è quindi,
ancora, una tensione positiva che rivela un antagonismo, una lotta,
una ricerca. Perdere l’evidenza naturale, al contrario, indica che si è
varcato un punto di non ritorno. La modalità di esistenza è talmente alterata da configurarsi come ontologicamente altro-specifica. Solo
sulla base di un’accettazione consapevole di questa irriducibilità
etologica, e dell’elaborazione fenomenologico-esistenziale delle sue
conseguenze, da parte della clinica, sarà possibile adottare stili terapeutici realmente efficaci. Queste affermazioni astratte diventano
perfettamente afferrabili quando si analizzano proprio le patologie
che stiamo cercando di descrivere e comprendere e in particolare il
caso dell’autismo.
1.2. Mind-blindness?
Mind-blindness – menti cieche – aveva come titolo il libro di Simon
Baron-Cohen che nel 1995 inaugurava la fortunata stagione della Teoria della Mente (ToM). L’ipotesi di Baron-Cohen è che tutta la fenomenologia e la sintomatologia autistica è spiegabile con l’ipotesi che
i soggetti portatori di questa malattia non riescono a ‘leggere’ nella
mente altrui: sarebbe impedito loro l’accesso alle inferenze sociali
che condizionano il comportamento, cioè la previsione su quello
che potrebbero fare gli altri in una data situazione, la loro aspettativa
sugli stati mentali altrui. La dimostrazione sperimentale di questa
‘cecità’ all’intenzionalità dei comportamenti mentali è stata rilevata
attraverso diversi tipi di test (Baron-Cohen et al. 1985; Baron-Cohen,
Swettenham 1977) che evidenziano l’impossibilità dei bambini auti-
A. Pennisi, Le patologie dell’evidenza naturale. Autismo, schizofrenia, anoressia
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stici di simulare i ragionamenti che sarebbero dovuti essere eseguiti
dai bambini normali posti nella condizione di poter risolvere i problemi solo immaginando come avrebbe ragionato un altro bambino
al proprio posto (famosissimo il test della falsa credenza). La teoria
della mente non è, ovviamente, tutta qui. Chi, come gli autistici,
non è abilitato a leggere le menti altrui, non può neanche intuirne le
intenzioni, sostenerne gli sguardi; non è capace di empatia o partecipazione emotiva come pure di rappresentare e metarappresentare
il mondo attraverso il vincolo pubblico del linguaggio sociale. Da
ciò l’inabilità a comprendere le metafore, l’ironia, a inferire l’infinita
contestualità del mondo, potendosi applicare solamente ai particolari scissi dal tutto. Vede, insomma, sempre gli alberi, e mai la foresta
nel suo insieme, come dall’alto dell’astrazione categoriale.
Secondo Uta Frith (2001) e Uta e Chris Frith (2001) esistono delle
precise basi neurali per i meccanismi dell’interazione sociale carente
negli autistici. Hanno, infatti, trovato – riprendendo una nutrita schiera di studi precedenti – che il fallimento dei processi di mentalizzazione è correlato ad un’alterata funzionalità della corteccia media prefrontale, della giunzione temporo-parietale e dell’amigdala. Ulteriori
studi hanno messo a punto una più precisa mappa neuroanatomica
della teoria della mente (Abu-Akel 2003) rilevando anche l’attivazione
della regione parietale posteriore durante i processi di autorappresentazione degli stati mentali (Vogeley et al. 2004; Berlucchi, Aglioti 1997)
e quella del solco parietale superiore nella rappresentazione degli stati
mentali altrui sia nei primati superiori che nei soggetti umani (Hietanen, Perrett 1993; Jellema et al. 2000; Grèzes et al. 1999). Infine alcune ricerche hanno evidenziato che esistono regioni neurali attivate
sia nell’autorappresentazione degli stati mentali che nella rappresentazione degli stati mentali altrui, suddividendosi in un primo gruppo
di strutture limbiche e paralimbiche (l’amigdala, il giro cingolato anteriore, la corteccia orbito-frontale) e in un secondo gruppo di strutture della corteccia prefrontale e dorsale (mediale ventrale e dorsale,
frontale infero-laterale). Il primo gruppo può risultare indebolito nei
soggetti autistici e schizofrenici. In particolare l’amigdala sembra svolgere un ruolo importante anche nei soggetti con sindrome di Asperger (Baron-Cohen et al. 1999; Fine et al. 2001). Il sistema limbico e
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A. Bucca, N. Rosania, Pensieri perversi. Filosofia del linguaggio e psicopatologia della gelosia
paralimbico e il giro cingolato anteriore sembra, poi, che giochino
un importante ruolo nei processi emozionali e attentivi connessi
ai fenomeni empatici: anche in questo caso autistici e schizofrenici
mostrano anormalità più o meno evidenti (Bauman, Kemper 1994).
