SECONDO CLASSIFICATO
SEZIONE TESINA TRIENNIO
“Un non so che”
d’umano
di Michele Masi della classe V-AS del Liceo Malpighi di Bologna
Docente Referente: Prof. ssa Mara Ferroni
“Un poeta incontra nella storia un carattere potente
che ferma la sua attenzione, che sembra dirgli:
Osservami, io t’insegnerò qualcosa sulla natura umana.
Il poeta accetta l’invito.”
Introduzione
Ciò che più mi colpisce leggendo i Promessi Sposi di Alessandro Manzoni sono i suoi personaggi.
Essi non sono mai stilizzati o stereotipati: l’avaro, il ricco, il buono, il cattivo, il simpatico, lo stupido,
la bella. Sono personaggi complessi, descritti in tutta la loro struttura umana, psicologica, fisica.
Non sono bianchi o neri, ma sfumati, di infinite e diverse tonalità cromatiche, che Manzoni ci
restituisce nell’intricata interezza del loro animo. Non personaggi, insomma, bensì vere e proprie
persone.
Uno dei temi principali nella poetica di Manzoni è il vero, che già nel Carme in morte di Carlo
Imbonati viene definito sacro. Per Manzoni il vero è qualcosa d’inattaccabile, eppure egli è un
romanziere, scrive storie, ed è in certo senso costretto a quel dualismo tra il vero storico e il vero
poetico che per alcuni critici è un fattore negativo, mentre, a mio parere, risulta essere elemento
fondante e imprescindibile del realismo manzoniano. Senza entrare nel dibattito su cosa sia il vero
e cosa il verosimile, mi chiedo: come mai i suoi personaggi, pur inventati, sembrano tanto veri e
tanto umani?
Questo lavoro si propone di indagare quali aspetti e caratteristiche facciano sembrare i personaggi
dei Promessi Sposi persone reali, così concrete da dare l’impressione che sia veramente
possibile incrociarle per la strada. Di più, sono tanto reali che è possibile scorgere in loro aspetti di
noi stessi, riconoscersi nella paura di Don Abbondio, negli intrighi di Don Rodrigo, nei desideri di
Renzo o più semplicemente in una parola detta da loro, in un gesto, in una smorfia.
“Qual è infatti l’attrazione che la mente prova per questo genere di opere? Quella che si prova nel
conoscere l’uomo, nello scoprire quello che vi è di autentico e di intimo nella sua natura, nel
vedere l’effetto dei fenomeni esterni della sua anima, il fondo dei pensieri dai quali è spinto ad
agire; nello scoprire, in un altro uomo sentimenti che possano suscitare in noi un’autentica
consonanza”.1
L’interesse di Manzoni non è mai ingenuamente psicologico, ma eminentemente ontologico. Egli
ha a cuore la scoperta e l’approfondimento di quel quid misterioso e sempre sfuggente che
connota l’animo umano. In una parola, quello che c’è di “autentico e di intimo nella sua natura”.2
Indagando il testo dei Promessi Sposi cercherò di analizzare quali aspetti rendano i personaggi
1
2
Manzoni A., Scritti di teoria letteraria, BUR, Milano 1981, p. 154
Ibidem
così umani, conducendo questa mia indagine attraverso la presa in esame degli indizi testuali
disseminati nelle pagine manzoniane, soffermandomi sulle parole che il narratore sceglie e ama,
nella certezza che tale metodo sia l’unico realmente corretto per incontrare sensatamente
l’esperienza di un autore. E forse anche la mia. Infatti indagare l’umanità di Renzo, di Lucia,
dell’Innominato o di Don Rodrigo, altro non è che cercare di scoprire in essi i tratti della mia
umanità, anche se ciò può sembrare un paradosso. Mi torna alla mente quanto dice O.Wilde a
proposito di Dorian Gray che scopre se stesso attraverso l’incontro e la convivenza con Lord
Henry:
“Perché era stato concesso ad un estraneo di rivelarlo a se stesso?”3
Com’è possibile che leggendo i Promessi sposi, incontrando Manzoni, io possa leggere di me?
Forse grazie a ciò che Manzoni definisce “autentica consonanza” tra me e i personaggi dei
Promessi sposi, tra me e Manzoni stesso. Scoprire questa consonanza significa mettere in luce “il
sospiro segreto del cuore” che caratterizza ogni uomo.
