Rosario FERRARA L’INCERTEZZA DELLE REGOLE TRA INDIRIZZO POLITICO E “FUNZIONE DEFINITORIA” DELLA GIURISPRUDENZA (*) La certezza può essere dolore. L’incertezza è pura agonia. Giorgio Faletti Sommario: 1. Considerazioni introduttive. - 2. Alle origini del problema: l’incertezza delle regole e il diritto amministrativo. - 3. Alla ricerca dei fattori costitutivi e strutturali capaci di determinare l’incertezza delle regole. - 4. Ubi scientia ibi iura. Verso quali scenari? - 5. Segue: la definizione delle regole tra indirizzo politico e ruolo della giurisprudenza. - 6. Rilievi conclusivi: nel segno dell’incertezza. 1. Considerazioni introduttive. Si può ragionevolmente supporre che nessuna epoca - e dunque nessun sistema giuridico, comunque organizzato- si sia caratterizzato per una stabilità assoluta, e dunque per una piena e totale certezza (senza se e senza ma!) circa il significato, il valore, la forza cogente ecc. delle regole preordinate a rendere possibile l’esercizio delle funzioni pubbliche, delle libertà private ecc., e cioè volte a realizzare quegli antichi obiettivi che già il diritto romano affermava in modo forte e consapevole. Ubi societas ibi jus, naturalmente, essendo scopo primario ed irrinunciabile del diritto quello di impedire la ragion fattasi, ossia di operare ne cives ad arma ruant. E, proprio restando sul diritto romano siamo già in grado di intercettare un fondamentale dato di sistema che presenta, mutatis mutandis, una perdurante attualità: la certezza delle regole passa attraverso la quotidiana attività interpretativa delle regole stesse ad opera della giurisprudenza e dei prudentes, attività che molto spesso di presenta come un vero e proprio processo di costruzione e/o di ridefinizione delle regole medesime (1). Mi arresto immediatamente non essendo mia intenzione inoltrarmi su un percorso di storia del diritto e delle istituzioni, limitandomi ad una semplice quanto generalissima constatazione, sulla quale ritornerò nel corso del lavoro. E cioè se, come scriveva Messer Lorenzo, “di doman non c’è certezza”, ed è quindi possibile arguire che, anche nel contesto di realtà politiche ed economico- sociali forse meno complicate (ad esempio perché caratterizzate da una globalizzazione più morbida e soprattutto diversa per le forme e gli strumenti con i quali si manifestava), la certezza della regola non fosse un valore assoluto, è tuttavia ben evidente il cambio di passo, in primo luogo culturale, che sembra conformare il nostro tempo. Le dottrine del relativismo fallibilista, le teorie del caos e della società del rischio nonché, last but not least, le concettuologie del mondo liquido (rectius, dell’inferno liquido) (2) ci rappresentano il senso di un vero e proprio rivolgimento copernicano, ossia il passaggio da un mondo solido ed affidabile, e forse più semplice, imperniato su alcune certezze (poche ma buone, verrebbe da dire!) a realtà sicuramente più magmatiche nelle quali la certezza cessa d’essere un valore assoluto e soprattutto scontato, risolvendosi piuttosto in una proposizione ottativa, ossia nell’obiettivo (lontano e talora irraggiungibile) verso il quale tendere. E, su tutto domina la crisi della scienza (3), come cercherò di meglio precisare, nel senso che, quasi paradossalmente, l’incessante, inarrestabile progresso della scienza e delle tecnologie applicate ne determina la crisi, come se il modello rinascimentale al quale siamo in qualche modo abituati (quello della scienza senza frontiere) (4) fosse andato repentinamente in blocco. E, se la scienza e la tecnologia corrono, nel senso che superano se stesse in quanto (drammaticamente) superate da quegli stessi eventi che vorrebbero fronteggiare, allora è lo stesso principio della certezza scientifica, e dell’affidabilità delle risposte e delle soluzioni che la scienza propone, ad andare irrimediabilmente in crisi, quasi per un inatteso cortocircuito dell’intelligenza, della ragion pura come della ragion pratica. E si profila sul nostro scenario, come logica conseguenza di ciò, un fenomeno forse nuovo, o comunque non così evidente nel recente passato: l’emersione del “diritto della scienza incerta” (5), espressione con la quale può essere designata una (in parte) nuova condizione esistenziale del diritto (rectius, della regolazione mediante il diritto di ciò che appare socialmente rilevante), nel senso che è proprio il diritto ad essere chiamato a disciplinare, e prima ancora a tentare di definire, concetti, eventi, necessità, criticità, ecc. che sono propri del mondo reale (di ciò che può essere definito come il nostro empirico quotidiano) che la scienza e le moderne tecnologie sono incapaci di fronteggiare e gestire con pienezza di risultati, disvelando così un importante deficit di performance già sul piano della semplice messa a fuoco del problema e della gestione e della stessa comunicazione delle soluzioni che a questo stesso si pensa di dare. Alla luce dei nostri principi è sicuramente fuor di discussione che il diritto non può chiamarsi fuori da siffatta attività: ubi societas ibi jus, naturalmente, e, d’altro canto, l’esercizio di ogni funzione pubblica è certamente inesauribile e soprattutto irrinunciabile e indeclinabile (6). Al di là dei tanti problemi che tale nuovo modo di profilarsi del diritto e delle sue finalità pone sul terreno istituzionale, e costituzionale (chi si occupa, di fatto e/o di diritto, di elaborare i contenuti di siffatto diritto della scienza incerta mettendo in campo le risposte concrete?), mi sembra tuttavia già di un certo peso il tipo di suggestioni che si possono ritrarre dal fatto in se stesso: è il diritto che è chiamato a surrogare, in qualche modo, la funzione maieutica e conformativa della scienza e, pertanto, ad operare per ricondurre ad ordinamento concettuale la realtà empirica e magmatica nella quale si vive (7). 2. Alle origini del problema: l’incertezza delle regole e il diritto amministrativo. Mi premeva delineare il quadro generale (il contesto) nel quale poter collocare alcune riflessioni e considerazioni di maggior dettaglio e, d’altro canto, su questo stesso “quadro generale” si dovrà indubbiamente ritornare per testare il peso giocato da una serie di casi pratici, peso che solo il loro corretto posizionamento nel contesto culturale adeguato consente di apprezzare e valutare sino in fondo, almeno a mio modo di vedere. E continuo, apparentemente, con una provocazione la quale, in realtà, è nulla di più che una semplice constatazione: se c’è una famiglia di giuristi che è da sempre straordinariamente abituata all’incertezza al punto da esserne addirittura affascinata, questa è proprio la nostra, ossia quella degli amministrativisti e forse dei pubblicisti tout court. Coglie pienamente nel segno un’illustre dottrina (8) quando ci rammenta che il diritto amministrativo è per la sua stessa natura, e derivazione genetica, un oggetto incerto ed oscuro che viene quasi modellato a proprio uso e consumo, in relazione alle proprie necessità, nelle differenti esperienze nazionali. E, d’altro canto, lo stesso antagonismo concettuale fra i modelli di civil Law (alla francese, essendo quello transalpino un “sistema mondo”) (9) e quelli di common Law è verosimilmente un dato del nostro recente passato, sebbene una qualche ricorrente tensione tra il due “mondi” sia ancora visibile, magari anche semplicemente sotto traccia. L’incertezza (se non l’oscurità) del diritto amministrativo, se vogliamo continuare ad utilizzare tali espressioni, si connettono poi abbastanza direttamente con la sua formazione ed evoluzione di matrice giurisprudenziale, evoluzione di matrice giurisprudenziale che continua in modo più schietto e vigoroso (almeno nel nostro paese) anche grazie ai varchi aperti ed agli elementi di novità introdotti dal nostro “codice” del processo amministrativo (10). La formazione di derivazione giurisprudenziale della nostra branca disciplinare ne costituisce senza dubbio alcuno il tratto saliente e qualificante; e se è verosimile che ciò possa aver contribuito ad alimentare una (molto relativa) incertezza e provvisorietà delle soluzioni concrete offerteci dalla nostra case Law, anche in ragione delle non infrequenti oscillazioni giurisprudenziali, è tuttavia del pari fuor di dubbio che tale attività magistrale, a carattere definitorio e costruttivo, si è soprattutto disvelata, principalmente nel recente passato, come un fondamentale fattore di innovazione e persino di stabilità (al di là di ogni diversa aspettativa!). Come un fattore capace, in altre parole, di garantire innovazione e continuità, e quindi la flessibilità e la stabilità del sistema delle tutele giudiziali del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione. Mi sembra quindi corretto supporre, pur con gli scontati margini di approssimazione di ogni ricognizione di campo che (del tutto incertamente!) voglia occuparsi del tema dell’incertezza delle regole, che non è di per se stessa l’attività definitoria della nostra giurisprudenza (e non solo amministrativa) ad aver determinato la crisi di certezza, e pertanto quasi identitaria, delle regole giuridiche mettendone conseguentemente in crisi la fondamentale funzione di selezione e regolazione degli interessi pubblici e privati. Ci deve essere pertanto indubbiamente dell’altro, nel quadro dei contemporanei sistemi complessi di multilevel governance, tipici e propri di un mondo profondamente segnato dalla globalizzazione, nel cui contesto la giurisdizione occupa sicuramente un collocazione strategica e centrale, costituendone uno degli attori istituzionali di maggior rilievo, ma certamente non l’unico. Oppure, abbordando il nostro problema da un diverso angolo visuale ci si può chiedere come e perché, e con quali ricadute di ordine sistemico, il giudice (ordinario, amministrativo, ecc.) finisca coll’essere molto spesso al centro dei processi circolari di elaborazione, di definizione e, naturalmente, di modificazione delle regole, e con quali conseguenze sul piano della loro affidabilità e certezza nel tempo e nello spazio. 3. Alla ricerca dei fattori costitutivi e strutturali capaci di determinare l’incertezza delle regole. In via meramente ipotetica, e pertanto senza che sia ovviamente possibile nutrire alcuna sicurezza vuoi in merito alla rilevanza dei fenomeni che abbiamo sotto gli occhi (rilevanza che deve essere apprezzata sul piano quali-quantitativo), vuoi eventualmente in ordine alle risposte ed alle soluzioni che possono essere proposte, mi sembra comunque possibile una prima considerazione di massima: alcuni tra i fattori capaci di determinare e/o di alimentare una certo preoccupante incertezza delle regole sono per così dire di antico e ben noto insediamento, quasi coessenziali al processo di formazione dello Stato di diritto, e sia negli ordinamenti di civil Law che di common Law; altri fattori, invece, appaiono, in qualche misura, come il riflesso della contemporaneità oppure sono più semplicemente enfatizzati in sintonia (e in conseguenza) dei processi di mondializzazione in atto. Problema antico e ricorrente, con una serie di criticità che non ha mai trovato (nonostante tutto!) risposte definitive ed appaganti, è quello relativo ai rapporti fra poteri dello Stato. Tema, questo stesso, tanto antico quanto terribile in quanto mette a nudo il sistema nervoso dello Stato di diritto, e soprattutto ne scandisce il processo di evoluzione, e anche di radicale trasformazione, se non addirittura di radicale e forse inatteso superamento (11). Ciò che mi preme sottolineare, tuttavia, quasi a confermare quanto tali criticità siano costanti, o comunque ricorrenti, è come la dottrina dei concetti giuridici indeterminati (e quelle, collegate e connesse, della norma in bianco e della clausole generali) presenti una sua perdurante vitalità (12). Che vi sia, infatti, uno spazio in qualche modo libero (maggiormente libero) entro il quale gli apparati amministrativi possono esercitare una più o meno ampia facoltà di apprezzamento discrezionale è cosa fin troppo nota per dover essere ricordata. E mi sembra egualmente evidente che lo spazio nel quale si può “giocare” (lo Spielraum nei confini del quale si dispiega la freie Ermessen, ossia la discrezionalità libera delle amministrazioni pubbliche) sarà tanto più esteso quanto minore sia la capacità della legge (ma in genere della norma, sia di relazione che di azione) di ordinare e selezionare gli interessi che debbono essere curati e gli obiettivi che debbono essere raggiunti. Il che avviene, a mio