L’IPNOSITERAPIA DEI DISTURBI DISSOCIATIVI ANTEFATTO Mi ha sempre affascinato il momento preciso in cui, mentre il pubblico attende seduto, la porta del palcoscenico si apre e l’artista appare illuminato dalle luci della scena, ovvero, scegliendo l’altra prospettiva, il momento in cui l’artista che sta in attesa nella semioscurità vede aprirsi quella stessa porta, che rivela le luci, il palcoscenico e il pubblico. (…) mentre rifletto su quanto ho scritto, capisco che entrare nella luce è anche una potente metafora della coscienza, della nascita della mente che conosce, del comparire, semplice eppur grave, del senso di sé nel mondo del mentale. ANTONIO DAMASIO, Emozione e Coscienza, 2000. E’ impossibile affrontare la problematica dei disturbi dissociativi senza considerare l’alterazione patologica che ne costituisce la caratteristica principale, ovverossia il gap che si viene a creare tra le due più complesse funzioni della mente: la memoria e la coscienza. La coscienza è da sempre motivo d’interesse per filosofi e scienziati, ma resiste ancora, dopo secoli di ricerche, alle esigenze di comprensione e di spiegazione. Non è questo il luogo in cui enunciare e confrontare i vari modelli attualmente proposti sul funzionamento della coscienza, che sono al centro di un vivace dibattito interdisciplinare, tanto da meritarsi l’appellativo di “the hard problem” da alcuni Filosofi della Mente (Chalmers, 1995). Ancora oggi mancano teorie in grado di descrivere in modo convincente quali potrebbero essere i modelli neurali che ne spieghino la comparsa, e quali collegamenti possano essere ipotizzati tra questa funzione ed altri processi mentali, come ad esempio la formazione dei concetti e lo sviluppo del linguaggio. Allo stato attuale delle nostre conoscenze disponiamo di approfondite conoscenze su aspetti parcellari. Manca ancora una visione di insieme condivisa e scientificamente convalidata. In molti casi, addentrandoci in questo campo di indagine attraverso la scienza che si occupa di alcuni fenomeni che sono centrali riguardo ai livelli di coscienza, l’Ipnosi, viene spontaneo condividere le parole che Tolstoj attribuisce ad Anna Karenina: “Non ho scoperto nulla, ho soltanto imparato a conoscere quello che sapevo”. 1 INTRODUZIONE La dissociazione rappresenta una difesa adattiva sana in risposta ad un elevato livello di stress o a un trauma, caratterizzata da perdita di memoria e sensazione di distacco da se stessi o dal proprio ambiente. Si tratta di una difesa usata universalmente dagli individui. Essa non si presenta sempre nella sua veste peggiore, ma si dispone lungo un continuum che va da lieve a grave. Molti individui sperimentano episodi dissociativi, di tanto in tanto, senza riportare alcun problema psichiatrico; altri ne fanno esperienza come risposta temporanea ad un incidente che ha messo a repentaglio la vita o a un episodio di pre-morte; altri vivono episodi dissociativi in momenti di intenso stress e crisi momentanea. I sintomi gravi si ritrovano per lo più in coloro che hanno un disturbo dissociativo, che, nella sua forma più grave si esprime nel Disturbo Dissociativo dell’Identità (DDI), in precedenza chiamato disturbo da personalità multipla. Qui il “bambino interiore” o qualche altra parte nascosta di sé opera in maniera indipendente, prende il controllo e fa agire la persona in maniera inappropriata o compromette la sua capacità di agire. I sintomi dei disturbi dissociativi sono molto più diffusi nella popolazione generale di quanto si pensasse in precedenza. Le ricerche di Marlene Steinberg e Maxine Schnall (2001) hanno dimostrato come questi sintomi siano altrettanto diffusi di quelli depressivi e di ansia. La scarsa conoscenza da parte del pubblico dei sintomi dissociativi e l’incapacità di identificarli di molti terapeuti, hanno fatto sì che la dissociazione sia diventata l’epidemia taciuta dei nostri giorni. Le persone vanno nello studio del terapeuta descrivendo solo quei sintomi che sono in grado di riconoscere: “Mi sento triste”, “Ho continui sbalzi d’umore”, “Soffro di attacchi di panico”, “Non riesco a concentrarmi”, “Mi sento costretto a lavarmi le mani continuamente”. Se il terapeuta non indaga anche se il problema abbia una base dissociativa, i problemi presentati – depressione, disturbo bipolare, DAP, ADDH, DOC – saranno quelli diagnosticati, e la persona potrà restare in terapia per lungo tempo senza compiere nessun reale progresso. La dissociazione, intesa come naturale reazione al trauma, ha una notevole capacità di aumentare lo stato di allerta escludendo dalla consapevolezza le emozioni che sconvolgerebbero e paralizzerebbero chi lo sperimenta e gli aspetti più terrificanti della situazione. Sentire che l’orologio del tempo si è fermato nel mondo esterno dà alla persona la libertà di focalizzarsi sulla accelerazione dei pensieri di autoconservazione. Noi consideriamo l’ipnositerapia (se ben condotta da professionisti qualificati, che padroneggino la psicodinamica) come la forma elettiva di trattamento dei disturbi dissociativi, senza negare l’importanza di un intervento farmacologico integrativo. L’ipnositerapia è da noi intesa come l’uso deliberato della dissociazione e della riassociazione della coscienza all’interno di una peculiare relazione che privilegia l’esperienza senso-motoria diretta e che consente di costruire un’esperienza concreta di riapprendimento e cambiamento rispetto al trauma. I fattori essenziali del cambiamento terapeutico che le scienze cognitive riconoscono come decisivi sono: coscienza, apprendimento, memoria, relazione (G. Ducci, supervisione del 25.II.2015 ). L’insieme delle tecniche ipnotiche non sempre può essere connesso in maniera diretta con gli obiettivi terapeutici da raggiungere, ma è finalizzato alla costruzione di un contesto (la trance, l’attivazione e la riattivazione emozionale, la rielaborazione mnesica, ecc.) che rende possibile e probabile il cambiamento. La psicoterapia ha il compito di tentare la 2 costruzione ( o la ricostruzione) di quelle condizioni che trasformano le potenzialità in espressione positiva, vera e piena delle caratteristiche del paziente, inteso come individuo. Milton Hyland Erickson introdusse una modalità rivoluzionaria di utilizzare la dissociazione, intesa come proprietà della mente. L’ipnositerapia dissocia-associando e associa-dissociando; lo stato modificato di coscienza che chiamiamo trance è elicitato dall’interazione tra i membri della diade terapeuta-paziente e che il terapeuta utilizza sapientemente per creare un percorso che unisca il polo del sapere a quello esperienziale. Per Erickson la trance, in precedenza considerata come un fenomeno eteroindotto, è una esperienza di reciprocità tra ipnotista e soggetto. In quanto fenomeno dissociativo funzionale, la trance ipnotica consente all’individuo di operare una risintesi del proprio mondo interiore, un miglior funzionamento personale e sociale, aumentando le sue possibilità di scelta e i gradi di libertà nell’interazione con l’ambiente (Erickson, 1980; Whitaker, 1984). La specificità dell’ipnositerapia, come di ogni buona psicoterapia del resto, è lavorare sulla modulazione del mentale: usando la propria coscienza per influenzare quella del paziente, il terapeuta lo accompagna alla scoperta di modalità di funzionamento nuove e più funzionali, in cui le risorse personali hanno modo di riassortirsi in equilibri inediti. Vedremo infine come il cambiamento si verifichi nello stile di attaccamento (Bowlby) e nel ripristino della continuità autobiografica, presupposto per il senso di continuità identitaria e di un modello rappresentativo integrato di sé, indispensabile per una vita relazionale sana, gratificante e produttiva. Semplificando molto, in un ri-apprendimento. La biografia di ognuno di noi, poi, si gioca continuamente tra elementi di continuità e discontinuità, in una ciclicità senza fine (Liotti, 1993). Considerare l’ipnositerapia come un insieme di