L'Inferno
A cura del prof. Rocco Giannì
Impaginazione e grafica Prof. A.L.Chiaro
Jan Van Eyck, particolare del Giudizio Finale, dal Dittico della Crocifissione e del Giudizio
Finale, 1430, New York, Metropolitan Museum
L'uomo ha sempre subito il fascino
derivante dall'estremo, dallo sconosciuto,
dalle somme altezze come dagli
impenetrabili abissi. Tutte le culture e ogni
religione, in ogni tempo e a qualsiasi
latitudine, hanno associato ai cieli e ai
baratri le sedi della divinità. Non è certo per
caso che le montagne hanno finito per
assumere, nell'immaginario collettivo, il
ruolo di abitazione degli dei o mezzo con il
quale avvicinarsi a Dio. Infatti, è sul monte
Olimpo che Zeus stabilisce la dimora
divina, è sul monte Sinai che Mose riceve
le tavole dei comandamenti, è su di una
montagna che Gesù si è a per pregare e
dialogare col Padre, è sempre su di un
monte, l'Hira, che Maometto ottiene la
rivelazione da Allah, è sull'Himalaya che Duomo di Monreale, Genesi - Dio crea gli astri e i cieli, secolo
Buddha medita e trasmette ai suoi discepoli
XII
la dottrina della rinuncia. Ma ciò che qui più
ci interessa è rivolgere la nostra attenzione all'altro lato della medaglia, non alle etere, soleggiate e
nevose vette porte del paradiso, bensì agli antri tetri,
umidi e brumosi, accesso dell'inferno.
Questo termine non si trova nella Bibbia, deriva dal
latino Infernus, ossia ciò che riguarda le regioni
inferiori. A sua volta deriverebbe da Inferus, ovvero
ciò che sta sotto, sotterraneo. Infatti, il suo plurale,
Inferi, presso i Romani indica il luogo dove
risiedono i morti. Questo luogo sotterraneo è
presente nelle varie civiltà antiche in cui il mondo
veniva tripartito in:
1) il cielo, diviso in sette sfere ciascuna della forma
di una cuffia o una metà arancia svuotata.
Sovrapposte l'una alle altre, alla loro sommità
troviamo la divinità. Sono composte di aria o
etere, immaginario gas palpabile;
2) La terra: piatta e di forma quadrata, circondata
dalle acque di un grande fiume;
3) L'inferno: è un posto oscuro, sotterraneo,
profondo tanto da non permettere alle radici
delle piante di arrivarvi e sotto di esso non vi è
posto per nient'altro.
Hans Memling, Trittico del Giudizio finale,1473,
particolare dallo sportello dell'Inferno,
Danzica, Muzeum Narodowe
Nell'antichità vi furono diversi modi d'intendere le regioni infernali:
- inteso come luogo di raccolta dei morti, trasformati in ombre o fumo, vi rimangono per un lasso di
tempo indefinito, senza esservi torturati o castigati. Tale credenza prese campo presso le culture
prive dell'idea che l'uomo fosse provvisto d'anima e, conseguentemente, vi fosse anche un aldilà;
- ritenuto un luogo di transito delle anime dove gli spiriti aspettano il giudizio divino in base al
quale riceveranno un premio o un castigo.
Secondo gli Accadi-Babilonesi questo luogo
prese il nome di Arallu, mentre presso gli Ebrei
era lo Sheol e per i Greci l'Ade;
- sentito come un luogo di castigo, dove si
concentrano i malvagi che vi espiano in eterno il
castigo divino. Prende il nome di Gehenna
presso gli Israeliti, di Tartaro o Erebo per i
Greci.
L'idea cristiana dell'inferno deve molto a queste
credenze, come anche a quelle ebraiche, a loro
volta debitrici di quelle babilonesi, cananee e
persiane.
Per i Babilonesi, i defunti discendono in una
zona sotterranea posta aldilà dell'Oceano. In
questo posto permangono senza speranza alcuna
di far ritorno nel mondo dei vivi, conducendo
un'esistenza triste e penosa, costantemente
controllati dalla coppia di divinità Nergal e Eres
- Ki - Gal.