Se già è sorprendente scoprire che leggendo di Don Rodrigo e di Gertrude io posso ritrovare una
“consonanza” con me, questo lavoro ha anche una pretesa in più: non solo riconoscere tale
consonanza, ma pure analizzarla. Cercherò di farlo prendendo in considerazione tre aspetti: la
complessità psicologia dei personaggi, la loro possibilità di cambiamento, il modo con cui si
paragonano con le domande più profonde del loro cuore. Tali aspetti costituiscono anche i
paragrafi che scandiscono l’argomentazione del presente lavoro.
1. “Così fatto è questo guazzabuglio del cuore umano”
Come già anticipato nell’introduzione, la caratteristica principale dei personaggi di Manzoni è che
sono psicologicamente, fisicamente, umanamente complessi. Sia che si tratti dei protagonisti
Renzo e Lucia, sia che si tratti di personaggi secondari come Gertrude e Agnese sia che si tratti di
semplici comparse come il Nibbio e la madre di Cecilia, ognuno ha una propria personalità e una
propria dignità. Per alcuni Manzoni ha speso pagine e pagine di descrizione, presentandoceli
prima dal punto di vista di un altro personaggio, poi dal punto di vista del narratore, poi
mostrandoceli in azione. Per altri è bastato un aggettivo, un ossimoro, una sola pennellata,
indelebile però. Tutti i personaggi provano sentimenti diversi e molto spesso contrastanti.
“Gertrude s’era già pentita di averla sottoscritta. Si pentiva poi d’essersi pentita, passando così i
giorni e i mesi in un incessante vicenda di sentimenti contrari.” Basta questo episodio a
confermare, con tutta la sua ironia, il susseguirsi di “sentimenti contrari” che si agitano nell’animo
di Gertrude. Ci sono tantissimi altri rimandi testuali che confermano questa duplicità di sentimenti:
“Renzo, tra la paura e la confusione” , “una gioia temperata da un turbamento leggero”. La gioia
convive con il turbamento, la paura con la confusione. Con questo ossimoro Manzoni sottolinea
tutte le sfaccettature dell’animo umano. Sa che l’uomo non è o felice o turbato, ma una serie
infinite di gioie e turbamenti insieme. Come scrive nella lettera a M.Chauvet: “ Tutti gli aspetti
singolari di queste passioni, le loro infinite varietà, le loro singolari combinazioni che, nella realtà
delle cose umane, costituiscono i caratteri individuali…” Sono proprio queste “infinite varietà” e le
“singolari combinazioni” che arricchiscono i personaggi sfumandoli in modo sempre più realistico.
Così diverse personalità emergono anche in linguaggi diversi per ogni personaggio, e ogni
personaggio ha un linguaggio diverso per ogni situazione. Come scrive il critico V. Spinazzola:
“La parlata dei personaggi appare improntata ad un criterio di verosimiglianza, destinato a porre
rilievo la molteplicità di aspetti che la lingua comune assume, a seconda dello stato psicosociale di
3
O. Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, BUR, Milano
chi la pronunzio… Ogni battuta collabora a definire linguisticamente il personaggio, informandoci
con esattezza sulle sue abitudini comunicative, la sua mentalità, il suo stato d’animo.”
Nel romanzo si alternano il lessico popolare di Agnese caratterizzato dalla sintassi ingarbugliata, il
linguaggio diplomatico di Fra Cristoforo, quello chiaro e controllato di Lucia e quello all’apparenza
formale di Gertrude. Anche il modo di parlare viene utilizzato per presentare i personaggi. “Basta
spesso una voglia, per non lasciare ben avere un uomo; pensate poi due alla volta, l’una in guerra
con l’altra.” Ogni personaggio è come percosso da questa inquietudine, da questa voglia, da
questa guerra. Renzo è diviso tra “la voglia di correre, e quella di star nascosto”. La “guerra”
trapela in ogni descrizione, in ogni attributo riferito al suo nome, in ogni gesto. È presente anche
nella descrizione fisica. Nella presentazione di Gertrude, ad esempio, ritornano costantemente i
contrasti cromatici. Il vestito è composto da “velo nero, saio nero” e da una “bianchissima benda di
lino”. Il bianco e nero si contendo anche il volto della “signora” infatti alle sopracciglia nere, gli
occhi neri e alla “ciocchettina di neri capelli” si contrappongono le “gote pallidissime” e una “fronte
di non inferiore bianchezza”. “ Gli elementi fisici del ritratto sono animati da una serie di
contrapposizioni, sono cioè costruiti per antitesi. La prima è di natura cromatica. La descrizione è
in bianco e nero, quasi si trattasse di un’antica fotografia. Questi elementi descrittivi rimandano a
un disordine interiore, a una condizione di tormento, di contrasto tra forze opposte che, in lotta tra
loro. Così come sostiene Valeria Lazzarini :
“Il lettore intuisce il dramma, ma non lo comprende pienamente: sa che il mistero c’è, ma non sa
ancora di che cosa si tratta. La scrittura manzoniana, quanto più tratteggia con chiarezza l’aspetto
esteriore di Gertrude, tanto più fa emergere l’ombra, il lato oscuro di questa donna”.4
Anche attraverso la descrizione fisica Manzoni riesce a delineare i tratti più intimi del personaggio.