ricette o una combinazione di congegnate “prescrizioni” raggruppabili in evanescenti “protocolli”, come un cook-book per la psicoterapia, è un errore fuorviante che nasce da una visione tecnicistica dell’ipnosi che sottovaluta uno degli insegnamenti fondamentali di M.H. Erickson: l’unicità (e la novità) di ogni individuo e che, oltretutto, trascura le determinanti efficaci di una buona psicoterapia. Il pericolo è quello di confondere il mezzo con il fine, dando per scontato che applicare alcune procedure piuttosto che altre produrrà ipso facto un cambiamento terapeutico duraturo, come alcuni fra i più sprovveduti terapeuti di stampo strategico o proto-comportamentista pensano, il più delle volte basandosi sulla fallace illusione di avere un controllo unilaterale della relazione con il paziente che ricorda molto da vicino la Prima Cibernetica. Sappiamo, invece, che la qualità dell’holding – caratteristica assolutamente aspecifica e legata alle caratteristiche individuali del terapeuta – rappresenta l’elemento più efficace di tutte le psicoterapie. La costruzione del contesto di cambiamento, affettivo/emozionale/immaginativo è l’elemento più pregnante dell’ipnositerapia ericksoniana. Questa, per come è da noi intesa, rappresenta una forma di genitorialità affidataria che prevede sin dall’inizio la sua conclusione. Non è un percorso infinito né ultrabreve, in nome di un presunto efficientismo e di un frainteso pragmatismo. 3 1. SULLE POSSIBILI ORIGINI DELLA COSCIENZA Se l’Ipnosi è coscienza modificata, vi è da chiedersi innanzitutto che cosa intendiamo per Coscienza e da dove essa provenga. Noi preferiamo credere di essere sempre coscienti, ma a disilluderci basterebbe la semplice considerazione che i neuroni hanno scarica finita e saltuaria. Per la maggior parte del tempo non siamo coscienti o lo siamo solo in modo parziale. Così come non esiste sempre nel corso della giornata, la coscienza soggettiva non è esistita sempre nel corso della evoluzione umana. In tempi antichi ci furono dei primati totalmente animali, dai quali poi si evolsero ominidi e poi, da alcuni di questi, le specie umane fino alla sub-specie Homo sapiens sapiens – unica sopravvissuta: noi. E’ verosimile che questo processo non si sia concluso ma sia in divenire. Sembra evidente che nel corso dell’ evoluzione si sia ad un certo punto manifestata la coscienza soggettiva, che noi ancora ospitiamo. Una volta manifestatasi, questa si è poi mantenuta grazie al vantaggio evolutivo che comporta per la specie. Sebbene la coscienza non sia necessaria in termini biologici e non sia la base della cosiddetta logica umana (Mérò, 2005), si potrebbe pensare a che cosa significhino in termini di sopravvivenza dell’individuo e della specie l’aspettativa e la paura della morte, i sentimenti, l’amicizia, l’erotismo o l’amore, tutti epifenomeni della coscienza egoica. E’ impossibile stabilire quando il processo evolutivo che ha condotto alla coscienza soggettiva si sia concluso. Alcuni antropologi ritengono che ciò sia avvenuto piuttosto di recente, in epoca storica, e non come ritenuto da altri in epoca preistorica. Questa ipotesi è suffragata dal ritrovamento di reperti archeologici, dai ritrovamenti di resti umani, dall’analisi di antichi testi. Certamente la formazione della coscienza deve aver avuto luogo dopo l’ultima glaciazione (11000 a.C.), ma secondo alcuni si sarebbe concretizzata assai più recentemente, nell’età del bronzo, forse verso il 1250 a.C., nell’area compresa fra Egitto e Mesopotamia (Baldacci, 1999). Secondo Julian Jaynes (Jaynes, 1976) per un cataclisma naturale l’isola di Tera sprofondò, costringendo i sopravvissuti bicamerali o proto-coscienti a migrare e ad abbandonare gli “idoli-parlanti” che davano loro la spinta all’azione; finisce il plurisecolare impero Ittita, tutte le sue città sono bruciate e la scrittura cuneiforme viene dimenticata; la distruzione di Troia segna il trionfo dei non-coscienti eroi micenei che obbediscono a voci inconsce che chiamano Zeus e Athena; i Filistei invadono le coste siriane; Mosè conduce gli Ebrei fuori dall’Egitto e li porta nella terra di Cana, dove riceverà il Decalogo; nella penisola italiana c’è l’avvento degli Etruschi. La Grecia svilupperà subito dopo una potente coscienza egoica di stampo intellettuale, ma lo stesso avverrà più o meno contemporaneamente intorno al Sinai con la coscienza morale degli Ebrei e in Egitto (Bibbia di Gerusalemme, Antico Testamento). Per millenni l’uomo ha trasmesso le proprie conoscenze con il solo strumento della voce. Le informazioni passavano di bocca in bocca e procedevano a velocità pedonale. Un uomo siffatto aveva una relazione con le parole profondamente diversa dalla nostra: egli sarà stato più un uditivo che un visivo ed amava la ridondanza. Nelle culture orali primarie i pensieri erano espressi in versi o in una prosa molto ritmica (Iliade, Odissea), in quanto, con le parole di Walter J. Ong (1986, pp. 62-63) “il ritmo aiuta la memoria anche da un punto di vista 4 fisiologico (…) e vi è un intimo legame esistente fra i modelli ritmici orali, il processo respiratorio, i gesti e la simmetria bilaterale del corpo umano nelle antiche parafrasi aramaiche e greche dell’Antico Testamento (…) e anche nell’ebraico antico”. Si racconta (Mons. Andrea Maggiali, O.E.S.S.G., comunicazione personale,ottobre 2000, San Sepolcro - Parma) che alcuni Padri del deserto, quei monaci che dal III al VI sec. dopo Cristo si ritirarono nell’Alto Egitto, nei deserti della Siria e della Palestina, conoscessero a memoria l’Antico e il Nuovo Testamento nella loro interezza. Essi passavano la loro vita “ruminando”, cioè meditando in continuazione brani della Scrittura, ma tale loro incredibile performance mnemonica – incredibile per i parametri odierni – era resa possibile anche dal fatto che il testo sacro era stato trasmesso per secoli oralmente. Era un racconto ritmato, strutturato in modo da essere facilmente memorizzabile. Nelle culture orali primarie, dunque, la memoria occupa un ruolo centrale tra le facoltà mentali e le persone più sapienti sono quelle che posseggono una memoria di ferro: eidetica. Nelle culture orali primarie il sapere finisce con l’essere trasmesso attraverso formule, frasi fatte, proverbi, massime, finendo con l’essere un sapere veicolato in espressioni verbali essenziali o, per meglio dire, quintessenziali. “Rosso di sera bel tempo si spera”, “Divìde et ìmpera”, “Sbagliare è umano, perdonare è divino”, “la vecchia volpe di Via del Castello, che da più di trenta anni ama fare solo quello, sta perdendo i capelli, ma non il vizio”, “Bacco, tabacco e venere conducono l’uomo in cenere”, o, con Salomone,“Buona è la mestizia più del riso, perché un triste aspetto fa buono il cuore” (Qoèlet 7,3). Alla fine del XIV-XIII secolo a.C., attraverso l’oralità, la coscienza soggettiva avrà ormai fatto irruzione come un’epidemia nella storia dell’uomo mediterraneo ed europeo. In altre aree del globo terracqueo il processo sarebbe stato più lungo. Non coscienti erano verosimilmente i sudamericani colonizzati nel XV secolo d.C., vale a dire 2800 anni più tardi, e molto probabilmente proto-coscienti erano anche gli indigeni tribali visitati da C.G. Jung sui monti Elgon in Africa nei primi anni del Novecento (Jung, 1940; 2005). Questi uomini non erano meno intelligenti di quelli moderni, ma semplicemente diversi nell’approccio alla vita interiore, all’immagine mentale e quindi al mondo. Ovunque nel tempo si voglia situare la nascita della coscienza, vi fu un’epoca nella quale gli uomini, esponenti del genere Homo, non avevano volizione e semplicemente agivano su base istintiva come ancora accade agli animali. Poi si sviluppò, molto lentamente, un inconscio (o un non-conscio per non essere troppo freudiani) che produceva una vita interiore ricca ma, appunto, inconsapevole … e venne così un’epoca nella quale gli uomini primitivi, ancora privi di volizione cosciente, possedevano tuttavia