L'Inferno A cura del prof. Rocco Giannì Impaginazione e grafica Prof. A.L.Chiaro Jan Van Eyck, particolare del Giudizio Finale, dal Dittico della Crocifissione e del Giudizio Finale, 1430, New York, Metropolitan Museum L'uomo ha sempre subito il fascino derivante dall'estremo, dallo sconosciuto, dalle somme altezze come dagli impenetrabili abissi. Tutte le culture e ogni religione, in ogni tempo e a qualsiasi latitudine, hanno associato ai cieli e ai baratri le sedi della divinità. Non è certo per caso che le montagne hanno finito per assumere, nell'immaginario collettivo, il ruolo di abitazione degli dei o mezzo con il quale avvicinarsi a Dio. Infatti, è sul monte Olimpo che Zeus stabilisce la dimora divina, è sul monte Sinai che Mose riceve le tavole dei comandamenti, è su di una montagna che Gesù si è a per pregare e dialogare col Padre, è sempre su di un monte, l'Hira, che Maometto ottiene la rivelazione da Allah, è sull'Himalaya che Duomo di Monreale, Genesi - Dio crea gli astri e i cieli, secolo Buddha medita e trasmette ai suoi discepoli XII la dottrina della rinuncia. Ma ciò che qui più ci interessa è rivolgere la nostra attenzione all'altro lato della medaglia, non alle etere, soleggiate e nevose vette porte del paradiso, bensì agli antri tetri, umidi e brumosi, accesso dell'inferno. Questo termine non si trova nella Bibbia, deriva dal latino Infernus, ossia ciò che riguarda le regioni inferiori. A sua volta deriverebbe da Inferus, ovvero ciò che sta sotto, sotterraneo. Infatti, il suo plurale, Inferi, presso i Romani indica il luogo dove risiedono i morti. Questo luogo sotterraneo è presente nelle varie civiltà antiche in cui il mondo veniva tripartito in: 1) il cielo, diviso in sette sfere ciascuna della forma di una cuffia o una metà arancia svuotata. Sovrapposte l'una alle altre, alla loro sommità troviamo la divinità. Sono composte di aria o etere, immaginario gas palpabile; 2) La terra: piatta e di forma quadrata, circondata dalle acque di un grande fiume; 3) L'inferno: è un posto oscuro, sotterraneo, profondo tanto da non permettere alle radici delle piante di arrivarvi e sotto di esso non vi è posto per nient'altro. Hans Memling, Trittico del Giudizio finale,1473, particolare dallo sportello dell'Inferno, Danzica, Muzeum Narodowe Nell'antichità vi furono diversi modi d'intendere le regioni infernali: - inteso come luogo di raccolta dei morti, trasformati in ombre o fumo, vi rimangono per un lasso di tempo indefinito, senza esservi torturati o castigati. Tale credenza prese campo presso le culture prive dell'idea che l'uomo fosse provvisto d'anima e, conseguentemente, vi fosse anche un aldilà; - ritenuto un luogo di transito delle anime dove gli spiriti aspettano il giudizio divino in base al quale riceveranno un premio o un castigo. Secondo gli Accadi-Babilonesi questo luogo prese il nome di Arallu, mentre presso gli Ebrei era lo Sheol e per i Greci l'Ade; - sentito come un luogo di castigo, dove si concentrano i malvagi che vi espiano in eterno il castigo divino. Prende il nome di Gehenna presso gli Israeliti, di Tartaro o Erebo per i Greci. L'idea cristiana dell'inferno deve molto a queste credenze, come anche a quelle ebraiche, a loro volta debitrici di quelle babilonesi, cananee e persiane. Per i Babilonesi, i defunti discendono in una zona sotterranea posta aldilà dell'Oceano. In questo posto permangono senza speranza alcuna di far ritorno nel mondo dei vivi, conducendo un'esistenza triste e penosa, costantemente controllati dalla coppia di divinità Nergal e Eres - Ki - Gal. Per i Persiani le anime venivano sottoposte a giudizio dalla divinità suprema in un luogo simile a un grande ponte da quale ciascuna di Hans Memling, Trittico del Giudizio finale, 1473, particolare dallo sportello dell'Inferno, Danzica, esse deve necessariamente transitare. Coloro che Muzeum Narodowe sono condannate, vengono immediatamente precipitate in una stanza