avviso, proprio quando la norma (anche una norma costituzionale o dello stesso diritto originario dell’Unione europea) presenti un profilo di (troppo) elevata programmaticità, non discendendo da ciò alcun vincolo particolarmente stretto e cogente idoneo ad orientare in modo condizionante, se non addirittura a vincolare, il potere di apprezzamento discrezionale delle amministrazioni pubbliche. Sono ovviamente molteplici e variegati gli esempi che possono essere passati in rassegna: che cosa è davvero il principio di precauzione codificato dall’art. 191 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea? E, in che modo, alla luce di quali principi almeno parzialmente vincolanti, e cioè direttamente ed immediatamente applicabili, sarà possibile mediare fra la ragioni dell’economia e quelle della tutela ambientale, alla luce dell’art. 41 della Costituzione (ad esempio in relazione alla nota vicenda dell’ILVA di Taranto)? E, sempre restando su quest’ultimo caso, davvero emblematico, e sul quale ritornerò, ma quale significato ha la nozione di “stabilimento industriale di interesse strategico nazionale”? E sarà tale sulla base di quali indici quali-quantitativi (12)? E, ancora, recentemente, quale significato deve essere attribuito alla nozione di “area di rilevante interesse nazionale”, in vista della bonifica ambientale che deve essere obbligatoriamente realizzata (così il decretolegge c.d. sblocca Italia, 12 settembre 2014, n. 133)? Senza inoltrarci in considerazioni di maggior dettaglio, per le quali si può rinviare al pensiero della nostra dottrina (ed ancor prima alle elaborazioni della scienza giuridica tedesca della seconda metà dell’ottocento) (13), risulta comunque chiaro che quanto maggiore sia l’indeterminatezza di un concetto posto dalla regula iuris tanto più rilevante e marcato sarà il potere di apprezzamento discrezionale degli altri attori istituzionali: della giurisdizione ma degli stessi apparati amministrativi che sono chiamati a fare applicazione, sul terreno, di regole e principi spesso nobilissimi e seducenti, e tuttavia obiettivamente generali ed indeterminati, e in quanto tali forieri di molteplici, variegate ed anche antagoniste soluzioni interpretative. Mi sembra importante cogliere questo dato di fatto, nel senso che il diritto vivente (14) sarà sicuramente rappresentato (anche) dalle politiche costituzionali, nel senso che, secondo quanto si ricorda in dottrina (15), la Corte costituzionale non giudica la legge, e pertanto direttamente il legislatore, ma la legge in quanto interpretata dalla giurisprudenza costante; e, tuttavia, se questo è vero, è del pari evidente che alle politiche costituzionali si aggiungono le politiche dell’amministrazione tanto più importanti ed a contenuto definitorio quanto più marcato sia il margine di indeterminatezza delle norme, e dunque dei concetti giuridici, dei quali deve essere curata l’applicazione. Impossibile, ovviamente, non interrogarsi su quanto e come (e con quali verosimili conseguenze) l’incrocio di tali politiche poste in essere da differenti attori istituzionali, con fatti e momenti di possibile convergenza e/o di conflitto, possa risolversi, inesorabilmente, nell’implementazione dell’incertezza o comunque nella dequotazione delle connessioni di senso, di significato e di valore delle regole delle quali si è chiamati a dare applicazione. Mi limiterò ad alcune semplici constatazioni, meri corollari che in qualche misura (ora in modo netto e quasi in automatico ora secondo una linea di derivazione meno diretta), si ricollegano alle considerazioni appena fatte. L’incertezza delle regole che è figlia della indeterminatezza delle regole stesse sembra infatti concorrere a determinare fatti conseguenziali di un certo peso in se stessi obiettivamente forieri di ulteriore, e più rilevante, incertezza. La legge, questo “mostro sacro” sul quale poggiano le fortune e le glorie passate e presenti di quella nobilissima creatura che è (stata), e forse continuerà ad essere, seppure in forme totalmente rinnovate, lo Stato di diritto, la legge in quanto architrave di ogni ordinamento giuridico a base legale, e sia nel paesi di common Law che di civil Law, è sicuramente in crisi, in crisi di identità e di ruolo, di quel ruolo che è chiamata a giocare nella realtà concreta e materiale degli ordinamenti complessi del mondo contemporaneo. Da ciò discende, a tutta evidenza, un fenomeno sicuramente pernicioso, o comunque capace di veicolare un’incertezza per così dire stabile, drammaticamente fisiologica e quasi “istituzionale”, quasi si trattasse di un elemento costante e strutturale, di un punto di non ritorno: l’incapacità, oppure l’enorme difficoltà, della legge di selezionare e di ordinare secondo una scala in qualche modo gerarchica gli interessi dei quali debbono essere disposte la ricognizione e la tutela. Il problema è, ovviamente, davvero generale e mi sembra possibile constatare che la stessa Corte costituzionale, finisce quasi deliberatamente, per collocarsi su questa stessa lunghezza d’onda, quando afferma, ad esempio, che la tutela dei diritti costituzionalmente riconosciuti è di tipo sistemico (e quindi oltre, e quasi a prescindere, dal loro posizionamento su una scala gerarchica di valori che debbono essere comparati e bilanciati) (16) oppure allorché sostiene che la cura di un interesse, pur costituzionalmente fondato, sarà efficacemente assicurata per il sol fatto che il suddetto interesse viene adeguatamente considerato nel contesto del procedimento amministrativo, ancora un volta quasi a prescindere dal contenuto dispositivo della decisione finale (17). E cioè l’incapacità della legge (o della stessa Costituzione, nell’interpretazione della sua forma materiale in quanto lebendige Verfassung?) di muoversi con spirito autenticamente selettivo nella “selva oscura” delle posizioni soggettive declinate dalle norme dell’ordinamento finisce col consegnare ad altri attori questo stesso compito (una sorta di mission impossible dalla quale non ci si può tuttavia chiamare fuori). E la ricchezza e la complessità dell’ordinamento, ossia la sua “grande bellezza” (anche di questo, ovviamente, si tratta!), possono, ahimè, risolversi in un fattore oggettivo di volatilità e di incertezza delle regole, proprio perché la loro gestione sul campo, e soprattutto la loro piena definizione a monte, saranno obiettivamente nelle mani vuoi della giurisdizione (e non solo costituzionale), vuoi delle amministrazioni pubbliche. La crisi d’identità e di ruolo della legge (rectius, della sua funzione ordinatrice) può essere inoltre apprezzata anche da un altro duplice punto di vista. Può forse sembrare un paradosso, oppure il prodotto perverso di un cortocircuito dell’intelligenza e della razionalità (sostantiva quanto procedurale), ma la crisi della legge contribuisce (anche) a determinare l’ipertrofia iperbolica della normativa, ossia l’eccesso di regolazione, con il ricorso ad una pluralità di fonti le quali, nel contesto della globalizzazione, sono di origine transnazionale e/o internazionale, dell’Unione europea come degli ordinamenti nazionali, fonti primarie oppure secondarie, fonti di natura tradizionale oppure di soft Law, ecc. Su tale aspetto del problema ritornerò, limitandomi per ora ad alcune osservazioni di massima. Il caos normativo che sembra caratterizzare il “mondo liquido” nel quale gli operatori del diritto sono chiamati a giocare il loro ruolo, fa pensare a quanto, nel lontano 1845, un sommo studioso come A. de Tocqueville già sosteneva senza mezzi termini ragionando intorno alla “democrazia in America”: la frequenza delle leggi” è un male in assoluto, quando pure siano buone (18). Non riesco ad immaginare quali potrebbero essere le valutazioni e le conclusioni di un nostro dibattito intorno alla qualità della regolazione, sia nel momento attuale che nel recente passato (19), ma un dato certo può essere tuttavia intercettato: la frequenza della legge (rectius, delle regolazioni qualunque sia l’autorità dalla quale provengono e qualunque sia la “forma” dell’atto grazie al quale vengono messe in campo) è sicuramente foriera di instabilità sistemica e dunque di incertezza, di una incertezza quasi esistenziale allorché ad essere sottoposte a continue, e devastanti, operazioni di destrutturazione/ricostruzione siano fondamentali leggi di struttura dell’ordinamento, quale sicuramente è la legge generale sul procedimento amministrativo. E molte altre considerazioni potrebbero essere naturalmente fatte perché davvero il sistema delle fonti del diritto (e non solo nel nostro paese, ovviamente) sembra trovarsi in una condizione di progressiva liquefazione, in uno stato esistenziale di manifesta liquidità. Ossia, quasi all’incrocio fra le (buone) ragioni della tradizione dello Stato di diritto, il cui baricentro era sicuramente costituito dal ruolo conformativo giocato dalla legge (dalla rule of Law, a conferma della contiguità e vicinanza dei sistemi a diritto amministrativo e di quelli di common Law) e le (non meno buone) ragioni che spingono a mettere in campo strumenti di regolazione e di gestione degli interessi meno rigidi e cristallizzati, e pertanto capaci di una più immediata e pronta risposta (e cioè di una risposta flessibile) alle domande, e talora agli imperativi, della globalizzazione. Sotto questo profilo, non essendomi tuttavia possibile approfondire il discorso, parrebbe anche verosimile supporre che la stessa reviviscenza (fra alti e bassi) della lex mercatoria, in quanto legge dei traffici e degli scambi, risponda ad un’analoga esigenza di flessibilità, talmente radicale e profondamente avvertita dagli operatori economici, da postulare l’intervento surrogatorio e/o integrativo del mercato in funzione della regolazione quanto più possibile in autonomia del ciclo economico e dei suoi percorsi, al di fuori (oltre e prima) della tradizionale attività pubblicistica di conformazione del diritto d’impresa (20). Anche senza effettuare una qualche scelta di campo, e quindi cercando sempre di passare in rassegna i fenomeni che abbiamo sotto gli occhi senza indossare gli “occhiali deformanti dell’ideologia”, mi sembra comunque ragionevole pensare che siffatto modello caotico sia obiettivamente foriero di incertezza, e di un’incertezza crescente anche quando essa venga ad essere determinata dalla deliberata ricerca di una maggiore flessibilità (e quasi di una ricercata provvisorietà) delle regole del gioco che si vogliono introdurre. Alla luce di quanto fin qui prospettato, mi sembra tutto sommato plausibile pensare che i fattori di crisi ai quali ho fatto cenno siano in qualche modo costanti e sistemici; hanno le loro radici nei gorghi profondi dai quali sono progressivamente emerse le istituzioni del modello di Stato legale, prima, e dello Stato sociale poi, gorghi profondi nei quali la tensione tra politica ed amministrazione, fra l’indirizzo politico-legislativo e la funzione definitoria della giurisprudenza veniva, per così dire, comunque metabolizzata e digerita nel contesto di una realtà sufficientemente coesa, in quanto fondamentalmente coesi e solidali erano gli attori che si muovevano sullo scenario della politica e delle istituzioni. Sicché l’incertezza era sicuramente possibile, fisiologicamente possibile, ma – possiamo sicuramente concludere – sotto controllo, ossia rimediabile e gestibile. Quegli stessi fattori sembrano invece oggi giocare un ruolo infinitamente più importante e risolutivo perché è il mondo ad essere cambiato, ossia il contesto e conseguentemente gli attori che ci si muovono dentro. A conferma di ciò mi sembra necessario fare cenno ad un rilevantissimo fattore caotico, di importanza crescente e tipico e proprio delle democrazie stabilizzate del secondo dopoguerra, che, da un lato, origina dall’alta incertezza sistemica degli ordinamenti complessi e che, dall’altro lato, è esso stesso causativo di ulteriore, crescente e talora ingestibile incertezza. Mi riferisco al caos istituzionale che governa i contemporanei processi di allocazione e di distribuzione delle competenze (rectius, del potere di regolare e disciplinare i settori sensibili della società, e dunque dell’ordinamento), con esiti spesso incerti e provvisori se non addirittura oscuri e persino indecifrabili Chi fa e cosa fa? Ecco una domanda, antica ed oltremodo attuale, con la quale si mette sicuramente a nudo la complessità dei sistemi multilivello evidenziandosene, allo stesso tempo, la relativa fragilità strutturale, o comunque la condizione di