una volizione inconscia e agivano in risposta a comandi provenienti dall’inconscio: a voci. Voci, delle quali, non avendo coscienza, non erano consapevoli e che erano probabilmente simili o affini alle voci udite ancor oggi in condizione di stress dagli schizofrenici e da persone normali. Anche negli psicotici di oggi le voci hanno spesso valenza numinosa e carattere incontestabile, cioè sono accettate e obbedite con poco senso critico, ma per gli uomini primitivi esse dovevano avere addirittura valore di comandi neurologici, tanto che udirle e obbedire era tutt’uno. Jaynes ritiene che queste voci/comando originassero dall’emisfero destro che, allora, era probabilmente più separato dal sinistro da un punto di vista funzionale e forse anche 5 anatomico di quanto non sia attualmente, e fossero sentite inconsciamente dal sinistro, in una condizione che Jaynes definisce bicamerale: a doppia camera, a due emisferi. Possiamo immaginare l’uomo bicamerale come diviso in due parti entrambe inconsce, una impositiva/direttiva e una obbediente/acquiescente. Solo molto più tardi, con il venir meno della netta suddivisione fra emisfero destro ed emisfero sinistro, le voci bicamerali taceranno e finiranno per essere incorporate in una funzione nuova, mai esistita prima, nella quale la parte acquiescente e la parte direttiva del cervello si uniranno per dar vita a quella funzione soggettiva che oggi chiamiamo coscienza. A tale sintesi di parte soggetta e di parte direttiva potrebbero aver contribuito diversi fattori, tanto biologici quanto sociali: le dimensioni del cervello, aumentate dai 500 cm cubi dell’Australopitecus (un ominide alto circa 1 metro, capace di stazione eretta, datato circa 4 milioni di anni fa), ai 600-800 cm cubi dell’Homo abilis (che già 3 milioni di anni fa realizzava rozzi strumenti in pietra o legno) che conosceva ed utilizzava il fuoco, all’Homo sapiens neandertalensis (300000- 35000 anni fa) che mostrava culto dei morti e tendenze religiose, fino agli 10.000.000.000.000.000 circa di potenzialità di connessione dendritica dell’Homo sapiens sapiens; la plasticità neuronale, con conseguente facilità di adattabilità all’ambiente; il bipedismo completo dell’Homo erectus, che ha lasciato gli arti superiori liberi di specializzarsi in funzioni quali prendere, disegnare, accarezzare e scrivere Il bipedismo ha anche nascosto la fenomenologia dell’estro femminile, facendo nascere la necessità del corteggiamento e la possibilità di scelta del partner, utile per la selezione naturale del più astuto e affascinante piuttosto che del più forte; l’addomesticamento dei grandi mammiferi e l’agricoltura, che hanno fornito nutrimento atto a sviluppare le istruzioni genetiche e svincolato l’uomo dalle necessità della caccia lasciandogli più tempo per pensare; una genetica favorevole al controllo del comportamento; la selezione naturale a favore degli uomini via via divenuti coscienti, in un sistema autocatalitico che certamente avrà favorito la sopravvivenza degli esemplari coscienti, timorosi della morte; le migrazioni; l’abbassamento della glottide e lo specializzarsi di centri cerebrali che hanno consentito la nascita e lo sviluppo del linguaggio; la scrittura. Essa fu dapprima semplicemente sintetica, poi divenne pittografica e analitica, poi ideografica, ancora più tardi sillabica, poi consonantica e, infine, vocalica, in uno sforzo di progressiva astrazione (Ong, 1982); l’insorgere delle capacità di astrazione, nata nel corso dell’evoluzione per ragioni molto concrete, ad esempio riconoscere tra i fili d’erba gialli della savana la criniera del leone o tra le macchie gialle e nere della foresta il maculato del ghepardo o tra le fronde della foresta lo zebrato di una possibile preda da mangiare – mangiare e non essere mangiati erano quasi certamente le attività principali della nostra specie ai primordi. Concretissima nella sua origine (cibo, caccia, fuga), l’astrazione porterà poi alla narratizzazione di concetti astratti come la vita e la morte. 6 Lo sviluppo della coscienza egoica a seguito della integrazione in un’unica funzione delle voci bicamerali si è rivelato favorevole per la sopravvivenza della specie ma è anche accompagnato da epifenomeni non sempre graditi come la consapevolezza della immanenza della morte, lo scorrere del tempo, la colpa, il rimorso. Così precaria la coscienza, che potremmo immaginare come una navicella sul mare dell’inconscio, così agognato il ritorno al pre-cosciente, che basta davvero poco per “dimenticare” il proprio stato di umani emancipati e tornare temporaneamente alla sottostante e latente condizione bicamerale: un’ischemia cerebrale, una stimolazione elettrica dell’encefalo, un qualche evento della vita quotidiana con significato dissociativo, di solito un trauma, ma anche la poesia, la musica, i movimenti simmetrici del corpo durante il ballo o la corsa, o, appunto, la pratica dell’Ipnosi (Casiglia, 2008). Nell’Ipnosi, l’ipnotista assume momentaneamente le funzioni delle voci bicamerali, annullando temporaneamente la funzione-coscienza che ad esse si è sovrapposta negli ultimi 3300 anni e permette al paziente di ritornare soggetto, rinunciando per un po’ ad essere soggettivo; un’operazione che l’ipnotizzato nella maggior parte dei casi è inconsciamente ben felice di “subire”, essendo grande il suo desiderio inconscio di abdicare alla faticosa coscienza. E parlando di coscienza, la prima cosa che mi torna alla mente è che la nostra vita è divisa in due grandissime esperienze contigue e alternanti: il sonno e la veglia, in cui vi è una diversità di stato, ciò che i Greci chiamavano ònar e ùpar. L’unità e la continuità della coscienza sono illusioni che noi manteniamo nonostante le numerose fonti di discontinuità dell’esperienza soggettiva. La coscienza è un processo sequenziale, come tanti fotogrammi di una pellicola cinematografica, un flusso, che “nel suo divenire temporale, passa alternativamente da uno stato all’altro e che può interrompersi del tutto” (Liotti, 1998, pag.16). Tra le fonti di discontinuità vi sono normali esperienze quotidiane: • • • • il sonno, il dormiveglia, l’affaticamento, l’orgasmo, la concentrazione intensa, l’immergersi in fantasticherie, la meditazione profonda; gli stati tossici e le condizioni morbose del sistema nervoso; la molteplicità e la relativa indipendenza degli schemi motivazionali e le identità di ruolo; le trance ipnotiche. La coscienza è “un fenomeno intrinsecamente relazionale, emergente continuamente dalla comunicazione fra cervello individuale e il mondo (…) essa può essere descritta come un processo sequenziale in cui le informazioni vengono elaborate in successione e lentamente, nella dimensione che rende possibile il vaglio, la riflessione, la scelta.” (Liotti, 1998, pag.18 19). 