Questo è evidente anche nella descrizione del cardinale Federigo. “l’occhio grave e vivace” il suo
sguardo profondo e allo stesso tempo energico suggerisce insieme alla “fronte serena e
pensierosa” tutto il contrasto tra l’età anziana del cardinale e la suo incredibile forza, sottolineata
ancor di più dalla sua andatura “ il portamento era naturalmente composto, e quasi
involontariamente maestoso non incurvato né impigrito punto dagli anni” Manzoni ha descritto
solo l’aspetto esteriore del cardinale eppure già si intravede tutta la problematicità del suo animo.
Desideri e paure, dubbi e certezze, gioie e delusioni sono mischiati insieme, in un agglomerato, in
miscuglio, in quello che Manzoni definisce perfettamente con una sola parola, il “guazzabuglio del
cuore”. Qui è evidente il genio di Manzoni e la forza della parola poetica. Sta parlando di qualcosa
che caratterizza tutti i suoi personaggi, qualcosa che il lettore riesce ad intuire perché è qualcosa
che caratterizza ogni uomo, ma che non riesce a spiegare. Verrebbe da definirlo con una perifrasi,
un giro di parole, un gesto della mano, che si affida all’intuizione a logica del lettore che ne ha fatto
esperienza. E mentre non si sa come dirlo, si legge “guazzabuglio”. Non si comprende bene
questa parola ma è perfetta. È quello che si stava cercando di dire. È così adeguata che d’ora in
poi non ci sarà più il bisogno di dire “qualcosa” - ripetuto, peraltro, cinque volte in queste poche
righe - ma si dirà “il guazzabuglio del cuore”, come se fosse una tua parola. Precisamente, il
termina indica:
“il conflitto disordinato di una realtà in continuo ribollimento, il continuo evolversi in un senso
imprevisto e imprevedibile, di ingarbugliamenti che l’intelligenza umana non è sempre in grado di
districare”.5
Un ribollimento di ingarbugliamenti, dunque, che la ragione umana non è in grado di spiegare, di
“districare”. Manzoni utilizza questa parola che racchiude “il sospiro segreto del cuore” non quando
4
5
Lazzarini V., Laboratorio Promessi sposi, Il Capitello, Torino 1998
Fornasari S., Note in I Promessi Sposi di Manzoni A.,BUR, Milano 2000, pag. 234
parla della sua amata Lucia o del protagonista Renzo o nessun altro dei grandi uomini del
romanzo come Fra Cristoforo, l’Innominato, il cardinale Federigo. La utilizza per descrivere una
delle figure più negative e disumana come il padre di Gertrude. Colui che aveva spinto sua figlia
alla vita monacale solo per un ritorno economico e l’aveva instradata alla tragicamente ossimorica
“vocazione impostale”. Non è dunque una caratteristica solo delle persone grandi, autorevoli o
semplici e umili, ma di tutte, anche quelle spregevoli. È come intrinseca nella natura stessa
dell’uomo.
2.“Quel nuovo lui cresciuto terribilmente come a giudicare l’antico”.
Il secondo punto che è necessario trattare come indizio di complessità riguarda i cambiamenti che
investono i personaggi in seguito all’impatto con la realtà. È, infatti, tematica centrale nel romanzo
la presa di consapevolezza che alcuni personaggi attuano di fronte alle circostanze che gli
capitano. Bisogna dire “alcuni” perché solo determinate figure nel testo, così come nella realtà,
portano seriamente a giudizio quanto accade e sono provocate da essa a un reale mutamento.
Altri invece, pur toccati in un momento da un incontro vero, ripiombano poi nella sicurezza delle
loro abitudini come Don Abbondio, altri ancora, come il conte Attilio, rimangono paghi nella
“macchietta” di cattivo creata dall’adesione al borghesismo e al formalismo. Non per tutti i
personaggi, insomma, i Promessi Sposi sono, come la critica gli ha definiti un bildungsroman, un
romanzo di formazione. Durante il racconto i personaggi, si pensi a Renzo, imparano dalla vita e si
fanno coscienti di loro stessi e del mondo attraverso l’affronto reale. Renzo certamente cresce e si
forma grazie a tutto quello che gli capita tanto che il romanzo si conclude che l’enumerazione di
tutto quello che ha imparato: “ ho imparata a non…” e questo testimonia una sua formazione. Per
Renzo fermarsi a questo giudizio però, dopo tutto quello che gli è successo, sarebbe limitativo.