Il secondo gruppo di strutture è stato studiato soprattutto da Giacomo Rizzolatti e Vittorio Gallese, che hanno scoperto, quasi involontariamente, il ruolo dei neuroni specchio. Osservati per la prima volta
negli scimpanzè, sono stati localizzati nella loro corteccia premotoria ventrale (f5), l’area più simile all’area di Broca negli uomini. Gli
importanti studi di Rizzolatti e Gallese hanno tuttavia chiarito che
gli eccessi ‘speculativi’ sulle presunte localizzazioni della teoria della
mente non sono affatto giustificate dai risultati ottenuti sull’analisi
neurofunzionale dei neuroni specchio (Gallese 2003).
I più avanzati studi neuroscientifici portano quindi a riflettere
sugli eccessi intellettualistici della teoria della mente. Di fatto sappiamo solo che comportamenti apparentemente diversi come azioni,
emozioni, sensazioni e pensieri, oggetto di operazioni da noi distinte
come imitazione, empatia, percezione e inferenza, vengono attivate
da uno stesso gruppo di neuroni e sia se siamo noi i soggetti attivi
sia che lo siano le persone a noi prossime nello spazio interazionale.
1.3. L’evidenza naturale come ‘cecità cognitiva’
La ‘cecità mentale’ degli autistici, così come la intende l’ipotesi
cognitivista della ToM, è molto lontana da quella che chiamerò qui
la cecità cognitiva di tutte le patologie dell’evidenza naturale, e ciò per
una serie di motivi che cercherò qui di discutere.
Il primo motivo è che la nozione opposta alla patologica cecità
mentale – quindi, per restare nella metafora, la fisiologia della visione mentale – non può mai essere quella della «coerenza centrale»
proposta da Uta Frith: un’idea normativamente gerarchica della vita
mentale in cui tout-se-tient. Se questa ipotesi fosse interamente vera
l’esemplificazione più rappresentativa di questo modello sarebbe il
soggetto paranoide che apparirebbe proprio come uno di quei già
citati «individui eccezionali» che possono «creare una vera e propria coerenza globale» in cui «tutti i fiumi scorrono verso un unico
A. Pennisi, Le patologie dell’evidenza naturale. Autismo, schizofrenia, anoressia
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oceano». Nessun soggetto mostra, infatti, una tendenza alla coerenza
globale come il soggetto paranoide. Lungi dal difettare in coesione,
in capacità di ‘dare un senso’, di vedere il significato e la struttura
in ogni cosa, il paranoide manca al contrario di tendenza critica, per
impiegare un termine neutrale usato dagli psichiatri. Ciò vuol dire
che non riesce ad invalidare il senso, a frenare il ‘fiume’ che lo porta
a trovare per ogni fatto una spiegazione. A confutare, quindi, e non
a produrre, il significato.
La fisiologia della cognizione si fonda quindi più sulla capacità di
controllare che di produrre sensi: una «dieta per la mente» come la definiva il grande matematico paranoide ‘guarito’ John Nash. Un fatto che
indirettamente lo conferma è che anche da parte della ricerca scientifica sperimentale più avanzata si è giunti alla medesima conclusione:
il soggetto schizo-paranoide soffrirebbe più di un’ipertrofia che di un
deficit alla sua ToM la quale finirebbe per sovra-attribuire credenze e
intenzioni agli altri (Abu-Akel 2003). Recentemente la teoria della coerenza centrale è stata sottoposta a più di una critica (Burnette 2005).