instabile, permanente liquidità. Liquidità, la quale è tanto più marcata e visibile, e pertanto di non agevole gestione, quanto più il potere che deve essere comunque esercitato, perché indeclinabile, sia volto a fronteggiare l’emersione di eventi non prevedibili, ossia ad affrontare emergenze e rischi la cui insorgenza produce (fra l’altro) il possibile risultato di alterare e/o variare l’ordine delle competenze così come attribuite in via ordinaria (21). Come ho appena accennato si tratta di questione antica, e tuttavia estremamente attuale, secondo quanto disvela l’esperienza costituzionale dei sistemi federali e confederali (22), nei quali il rapporto fra il “centro” e la “periferia”, e spesso fra una pluralità di centri e una conseguente varietà di periferie (fra lo Stato centrale e le regioni, da un lato, e le regioni e la rete dei poteri locali, dall’altro lato, per fare un esempio del tutto “domestico”) finisce per originare, quasi sempre, conflitti di competenze, anche solo virtuali, ma pur sempre conflitti che solo l’intelligenza del giudice costituzionale (della nostra Corte costituzionale) riesce a gestire e sopire. Sono fatti fin troppo noti perché valga la pena di passarli in rassegna con maggior dettaglio; soprattutto, è ben nota la condizione esistenziale di caos sistemico nella quale è rimasto per lungo tempo imprigionato il nostro ordinamento a seguito della riforma costituzionale del titolo V° della parte seconda della Costituzione, situazione di assoluta, e quasi drammatica, criticità che solo il paziente e sapiente lavoro della nostra Corte costituzionale è riuscita a ricondurre entro i limiti, accettabili e fisiologici, del tradizionale, ordinario conflitto tra i diversi soggetti dell’ordinamento repubblicano. Se questo è vero, nel senso che molto spesso è la stessa forma positiva dello Stato (di qualsivoglia Stato), allorché sia ispirata ai principi del policentrismo istituzionale e decisionale, ad introdurre elementi di forte relativismo, e dunque di incertezza, mi sembra peraltro che il quadro dei riferimenti disponibili (e dei problemi in campo) sia oggi infinitamente più complesso. Ed anche a prescindere dall’antica, e mai sopita, querelle che vede “l’un contro altro armati” i fautori degli ordinamenti a base regionale, ed anche federale, da un lato, e gli estimatori dei modelli statuali centralizzati, dall’altro. Mi asterrò da qualsiasi valutazione e considerazione personale sul punto, essendo ben chiare, ai semplici fini del discorso che si sta impostando, quali possano essere le conseguenze sul piano della certezza del diritto (ed anche, ovviamente, su quello connesso della qualità della regolazione!) di ogni condizione di caos sistemico quando questa stessa interessi addirittura le istituzioni di vertice cui la Costituzione attribuisce ogni più rilevante competenza legislativa, o comunque normativa. E, infatti, c’è dell’altro, e molto di più, in quanto in tutti (o quasi) i settori sensibili rilevanti per un ordinamento positivo sono soprattutto il diritto internazionale ed il diritto dell’Unione europea, come riflesso “regionale” e domestico del diritto globale (23), a porre le fondamentali regole del gioco destinate a valere nell’arena globale non meno che entro il limes, forse meno suggestivo e tuttavia ancora importante, degli ordinamenti nazionali. Sono noti, sotto questo riguardo, alcuni elementi e dati di fatto che quasi costituiscono le costanti sistemiche dell’evoluzione del diritto internazionale e, segnatamente, del diritto derivato dell’Unione europea: una marcata ipertrofia normativa, caratterizzata peraltro non solo dalla frequenza ciclica di nuove discipline destinate ad emendare quelle già in vigore oppure a sostituirle tout court (direttive di prima, di seconda generazione, ecc.) ma anche da una persistente (e talora ossessiva) declinazione di regole e microregole capaci di ingenerare non solo un elevato livello di incertezza e problematicità sul piano applicativo ma anche una crescente complessità – e dunque complicazione – della regolazione, soprattutto nei confronti delle imprese. O forse è lo stesso, trattandosi delle due facce della stessa medaglia, in quanto è (anche) la frequenza con cui le normative di fonte europea cambiano a determinare, quasi per una sorta di automatismo non evitabile, una qualche obiettiva incertezza della regolazione, sebbene, come cercherò di suggerire nelle pagine che seguono, è del pari inevitabile che una moderna “scienza della legislazione” sospinga oggi verso un quotidiano lavoro di aggiornamento/revisione dei principi e delle regole operative già (del tutto provvisoriamente) in vigore. A tutto ciò si ricollegano, a mio avviso, due importanti conseguenze che mi limito per ora semplicemente a rammentare, salvo riprendere il discorso. In primo luogo, la volatilità e la provvisorietà di molte delle opzioni proposte dal legislatore europeo sono tali nel senso che le norme (per così dire provvisoriamente) introdotte nell’ordinamento sono ad obsolescenza programmata, sunset rules (24), norme avviate sul viale del tramonto nel momento stesso in cui sono emanate, quasi si trattasse di banali gadget della produzione industriale di massa che non vale neppure la pena di riparare, nel caso di guasto, essendo preferibile la loro sostituzione. E ciò non può certamente contribuire ad incrementare le aspettative di certezza (ossia di sicurezza giuridica) dell’uomo medio il quale, a mio modo di vedere, giudica la stabilità delle regole come un valore in assoluto, soprattutto quando siano in gioco i suoi fondamentali interessi di vita. In secondo luogo, gli istituti (le regole e ancor più le regolarità materiali) della governance europea multilivello (25), spingono sicuramente nella direzione di depotenziare quanto più possibile i tradizionali istituti del government, con la conseguente, radicale liquefazione del tradizionale sistema delle fonti del diritto. Utilizzando in chiave esclusivamente descrittiva espressioni e concetti che presentano, in realtà, anche un rilevante valore euristico, si può forse dire che le istituzioni della flessibilità (di una certa flessibilità) sono chiamate a rimpiazzare i tradizionali strumenti della democrazia rappresentativa (il principio di legalità, e dunque la rule of Law) verosimilmente assunti come le istituzioni della rigidità. In fondo è meglio sedersi intorno ad un tavolo, con tutti i portatori di interessi (i c.d. stakeholder), e trovare grazie ad accordi ed intese opportunamente conclusi tra le parti pubbliche e gli attori privati un comune punto di vista. Sarà poi da questo comune punto di vista in qualche modo (anche faticosamente) raggiunto che si prenderanno successivamente le mosse per eventualmente pervenire a disciplinare con strumenti di più elevata formalizzazione tecnico-giuridica un determinato fascio di interessi. E potrà anche essere preferibile che le intese così raggiunte, in quanto modelli di soft Law, non superino mai questa soglia e dimensione quasi meramente ottative, restando semplicemente e soltanto tali, oppure che finiscano per vincolare solo parzialmente, essendo eventualmente sottoposte ad un termine finale di operatività ed efficacia le successive determinazioni formali delle autorità europee e nazionali. 4. Ubi scientia ibi iura. Verso quali scenari? L’incipit di questo paragrafo sembra presupporre una premessa: e cioè che l’antico adagio ubi societas ibi jus debba essere in qualche modo rovesciato, o comunque riperimetrato e rimodulato, alla luce di una nuova realtà fattuale che finirebbe col costituire “l’ordine delle cose” il quale, del tutto naturalmente, precede e conforma “l’ordine delle idee” (26). Non credo si possa ragionevolmente pensare che la (nuova) societas di cui si parla sia una sorta di società della scienza e della tecnologia che si contrapporrebbe a quella delle lettere e delle arti, ma sicuramente una “scienza nova” si affaccia sul mondo contemporaneo, quasi una nuova Atlantide (27), capace di orientarlo e condizionarlo e più spesso di plasmarlo e modellarlo in ogni suo più rilevante profilo. Il discorso è di una semplicità persino disarmante, e infatti esso viene correntemente fatto, e dai portatori di molti e diversi saperi disciplinari: se la scienza e lo sviluppo della tecnologia rappresentano una costante sistemica dell’evoluzione, e quindi della storia dell’uomo, è tuttavia ben evidente che forse mai come in quest’ultimo torno di tempo tale evoluzione è stata continua, incessante, persino frenetica, e soprattutto in ogni campo dello scibile umano. Non mi compete, ovviamente, tirare le somme o tentare valutazioni di siffatto fenomeno, relativamente al quale si incrociano, e si misurano, differenti punti di vista, anche radicalmente antagonisti, in quanto espressione di diverse visioni del mondo: il punto di vista di chi, nonostante tutto, coltiva un’ottimistica Weltanschauung e l’approccio di chi, al contrario, è fautore di un progetto globale e mirato di decrescita controllata onde contrastare quel “Prometeo scatenato” che è forse in ciascuno di noi, specchio riflesso del mondo attuale e causa efficiente della sua possibile crisi sistemica (28). Due sono, con ragionevole sicurezza, i fatti nuovi (a volerli così definire!) che si presentano alla nostra attenzione, vere e proprie emergenze che è giocoforza affrontare, e che proprio il diritto è chiamato a fronteggiare in funzione delle risposte che debbono essere comunque date, pur con scontati (e insuperabili) margini di approssimazione e di relativismo concettuale: le problematiche connesse con la protezione dell’ambiente e della salute dell’uomo, anche in vista della tutela dei c.d. diritti di terza generazione; la crisi della scienza, e anzi del sapere scientifico, di cui sembra essere venuta meno ogni ottimistica pretesa di infallibilità (29). Si tratta di aspetti e realtà effettuali ovviamente capaci di forti interconnessioni, al punto da manifestarsi, molto spesso, come le due facce della stessa medaglia. La straordinaria rilevanza delle problematiche ambientali, e qualunque sia l’angolo visuale nel quale ci si voglia collocare, è sotto gli occhi di tutti, in quanto occupa quotidianamente spazi importanti, e crescenti, in tutti i mezzi di comunicazione di massa, e non solo quando ci si trovi a trattare di emergenze o di veri e propri disastri perpetrati ai danni dell’ambiente. La tutela dell’ambiente, e la messa in campo delle opportune politiche pubbliche volte alla sua protezione, si configurano ormai come un vero e proprio guanto di sfida che il decisore collettivo pubblico (il legislatore, il potere esecutivo, sia nella sua funzione di governo che di amministrazione, e naturalmente la giurisdizione) debbono raccogliere, e soprattutto come una sfida che deve essere necessariamente vinta o comunque non persa. E’ del tutto palese, sotto questo riguardo, che la protezione dell’ambiente si presenta come una (la) fondamentale sfida della complessità e che, in questo senso, il diritto (globale, perché gli inquinamenti non conoscono confini!) è chiamato a giocare un ruolo addirittura maieutico oltre che conformativo. Si possono segnalare alcune evidenze: il diritto dell’ambiente mette a nudo un fenomeno verosimilmente di portata epocale, ossia quello dell’ingresso della scienza e della tecnica nel mondo della regolazione e della gestione (secondo diritto) degli interessi; il diritto ambientale, pertanto, è destinato a “sporcarsi”, per definizione, con i saperi scientifici, e più esattamente e frequentemente, con le tecnicalità in un quadro di combinazioni infinite e variabili; in quanto “diritto sonda” capace di rappresentare, e persino di interpretare, la complessità degli ordinamenti globali, il diritto dell’ambiente riesce ad aprire percorsi molto interessanti e stimolanti che vanno oltre i confini, già molto estesi, delle discipline ambientali, per toccare, con risultati altamente conformativi altri fasci di interessi, e cioè altre materie esse stesse fortemente implicate con la scienza e le tecnologie (biodiritto, sicurezza alimentare, disciplina dei farmaci, ecc.) (30). In quest’ultimo senso, il diritto dell’ambiente (in quanto “diritto sonda”) riesce, grazie alla messa in campo di regole, di principi e di strumentazioni materiali di raffinata complessità (dal principio di precauzione, in primo luogo, e da quello della sussidiarietà verticale fino ad una più avanzata costruzione del procedimento amministrativo e delle stesse regole della legittimazione processuale, ecc.) (31) a