Ferrara

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Rosario FERRARA
L’INCERTEZZA DELLE REGOLE TRA INDIRIZZO POLITICO E “FUNZIONE DEFINITORIA”
DELLA GIURISPRUDENZA (*)
La certezza può essere dolore. L’incertezza
è pura agonia.
Giorgio Faletti
Sommario: 1. Considerazioni introduttive. - 2. Alle origini del problema: l’incertezza
delle regole e il diritto amministrativo. - 3. Alla ricerca dei fattori costitutivi e
strutturali capaci di determinare l’incertezza delle regole. - 4. Ubi scientia ibi iura.
Verso quali scenari? - 5. Segue: la definizione delle regole tra indirizzo politico e
ruolo della giurisprudenza. - 6. Rilievi conclusivi: nel segno dell’incertezza.
1. Considerazioni introduttive.
Si può ragionevolmente supporre che nessuna epoca - e dunque nessun sistema
giuridico, comunque organizzato- si sia caratterizzato per una stabilità assoluta, e
dunque per una piena e totale certezza (senza se e senza ma!) circa il significato, il
valore, la forza cogente ecc. delle regole preordinate a rendere possibile l’esercizio
delle funzioni pubbliche, delle libertà private ecc., e cioè volte a realizzare quegli
antichi obiettivi che già il diritto romano affermava in modo forte e consapevole.
Ubi societas ibi jus, naturalmente, essendo scopo primario ed irrinunciabile del
diritto quello di impedire la ragion fattasi, ossia di operare ne cives ad arma ruant. E,
proprio restando sul diritto romano siamo già in grado di intercettare un
fondamentale dato di sistema che presenta, mutatis mutandis, una perdurante
attualità: la certezza delle regole passa attraverso la quotidiana attività
interpretativa delle regole stesse ad opera della giurisprudenza e dei prudentes,
attività che molto spesso di presenta come un vero e proprio processo di
costruzione e/o di ridefinizione delle regole medesime (1).
Mi arresto immediatamente non essendo mia intenzione inoltrarmi su un percorso
di storia del diritto e delle istituzioni, limitandomi ad una semplice quanto
generalissima constatazione, sulla quale ritornerò nel corso del lavoro. E cioè se,
come scriveva Messer Lorenzo, “di doman non c’è certezza”, ed è quindi possibile
arguire che, anche nel contesto di realtà politiche ed economico- sociali forse meno
complicate (ad esempio perché caratterizzate da una globalizzazione più morbida e
soprattutto diversa per le forme e gli strumenti con i quali si manifestava), la
certezza della regola non fosse un valore assoluto, è tuttavia ben evidente il cambio
di passo, in primo luogo culturale, che sembra conformare il nostro tempo.
Le dottrine del relativismo fallibilista, le teorie del caos e della società del rischio
nonché, last but not least, le concettuologie del mondo liquido (rectius, dell’inferno
liquido) (2) ci rappresentano il senso di un vero e proprio rivolgimento copernicano,
ossia il passaggio da un mondo solido ed affidabile, e forse più semplice, imperniato
su alcune certezze (poche ma buone, verrebbe da dire!) a realtà sicuramente più
magmatiche nelle quali la certezza cessa d’essere un valore assoluto e soprattutto
scontato, risolvendosi piuttosto in una proposizione ottativa, ossia nell’obiettivo
(lontano e talora irraggiungibile) verso il quale tendere.
E, su tutto domina la crisi della scienza (3), come cercherò di meglio precisare, nel
senso che, quasi paradossalmente, l’incessante, inarrestabile progresso della scienza
e delle tecnologie applicate ne determina la crisi, come se il modello rinascimentale
al quale siamo in qualche modo abituati (quello della scienza senza frontiere) (4)
fosse andato repentinamente in blocco. E, se la scienza e la tecnologia corrono, nel
senso che superano se stesse in quanto (drammaticamente) superate da quegli
stessi eventi che vorrebbero fronteggiare, allora è lo stesso principio della certezza
scientifica, e dell’affidabilità delle risposte e delle soluzioni che la scienza propone,
ad andare irrimediabilmente in crisi, quasi per un inatteso cortocircuito
dell’intelligenza, della ragion pura come della ragion pratica.
E si profila sul nostro scenario, come logica conseguenza di ciò, un fenomeno forse
nuovo, o comunque non così evidente nel recente passato: l’emersione del “diritto
della scienza incerta” (5), espressione con la quale può essere designata una (in
parte) nuova condizione esistenziale del diritto (rectius, della regolazione mediante
il diritto di ciò che appare socialmente rilevante), nel senso che è proprio il diritto ad
essere chiamato a disciplinare, e prima ancora a tentare di definire, concetti, eventi,
necessità, criticità, ecc. che sono propri del mondo reale (di ciò che può essere
definito come il nostro empirico quotidiano) che la scienza e le moderne tecnologie
sono incapaci di fronteggiare e gestire con pienezza di risultati, disvelando così un
importante deficit di performance già sul piano della semplice messa a fuoco del
problema e della gestione e della stessa comunicazione delle soluzioni che a questo
stesso si pensa di dare.
Alla luce dei nostri principi è sicuramente fuor di discussione che il diritto non può
chiamarsi fuori da siffatta attività: ubi societas ibi jus, naturalmente, e, d’altro canto,
l’esercizio di ogni funzione pubblica è certamente inesauribile e soprattutto
irrinunciabile e indeclinabile (6).
Al di là dei tanti problemi che tale nuovo modo di profilarsi del diritto e delle sue
finalità pone sul terreno istituzionale, e costituzionale (chi si occupa, di fatto e/o di
diritto, di elaborare i contenuti di siffatto diritto della scienza incerta mettendo in
campo le risposte concrete?), mi sembra tuttavia già di un certo peso il tipo di
suggestioni che si possono ritrarre dal fatto in se stesso: è il diritto che è chiamato a
surrogare, in qualche modo, la funzione maieutica e conformativa della scienza e,
pertanto, ad operare per ricondurre ad ordinamento concettuale la realtà empirica
e magmatica nella quale si vive (7).
2. Alle origini del problema: l’incertezza delle regole e il diritto amministrativo.
Mi premeva delineare il quadro generale (il contesto) nel quale poter collocare
alcune riflessioni e considerazioni di maggior dettaglio e, d’altro canto, su questo
stesso “quadro generale” si dovrà indubbiamente ritornare per testare il peso
giocato da una serie di casi pratici, peso che solo il loro corretto posizionamento nel
contesto culturale adeguato consente di apprezzare e valutare sino in fondo,
almeno a mio modo di vedere.
E continuo, apparentemente, con una provocazione la quale, in realtà, è nulla di più
che una semplice constatazione: se c’è una famiglia di giuristi che è da sempre
straordinariamente abituata all’incertezza al punto da esserne addirittura
affascinata, questa è proprio la nostra, ossia quella degli amministrativisti e forse dei
pubblicisti tout court.
Coglie pienamente nel segno un’illustre dottrina (8) quando ci rammenta che il
diritto amministrativo è per la sua stessa natura, e derivazione genetica, un oggetto
incerto ed oscuro che viene quasi modellato a proprio uso e consumo, in relazione
alle proprie necessità, nelle differenti esperienze nazionali. E, d’altro canto, lo
stesso antagonismo concettuale fra i modelli di civil Law (alla francese, essendo
quello transalpino un “sistema mondo”) (9) e quelli di common Law è
verosimilmente un dato del nostro recente passato, sebbene una qualche ricorrente
tensione tra il due “mondi” sia ancora visibile, magari anche semplicemente sotto
traccia.
L’incertezza (se non l’oscurità) del diritto amministrativo, se vogliamo continuare ad
utilizzare tali espressioni, si connettono poi abbastanza direttamente con la sua
formazione ed evoluzione di matrice giurisprudenziale, evoluzione di matrice
giurisprudenziale che continua in modo più schietto e vigoroso (almeno nel nostro
paese) anche grazie ai varchi aperti ed agli elementi di novità introdotti dal nostro
“codice” del processo amministrativo (10).
La formazione di derivazione giurisprudenziale della nostra branca disciplinare ne
costituisce senza dubbio alcuno il tratto saliente e qualificante; e se è verosimile che
ciò possa aver contribuito ad alimentare una (molto relativa) incertezza e
provvisorietà delle soluzioni concrete offerteci dalla nostra case Law, anche in
ragione delle non infrequenti oscillazioni giurisprudenziali, è tuttavia del pari fuor di
dubbio che tale attività magistrale, a carattere definitorio e costruttivo, si è
soprattutto disvelata, principalmente nel recente passato, come un fondamentale
fattore di innovazione e persino di stabilità (al di là di ogni diversa aspettativa!).
Come un fattore capace, in altre parole, di garantire innovazione e continuità, e
quindi la flessibilità e la stabilità del sistema delle tutele giudiziali del cittadino nei
confronti della pubblica amministrazione.
Mi sembra quindi corretto supporre, pur con gli scontati margini di approssimazione
di ogni ricognizione di campo che (del tutto incertamente!) voglia occuparsi del
tema dell’incertezza delle regole, che non è di per se stessa l’attività definitoria della
nostra giurisprudenza (e non solo amministrativa) ad aver determinato la crisi di
certezza, e pertanto quasi identitaria, delle regole giuridiche mettendone
conseguentemente in crisi la fondamentale funzione di selezione e regolazione degli
interessi pubblici e privati.
Ci deve essere pertanto indubbiamente dell’altro, nel quadro dei contemporanei
sistemi complessi di multilevel governance, tipici e propri di un mondo
profondamente segnato dalla globalizzazione, nel cui contesto la giurisdizione
occupa sicuramente un collocazione strategica e centrale, costituendone uno degli
attori istituzionali di maggior rilievo, ma certamente non l’unico.
Oppure, abbordando il nostro problema da un diverso angolo visuale ci si può
chiedere come e perché, e con quali ricadute di ordine sistemico, il giudice
(ordinario, amministrativo, ecc.) finisca coll’essere molto spesso al centro dei
processi circolari di elaborazione, di definizione e, naturalmente, di modificazione
delle regole, e con quali conseguenze sul piano della loro affidabilità e certezza nel
tempo e nello spazio.
3. Alla ricerca dei fattori costitutivi e strutturali capaci di determinare l’incertezza
delle regole.
In via meramente ipotetica, e pertanto senza che sia ovviamente possibile nutrire
alcuna sicurezza vuoi in merito alla rilevanza dei fenomeni che abbiamo sotto gli
occhi (rilevanza che deve essere apprezzata sul piano quali-quantitativo), vuoi
eventualmente in ordine alle risposte ed alle soluzioni che possono essere proposte,
mi sembra comunque possibile una prima considerazione di massima: alcuni tra i
fattori capaci di determinare e/o di alimentare una certo preoccupante incertezza
delle regole sono per così dire di antico e ben noto insediamento, quasi coessenziali
al processo di formazione dello Stato di diritto, e sia negli ordinamenti di civil Law
che di common Law; altri fattori, invece, appaiono, in qualche misura, come il
riflesso della contemporaneità oppure sono più semplicemente enfatizzati in
sintonia (e in conseguenza) dei processi di mondializzazione in atto.
Problema antico e ricorrente, con una serie di criticità che non ha mai trovato
(nonostante tutto!) risposte definitive ed appaganti, è quello relativo ai rapporti fra
poteri dello Stato. Tema, questo stesso, tanto antico quanto terribile in quanto
mette a nudo il sistema nervoso dello Stato di diritto, e soprattutto ne scandisce il
processo di evoluzione, e anche di radicale trasformazione, se non addirittura di
radicale e forse inatteso superamento (11).
Ciò che mi preme sottolineare, tuttavia, quasi a confermare quanto tali criticità
siano costanti, o comunque ricorrenti, è come la dottrina dei concetti giuridici
indeterminati (e quelle, collegate e connesse, della norma in bianco e della clausole
generali) presenti una sua perdurante vitalità (12). Che vi sia, infatti, uno spazio in
qualche modo libero (maggiormente libero) entro il quale gli apparati amministrativi
possono esercitare una più o meno ampia facoltà di apprezzamento discrezionale è
cosa fin troppo nota per dover essere ricordata. E mi sembra egualmente evidente
che lo spazio nel quale si può “giocare” (lo Spielraum nei confini del quale si dispiega
la freie Ermessen, ossia la discrezionalità libera delle amministrazioni pubbliche) sarà
tanto più esteso quanto minore sia la capacità della legge (ma in genere della
norma, sia di relazione che di azione) di ordinare e selezionare gli interessi che
debbono essere curati e gli obiettivi che debbono essere raggiunti. Il che avviene, a
mio avviso, proprio quando la norma (anche una norma costituzionale o dello stesso
diritto originario dell’Unione europea) presenti un profilo di (troppo) elevata
programmaticità, non discendendo da ciò alcun vincolo particolarmente stretto e
cogente idoneo ad orientare in modo condizionante, se non addirittura a vincolare,
il potere di apprezzamento discrezionale delle amministrazioni pubbliche.