Per i Persiani le anime venivano sottoposte a
giudizio dalla divinità suprema in un luogo
simile
a un grande ponte da quale ciascuna di
Hans Memling, Trittico del Giudizio finale, 1473,
particolare dallo sportello dell'Inferno, Danzica,
esse deve necessariamente transitare. Coloro che
Muzeum Narodowe
sono condannate, vengono immediatamente
precipitate in una stanza tenebrosa dove
rimangono in eterno, avvolti da un buio impenetrabile e afflitti da un freddo pungente. Il fuoco non
vi fa mai capolino, poiché in questa cultura esso rappresenta il sacro, quindi non poteva trovarsi in
un luogo di perdizione.
I Greci, sin dall'epoca di Esiodo, ritengono che i morti stazionino nell'Ade dove permangono come
zombie vivendo in uno stato di semi vita / semi morte. Gli spettri mantenevano la forma e lo status
sociale che avevano in vita e potevano esser evocati dai vivi mediante sortilegi e esorcismi. L'Ade
viene localizzato in Occidente, al confine tra le terre emerse e l'Oceano che le avvolge per intero. Vi
si giunge attraversando la palude dello Stige, quindi si scendeva tanto in profondità che un sasso
avrebbe viaggiato in caduta libera per ben dieci giorno prima di toccar il fondo. Era un luogo
freddo, umido, perennemente immerso nelle brume, estremamente sgradevole.
Ade e Persefone sono le divinità che vi dimorano e vi regnano. A partire dal V secolo a. C., in
seguito all'influenza dei riti orfici e dell'insorgenza di un'idea di immortalità dell'anima, i Greci
credettero che nell'Ade vi fosse un luogo riservato ai rei, il Tartaro, dove soffrivano indicibili pene
descritte anche da Platone, Plutarco e Virgilio.
Hans Memling, Trittico del Giudizio finale, 1473 circa, opera intera e particolare dallo sportello
dell'Inferno, Danzica, Muzeum Narodowe
Per gli Ebrei nell'Antico Testamento l'idea dell'oltretomba é simile a quella greca dell'Iliade: si
riteneva plausibile l'esistenza di un regno delle ombre o Sheol, da dove era impossibile far ritorno
(Salmo 88 e "Libro di Job" 16,22) in cui lo spettro,
privo di sostanza corporea, permane vagando ramingo
in un ambiente oscuro, dai confini indefiniti, privo del
tutto di contatti con Dio. Secondo i profeti Ezechiele e
Isaia, le anime di coloro che si erano suicidati, erano
stati uccisi o altri casi di disperati dimoravano in fondo
a questa cavità. A poco a poco, in epoca ellenistica (III
secolo a.C.) grazie anche ai contatti avuti con le
religioni Indo-iraniane, si fece strada anche presso gli
Israeliti l'idea che l'anima fosse immortale e, di
conseguenza, quella della comminazione di pene per i
peccatori e l'elargizione di premi per i giusti. Del resto,
la vita dopo la morte era possibile e le catene dello
Sheol potevano, e dovevano esser spezzate
permettendo all'uomo che fosse vissuto secondo la
legge divina di poter godere dell'eterna vicinanza a
Dio. Nel "Libro di Henoc", nello specifico, troviamo
espliciti riferimenti all'inferno, composto stavolta da
più cavità connesse tra loro e con delle pareti ripide e
lisce che ne impedivano la scalata, nell'eventualità che
ai dannati venisse la balzana idea di risalire verso il
mondo dei vivi. Le anime, private di qualsiasi possibilità
di fuga, sono incatenate e tormentate continuamente da spiriti vendicatori che li lasciano ardere in
un deserto colmo di fiamme e perennemente
immerso nel caos.