dare risposte e soluzioni alle molte domande che la scienza, la tecnica e le tecnologie quasi ogni giorno ci prospettano, con una tale ampiezza ed importanza di risultati da introdurre e codificare, in molti casi, principi e regole dell’attività pubblica (e non solo!) di valore generale, oltre i confini, pur già vastissimi, del diritto ambientale. E sotto questo profilo è ancora un altro il dato estremamente rilevante che a mio avviso deve essere colto, nel senso che appare in questo modo esplicitato il legame forte che tiene insieme il diritto ambientale, e i suoi principi, e il ruolo vitale giocato dalla scienza e dalla tecnica nel campo della regolazione e della gestione degli interessi sensibili, anche nel momento della sua crisi, ossia del venir meno della sua (pretesa) infallibilità. Ha scritto un poeta (32) che, se la scienza potesse fallire, un topolino potrebbe muovere una montagna; ebbene il topolino ha mosso un’intera catena montuosa e la scienza, la quale non è “senza frontiere”, neppure sul piano euristico e cognitivo oltre che su quello dell’etica applicata (33), ha ormai disvelato la sua intrinseca fragilità, la sua inattesa fallibilità, contrariamente a quanto un certo atteggiamento culturale, verosimilmente ottimistico (e forse in parte ingenuo), ci aveva abituato a credere. Le stesse dottrine contemporanee della società del rischio (34) e del mondo liquido sono fortemente implicate con la crisi della scienza e della tecnica, ed allo stesso modo le meno recenti teorizzazioni sul caos e sullo stesso rischio sistemico nelle realtà sociali ed istituzionali della seconda metà dell’’800 (35). Ciò che accomuna tali dottrine, tutte in qualche modo (ed in misura variabile) comunque segnate da una logica cognitiva apertamente relativistica (e fallibilista, sul modello della società aperta) (36), è infatti la percezione della fine dell’assolutezza della scienza e pertanto della sua fragile liquidità, ossia della fluidità di ogni sapere, di ogni sapere esperto, persino in quei campi disciplinari caratterizzati da processi conoscitivi supportati da analisi di tipo quantitativo condotte con il metodo sperimentale. E tuttavia, se la scienza può fallire, e sicuramente “fallisce”, non fosse altro che per il semplice fatto di caratterizzarsi per il continuo superamento di se stessa in ragione del predominio assoluto della techne che ne orienta fortemente gli obiettivi (e persino le metodologie), essa penetra comunque in profondità nel mondo della regolazione e della gestione degli interessi al punto che una parte preponderante, per quantità e qualità, della produzione normativa attuale, sia di fonte sovranazionale che europea o nazionale, si rivolge a disciplinare settori e materie di elevata complessità tecnica: dalle discipline relative al territorio, in ogni sua componente sistemica, a quelle relative alla salute, ai lavori ed ai contratti pubblici, agli alimenti, ecc. E la scienza in crisi d’identità, una scienza perplessa ed “incerta” passa, per così dire, la mano e chiede al diritto (ai suoi percorsi ed ai suoi attori istituzionali) di definire le regole del gioco (o, meglio, d’ingaggio!) che non riesce compiutamente a formulare, o dalla cui formulazione si chiama dichiaratamente fuori. Il primato della scienza e della techne, da cui origina, quasi paradossalmente la loro crisi identitaria, mette inaspettatamente al centro del sistema il diritto, il “diritto della scienza incerta” (37) al quale viene affidata un missione tanto inattesa quanto affascinante: “rimettere la scienza al suo posto” (38). Se questo è vero, è ora possibile cercare di cogliere le ricadute di siffatta condizione esistenziale sul sistema delle fonti e, soprattutto, sul piano dei principi praticoteorici che ne costituiscono in modo abbastanza coerente e conseguente il corollario. Ed è ovviamente in discussione proprio il tema della certezza delle regole, di regole (e regolarità materiali) sempre più modellate e confermate dalla techne che entra pervasivamente e massicciamente nel mondo del diritto. Non può stupire, infatti, se moltissime normative sono costruite e deliberatamente progettate come “norme al tramonto” (sunset rules), ossia ad obsolescenza programmata, nel senso che ne viene pianificata, nel concreto, la cadenzata revisione, in sintonia con l’evoluzione scientifica e tecnologica (la c.d. B.A.T., best Technology availlable) o comunque con il mutare delle condizioni storico-ambientali oppure in conseguenza della valutazione e misurazione a regime del tasso di performance (A.I.R. e V.I.R.) (39). E non desta egualmente stupore il fatto che, in un determinato contesto, possano apparire preferibili gli strumenti di soft Law, e non solo nel quadro disciplinare dell’Unione europea ma anche nel complesso reticolo delle relazioni fra lo Stato e le regioni (si pensi alla conferenza Stato- regioni e ad altri organi similari ed alla loro straordinaria capacità di sterilizzare talora i conflitti intersoggettivi con pratiche ed opzioni di soft Law) (40). Si può anzi constatare, sotto questo riguardo, che in fondo di null’altro si tratta che della implementazione, o comunque della messa in campo, delle regole e degli strumenti, sia procedurali che sostanziali, della governance multilivello. E che ciò possa alimentare un persistente relativismo concettuale, in uno con la conseguente fibrillazione dei sistemi e dei sottosistemi giuridici, finendo coll’incrementare in misura esponenziale il tasso di incertezza della regolazione è qualcosa che, a ben vedere, interessa ben poco: forse soltanto a qualche sprovveduto estimatore di A. de Tocqueville del quale abbia apprezzato la critica rivolta all’indirizzo del fenomeno della frequenza della legge! Credo che un’importante conferma del ragionamento sin qui fatto possa essere tratta da una corretta ricostruzione del principio di precauzione, il quale gioca ormai un ruolo generale e sistemico, oltre le politiche della tutela ambientale in senso stretto, in quanto regola (procedurale, in primo luogo, ma talora anche sostanziale) chiamata a interpretare, e soprattutto a gestire, il ruolo giocato dalla scienza e dalla tecnica nei processi deliberativi degli attori pubblici (e forse anche di quelli privati). Mi è capitato, occupandomi del principio di precauzione, di definirlo come una regola pratico-teorica di flexsecurity: la messa in sicurezza dei valori in funzione della certezza delle regole è tuttavia sottoposta ai necessari ed opportuni processi di adattamento/adeguamento in vista degli scopi e degli obiettivi, anche mutevoli nel tempo, che ci si prefigge di raggiungere (41). In questo senso, la sicurezza giuridica, in quanto obiettivo e valore irrinunciabile, viene coniugata con una regola di massima flessibilità, secondo combinazioni anche altamente variabili, alla luce di una fondamentale esigenza dalla quale i processi deliberativi del decisore collettivo pubblico non possono prescindere: la rilevazione, la misurazione, la gestione e la comunicazione del rischio, di quel rischio che quasi finisce coll’identificare la società contemporanea, in quanto liquida, incerta per la sua intrinseca natura e forse addirittura per una inconfessata vocazione culturale . E’ stato infatti molto giustamente scritto che fu all’indomani di un drammatico disastro ambientale (il caso Seveso) (42) che ognuno di noi, ogni uomo comune, finì coll’avvertire sulla propria pelle la fine di un dogma, quello dell’infallibilità della scienza, avvertendo nel proprio intimo la fine di una connessione di senso giammai messa prima in discussione (quella tra scienza e progresso della vita collettiva come di quella del singolo), avvertendo, per conseguenza, la necessità di un vero e proprio cambio di passo: del sentire comune nella vita di ognuno di noi come delle politiche pubbliche. E’ in questo senso, specchio e riflesso di una nuova sensibilità, che Il principio di precauzione finisce col manifestarsi quasi come una sorta di strumento di pronto intervento, ossia di risposta concreta e mirata alle emergenze ed alle urgenze che ormai caratterizzano la nostra vita nel contesto della società tecnologica avanzata. E non soltanto questo, tuttavia, in quanto se il principio precauzionale è apparso di grande utilità per fondare e legittimare scelte e misure concrete volte a fronteggiare emergenze ambientali e sanitarie di particolare gravità (43), esso è comunque divenuto una raffinatissima “regola del procedere” (e del decidere, in verità!) grazie alla quale si cerca di mettere sotto controllo quella particolare incertezza che può essere definita come sistemica. Tutto ciò impone, a mio avviso, una rinnovata riflessione sul sistema delle fonti del diritto, nel momento attuale, alla luce del problema qui messo in luce rappresentato dalla fallibilità della scienza, ossia dalla sua incapacità, a quel che pare, di fornirci risposte certe ed affidabili, soprattutto nelle situazioni di pericolo e di incertezza sistemica. Riprendendo infatti il discorso relativo ai più tradizionali, e quasi scontati, fattori costitutivi dell’incertezza, di un’incertezza che è in qualche misura persino fisiologica (non tutto può essere previsto e disciplinato, e soprattutto in modo sempre ottimale!), ma che può comunque toccare una densità patologica, ho cercato di delineare alcuni punti fermi o che tali a me paiono. La liquefazione del sistema delle fonti, in primo luogo, per una serie di concause strutturali e con alcune ben visibili conseguenze; l’irrompere, in secondo luogo, in evidente sintonia con i principi pratico-operativi della multilevel governance europea, di un nuovo modello, concreto ma allo stesso tempo frutto di una mutata visione del mondo, al centro del quale vengono a collocarsi istituti e strumenti di elevata flessibilità, fra i quali un ruolo importante è sicuramente giocato dalla c.d. soft Law. La crisi della scienza, di una scienza comunque perplessa che chiama il diritto (il “diritto della scienza incerta”) a fornire una qualche risposta, pur con gli inevitabili margini di approssimazione cognitiva e valutativa, agli interrogativi e ai dilemmi che essa pone, si innesta, a mio avviso, su un percorso forse non ancora compiutamente definito ma di cui sembrano comunque ben visibili i passaggi salienti. Passaggi salienti che si consumano in una sorta di gioco a tre che vede crisi della scienza, dequotazione delle fonti tradizionali del diritto e, per conseguenza, espansione quali-quantitativa dei nuovi strumenti della regolazione (soft Law, anzitutto) entrare in infinite combinazioni reciproche, con una sola costante di valore generale: la ricerca della flessibilità, della flessibilità sempre e comunque, in quanto il mutare repentino dei problemi impone la ricerca di risposte caratterizzate da un alto livello di elasticità (e dunque di naturale relatività, di ovvia provvisorietà, di flessibilità, ancora, ecc.). Il principio di precauzione, in quanto regola ordinante di flexsecurity, è molto spesso il formante costitutivo di siffatte combinazioni, sia allorché si tratti di assumere misure concrete, anche a carattere interinale, sia quando di debba rivedere, in tutto o in parte, una normativa, soprattutto dell’Unione europea, segnata dal decorso del tempo e, soprattutto, superata dall’evoluzione della tecnica e della scienza. E cioè, se la crisi della scienza quasi postula e presuppone che molte norme siano ad obsolescenza programmata (sunset rules, come si è già visto), è il principio di precazione che si fa carico di rimodellare, restaurare oppure di rimpiazzare tout court quelle discipline che è lo stesso progresso scientifico (rectius, ciò che viene convenzionalmente inteso come tale) ad aver mandato al macero. Di tutto ciò fanno prova, fra l’altro, gli stessi considerando di molte direttive dell’Unione europea nei quali si rinvia espressamente al prudente utilizzo del principio di precazione in quanto strumento indispensabile per guidare ogni procedimento cadenzato di revisione delle regole, ossia fondamentalmente di quelle regole tecniche (standard, valori-limite, valori-guida, valori di qualità, soglie, ecc.) (44) che rappresentano, quasi con evidenza plastica, la densità e la complessità del fenomeno che abbiamo sotto gli occhi: la penetrazione della scienza e della tecnica nel mondo della regolazione e della gestione degli interessi e, del tutto specularmente, la provvisorietà e la relatività della scienza stessa, e pertanto dei c.d. saperi esperti. E quest’ultima considerazione mi spinge ad un’ulteriore