Sono ovviamente molteplici e variegati gli esempi che possono essere passati in
rassegna: che cosa è davvero il principio di precauzione codificato dall’art. 191 del
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea? E, in che modo, alla luce di quali
principi almeno parzialmente vincolanti, e cioè direttamente ed immediatamente
applicabili, sarà possibile mediare fra la ragioni dell’economia e quelle della tutela
ambientale, alla luce dell’art. 41 della Costituzione (ad esempio in relazione alla nota
vicenda dell’ILVA di Taranto)? E, sempre restando su quest’ultimo caso, davvero
emblematico, e sul quale ritornerò, ma quale significato ha la nozione di
“stabilimento industriale di interesse strategico nazionale”? E sarà tale sulla base di
quali indici quali-quantitativi (12)? E, ancora, recentemente, quale significato deve
essere attribuito alla nozione di “area di rilevante interesse nazionale”, in vista della
bonifica ambientale che deve essere obbligatoriamente realizzata (così il decretolegge c.d. sblocca Italia, 12 settembre 2014, n. 133)?
Senza inoltrarci in considerazioni di maggior dettaglio, per le quali si può rinviare al
pensiero della nostra dottrina (ed ancor prima alle elaborazioni della scienza
giuridica tedesca della seconda metà dell’ottocento) (13), risulta comunque chiaro
che quanto maggiore sia l’indeterminatezza di un concetto posto dalla regula iuris
tanto più rilevante e marcato sarà il potere di apprezzamento discrezionale degli
altri attori istituzionali: della giurisdizione ma degli stessi apparati amministrativi che
sono chiamati a fare applicazione, sul terreno, di regole e principi spesso nobilissimi
e seducenti, e tuttavia obiettivamente generali ed indeterminati, e in quanto tali
forieri di molteplici, variegate ed anche antagoniste soluzioni interpretative.
Mi sembra importante cogliere questo dato di fatto, nel senso che il diritto vivente
(14) sarà sicuramente rappresentato (anche) dalle politiche costituzionali, nel senso
che, secondo quanto si ricorda in dottrina (15), la Corte costituzionale non giudica la
legge, e pertanto direttamente il legislatore, ma la legge in quanto interpretata
dalla giurisprudenza costante; e, tuttavia, se questo è vero, è del pari evidente che
alle politiche costituzionali si aggiungono le politiche dell’amministrazione tanto più
importanti ed a contenuto definitorio quanto più marcato sia il margine di
indeterminatezza delle norme, e dunque dei concetti giuridici, dei quali deve essere
curata l’applicazione.
Impossibile, ovviamente, non interrogarsi su quanto e come (e con quali verosimili
conseguenze) l’incrocio di tali politiche poste in essere da differenti attori
istituzionali, con fatti e momenti di possibile convergenza e/o di conflitto, possa
risolversi, inesorabilmente, nell’implementazione dell’incertezza o comunque nella
dequotazione delle connessioni di senso, di significato e di valore delle regole delle
quali si è chiamati a dare applicazione.
Mi limiterò ad alcune semplici constatazioni, meri corollari che in qualche misura
(ora in modo netto e quasi in automatico ora secondo una linea di derivazione meno
diretta), si ricollegano alle considerazioni appena fatte.
L’incertezza delle regole che è figlia della indeterminatezza delle regole stesse
sembra infatti concorrere a determinare fatti conseguenziali di un certo peso in se
stessi obiettivamente forieri di ulteriore, e più rilevante, incertezza.
La legge, questo “mostro sacro” sul quale poggiano le fortune e le glorie passate e
presenti di quella nobilissima creatura che è (stata), e forse continuerà ad essere,
seppure in forme totalmente rinnovate, lo Stato di diritto, la legge in quanto
architrave di ogni ordinamento giuridico a base legale, e sia nel paesi di common
Law che di civil Law, è sicuramente in crisi, in crisi di identità e di ruolo, di quel ruolo
che è chiamata a giocare nella realtà concreta e materiale degli ordinamenti
complessi del mondo contemporaneo.
Da ciò discende, a tutta evidenza, un fenomeno sicuramente pernicioso, o
comunque capace di veicolare un’incertezza per così dire stabile, drammaticamente
fisiologica e quasi “istituzionale”, quasi si trattasse di un elemento costante e
strutturale, di un punto di non ritorno: l’incapacità, oppure l’enorme difficoltà, della
legge di selezionare e di ordinare secondo una scala in qualche modo gerarchica gli
interessi dei quali debbono essere disposte la ricognizione e la tutela.
Il problema è, ovviamente, davvero generale e mi sembra possibile constatare che la
stessa Corte costituzionale, finisce quasi deliberatamente, per collocarsi su questa
stessa lunghezza d’onda, quando afferma, ad esempio, che la tutela dei diritti
costituzionalmente riconosciuti è di tipo sistemico (e quindi oltre, e quasi a
prescindere, dal loro posizionamento su una scala gerarchica di valori che debbono
essere comparati e bilanciati) (16) oppure allorché sostiene che la cura di un
interesse, pur costituzionalmente fondato, sarà efficacemente assicurata per il sol
fatto che il suddetto interesse viene adeguatamente considerato nel contesto del
procedimento amministrativo, ancora un volta quasi a prescindere dal contenuto
dispositivo della decisione finale (17).
E cioè l’incapacità della legge (o della stessa Costituzione, nell’interpretazione della
sua forma materiale in quanto lebendige Verfassung?) di muoversi con spirito
autenticamente selettivo nella “selva oscura” delle posizioni soggettive declinate
dalle norme dell’ordinamento finisce col consegnare ad altri attori questo stesso
compito (una sorta di mission impossible dalla quale non ci si può tuttavia chiamare
fuori). E la ricchezza e la complessità dell’ordinamento, ossia la sua “grande
bellezza” (anche di questo, ovviamente, si tratta!), possono, ahimè, risolversi in un
fattore oggettivo di volatilità e di incertezza delle regole, proprio perché la loro
gestione sul campo, e soprattutto la loro piena definizione a monte, saranno
obiettivamente nelle mani vuoi della giurisdizione (e non solo costituzionale), vuoi
delle amministrazioni pubbliche.
La crisi d’identità e di ruolo della legge (rectius, della sua funzione ordinatrice) può
essere inoltre apprezzata anche da un altro duplice punto di vista.
Può forse sembrare un paradosso, oppure il prodotto perverso di un cortocircuito
dell’intelligenza e della razionalità (sostantiva quanto procedurale), ma la crisi della
legge contribuisce (anche) a determinare l’ipertrofia iperbolica della normativa,
ossia l’eccesso di regolazione, con il ricorso ad una pluralità di fonti le quali, nel
contesto della globalizzazione, sono di origine transnazionale e/o internazionale,
dell’Unione europea come degli ordinamenti nazionali, fonti primarie oppure
secondarie, fonti di natura tradizionale oppure di soft Law, ecc.
Su tale aspetto del problema ritornerò, limitandomi per ora ad alcune osservazioni
di massima.
Il caos normativo che sembra caratterizzare il “mondo liquido” nel quale gli
operatori del diritto sono chiamati a giocare il loro ruolo, fa pensare a quanto, nel
lontano 1845, un sommo studioso come A. de Tocqueville già sosteneva senza mezzi
termini ragionando intorno alla “democrazia in America”: la frequenza delle leggi” è
un male in assoluto, quando pure siano buone (18).
Non riesco ad immaginare quali potrebbero essere le valutazioni e le conclusioni di
un nostro dibattito intorno alla qualità della regolazione, sia nel momento attuale
che nel recente passato (19), ma un dato certo può essere tuttavia intercettato: la
frequenza della legge (rectius, delle regolazioni qualunque sia l’autorità dalla quale
provengono e qualunque sia la “forma” dell’atto grazie al quale vengono messe in
campo) è sicuramente foriera di instabilità sistemica e dunque di incertezza, di una
incertezza quasi esistenziale allorché ad essere sottoposte a continue, e devastanti,
operazioni di destrutturazione/ricostruzione siano fondamentali leggi di struttura
dell’ordinamento, quale sicuramente è la legge generale sul procedimento
amministrativo.
E molte altre considerazioni potrebbero essere naturalmente fatte perché davvero il
sistema delle fonti del diritto (e non solo nel nostro paese, ovviamente) sembra
trovarsi in una condizione di progressiva liquefazione, in uno stato esistenziale di
manifesta liquidità. Ossia, quasi all’incrocio fra le (buone) ragioni della tradizione
dello Stato di diritto, il cui baricentro era sicuramente costituito dal ruolo
conformativo giocato dalla legge (dalla rule of Law, a conferma della contiguità e
vicinanza dei sistemi a diritto amministrativo e di quelli di common Law) e le (non
meno buone) ragioni che spingono a mettere in campo strumenti di regolazione e di
gestione degli interessi meno rigidi e cristallizzati, e pertanto capaci di una più
immediata e pronta risposta (e cioè di una risposta flessibile) alle domande, e talora
agli imperativi, della globalizzazione.
Sotto questo profilo, non essendomi tuttavia possibile approfondire il discorso,
parrebbe anche verosimile supporre che la stessa reviviscenza (fra alti e bassi) della
lex mercatoria, in quanto legge dei traffici e degli scambi, risponda ad un’analoga
esigenza di flessibilità, talmente radicale e profondamente avvertita dagli operatori
economici, da postulare l’intervento surrogatorio e/o integrativo del mercato in
funzione della regolazione quanto più possibile in autonomia del ciclo economico e
dei suoi percorsi, al di fuori (oltre e prima) della tradizionale attività pubblicistica di
conformazione del diritto d’impresa (20).
Anche senza effettuare una qualche scelta di campo, e quindi cercando sempre di
passare in rassegna i fenomeni che abbiamo sotto gli occhi senza indossare gli
“occhiali deformanti dell’ideologia”, mi sembra comunque ragionevole pensare che
siffatto modello caotico sia obiettivamente foriero di incertezza, e di un’incertezza
crescente anche quando essa venga ad essere determinata dalla deliberata ricerca
di una maggiore flessibilità (e quasi di una ricercata provvisorietà) delle regole del
gioco che si vogliono introdurre.
Alla luce di quanto fin qui prospettato, mi sembra tutto sommato plausibile pensare
che i fattori di crisi ai quali ho fatto cenno siano in qualche modo costanti e
sistemici; hanno le loro radici nei gorghi profondi dai quali sono progressivamente
emerse le istituzioni del modello di Stato legale, prima, e dello Stato sociale poi,
gorghi profondi nei quali la tensione tra politica ed amministrazione, fra l’indirizzo
politico-legislativo e la funzione definitoria della giurisprudenza veniva, per così dire,
comunque metabolizzata e digerita nel contesto di una realtà sufficientemente
coesa, in quanto fondamentalmente coesi e solidali erano gli attori che si
muovevano sullo scenario della politica e delle istituzioni. Sicché l’incertezza era
sicuramente possibile, fisiologicamente possibile, ma – possiamo sicuramente
concludere – sotto controllo, ossia rimediabile e gestibile.
Quegli stessi fattori sembrano invece oggi giocare un ruolo infinitamente più
importante e risolutivo perché è il mondo ad essere cambiato, ossia il contesto e
conseguentemente gli attori che ci si muovono dentro.
A conferma di ciò mi sembra necessario fare cenno ad un rilevantissimo fattore
caotico, di importanza crescente e tipico e proprio delle democrazie stabilizzate del
secondo dopoguerra, che, da un lato, origina dall’alta incertezza sistemica degli
ordinamenti complessi e che, dall’altro lato, è esso stesso causativo di ulteriore,
crescente e talora ingestibile incertezza.
Mi riferisco al caos istituzionale che governa i contemporanei processi di allocazione
e di distribuzione delle competenze (rectius, del potere di regolare e disciplinare i
settori sensibili della società, e dunque dell’ordinamento), con esiti spesso incerti e
provvisori se non addirittura oscuri e persino indecifrabili
Chi fa e cosa fa? Ecco una domanda, antica ed oltremodo attuale, con la quale si
mette sicuramente a nudo la complessità dei sistemi multilivello evidenziandosene,
allo stesso tempo, la relativa fragilità strutturale, o comunque la condizione di
instabile, permanente liquidità. Liquidità, la quale è tanto più marcata e visibile, e
pertanto di non agevole gestione, quanto più il potere che deve essere comunque
esercitato, perché indeclinabile, sia volto a fronteggiare l’emersione di eventi non
prevedibili, ossia ad affrontare emergenze e rischi la cui insorgenza produce (fra
l’altro) il possibile risultato di alterare e/o variare l’ordine delle competenze così
come attribuite in via ordinaria (21).