7 2. COSCIENZA, VIGILANZA E ATTENZIONE La coscienza è l’espressione di una funzione integrativa centrale di tutte le attività cerebrali: le coordina, le finalizza e le dirige al fine di ottimizzare i comportamenti adattivi. Essa è flessibile e mutevole in funzione degli stimoli sensoriali, di quelli generati dalla memoria e di quelli generati dalle strutture somatiche a livello centrale. Sebbene siano ancora poco chiari i confini che le delimitano reciprocamente, vigilanza, attenzione e coscienza sono organizzazioni anatomo-fisiologiche basilari nella strutturazione dell’attività mentale. Una loro compromissione, conseguente per lo più a disturbi su base organica, interferisce inevitabilmente con l’intera sfera psichica, coinvolgendo in primo luogo le altre funzioni di base dell’attività mentale superiore: memoria e intelligenza. In termini psicologici la coscienza è intesa come consapevolezza di se stessi, del proprio corpo e mondo interno e dell’ambiente esterno, in una parola del proprio esistere. E’ una funzione fondamentale a che ognuno di noi possa dire “Io sono io, e sono qui ora” (Casilli e Ducci, 2002). Comprende la totalità dei fenomeni psichici vissuti in un dato momento, garantendo l’orientamento spazio-temporale e i processi di discriminazione e di scelta. Condizione necessaria per l’esperienza cosciente è la vigilanza che ne connota il grado di chiarezza e lucidità. La vigilanza ha un corrispettivo neurofisiologico nei centri attivatori e inibitori interposti fra tronco cerebrale e corteccia. In stretto rapporto alla vigilanza sta l’attenzione (dal greco prosoché - dal verbo prosécho = dirigo, avvicino, ad es. le navi all’approdo) che consente, nell’ambito dell’insieme delle esperienze coscienti che costituiscono il campo della coscienza, la selezione di uno specifico contenuto che emerge dagli altri assumendo particolare rilievo e nitidezza. Pertanto il campo della coscienza non è omogeneo, ma si presenta come uno sfondo sfocato nel quale gli elementi su cui l’attenzione si concentra appaiono più chiari degli altri. La coscienza si articola con i diversi fenomeni psichici sperimentati (percezione, rappresentazione, ricordo, ecc.), li attiva e li organizza conferendo loro la forma e la struttura unitaria con la quale essi si esprimono istante per istante. Tale attività strutturante (controllo della coscienza) è premessa indispensabile nella distinzione tra sogno e realtà, tra soggetto e oggetto. Il processo che consente di svincolarsi dalla coscienza attuale per riflettere su se stessi, sui propri pensieri e sentimenti e di prendere posizione nei loro confronti viene definito autocoscienza ed è il fondamento della continuità esistenziale della persona che opera, giudica, sceglie e diviene artefice del proprio mondo (Sarteschi & Maggini, 1992). Più approfondita è l’analisi di Gianpaolo Pierri (Pierri, 1993) il quale sottolinea come già il filosofo H. Von Hartmann, prima di Freud, facendo riferimento all’aspetto intenzionale della coscienza, parlasse di una coscienza aperta e di una coscienza chiusa, che insieme configurano due modi diversi ed alternativi di porsi dell’uomo rispetto al mondo. Attraverso la propria coscienza, che diviene così mediazione e presenza dell’essere animato, l’uomo progetta e si proietta, cioè trascende nella realtà o si chiude di fronte alla minaccia ed alla paura. Per H. Ey (Ey, 1968;1977) la coscienza è la scena dove scorre l’esistenza, il luogo ove lo spazio e il tempo, l’Io e il Mondo si articolano nella attualità della loro rappresentazione. La coscienza è quel momento del tempo vissuto che esclude tutto ciò che non è attuale, ciò che resta incosciente. La coscienza implica una stratificazione funzionale, una architettura 8 radicata nelle strutture somatiche e di conseguenza essa è vulnerabile nella sua composizione: nella dissoluzione essa perde progressivamente la sua capacità di resistere all’incosciente, come nei casi di confusione mentale. Nel manifestarsi della coscienza intervengono presumibilmente funzioni strutturanti correlate al sistema talamo-corticale, deputate all’integrazione delle varie attività psichiche. Henri Ey distingue, in modo clinicamente semplice e pregnante, i “disturbi mentali acuti” dai “disturbi mentali cronici”. Se i primi sono espressione della strutturazione sincronica della coscienza (lo “stato”), i secondi sono espressione della struttura diacronica (il “processo”). Abbastanza recentemente alcuni autori (Edelman, Tononi, 2000) hanno proposto un modello secondo il quale, ogniqualvolta una persona è cosciente, esiste un insieme di regioni cerebrali che interagiscono tra loro con molta più forza (nucleo dinamico) che con il resto del cervello in frazioni di secondo. Secondo il modello proposto da Edelman e Tononi, una scissione del nucleo dinamico potrebbe essere alla base sia del PTSD che dei fenomeni dissociativi e della schizofrenia. In particolare, Edelman, nel suo “Darwinismo neurale” (1989) distingue una “coscienza primaria” e una “coscienza di ordine superiore”. La prima rappresenterebbe lo stato di consapevolezza mentale delle cose del mondo, consentendo una immagine mentale del presente, senza però fornire la sensazione di essere una persona con un passato ed un futuro – una sorta di presente ricordato, sulla base della storia personale dell’individuo e del suo bagaglio di conoscenze apprese. La seconda, invece, comporterebbe da parte del soggetto il riconoscimento razionale dei propri atti e dei propri sentimenti: è la coscienza di essere coscienti, che si costruisce attraverso le interazioni con gli altri individui. Le emozioni aiutano la coscienza ad esplicare le sue funzioni integrative: attivano sistemi neuromodulatori producendo effetti diretti sull’eccitabilità neuronale, sulla plasticità e crescita di connessioni sinaptiche e sul coordinamento delle funzioni cerebrali. Nello stato di coscienza normale si verificano oscillazioni di tipo fasico, legate al ritmo veglia-sonno. Durante il sonno il sistema centrale di integrazione non è funzionante, e i dati che provengono dagli organi di senso e dalla memoria non vengono accettati. Durante il sogno, invece, tale sistema funziona in maniera ridotta, elaborando i dati provenienti dalla memoria: il risultato di tale attività sono i contenuti fantastici propri dello stato sognante, simili a quelli che si ritrovano in alcune condizioni psicopatologiche. Le oscillazioni di tipo critico che si verificano durante la veglia in condizioni di normalità sono invece legate alle variazioni nell’ampiezza del campo di coscienza (numero e quantità dei contenuti consapevoli presenti in un dato momento): si può avere un restringimento del campo di coscienza su un unico stimolo quando questo ha un significato particolare di evocazione emozionale. I contenuti di coscienza sono come le scene di una rappresentazione teatrale: se il campo di coscienza è la parte di palcoscenico mostrata agli spettatori, l’attenzione è il riflettore che evidenzia una sezione scenica, determinando la messa a fuoco di specifici contenuti di coscienza, siano esperienze interiori o stimoli ambientali. Una diminuzione della vigilanza è rappresentata da un diminuito risalto della scena stessa: le variazioni quantitative della vigilanza determinano il livello di intensità della coscienza. Fra vigilanza e attenzione vi è uno stretto legame, dal momento che occorre un normale livello di vigilanza per permettere all’attenzione di operare. 9 La vigilanza è considerata una proprietà fondamentale del SNC per cui esso è in grado di essere ricettivo all’ambiente esterno e capace di autocoscienza con una periodicità circadiana. Questa proprietà ha le sue basi anatomiche e funzionali in quel complesso sistema tronco-talamo-corticale identificato e definito da Moruzzi e Magoun verso la metà del secolo scorso con il termine di sostanza reticolare attivante ascendente (Umiltà, 1999). Si considera un livello base della vigilanza – vigilanza tonica – e una serie di modificazioni transitorie in risposta agli stimoli – vigilanza fasica – valutabili tramite lo studio dei potenziali evocati. Le alterazioni della vigilanza sono indicative di patologie organiche cerebrali o extracerebrali (per es. turbe dismetaboliche) o stati d’intossicazione. Le strutture cerebrali che la controllano sono dunque la formazione reticolare, che è un insieme di raggruppamenti neuronali equivalenti alla rete interneurale del midollo spinale (localizzata a livello bulbare, pontino e mesencefalico), l’ipotalamo (area preottica e nucleo soprachiasmatico) e la corteccia. Sono implicati vari sistemi neurotrasmettitoriali: il locus coeruleus (situato a livello del ponte, principale sede di neuroni noradrenergici con proiezioni eccitatorie); i nuclei del rafe (localizzati a livello bulbare, pontino e mesencefalico, principali sedi di neuroni serotoninergici con funzione modulatoria). Anche i sistemi dopaminergici e acetilcolinergici sembrano svolgere un ruolo. Le monoamine, dopamina, noradrenalina e serotonina, regolano la nostra energia, il livello di attività e il senso di benessere. La dopamina è un