tenebrosa dove rimangono in eterno, avvolti da un buio impenetrabile e afflitti da un freddo pungente. Il fuoco non vi fa mai capolino, poiché in questa cultura esso rappresenta il sacro, quindi non poteva trovarsi in un luogo di perdizione. I Greci, sin dall'epoca di Esiodo, ritengono che i morti stazionino nell'Ade dove permangono come zombie vivendo in uno stato di semi vita / semi morte. Gli spettri mantenevano la forma e lo status sociale che avevano in vita e potevano esser evocati dai vivi mediante sortilegi e esorcismi. L'Ade viene localizzato in Occidente, al confine tra le terre emerse e l'Oceano che le avvolge per intero. Vi si giunge attraversando la palude dello Stige, quindi si scendeva tanto in profondità che un sasso avrebbe viaggiato in caduta libera per ben dieci giorno prima di toccar il fondo. Era un luogo freddo, umido, perennemente immerso nelle brume, estremamente sgradevole. Ade e Persefone sono le divinità che vi dimorano e vi regnano. A partire dal V secolo a. C., in seguito all'influenza dei riti orfici e dell'insorgenza di un'idea di immortalità dell'anima, i Greci credettero che nell'Ade vi fosse un luogo riservato ai rei, il Tartaro, dove soffrivano indicibili pene descritte anche da Platone, Plutarco e Virgilio. Hans Memling, Trittico del Giudizio finale, 1473 circa, opera intera e particolare dallo sportello dell'Inferno, Danzica, Muzeum Narodowe Per gli Ebrei nell'Antico Testamento l'idea dell'oltretomba é simile a quella greca dell'Iliade: si riteneva plausibile l'esistenza di un regno delle ombre o Sheol, da dove era impossibile far ritorno (Salmo 88 e "Libro di Job" 16,22) in cui lo spettro, privo di sostanza corporea, permane vagando ramingo in un ambiente oscuro, dai confini indefiniti, privo del tutto di contatti con Dio. Secondo i profeti Ezechiele e Isaia, le anime di coloro che si erano suicidati, erano stati uccisi o altri casi di disperati dimoravano in fondo a questa cavità. A poco a poco, in epoca ellenistica (III secolo a.C.) grazie anche ai contatti avuti con le religioni Indo-iraniane, si fece strada anche presso gli Israeliti l'idea che l'anima fosse immortale e, di conseguenza, quella della comminazione di pene per i peccatori e l'elargizione di premi per i giusti. Del resto, la vita dopo la morte era possibile e le catene dello Sheol potevano, e dovevano esser spezzate permettendo all'uomo che fosse vissuto secondo la legge divina di poter godere dell'eterna vicinanza a Dio. Nel "Libro di Henoc", nello specifico, troviamo espliciti riferimenti all'inferno, composto stavolta da più cavità connesse tra loro e con delle pareti ripide e lisce che ne impedivano la scalata, nell'eventualità che ai dannati venisse la balzana idea di risalire verso il mondo dei vivi. Le anime, private di qualsiasi possibilità di fuga, sono incatenate e tormentate continuamente da spiriti vendicatori che li lasciano ardere in un deserto colmo di fiamme e perennemente immerso nel caos. Nel Cristianesimo, le prime informazioni circostanziate sull'inferno - contenute nel Vangelo di Luca e nell'Apocalisse - ci forniscono l'immagine di un abisso simile ad un pozzo dal quale fuoriesce senza soluzione di continuità una spessa coltre nebbiosa; gli empi vi risiedono sino al giorno del Giudizio, costantemente punzecchianti e infastiditi da cavallette e scorpioni. Una volta ricevuto l'estremo giudizio, le anime venivano precipitate nella Gehenna, valletta scavata dal fiume Hinnom sul lato sud del monte Sion dove gli esseri impuri finivano per essere immersi diuturnamente in un lago di fuoco. Nel vangelo di Matteo vi è una descrizione dell'inferno simile ad un posto contraddistinto dallo stridore del digrignare dei denti, dai gemiti e pianti, lamenti, torture e fuoco inestinguibile. Tra il II e il IV secolo d.C., testi apocrifi come "l'Apocalisse di Pietro" e la "Visione di Paolo", rimarcano il clima di ferocia e violenza infernale testimoniate dallo