Come ho appena accennato si tratta di questione antica, e tuttavia estremamente
attuale, secondo quanto disvela l’esperienza costituzionale dei sistemi federali e
confederali (22), nei quali il rapporto fra il “centro” e la “periferia”, e spesso fra una
pluralità di centri e una conseguente varietà di periferie (fra lo Stato centrale e le
regioni, da un lato, e le regioni e la rete dei poteri locali, dall’altro lato, per fare un
esempio del tutto “domestico”) finisce per originare, quasi sempre, conflitti di
competenze, anche solo virtuali, ma pur sempre conflitti che solo l’intelligenza del
giudice costituzionale (della nostra Corte costituzionale) riesce a gestire e sopire.
Sono fatti fin troppo noti perché valga la pena di passarli in rassegna con maggior
dettaglio; soprattutto, è ben nota la condizione esistenziale di caos sistemico nella
quale è rimasto per lungo tempo imprigionato il nostro ordinamento a seguito della
riforma costituzionale del titolo V° della parte seconda della Costituzione, situazione
di assoluta, e quasi drammatica, criticità che solo il paziente e sapiente lavoro della
nostra Corte costituzionale è riuscita a ricondurre entro i limiti, accettabili e
fisiologici, del tradizionale, ordinario conflitto tra i diversi soggetti dell’ordinamento
repubblicano.
Se questo è vero, nel senso che molto spesso è la stessa forma positiva dello Stato
(di qualsivoglia Stato), allorché sia ispirata ai principi del policentrismo istituzionale e
decisionale, ad introdurre elementi di forte relativismo, e dunque di incertezza, mi
sembra peraltro che il quadro dei riferimenti disponibili (e dei problemi in campo)
sia oggi infinitamente più complesso. Ed anche a prescindere dall’antica, e mai
sopita, querelle che vede “l’un contro altro armati” i fautori degli ordinamenti a base
regionale, ed anche federale, da un lato, e gli estimatori dei modelli statuali
centralizzati, dall’altro.
Mi asterrò da qualsiasi valutazione e considerazione personale sul punto, essendo
ben chiare, ai semplici fini del discorso che si sta impostando, quali possano essere
le conseguenze sul piano della certezza del diritto (ed anche, ovviamente, su quello
connesso della qualità della regolazione!) di ogni condizione di caos sistemico
quando questa stessa interessi addirittura le istituzioni di vertice cui la Costituzione
attribuisce ogni più rilevante competenza legislativa, o comunque normativa.
E, infatti, c’è dell’altro, e molto di più, in quanto in tutti (o quasi) i settori sensibili
rilevanti per un ordinamento positivo sono soprattutto il diritto internazionale ed il
diritto dell’Unione europea, come riflesso “regionale” e domestico del diritto
globale (23), a porre le fondamentali regole del gioco destinate a valere nell’arena
globale non meno che entro il limes, forse meno suggestivo e tuttavia ancora
importante, degli ordinamenti nazionali.
Sono noti, sotto questo riguardo, alcuni elementi e dati di fatto che quasi
costituiscono le costanti sistemiche dell’evoluzione del diritto internazionale e,
segnatamente, del diritto derivato dell’Unione europea: una marcata ipertrofia
normativa, caratterizzata peraltro non solo dalla frequenza ciclica di nuove discipline
destinate ad emendare quelle già in vigore oppure a sostituirle tout court (direttive
di prima, di seconda generazione, ecc.) ma anche da una persistente (e talora
ossessiva) declinazione di regole e microregole capaci di ingenerare non solo un
elevato livello di incertezza e problematicità sul piano applicativo ma anche una
crescente complessità – e dunque complicazione – della regolazione, soprattutto nei
confronti delle imprese. O forse è lo stesso, trattandosi delle due facce della stessa
medaglia, in quanto è (anche) la frequenza con cui le normative di fonte europea
cambiano a determinare, quasi per una sorta di automatismo non evitabile, una
qualche obiettiva incertezza della regolazione, sebbene, come cercherò di suggerire
nelle pagine che seguono, è del pari inevitabile che una moderna “scienza della
legislazione” sospinga oggi verso un quotidiano lavoro di aggiornamento/revisione
dei principi e delle regole operative già (del tutto provvisoriamente) in vigore.
A tutto ciò si ricollegano, a mio avviso, due importanti conseguenze che mi limito
per ora semplicemente a rammentare, salvo riprendere il discorso.
In primo luogo, la volatilità e la provvisorietà di molte delle opzioni proposte dal
legislatore europeo sono tali nel senso che le norme (per così dire provvisoriamente)
introdotte nell’ordinamento sono ad obsolescenza programmata, sunset rules (24),
norme avviate sul viale del tramonto nel momento stesso in cui sono emanate,
quasi si trattasse di banali gadget della produzione industriale di massa che non vale
neppure la pena di riparare, nel caso di guasto, essendo preferibile la loro
sostituzione. E ciò non può certamente contribuire ad incrementare le aspettative di
certezza (ossia di sicurezza giuridica) dell’uomo medio il quale, a mio modo di
vedere, giudica la stabilità delle regole come un valore in assoluto, soprattutto
quando siano in gioco i suoi fondamentali interessi di vita.
In secondo luogo, gli istituti (le regole e ancor più le regolarità materiali) della
governance europea multilivello (25), spingono sicuramente nella direzione di
depotenziare quanto più possibile i tradizionali istituti del government, con la
conseguente, radicale liquefazione del tradizionale sistema delle fonti del diritto.
Utilizzando in chiave esclusivamente descrittiva espressioni e concetti che
presentano, in realtà, anche un rilevante valore euristico, si può forse dire che le
istituzioni della flessibilità (di una certa flessibilità) sono chiamate a rimpiazzare i
tradizionali strumenti della democrazia rappresentativa (il principio di legalità, e
dunque la rule of Law) verosimilmente assunti come le istituzioni della rigidità.
In fondo è meglio sedersi intorno ad un tavolo, con tutti i portatori di interessi (i c.d.
stakeholder), e trovare grazie ad accordi ed intese opportunamente conclusi tra le
parti pubbliche e gli attori privati un comune punto di vista. Sarà poi da questo
comune punto di vista in qualche modo (anche faticosamente) raggiunto che si
prenderanno successivamente le mosse per eventualmente pervenire a disciplinare
con strumenti di più elevata formalizzazione tecnico-giuridica un determinato fascio
di interessi.
E potrà anche essere preferibile che le intese così raggiunte, in quanto modelli di
soft Law, non superino mai questa soglia e dimensione quasi meramente ottative,
restando semplicemente e soltanto tali, oppure che finiscano per vincolare solo
parzialmente, essendo eventualmente sottoposte ad un termine finale di operatività
ed efficacia le successive determinazioni formali delle autorità europee e nazionali.
4. Ubi scientia ibi iura. Verso quali scenari?
L’incipit di questo paragrafo sembra presupporre una premessa: e cioè che l’antico
adagio ubi societas ibi jus debba essere in qualche modo rovesciato, o comunque
riperimetrato e rimodulato, alla luce di una nuova realtà fattuale che finirebbe col
costituire “l’ordine delle cose” il quale, del tutto naturalmente, precede e conforma
“l’ordine delle idee” (26).
Non credo si possa ragionevolmente pensare che la (nuova) societas di cui si parla
sia una sorta di società della scienza e della tecnologia che si contrapporrebbe a
quella delle lettere e delle arti, ma sicuramente una “scienza nova” si affaccia sul
mondo contemporaneo, quasi una nuova Atlantide (27), capace di orientarlo e
condizionarlo e più spesso di plasmarlo e modellarlo in ogni suo più rilevante profilo.
Il discorso è di una semplicità persino disarmante, e infatti esso viene
correntemente fatto, e dai portatori di molti e diversi saperi disciplinari: se la scienza
e lo sviluppo della tecnologia rappresentano una costante sistemica dell’evoluzione,
e quindi della storia dell’uomo, è tuttavia ben evidente che forse mai come in
quest’ultimo torno di tempo tale evoluzione è stata continua, incessante, persino
frenetica, e soprattutto in ogni campo dello scibile umano.
Non mi compete, ovviamente, tirare le somme o tentare valutazioni di siffatto
fenomeno, relativamente al quale si incrociano, e si misurano, differenti punti di
vista, anche radicalmente antagonisti, in quanto espressione di diverse visioni del
mondo: il punto di vista di chi, nonostante tutto, coltiva un’ottimistica
Weltanschauung e l’approccio di chi, al contrario, è fautore di un progetto globale e
mirato di decrescita controllata onde contrastare quel “Prometeo scatenato” che è
forse in ciascuno di noi, specchio riflesso del mondo attuale e causa efficiente della
sua possibile crisi sistemica (28).
Due sono, con ragionevole sicurezza, i fatti nuovi (a volerli così definire!) che si
presentano alla nostra attenzione, vere e proprie emergenze che è giocoforza
affrontare, e che proprio il diritto è chiamato a fronteggiare in funzione delle
risposte che debbono essere comunque date, pur con scontati (e insuperabili)
margini di approssimazione e di relativismo concettuale: le problematiche connesse
con la protezione dell’ambiente e della salute dell’uomo, anche in vista della tutela
dei c.d. diritti di terza generazione; la crisi della scienza, e anzi del sapere scientifico,
di cui sembra essere venuta meno ogni ottimistica pretesa di infallibilità (29).
Si tratta di aspetti e realtà effettuali ovviamente capaci di forti interconnessioni, al
punto da manifestarsi, molto spesso, come le due facce della stessa medaglia.
La straordinaria rilevanza delle problematiche ambientali, e qualunque sia l’angolo
visuale nel quale ci si voglia collocare, è sotto gli occhi di tutti, in quanto occupa
quotidianamente spazi importanti, e crescenti, in tutti i mezzi di comunicazione di
massa, e non solo quando ci si trovi a trattare di emergenze o di veri e propri disastri
perpetrati ai danni dell’ambiente.
La tutela dell’ambiente, e la messa in campo delle opportune politiche pubbliche
volte alla sua protezione, si configurano ormai come un vero e proprio guanto di
sfida che il decisore collettivo pubblico (il legislatore, il potere esecutivo, sia nella
sua funzione di governo che di amministrazione, e naturalmente la giurisdizione)
debbono raccogliere, e soprattutto come una sfida che deve essere
necessariamente vinta o comunque non persa.
E’ del tutto palese, sotto questo riguardo, che la protezione dell’ambiente si
presenta come una (la) fondamentale sfida della complessità e che, in questo senso,
il diritto (globale, perché gli inquinamenti non conoscono confini!) è chiamato a
giocare un ruolo addirittura maieutico oltre che conformativo.
Si possono segnalare alcune evidenze: il diritto dell’ambiente mette a nudo un
fenomeno verosimilmente di portata epocale, ossia quello dell’ingresso della scienza
e della tecnica nel mondo della regolazione e della gestione (secondo diritto) degli
interessi; il diritto ambientale, pertanto, è destinato a “sporcarsi”, per definizione,
con i saperi scientifici, e più esattamente e frequentemente, con le tecnicalità in un
quadro di combinazioni infinite e variabili; in quanto “diritto sonda” capace di
rappresentare, e persino di interpretare, la complessità degli ordinamenti globali, il
diritto dell’ambiente riesce ad aprire percorsi molto interessanti e stimolanti che
vanno oltre i confini, già molto estesi, delle discipline ambientali, per toccare, con
risultati altamente conformativi altri fasci di interessi, e cioè altre materie esse
stesse fortemente implicate con la scienza e le tecnologie (biodiritto, sicurezza
alimentare, disciplina dei farmaci, ecc.) (30). In quest’ultimo senso, il diritto
dell’ambiente (in quanto “diritto sonda”) riesce, grazie alla messa in campo di
regole, di principi e di strumentazioni materiali di raffinata complessità (dal principio
di precauzione, in primo luogo, e da quello della sussidiarietà verticale fino ad una
più avanzata costruzione del procedimento amministrativo e delle stesse regole
della legittimazione processuale, ecc.) (31) a dare risposte e soluzioni alle molte
domande che la scienza, la tecnica e le tecnologie quasi ogni giorno ci prospettano,
con una tale ampiezza ed importanza di risultati da introdurre e codificare, in molti
casi, principi e regole dell’attività pubblica (e non solo!) di valore generale, oltre i
confini, pur già vastissimi, del diritto ambientale.
E sotto questo profilo è ancora un altro il dato estremamente rilevante che a mio
avviso deve essere colto, nel senso che appare in questo modo esplicitato il legame
forte che tiene insieme il diritto ambientale, e i suoi principi, e il ruolo vitale giocato
dalla scienza e dalla tecnica nel campo della regolazione e della gestione degli
interessi sensibili, anche nel momento della sua crisi, ossia del venir meno della sua
(pretesa) infallibilità.