neurotrasmettitore chiave nei sistemi umani di ricompensa; la noradrenalina modula l’attivazione e le reazioni di attacco-fuga; la serotonina media umore, emozione e aggressività (Cozolino, 2008). Per valutare il livello di vigilanza, si esaminano la capacità reattiva del soggetto nei confronti degli stimoli e la sua capacità d’attenzione. Nello stato vigile il soggetto è normalmente recettivo agli stimoli ambientali. Nel caso di compromissione della vigilanza si osserva ideazione rallentata, fino all’arresto psicomotorio. L’attenzione determina il grado di lucidità della coscienza rendendo volontariamente o involontariamente, attivamente o passivamente, più vivaci le percezioni. E’ influenzata da motivazioni, interessi e stati emotivi, è correlata al sistema limbico (il centro integratore delle emozioni) e alla corteccia cerebrale (lobi frontali, in particolare il giro cingolato interno e i lobi parietali). E’ stata ipotizzata per l’attenzione un’attività selettiva, nel senso che filtrerebbe le informazioni rilevanti da quelle inutili. Disfunzioni o anomalie a questo livello sarebbero all’origine di alcune tra le più gravi manifestazioni cliniche delle sindromi schizofreniche (Pierri, 1993). Un’alterazione dell’attenzione è implicata nella sindrome frontale. Negli stati di dormiveglia l’attenzione è dispersa, cioè ridotta. L’attenzione diffusa è invece lo stato di allerta, cioè la capacità di mantenere o sviluppare una sensibilità ottimale alla stimolazione esterna. L’aumento dell’attenzione, un eccesso di attenzione, riscontrabile per es. in pazienti deliranti o in fase maniacale, è chiamato iperprosessi; la diminuzione, un difetto di attenzione, riscontrabile per es. nei pazienti depressi, è chiamato ipoprosessi. La distraibilità dell’attenzione, di frequente riscontro nei pazienti con episodio maniacale, consiste nella continua fluttuazione dell’attenzione da un oggetto a un altro (De Giacomo, Resnik, Pierri, 1980). 10 3) LA COSCIENZA E I SUOI DISTURBI La psicopatologia della coscienza comprende i disturbi dello stato di coscienza e i disturbi della coscienza dell’Io. A) Disturbi dello stato di coscienza Anche se in clinica difficilmente sono riscontrabili quadri puri, sulla base della alterazione prevalente di uno dei meccanismi coscienziali si distinguono : a) Alterazioni quantitative della coscienza - turbe della lucidità o della vigilanza: alterazione ipnoide della coscienza. b) Alterazioni qualitative della coscienza: - restringimento del campo della coscienza orientato: stato crepuscolare. - turbe della funzione strutturante o del controllo della coscienza: alterazioni oniriche della coscienza. 1) Alterazione ipnoide della coscienza Le turbe della lucidità della coscienza sono rappresentate dagli stati di obnubilamento o di offuscamento caratterizzati da un deficit quantitativo della vigilanza e da una riduzione globale del livello funzionale delle attività psichiche. Il soggetto appare sonnolento, abulico e inerte; presenta compromissione delle capacità percettive, della concentrazione, della elaborazione del pensiero e della comprensione e risponde agli stimoli con ritardo. Se sollecitato con una certa insistenza riesce a prestare attenzione per breve tempo, per ricadere in uno stato di sonnolenza e di apatia. La comprensione delle domande rivoltegli è difficoltosa, l’ideazione lenta, poco elaborata, tendente alla perseverazione, talora incoerente. L’affettività è inibita o può presentare evidenti fluttuazioni. Esistono livelli diversi di obnubilamento indicati come torpore, sopore, precoma e coma. Nello stato di torpore il soggetto presenta solo un generico intorpidimento della attività psichica; il sopore rappresenta una più grave compromissione del livello di coscienza per cui il soggetto può essere richiamato alla realtà solo mediante forti stimolazioni. Il soggetto in precoma non può essere ricondotto alla realtà in nessun modo, ma continua a rispondere agli stimoli con movimenti incoordinati. Nello stato di coma non si ha reazione ad alcun stimolo, si ha perdita di qualsiasi attività psichica mentre è conservata la vita vegetativa. L’alterazione ipnoide della coscienza riconosce una patologia organica cerebrale o extracerebrale o stati di intossicazione acuta o cronica. 11 2) Stato crepuscolare Lo stato crepuscolare è la condizione in cui la coscienza è circoscritta su un numero limitato di contenuti psichici. Il soggetto appare così intensamente assorto nelle sue esperienze da precludere ogni rapporto con l’ambiente: al di fuori dell’ambito consapevole la realtà non è percepita ed elaborata correttamente, ma rimane inavvertita o è interpretata in armonia al tema coscienziale dominante. Il comportamento è di solito ordinato nel suo disporsi nei confronti dei contenuti della coscienza e sovente l’orientamento è conservato. In alcuni stati crepuscolari si può avere distorsione illusionale dell’ambiente, possono presentarsi turbe allucinatorie, idee deliranti o intensi stati affettivi cui conseguono comportamenti oggettivamente inadeguati pur se coerenti nell’ambito ristretto del campo di coscienza. Seguendo Von Economo, il grande studioso dell’encefalite letargica, gli stati crepuscolari sono dei residui dello stato di sonno nello stato di veglia. Più tardi, Binder, definirà questi stati collegandoli ad una diminuzione del tono simpatico, senza che il tono parasimpatico sia esaltato: uno stato di semi-sonno. Le modalità di insorgenza dello stato crepuscolare sono di solito improvvise e altrettanto brusco è il ritorno alla normalità dopo un periodo variabile da pochi minuti ad alcuni giorni o qualche settimana. Non residua alcun ricordo dell’accaduto. Questo disturbo della coscienza si osserva nella epilessia, in special modo in quella temporale, ma soprattutto a seguito di gravi eventi emotivi (bombardamenti, catastrofi naturali). 3) Alterazioni oniriche della coscienza Rappresentano gli stati in cui maggiore è la compromissione e la disorganizzazione della coscienza per il venir meno della sua capacità strutturante. La vita psichica si frantuma, come in molti esordi psicotici acuti. Si possono distinguere varie forme: a ) Stato crepuscolare onirico o disorientato Oltre al restringimento del campo della coscienza su un tema ideo-affettivo e al disorientamento spazio- temporale, si osservano turbe dei processi ideativi che appaiono frammentati e abnormemente strutturati. Viene meno la capacità di distinguere tra immaginario e realtà, tra mondo soggettivo e oggettivo; il mondo soggettivo si proietta nello spazio esteriore sotto forma di immagini e di visioni, senza peraltro sostituirsi completamente al mondo esterno, di cui certi aspetti più familiari e più abituali si conservano intatti e si confondono con gli oggetti dell’immaginario. Sono frequenti i fenomeni dispercettivi sotto forma di illusioni e di allucinazioni. b) Amenza o stato confusionale (Delirium) E’ il quadro psicopatologico più grave e complesso tra i diversi disturbi della coscienza e rappresenta il livello più grave di destrutturazione del normale stato di coscienza. Al disorientamento spazio-temporale e verso le persone, si aggiungono disturbi mnesici, compromissione delle funzioni percettive con illusioni e allucinazioni per lo più visive (per es. falsi riconoscimenti di persone - Sindrome di Capgras). Il 12 pensiero è incoerente, frammentario e disarticolato; le reazioni affettive appaiono abnormi e incongrue (allarme, paura, perplessità, fatui atteggiamenti ludici) Il carattere distintivo dei deliri è la frammentarietà, con contenuti essenzialmente persecutori. Sul versante psicomotorio si riscontrano stati di inibizione e di stupore, ma anche stati di eccitamento, condizionati dalle allucinazioni e dai deliri ed inadeguate alla realtà. L’amenza si associa sempre a gravi fenomeni vegetativi e ad alterazioni dell’equilibrio elettrolitico. Infatti, accanto alle alterazioni psichiche si riscontra nella amenza un insieme di manifestazioni