riflessione che sembra pesare non poco nel contesto complessivo del discorso. I saperi esperti pesano enormemente nei processi, di per se stessi complicati, di definizione delle regole tecniche o, se si preferisce, di ciò che appare come scientificamente vero oppure verosimile o più semplicemente probabile, soprattutto quando ci si debba pronunziare su fatti, eventi, interessi, ecc. in qualche mondo implicati con la rilevazione e la gestione del c.d. rischio da ignoto tecnologico. Oltre tutto – mi sia consentito un accenno del tutto estemporaneo – i saperi esperti sono in qualche modo autoreferenziali in quanto espressione di una casta (o di un ceto) di sapienti le cui eccellenze cognitive e deliberative si manifestano (anche) come il riflesso sensibile (non sempre libero e disinteressato) di un potere specialistico, tanto magistrale quanto sicuramente conformativo (45). E qui, sotto questo riguardo, entra in gioco la soft Law di cui mi sembra opportuno mettere in luce un angolo del tutto peculiare, tanto particolare quanto piuttosto rilevante e foriero di conseguenze. La soft Law si trova infatti in un rapporto di corrispondenza biunivoca con i saperi esperti ed un’analoga (e coerente) relazione di corrispondenza biunivoca sembra instaurarsi fra il potere esecutivo (i governi) ed i comitati di esperti, con la conseguente emarginazione delle assemblee elettive, depositarie ed attributarie nei tradizionali modelli di government del potere di indirizzo politico. Decodifico immediatamente il ragionamento appena abbozzato: i governi preferiscono dialogare con i comitati di esperti dai quali si prefiggono di ritrarre ed incamerare “semi di verità”; il che è certamente, in qualche modo, il riflesso sensibile, che si può avvertire anche su questo terreno, del fenomeno stesso della penetrazione massiccia e pervasiva della scienza e della techne nel mondo della regolazione e della gestione degli interessi. Il problema diventa una vera e propria criticità allorché non di questo semplicemente si tratti, ma di una vera e radicale estromissione delle assemblee elettive (del Parlamento europeo come di quelli nazionali) dai circuiti e dai processi decisionali. E ciò avviene, con una certa frequenza, proprio grazie alla messa in campo della soft Law: la qualità dei problemi da fronteggiare impone il ricorso ad uno o più saperi specialistici e, tuttavia, il senso comune e la “ragion di Stato” suggeriscono di procedere per gradi, con la declinazione di opzioni e di regole non immediatamente vincolanti. E, in questo modo, il cerchio si chiude: l’inopportunità e/o l’impossibilità di pervenire ad una formale e vincolante disciplina di una certa area di interessi, oppure il deliberato calcolo di rinviare tale momento, se non di escluderlo addirittura, producono il risultato finale della (provvisoria o definitiva) emarginazione delle assemblee elettive dal processo di definizione formale delle regole del gioco in molti settori sensibili. Il Parlamento europeo ha comprensibilmente stigmatizzato il ricorso in eccesso alla soft Law, in quanto in questo modo la Commissione intratterrebbe un dialogo privilegiato, ed anzi esclusivo, con i comitati di esperti, dialogo e rapporto ravvicinato grazie ai quali giungerebbe a disciplinare, seppure con effetti non vincolanti, interessi sensibili di straordinario rilievo tenendo fuori dal processo decisionale l’assemblea elettiva di diretta derivazione democratica (46). A ben vedere, la nostra stessa recente esperienza sembra confermare questa preoccupazione, anche volendo limitare il discorso a tre casi, comunque di sicura importanza, persino emblematici: la disciplina materiale delle vaccinazioni obbligatorie, modificata, di fatto, con accordi ed intese elaborati in seno alla conferenza Stato, regioni e province autonome, senza investire il Parlamento della questione; l’elaborazione delle linee guida in materia di fecondazione assistita c.d. eterologa, sull’onda della sentenza della Corte costituzionale del 10 giugno 2014, n. 162, ancora una volta senza nessun apprezzabile coinvolgimento del Parlamento nazionale; last but not least, la vexata quaestio del c.d. trattamento stamina relativamente al quale, sulla base di un accordo fra il ministero della salute e il comitato di esperti all’uopo nominato, si è cercato di porre ordine al caos suscitato dai molti (e talora confliggenti) interventi giudiziari sul punto, senza che, naturalmente, il nostro Parlamento sia stato fin qui chiamato a dire la sua (47). E, d’altro lato, allorché sia la giurisprudenza a mettere in campo la necessarie, indeclinabili risposte ai problemi posti dalla relatività e dalla fallibilità della scienza (dalla vicenda Di Bella al caso Englaro, dal terremoto dell’Aquila ad ogni altro evento non previsto, e forse non sempre prevedibile) non viene, di fatto, a riprodursi lo stesso circuito collaborativo che vede come protagonista il giudice e il consulente tecnico, con la naturale, conseguente estromissione dal processo decisionale delle assemblee elettive le quali vengono semmai convolte ex post, quando una qualche più generale (e magari generica) risposta debba essere comunque trovata? Segue: la definizione delle regole tra indirizzo politico e ruolo della giurisprudenza. La formula di sintesi ubi scientia ibi iura, prima evocata, mette efficacemente in luce, a mio avviso, una peculiare condizione esistenziale della contemporaneità, nel senso appena visto, ma presenta un valore eminentemente descrittivo lasciando nell’oscurità alcuni angoli del nostro problema (veri e propri problemi nel problema) sui quali è invece opportuno fare luce. Tentando di sbozzare una prima valutazione, se non conclusiva quantomeno interlocutoria, si può verosimilmente pensare che l’incertezza in quanto tale è per così dire fisiologica, coessenziale alla logica di ogni ordinamento giuridico, giacché ogni ordinamento è per sua natura complesso e le sue regole sono naturalmente sottoposte a processi di interpretazione che sfociano in risultati di un certo, inevitabile relativismo fallibilista: tot capita tot sententiae, come è ben noto. L’incertezza delle regole può invece assumere una connotazione patologica: per la frequenza con la quale si manifesta; per l’intensità e la vastità quali-quantitativa delle sue espressioni concrete; per il tipo di conseguenze (ancora una volta rilevanti per qualità e quantità) che si riflettono sugli assetti costituzionali, ossia sui “rami alti” dell’ordinamento. Ho cercato prima di portare alla luce alcuni tra i principali fattori di corrosione della certezza, i quali sono stati forieri, nel recente passato, di un’incertezza di tipo ordinario, normale, ossia fisiologica ed oggi (quegli stessi fattori) di un’incertezza per così dire oltre la misura, extra ordinem, e cioè addirittura patologica. Orbene, quando la scienza e la tecnica quasi ci rappresentano i segni tangibili della loro inattesa fallibilità, consegnando al diritto un compito egualmente inatteso (e persino ingrato: si tratta di intervenire normativamente sulla modernità!) allora l’incertezza diventa in qualche modo sistemica. E, in tale non infrequente eventualità, è possibile che sia lo stesso sistema, un sistema che è certo soltanto tale in quanto ipotesi (48), ad entrare in crisi, in una sorta di fibrillazione permanente, nel senso che tale situazione di fatto è, allo stesso tempo, causata dall’incertezza (sistemica) delle regole e causa effettuale di ulteriore incertezza (essa stessa sistemica), in una combinazione relazionale di causa ed effetto dinamica ed altamente variabile. In questo senso, l’incertezza della scienza e della techne finisce coll’innescare un processo di corrosione e di potenziale destrutturazione dello stesso modello costituzionale, o meglio di quel modello costituzionale che, utilizzando gli schemi di ragionamento e di classificazione dell’Unione europea, viene ricondotto all’idealtipo del government che sarebbe stato oggi soppiantato (di fatto) dai contemporanei sistemi di governance multilivello (49). E mi sembra anche importante constatare, sotto questo riguardo, che in non pochi casi (e, anzi, soprattutto in quelli che hanno maggiormente colpito la pubblica opinione, in ragione degli interessi individuali e collettivi coinvolti) l’incertezza sistemica può essere, almeno in parte, spiegata e giustificata facendo ricorso, ancora una volta, all’antica dottrina dei concetti giuridici indeterminati la quale sembra pertanto rivelare una inattesa e perdurante capacità euristica. Come mero esempio (in realtà molto significativo) può essere sommariamente ripercorsa la vicenda dell’ILVA di Taranto, un vero e proprio modello di case Law dal quale è possibile ricavare le coordinate del tutto stabilizzate (a quel che pare!) del nostro problema. Il focus del discorso ci porta, ovviamente, alla sentenza della Corte costituzionale 9 aprile 2013, n. 85 nella quale si fa il punto della questione e di tutta la vicenda. Vicenda, in se stessa, di una tragica quanto disarmante semplicità e nella quale si vedono, “l’un contro l’altro armati”, la magistratura tarantina che ha disposto il sequestro giudiziale dei manufatti già prodotti e stoccati nel perimetro aziendale, il governo che nella persona del ministero dell’ambiente del territorio e del mare emana un provvedimento di autorizzazione integrata ambientale (A.I.A.), alla cui piena attuazione da parte della proprietà e del management dell’impresa è subordinata la possibilità di poter continuare la produzione in pendenza di giudizio, e naturalmente il legislatore il quale con l’art. 1 del decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207, convertito con modificazioni nella l. 24 dicembre 2012, n. 231, ha previsto che presso gli stabilimenti di cui sia riconosciuto “l’interesse strategico nazionale” e che occupino almeno 200 lavoratori l’esercizio della produzione possa proseguire, anche quando sia stato disposto il sequestro giudiziario degli impianti, per un tempo non superiore a 36 mesi allorché sia necessario per la salvaguardia dell’occupazione e della produzione. A ciò si aggiunga che il legislatore subordina, in ogni caso, tale indubbia misura di favore al rispetto delle prescrizioni impartite con l’A.I.A., soggiungendo all’art. 3 della cit. l. n. 231/2012 che l’impianto dell’ILVA è uno “stabilimento di interesse strategico nazionale”, nel senso prima descritto, con una serie di importanti conseguenze quali la reimmissione dell’azienda nella disponibilità degli impianti e dei manufatti già prodotti in vista della loro commercializzazione, fermo sempre restando il completo adempimento dell’apparato prescrittivo di cui all’A.I.A. già assentita in data 26 ottobre 2012 (e cioè prima dell’emanazione del decreto-legge e della legge di conversione)(50). Il caso qui succintamente rappresentato è addirittura emblematico, come si è appena detto, in quanto mette a nudo il nocciolo duro del nostro problema. E, infatti, l’incertezza delle regole, soprattutto quando si evidenzi come sistemica, coinvolge tutti gli attori istituzionali di un ordinamento complesso: il legislatore che pone (rectius, deve porre!) le regole del gioco; la giurisprudenza, da quella ordinaria fino a quella costituzionale, la quale esercita il suo “mestiere” poiché interpreta le norme definendone il perimetro interno ed esterno; e l’amministrazione che, alla stregua di un convitato di pietra, dà esecuzione alle norme ma, in realtà, molto spesso, ci mette del suo occupando, anche praeter legem, tutti quegli spazi, pur relativamente liberi (il c.d. Spielraum), nei quali può svolgersi la sua discrezionalità ermeneutica (51). Se questo è vero, appare del tutto coerente e conseguente che, allorché il legislatore non riesca (non voglia, non possa, non sia in grado…, queste essendo le opzioni in campo) a definire con sufficiente precisione i concetti giuridici che rilevano per quel certo evento, l’indeterminatezza della disciplina apra un’autentica prateria che può essere arata dagli altri attori istituzionali. E qui, nella vicenda dell’ILVA di Taranto, non entrano ovviamente in gioco soltanto i concetti giuridici indeterminati di cui il legislatore ha disseminato la disciplina di riferimento (ad esempio con la nozione di stabilimento di “interesse strategico nazionale”) ma proprio l’incertezza sistemica del sapere scientifico che il “diritto della scienza incerta” è chiamato a correggere: in che modo, con quali accorgimenti e con la messa in campo di quali tecnicalità, si può cercare di ottenere il