Ha scritto un poeta (32) che, se la scienza potesse fallire, un topolino potrebbe
muovere una montagna; ebbene il topolino ha mosso un’intera catena montuosa e
la scienza, la quale non è “senza frontiere”, neppure sul piano euristico e cognitivo
oltre che su quello dell’etica applicata (33), ha ormai disvelato la sua intrinseca
fragilità, la sua inattesa fallibilità, contrariamente a quanto un certo atteggiamento
culturale, verosimilmente ottimistico (e forse in parte ingenuo), ci aveva abituato a
credere.
Le stesse dottrine contemporanee della società del rischio (34) e del mondo liquido
sono fortemente implicate con la crisi della scienza e della tecnica, ed allo stesso
modo le meno recenti teorizzazioni sul caos e sullo stesso rischio sistemico nelle
realtà sociali ed istituzionali della seconda metà dell’’800 (35).
Ciò che accomuna tali dottrine, tutte in qualche modo (ed in misura variabile)
comunque segnate da una logica cognitiva apertamente relativistica (e fallibilista,
sul modello della società aperta) (36), è infatti la percezione della fine
dell’assolutezza della scienza e pertanto della sua fragile liquidità, ossia della fluidità
di ogni sapere, di ogni sapere esperto, persino in quei campi disciplinari
caratterizzati da processi conoscitivi supportati da analisi di tipo quantitativo
condotte con il metodo sperimentale.
E tuttavia, se la scienza può fallire, e sicuramente “fallisce”, non fosse altro che per il
semplice fatto di caratterizzarsi per il continuo superamento di se stessa in ragione
del predominio assoluto della techne che ne orienta fortemente gli obiettivi (e
persino le metodologie), essa penetra comunque in profondità nel mondo della
regolazione e della gestione degli interessi al punto che una parte preponderante,
per quantità e qualità, della produzione normativa attuale, sia di fonte
sovranazionale che europea o nazionale, si rivolge a disciplinare settori e materie di
elevata complessità tecnica: dalle discipline relative al territorio, in ogni sua
componente sistemica, a quelle relative alla salute, ai lavori ed ai contratti pubblici,
agli alimenti, ecc.
E la scienza in crisi d’identità, una scienza perplessa ed “incerta” passa, per così dire,
la mano e chiede al diritto (ai suoi percorsi ed ai suoi attori istituzionali) di definire le
regole del gioco (o, meglio, d’ingaggio!) che non riesce compiutamente a formulare,
o dalla cui formulazione si chiama dichiaratamente fuori.
Il primato della scienza e della techne, da cui origina, quasi paradossalmente la loro
crisi identitaria, mette inaspettatamente al centro del sistema il diritto, il “diritto
della scienza incerta” (37) al quale viene affidata un missione tanto inattesa quanto
affascinante: “rimettere la scienza al suo posto” (38).
Se questo è vero, è ora possibile cercare di cogliere le ricadute di siffatta condizione
esistenziale sul sistema delle fonti e, soprattutto, sul piano dei principi praticoteorici che ne costituiscono in modo abbastanza coerente e conseguente il
corollario. Ed è ovviamente in discussione proprio il tema della certezza delle regole,
di regole (e regolarità materiali) sempre più modellate e confermate dalla techne
che entra pervasivamente e massicciamente nel mondo del diritto.
Non può stupire, infatti, se moltissime normative sono costruite e deliberatamente
progettate come “norme al tramonto” (sunset rules), ossia ad obsolescenza
programmata, nel senso che ne viene pianificata, nel concreto, la cadenzata
revisione, in sintonia con l’evoluzione scientifica e tecnologica (la c.d. B.A.T., best
Technology availlable) o comunque con il mutare delle condizioni storico-ambientali
oppure in conseguenza della valutazione e misurazione a regime del tasso di
performance (A.I.R. e V.I.R.) (39). E non desta egualmente stupore il fatto che, in un
determinato contesto, possano apparire preferibili gli strumenti di soft Law, e non
solo nel quadro disciplinare dell’Unione europea ma anche nel complesso reticolo
delle relazioni fra lo Stato e le regioni (si pensi alla conferenza Stato- regioni e ad
altri organi similari ed alla loro straordinaria capacità di sterilizzare talora i conflitti
intersoggettivi con pratiche ed opzioni di soft Law) (40).
Si può anzi constatare, sotto questo riguardo, che in fondo di null’altro si tratta che
della implementazione, o comunque della messa in campo, delle regole e degli
strumenti, sia procedurali che sostanziali, della governance multilivello. E che ciò
possa alimentare un persistente relativismo concettuale, in uno con la conseguente
fibrillazione dei sistemi e dei sottosistemi giuridici, finendo coll’incrementare in
misura esponenziale il tasso di incertezza della regolazione è qualcosa che, a ben
vedere, interessa ben poco: forse soltanto a qualche sprovveduto estimatore di A.
de Tocqueville del quale abbia apprezzato la critica rivolta all’indirizzo del fenomeno
della frequenza della legge!
Credo che un’importante conferma del ragionamento sin qui fatto possa essere
tratta da una corretta ricostruzione del principio di precauzione, il quale gioca ormai
un ruolo generale e sistemico, oltre le politiche della tutela ambientale in senso
stretto, in quanto regola (procedurale, in primo luogo, ma talora anche sostanziale)
chiamata a interpretare, e soprattutto a gestire, il ruolo giocato dalla scienza e dalla
tecnica nei processi deliberativi degli attori pubblici (e forse anche di quelli privati).
Mi è capitato, occupandomi del principio di precauzione, di definirlo come una
regola pratico-teorica di flexsecurity: la messa in sicurezza dei valori in funzione della
certezza delle regole è tuttavia sottoposta ai necessari ed opportuni processi di
adattamento/adeguamento in vista degli scopi e degli obiettivi, anche mutevoli nel
tempo, che ci si prefigge di raggiungere (41).
In questo senso, la sicurezza giuridica, in quanto obiettivo e valore irrinunciabile,
viene coniugata con una regola di massima flessibilità, secondo combinazioni anche
altamente variabili, alla luce di una fondamentale esigenza dalla quale i processi
deliberativi del decisore collettivo pubblico non possono prescindere: la rilevazione,
la misurazione, la gestione e la comunicazione del rischio, di quel rischio che quasi
finisce coll’identificare la società contemporanea, in quanto liquida, incerta per la
sua intrinseca natura e forse addirittura per una inconfessata vocazione culturale .
E’ stato infatti molto giustamente scritto che fu all’indomani di un drammatico
disastro ambientale (il caso Seveso) (42) che ognuno di noi, ogni uomo comune, finì
coll’avvertire sulla propria pelle la fine di un dogma, quello dell’infallibilità della
scienza, avvertendo nel proprio intimo la fine di una connessione di senso giammai
messa prima in discussione (quella tra scienza e progresso della vita collettiva come
di quella del singolo), avvertendo, per conseguenza, la necessità di un vero e proprio
cambio di passo: del sentire comune nella vita di ognuno di noi come delle politiche
pubbliche.
E’ in questo senso, specchio e riflesso di una nuova sensibilità, che Il principio di
precauzione finisce col manifestarsi quasi come una sorta di strumento di pronto
intervento, ossia di risposta concreta e mirata alle emergenze ed alle urgenze che
ormai caratterizzano la nostra vita nel contesto della società tecnologica avanzata. E
non soltanto questo, tuttavia, in quanto se il principio precauzionale è apparso di
grande utilità per fondare e legittimare scelte e misure concrete volte a fronteggiare
emergenze ambientali e sanitarie di particolare gravità (43), esso è comunque
divenuto una raffinatissima “regola del procedere” (e del decidere, in verità!) grazie
alla quale si cerca di mettere sotto controllo quella particolare incertezza che può
essere definita come sistemica.
Tutto ciò impone, a mio avviso, una rinnovata riflessione sul sistema delle fonti del
diritto, nel momento attuale, alla luce del problema qui messo in luce rappresentato
dalla fallibilità della scienza, ossia dalla sua incapacità, a quel che pare, di fornirci
risposte certe ed affidabili, soprattutto nelle situazioni di pericolo e di incertezza
sistemica.
Riprendendo infatti il discorso relativo ai più tradizionali, e quasi scontati, fattori
costitutivi dell’incertezza, di un’incertezza che è in qualche misura persino fisiologica
(non tutto può essere previsto e disciplinato, e soprattutto in modo sempre
ottimale!), ma che può comunque toccare una densità patologica, ho cercato di
delineare alcuni punti fermi o che tali a me paiono. La liquefazione del sistema delle
fonti, in primo luogo, per una serie di concause strutturali e con alcune ben visibili
conseguenze; l’irrompere, in secondo luogo, in evidente sintonia con i principi
pratico-operativi della multilevel governance europea, di un nuovo modello,
concreto ma allo stesso tempo frutto di una mutata visione del mondo, al centro del
quale vengono a collocarsi istituti e strumenti di elevata flessibilità, fra i quali un
ruolo importante è sicuramente giocato dalla c.d. soft Law.
La crisi della scienza, di una scienza comunque perplessa che chiama il diritto (il
“diritto della scienza incerta”) a fornire una qualche risposta, pur con gli inevitabili
margini di approssimazione cognitiva e valutativa, agli interrogativi e ai dilemmi che
essa pone, si innesta, a mio avviso, su un percorso forse non ancora compiutamente
definito ma di cui sembrano comunque ben visibili i passaggi salienti. Passaggi
salienti che si consumano in una sorta di gioco a tre che vede crisi della scienza,
dequotazione delle fonti tradizionali del diritto e, per conseguenza, espansione
quali-quantitativa dei nuovi strumenti della regolazione (soft Law, anzitutto) entrare
in infinite combinazioni reciproche, con una sola costante di valore generale: la
ricerca della flessibilità, della flessibilità sempre e comunque, in quanto il mutare
repentino dei problemi impone la ricerca di risposte caratterizzate da un alto livello
di elasticità (e dunque di naturale relatività, di ovvia provvisorietà, di flessibilità,
ancora, ecc.).
Il principio di precauzione, in quanto regola ordinante di flexsecurity, è molto spesso
il formante costitutivo di siffatte combinazioni, sia allorché si tratti di assumere
misure concrete, anche a carattere interinale, sia quando di debba rivedere, in tutto
o in parte, una normativa, soprattutto dell’Unione europea, segnata dal decorso del
tempo e, soprattutto, superata dall’evoluzione della tecnica e della scienza. E cioè,
se la crisi della scienza quasi postula e presuppone che molte norme siano ad
obsolescenza programmata (sunset rules, come si è già visto), è il principio di
precazione che si fa carico di rimodellare, restaurare oppure di rimpiazzare tout
court quelle discipline che è lo stesso progresso scientifico (rectius, ciò che viene
convenzionalmente inteso come tale) ad aver mandato al macero.
Di tutto ciò fanno prova, fra l’altro, gli stessi considerando di molte direttive
dell’Unione europea nei quali si rinvia espressamente al prudente utilizzo del
principio di precazione in quanto strumento indispensabile per guidare ogni
procedimento cadenzato di revisione delle regole, ossia fondamentalmente di quelle
regole tecniche (standard, valori-limite, valori-guida, valori di qualità, soglie, ecc.)
(44) che rappresentano, quasi con evidenza plastica, la densità e la complessità del
fenomeno che abbiamo sotto gli occhi: la penetrazione della scienza e della tecnica
nel mondo della regolazione e della gestione degli interessi e, del tutto
specularmente, la provvisorietà e la relatività della scienza stessa, e pertanto dei c.d.
saperi esperti.
E quest’ultima considerazione mi spinge ad un’ulteriore riflessione che sembra
pesare non poco nel contesto complessivo del discorso.
I saperi esperti pesano enormemente nei processi, di per se stessi complicati, di
definizione delle regole tecniche o, se si preferisce, di ciò che appare come
scientificamente vero oppure verosimile o più semplicemente probabile, soprattutto
quando ci si debba pronunziare su fatti, eventi, interessi, ecc. in qualche mondo
implicati con la rilevazione e la gestione del c.d. rischio da ignoto tecnologico.
Oltre tutto – mi sia consentito un accenno del tutto estemporaneo – i saperi esperti
sono in qualche modo autoreferenziali in quanto espressione di una casta (o di un
ceto) di sapienti le cui eccellenze cognitive e deliberative si manifestano (anche)
come il riflesso sensibile (non sempre libero e disinteressato) di un potere
specialistico, tanto magistrale quanto sicuramente conformativo (45).
E qui, sotto questo riguardo, entra in gioco la soft Law di cui mi sembra opportuno
mettere in luce un angolo del tutto peculiare, tanto particolare quanto piuttosto
rilevante e foriero di conseguenze.
La soft Law si trova infatti in un rapporto di corrispondenza biunivoca con i saperi
esperti ed un’analoga (e coerente) relazione di corrispondenza biunivoca sembra
instaurarsi fra il potere esecutivo (i governi) ed i comitati di esperti, con la
conseguente emarginazione delle assemblee elettive, depositarie ed attributarie nei
tradizionali modelli di government del potere di indirizzo politico.