Nel Cristianesimo, le prime informazioni
circostanziate sull'inferno - contenute nel
Vangelo di Luca e nell'Apocalisse - ci
forniscono l'immagine di un abisso simile
ad un pozzo dal quale fuoriesce senza
soluzione di continuità una spessa coltre
nebbiosa; gli empi vi risiedono sino al
giorno del Giudizio, costantemente
punzecchianti e infastiditi da cavallette e
scorpioni. Una volta ricevuto l'estremo
giudizio, le anime venivano precipitate nella
Gehenna, valletta scavata dal fiume Hinnom
sul lato sud del monte Sion dove gli esseri
impuri finivano per essere immersi
diuturnamente in un lago di fuoco. Nel
vangelo di Matteo vi è una descrizione
dell'inferno simile ad un posto
contraddistinto dallo stridore del digrignare
dei denti, dai gemiti e pianti, lamenti,
torture e fuoco inestinguibile. Tra il II e il
IV secolo d.C., testi apocrifi come
"l'Apocalisse di Pietro" e la "Visione di
Paolo", rimarcano il clima di ferocia e
violenza infernale testimoniate dallo
smembramento delle carni, il fetore
insopportabile, l'immersione delle anime in
escrementi e
fango, il
brulichio dei
vermi
e
l'angustia di
cavità
prigioni tanto
strette da esser
paragonabili a
budella. Nel
contempo,
però, nel
N u o v o
Te s t a m e n t o
compare e
s'impone la
compassione
e, con essa, la
possibilità del
Miniatura del XI secolo in cui si vede Satana, incatenato
nell'Inferno, assieme alle anime dannate condannate alle
fiamme eterne. dal Codex aureus Epternacensis, Biblioteca
nazionale di Monaco di Baviera
Giudizio Universale, Chiesa di Santo Stefano, XV secolo, Soleto (Lecce)
perdono più che quella della persecuzione e della condanna eterna. Principale promotore di questa
interpretazione teologica fu Origene di Alessandria, padre della Chiesa vissuto nel III secolo d.C.,
che formulò l'ipotesi di un progetto divino teso a recuperare il primigenio stadio di purezza e
ingenuità dell'umanità, riportandola a vivere in una sorta di Paradiso Terrestre privo di cattiveria,
sofferenza e malizia. Va da sé, naturalmente, l'automatica abolizione persino del solo pensiero di un
inferno quale luogo di perpetua vendetta divina. Anzi, per questo teologo, persino il demonio, dopo
esser stato sottoposto a diversi percorsi di purificazione, sarebbe stato perdonato e reintegrato tra gli
angeli più affini a Dio. Contro questa interpretazione si scagliarono nientemeno che personaggi del
calibro di Sant'Agostino - che nella "Città di Dio" imputa alla malvagità umana, frutto del peccato
originale, la necessità
dell'esistenza
dell'inferno, luogo dove
avverrebbe una sorta di
un percorso infinito di
riparazione
risarcimento all'infinita
bontà divina - e San
Gregorio Magno, che
da Papa combatté
strenuamente la
circolazione delle idee
che erano state del
pensatore alessandrino.
Infine, l'imperatore
Giustiniano, in veste di
capo stesso della
chiesa, tra il 541 e il
543 mise al bando le
teorie di Origene.
Giotto, Giudizio Finale, Padova, Cappella degli Scrovegni, inizi del XIV secolo
Nel Medioevo, mentre Scoto Eurigena è fautore di un panteismo (Dio è in tutto, persino nel male)
in cui non può esservi spazio per un inferno persecutorio, nella "Lettera di San Giovanni" (5,15-16)
comparsa nel XII secolo si ripropone il binomio uomini - peccatori colpevoli perciò di aver
obbligato Dio a crear l'inferno. Ma vi sono peccati e peccati, e non si può commutare la stessa,
severissima prigione infernale a tutti coloro che hanno smarrito la retta via. Per i peccati veniali
viene creata una nuova dimensione ultraterrena, il Purgatorio. San Tommaso d'Aquino, nella
"Summa Teologica", preconizza un aldilà non più doppio, bensì triplo. Arriviamo così a Dante che
colloca l'inferno al centro della Terra, in profondità, precisamente sotto la città di Gerusalemme.
Alcuni studiosi vedono in ciò una sorta di latente antisemitismo, legato a doppio filo al passo del
vangelo di Matteo (27,25) in cui si legge "cada il suo sangue su di noi (ebrei) e sui nostri figli",
ossia che le conseguenze del deicidio, mediante la crocifissione di Gesù, sarebbero ricadute
inevitabilmente sul popolo d'Israele e i suoi discendenti, per sempre. A rigore di logica e secondo la
verità storica, i giustizieri del Cristo furono i Romani, padroni delle terre di Galilea, responsabili
della gestione della legge ed esecutori materiali della sentenza, perciò la vendetta divina si sarebbe
dovuta abbattere su di loro e su i loro più diretti discendenti, quindi su di noi italiani. Tuttavia, per
fortuna dei latini e nostra, nei secoli successivi al Calvario e morte di Cristo, la chiesa di Roma
aveva imputato ai "perfidi
giudei" l'onore di aver
giustiziato il Messia.