mirabile quanto inarrivabile risultato della quadratura del cerchio, coniugando ecologia ed economia, ossia la protezione dell’ambiente e la salvaguardia dei livelli di occupazione nell’area interessata? E’ già l’art. 41 Cost. a proporci, in realtà, tale antinomia, rappresentandoci l’insuperabile (a mio avviso) difficoltà di scelta fra le ragioni della dignità della persona e della socialità dei fini verso cui deve tendere l’attività economica, da un lato, e quelle della ratio economica, dall’altro, ossia degli operatori economici che agiscono nel mercato alla ricerca, ovvia e comprensibile, del proprio profitto. Come si vede il tema della fragilità e della fallibilità della scienza e della techne si salda, in modo forse inatteso, con la dottrina dei concetti giuridici indeterminati, a conferma della sua perdurante vitalità e, soprattutto, della sua idoneità ad intercettare e spiegare il relativismo del sapere, di ogni sapere, tanto più evidente quanto maggiore sia la velocità della sua evoluzione. Il che spiega l’intervento “definitorio”, e persino “sostitutivo”, del giudice ordinario, volto ad utilizzare i mezzi del processo (il sequestro giudiziario) per finalità di gestione in via amministrativa del problema, e cioè oltre le esigenze della cautela processuale, e soprattutto spiega e giustifica la pronunzia correttiva e conformativa del giudice della costituzionalità delle leggi che mi pare, almeno nel suo nucleo essenziale di ragionamento, del tutto condivisibile: la gestione sul terreno di ogni problema a carattere pratico-operativo rientra nei compiti esclusivi dell’amministrazione che ha già emanato, in questa direzione, un provvedimento piuttosto complesso (l’A.I.A.), e con un apparato prescrittivo severo. In questo senso, in quella sorta di psicodramma nazionale che è ormai diventata la vicenda dell’ILVA, si apre un importante spiraglio, un barlume di luce, in quanto il problema viene ricondotto a diritto, ossia ai principi consustanziali allo Stato di diritto, nonostante tutto, e quindi a prescindere dagli stessi discorsi dell’Unione europea sulla governance e sul government. Ciò che invece, nel contesto del pensiero complessivo della Corte costituzionale, può essere invece messo in discussione è il richiamo alla tutela c.d. sistemica dei diritti fondamentali, sistemica in quanto essi sarebbero declinati come pariordinati nella nostra Costituzione. Non mi dilungherò in riflessioni a carattere generale su tale linea di ragionamento, e comunque, anche limitando il discorso al tema dell’incertezza delle regole, mi sembra che la comparazione, il bilanciamento e la ponderazione degli interessi costituzionalmente rilevanti, perché ordinati secondo una scala di “valori” in qualche modo gerarchica, sia molto meno foriera di incertezza (fisiologica e/o patologica e persino sistemica) di quanto possa essere la loro declinazione in chiave sistemica. E per una semplice quanto difficilmente superabile motivazione: quando i diritti giochino tutti insieme secondo una disposizione di tipo lineare/orizzontale, senza che sia istituita una pur labile ed elastica gerarchia fra di loro, sarà l’amministrazione, nel quadro del procedimento amministrativo, a selezionare quello al quale debba essere assegnato valore prioritario ovvero, più esattamente, a stabilire le forme positive della sua considerazione, e dunque della sua tutela. Sarà anche vero che i diritti giocano in coppia (52), solo che quando l’arena del gioco finisce coll’essere il procedimento amministrativo, il rischio reale è che un certo diritto, un certo interesse, pur avvertito come costituzionalmente fondato e rilevante, sia per così dire confinato nell’ambito della procedura, nel senso che sarà sufficiente la sua mera presa in considerazione, nel quadro della procedura stessa, ad assicurarne il fine dell’obiettiva tutela, a prescindere dalle sue forme concrete e, soprattutto, dal risultato effettivamente raggiunto (53). E con ciò entra prepotentemente nel gioco l’amministrazione pubblica che diviene, al cospetto della labilità dell’indirizzo politico del legislatore, ed anche a causa di una comoda via di fuga costruita con grande sapienza dalla giurisprudenza costituzionale, peraltro non sempre univoca sul punto (ed anzi capace di importanti ripensamenti e fluttuazioni di pensiero) (54), l’attore istituzionale al quale è affidato un importante compito di stabilizzazione del sistema delle regole: nei rami bassi dell’ordinamento, certamente, ma con un’enorme spazio di manovra (entro uno Spielraum talora piuttosto esteso) capace di produrre, in contrasto con ogni diversa aspettativa, una sorta di fibrillazione endemica delle regole, tanto più corrosiva e devastante quanto più l’incertezza della regolazione vada a toccare i temi c.d. sensibili. L’ affaire dell’ILVA dimostra dunque appieno la sua valenza e collocazione strategica nel contesto del discorso che si sta costruendo, ma altri casi possono essere passati in rassegna, a questo stesso fine, casi e vicende, sia risalenti nel tempo che molto recenti, analizzandosi i quali sembra che la giurisprudenza, magari sull’onda dei furori dell’opinione pubblica (rectius, dei media che la veicolano), abbia quasi in animo di avviare un vero e proprio “processo alla scienza”, ad una scienza della quale forse non viene compiutamente intercettata, e soprattutto accettata, l’intrinseca, drammatica fallibilità. E si va, naturalmente, dal famoso caso Di Bella (55), sul quale sono stati versati fiumi d’inchiostro, alla vicenda del Talidomide (ed anche del Prozac) (56) sino a vicende più recenti nelle quali la relatività fallibilista della scienza, da un lato, e la contestazione della scienza medesima, dall’altro, sino alla sua messa sotto scacco, ed anzi in stato d’accusa, sono molto evidenti, addirittura inquietanti. Nei molti, possibili esempi che possono essere evocati e passati in rassegna è possibile rintracciare alcuni tratti comuni: il problema reale è quello di saper fronteggiare il c.d. rischio da ignoto tecnologico oppure quello che si riconnette alla imprevedibilità degli eventi naturali (reale o supposta come tale), rischi che debbono essere individuati, gestiti e misurati in termini quantitativi, ed anzitutto, se possibile, previsti; la capacità di definizione ad opera del legislatore (anche europeo e/o transnazionale oppure internazionale) di siffatte aree di rischio, in vista della loro corretta gestione, è piuttosto labile o, comunque, insufficiente; è pertanto la giurisprudenza a trovarsi in prima linea, essendo chiamata a mettere in campo soluzioni ragionate che costituiscono la rappresentazione materiale di quel diritto della scienza incerta che va progressivamente assumendo consistenza e rilevanza francamente inattese. Il che può tradursi in un vero e proprio attacco alla scienza, in quel processo alla scienza alla quale si chiede tutto (ed il contrario di tutto), secondo quanto si ritrae dalla drammatica vicenda del recente terremoto dell’Aquila (57). Nell’ambito della vasta casistica, mi sembra sufficiente ricordare, oltre alla giurisprudenza formatasi in occasione del tragico evento aquilano, i processi in materia di inquinamento da amianto, la giurisprudenza, soprattutto costituzionale, in tema di procreazione medicalmente assistita, il caso Stamina nonché, last but not least, l’affaire Englaro, relativamente all’eutanasia e, almeno incidentalmente, al testamento biologico (58). Tale catalogo di esempi deve essere poi, a mio avviso, integrato da almeno altre due casi, seppure non così rilevanti sul piano dell’interpretazione giurisprudenziale, almeno fino a questo momento: quello relativo alla definizione di “medicinale per funzione”, alla luce del diritto dell’Unione europea, ed il caso, davvero emblematico, a mio modo di vedere, Avastin- Lucentis, ancora in materia di farmaci (59). Anche a prescindere dalla considerazione, tanto ovvia quanto rilevante, che tutti, o quasi, i casi or ora evocati si connettono funzionalmente con la cura e la tutela del diritto alla salute, inteso nella sua dimensione più ampia e completa (60), nella case Law alla quale ho appena fatto riferimento si possono cogliere alcuni tratti comuni: “l’insostenibile opacità delle leggi italiane” (61), in primo luogo, anche là ove sia proprio la frequenza ossessiva della regolazione ad implementarne la già naturale incertezza; la “funzione definitoria” della giurisprudenza; il ruolo, talora antagonista, giocato dalle amministrazioni pubbliche, anche di quelle deputate a governare i c.d. settori sensibili, nella gestione delle regola incerta al cospetto delle soluzioni elaborate dalla giurisdizione. L’incertezza (sistemica) delle regole è capace di determinare, in altre parole, situazioni e condizioni di conflitto endemico fra i poteri dello Stato, fra il potere esecutivo e quello giurisdizionale, foriere di conseguenze davvero preoccupanti sul piano della sicurezza giuridica, e pertanto dell’affidamento della persona nei confronti dell’agire dei decisori collettivi pubblici. Se questo è vero, è forse soprattutto nella vicenda del trattamento stamina che è possibile cogliere, addirittura contestualmente, tutte le tensioni del (difficile) rapporto fra indirizzo politico e funzione “definitoria” della giurisprudenza. E non solo, perché da questo stesso caso si ritrae anche conferma del ruolo che può concretamente giocare la soft Law, in quanto espressione dei saperi specialistici, come elemento di interposizione, e di frizione, tra l’indirizzo politico del legislatore e l’interpretazione della giurisprudenza; e si ritrae egualmente conferma, come si è già accennato, della vitale importanza dei suddetti saperi esperti (la consulenza tecnica resa al giudice) anche sotto un altro profilo, in quanto è proprio su di essi che sarà fondata la costruzione dei frammenti di quel diritto della “scienza incerta” di derivazione giurisprudenziale che sfugge al controllo dell’indirizzo politico delle assemblee elettive. I problemi sul tappeto non sono molto diversi da quelli che a suo tempo pose l’affaire Di Bella, in quanto in entrambe le ipotesi viene chiesto al legislatore (rectius, al servizio sanitario nazionale nelle sue articolazioni regionali) di consentire ai portatori di gravissime malattie di poter accedere ad un trattamento sanitario non ancora compiutamente sperimentato, e relativamente al quale, comunque, il dibattito nella comunità scientifica è ancora aperto, non essendovi alcuna certezza circa la sua utilità e persino in merito alla sua innocuità. Come si vede è, ancora una volta, il principio di precauzione, in quanto regola del procedere, di flexsecurity, a dover giocare, nel bene come nel male, il ruolo fondamentale onde sterilizzare le tensioni e gli antagonismi presenti sul terreno. E’ Impossible, ovviamente, formulare un qualsivoglia giudizio sul punto. La realtà ci dice, ad ogni buon conto, che tutte (o quasi) le giurisdizioni si sono pronunziate sulla questione, dalla CEDU, dal giudice ordinario a quello amministrativo, molto spesso con provvedimenti cautelari con i quali si ordina all’amministrazione di consentire, in via interinale, il trattamento stamina in favore di pazienti ai quali non sarebbe comunque possibile applicare un differente, alternativo trattamento terapeutico (62). E ciò anche in contrasto con un’ordinanza dell’Agenzia italiana per il farmaco (AIFA) (63). E la realtà ci dice anche che l’indubbio attivismo giudiziale non ha prodotto risultati in se stesso appaganti perché supportati da una valida, o perlomeno affidabile, expertise teorico-sperimentale; il ministro della salute ha conseguentemente investito dell’esame della questione un comitato di esperti (per ben due volte), ricevendo infine una valutazione completamente negativa circa l’utilità del metodo stamina. Da ciò la franca presa di posizione dell’amministrazione nel senso di “richiamare all’ordine” la magistratura: sulla base del parere di un comitato di esperti – si noti bene – e quindi a prescindere da ogni pur labile e persino occasionale coinvolgimento del Parlamento, in sintonia con i principi materiali della soft Law la quale fa leva sul dialogo ravvicinato e privilegiato che il potere esecutivo intrattiene con le comunità di esperti. Prima di trarre alcune (perplesse) conclusioni finali mi preme rammentare un’altra vicenda forse meno impattante sul piano emotivo ma sicuramente non meno interessante dal punto di vista del diritto, ossia il caso Avastin/Lucentis. In estrema sintesi, ad essere messa sotto accusa è addirittura