Decodifico immediatamente il ragionamento appena abbozzato: i governi
preferiscono dialogare con i comitati di esperti dai quali si prefiggono di ritrarre ed
incamerare “semi di verità”; il che è certamente, in qualche modo, il riflesso
sensibile, che si può avvertire anche su questo terreno, del fenomeno stesso della
penetrazione massiccia e pervasiva della scienza e della techne nel mondo della
regolazione e della gestione degli interessi.
Il problema diventa una vera e propria criticità allorché non di questo
semplicemente si tratti, ma di una vera e radicale estromissione delle assemblee
elettive (del Parlamento europeo come di quelli nazionali) dai circuiti e dai processi
decisionali. E ciò avviene, con una certa frequenza, proprio grazie alla messa in
campo della soft Law: la qualità dei problemi da fronteggiare impone il ricorso ad
uno o più saperi specialistici e, tuttavia, il senso comune e la “ragion di Stato”
suggeriscono di procedere per gradi, con la declinazione di opzioni e di regole non
immediatamente vincolanti.
E, in questo modo, il cerchio si chiude: l’inopportunità e/o l’impossibilità di
pervenire ad una formale e vincolante disciplina di una certa area di interessi,
oppure il deliberato calcolo di rinviare tale momento, se non di escluderlo
addirittura, producono il risultato finale della (provvisoria o definitiva)
emarginazione delle assemblee elettive dal processo di definizione formale delle
regole del gioco in molti settori sensibili. Il Parlamento europeo ha
comprensibilmente stigmatizzato il ricorso in eccesso alla soft Law, in quanto in
questo modo la Commissione intratterrebbe un dialogo privilegiato, ed anzi
esclusivo, con i comitati di esperti, dialogo e rapporto ravvicinato grazie ai quali
giungerebbe a disciplinare, seppure con effetti non vincolanti, interessi sensibili di
straordinario rilievo tenendo fuori dal processo decisionale l’assemblea elettiva di
diretta derivazione democratica (46).
A ben vedere, la nostra stessa recente esperienza sembra confermare questa
preoccupazione, anche volendo limitare il discorso a tre casi, comunque di sicura
importanza, persino emblematici: la disciplina materiale delle vaccinazioni
obbligatorie, modificata, di fatto, con accordi ed intese elaborati in seno alla
conferenza Stato, regioni e province autonome, senza investire il Parlamento della
questione; l’elaborazione delle linee guida in materia di fecondazione assistita c.d.
eterologa, sull’onda della sentenza della Corte costituzionale del 10 giugno 2014, n.
162, ancora una volta senza nessun apprezzabile coinvolgimento del Parlamento
nazionale; last but not least, la vexata quaestio del c.d. trattamento stamina
relativamente al quale, sulla base di un accordo fra il ministero della salute e il
comitato di esperti all’uopo nominato, si è cercato di porre ordine al caos suscitato
dai molti (e talora confliggenti) interventi giudiziari sul punto, senza che,
naturalmente, il nostro Parlamento sia stato fin qui chiamato a dire la sua (47).
E, d’altro lato, allorché sia la giurisprudenza a mettere in campo la necessarie,
indeclinabili risposte ai problemi posti dalla relatività e dalla fallibilità della scienza
(dalla vicenda Di Bella al caso Englaro, dal terremoto dell’Aquila ad ogni altro evento
non previsto, e forse non sempre prevedibile) non viene, di fatto, a riprodursi lo
stesso circuito collaborativo che vede come protagonista il giudice e il consulente
tecnico, con la naturale, conseguente estromissione dal processo decisionale delle
assemblee elettive le quali vengono semmai convolte ex post, quando una qualche
più generale (e magari generica) risposta debba essere comunque trovata?
Segue: la definizione delle regole tra indirizzo politico e ruolo della giurisprudenza.
La formula di sintesi ubi scientia ibi iura, prima evocata, mette efficacemente in luce,
a mio avviso, una peculiare condizione esistenziale della contemporaneità, nel senso
appena visto, ma presenta un valore eminentemente descrittivo lasciando
nell’oscurità alcuni angoli del nostro problema (veri e propri problemi nel problema)
sui quali è invece opportuno fare luce.
Tentando di sbozzare una prima valutazione, se non conclusiva quantomeno
interlocutoria, si può verosimilmente pensare che l’incertezza in quanto tale è per
così dire fisiologica, coessenziale alla logica di ogni ordinamento giuridico, giacché
ogni ordinamento è per sua natura complesso e le sue regole sono naturalmente
sottoposte a processi di interpretazione che sfociano in risultati di un certo,
inevitabile relativismo fallibilista: tot capita tot sententiae, come è ben noto.
L’incertezza delle regole può invece assumere una connotazione patologica: per la
frequenza con la quale si manifesta; per l’intensità e la vastità quali-quantitativa
delle sue espressioni concrete; per il tipo di conseguenze (ancora una volta rilevanti
per qualità e quantità) che si riflettono sugli assetti costituzionali, ossia sui “rami
alti” dell’ordinamento.
Ho cercato prima di portare alla luce alcuni tra i principali fattori di corrosione della
certezza, i quali sono stati forieri, nel recente passato, di un’incertezza di tipo
ordinario, normale, ossia fisiologica ed oggi (quegli stessi fattori) di un’incertezza per
così dire oltre la misura, extra ordinem, e cioè addirittura patologica.
Orbene, quando la scienza e la tecnica quasi ci rappresentano i segni tangibili della
loro inattesa fallibilità, consegnando al diritto un compito egualmente inatteso (e
persino ingrato: si tratta di intervenire normativamente sulla modernità!) allora
l’incertezza diventa in qualche modo sistemica.
E, in tale non infrequente eventualità, è possibile che sia lo stesso sistema, un
sistema che è certo soltanto tale in quanto ipotesi (48), ad entrare in crisi, in una
sorta di fibrillazione permanente, nel senso che tale situazione di fatto è, allo stesso
tempo, causata dall’incertezza (sistemica) delle regole e causa effettuale di ulteriore
incertezza (essa stessa sistemica), in una combinazione relazionale di causa ed
effetto dinamica ed altamente variabile.
In questo senso, l’incertezza della scienza e della techne finisce coll’innescare un
processo di corrosione e di potenziale destrutturazione dello stesso modello
costituzionale, o meglio di quel modello costituzionale che, utilizzando gli schemi di
ragionamento e di classificazione dell’Unione europea, viene ricondotto all’idealtipo
del government che sarebbe stato oggi soppiantato (di fatto) dai contemporanei
sistemi di governance multilivello (49).
E mi sembra anche importante constatare, sotto questo riguardo, che in non pochi
casi (e, anzi, soprattutto in quelli che hanno maggiormente colpito la pubblica
opinione, in ragione degli interessi individuali e collettivi coinvolti) l’incertezza
sistemica può essere, almeno in parte, spiegata e giustificata facendo ricorso, ancora
una volta, all’antica dottrina dei concetti giuridici indeterminati la quale sembra
pertanto rivelare una inattesa e perdurante capacità euristica.
Come mero esempio (in realtà molto significativo) può essere sommariamente
ripercorsa la vicenda dell’ILVA di Taranto, un vero e proprio modello di case Law dal
quale è possibile ricavare le coordinate del tutto stabilizzate (a quel che pare!) del
nostro problema.
Il focus del discorso ci porta, ovviamente, alla sentenza della Corte costituzionale 9
aprile 2013, n. 85 nella quale si fa il punto della questione e di tutta la vicenda.
Vicenda, in se stessa, di una tragica quanto disarmante semplicità e nella quale si
vedono, “l’un contro l’altro armati”, la magistratura tarantina che ha disposto il
sequestro giudiziale dei manufatti già prodotti e stoccati nel perimetro aziendale, il
governo che nella persona del ministero dell’ambiente del territorio e del mare
emana un provvedimento di autorizzazione integrata ambientale (A.I.A.), alla cui
piena attuazione da parte della proprietà e del management dell’impresa è
subordinata la possibilità di poter continuare la produzione in pendenza di giudizio,
e naturalmente il legislatore il quale con l’art. 1 del decreto-legge 3 dicembre 2012,
n. 207, convertito con modificazioni nella l. 24 dicembre 2012, n. 231, ha previsto
che presso gli stabilimenti di cui sia riconosciuto “l’interesse strategico nazionale” e
che occupino almeno 200 lavoratori l’esercizio della produzione possa proseguire,
anche quando sia stato disposto il sequestro giudiziario degli impianti, per un tempo
non superiore a 36 mesi allorché sia necessario per la salvaguardia dell’occupazione
e della produzione. A ciò si aggiunga che il legislatore subordina, in ogni caso, tale
indubbia misura di favore al rispetto delle prescrizioni impartite con l’A.I.A.,
soggiungendo all’art. 3 della cit. l. n. 231/2012 che l’impianto dell’ILVA è uno
“stabilimento di interesse strategico nazionale”, nel senso prima descritto, con una
serie di importanti conseguenze quali la reimmissione dell’azienda nella disponibilità
degli impianti e dei manufatti già prodotti in vista della loro commercializzazione,
fermo sempre restando il completo adempimento dell’apparato prescrittivo di cui
all’A.I.A. già assentita in data 26 ottobre 2012 (e cioè prima dell’emanazione del
decreto-legge
e
della
legge
di
conversione)(50).
Il caso qui succintamente rappresentato è addirittura emblematico, come si è
appena detto, in quanto mette a nudo il nocciolo duro del nostro problema. E,
infatti, l’incertezza delle regole, soprattutto quando si evidenzi come sistemica,
coinvolge tutti gli attori istituzionali di un ordinamento complesso: il legislatore che
pone (rectius, deve porre!) le regole del gioco; la giurisprudenza, da quella ordinaria
fino a quella costituzionale, la quale esercita il suo “mestiere” poiché interpreta le
norme definendone il perimetro interno ed esterno; e l’amministrazione che, alla
stregua di un convitato di pietra, dà esecuzione alle norme ma, in realtà, molto
spesso, ci mette del suo occupando, anche praeter legem, tutti quegli spazi, pur
relativamente liberi (il c.d. Spielraum), nei quali può svolgersi la sua discrezionalità
ermeneutica (51).
Se questo è vero, appare del tutto coerente e conseguente che, allorché il
legislatore non riesca (non voglia, non possa, non sia in grado…, queste essendo le
opzioni in campo) a definire con sufficiente precisione i concetti giuridici che
rilevano per quel certo evento, l’indeterminatezza della disciplina apra un’autentica
prateria che può essere arata dagli altri attori istituzionali. E qui, nella vicenda
dell’ILVA di Taranto, non entrano ovviamente in gioco soltanto i concetti giuridici
indeterminati di cui il legislatore ha disseminato la disciplina di riferimento (ad
esempio con la nozione di stabilimento di “interesse strategico nazionale”) ma
proprio l’incertezza sistemica del sapere scientifico che il “diritto della scienza
incerta” è chiamato a correggere: in che modo, con quali accorgimenti e con la
messa in campo di quali tecnicalità, si può cercare di ottenere il mirabile quanto
inarrivabile risultato della quadratura del cerchio, coniugando ecologia ed
economia, ossia la protezione dell’ambiente e la salvaguardia dei livelli di
occupazione nell’area interessata? E’ già l’art. 41 Cost. a proporci, in realtà, tale
antinomia, rappresentandoci l’insuperabile (a mio avviso) difficoltà di scelta fra le
ragioni della dignità della persona e della socialità dei fini verso cui deve tendere
l’attività economica, da un lato, e quelle della ratio economica, dall’altro, ossia degli
operatori economici che agiscono nel mercato alla ricerca, ovvia e comprensibile,
del proprio profitto.
Come si vede il tema della fragilità e della fallibilità della scienza e della techne si
salda, in modo forse inatteso, con la dottrina dei concetti giuridici indeterminati, a
conferma della sua perdurante vitalità e, soprattutto, della sua idoneità ad
intercettare e spiegare il relativismo del sapere, di ogni sapere, tanto più evidente
quanto maggiore sia la velocità della sua evoluzione.
Il che spiega l’intervento “definitorio”, e persino “sostitutivo”, del giudice ordinario,
volto ad utilizzare i mezzi del processo (il sequestro giudiziario) per finalità di
gestione in via amministrativa del problema, e cioè oltre le esigenze della cautela
processuale, e soprattutto spiega e giustifica la pronunzia correttiva e conformativa
del giudice della costituzionalità delle leggi che mi pare, almeno nel suo nucleo
essenziale di ragionamento, del tutto condivisibile: la gestione sul terreno di ogni
problema a carattere pratico-operativo rientra nei compiti esclusivi
dell’amministrazione che ha già emanato, in questa direzione, un provvedimento
piuttosto complesso (l’A.I.A.), e con un apparato prescrittivo severo.