Il secondo motivo consiste nella differenza tra il punto di vista
neuroscientifico o neuropsicologico e quello etologico con cui io
guardo al problema delle patologie dell’evidenza naturale: autismo,
schizofrenia e anoressia fra tutte. Per il primo punto di vista l’evidenza naturale consiste in una sorta di dissonanza normativa: il
comportamento anomalo della condotta schizofrenica o autistica
coincide con la violazione delle regole del pensiero, dell’inferenza,
dell’adeguatezza pragmatica. Lo schizofrenico che regala per Natale
una bara a sua figlia malata di cancro (Binswanger 1990), o l’autistico
che reagisce violentemente ad un semplice sfioramento del proprio
corpo (Williams 1992), o l’adolescente anoressica che si lascia letteralmente morire di fame, offendono il senso comune, cognitivo se
non etico degli osservatori.
Gli stessi comportamenti sono osservati dall’etologo come tratti
specie-specifici di organismi umani diversamente organizzati e pertanto ‘fuori posto’ nell’eto-ambiente dei soggetti sani. Schizofrenici,
autistici e anoressici non possono comportarsi diversamente. Le strutture percettive, euristiche, cognitive, ma, soprattutto, ontologiche della
loro fisiologia cerebro-mentale glielo impediscono così come è impe-
28
A. Bucca, N. Rosania, Pensieri perversi. Filosofia del linguaggio e psicopatologia della gelosia
dito alla cognitività olfattiva della formica operaia di giudicare ‘morta’
un’altra formica perfettamente viva e mobile ma spalmata di acido
oleico da un diabolico etologo (Hölldobler, Wilson 1997).
Il terzo motivo è che la nozione di terapia e di guarigione, nel
caso delle patologie dell’evidenza naturale, deve guardare non a questa porzione di mondo a cui il malato non può accedere per motivi
eto-onto-logici, ma a quelle porzioni di mondo – ristrettissime o
molto ampie che siano – entro le quali qualunque essere umano
può pienamente esplicare la propria libertà di esistenza. È qui che,
ancora una volta, ci scontriamo col carattere implicitamente normativo della psicopatologia clinica, neuropsicologica e persino, talvolta,
antropoanalitica (psichiatria filosofica). Per poter infatti iniziare una
terapia etologica delle psicopatologie dell’evidenza naturale occorrerebbe assumere l’ethos dell’osservatore neutrale del comportamento
animale che cerca di capire quali siano le componenti stenotopiche
e quelle euritopiche della specie osservata, che, cioè, sia disposto
a ricostruire dalle fondamenta l’antagonismo incancellabile tra la
fissità specie-specifica e la soggettività degli adattamenti individuali
(Eibl-Eibesfeldt 1995). Ma per far questo dobbiamo abbandonare il
terreno metaforico della metodologia e affrontare il caso concreto
della più misteriosa delle patologie dell’evidenza naturale: l’autismo,
cercando di applicare rigorosamente i principi che abbiamo sin qui
enunciato.
1.4. La fortezza silenziosa: il linguaggio nell’autismo
Abbiamo detto nell’introduzione che tutte le patologie dell’evidenza naturale sono, contemporaneamente, patologie del linguaggio
e che il tipo di deficit linguistico dei soggetti portatori di tali patologie non ha a che fare con incapacità articolatorie o grammaticali ma
con gli usi sociali della semantica, cioè con l’anomalia dei significati
con cui usano le loro parole e costruiscono i loro discorsi. Prescindo, in questa sede, dall’approfondire questo tema in relazione alla
schizofrenia – a cui ho dedicato l’intero mio libro Psicopatologia del
linguaggio (1998) e buona parte della mia ricerca degli ultimi dieci
anni – e all’anoressia a cui ho cominciato appena a dedicarmi. Non
A. Pennisi, Le patologie dell’evidenza naturale. Autismo, schizofrenia, anoressia
29
posso tuttavia esimermi dallo schizzare brevemente il tipo di patologia linguistica connessa all’autismo nei soggetti che hanno conservato un’alta funzionalità.