Non era necessario tutto quel dolore per imparare delle cose. La cosa più sorprendente, più
miracolosa e più umana è che dunque accostata a questa crescita vi è un cambiamento. Renzo
appena scopre che è Don Rodrigo che non vuole permettere il suo matrimonio, in preda all’ira
grida “ah, cane!” e “ camminava a passi infuriati verso casa, senza aver determinato quel che
dovesse fare, ma con una smania addosso di dover fare qualcosa di strano e di terribile”.
“Renzo era un giovine pacifico” ,ma il suo animo è estremamente complesso e in quel momento,
quasi andando contro la sua stessa natura, “ il suo cuore non batteva che per l’omicidio”. È invaso
dal desiderio di vendetta e di uccidere Don Rodrigo e inizia a camminare a passi infuriati ma, in
mezzo a questo furore, gli viene in mente Lucia. “ appena questa parola (Lucia) si fu gettata a
traverso di quelle bieche fantasie, i migliori pensieri a cui era avvezza la mente di Renzo,
v’entrarono in folla.” È grazie al pensiero di Lucia che Renzo ritorna in se stesso e si calma.
Eppure, poco dopo, mentre cammina verso l’Azzeccagarbugli, “agitato da tante passioni” “lo
ammazzò un paio di volte e altrettante lo resuscitò”. Qui sono presenti e contrastanti il suo
desiderio di vendicarsi e la sua natura “pacifica”. È un continuo scontro tra due desideri opposti.
Ora prevale l’uno, ora prevale l’altro. Manzoni spiega in modo chiarissimo questo costante
alternarsi dicendo che prima lo ammazza e poi lo risuscita, e questo un paio di volte. Sottolinea
così la lotta interiore che si dibatte nell’animo del giovane. È commovente ed era inimmaginabile
pensare a quel che sarebbe successo quando Renzo avesse incontrato faccia a faccia Don
Rodrigo. Verso la fine del romanzo, nel lazzaretto Renzo “con una curiosità inquieta” è condotto da
Padre Cristoforo dentro una capanna: “ lo fissò, riconobbe Don Rodrigo, e fece un passo indietro.”
Renzo è spaventato perché si trova davanti a chi gli ha procurato tutti quei travagli e lo ha
separato per molto tempo da Lucia. Ora infatti ha la possibilità di attuare tutto quello che aveva
fantasticato più e più volte e che poi si era vergognato di aver fantasticato. Poi, all’apice della
suspence, dovuta alla coordinazione per asindeto di tre verbi consecutivi in un periodo brevissimo,
Manzoni inserisce una congiunzione avversativa fortissima “ma”. Sottolineata ancora di più dalla
pausa del punto e virgola che la precede. Capovolge così la scena in modo netto e mostra che
Renzo non è solo in questo scontro tra la vendetta e la misericordia che si contendono il suo
animo. C’è la mano forte di Padre Cristoforo che lo sostiene. “ma il frate, facendogli di nuovo
sentire fortemente la mano con cui lo teneva”. È grazie a questo che “giunte le mani, chinò il viso
sopra di esse, e pregò: Renzo fece lo stesso.” Un’altra mano aveva tolto Napoleone dallo strazio e
lo aveva trasportato in un aria più respirabile. “ma valida venne una man dal cielo e in più spirabile
aere pietosa il trasportò”. Anche in questo caso è presente un’avversativa, una congiunzione “ma”.
Come per dire che questa mano non è scontata, è qualcosa di esterno che probabilmente non ci
dovrebbe essere, non è condizione normale che ci sia, altrimenti basterebbe la semplice
copulativa “e”. Invece, no. C’è. Questa mano è qualcosa di divino sia nell’ode “Il 5 maggio” perché
viene dal cielo, sia nel romanzo perché è la mano di un frate. È divina, eppure è concreta. È
“valida” e stringe “fortemente”. Date queste consonanze possiamo dire che è la stessa mano che
sostiene Napoleone sul letto di morte e Renzo. Forse è la stessa mano che sostiene Manzoni,
che sostiene ogni uomo, quello che lui chiama Provvidenza. Anche se i due protagonisti sono
cresciuti e cambiati il ritorno alla quotidianità per essi è difficile. Raimondi sintetizza questo
definendo i Promessi sposi il “Romanzo senza idillio.”6 Nonostante questa maggiore
consapevolezza, il cambiamento e le ragioni di esso sono messi alla prova tutti i giorni, nella loro
quotidianità.