In questo senso, in quella sorta di psicodramma nazionale che è ormai diventata la
vicenda dell’ILVA, si apre un importante spiraglio, un barlume di luce, in quanto il
problema viene ricondotto a diritto, ossia ai principi consustanziali allo Stato di
diritto, nonostante tutto, e quindi a prescindere dagli stessi discorsi dell’Unione
europea sulla governance e sul government. Ciò che invece, nel contesto del
pensiero complessivo della Corte costituzionale, può essere invece messo in
discussione è il richiamo alla tutela c.d. sistemica dei diritti fondamentali, sistemica
in quanto essi sarebbero declinati come pariordinati nella nostra Costituzione.
Non mi dilungherò in riflessioni a carattere generale su tale linea di ragionamento, e
comunque, anche limitando il discorso al tema dell’incertezza delle regole, mi
sembra che la comparazione, il bilanciamento e la ponderazione degli interessi
costituzionalmente rilevanti, perché ordinati secondo una scala di “valori” in
qualche modo gerarchica, sia molto meno foriera di incertezza (fisiologica e/o
patologica e persino sistemica) di quanto possa essere la loro declinazione in chiave
sistemica. E per una semplice quanto difficilmente superabile motivazione: quando i
diritti giochino tutti insieme secondo una disposizione di tipo lineare/orizzontale,
senza che sia istituita una pur labile ed elastica gerarchia fra di loro, sarà
l’amministrazione, nel quadro del procedimento amministrativo, a selezionare
quello al quale debba essere assegnato valore prioritario ovvero, più esattamente, a
stabilire le forme positive della sua considerazione, e dunque della sua tutela. Sarà
anche vero che i diritti giocano in coppia (52), solo che quando l’arena del gioco
finisce coll’essere il procedimento amministrativo, il rischio reale è che un certo
diritto, un certo interesse, pur avvertito come costituzionalmente fondato e
rilevante, sia per così dire confinato nell’ambito della procedura, nel senso che sarà
sufficiente la sua mera presa in considerazione, nel quadro della procedura stessa,
ad assicurarne il fine dell’obiettiva tutela, a prescindere dalle sue forme concrete e,
soprattutto, dal risultato effettivamente raggiunto (53).
E con ciò entra prepotentemente nel gioco l’amministrazione pubblica che diviene,
al cospetto della labilità dell’indirizzo politico del legislatore, ed anche a causa di una
comoda via di fuga costruita con grande sapienza dalla giurisprudenza
costituzionale, peraltro non sempre univoca sul punto (ed anzi capace di importanti
ripensamenti e fluttuazioni di pensiero) (54), l’attore istituzionale al quale è affidato
un importante compito di stabilizzazione del sistema delle regole: nei rami bassi
dell’ordinamento, certamente, ma con un’enorme spazio di manovra (entro uno
Spielraum talora piuttosto esteso) capace di produrre, in contrasto con ogni diversa
aspettativa, una sorta di fibrillazione endemica delle regole, tanto più corrosiva e
devastante quanto più l’incertezza della regolazione vada a toccare i temi c.d.
sensibili.
L’ affaire dell’ILVA dimostra dunque appieno la sua valenza e collocazione strategica
nel contesto del discorso che si sta costruendo, ma altri casi possono essere passati
in rassegna, a questo stesso fine, casi e vicende, sia risalenti nel tempo che molto
recenti, analizzandosi i quali sembra che la giurisprudenza, magari sull’onda dei
furori dell’opinione pubblica (rectius, dei media che la veicolano), abbia quasi in
animo di avviare un vero e proprio “processo alla scienza”, ad una scienza della
quale forse non viene compiutamente intercettata, e soprattutto accettata,
l’intrinseca, drammatica fallibilità.
E si va, naturalmente, dal famoso caso Di Bella (55), sul quale sono stati versati fiumi
d’inchiostro, alla vicenda del Talidomide (ed anche del Prozac) (56) sino a vicende
più recenti nelle quali la relatività fallibilista della scienza, da un lato, e la
contestazione della scienza medesima, dall’altro, sino alla sua messa sotto scacco,
ed anzi in stato d’accusa, sono molto evidenti, addirittura inquietanti.
Nei molti, possibili esempi che possono essere evocati e passati in rassegna è
possibile rintracciare alcuni tratti comuni: il problema reale è quello di saper
fronteggiare il c.d. rischio da ignoto tecnologico oppure quello che si riconnette alla
imprevedibilità degli eventi naturali (reale o supposta come tale), rischi che
debbono essere individuati, gestiti e misurati in termini quantitativi, ed anzitutto, se
possibile, previsti; la capacità di definizione ad opera del legislatore (anche europeo
e/o transnazionale oppure internazionale) di siffatte aree di rischio, in vista della
loro corretta gestione, è piuttosto labile o, comunque, insufficiente; è pertanto la
giurisprudenza a trovarsi in prima linea, essendo chiamata a mettere in campo
soluzioni ragionate che costituiscono la rappresentazione materiale di quel diritto
della scienza incerta che va progressivamente assumendo consistenza e rilevanza
francamente inattese.
Il che può tradursi in un vero e proprio attacco alla scienza, in quel processo alla
scienza alla quale si chiede tutto (ed il contrario di tutto), secondo quanto si ritrae
dalla drammatica vicenda del recente terremoto dell’Aquila (57).
Nell’ambito della vasta casistica, mi sembra sufficiente ricordare, oltre alla
giurisprudenza formatasi in occasione del tragico evento aquilano, i processi in
materia di inquinamento da amianto, la giurisprudenza, soprattutto costituzionale,
in tema di procreazione medicalmente assistita, il caso Stamina nonché, last but not
least, l’affaire Englaro, relativamente all’eutanasia e, almeno incidentalmente, al
testamento biologico (58). Tale catalogo di esempi deve essere poi, a mio avviso,
integrato da almeno altre due casi, seppure non così rilevanti sul piano
dell’interpretazione giurisprudenziale, almeno fino a questo momento: quello
relativo alla definizione di “medicinale per funzione”, alla luce del diritto dell’Unione
europea, ed il caso, davvero emblematico, a mio modo di vedere, Avastin- Lucentis,
ancora in materia di farmaci (59).
Anche a prescindere dalla considerazione, tanto ovvia quanto rilevante, che tutti, o
quasi, i casi or ora evocati si connettono funzionalmente con la cura e la tutela del
diritto alla salute, inteso nella sua dimensione più ampia e completa (60), nella case
Law alla quale ho appena fatto riferimento si possono cogliere alcuni tratti comuni:
“l’insostenibile opacità delle leggi italiane” (61), in primo luogo, anche là ove sia
proprio la frequenza ossessiva della regolazione ad implementarne la già naturale
incertezza; la “funzione definitoria” della giurisprudenza; il ruolo, talora antagonista,
giocato dalle amministrazioni pubbliche, anche di quelle deputate a governare i c.d.
settori sensibili, nella gestione delle regola incerta al cospetto delle soluzioni
elaborate dalla giurisdizione.
L’incertezza (sistemica) delle regole è capace di determinare, in altre parole,
situazioni e condizioni di conflitto endemico fra i poteri dello Stato, fra il potere
esecutivo e quello giurisdizionale, foriere di conseguenze davvero preoccupanti sul
piano della sicurezza giuridica, e pertanto dell’affidamento della persona nei
confronti dell’agire dei decisori collettivi pubblici.
Se questo è vero, è forse soprattutto nella vicenda del trattamento stamina che è
possibile cogliere, addirittura contestualmente, tutte le tensioni del (difficile)
rapporto fra indirizzo politico e funzione “definitoria” della giurisprudenza. E non
solo, perché da questo stesso caso si ritrae anche conferma del ruolo che può
concretamente giocare la soft Law, in quanto espressione dei saperi specialistici,
come elemento di interposizione, e di frizione, tra l’indirizzo politico del legislatore e
l’interpretazione della giurisprudenza; e si ritrae egualmente conferma, come si è già
accennato, della vitale importanza dei suddetti saperi esperti (la consulenza tecnica
resa al giudice) anche sotto un altro profilo, in quanto è proprio su di essi che sarà
fondata la costruzione dei frammenti di quel diritto della “scienza incerta” di
derivazione giurisprudenziale che sfugge al controllo dell’indirizzo politico delle
assemblee elettive.
I problemi sul tappeto non sono molto diversi da quelli che a suo tempo pose
l’affaire Di Bella, in quanto in entrambe le ipotesi viene chiesto al legislatore (rectius,
al servizio sanitario nazionale nelle sue articolazioni regionali) di consentire ai
portatori di gravissime malattie di poter accedere ad un trattamento sanitario non
ancora compiutamente sperimentato, e relativamente al quale, comunque, il
dibattito nella comunità scientifica è ancora aperto, non essendovi alcuna certezza
circa la sua utilità e persino in merito alla sua innocuità.
Come si vede è, ancora una volta, il principio di precauzione, in quanto regola del
procedere, di flexsecurity, a dover giocare, nel bene come nel male, il ruolo
fondamentale onde sterilizzare le tensioni e gli antagonismi presenti sul terreno.
E’ Impossible, ovviamente, formulare un qualsivoglia giudizio sul punto.
La realtà ci dice, ad ogni buon conto, che tutte (o quasi) le giurisdizioni si sono
pronunziate sulla questione, dalla CEDU, dal giudice ordinario a quello
amministrativo, molto spesso con provvedimenti cautelari con i quali si ordina
all’amministrazione di consentire, in via interinale, il trattamento stamina in favore
di pazienti ai quali non sarebbe comunque possibile applicare un differente,
alternativo trattamento terapeutico (62). E ciò anche in contrasto con un’ordinanza
dell’Agenzia italiana per il farmaco (AIFA) (63).
E la realtà ci dice anche che l’indubbio attivismo giudiziale non ha prodotto risultati
in se stesso appaganti perché supportati da una valida, o perlomeno affidabile,
expertise teorico-sperimentale; il ministro della salute ha conseguentemente
investito dell’esame della questione un comitato di esperti (per ben due volte),
ricevendo infine una valutazione completamente negativa circa l’utilità del metodo
stamina.
Da ciò la franca presa di posizione dell’amministrazione nel senso di “richiamare
all’ordine” la magistratura: sulla base del parere di un comitato di esperti – si noti
bene – e quindi a prescindere da ogni pur labile e persino occasionale
coinvolgimento del Parlamento, in sintonia con i principi materiali della soft Law la
quale fa leva sul dialogo ravvicinato e privilegiato che il potere esecutivo intrattiene
con le comunità di esperti.
Prima di trarre alcune (perplesse) conclusioni finali mi preme rammentare un’altra
vicenda forse meno impattante sul piano emotivo ma sicuramente non meno
interessante dal punto di vista del diritto, ossia il caso Avastin/Lucentis.
In estrema sintesi, ad essere messa sotto accusa è addirittura l’AIFA per il fatto
d’aver impedito l’utilizzo c.d. off label dell’ Avastin (64), imponendo l’uso del
Lucentis, infinitamente più costoso del primo, sebbene entrambi i farmaci
presentino le stesse potenzialità terapeutiche (ed anche, peraltro, le stesse
controindicazioni). In tale vicenda entra ovviamente in gioco anche l’Agenzia
europea dei medicinali (EMA), giacché è proprio in conseguenza del suo intervento
che la nostra agenzia nazionale sarà obbligata ad inibire l’uso del farmaco meno
costoso a vantaggio di quello più caro, pur in presenza della stessa attitudine
terapeutica e delle medesime (non irrilevanti) controindicazioni.
La vicenda è davvero emblematica, al punto tale che le associazioni dei malati e dei
consumatori hanno concretamente minacciato il ricorso alla Class action onde
ottenere il rimborso delle maggiori spese sostenute (65).
Ciò che comunque interessa mettere in luce è che, in questo importante studying
case, la condizione di totale incertezza (sull’an e sul quomodo) è causata, in primo
luogo, dall’attività di controllo conformativo di agenzie tecniche, a prescindere da
ogni intervento definitorio della giurisprudenza, quasi a conferma del fatto che la
relatività e la volatilità del sapere scientifico incidono piuttosto pesantemente anche
sull’attività degli apparati amministrativi, e soprattutto di quelle autorità tecniche e
regolatrici che operano nei c.d. settori sensibili (66).
Non ingiustificatamente infatti gli operatori del settore (67) hanno rilevato come
siano state, in realtà, l’oscurità e la confusione delle regole ad aver in larga parte
determinato l’evento, lamentando in questa direzione che i “dubbi sulle regole”
sono stati alimentati dai comportamenti, inadeguati e perplessi, dell’Autorità
garante della concorrenza e del mercato.