Come hanno mostrato numerosi studi (Kanner 1946; Rimland
1964) gli autistici, che, come gli schizofrenici, sono in grado di riconoscere le più complicate distinzioni morfologiche, al tempo stesso,
appaiono sempre «in lotta con i significati sottili delle parole» (Frith
1989, p. 162). In molti casi citati sia dalla Frith che dai coniugi Alfred
e Françoise Brauner si assiste ad una forma di spettacolare individualizzazione della comprensione dei significati. Un soggetto negava, ad
esempio, che il cane visto di fronte e di lato avessero lo stesso nome;
un altro era sconcertato dal fatto che un piezoelettrico che era stato
usato per accendere il fornello del gas non si chiamasse fiammifero;
un altro ancora negava il nome di ‘matita’ ad una matita di forma
leggermente diversa da quella che usava abitualmente. Addirittura
una bambina autistica era capace di cambiare molte volte il nome
di uno stesso oggetto che veniva usato in modi diversi. Insomma
la comprensione verbale da parte dei soggetti autistici si fonda «su
un aspetto parziale dell’oggetto denominato […] ogni parola rappresenta una realtà vista da una sola angolazione […] appartiene
soltanto ad un’unica realtà» (Brauner, Brauner 1978, pp. 47-63).
Queste forme di riduzione della comprensione (anomie pragmatiche) comportano sul versante produttivo forme di linguaggio disorganizzato, tangenziale ed egocentrico analogo a quello di alcuni
soggetti schizofrenici (Ozonoff, Miller, 1996), ma soprattutto l’uso
anomalo di termini letterali in contesti inappropriati (Baron-Cohen
1997; Happé 1993; 1996). Naturalmente il significato di ‘letterale’ va
messo in relazione alle esperienze dei soggetti autistici. Sta per
primario, usato per la prima volta: le denominazioni appartengono a un
solo aspetto delle cose di questo mondo. Questo aspetto è in genere quello
che ha colpito il bambino il giorno del suo primo incontro con l’oggetto o
con la persona in questione, o ancora quello che è più importante ai suoi
occhi, in una situazione data e in ragione di certe circostanze (Brauner,
Brauner 1978, p. 47).
30
A. Bucca, N. Rosania, Pensieri perversi. Filosofia del linguaggio e psicopatologia della gelosia
Ad esempio in un caso citato Leo Kanner (1946) un soggetto
chiamava sua nonna ‘55’, perché la individuava col nome dei suoi
anni. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma sono già sufficienti a
connotare la specialità della comprensione in rapporto alla bizzarria della produzione: l’autistico pratica una semantica contro-eraclitea
(«la via in su e la via in giù sono un’unica e identica via») rifiutando
l’accesso alla pluralità delle prospettive, alla loro contraddittorietà
intrinseca. Essi «si bloccano dinanzi alle molteplici possibilità. È già
una vittoria essere riusciti a fissare una parola in un solo significato,
e a mantenerla nel repertorio. La parola deve rimanere legata a una
sola situazione, a un solo significato» (ibidem, p. 61).
Correlata a questa rigidezza della comprensione autistica è la
questione della contestualizzazione del senso. Anche in questo caso
le ricerche condotte sperimentalmente hanno evidenziato che in
test di ripetizione verbale di stringhe di parole che oltrepassano le
normali capacità di memoria a breve termine, i bambini autistici,
diversamente da quelli normali, ricordano in maniera indifferenziata
sia sequenze significative che sequenze senza senso (Frith 1989).
Con uguale strategia procedurale essi operano nella ricostruzione
dei puzzle, preferendo ricomporre la figura spezzata più sulla base
della forma combaciante dei bordi dei singoli pezzettini che non
su quella dell’intero disegno del modello di riferimento. Ciò significa che il soggetto autistico non trae vantaggio dalle informazioni
estraibili dalla struttura semantica, dal contesto significativo in cui
sono incastonate le informazioni percettive.
Sul versante della comprensione già dai lavori di Kanner (1943)
e Hans Asperger (1944), sappiamo che il comportamento linguistico e cinetico degli autistici è stereotipato per eccellenza. Pur tuttavia, analogamente a quanto accade per i fenomeni di anomia, negli
autistici il ricorso alla stereotipia è spesso fonte di comportamenti
bizzarri, difficilmente interpretabili come reazione fisiologica alla minaccia di arresto del fluire discorsivo.