Era impensabile, ed è tutt’ora impensabile, che Renzo, o che qualsiasi uomo, possa lasciare
perdere il proprio odio verso chi gli ha procurato dolore e inginocchiarsi a pregare per lui. Eppure
la scena che avviene dentro la capanna non stona, non è appena verosimile o finzione, ma, anche
se inimmaginabile, è possibile. Questo perché non è il frutto del moralismo di Manzoni o dell’animo
del gentile contadino Renzo, ma perché c’è una mano che sostiene. Dal desiderio iniziale di
uccidere al perdono finale in mezzo non c’è appena un elenco doveristico di “ho imparato a non”,
ma l’incontro, il rapporto concreto con Lucia e soprattutto con Padre Cristoforo. È attraverso
l’incontro con Padre Cristoforo che Renzo cambia. Questo è l’aspetto più umano, non tanto il
perdonare e addirittura pregare per i propri nemici, ma il cambiamento attraverso l’incontro con
qualcuno.
Manzoni si mostra un conoscitore esperto dell’animo umano e sa che anche i cambiamenti più
repentini avvengono in modo complesso mai netto e assoluto. Non è che c’è “un prima” in cui un
personaggio è bianco, poi succede qualcosa e diventa nero. C’è un prima e un dopo rispetto ad
un avvenimento. Già nel “prima” però sono presenti alcuni tratti, magari in modo solo accennato,
del “dopo”, e nel “dopo” non scompaiono del tutti i tratti di prima. Scrive C. S. Lewis:
“Sarebbe bello, e in parte anche vero, poter dire che da quel momento Eustachio diventò un altro,
ma in realtà è più giusto affermare che cominciò a diventare un altro”.7
C’è un lento e graduale evolversi che, ad esempio, porta Lodovico a diventare Fra Cristoforo che
sono uno stesso personaggio, ma due personaggi diversi. Per questo Fra Cristoforo ci viene
presentato con un’ antitesi. “Lasciava trasparire un non so che d’altero e d’inquieto; e subito
s’abbassava, per riflessione d’umiltà” Questa antitesi descrive la figura di Fra Cristoforo, il
contrasto con l’orgoglio del suo passato e l’umiltà imposta, l’ubbidienza del presente. “La scena
era lieta ma ogni figura d’uomo che vi apparisse, rattristava lo sguardo e il pensiero” anche il
paesaggio dove è presentato fra Cristoforo ci suggerisce questo forte scontro. “ Due occhi incavati
erano per lo più chinati a terra, ma talvolta sfolgoravano, con vivacità repentina; come due cavalli
bizzarri, condotti a mano da un cocchiere, col quale sanno per esperienza, che non si può vincerla,
pure fanno, di tempo in tempo, qualche sgambetto che scontan subito, con una buona tirata di
morso.” L’antico orgoglio ogni tanto riaffiora dal passato perché Padre Cristoforo è pur sempre
Lodovico e “di tempo in tempo” prova a fare qualche “sgambetto”, e i suoi occhi hanno imparato
l’ubbidienza “ma”, ritornano continuamente le avversative, “talvolta sfolgoravano”. Come
6
7
Si veda, a tal proposito, E. Raimondi, Il romanzo senza idillio, Einaudi, Torino 1974
Lewis C. S., Le Cronache di Narnia,
nell’episodio in cui s’infuria nel dialogo con Don Rodrigo e viene mandato via dal palazzo. Un’
umiltà invece che ha delle tracce anche nel passato quando era ancora Lodovico, “ricco e
giovinetto”. Quando era ricco giovane, potente e quando avrebbe potuto vivere come i bruti si era
accorto che questo non lo soddisfaceva e cominciò a “comprarsi così a contanti inimicizie, invidie
e ridicolo” pur di difendere la giustizia finendo però “a viver coi birboni per amore della giustizia”. È
così confermata la figura retorica nella quale si rispecchia Padre Cristoforo. Il taglio, non così
netto, dal passato al presente avviene dopo uno scontro nel quale Lodovico uccide un uomo e un
suo bravo di nome Cristoforo muore per lui. Lodovico così viene rifugiato in un convento e lì decide
di diventare frate. Inizia così a trasformare la sua naturale superbia nella volontà di vivere nella
carità e nel riguardo del prossimo in difficoltà. La sua conversione non censura però la sua indole
che talvolta riaffiora “Il suo linguaggio era abitualmente umile e posato; ma, quando si trattasse di
giustizia o di verità combattuta, l’uomo s’animava, a un tratto, dell’impeto antico.” “L’impeto antico”
è rimasto, ma è messo al servizio degli altri, di Renzo,di Lucia. Il suo carattere non viene
snaturato, ma convertito ad un altro scopo. È grazie alle sfaccettature della suo indole, della sua
continua lotta interiore tra la superbia e l’umiltà, che Padre Cristoforo è così umano. Può parlare di
perdono a Renzo perché lui è stato perdonato e accolto dai cappuccini. Non ci stupisce vederlo
tentare di fermare Renzo che vorrebbe farsi giustizia da sé perché proprio lui, Lodovico, si era
lasciato trascinare dal suo impeto giovanile, lo stesso di Renzo, e aveva ucciso un uomo. E ne
porta ancora le conseguenze e la sofferenza nel suo stesso nome.