E con ciò si torna quasi all’origine del problema, in quanto il caso or ora
succintamente illustrato ci propone un’ulteriore, e non secondaria, variante
dinamica del tema dell’incertezza delle regole, nel senso che è forse (anche) un
certo modello di controllo preventivo delle attività economiche a rivelarsi, esso
stesso, come foriero di possibile incertezza (in ognuna delle sue possibili forme, fino
a quella sistemica) o comunque a sollevare questo dubbio, questo sì a carattere
sicuramente sistemico.
6. Rilievi conclusivi: nel segno dell’incertezza.
Non è certo agevole cercare di delineare un quadro di sintesi con elementi di
conclusione quantomeno affidabili, in quanto il caos e la liquidità che
contrassegnano i modelli contemporanei di governance consentono meramente (nel
segno dell’incertezza!) di elaborare alcune semplici ipotesi di lavoro, estemporanei
spunti di riflessione, se si preferisce.
Vi sono tuttavia alcuni punti sufficientemente fermi, a mio avviso, che possono
essere ripresi, potendo verosimilmente costituire la base di indagini e ragionamenti
forse maggiormente assertivi, seppure non definitivi.
Appare in qualche modo chiaro che se l’incertezza è una sorta di mina vagante che
corrode la stabilità dei sistemi giuridici, e proprio sotto il profilo nevralgico
dell’aspettativa (rectius, della pretesa) alla “sicurezza giuridica”, essa non è tuttavia
un fenomeno unitario ma piuttosto un insieme complesso; sicché sembra
abbastanza evidente che sia l’incertezza a carattere sistemico a determinare la
destabilizzazione endemica dei modelli positivi di regolazione e di gestione degli
interessi.
Mi sembra anche fuor di discussione che l’incertezza, nella sua variante di tipo
sistemico, contribuisca a causare la liquefazione del sistema delle fonti del diritto
per come tradizionalmente noi lo conosciamo (con il trasmutarsi del modello di
government in quello di governance multilivello), con effetti e conseguenze
importanti sugli assetti costituzionali dell’ordinamento, sui suoi “rami alti”; in
particolare, come si è visto, è il rapporto tra politica e giurisdizione ad apparire se
non snaturato comunque certamente ristrutturato e riplasmato secondo un codice
di valori (di regole e di regolarità materiali) che non ha molto a che vedere con i
tradizionali principi ordinatori dello Stato di diritto.
Se questo è vero, è comunque la crisi della scienza, della sua infallibilità e persino
della sua credibilità, ad innescare processi di profonda alterazione del sistema delle
regole, in quanto è proprio la regola delle regole (ossia il primato assoluto della
scienza in quanto veicolo di certezza e di obiettivo progresso) ad essere revocata in
dubbio; in particolare, è la continua, persistente evoluzione tecnologica a
rappresentarci il senso del superamento del nostro quotidiano, come se un
“Prometeo irresistibilmente scatenato” (68) governasse ogni evento e fatto della
nostra esistenza. E la crisi di identità della scienza e della stessa techne vengono ad
essere intercettate e gestite da un sistema di decisione pubblica già alterato e che a
causa di tale ancor più rilevante impatto finisce coll’andare per così dire in blocco:
sarà soprattutto la giurisprudenza che eserciterà una funzione “definitoria”, in
quanto tenterà di darci definizioni certe, o meno incerte, di fatti, fenomeni,
emergenze, concetti scientifici, ecc. di cui il legislatore sicuramente coglie
l’importanza ma per i quali non riesce (o non vuole!) dare risposte certe e/o
sufficientemente affidabili.
Il che si verifica, soprattutto quando si tratti di affrontare e gestire il c.d. rischio da
ignoto tecnologico, ma presenta tuttavia un valore assolutamente generale: ad
esempio, gli agronomi, i botanici e i naturalisti hanno una qualche difficoltà a
definire ciò che può essere accreditato come bosco (soprattutto in relazione alla
diversa nozione di foresta) laddove la nostra Corte di Cassazione ci insegna, ai fini
del processo, ciò che è il bosco “in senso normativo” (69).
A ciò si aggiunga un dato sistemico che sembra essere di straordinario quanto forse
inatteso rilievo: è anche l’amministrazione, soprattutto quando operi nei settori c.d.
sensibili, a svolgere, di fatto, una fondamentale funzione definitoria perché si trova a
gestire concetti giuridici indeterminati oppure a causa della necessità di dover essa
stessa fronteggiare, in una situazione di relativa (o marcata) volatilità del quadro
normativo, il sopravanzare della crisi della scienza e della techne fino al limite del
rischio da ignoto tecnologico. Non è forse neppure così importante interrogarsi circa
la natura di siffatto potere discrezionale, essendo invece necessario (e sufficiente)
coglierlo nella sua oggettiva dimensione fattuale, e i fatti – si sa! – non possono
essere negati ma più semplicemente spiegati, quando ciò sia ovviamente possibile.
Alla luce di queste tenui, e comunque interlocutorie considerazioni, è forse possibile
delineare e segnare, quantomeno, il perimetro mobile del nostro problema: al
centro di un’arena competitiva si muovono tutti gli attori istituzionali di un sistema
giuridico complesso, dal legislatore alla giurisprudenza fino al potere esecutivo, sia
nella sua funzione di governo che in quella di amministrazione. In gioco sono,
naturalmente, l’elaborazione, la messa in campo e l’interpretazione-applicazione
delle regole onde correggerne e, se possibile, prevenirne l’incertezza.
E l’incertezza (soprattutto quando sia a carattere sistemico oppure causata, in ogni
caso, dalla crisi di affidabilità della scienza e della techne) è forse essa stessa, in
qualche misura, il prodotto di un certo conflitto endemico tra i poteri dello Stato,
ma soprattutto contribuisce a determinarlo o, comunque, ad enfatizzarlo.
Sicché l’incertezza delle regole finisce col manifestarsi come il riflesso sensibile della
crisi epocale dello Stato di diritto e dei suoi principi ordinatori, ossia del glorioso
modello di government che sembrerebbe essere stato soppiantato da quello della
governance multilivello. E, su questa via, gli eventi sotto i nostri occhi stimolano altri
dubbi, altri interrogativi che ci portano al cuore dei sistemi a diritto amministrativo,
e pertanto ad interrogarci sulla persuasività, e dunque sull’utilità, del tradizionale
modello del controllo amministrativo delle attività private, vista la sua ricorrente
difficoltà ad assicurare (fra l’altro!) risultati soddisfacenti già sul terreno della
prevedibilità e della certezza delle regole. A ciò si aggiunga che la nostra esperienza
quotidiana ci spinge egualmente a mettere a fuoco il ruolo attivo, e davvero
definitorio, che la giurisprudenza sembra giocare nel momento attuale, riuscendo ad
essere, quasi allo stesso tempo, un argine capace sia di limitare la persistente
incertezza delle regole che di implementarla comunque, nonostante la messa in
campo, anche nel nostro ordinamento, della regola conformatrice del precedente
(70).
Ed è verosimilmente nei variegati giochi di ruolo dei differenti attori istituzionali, con
i veti ed i conflitti di competenza (e di conoscenza!) che sono troppo spesso elevati,
che è possibile rinvenire il nucleo duro di ogni incertezza, per fronteggiare la quale
può essere forse riproposto l’antico monito del “ritorno allo Statuto” (71) il quale
disvela, anche ai nostri fini, la sua perdurante vitalità.
NOTE
*) Il presente lavoro è il testo della relazione tenuta al convegno annuale dell’AIPDA
(Napoli, 3-4 ottobre 2014) sul tema “L’incertezza delle regole”.
1) La letteratura è, ovviamente sterminata; cfr., tuttavia, esaustivamente, per tutti,
G. GROSSO, Lezioni di Storia del diritto romano, Torino, 1965.
2) Il riferimento è, intuitivamente, in primo luogo, agli studi di Z. BAUMAN, del quale
si veda, ex multis, Modernità liquida, Roma- Bari, 2008 nonché Modus vivendi,
Roma- Bari, 2008. In questo senso, come si argomenta successivamente nel lavoro,
fondamentali appaiono i contributi di K. POPPER (La società aperta e i suoi nemici,
Roma, 1996) e di U. BECK (La società del rischio, Roma, 2000).
3) Cfr. più diffusamente infra, ai paragrafi che seguono.
4) Sia consentito rinviare su tali tematiche, e con riserva di un più ampio corredo di
riferimenti bibliografici, a R. FERRARA, Etica, ambiente e diritto: il punto di vista del
diritto, in Trattato di diritto dell’ambiente (diretto da R.FERRARA e M.A. SANDULLI),
Tomo I, Milano, 2014, 19 ss.
5) Così, molto efficacemente, M.C. TALLACCHINI, in molti contributi, fra i quali
soprattutto, Ambiente e diritto della scienza incerta, in GRASSI-CECCHETTIANDRONIO (a cura di), Ambiente e diritto, vol. I, Firenze, Olscky, 1999, 57 ss.
6) E su di ciò si veda, con maggior dettaglio, infra, soprattutto al paragrafo n. 4 e ss.,
anche in relazione alla casistica giurisprudenziale colà riportata.
7) Su ciò più diffusamente infra ma comunque, per tutti, M.C. TALLACCHINI, op. loc.
cit., nonché ID., Politiche della scienza contemporanea: le origini, ambito e fonti del
biodiritto, in Trattato di biodiritto, a cura di S. RODOTA e P. ZATTI, vol. V, tomo I,
Milano, 2010, 53 ss.
8) Così, infatti, S. CASSESE, La costruzione del diritto amministrativo: Francia e Regno
unito a confronto, in S. CASSESE (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, vol. I,
Milano, 2003, 1 ss.
9) Ancora S. CASSESE, op. loc. cit. cui adde S. SPUNTARELLI, L’amministrazione per
legge, Milano, 2007, alla quale debbo il puntuale riferimento alla prefazione che A.
DE TOCQUEVILLE fece al corso di diritto amministrativo di MACAREL nella quale
definisce il modello francese come “sistema del mondo”.
10) Ossia ad opera del d.lgs. 2 luglio 2012, n. 104, così come successivamente
modificato ed integrato. In materia, per tutti, C. E. GALLO, Manuale di giustizia
amministrativa, Torino, 2014, passim.
11) Sia consentito rinviare, per tale ordine di problemi, a R. FERRARA, Introduzione
al diritto amministrativo, Roma- Bari, 2014, passim.
12) Cfr., per tutti, S. COGNETTI, Profili sostanziali della legalità amministrativa,
Milano, 1993, al quale si rinvia anche per l’analisi ragionata e approfondita della
dottrina tedesca.
13) Ancora S. COGNETTI, op. loc. cit. e, per tutti, R. VON LAUN, Das freie Ermessen
und seine Grenzen, Lipsia, 1910. Molto interessanti anche le notazioni della nostra
giurisprudenza e, segnatamente, di Cons. Stato, sez. III, 2 settembre 2014, n. 4460,
in www.giustamm.it (pronunzia relativa al c.d. caso Englaro) ove si parla di un
inquietante “spazio libero dal diritto” (rechtsfreier Raum) che il legislatore dovrebbe
colmare, a riempire il quale finisce tuttavia col provvedere, almeno
provvisoriamente, la giurisprudenza.
14) Ossia il diritto materiale, regole e regolarità, nel senso messo efficacemente in
luce da M. DOGLIANI, Indirizzo politico. Riflessioni su regole e regolarità nel diritto
costituzionale, Napoli, 1985.
15) Così, recentemente, S. CASSESE, Il farsi del diritto: diritto e mutamento, in E. M.
MARENGHI (a cura di), Ritorno ai principi. Il fatto, il farsi, il diritto, Napoli, 2014, 9 ss.
16) Così, ad esempio, Corte cost., 9 aprile 2013, n. 85, sul caso ILVA, in
www.giurcost.org. Sul tema, per una vicenda non dissimile che vede come
protagonisti (involontari!) l’ILVA e l’Italisider, relativamente all’area di Bagnoli, cfr.
Trib. Napoli, sez. XII, ordinanza 13 ottobre 2014, reperibile al sito
www.quotidianogiuridico.it.
17) Si veda, ex multis, Corte cost., 24 giugno 2004, n. 196 (in www.giurcost.org),
relativa al condono edilizio per l’anno 2003, da cui sembra evincersi che la tutela del
paesaggio sarebbe obiettivamente realizzata, alla luce dell’art. 9 Cost., allorché ne
sia meramente considerato il peso nel procedimento amministrativo, quasi a
prescindere dall’esito finale del procedimento stesso.
18) A. DE TOCQUEVILLE, La democrazia in America, Milano, 1992, passim.
19) In relazione a ciò, esaustivamente, comunque, M.A. SANDULLI, (a cura di),
Codificazione, semplificazione e qualità delle regole, Milano, 2005 nonché già ID.,
Brevi riflessioni su alcune recenti tendenze all’incertezza del diritto, in Rass. parl.,
2003, 125 ss.