Per capire la bizzarria delle stereotipie autistiche occorre considerare
che l’arricchimento lessicale del paziente è contrassegnato da un andamento incostante e non progressivo. I Brauner riportano una serie di
casi in cui l’interesse del bambino autistico per le parole di cui va impa-
A. Pennisi, Le patologie dell’evidenza naturale. Autismo, schizofrenia, anoressia
31
rando il significato, soffermandovisi in modo sistematicamente stereotipato, dura il tempo necessario a fissarne le prime coordinate funzionali.
Poi è come se la storia di quelle parole si fermasse. Così il verbo ‘assottigliare’ significherà per sempre «lavorare in una falegnameria» (luogo in
cui in origine il bambino ha visto piallare il legno che perdeva spessore);
‘sforzarsi’ sarà uguale ad «essere severo, serio» (senso appreso dall’atteggiamento degli insegnanti) ecc. (1978, pp. 77-99).
Il nuovo senso di un vocabolo, insomma, non può coesistere col
vecchio, ad ogni nuovo uso corrisponde un nuovo oggetto semantico: è impossibile per l’autistico arricchire il senso di una parola
facendo convergere in essa tutte le modificazioni che man mano gli
si vanno stratificando addosso. Se dal versante della comprensione
tutto questo indicava un’incapacità di contestualizzazione globale,
con ipersviluppo di quella locale, dal punto di vista della produzione
e, quindi, dell’estensione del lessico, il fenomeno si va configurando
come un’atomizzazione pragmatica del linguaggio.
La pervasività del comportamento stereotipato degli autistici è,
a sua volta, l’effetto di una mancata contestualizzazione specifica (il
senso nuovo di una parola in relazione al significato già acquisito)
all’interno di una più ampia mancata contestualizzazione globale (il
senso della sua organizzazione semantica in relazione alle organizzazioni semantiche concorrenti).
Accanto a queste incomprensibili alterazioni nella produzione e
nella comprensione semantica gli studi più recenti di natura sperimentale hanno rilevato la scadente competenza narrativa dei soggetti
autistici (Capps et al. 2000), la difficoltà a comprendere l’ironia (Ozonoff, Miller 1996); lo spiazzamento rispetto alle regole conversazionali (Glüer 2003), la difficoltà ad usare i pronomi e, più in generale,
tutte le componenti indicali del linguaggio (Perconti 2003), l’anomala
disprosodia persino dei soggetti linguisticamente più attivi (Happé,
Frith 1996; Van Lancker, Cornelius, Kreiman 1989; Paul et al. 2005).
L’autistico ‘ricco’, anche quando, riesce a comunicare, si comporta come un estraneo di fronte al linguaggio: se ne distacca attraverso
una ritmicità monotona e ‘aliena’ senza alcuna apparente partecipazione emotiva. Il soggetto autistico, insomma, sembra non riuscire
ad accedere al «senso comune del linguaggio» (Naito et al. 2004).
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A. Bucca, N. Rosania, Pensieri perversi. Filosofia del linguaggio e psicopatologia della gelosia
1.5. Etologia autistica: la cognitività visuo-spaziale
Gli studi sul linguaggio degli autistici pongono in serio dubbio
che la ToM sia il core cognitive deficit dell’autismo (Martin, McDonald
2004). O la ToM è un deficit che si ‘aggiunge’ al disturbo comunicativo centrale nella sindrome autistica, oppure – più probabilmente – l’alterazione della cognitività linguistica rende semplicemente
impossibili i processi inferenziali che sono sottesi alla teoria della
mente nella forma specie-specifica umana.