Ma il concetto di Inferno e
Paradiso, come l'idea del
viaggio a metà strada tra il
terreno e il metafisico, tra il
reale e l'introspettivo, chiara
allusione alla necessità
dell'uomo di intraprendere un
percorso di purificazione
interiore propedeutico
all'avvicinarsi dell'anima a Dio,
sono presenti solo in ambito
cristiano o si trova, seppur con
comprensibili differenze, anche
nella escatologia musulmana?
E, in caso di risposta
affermativa, la visione
ultraterrena islamica ha avuto, e
Maometto che discende all'inferno ed incontra gli adulteri condannati ad
essere appiccati sopra il fuoco ardente
(da un manoscritto persiano del XV sec. della Biblioteca Nazionale di Parigi).
sino a che punto, qualche influsso sull'architettura
dell'opera dantesca?
Miniatura con i sette cieli del Paradiso
islamico
Premettiamo subito, ad onor del vero, che la risposta
non potrà mai essere né risolutiva né esaustiva. Del
resto, come potrebbe mai esserlo in un settore dello
scibile umano così vasto, magmatico, spesso
sconvolto e contraddetto dal venire a galla di nuovi
documenti e il ricorrere a nuove metodologie
euristiche ed interpretative come quello della Storia,
e ancor di più in quella branchia che è la Storia della
Letteratura!
Quello che faremo è ricercare testi di matrice araba,
turca e persiana che si occupino dell'argomento,
analizzare i temi, individuare le congruenze con la
coeva produzione cristiana, evidenziare
parallelamente le differenze, interpretare le valenze e
ipotizzare, infine, gli eventuali, probabili processi di
filiazione o, almeno, di reciproco scambio-influsso.
Secondo le fonti islamiche, nella notte del 27 Rajab,
mese estremamente importante nel calendario
liturgico islamico perché sacro e dedicato, tra le altre
cose, alla purificazione e alla rinuncia al male, il
profeta Maometto fu destato dal sonno dall'arcangelo Jbrail - Gabriele il quale, appena giunto alla
Mecca, gli annunziò che era giunto per lui il momento d'intraprendere l'isra', un viaggio notturno
alla volta di Gerusalemme.
Giunto nella città santa, Maometto avrebbe potuto ascendere (in arabo mi'raj) al cielo, anzi
attraverso i cieli, per giungere, dopo aver
visto profeti e angeli, innanzi a Dio e,
dopo aver avuto con lui una rivelatrice
conversazione, esser pronto a visitare
Inferno e Paradiso.
Nel Corano esistono due riferimenti
all'isra nella Sura 17:1 e nella Sura 53:5,
che sulla base di alcuni detti e ai relativi
commenti ispirarono la leggenda del
mi'raj. La versione più antica di questo
salita attraverso l'estere risale al IX
secolo, ne riportiamo qui un breve
resoconto. Svegliato di soprassalto nel
cuore della notte dall'arcangelo,
Maometto monta in groppa a un
destriero alato con testa umana,
chiamato al-Buraq. Con essa giunge a
Gerusalemme, entra nel tempio e scorge
una preziosa scala tempestata di gemme
Particolare di un dipinto attribuito a Soltan Mohammad (XVI sec.) preziose, vi sale sopra e durante l'ascesa
raffigurante l'ascesa al cielo del Profeta.
incontra gli angeli guardiani dai quali
riceve le prime rivelazioni sull'aldilà.
Quindi, sempre in sella al quadrupede,
attraversa i sette cieli - ognuno dei quali ha un nome particolare ed è costituito da una sostanza
specifica - e viene in contatto con i profeti che lo hanno preceduto, dopodiché sale nell'ottavo cielo
e fa il suo ingresso, stavolta orfano dell'iranico Pegaso, in Paradiso dove scorge le schiere dei
cherubini, il trono di Dio sorretto dai quattro evangelisti e la tavola dove sono riportati i nomi degli
esseri umani che nascono e periscono. Inoltratesi nei giardini delle delizie, incontrato le Huri,
meravigliose giovani promesse a tutti coloro che in vita hanno dimostrato di seguir la Legge divina,
oltrepassa alberi carichi di frutta, guada fiumi, e assieme all'angelo Ridwan è accolto a godere delle
delizie dei palazzi adorni di pietre preziose. Infine, incontra la comunità dei beati e riceve
rivelazioni circa il Giudizio Universale.