smembramento delle carni, il fetore insopportabile, l'immersione delle anime in escrementi e fango, il brulichio dei vermi e l'angustia di cavità prigioni tanto strette da esser paragonabili a budella. Nel contempo, però, nel N u o v o Te s t a m e n t o compare e s'impone la compassione e, con essa, la possibilità del Miniatura del XI secolo in cui si vede Satana, incatenato nell'Inferno, assieme alle anime dannate condannate alle fiamme eterne. dal Codex aureus Epternacensis, Biblioteca nazionale di Monaco di Baviera Giudizio Universale, Chiesa di Santo Stefano, XV secolo, Soleto (Lecce) perdono più che quella della persecuzione e della condanna eterna. Principale promotore di questa interpretazione teologica fu Origene di Alessandria, padre della Chiesa vissuto nel III secolo d.C., che formulò l'ipotesi di un progetto divino teso a recuperare il primigenio stadio di purezza e ingenuità dell'umanità, riportandola a vivere in una sorta di Paradiso Terrestre privo di cattiveria, sofferenza e malizia. Va da sé, naturalmente, l'automatica abolizione persino del solo pensiero di un inferno quale luogo di perpetua vendetta divina. Anzi, per questo teologo, persino il demonio, dopo esser stato sottoposto a diversi percorsi di purificazione, sarebbe stato perdonato e reintegrato tra gli angeli più affini a Dio. Contro questa interpretazione si scagliarono nientemeno che personaggi del calibro di Sant'Agostino - che nella "Città di Dio" imputa alla malvagità umana, frutto del peccato originale, la necessità dell'esistenza dell'inferno, luogo dove avverrebbe una sorta di un percorso infinito di riparazione risarcimento all'infinita bontà divina - e San Gregorio Magno, che da Papa combatté strenuamente la circolazione delle idee che erano state del pensatore alessandrino. Infine, l'imperatore Giustiniano, in veste di capo stesso della chiesa, tra il 541 e il 543 mise al bando le teorie di Origene. Giotto, Giudizio Finale, Padova, Cappella degli Scrovegni, inizi del XIV secolo Nel Medioevo, mentre Scoto Eurigena è fautore di un panteismo (Dio è in tutto, persino nel male) in cui non può esservi spazio per un inferno persecutorio, nella "Lettera di San Giovanni" (5,15-16) comparsa nel XII secolo si ripropone il binomio uomini - peccatori colpevoli perciò di aver obbligato Dio a crear l'inferno. Ma vi sono peccati e peccati, e non si può commutare la stessa, severissima prigione infernale a tutti coloro che hanno smarrito la retta via. Per i peccati veniali viene creata una nuova dimensione ultraterrena, il Purgatorio. San Tommaso d'Aquino, nella "Summa Teologica", preconizza un aldilà non più doppio, bensì triplo. Arriviamo così a Dante che colloca l'inferno al centro della Terra, in profondità, precisamente sotto la città di Gerusalemme. Alcuni studiosi vedono in ciò una sorta di latente antisemitismo, legato a doppio filo al passo del vangelo di Matteo (27,25) in cui si legge "cada il suo sangue su di noi (ebrei) e sui nostri figli", ossia che le conseguenze del deicidio, mediante la crocifissione di Gesù, sarebbero ricadute inevitabilmente sul popolo d'Israele e i suoi discendenti, per sempre. A rigore di logica e secondo la verità storica, i giustizieri del Cristo furono i Romani, padroni delle terre di Galilea, responsabili della gestione della legge ed esecutori materiali della sentenza, perciò la vendetta divina si sarebbe dovuta abbattere su di loro e su i loro più diretti discendenti, quindi su di noi italiani. Tuttavia, per fortuna dei latini e nostra, nei secoli successivi al Calvario e morte di Cristo, la chiesa di Roma aveva imputato ai "perfidi giudei" l'onore di aver giustiziato il Messia. Ma il concetto di Inferno e Paradiso, come l'idea del viaggio a metà strada tra il terreno e il metafisico, tra il reale e l'introspettivo, chiara allusione alla necessità dell'uomo di intraprendere un percorso di purificazione interiore propedeutico all'avvicinarsi dell'anima