Certamente, infatti, forme meno evolute di percezione dell’intenzionalità e processi inferenziali di minore complessità sono presenti in
una grande quantità di specie animali a partire da stadi evolutivi anche
molto bassi (Baron-Cohen 1995). Il problema che si pone, allora, è
quello di capire se esistano altri tipi di abilità inferenziali complesse non
linguistiche nelle formae mentis autistiche. Detto in altri termini: se ciò
che in neuropsicologia sono apparsi come «isolotti di capacità» (Frith
1989) o circoscritte abilità a-contestuali degli autistici alto-funzionali,
non si rivelino le cime emergenti di interi arcipelaghi diversamente posizionati sul piano di un’ontologia cognitiva che la cecità linguistica impedisce di vedere ai soggetti ‘normali’. Helen Tager-Flusberg (2004)
e soprattutto Martin Brüne (2003) introducono, da questo punto di
vista, alcune cautele metodologiche nell’analisi sperimentale invitando
a riesaminare le metodologie di indagine sulla ToM e sul linguaggio
autistico alla luce di una più generale valutazione del qi non linguistico, dimostrando così come tutti i valori relativi ai processi inferenziali
varino con il co-variare del quoziente intellettivo, indipendentemente
dalle capacità di ‘leggere le menti’.
Un altro dato che andrebbe in questa direzione ci è fornito da
tutti quegli studi che dimostrano come opportuni interventi guidati
da metodologie alternative – fondate, ad esempio, sui processi attentivi o sulla pittorialità – possano affinare le capacità traduttive
di ciò che Francesca G. Happé ha definito lo specifico stile cognitivo
autistico, in espressioni linguistiche accettabili. Lo stesso importante
saggio di Ingerith Martin e Skye McDonald (2004), al termine di una
lunga analisi sulle cause delle particolarità linguistiche dell’autismo,
ha introdotto il dubbio che le accezioni semantiche letterali dei sog-
A. Pennisi, Le patologie dell’evidenza naturale. Autismo, schizofrenia, anoressia
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getti autistici non derivino solo da specifici indebolimenti della ToM
ma anche dalla caratteristica centratura cognitiva autistica attorno al
«dominio visuo-spaziale» (p. 326).
Ciò che comincia insomma ad emergere è la sostanziale irriducibilità dell’intelletto autistico alle modalità di funzionamento cognitivo ordinario, anche nei soggetti autistici più intellettualmente
sviluppati. In altri termini, voglio qui sostenere la tesi di una sostanziale differenza etologica tra il pensare autistico e il pensare ordinario
determinata dal primato visivo nel primo e dal primato uditivo-linguistico
nel secondo. Questa sostanziale e irriducibile differenza determina evidenze naturali diverse, correlate ad altrettanto diverse cecità cognitive. In parole povere: come il pensiero ordinario si articola attorno ad uno sfondo concettuale acquisito attraverso il linguaggio
ed è ‘cieco’ a determinate soluzioni ‘visive’ ai problemi, allo stesso
modo il pensiero autistico, articolato concettualmente attorno ad
uno sfondo visuale e adatto a risolvere problemi di natura spaziale,
risulta totalmente ‘cieco’ in relazione alle categorizzazioni e alle metaforizzazioni linguistiche. Da questo genere di differenze cognitive
scaturisce l’apparente enigmaticità dell’autismo, con i suoi problemi
di adattamento esistenziale che troppo spesso la clinica disconosce,
producendo più danno che miglioramenti. A sostegno della mia ipotesi diverse testimonianze di soggetti autistici ad alto funzionamento
riportano la difficoltà di comprendere la modalità di visione del mondo
di chi impiega il linguaggio per categorizzare la realtà, sostenendo di
vedere negli eventi, nella natura, cose che i soggetti normali, quelli
che pensano linguisticamente, non riescono nemmeno a percepire.
Così Temple Grandin descrive la sua tipologia di cognizione:
Io penso in immagini. Le parole sono come una seconda lingua per me. Io
traduco le parole, sia pronunciate che scritte, in filmati a colori, completi
di suono, che scorrono come una videocassetta nella mia mente. Quando
qualcuno mi parla, traduco immediatamente le sue parole in immagini.