l’AIFA per il fatto d’aver impedito l’utilizzo c.d. off label dell’ Avastin (64), imponendo l’uso del Lucentis, infinitamente più costoso del primo, sebbene entrambi i farmaci presentino le stesse potenzialità terapeutiche (ed anche, peraltro, le stesse controindicazioni). In tale vicenda entra ovviamente in gioco anche l’Agenzia europea dei medicinali (EMA), giacché è proprio in conseguenza del suo intervento che la nostra agenzia nazionale sarà obbligata ad inibire l’uso del farmaco meno costoso a vantaggio di quello più caro, pur in presenza della stessa attitudine terapeutica e delle medesime (non irrilevanti) controindicazioni. La vicenda è davvero emblematica, al punto tale che le associazioni dei malati e dei consumatori hanno concretamente minacciato il ricorso alla Class action onde ottenere il rimborso delle maggiori spese sostenute (65). Ciò che comunque interessa mettere in luce è che, in questo importante studying case, la condizione di totale incertezza (sull’an e sul quomodo) è causata, in primo luogo, dall’attività di controllo conformativo di agenzie tecniche, a prescindere da ogni intervento definitorio della giurisprudenza, quasi a conferma del fatto che la relatività e la volatilità del sapere scientifico incidono piuttosto pesantemente anche sull’attività degli apparati amministrativi, e soprattutto di quelle autorità tecniche e regolatrici che operano nei c.d. settori sensibili (66). Non ingiustificatamente infatti gli operatori del settore (67) hanno rilevato come siano state, in realtà, l’oscurità e la confusione delle regole ad aver in larga parte determinato l’evento, lamentando in questa direzione che i “dubbi sulle regole” sono stati alimentati dai comportamenti, inadeguati e perplessi, dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato. E con ciò si torna quasi all’origine del problema, in quanto il caso or ora succintamente illustrato ci propone un’ulteriore, e non secondaria, variante dinamica del tema dell’incertezza delle regole, nel senso che è forse (anche) un certo modello di controllo preventivo delle attività economiche a rivelarsi, esso stesso, come foriero di possibile incertezza (in ognuna delle sue possibili forme, fino a quella sistemica) o comunque a sollevare questo dubbio, questo sì a carattere sicuramente sistemico. 6. Rilievi conclusivi: nel segno dell’incertezza. Non è certo agevole cercare di delineare un quadro di sintesi con elementi di conclusione quantomeno affidabili, in quanto il caos e la liquidità che contrassegnano i modelli contemporanei di governance consentono meramente (nel segno dell’incertezza!) di elaborare alcune semplici ipotesi di lavoro, estemporanei spunti di riflessione, se si preferisce. Vi sono tuttavia alcuni punti sufficientemente fermi, a mio avviso, che possono essere ripresi, potendo verosimilmente costituire la base di indagini e ragionamenti forse maggiormente assertivi, seppure non definitivi. Appare in qualche modo chiaro che se l’incertezza è una sorta di mina vagante che corrode la stabilità dei sistemi giuridici, e proprio sotto il profilo nevralgico dell’aspettativa (rectius, della pretesa) alla “sicurezza giuridica”, essa non è tuttavia un fenomeno unitario ma piuttosto un insieme complesso; sicché sembra abbastanza evidente che sia l’incertezza a carattere sistemico a determinare la destabilizzazione endemica dei modelli positivi di regolazione e di gestione degli interessi. Mi sembra anche fuor di discussione che l’incertezza, nella sua variante di tipo sistemico, contribuisca a causare la liquefazione del sistema delle fonti del diritto per come tradizionalmente noi lo conosciamo (con il trasmutarsi del modello di government in quello di governance multilivello), con effetti e conseguenze importanti sugli assetti costituzionali dell’ordinamento, sui suoi “rami alti”; in particolare, come si è visto, è il rapporto tra politica e giurisdizione ad apparire se non snaturato comunque certamente ristrutturato e riplasmato secondo un codice di valori (di regole e di regolarità materiali) che non ha molto a che vedere con i tradizionali principi ordinatori dello Stato di diritto. Se questo è vero, è comunque la crisi della scienza, della sua infallibilità e persino della sua credibilità, ad innescare processi di profonda alterazione del sistema delle regole, in quanto è proprio la regola delle regole (ossia il primato assoluto della scienza in quanto veicolo di certezza e di obiettivo progresso) ad essere revocata in dubbio; in particolare, è la continua, persistente evoluzione tecnologica a rappresentarci il senso del superamento del nostro quotidiano, come se un “Prometeo irresistibilmente scatenato” (68) governasse ogni evento e fatto della nostra esistenza. E la crisi di identità della scienza e della stessa techne vengono ad essere intercettate e gestite da un sistema di decisione pubblica già alterato e che a causa di tale ancor più rilevante impatto finisce coll’andare per così dire in blocco: sarà soprattutto la giurisprudenza che eserciterà una funzione “definitoria”, in quanto tenterà di darci definizioni certe, o meno incerte, di fatti, fenomeni, emergenze, concetti scientifici, ecc. di cui il legislatore sicuramente coglie l’importanza ma per i quali non riesce (o non vuole!) dare risposte certe e/o sufficientemente affidabili. Il che si verifica, soprattutto quando si tratti di affrontare e gestire il c.d. rischio da ignoto tecnologico, ma presenta tuttavia un valore assolutamente generale: ad esempio, gli agronomi, i botanici e i naturalisti hanno una qualche difficoltà a definire ciò che può essere accreditato come bosco (soprattutto in relazione alla diversa nozione di foresta) laddove la nostra Corte di Cassazione ci insegna, ai fini del processo, ciò che è il bosco “in senso normativo” (69). A ciò si aggiunga un dato sistemico che sembra essere di straordinario quanto forse inatteso rilievo: è anche l’amministrazione, soprattutto quando operi nei settori c.d. sensibili, a svolgere, di fatto, una fondamentale funzione definitoria perché si trova a gestire concetti giuridici indeterminati oppure a causa della necessità di dover essa stessa fronteggiare, in una situazione di relativa (o marcata) volatilità del quadro normativo, il sopravanzare della crisi della scienza e della techne fino al limite del rischio da ignoto tecnologico. Non è forse neppure così importante interrogarsi circa la natura di siffatto potere discrezionale, essendo invece necessario (e sufficiente) coglierlo nella sua oggettiva dimensione fattuale, e i fatti – si sa! – non possono essere negati ma più semplicemente spiegati, quando ciò sia ovviamente possibile. Alla luce di queste tenui, e comunque interlocutorie considerazioni, è forse possibile delineare e segnare, quantomeno, il perimetro mobile del nostro problema: al centro di un’arena competitiva si muovono tutti gli attori istituzionali di un sistema giuridico complesso, dal legislatore alla giurisprudenza fino al potere esecutivo, sia nella sua funzione di governo che in quella di amministrazione. In gioco sono, naturalmente, l’elaborazione, la messa in campo e l’interpretazione-applicazione delle regole onde correggerne e, se possibile, prevenirne l’incertezza. E l’incertezza (soprattutto quando sia a carattere sistemico oppure causata, in ogni caso, dalla crisi di affidabilità della scienza e della techne) è forse essa stessa, in qualche misura, il prodotto di un certo conflitto endemico tra i poteri dello Stato, ma soprattutto contribuisce a determinarlo o, comunque, ad enfatizzarlo. Sicché l’incertezza delle regole finisce col manifestarsi come il riflesso sensibile della crisi epocale dello Stato di diritto e dei suoi principi ordinatori, ossia del glorioso modello di government che sembrerebbe essere stato soppiantato da quello della governance multilivello. E, su questa via, gli eventi sotto i nostri occhi stimolano altri dubbi, altri interrogativi che ci portano al cuore dei sistemi a diritto amministrativo, e pertanto ad interrogarci sulla persuasività, e dunque sull’utilità, del tradizionale modello del controllo amministrativo delle attività private, vista la sua ricorrente difficoltà ad assicurare (fra l’altro!) risultati soddisfacenti già sul terreno della prevedibilità e della certezza delle regole. A ciò si aggiunga che la nostra esperienza quotidiana ci spinge egualmente a mettere a fuoco il ruolo attivo, e davvero definitorio, che la giurisprudenza sembra giocare nel momento attuale, riuscendo ad essere, quasi allo stesso tempo, un argine capace sia di limitare la persistente incertezza delle regole che di implementarla comunque, nonostante la messa in campo, anche nel nostro ordinamento, della regola conformatrice del precedente (70). Ed è verosimilmente nei variegati giochi di ruolo dei differenti attori istituzionali, con i veti ed i conflitti di competenza (e di conoscenza!) che sono troppo spesso elevati, che è possibile rinvenire il nucleo duro di ogni incertezza, per fronteggiare la quale può essere forse riproposto l’antico monito del “ritorno allo Statuto” (71) il quale disvela, anche ai nostri fini, la sua perdurante vitalità. NOTE *) Il presente lavoro è il testo della relazione tenuta al convegno annuale dell’AIPDA (Napoli, 3-4 ottobre 2014) sul tema “L’incertezza delle regole”. 1) La letteratura è, ovviamente sterminata; cfr., tuttavia, esaustivamente, per tutti, G. GROSSO, Lezioni di Storia del diritto romano, Torino, 1965. 2) Il riferimento è, intuitivamente, in primo luogo, agli studi di Z. BAUMAN, del quale si veda, ex multis, Modernità liquida, Roma- Bari, 2008 nonché Modus vivendi, Roma- Bari, 2008. In questo senso, come si argomenta successivamente nel lavoro, fondamentali appaiono i contributi di K. POPPER (La società aperta e i suoi nemici, Roma, 1996) e di U. BECK (La società del rischio, Roma, 2000). 3) Cfr. più diffusamente infra, ai paragrafi che seguono. 4) Sia consentito rinviare su tali tematiche, e con riserva di un più ampio corredo di riferimenti bibliografici, a R. FERRARA, Etica, ambiente e diritto: il punto di vista del diritto, in Trattato di diritto dell’ambiente (diretto da R.FERRARA e M.A. SANDULLI), Tomo I, Milano, 2014, 19 ss. 5) Così, molto efficacemente, M.C. TALLACCHINI, in molti contributi, fra i quali soprattutto, Ambiente e diritto della scienza incerta, in GRASSI-CECCHETTIANDRONIO (a cura di), Ambiente e diritto, vol. I, Firenze, Olscky, 1999, 57 ss. 6) E su di ciò si veda, con maggior dettaglio, infra, soprattutto al paragrafo n. 4 e ss., anche in relazione alla casistica giurisprudenziale colà riportata. 7) Su ciò più diffusamente infra ma comunque, per tutti, M.C. TALLACCHINI, op. loc. cit., nonché ID., Politiche della scienza contemporanea: le origini, ambito e fonti del biodiritto, in Trattato di biodiritto, a cura di S. RODOTA e P. ZATTI, vol. V, tomo I, Milano, 2010, 53 ss. 8) Così, infatti, S. CASSESE, La costruzione del diritto amministrativo: Francia e Regno unito a confronto, in S. CASSESE (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, vol. I, Milano, 2003, 1 ss. 9) Ancora S. CASSESE, op. loc. cit. cui adde S. SPUNTARELLI, L’amministrazione per legge, Milano, 2007, alla quale debbo il puntuale riferimento alla prefazione che A. DE TOCQUEVILLE fece al corso di diritto amministrativo di MACAREL nella quale definisce il modello francese come “sistema del mondo”. 10) Ossia ad opera del d.lgs. 2 luglio 2012, n. 104, così come successivamente modificato ed integrato. In materia, per tutti, C. E. GALLO, Manuale di giustizia amministrativa, Torino, 2014, passim. 11) Sia consentito rinviare, per tale ordine di problemi, a R. FERRARA, Introduzione al diritto amministrativo, Roma- Bari, 2014, passim. 12) Cfr., per tutti, S. COGNETTI, Profili sostanziali della legalità amministrativa, Milano, 1993, al quale si rinvia anche per l’analisi ragionata e approfondita della dottrina tedesca. 13) Ancora S. COGNETTI, op. loc. cit. e, per tutti, R. VON LAUN, Das freie Ermessen und seine Grenzen, Lipsia, 1910. Molto interessanti anche le notazioni della nostra giurisprudenza e, segnatamente, di Cons. Stato, sez. III, 2 settembre 2014, n. 4460, in www.giustamm.it (pronunzia relativa al c.d. caso Englaro) ove si parla di un inquietante “spazio libero dal diritto” (rechtsfreier Raum) che il legislatore dovrebbe colmare, a riempire il quale finisce tuttavia col provvedere, almeno provvisoriamente, la giurisprudenza. 