a Dio, sono presenti solo in ambito cristiano o si trova, seppur con comprensibili differenze, anche nella escatologia musulmana? E, in caso di risposta affermativa, la visione ultraterrena islamica ha avuto, e Maometto che discende all'inferno ed incontra gli adulteri condannati ad essere appiccati sopra il fuoco ardente (da un manoscritto persiano del XV sec. della Biblioteca Nazionale di Parigi). sino a che punto, qualche influsso sull'architettura dell'opera dantesca? Miniatura con i sette cieli del Paradiso islamico Premettiamo subito, ad onor del vero, che la risposta non potrà mai essere né risolutiva né esaustiva. Del resto, come potrebbe mai esserlo in un settore dello scibile umano così vasto, magmatico, spesso sconvolto e contraddetto dal venire a galla di nuovi documenti e il ricorrere a nuove metodologie euristiche ed interpretative come quello della Storia, e ancor di più in quella branchia che è la Storia della Letteratura! Quello che faremo è ricercare testi di matrice araba, turca e persiana che si occupino dell'argomento, analizzare i temi, individuare le congruenze con la coeva produzione cristiana, evidenziare parallelamente le differenze, interpretare le valenze e ipotizzare, infine, gli eventuali, probabili processi di filiazione o, almeno, di reciproco scambio-influsso. Secondo le fonti islamiche, nella notte del 27 Rajab, mese estremamente importante nel calendario liturgico islamico perché sacro e dedicato, tra le altre cose, alla purificazione e alla rinuncia al male, il profeta Maometto fu destato dal sonno dall'arcangelo Jbrail - Gabriele il quale, appena giunto alla Mecca, gli annunziò che era giunto per lui il momento d'intraprendere l'isra', un viaggio notturno alla volta di Gerusalemme. Giunto nella città santa, Maometto avrebbe potuto ascendere (in arabo mi'raj) al cielo, anzi attraverso i cieli, per giungere, dopo aver visto profeti e angeli, innanzi a Dio e, dopo aver avuto con lui una rivelatrice conversazione, esser pronto a visitare Inferno e Paradiso. Nel Corano esistono due riferimenti all'isra nella Sura 17:1 e nella Sura 53:5, che sulla base di alcuni detti e ai relativi commenti ispirarono la leggenda del mi'raj. La versione più antica di questo salita attraverso l'estere risale al IX secolo, ne riportiamo qui un breve resoconto. Svegliato di soprassalto nel cuore della notte dall'arcangelo, Maometto monta in groppa a un destriero alato con testa umana, chiamato al-Buraq. Con essa giunge a Gerusalemme, entra nel tempio e scorge una preziosa scala tempestata di gemme Particolare di un dipinto attribuito a Soltan Mohammad (XVI sec.) preziose, vi sale sopra e durante l'ascesa raffigurante l'ascesa al cielo del Profeta. incontra gli angeli guardiani dai quali riceve le prime rivelazioni sull'aldilà. Quindi, sempre in sella al quadrupede, attraversa i sette cieli - ognuno dei quali ha un nome particolare ed è costituito da una sostanza specifica - e viene in contatto con i profeti che lo hanno preceduto, dopodiché sale nell'ottavo cielo e fa il suo ingresso, stavolta orfano dell'iranico Pegaso, in Paradiso dove scorge le schiere dei cherubini, il trono di Dio sorretto dai quattro evangelisti e la tavola dove sono riportati i nomi degli esseri umani che nascono e periscono. Inoltratesi nei giardini delle delizie, incontrato le Huri, meravigliose giovani promesse a tutti coloro che in vita hanno dimostrato di seguir la Legge divina, oltrepassa alberi carichi di frutta, guada fiumi, e assieme all'angelo Ridwan è accolto a godere delle delizie dei palazzi adorni di pietre preziose. Infine, incontra la comunità dei beati e riceve rivelazioni circa il Giudizio Universale. Una seconda versione, di poco posteriore, ha il merito di fornire maggiori ragguagli circa la reale composizione dell'Inferno: nell'episodio dell'incontro tra il Profeta, nel terzo cielo, con un angelo gigantesco e terrificante, Azraele, divino vendicatore