20) Su ciò sia ancora consentito rinviare a R. FERRARA, Introduzione al diritto
amministrativo, cit., passim, ma spec. 201 ss.
21) Nel segno di quanto efficacemente sostenuto, pertanto, dai teorici della società
del rischio (U. Beck) e del mondo liquido (Z. Bauman): supra, alla nota n. 2.
22) Nel quadro di una letteratura sterminata, soprattutto in chiave comparatistica,
può essere invece utile, ai fini limitati del nostro discorso, il richiamo alla
giurisprudenza e, segnatamente, all’importante pronunzia di Corte cost., 1° ottobre
2003, n. 303, in Foro it., 2004, I, 1018, con note di R. FERRARA e F. FRACCHIA e,
ancora prima, alla classica decisione della Corte suprema U.S.A., U.S. Supreme Court,
M’Culloch v. State of Maryland et al., 17 U.S. 316 (Wheat), February Term 1819, in
http://laws.findlaw.com/us/17/316.html.
23) Cfr., per tutti, S. CASSESE, Il diritto globale, Torino, 2009, passim.
24) E, cioè, ne viene deliberatamente programmata la revisione e/o la cancellazione
dall’ordinamento: S. RODOTA’, Diritto, scienza e tecnologia: modelli e scelte di
regolamentazione, in G. COMANDE’- G. PONZANELLI (a cura di), Scienza e diritto nel
prisma del diritto comparato, Torino, 2004, 397 ss.
25) Sia ancora permesso il rinvio, soprattutto per un più completo corredo di
riferimenti bibliografici, a R. FERRARA, Introduzione al diritto amministrativo, cit.,
spec. 201 ss.
26) Secondo la nota massima di G.B. VICO (Principi di scienza nuova, Torino, 1976
LXIV, nuova edizione rispetto a quella napoletana del 1744). In ordine al pensiero
complessivo del grande filosofo napoletano, cfr., recentemente, E. M. MARENGHI (a
cura di), Ritorno ai principi, cit., passim.
27) Ancora G.B. VICO, op. loc. cit. e, naturalmente, F. BACON, Nuova Atlantide, in
Saggi del progredire della scienza, Novara, 1966.
28) Sia consentito rinviare sul punto, per la messa a fuoco del dibattito e per
maggiori riferimenti bibliografici, a R. FERRARA, Etica, ambiente e diritto: il punto di
vista del giurista, cit.
29) Ancora, se si vuole, R. FERRARA, op. ult. cit.
30) Il rinvio, in questo caso, e pertanto su tali tematiche, può essere generale, e
quasi sistematico, ai tre tomi del cit. Trattato di diritto dell’ambiente cui adde i
ponderosi volumi del Trattato di biodiritto, diretto da S. RODOTA’ e P.ZATTI, Milano,
2010- 2011, spec. il volume Salute e sanità, 2010, passim.
31) Cfr., nuovamente, i contributi raccolti nel cit. tomo I° del Trattato di diritto
dell’ambiente, e ivi i contributi di C.E.GALLO, O. PORCHIA, L. PINESCHI e Altri.
32) Si tratta di un verso di Coen, riportato da V. MAZZARELLI nel suo denso volume
Le convenzioni urbanistiche, Bologna, 1979.
33) Sia ancora permesso rinviare a R. FERRARA, op. ult. cit., ove si riprendono
importanti riflessioni di L. BENVENUTI, Il diritto dell’ambiente nella prospettiva
dell’etica applicata, in Jus, 2000, 453 ss.
34) U. BECK e Z. BAUMAN, nei contributi più volte citati.
35) Il riferimento d’obbligo è, ovviamente, a M. FOUCAULT, del quale cfr., ex multis,
Sicurezza, territorio, popolazione, Milano, 2005 nonché ID., Nascita della biopolitica,
Milano, 2005.
36) Nel senso descritto da K. POPPER, op. loc. cit., fra i tanti contributi che l’illustre
filosofo ha dedicato al tema della società aperta.
37) Ancora M. C. TALLACCHINI, op. loc. cit.
38) Così, molto suggestivamente, il presidente B. OBAMA, nel suo discorso
inaugurale del 21 gennaio 2009: “We’ll restore science to its righetful place…”, al sito
www.whitehouse.gov/blog( inaugural.-adress/.
39) Cfr. nuovamente i contributi raccolti nel cit. volume di M.A. SANDULLI (a cura
di), Codificazione, semplificazione e qualità delle regole, passim.
40) Innumerevoli possono essere gli esempi, soprattutto recenti. Ci si può limitare
comunque a considerare il caso della procreazione medicalmente assistita di tipo
eterologo, per gli effetti determinatisi in conseguenza della sentenza di Corte cost.,
10 giugno 2014, n. 162, in wwwgiurcost.org. La situazione di caos sistemico causata,
anche in tale fattispecie (non dissimilmente da quanto ci rappresenta il caso Englaro,
prima sommariamente ricordato: supra, alla nota n. 13), dalla mancanza di espresse
previsioni legislative, e l’inevitabile quanto prevedibile situazione di far West
venutasi a creare (il “fai da te delle singole regioni”) sono state in qualche misura
messe sotto controllo (nel momento attuale) dalla elaborazione delle linee-guida
messe in campo in seno alla conferenza regioni e province autonome previa
consultazione con il ministro per la salute (cfr. il sito del ministero della salute per
ogni più dettagliata informazione nonché www.regioni.it). Ossia: con strumenti, a
tutti gli effetti, di soft Law.
41) E valgono ancora, sotto questo riguardo, le riflessioni di Z. BAUMAN, nei
contributi già riportati.
42) Pensiero – questo stesso – da tutti condiviso e che filtra frequentemente anche
nei mass- media: cfr., recentemente, R. GIOVANNINI, Seveso 1976, l’Italia scopre che
l’industria può far male, in La Stampa del 15 luglio 2014.
43) Per tutti, I. M. MARINO, Aspetti propedeutici del principio giuridico di
precauzione, in Studi in onore di Alberto Romano, Napoli, 2011, vol. III, 2177 ss
nonché, se si vuole, R. FERRARA, Precauzione e prevenzione nella pianificazione del
territorio: la “precauzione inutile”?, in Riv. giur. dell’edilizia, 2012, 61 ss.
44) Su di ciò, anche per gli esempi che vi vengono riportati, si veda il saggio
magistrale di J. MORAND - DEVILLER, La notion de seuil en droit administratif, in
Mélanges en l’honneur de Franck Moderne, Parigi, 2003, 301 ss.
45) Su di ciò, del tutto esaustivamente, i densi rilievi di M.C. TALLACCHINI, I saperi
specialistici tra science advise e soft law: technology assessment ed expertise etica,
in Trattato di biodiritto, cit., vol. I, 861 ss.
46) M. C.TALLACCHINI, op. ult. cit., alla quale si fa rinvio anche per l’importante
corredo di riferimenti bibliografici.
47) Si tratta, a tutta evidenza, di una vicenda molto complessa e relativamente alla
quale la parola fine è ben lungi dall’essere scritta, vicenda che ha visto (e vede
talora) contrapposte l’autorità politica e quella giudiziale. Importante la decisione
della CEDU, sentenza sez. II, 28 maggio 2014, n. 62804/13, reperibile, fra l’altro, al
sito www.dirittifondamentali.it, con la quale viene ritenuto legittimo il rifiuto delle
autorità italiane ad autorizzare la terapia in questione. Sconcertante è, comunque,
l’altalena giudiziaria che si è registrata nella gestione del caso, forse soltanto
all’inizio, visti tutti i processi ancora in corso: cfr., sinteticamente, la ricostruzione
che ne viene fatta da P. RUSSO, Stamina: un decreto per bloccare i giudici, in La
Stampa del 25 giugno 2014, ove si passano egualmente in rassegna le violazioni
delle ordinanze dell’AIFA che sarebbero state perpetrate dalla giurisprudenza.
48) Così, molto efficacemente, A. ROMANO TASSONE, in più contributi ed interventi,
anche orali, ma soprattutto in Pluralità di metodo ed unità della giurisprudenza, in
Dir. amm., 1998, 651 ss. e in Metodo giuridico e ricostruzione del sistema, ivi, 2002,
11 ss.
49) Sia ancora consentito il rinvio a R. FERRARA, Introduzione al diritto
amministrativo, cit., spec. 201 ss, ove si passano in rassegna i documenti della UE in
tema di multilevel governance.
50) In argomento, esaustivamente, E. FREDIANI, Autorizzazione integrata
ambientale e tutela “sistemica” nell’ILVA di Taranto, in Dir. e proc. amm., 2014, 83
ss.
51) Cfr. nuovamente E. FREDIANI, op. loc. cit.
52) Così R. DWORKIN, I diritti presi sul serio, Bologna, 1982, passim.
53) E, pertanto, nel senso ben messo in luce dalla cit. sentenza di Corte cost. n.
196/2004.
54) Mi limito pertanto a (semplicemente) constatare che, in alcuni casi,
l’affermazione per cui la tutela dei diritti sarebbe declinata in modo sistemico è in
qualche misura contraddetta: ad esempio, a mio avviso, nella cit. pronunzia di Corte
cost. n.162/2014 in materia di fecondazione eterologa.
55) Sia consentito rinviare sul punto a R. FERRARA, Il diritto alla salute: i principi
costituzionali, in Trattato di biodiritto, Salute e sanità, cit., 3 ss.
56) Relativamente al quale, in chiave dichiaratamente critica, cfr., per tutti, F.
FUKUYAMA, L’uomo oltre l’uomo, Milano, 2002, passim.
57) Cfr., infatti, Tribunale dell’Aquila, 22 ottobre 2012, n. 380, sul sito
www.apertacontrada.it, e ivi un dossier tematico avente ad oggetto il “processo alla
scienza”. Si consideri, tuttavia, la recente sentenza di Corte d’appello dell’Aquila,
dell’11 novembre 2014 che ha radicalmente ribaltato la cit. sentenza del Tribunale
aquilano n. 380/2012 (cfr. Scienziati assolti: in aula rabbia e insulti, in La Stampa
dell’11 novembre 2014).
58) Cfr. nuovamente la cit. sentenza di Cons. Stato, sez. III, n. 4460/2014 (supra, alla
nota n. 13).
59) Sulla vicenda Avastin- Lucentis v. più diffusamente infra, nel prosieguo del
lavoro. In merito ai c.d. medicinali “per funzione” (nozione abbastanza ambigua e
nebulosa introdotta dalla direttiva 2001/83/CE) cfr. il parere reso dall’avvocato
generale I. Bot in merito ai prodotti a base di erbe aromatiche e di cannabinoidi
sintetici del 12 giugno 2014, e Corte giust. UE, 10 luglio 2014, cause riunite C358/13 e C- 181/14, in www.curia.europa.eu.
60) Sia ancora permesso il rinvio a R. FERRARA, Il diritto alla salute: i principi
costituzionali, cit.
61) Così S. MICOSSI, L’insostenibile opacità delle leggi italiane, in La Repubblica del 5
ottobre 2014.
62) V. supra, alla nota n. 47.
63) Ancora supra, alla nota n. 47.
64) Anche per questo caso le informazioni di maggior dettaglio si ricavano, in questo
momento, dalla lettura della stampa quotidiana: P. RUSSO, Scandalo farmaci, Aifa
nel mirino, in La Stampa del 30 maggio 2014 cui adde S. SILEONI, L’antitrust e i dubbi
sulle regole, ivi. I farmaci c.d. off label sono quelli che possono essere prescritti per
indicazioni differenti da quelle per le quali sono stati espressamente autorizzati.
65) Cfr. F. AMABILE, Class action, l’ultima carta dei malati per riavere il rimborso del
medicinale, in La Stampa del 30 maggio 2014.
66) Cfr., per tutti, i contributi più volte cit. di M.C.TALLACCHINI, ai quali si rinvia,
anche per l’imponente corredo di informazioni bibliografiche.
67) S. SILEONI, la quale è vice direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni, op. loc. cit.
68) Così H. JONAS, Il principio responsabilità, Torino, 2009.
69) Cfr. Cass. pen., 29 luglio 2013, n. 32807, in www.dirittoambiente.net, ove si
definisce il bosco in senso (solo) normativo, e non naturalistico, essendo bosco
anche la macchia mediterranea bassa, e non gli alberi di alto fusto.
70) Cfr., infatti, l’art 99 del c.d. codice del processo amministrativo, ossia del d.lgs. 2
luglio 2010, n. 104, su cui cfr. esaustivamente F. FOLLIERI, Correttezza (Richtigkeit) e
legittimazione del diritto giurisprudenziale al tempo della vincolatività del
precedente, in corso di pubblicazione negli Studi in memoria di I.M. Marino.
71) Questo essendo l’antico, e credo non superato, pensiero di S. Sonnino allorché
stigmatizzava il caos istituzionale (e costituzionale) del suo tempo.
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