14) Ossia il diritto materiale, regole e regolarità, nel senso messo efficacemente in luce da M. DOGLIANI, Indirizzo politico. Riflessioni su regole e regolarità nel diritto costituzionale, Napoli, 1985. 15) Così, recentemente, S. CASSESE, Il farsi del diritto: diritto e mutamento, in E. M. MARENGHI (a cura di), Ritorno ai principi. Il fatto, il farsi, il diritto, Napoli, 2014, 9 ss. 16) Così, ad esempio, Corte cost., 9 aprile 2013, n. 85, sul caso ILVA, in www.giurcost.org. Sul tema, per una vicenda non dissimile che vede come protagonisti (involontari!) l’ILVA e l’Italisider, relativamente all’area di Bagnoli, cfr. Trib. Napoli, sez. XII, ordinanza 13 ottobre 2014, reperibile al sito www.quotidianogiuridico.it. 17) Si veda, ex multis, Corte cost., 24 giugno 2004, n. 196 (in www.giurcost.org), relativa al condono edilizio per l’anno 2003, da cui sembra evincersi che la tutela del paesaggio sarebbe obiettivamente realizzata, alla luce dell’art. 9 Cost., allorché ne sia meramente considerato il peso nel procedimento amministrativo, quasi a prescindere dall’esito finale del procedimento stesso. 18) A. DE TOCQUEVILLE, La democrazia in America, Milano, 1992, passim. 19) In relazione a ciò, esaustivamente, comunque, M.A. SANDULLI, (a cura di), Codificazione, semplificazione e qualità delle regole, Milano, 2005 nonché già ID., Brevi riflessioni su alcune recenti tendenze all’incertezza del diritto, in Rass. parl., 2003, 125 ss. 20) Su ciò sia ancora consentito rinviare a R. FERRARA, Introduzione al diritto amministrativo, cit., passim, ma spec. 201 ss. 21) Nel segno di quanto efficacemente sostenuto, pertanto, dai teorici della società del rischio (U. Beck) e del mondo liquido (Z. Bauman): supra, alla nota n. 2. 22) Nel quadro di una letteratura sterminata, soprattutto in chiave comparatistica, può essere invece utile, ai fini limitati del nostro discorso, il richiamo alla giurisprudenza e, segnatamente, all’importante pronunzia di Corte cost., 1° ottobre 2003, n. 303, in Foro it., 2004, I, 1018, con note di R. FERRARA e F. FRACCHIA e, ancora prima, alla classica decisione della Corte suprema U.S.A., U.S. Supreme Court, M’Culloch v. State of Maryland et al., 17 U.S. 316 (Wheat), February Term 1819, in http://laws.findlaw.com/us/17/316.html. 23) Cfr., per tutti, S. CASSESE, Il diritto globale, Torino, 2009, passim. 24) E, cioè, ne viene deliberatamente programmata la revisione e/o la cancellazione dall’ordinamento: S. RODOTA’, Diritto, scienza e tecnologia: modelli e scelte di regolamentazione, in G. COMANDE’- G. PONZANELLI (a cura di), Scienza e diritto nel prisma del diritto comparato, Torino, 2004, 397 ss. 25) Sia ancora permesso il rinvio, soprattutto per un più completo corredo di riferimenti bibliografici, a R. FERRARA, Introduzione al diritto amministrativo, cit., spec. 201 ss. 26) Secondo la nota massima di G.B. VICO (Principi di scienza nuova, Torino, 1976 LXIV, nuova edizione rispetto a quella napoletana del 1744). In ordine al pensiero complessivo del grande filosofo napoletano, cfr., recentemente, E. M. MARENGHI (a cura di), Ritorno ai principi, cit., passim. 27) Ancora G.B. VICO, op. loc. cit. e, naturalmente, F. BACON, Nuova Atlantide, in Saggi del progredire della scienza, Novara, 1966. 28) Sia consentito rinviare sul punto, per la messa a fuoco del dibattito e per maggiori riferimenti bibliografici, a R. FERRARA, Etica, ambiente e diritto: il punto di vista del giurista, cit. 29) Ancora, se si vuole, R. FERRARA, op. ult. cit. 30) Il rinvio, in questo caso, e pertanto su tali tematiche, può essere generale, e quasi sistematico, ai tre tomi del cit. Trattato di diritto dell’ambiente cui adde i ponderosi volumi del Trattato di biodiritto, diretto da S. RODOTA’ e P.ZATTI, Milano, 2010- 2011, spec. il volume Salute e sanità, 2010, passim. 31) Cfr., nuovamente, i contributi raccolti nel cit. tomo I° del Trattato di diritto dell’ambiente, e ivi i contributi di C.E.GALLO, O. PORCHIA, L. PINESCHI e Altri. 32) Si tratta di un verso di Coen, riportato da V. MAZZARELLI nel suo denso volume Le convenzioni urbanistiche, Bologna, 1979. 33) Sia ancora permesso rinviare a R. FERRARA, op. ult. cit., ove si riprendono importanti riflessioni di L. BENVENUTI, Il diritto dell’ambiente nella prospettiva dell’etica applicata, in Jus, 2000, 453 ss. 34) U. BECK e Z. BAUMAN, nei contributi più volte citati. 35) Il riferimento d’obbligo è, ovviamente, a M. FOUCAULT, del quale cfr., ex multis, Sicurezza, territorio, popolazione, Milano, 2005 nonché ID., Nascita della biopolitica, Milano, 2005. 36) Nel senso descritto da K. POPPER, op. loc. cit., fra i tanti contributi che l’illustre filosofo ha dedicato al tema della società aperta. 37) Ancora M. C. TALLACCHINI, op. loc. cit. 38) Così, molto suggestivamente, il presidente B. OBAMA, nel suo discorso inaugurale del 21 gennaio 2009: “We’ll restore science to its righetful place…”, al sito www.whitehouse.gov/blog( inaugural.-adress/. 39) Cfr. nuovamente i contributi raccolti nel cit. volume di M.A. SANDULLI (a cura di), Codificazione, semplificazione e qualità delle regole, passim. 40) Innumerevoli possono essere gli esempi, soprattutto recenti. Ci si può limitare comunque a considerare il caso della procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, per gli effetti determinatisi in conseguenza della sentenza di Corte cost., 10 giugno 2014, n. 162, in wwwgiurcost.org. La situazione di caos sistemico causata, anche in tale fattispecie (non dissimilmente da quanto ci rappresenta il caso Englaro, prima sommariamente ricordato: supra, alla nota n. 13), dalla mancanza di espresse previsioni legislative, e l’inevitabile quanto prevedibile situazione di far West venutasi a creare (il “fai da te delle singole regioni”) sono state in qualche misura messe sotto controllo (nel momento attuale) dalla elaborazione delle linee-guida messe in campo in seno alla conferenza regioni e province autonome previa consultazione con il ministro per la salute (cfr. il sito del ministero della salute per ogni più dettagliata informazione nonché www.regioni.it). Ossia: con strumenti, a tutti gli effetti, di soft Law. 41) E valgono ancora, sotto questo riguardo, le riflessioni di Z. BAUMAN, nei contributi già riportati. 42) Pensiero – questo stesso – da tutti condiviso e che filtra frequentemente anche nei mass- media: cfr., recentemente, R. GIOVANNINI, Seveso 1976, l’Italia scopre che l’industria può far male, in La Stampa del 15 luglio 2014. 43) Per tutti, I. M. MARINO, Aspetti propedeutici del principio giuridico di precauzione, in Studi in onore di Alberto Romano, Napoli, 2011, vol. III, 2177 ss nonché, se si vuole, R. FERRARA, Precauzione e prevenzione nella pianificazione del territorio: la “precauzione inutile”?, in Riv. giur. dell’edilizia, 2012, 61 ss. 44) Su di ciò, anche per gli esempi che vi vengono riportati, si veda il saggio magistrale di J. MORAND - DEVILLER, La notion de seuil en droit administratif, in Mélanges en l’honneur de Franck Moderne, Parigi, 2003, 301 ss. 45) Su di ciò, del tutto esaustivamente, i densi rilievi di M.C. TALLACCHINI, I saperi specialistici tra science advise e soft law: technology assessment ed expertise etica, in Trattato di biodiritto, cit., vol. I, 861 ss. 46) M. C.TALLACCHINI, op. ult. cit., alla quale si fa rinvio anche per l’importante corredo di riferimenti bibliografici. 47) Si tratta, a tutta evidenza, di una vicenda molto complessa e relativamente alla quale la parola fine è ben lungi dall’essere scritta, vicenda che ha visto (e vede talora) contrapposte l’autorità politica e quella giudiziale. Importante la decisione della CEDU, sentenza sez. II, 28 maggio 2014, n. 62804/13, reperibile, fra l’altro, al sito www.dirittifondamentali.it, con la quale viene ritenuto legittimo il rifiuto delle autorità italiane ad autorizzare la terapia in questione. Sconcertante è, comunque, l’altalena giudiziaria che si è registrata nella gestione del caso, forse soltanto all’inizio, visti tutti i processi ancora in corso: cfr., sinteticamente, la ricostruzione che ne viene fatta da P. RUSSO, Stamina: un decreto per bloccare i giudici, in La Stampa del 25 giugno 2014, ove si passano egualmente in rassegna le violazioni delle ordinanze dell’AIFA che sarebbero state perpetrate dalla giurisprudenza. 48) Così, molto efficacemente, A. ROMANO TASSONE, in più contributi ed interventi, anche orali, ma soprattutto in Pluralità di metodo ed unità della giurisprudenza, in Dir. amm., 1998, 651 ss. e in Metodo giuridico e ricostruzione del sistema, ivi, 2002, 11 ss. 49) Sia ancora consentito il rinvio a R. FERRARA, Introduzione al diritto amministrativo, cit., spec. 201 ss, ove si passano in rassegna i documenti della UE in tema di multilevel governance. 50) In argomento, esaustivamente, E. FREDIANI, Autorizzazione integrata ambientale e tutela “sistemica” nell’ILVA di Taranto, in Dir. e proc. amm., 2014, 83 ss. 51) Cfr. nuovamente E. FREDIANI, op. loc. cit. 52) Così R. DWORKIN, I diritti presi sul serio, Bologna, 1982, passim. 53) E, pertanto, nel senso ben messo in luce dalla cit. sentenza di Corte cost. n. 196/2004. 54) Mi limito pertanto a (semplicemente) constatare che, in alcuni casi, l’affermazione per cui la tutela dei diritti sarebbe declinata in modo sistemico è in qualche misura contraddetta: ad esempio, a mio avviso, nella cit. pronunzia di Corte cost. n.162/2014 in materia di fecondazione eterologa. 55) Sia consentito rinviare sul punto a R. FERRARA, Il diritto alla salute: i principi costituzionali, in Trattato di biodiritto, Salute e sanità, cit., 3 ss. 56) Relativamente al quale, in chiave dichiaratamente critica, cfr., per tutti, F. FUKUYAMA, L’uomo oltre l’uomo, Milano, 2002, passim. 57) Cfr., infatti, Tribunale dell’Aquila, 22 ottobre 2012, n. 380, sul sito www.apertacontrada.it, e ivi un dossier tematico avente ad oggetto il “processo alla scienza”. Si consideri, tuttavia, la recente sentenza di Corte d’appello dell’Aquila, dell’11 novembre 2014 che ha radicalmente ribaltato la cit. sentenza del Tribunale aquilano n. 380/2012 (cfr. Scienziati assolti: in aula rabbia e insulti, in La Stampa dell’11 novembre 2014). 58) Cfr. nuovamente la cit. sentenza di Cons. Stato, sez. III, n. 4460/2014 (supra, alla nota n. 13). 59) Sulla vicenda Avastin- Lucentis v. più diffusamente infra, nel prosieguo del lavoro. In merito ai c.d. medicinali “per funzione” (nozione abbastanza ambigua e nebulosa introdotta dalla direttiva 2001/83/CE) cfr. il parere reso dall’avvocato generale I. Bot in merito ai prodotti a base di erbe aromatiche e di cannabinoidi sintetici del 12 giugno 2014, e Corte giust. UE, 10 luglio 2014, cause riunite C358/13 e C- 181/14, in www.curia.europa.eu. 60) Sia ancora permesso il rinvio a R. FERRARA, Il diritto alla salute: i principi costituzionali, cit. 61) Così S. MICOSSI, L’insostenibile opacità delle leggi italiane, in La Repubblica del 5 ottobre 2014. 62) V. supra, alla nota n. 47. 63) Ancora supra, alla nota n. 47. 64) Anche per questo caso le informazioni di maggior dettaglio si ricavano, in questo momento, dalla lettura della stampa quotidiana: P. RUSSO, Scandalo farmaci, Aifa nel mirino, in La Stampa del 30 maggio 2014 cui adde S. SILEONI, L’antitrust e i dubbi sulle regole, ivi. I farmaci c.d. off label sono quelli che possono essere prescritti per indicazioni differenti da quelle per le quali sono stati espressamente autorizzati. 65) Cfr. F. AMABILE, Class action, l’ultima carta dei malati per riavere il rimborso del medicinale, in La Stampa del 30 maggio 2014. 66) Cfr., per tutti, i contributi più volte cit. di M.C.TALLACCHINI, ai quali si rinvia, anche per l’imponente corredo di informazioni bibliografiche. 67) S. SILEONI, la quale è vice direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni, op. loc. cit. 68) Così H. JONAS, Il principio responsabilità, Torino, 2009. 69) Cfr. Cass. pen., 29 luglio 2013, n. 32807, in www.dirittoambiente.net, ove si definisce il bosco in senso (solo) normativo, e non naturalistico, essendo bosco anche la macchia mediterranea bassa, e non gli alberi di alto fusto. 70) Cfr., infatti, l’art 99 del c.d. codice del processo amministrativo, ossia del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, su cui cfr. esaustivamente F. FOLLIERI, Correttezza (Richtigkeit) e legittimazione del diritto giurisprudenziale al tempo della vincolatività del precedente, in corso di pubblicazione negli Studi in memoria di I.M. Marino. 71) Questo essendo l’antico, e credo non superato, pensiero di S. Sonnino allorché stigmatizzava il caos istituzionale (e costituzionale) del suo tempo.