Una seconda versione, di poco posteriore, ha il merito di fornire maggiori ragguagli circa la
reale composizione dell'Inferno: nell'episodio dell'incontro tra il Profeta, nel terzo cielo, con un
angelo gigantesco e terrificante, Azraele, divino vendicatore delle offese umane guardiano
inflessibile dell'abisso infernale, veniamo a conoscenza del fatto che il luogo di raduno delle anime
dannate è suddiviso in sette cerchi, ciascuno riservato ad una specifica categoria di peccatori cui
vengono riservati diversi, feroci supplizi; agli uomini che rubano le ricchezze destinate agli orfani,
ad esempio, dei diavoli fanno ingollare dei potenti veleni, mentre gli adulteri sono condannati a
essere impiccati sopra un mare di fiamme ardenti. Infine, al centro del luogo di espiazione eterna,
troneggia un albero che ha teste di animali come frutti e lance al posto dei rami, sotto i quali demoni
armati di picche e taglienti coltellacci mozzano le lingue agli ipocriti. Questa suddivisione in gironi,
la stessa forma ad imbuto degli inferi che sprofondano sino al centro della Terra, così come la legge
del contrappasso che determina la posizione dei dannati in base ai loro delitti, sono chiaramente
legati al modello dantesco.
Del resto, le analogie non si fermano
qui: al binomio Virgilio-Dante si
contrappone quello Gabriele - Maometto
con le guide che spariranno poco prima
del passo finale; entrambi i viaggi hanno
una parte terrena, seppur breve, e una
parte celeste; all'al-Buraq, fantastico
ippogrifo-donna del viaggio notturno di
Maometto possiamo associare Beatrice,
"beatissima" donna-angelo morta
giovanissima, prematuramente, forse
troppo presto, privata così dalla
incostante, sensuale carnalità femminile
per trasfigurare nella figura di Cristo,
ponte tra l'umanità penitente e la divinità
giudicante e, almeno per i cristiani,
misericordiosa.
Appurato in modo incontrovertibile che
tra Dante, rappresentante della cultura
duo-trecentesca europea di chiara
matrice cristiana, e i testi escatologici
musulmani, ci resta da capire se è come
l'iniziatore della lingua e letteratura
italiana abbia avuto possibilità di
consultare testi che lo mettessero in Anonimo, Mi'rajanama (Il libro dell'Ascensione), Herat,
relazione al viaggio notturno e alla 1436-1437, Maometto, in groppa ad al-Buraq, visita l'Inferno
trascendenza del Profeta Maometto. La
storiografia moderna, tanto quella
letteraria quanto quella economica, culturale, sociale, politica, militare, ha ampiamente dimostrato
come la tesi dell'assoluta incomunicabilità tra le due parti, quella cristiana e quella islamica, con
conseguente impermeabilità di trasmissione culturale sia tutt'altro che aderente alla realtà.
l'Alighieri, onnivoro lettore di tutto ciò che aveva a che fare con lo scibile umano, nelle sue opere
dimostra di conoscere benissimo i classici greci e romani, tanti testi medievali di diversa origine e
destinazione, quindi è plausibile che sia venuto a contatto, diretto o n diretto con l'opera
musulmana. Il poeta fiorentino avrebbe potuto sentire parlare da uno dei suo maestri, Brunetto
Latini, che svolse l'attività di ambasciatore in Spagna nel 1260, finendo esiliato in Francia fino al
1265. L'ipotesi non sarebbe del tutto peregrina tenendo conto dell'importanza rivestita dalla
tradizione orale come veicolo di trasmissione interculturale. In più, nei secoli XII e XIII l'Europa è
presa a una vera e propria moda islamica che andava dall'abbagliamento alla favolistica, passando
per le armi, i profumi, l'astrologia e l'astronomia, i giochi e le pietanze culinarie. Senza, peraltro,
dimenticare l'imprescindibile apporto fornito dagli Arabi nel campo delle scienze e della filosofia,
specie con pensatori del calibro dei celebri Avicenna e Averroè, posti dallo stesso Dante nel Limbo
assieme ad altri grandi protagonisti della storia passata.