delle offese umane guardiano inflessibile dell'abisso infernale, veniamo a conoscenza del fatto che il luogo di raduno delle anime dannate è suddiviso in sette cerchi, ciascuno riservato ad una specifica categoria di peccatori cui vengono riservati diversi, feroci supplizi; agli uomini che rubano le ricchezze destinate agli orfani, ad esempio, dei diavoli fanno ingollare dei potenti veleni, mentre gli adulteri sono condannati a essere impiccati sopra un mare di fiamme ardenti. Infine, al centro del luogo di espiazione eterna, troneggia un albero che ha teste di animali come frutti e lance al posto dei rami, sotto i quali demoni armati di picche e taglienti coltellacci mozzano le lingue agli ipocriti. Questa suddivisione in gironi, la stessa forma ad imbuto degli inferi che sprofondano sino al centro della Terra, così come la legge del contrappasso che determina la posizione dei dannati in base ai loro delitti, sono chiaramente legati al modello dantesco. Del resto, le analogie non si fermano qui: al binomio Virgilio-Dante si contrappone quello Gabriele - Maometto con le guide che spariranno poco prima del passo finale; entrambi i viaggi hanno una parte terrena, seppur breve, e una parte celeste; all'al-Buraq, fantastico ippogrifo-donna del viaggio notturno di Maometto possiamo associare Beatrice, "beatissima" donna-angelo morta giovanissima, prematuramente, forse troppo presto, privata così dalla incostante, sensuale carnalità femminile per trasfigurare nella figura di Cristo, ponte tra l'umanità penitente e la divinità giudicante e, almeno per i cristiani, misericordiosa. Appurato in modo incontrovertibile che tra Dante, rappresentante della cultura duo-trecentesca europea di chiara matrice cristiana, e i testi escatologici musulmani, ci resta da capire se è come l'iniziatore della lingua e letteratura italiana abbia avuto possibilità di consultare testi che lo mettessero in Anonimo, Mi'rajanama (Il libro dell'Ascensione), Herat, relazione al viaggio notturno e alla 1436-1437, Maometto, in groppa ad al-Buraq, visita l'Inferno trascendenza del Profeta Maometto. La storiografia moderna, tanto quella letteraria quanto quella economica, culturale, sociale, politica, militare, ha ampiamente dimostrato come la tesi dell'assoluta incomunicabilità tra le due parti, quella cristiana e quella islamica, con conseguente impermeabilità di trasmissione culturale sia tutt'altro che aderente alla realtà. l'Alighieri, onnivoro lettore di tutto ciò che aveva a che fare con lo scibile umano, nelle sue opere dimostra di conoscere benissimo i classici greci e romani, tanti testi medievali di diversa origine e destinazione, quindi è plausibile che sia venuto a contatto, diretto o n diretto con l'opera musulmana. Il poeta fiorentino avrebbe potuto sentire parlare da uno dei suo maestri, Brunetto Latini, che svolse l'attività di ambasciatore in Spagna nel 1260, finendo esiliato in Francia fino al 1265. L'ipotesi non sarebbe del tutto peregrina tenendo conto dell'importanza rivestita dalla tradizione orale come veicolo di trasmissione interculturale. In più, nei secoli XII e XIII l'Europa è presa a una vera e propria moda islamica che andava dall'abbagliamento alla favolistica, passando per le armi, i profumi, l'astrologia e l'astronomia, i giochi e le pietanze culinarie. Senza, peraltro, dimenticare l'imprescindibile apporto fornito dagli Arabi nel campo delle scienze e della filosofia, specie con pensatori del calibro dei celebri Avicenna e Averroè, posti dallo stesso Dante nel Limbo assieme ad altri grandi protagonisti della storia passata. A supporto della tesi della confluenza nel testo dantesco di elementi tratti dalla letteratura musulmana vi è l'esistenza del cosiddetto Libro della scala di Maometto. Scoperto in varie versioni nel 1949, i due manoscritti sembra siano stati entrambi eseguiti da un erto Bonaventura da Siena il quale tradusse la versione castigliana eseguita nel 