Le persone che pensano su base linguistica spesso trovano difficile capire
questo fenomeno ma […] il pensiero visivo mi ha permesso di costruire
interi sistemi nella mia immaginazione. […] Quando ero bambina, e poi
anche da adolescente, credevo che tutti pensassero in immagini. Non ave-
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A. Bucca, N. Rosania, Pensieri perversi. Filosofia del linguaggio e psicopatologia della gelosia
vo idea del fatto che i miei processi di pensiero fossero diversi. Infatti,
non mi resi conto pienamente dell’entità di queste differenze fino a poco
tempo fa. Alle conferenze e al lavoro, iniziai a fare alle altre persone domande molto specifiche su come accedevano alle informazioni nella loro
memoria. Dalle loro risposte appresi che le mie abilità di visualizzazione
sono di gran lunga superiori a quelle della maggior parte delle persone
(Grandin 1995, pp. 23-4).
Grazie a questo processo la Grandin riesce a penetrare nella «mente
delle mucche», ricostruendo visivamente la condizione spaziale dei
bovini e risolvendo difficoltà cui altri ingegneri zootecnici (le menti
‘linguistiche’) non avevano trovato mai soluzione. Ecco come funziona il suo motore cognitivo visuo-spaziale:
Creo continuamente nuove immagini prendendo tante piccole parti di
immagini che ho nella mia videoteca mentale e mettendole insieme. Ho
ricordi video di ogni cosa con cui ho lavorato: cancelli di acciaio, recinti,
sistemi di chiusura, pareti in cemento e così via. Per creare nuovi progetti,
recupero frammenti e pezzi della mia memoria e li combino in un nuovo
insieme. La mia capacità di progettazione migliora progressivamente via
via che arricchisco la mia videoteca di nuovi immagini visive. Ricavo queste nuove immagini sia dalle esperienze reali che compio sia dalla traduzione di informazioni scritte (ibidem, p. 25).
Qualunque linguista o psicolinguista sa che la memoria lessicale
è strutturata diversamente nella cognitività ordinaria. I processi di
indicizzazione semantica sono rivolti a puntatori morfosintattici a
loro volta connessi ad alberi strutturati dell’articolazione linguistica.
È come se la Grandin possedesse una modalità di rappresentazione
ontologica della realtà differente rispetto alla norma e basata non
sulla categorizzazione degli eventi che consente di generalizzare e
astrarre cluster applicabili in contesti diversi, ma sulla memorizzazione specifica di dettagli. Ciò le consente di adottare una prospettiva
cognitiva completamente differente da quella basata sul linguaggio,
cui la Grandin si approccia solo grazie a ‘traduzioni’ continue di
informazioni visive in parole, come se si trattasse di una seconda
lingua. Ciò che per gli autistici come la Grandin che categorizzano
A. Pennisi, Le patologie dell’evidenza naturale. Autismo, schizofrenia, anoressia
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il mondo visivamente è naturale, ovvio, la modalità ‘spontanea’ di
percepire la realtà e dare spiegazione agli eventi, per i ‘normodotati’ è assolutamente incomprensibile: le menti linguistiche sono cognitivamente cieche a interpretazioni e soluzioni visive della realtà.
L’autismo, così come la schizofrenia e in un certo senso anche l’anoressia, appare dunque come una modalità di esistenza differente
rispetto a quella linguistica condivisa, una forma di adattamento esistenziale fondato sulla visione e non sulla articolazione linguistica.
L’enigmaticità dell’autismo allora, deriverebbe dalla diversa modalità di concettualizzazione del mondo, un mondo fatto di immagini
non di parole, di scene memorizzate non di ricordi ricostruiti, di usi
iperspecifici non di generalizzazioni. Ecco perché il pensiero autistico può essere definito una patologia dell’evidenza naturale linguisticamente costruita: i comportamenti autistici si scontrano con
un mondo in cui i sensi vengono concordati tramite il linguaggio.
L’inadeguatezza pragmatica che ne consegue viene superata solo in
sporadici casi in cui, grazie al preservamento di alcune capacità, il
soggetto autistico riesce a tradurre le proprie rappresentazioni visive
in quei significati pubblici, condivisi che le comunità sociali continuamente producono. È su questa modalità di relazione eto-cognitiva
che è possibile intravvedere quanto il linguaggio costituisca la modalità privilegiata di rappresentazione del mondo per il sapiens: quando
questa viene alterata, allora l’adattamento ontologico viene modificato, producendo modalità di esistenza e rappresentazione della
realtà irriducibili a quelle ordinarie poiché fondate su modi cognitivi
differenti.