A supporto della tesi della confluenza nel testo dantesco di elementi tratti dalla letteratura
musulmana vi è l'esistenza del cosiddetto Libro della scala di Maometto. Scoperto in varie versioni
nel 1949, i due manoscritti sembra siano stati entrambi eseguiti da un erto Bonaventura da Siena il
quale tradusse la versione castigliana eseguita nel 1264 da Abraham Alfaquim, un medico ebreo
spagnolo, per cento di re Alfonso X. Ne esistono versioni il latino e francese, arrivate in Italia
probabilmente sul finire del Duecento e subito circolati negli ambienti letterali peninsulari tanto da
esser espressamente citato nel Dittamondo, poemetto enciclopedico scritto dal poeta tosano Fazio
degli Uberti. Nel Libro della Scala ci viene
fornita una Terrificante, più di quella
dell'Inferno dantesco temprato da un estremo
soccorso della pietà, visione dell'inferno che si
spalanca dal quinto cielo: fuoco, piombo fuso,
catrame, liquidi infetti e ogni tipo di
raccapriccianti sofferenze. A patirle, sono nella
stragrande maggioranza le donne: quelle che
non velano i capelli, ad esempio, quelle che si
adornano per altri uomini, quelle che non
rispettano la preghiera rituale.
È quindi possibile che Dante avesse letto una
versione del testo arabo, tra le tante circolanti
allora in Europa, o quantomeno che ne avesse
conosciuto un sunto o una rielaborazione in
chiave cristiane gigante. In effetti, esistevano
allora narrazioni simile a quelle islamiche,
talora precedenti e comunque indipendenti da
esse. Basti pensare all'Apocalisse di Paolo o
Visione di San Paolo (V secolo), alla
Navigazione di a san Brandano (VII secolo),
alla Visione di Tugdalo (XII secolo), oltre a
poemetti in volgari composti al tempo di
Dante, come La Gerusalemme celeste e
Babilonia, città infernale di Giacomino da
Verona o il Libro delle tre scritture di Bovesin
de la Riva, oppure il Libro dei vizi e delle virtù
di Bono Giamboni.
In età moderna, i protestanti furono risoluti
nell'adottare una tattica di terrore verso i viventi
Cosmografia al tempo di Dante Alighieri
minacciando di perdizione eterna le anime per
le colpe dei corpi.
Tra il XVII e XVIII secolo, valenti pensatori laici dubitarono dell'esistenza stessa dell'inferno. Tra
essi ricordiamo che
1) la bontà infinita di Dio non può prevederne l'esistenza tanto che il celebre filosofo inglese
Hobbes, nel XVII secolo, arrivò addirittura a teorizzare che Dio avrebbe fatto meglio ad
annientare i rei piuttosto che condannarli a una detenzione violenta, simile ad una vendetta;
2) Holbach crede che l'eternità della pena non è conciliabile con la giustizia divina;
3) Gli Illuministi interpretano l'inferno come uno dei cardini portanti della politica del terrore con
la quale la chiesa avrebbe perseguito i suoi sogni di dominio secolare e sociale;
4) per Kant, infine, le azioni umane dettate dalla paura dell'inferno contrasterebbero decisamente
con il desiderio e la naturale tendenza degli esseri umani verso la libertà e l'autonomia.
Giovanni da Modena, Giudizio Universale, 1410, Cappella Bolognini in San Petronio, Bologna
Giovanni da Modena, Giudizio Universale, 1410, Cappella Bolognini in San Petronio, Bologna
particolare dell'Inferno con la messa in risalto del supplizio di Maometto.
Bibliografia
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Parma 1994)
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- E. Cerulli, Il "Libro della Scala" e la questione delle fonti arabo-spagnole della Divina Commedia, Città del
Vaticano 1949
- J. Muñoz-Sendino, La escala de Mahoma, Madrid 1949
- F. Gabrieli, Nuova luce su Dante e l'Islam, in Dal mondo dell'Islam, Milano-Napoli 1954
- E. Cerulli, Nuove ricerche sul "Libro della Scala" e la conoscenza dell'Islam in Occidente, Città del Vaticano
1972
- S. Bemrose, Dante's Angelic Intelligences, London 1984
- C. Saccone (a cura di), Il Libro della Scala di Maometto, Milano 1991
- G. Berti, "Dante Alighieri", in I mondi ultraterreni, Milano 1998
- Luciano Pirrotta, Dante e i Fedeli d'Amore
- Jacques Le Goff, La nascita del Purgatorio, Torino, 1982
- Antonio Pinero, El retorno del Infierno, pubblicato nella rivista La Aventura de la Historia nº 116, giugno del
2008, pp. 26 - 35