È sorprendente vedere come l’uomo possa cambiare, e forse altrettanto sorprendente vedere che
l’uomo può anche non cambiare. Manzoni rappresenta questo con la figura di Don Abbondio.
Infatti viene presentato con una famosissima litote “non era nato con un cuor di leone” e con la
descrizione del suo metodo per una vita agiata e tranquilla. “ Il suo sistema consisteva
principalmente nello scansare tutti i contrasti e nel cedere in quelli che non poteva scansare.
Neutralità disarmata in tutte le guerre…”. Il primo episodio in cui appare all’inizio del romanzo è
l’incontro con i bravi. “Cosa comanda?” è la domanda con cui esordisce e in cui è già possibile
vedere tutta la sua sottomissione nei confronti dei più forti. “-cioè…- rispose con voce tremolante”.
Anche semplicemente nel tremore della voce è già presente tutta la sua indole. Dopo un esordio
non proprio da eroe, l’ultimo episodio in cui egli appare mostra che è lo stesso Don Abbondio.
Quello iniziale è uguale a quello finale. Infatti, mentre i Lanzichenecchi stanno mettendo a ferro e
fuoco l’Italia e la possibilità del loro passaggio a Pescarenico è molto probabile e il pericolo assai
concreto, il curato è totalmente in preda al terrore. “ Correva, stralunato e mezzo fuori di sé, per la
casa”, non ha idea sul da farsi “ –Come fare?- esclamava –Dove andare?-”. Nuove domande,
stessa incertezza. Manzoni descrive con ironia non la paura del curato di fronte al pericolo, ma il
suo reagire a questa paura con una totale disperazione. È trascorso tutto il romanzo eppure non è
accaduto nulla. Don Abbondio rimane con le sue paure e “assorbito continuamente nei pensieri
della propria quiete.” È stato testimone oculare della conversione dell‘Innominato e nonostante
questo ha ancora dei dubbi. “voglio sperare che saremo ben accolti…e si mantiene,n’è vero? Si
mantiene? E quella gente che teneva con se?” Ha visto eppure ha ancora dei dubbi e timori. Ma,
così come il cambiamento nella sua drasticità non è assoluto, non va a cancellare del tutto l’uomo
vecchio e sostituirlo con quello nuovo, anche la figura di Don Abbondio e la sua staticità d’animo e
d’abitudini non sono assoluti. Infatti tra l’incontro iniziale con i bravi e la fuga finale dai
Lanzichenecchi c’è un episodio, uno solo, in cui anche Don Abbondio ci sorprende e sfugge dal
suo ruolo di pavido egoista. Si tratta del dialogo con Federigo quando gli son chieste le ragioni del
suo essersi tirato indietro di fronte alla minaccia dei bravi. Ovviamente all’inizio Don Abbondio
cerca di difendere la sua posizione “il coraggio uno non se lo può dare”. Manzoni costruisce la
scena mettendo in contrasto il linguaggio aulico e alto con cui Abbondio risponde a Federigo e
invece molto più basso e schietto quando si tratta dei suoi pensieri. Scrive la critica letteraria V.