somatiche, evidenti specialmente nelle forme più gravi della malattia. La più evidente è uno stato febbrile o subfebbrile, insieme alle allucinazioni molto vivaci e terrifiche, e alla sitofobia. L’aspetto esterno del paziente è tipico: presenta congiuntive oculari arrossate, labbra secche e screpolate, talvolta eruzioni erpetiche alle labbra, lingua fuligginosa, rapido dimagramento. Infine vi sono alterazioni meno appariscenti dei diversi organi interni e dei liquidi organici (sangue, urina, bile, ecc.). Di queste alterazioni è importante da ricercare l’iperazotemia, i cui valori normali oscillano fra 0,10 e 0,40 per mille (De Giacomo, Resnik, Pierri, 1980). Qui non si ritrova più una struttura egoica come centro della coscienza, come riferimento elettivo del soggetto: la persona confusa non si ritrova come soggetto. Non c’è ricordo. c) Stato oniroide Si caratterizza per una ricca produttività delirante fantastica e per cangianti fenomeni allucinatori visivi che si mescolano alla percezione corretta della realtà, rendendo difficile il discernimento tra reale e fantastico. L’orientamento spaziotemporale è sufficientemente conservato; la produzione fantastico-allucinatoria si accompagna ad intensa partecipazione affettiva più o meno adeguata. Qui l’Io è ancora punto di referenza del soggetto, si ritrova come io narrante, ma è alterato nella sua essenza. Le produzioni deliranti cambiano di contenuto con estrema facilità, spesso in conseguenza di stimoli esterni occasionali. Il paziente è come immerso in uno stato sognante da cui può essere distolto con difficoltà e partecipa alla sua esperienza con atti, gesti, grida, recitando il suo ruolo nell’ambito del delirio. Gli stati oniroidi corrispondono a stati di coscienza definiti dagli psichiatri francesi bouffée deliranti. Le alterazioni dello stato di coscienza si riscontrano nelle psicosi secondarie a intossicazioni croniche (alcolismo, ecc.), a malattie infettive, febbrili, a lesioni cerebrali traumatiche, vascolari, degenerative, ad epilessia (cfr.R.Canger, 1999). Esse accompagnano talora i disturbi acuti dell’emodinamica cerebrale ( es. insufficienza cardiaca, tentativi di suicidio per impiccagione, ecc.), le malattie del ricambio (uremia, insufficienza epatica, prodromi del coma diabetico, ipoglicemia, ecc.) . Una patologia organica cerebrale costituisce il terreno favorevole alla comparsa dei disturbi della coscienza a seguito di fattori patogeni acuti, infettivi o dismetabolici (Pierri, 1993). Il ricordo è al modo del sogno. 13 B) Disturbi della coscienza dell’Io La coscienza dell’Io, secondo Jaspers, indica “il modo” nel quale l’Io è consapevole di se stesso attraverso la sua attività, unità, identità e contrapposizione al mondo esterno. I principali disturbi sono: 1) Depersonalizzazione. Tale termine ha acquisito significati non univoci. Nell’accezione jaspersiana la depersonalizzazione è l’angosciante vissuto che gli eventi psichici non appartengano più all’Io, ma gli siano estranei e indotti dall’esterno. Il soggetto non riconosce il suo “personaggio”, lo sente estraneo e lontano emozionalmente. Avverte un senso di distacco da quanto sta intorno e l’incapacità di provare sentimenti: può sentirsi “come un robot che cammina nella nebbia” o come un automa. Il numbing delle emozioni placa l’ansia e scongiura il panico,consentendo al soggetto di comportarsi in maniera automatica, come se una qualche forza superiore avesse preso il controllo. Kurt Schneider connota questo disturbo come la perdita del carattere della “meità”, del concernente il me, dei propri atti e stati psichici. Sentirsi distaccati da se stessi, accompagnato dalla sensazione di guardarsi dall’esterno e dall’appiattimento della risposta emotiva è un tipico episodio piuttosto diffuso nella popolazione normale. Distinguiamo: - Depersonalizzazione autopsichica: estraneità dei propri pensieri alla propria mente; - Depersonalizzazione somatopsichica: estraneità di parti del proprio corpo, che sono percepite come fossero non proprie o distaccate, o appartenenti ad altre persone; - Depersonalizzazione allopsichica: senso di stranezza o d’irrealtà o di “mutamento pauroso” di tutto il mondo esterno, luoghi e persone. Si tratta di un’esperienza di solito sgradevole, che si ritrova in: schizofrenia, uso di alcol e sostanze stupefacenti (allucinogeni in particolare), oppure di farmaci (barbiturici), disturbi depressivi, disturbo di panico. 2) Derealizzazione, intesa come sentimento di trasformazione della realtà, in cui l’ambiente circostante appare strano o irreale, non più familiare per l’individuo, le cose intorno sembrano senza vita, artificiali. Spesso riguarda persone che sono familiari. La si può pensare come una sorta di jamais vu. Invece della sensazione di dèjà vu, in cui luoghi e persone nuove ci sembrano familiari, si ha la sensazione opposta: persone e luoghi che dovremmo conoscere molto bene ci sono estranei. La distinzione tra depersonalizzazione e derealizzazione si deve a Mayer-Gross, che intuì la dignità nosologica della derealizzazione, ipotizzando una disconnessione tra aree temporolimbiche e aree visive, considerandola una risposta preformata cerebrale allo stress. 3)Transitivismo: attribuzione ad altre persone di azioni, percezioni e pensieri propri (schizofrenia) 14 4) Appersonazione: autoattribuzione di azioni, percezioni, pensieri altrui. 5) Confusione dell’identità: è una sensazione di incertezza, perplessità o conflitto su chi si è. Spesso ci si sente come se al proprio interno si svolgesse in modo singolare una continua lotta per definire se stessi, compresa la propria identità sessuale. 6) Alterazione dell’identità: consiste in un cambiamento nel ruolo o nell’identità della persona, accompagnato da cambiamenti comportamentali osservabili dagli altri, come parlare con un timbro vocale diverso o usare nomi diversi. Tutte queste esperienze rappresentano una forma di distacco dal proprio senso di sé o dal proprio corpo o dalle proprie emozioni e, spesso, si verificano simultaneamente. Tali manifestazioni si muovono su un continuum di gravità, che va da una intensità e una frequenza basse nelle persone cosiddette normali, fino a una intensità e frequenza alte in coloro che hanno un disturbo dissociativo. Una lieve depersonalizzazione è di solito associata a stress o rappresenta una conseguenza di situazioni in cui si è esposti a pericoli estremi. Una depersonalizzazione moderata, non precipitata da eventi avversi o stressanti, si ritrova in una serie di condizioni psichiatriche. Una depersonalizzazione grave è presente in persone con PTSD e con disturbi dissociativi. 15 4) IL TRAUMA E LE SUE IMPLICAZIONI “Non c’è trauma né spavento che non abbia come conseguenza un accenno di scissione della personalità” S. Ferenczi (1932) Il concetto di trauma, in psicopatologia, fa riferimento ad una ferita dell’organismo psichico per effetto di eventi che vi irrompono bruscamente in modo distruttivo. Non sempre corrisponde ad un solo evento specifico. Si tratta di un processo attraverso il quale il soggetto che lo subisce viene ridotto ad oggetto, vittimizzato dalla rabbia dei suoi consimili o dalla furia della natura. Un evento si definisce traumatico quando minaccia la salute e il benessere di un individuo, lo rende impotente di fronte ad un pericolo, vìola gli assunti di base della sopravvivenza ed evidenzia l’impossibilità di controllare e prevedere l’evento stesso. I traumi si manifestano generalmente come cambiamenti della risposta biologica allo stress (Selye, 1956). Per tamponare gli effetti del trauma, il soggetto deve riorganizzarsi mentalmente e fisiologicamente e, laddove questo lavoro fallisca, si osserva un’evoluzione psicopatologica, rappresentata dai disturbi dello spettro traumatico: disturbo acuto da stress, disturbo posttraumatico da stress, disturbi dissociativi. La forza traumatica che l’evento assume per l’individuo è legata, oltre che alla qualità ed intensità