1264 da Abraham Alfaquim, un medico ebreo spagnolo, per cento di re Alfonso X. Ne esistono versioni il latino e francese, arrivate in Italia probabilmente sul finire del Duecento e subito circolati negli ambienti letterali peninsulari tanto da esser espressamente citato nel Dittamondo, poemetto enciclopedico scritto dal poeta tosano Fazio degli Uberti. Nel Libro della Scala ci viene fornita una Terrificante, più di quella dell'Inferno dantesco temprato da un estremo soccorso della pietà, visione dell'inferno che si spalanca dal quinto cielo: fuoco, piombo fuso, catrame, liquidi infetti e ogni tipo di raccapriccianti sofferenze. A patirle, sono nella stragrande maggioranza le donne: quelle che non velano i capelli, ad esempio, quelle che si adornano per altri uomini, quelle che non rispettano la preghiera rituale. È quindi possibile che Dante avesse letto una versione del testo arabo, tra le tante circolanti allora in Europa, o quantomeno che ne avesse conosciuto un sunto o una rielaborazione in chiave cristiane gigante. In effetti, esistevano allora narrazioni simile a quelle islamiche, talora precedenti e comunque indipendenti da esse. Basti pensare all'Apocalisse di Paolo o Visione di San Paolo (V secolo), alla Navigazione di a san Brandano (VII secolo), alla Visione di Tugdalo (XII secolo), oltre a poemetti in volgari composti al tempo di Dante, come La Gerusalemme celeste e Babilonia, città infernale di Giacomino da Verona o il Libro delle tre scritture di Bovesin de la Riva, oppure il Libro dei vizi e delle virtù di Bono Giamboni. In età moderna, i protestanti furono risoluti nell'adottare una tattica di terrore verso i viventi Cosmografia al tempo di Dante Alighieri minacciando di perdizione eterna le anime per le colpe dei corpi. Tra il XVII e XVIII secolo, valenti pensatori laici dubitarono dell'esistenza stessa dell'inferno. Tra essi ricordiamo che 1) la bontà infinita di Dio non può prevederne l'esistenza tanto che il celebre filosofo inglese Hobbes, nel XVII secolo, arrivò addirittura a teorizzare che Dio avrebbe fatto meglio ad annientare i rei piuttosto che condannarli a una detenzione violenta, simile ad una vendetta; 2) Holbach crede che l'eternità della pena non è conciliabile con la giustizia divina; 3) Gli Illuministi interpretano l'inferno come uno dei cardini portanti della politica del terrore con la quale la chiesa avrebbe perseguito i suoi sogni di dominio secolare e sociale; 4) per Kant, infine, le azioni umane dettate dalla paura dell'inferno contrasterebbero decisamente con il desiderio e la naturale tendenza degli esseri umani verso la libertà e l'autonomia. Giovanni da Modena, Giudizio Universale, 1410, Cappella Bolognini in San Petronio, Bologna Giovanni da Modena, Giudizio Universale, 1410, Cappella Bolognini in San Petronio, Bologna particolare dell'Inferno con la messa in risalto del supplizio di Maometto. Bibliografia - M. Asín-Palacios, La escatologia musulmana en la Divina Comedia, Madrid 1919 (trad. it. Dante e l'Islam, Parma 1994) - E. Gilson, Dante et la philosophie, Paris 1939 (trad. it. Dante e la filosofia, Milano 1987) - E. Cerulli, Il "Libro della Scala" e la questione delle fonti arabo-spagnole della Divina Commedia, Città del Vaticano 1949 - J. Muñoz-Sendino, La escala de Mahoma, Madrid 1949 - F. Gabrieli, Nuova luce su Dante e l'Islam, in Dal mondo dell'Islam, Milano-Napoli 1954 - E. Cerulli, Nuove ricerche sul "Libro della Scala" e la conoscenza dell'Islam in Occidente, Città del Vaticano 1972 - S. Bemrose, Dante's Angelic Intelligences, London 1984 - C. Saccone (a cura di), Il Libro della Scala di Maometto, Milano 1991 - G. Berti, "Dante Alighieri", in I mondi ultraterreni, Milano 1998 - Luciano Pirrotta, Dante e i Fedeli d'Amore - Jacques Le Goff, La nascita del Purgatorio, Torino, 1982 - Antonio Pinero, El retorno del Infierno, pubblicato nella rivista La Aventura de la Historia nº 116, giugno del 2008, pp. 26 - 35