Lazzarini:
“Don Abbondio, invece ha un duplice registro linguistico: alto quando si tratta di rispondere alle
domande dell’interlocutore “chi non conosce il petto forte, lo zelo imperterrito di vossignoria
illustrissima?”; basso, quando attraverso il soliloquio, esprime le sue segrete e più vere
convinzioni: “anche troppo”. La comicità nasce appunto dal passaggio continuo da un registro
all’altro: il cardinale ne ascolta solo uno, quello alto, mentre il lettore è a conoscenza di entrambi e
partecipa al “gioco” di verità e apparenza”.8
Questo fino a quando “alzando dubbiosamente lo sguardo, fu tutto meravigliato, nel vedere
l’aspetto di quell’uomo…passare da quella gravità autorevole e correttrice a una gravità compunta
e pensierosa” ovvero quando si accorge che, inaspettatamente Federigo gli vuole bene ed è
pronto a mettersi in gioco assumendosi le sue colpe. Questo lo induce a riflettere “ stava zitto
come chi ha più da pensare che da dire”. Probabilmente stava giudicando le sue scelte e il suo
sistema. Certamente era stato colpito dalle parole del vescovo, o forse è meglio dire, era stato
sfiorato. Infatti Manzoni scrive “ e se non sentiva tutto il rimorso che la predica voleva produrre” era
pur sempre don Abbondio! Non riesce a cedere del tutto. “ne sentiva, però; sentiva un certo
dispiacere di sé, una compassione per gli altri, un misto di tenerezza e confusione”. È fortissima
l’avversativa, intensificata dalla pausa e dalla costruzione sintattica che già aveva utilizzato nella
notte dell’innominato “ io sono, però”. È lo stesso costrutto perché parla dello stesso sobbalzo del
cuore che sentono i due personaggi. L’innominato lascia spazio a questa obiezione, a questo
“però” e si converte. Don Abbondio no. Eppure ancora una volta è sottolineata la profondità
dell’animo dall’utilizzo dell’aggettivo indefinito “certo” e dal sostantivo “misto”. Come se non si
potesse ancora parlare di compassione e di dispiacere ma di un sentimento indeterminato, vago.
Anche Don Abbondio, che sembra una delle figure più negative del romanzo“si mostrava
abbastanza commosso” Come prima, non è commosso ma, lo è “abbastanza”, non del tutto. “-Non
mancherò monsignore, non mancherò davvero- rispose don Abbondio, con una voce che, in quel
momento, veniva proprio dal cuore.” Manzoni sottolinea che era sì una voce che “veniva proprio
dal cuore” ma una voce momentanea “in quel momento”.
“Così detto, si mosse; e don Abbondio gli andò dietro” L’episodio si conclude con un chiaro
richiamo dantesco “allor si mosse e io li tenni dietro”. Ma se non è problematico accostare
Federigo a Virgilio, è più difficile, forse impossibile, fare uscire da questo dialogo Abbondio simile a
Dante.
Il cambiamento, nella vita di un uomo, è ciò che attesta la sua presa di posizione nei confronti della
realtà. Quest’ultima, infatti, inevitabilmente si pone. Talora con la durezza della sofferenza, talora
con la levità della bellezza, essa si impone consegnando all’uomo la responsabilità di starle di
fronte in tutta la sua interezza . Ecco che il cambiamento è la misura di questa presa di coscienza.
Segno di complessità, appunto. Indizio della profondità con cui il personaggio considera il proprio
rapporto con la realtà.
3.“Ed io, che cosa volete che abbia imparato?”
I personaggi sono dunque un insieme indefinito di sentimenti, di paure, di dubbi, di sogni. Sono in
continua evoluzione, durante la storia possono cambiare, e in tale apertura al cambiamento si
riflette tutta la loro complessità. Essi, tuttavia, sono tratteggiate non appena nella loro complessità
psicologica ma nella loro complessità ontologica. La cifra di tale complessità è data dalla continua
esigenza di significato e d’infinito. Non a caso il romanzo si conclude con una domanda di Lucia:
“Ed io, che cosa volete che abbia imparato?” È la domanda di una persona che si volta indietro e
si chiede il senso di tutti i travagli passati, del dolore e di tutto quello che si è attraversato. “Perché
m’hanno presa? Perché son qui? Dove sono?” aveva chiesto all’Innominato la notte del rapimento.
E lo stesso Innominato, affascinato dall’incontro con lei, a conclusione del drammatico percorso
conoscitivo, prorompe in un grido, stizzito sì, eppur pieno di desiderio: “Dov’è questo Dio?”.
Ogni personaggio, in ogni punto del racconto, in modo più o meno esplicito, ha questa domanda
circa il significato di quanto accade. E, in ultimo, è chiamato a prendere una posizione davanti alla
8
Lazzarini V., cit. Il Capitello, Torino 1998
fede, cioè a riconoscere o meno la Provvidenza, l’azione di Dio che conduce ogni cosa verso la
perfezione e interpella continuamente l’uomo affinché si lasci trasformare.