dell’evento stesso, anche allo stato psichico del soggetto che lo riceve, che può renderne possibile la metabolizzazione, o al conflitto che, al contrario, ne impedisce l’integrazione con altre parti di sé. L’introduzione del concetto di trauma psichico si deve a Breuer e Freud, anche se già Charcot associava la patogenesi delle paralisi isteriche ad un evento traumatico che, dimenticato nella veglia, poteva riemergere solo attraverso l’Ipnosi. Pierre Janet (Janet, 1889) postulava che le reazioni emozionali intense mutassero gli eventi in eventi traumatici interferendo con la loro integrazione negli schemi di memoria preesistenti. Egli riteneva che, a causa di tale incapacità, i soggetti rimanessero fissati, congelati, sul passato, ossessionati dal trauma, avendo la sensazione di riviverlo continuamente. Egli riteneva che: - il trauma produce una scissione, ovvero una mancanza di sintesi tra funzioni che normalmente sono invece integrate tra loro; i ricordi e le idee fisse che si riferiscono al trauma, separandosi dalla coscienza danno luogo ad una varietà di sintomi isterici; tutto questo accade a causa di una debolezza congenita della sintesi psichica (psicoastenia); l’ipnosi permette di individuare le idee fisse e di risolverle eliminandole o trasformandole. Janet definì “dèsagrégation” il meccanismo psicologico col quale un soggetto reagisce ad un trauma devastante; i ricordi e le idee possono evadere dalla coscienza col risultato di una ampia varietà di sintomi (percezione alterata del Sé, depersonalizzazione, derealizzazione). La dissociazione, nell’accezione di Janet, non rappresentava solo una reazione acuta, ma anche una forma di adattamento al trauma. Anche Freud riteneva centrale, nella trasformazione di un evento stressante in traumatico, l’incapacità integrativa della coscienza e la tendenza a 16 rimanere fissati al trauma: “dopo un grave shock… l’attività onirica riporta continuamente il paziente indietro alla situazione del disastro, da cui si sveglia con rinnovato terrore… il paziente ha subito una fissazione fisica al trauma” ma spiegava ciò ricorrendo al meccanismo di difesa della rimozione. (Breuer & Freud, 1893-1895). Pavlov coniò il termine “reazione difensiva” per definire il cluster di risposte riflesse innate alle minacce ambientali. Dopo ripetute stimolazioni ambientali, alcuni stimoli di per sé non minacciosi, se associati al trauma (stimoli condizionati), diventano capaci di suscitare la reazione difensiva (risposta condizionata). Pavlov specificava come le differenze individuali nel temperamento (la base biologica del carattere) potessero spiegare le differenze nell’adattamento al trauma stesso (Moderato, 1999). Studi su animali e sull’uomo (Seligman, 1975) hanno evidenziato due tipologie di reazione ai traumi: l’hyperarousal che può condurre o alla “risposta di attacco o fuga” o alla dissociazione (defeat response). Nella prima fase di esposizione all’evento si ha una reazione di allarme, con attivazione del SNC, mediata dal tronco encefalico (locus coeruleus, ippocampo, asse ipotalamo-ipofisi-surrene), che produce un aumento del rilascio dei livelli circolanti di adrenalina e degli steroidi dello stress. Da questo tronco comune l’evoluzione della reazione può proseguire verso l’hyperarousal o deviare verso la dissociazione, nel qual caso si verifica un incremento del tono vagale ed un coinvolgimento del sistema dopaminergico (Pierri, 1993). La persistenza dello stimolo traumatico renderebbe permanenti tali modificazioni neurobiologiche, con il passaggio da alterazioni di “stato” ad alterazioni di “tratto”, come è documentato da studi condotti su bambini traumatizzati. Tali modificazioni neurobiologiche hanno come correlato, sul piano psicopatologico, lo sviluppo di una particolare sensibilità temperamentale nei confronti degli eventi traumatici che, nell’incontro con un nuovo trauma, potranno nuovamente estrinsecarsi sul piano comportamentale e psicopatologico. Fondamentale, nel determinare l’esito del trauma, è l’età del soggetto; traumi nella prima infanzia determinano più frequentemente disturbi dello spettro dissociativo; nella seconda infanzia o nell’adolescenza, l’evoluzione più probabile è verso il PTSD. Sono state osservate anche differenze di genere: il sesso femminile più frequentemente prende la via della dissociazione; quello maschile è più incline alla risposta fight or flight. Affinché si configuri il trauma, l’evento stressante deve interagire in maniera disadattiva con le strategie di coping dell’individuo che, se sono inefficienti, determineranno un ricordo intrusivo del trauma non integrabile in uno schema di sé, perché egodistonico. Protettiva è una buona resilienza (Casùla C. C., 2004; 2011) che può agire a tre livelli: di adattamento positivo nonostante l’esposizione ad ambienti ad elevato rischio psicosociale; di funzionamento competente in presenza di forti fattori stressanti; di processo di recupero da un trauma. Fra i fattori protettivi rispetto ad un trauma rientrano certamente la solidità e la stabilità delle relazioni familiari: caregiver stabili, attenti ed affettivamente responsivi gettano le basi per lo sviluppo di una coscienza coerente, flessibile e aperta ad abbracciare stati della mente anche molto distanti tra loro (Liotti, 1994; 2001). Un accudimento trascurante, indisponibile e poco rispondente ai bisogni del figlio, al contrario, contribuirà a generare una coscienza frammentata, coartata, con un funzionamento limitato ad alcuni stati della mente, predisposta a collassare in un crescendo emotivo negativo e frammentante (Van der Kolk et al., 2004). 17 Oggi siamo in grado di ridimensionare l’importanza del ruolo di un grande evento traumatico circoscritto, riconoscendo invece l’importanza di screzi di minore entità, la cui portata patogena risiede piuttosto nella quantità e sistematicità. Già Masud Khan, allievo di Donald Winnicott, adoperava il concetto di trauma cumulativo per suggerire che subire quotidianamente transazioni caratterizzate da invalidazione affettiva da parte di figure di riferimento fosse paragonabile, per gravità, ai traumatismi maggiori (Khan, 1965). Più di recente, Philip Bromberg (Bromberg, 2009), fra i maggiori esponenti della psicoanalisi relazionale, utilizza l’espressione di trauma evolutivo, per rimarcare l’inevitabilità e l’ubiquità delle lacerazioni affettive che determineranno nell’adulto una tendenza alla dissociazione, se non addirittura il consolidarsi di una mente strutturalmente dissociativa, cioè cronicamente incapace di rivolgersi intenzionalmente e consapevolmente ad intere porzioni del reale, pena il collasso delle capacità integrative della coscienza. Bromberg scrive: “il ritiro del genitore dall’immediatezza della relazione rappresenta un atto di mancato riconoscimento altrettanto traumatizzante, a volte anche più debilitante del dolore causato da un genitore che perpetra attivamente un abuso sul bambino”. (Bromberg, op.cit.). Daniel Stern (Stern, 1987) ha descritto come dentro una relazione, sia essa madrebambino o terapeuta-paziente, possiamo rintracciare i segni delle variazioni dei parametri fisiologici e comportamentali di base, gli affetti vitali, che riguardano le caratteristiche di altezza, intensità, durata e frequenza di tutti gli atti verbali, paraverbali e non-verbali, in modo non molto dissimile dalle minimal cues di noi ericksoniani. Nei primissimi scambi comunicativi tra madre e bambino, la dinamica processuale degli affetti vitali permette all’osservatore di decifrare gli atti intenzionali del bambino nei confronti del caregiver. La capacità di sintonizzazione affettiva del caregiver, ovvero il grado in cui egli riesce a cogliere e ad utilizzare questi segnali, è funzione della prontezza, della responsività e dell’appropriatezza dei suoi segnali di risposta. I segnali emessi reciprocamente da bambino ed adulto si configurano così come veri e propri dialoghi, della durata di alcuni secondi, in