La fede è da un lato il principio del cambiamento, dall’altro ne costituisce il punto d’arrivo. Essa è
la principale forza motrice del romanzo. È la fede di Lucia che fa fare all’Innominato un passo
verso la conversione, è la fede di Padre Cristoforo che porta Renzo a perdonare Don Rodrigo, è la
fede del Cardinale che accende per un attimo l’umanità di Don Abbondio, è la fede della madre di
Cecilia che muove a compassione il turpe monatto. Ed è di fronte alla fede che i personaggi vivono
il dramma della loro libertà. Essa infatti non è appena un timbro appiccicato alla vita e definito una
volta per tutte ma è strettamente inerente alla loro umanità e a tutte le sue sfaccettature.
Si pensi a come muta nel corso delle vicende narrate l’idea con cui Lucia concepisce la
Provvidenza o alla radicale trasformazione dell’Innominato o ancora a Padre Cristoforo, che vive il
servizio a Dio in modo sempre più totale, fino alla morte nel Lazzaretto dove appare come
trasfigurato dalla pienezza del suo sacrificio.
È molto significativa la manifestazione di fede di Renzo, nel Lazzaretto. All’apice del romanzo,
quando ha quasi trovato Lucia, al culmine di un climax conoscitivo iniziato dalla prima pagina del
romanzo, Renzo si ferma e si mette a pregare. “Andò a inginocchiarsi all’ultimo scalino; e lì fece a
Dio una preghiera” Manzoni giunge forse al vertice della profondità nella sua descrizione
dell’animo umano e spiega che non si tratta di una vera e propria preghiera, bensì, “per dir
meglio,[di] una confusione di parole arruffate, di frasi interrotte, d’esclamazioni, d’istanze, di
lamenti, di promesse” Renzo non inizia a pregare perché è un buon cristiano. È un uomo che ha
subito dei torti, sofferto, che non vede da diverso tempo la ragazza che stava per sposare e sa
che ella ora potrebbe essere vicino a lui. E non sa nemmeno se è viva o no, e la cerca in quel
luogo infernale e sa che presto scoprirà se si avvererà il suo peggior timore o il suo più profondo
desiderio. Mancano pochi istanti alla scoperta della verità e egli si ferma. Nel suo miscuglio di
“parole arruffate, di frasi interrotte, di lamenti, di promesse” è possibile percepire tutta l’agitazione
e la paura del suo corpo, la trepidazione del suo cuore, la drammatica tensione del suo animo.
Non sa nemmeno lui cosa chiedere, tanto è confusa la battaglia di sentimenti impazziti in quello
che è il guazzabuglio del suo cuore.
Conclusione
“Lucia però, non che trovasse la dottrina falsa in sé, ma non n’era soddisfatta”.
Ormai giunto al termine di questo mio lavoro non che esso mi sembri falso, ma non è del tutto
soddisfacente. Come se non avessi colto cosa fa, veramente, vivere questi personaggi. “ le
pareva, così in confuso, che ci mancasse qualcosa”. È la mia stessa sensazione. Qualcosa
sfugge.
Dopo avere analizzato i personaggi minutamente, aver letto e riletto le loro vicende e aver creduto
di tenerli in pugno, continuano a scappare da tutte le parti. Anzi, più penso di averli capiti e più,
come Lucia, sono costretto ad ammettere che “ci mancasse qualcosa”. Così come dopo anni e
anni che conosci un amico e ormai credi di sapere tutto di lui, ti sorprende continuamente e non
puoi mai dire di conoscerlo del tutto. Forse Manzoni è d’accordo con me. Non è un caso che egli
utilizzi di frequente l’espressione “un non so che” come ad ammettere la propria impotenza nel
descrivere la vita, specialmente in ciò che concerne l’umano. Molto spesso egli ricorre a aggettivi
vaghi, indefiniti, indeterminati. Addirittura, quando si tratta di scegliere quale nome dare una delle
figure
più affascinante e significative del romanzo, preferisce non definire. Lo chiama
semplicemente “l’Innominato”, non riesce a dargli un nome, forse nemmeno vuole.
Molti autori hanno tentato, forse in modo anche migliore, di scrivere questo, ma una frase a me
cara di Antoine de Saint-Exupery dice:
“Ciò che abbellisce il deserto è che nasconde un pozzo in qualche luogo …che si tratti di una
casa, delle stelle o del deserto, quello che fa la loro bellezza è invisibile”.9
La bellezza, la grandezza, l’umanità dei personaggi dei Promessi Sposi è invisibile, non perché
non si riesca a vederla, ma perché non si riesce a coglierla completamente. Rimane sempre “il
sospiro segreto del cuore”, “un non so che” che so, eppure sfugge.
BIBLIOGRAFIA
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Id., Con l’infinito nel cuore, Itaca, Castel Bolognese 2004
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De Saint Exupery A., Il piccolo principe, Bompiani, Milano 1992