cui il secondo imita i segnali del primo, in una sorta di rispecchiamento. Il rispecchiamento veicola un riconoscimento sostanziale dello stato interno del bambino, che riceve un contenimento e un rinforzo a continuare lo scambio; inoltre, aggiunge un elemento di variazione che veicola implicitamente nella mente del bambino l’esistenza di un “altro-da-sé”. In una riflessione successiva (Stern, 2005), vero capolavoro di analisi fenomenologica coerente con le evidenze empiriche fornite dagli studi in ambito evolutivo e neurofisiologico, il noto professore onorario di Psicologia all’Università di Ginevra e professore di Psichiatria presso il Medical Center della Cornell University di New York, sosterrà che è proprio nello scarto esistente tra il rispecchiamento ed un semplice atto di imitazione che si gioca l’emersione di una coscienza primitiva, preverbale e, ad essa coeva, un’embrionale consapevolezza intersoggettiva. Un rispecchiamento efficace è quello riconosciuto dal bambino come atto da parte dell’adulto: deve avere un livello di somiglianza analogica con il segnale da questi emesso, ed essere prodotto entro un tempo definito. Per essere informativi ed aumentare la complessità della comunicazione in corso, i due segnali devono essere somiglianti (ma non troppo) e ravvicinati (ma non troppo). Trasponendo queste osservazioni nella nostra stanza di terapia, il mirroring, il peacing and leading , e l’intero approccio di utilizzazione sono vie che mirano ad accordare (Stern parla di “attunement”) gli stati della mente di terapeuta e paziente, favorendo il passaggio di contenuti percettivi, emotivi, cognitivi e motivazionali. Lo psicoterapeuta ben formato e capace sarà come uno specchio 18 “caldo” per il suo paziente, veicolando in questo l’esperienza di essere riconosciuto. Se è vero che la salute mentale consiste, parafrasando John Bowlby (Bowlby, 1989), nell’essere liberi di esplorare, la sicurezza e la fiducia personale necessarie per farlo si costruiscono solo se si è esposti alla certezza durevole che un posto sicuro (reale o interiorizzato) ove far ritorno sia sempre disponibile. Scrivono Liotti e Farina: “il terapeuta dovrebbe, idealmente, dimostrarsi costantemente aperto, sincero, accogliente, calmo, gentile, rispettoso, autenticamente interessato ed empaticamente sintonizzato con i bisogni del paziente (…) ciò corrisponde a quello che ogni essere umano desidera ricevere in una relazione d’aiuto e che di norma i pazienti con trauma relazionale precoce non hanno potuto avere” (Liotti, Farina, 2011). Liotti e Farina (2011), riprendendo Holmes e coll. (2005), distinguono due modalità attraverso cui la dissociazione agisce: - i fenomeni da distacco (detachment), ossia le esperienze di distacco da sé e dalla realtà, generalmente causate da emozioni dirompenti in situazioni di grave minaccia. In questa prima categoria sono presenti sintomi quali la depersonalizzazione, la derealizzazione, l’anestesia emotiva transitoria e le esperienza di autoscopia; - i fenomeni da compartimentazione (compartmentalization), che sono dovuti alla suddivisione in una sorta di compartimenti stagni di funzioni superiori come la Memoria, l’Identità, lo schema e l’immagine corporea, il controllo delle emozioni e dei movimenti volontari, che normalmente risultano integrate tra loro, i flashback traumatici, la dissociazione somatoforme (include: sintomi da conversione, sindromi pseudoneurologiche, dolori psicogeni acuti, dismorfofobie), le alterazioni del controllo dell’attenzione. Mentre i sintomi da distacco possono essere vissuti da chiunque si ritrovi a dover affrontare situazioni estreme, quelli da compartimentazione, riconducibili a storie di vita segnate da traumi cumulativi, alterano la struttura stessa della personalità. Molti Autori, parlano, in questi casi, di dissociazione strutturale della personalità. 4.1) John Bowlby e la Teoria dell’Attaccamento La teoria dell’attaccamento di John Bowlby viene considerata da molti clinici come un solido ed euristico trait d’union fra differenti orientamenti teoretici ed operativi. Essa è ben accetta da etologi (Eibl-Eibesfeldt, 1984), psicoanalisti (Ammaniti, Stern, 1992) e cognitivisti (Safran, Segal, 1990; Liotti, 1994). Nonostante una formazione psicoanalitica ortodossa (analisi e successiva supervisione con Melanie Klein), Bowlby mantenne vivo uno spirito non settario che lo condusse ad una pratica che, nella prima metà del Novecento era snobbata o considerata ridicola e inutile dalla maggioranza degli psicoanalisti: l’osservazione diretta dei bambini per l’elaborazione di una teoria dello sviluppo e della psicopatologia. Nel 1951pubblica, sotto il patrocinio dell’OMS, “Mental Care and Mental Health”, in cui mostra l’esistenza di una correlazione fra scadenti condizioni di vita, in particolare la privazione di adeguate cure materne, e la psicopatologia o quanto meno la sofferenza psichica. L’ostracismo dei colleghi era legato all’atteggiamento allora indiscusso che relegava in 19 posizione marginale le esperienze reali delle persone, concentrando invece l’attenzione sulla realtà intrapsichica e fantasmatica. All’origine di tale opzione metodologica vi era probabilmente l’abbandono da parte di Freud della iniziale teoria della seduzione infantile per quella successiva del complesso di Edipo, evoluzione che Bowlby non esitò a definire un “disastroso voltafaccia” (cit. in Oliverio Ferraris, 1989). Per Bowlby, l’abbandono, il lutto e il rifiuto incidono sulla salute mentale ma, non trovando risposte nella tradizione psicoanalitica, si diresse verso altre fonti. Si ispirò all’etologia, in particolare alla teoria dell’imprinting di Konrad Lorenz ed agli studi sui macachi rhesus di Harlow. Avvalendosi di collaboratori capaci, innanzitutto di Mary Ainsworth, alla quale dobbiamo lo sviluppo del concetto di base sicura, Bowlby parlerà di un comportamento di attaccamento verso una figura che fornisce sicurezza e protezione, ritenuta in grado di affrontare il mondo in maniera adeguata. Questo comportamento verso la figura di attaccamento diviene evidente ogni volta che la persona è spaventata, affaticata o malata, e si attenua quando si ricevono conforto e cure. (Bowlby, 1988). Compito biologico e psicosociale di tale figura è quello di svolgere nei confronti del bambino il ruolo di una base sicura da cui poter partire per esplorare il mondo esterno, e a cui possa ritornare, sapendo con certezza che sarà il benvenuto, nutrito sul piano fisico ed emotivo, confortato se triste, rassicurato se spaventato. Questo ruolo consiste nell’essere disponibili e pronti a rispondere quando chiamati in causa, indipendentemente dal proprio genere sessuale, ma intervenendo solo quando è chiaramente necessario (Bowlby, 1988). Il comportamento di attaccamento, frutto dell’evoluzione per la sopravvivenza della specie, non viene considerato da Bowlby l’unico nucleo motivazionale, ma spartisce il suo dominio con almeno altri tre sistemi motivazionali: i sistemi paura/cautela, esplorativo ed affiliativo (Bowlby, 1969) . Il primo dispositivo elaborato per evidenziare le differenti modalità o patterns con cui si esplica il comportamento di attaccamento umano è la Strange Situation (Ainsworth, Blehar, Water, Wall, 1978). Consiste in una procedura sperimentale interamente videoregistrata composta di otto fasi dove si alternano la separazione, la solitudine, il ricongiungimento fra un bambino, la figura di attaccamento e lo sperimentatore. La modalità con cui viene gestito lo stress da separazione è la variabile che permetterebbe di inferire le “rappresentazioni interne” delle relazioni di attaccamento, ed in particolare “ le differenze individuali nei modelli procedurali del Sé e della figura di attaccamento” (Crittenden, 1994). Molto sinteticamente, la Strange Situation ha evidenziato quattro principali modelli di attaccamento: uno sicuro (B), due insicuri – l’insicuro evitante (A) e l’insicuro ambivalente (C) – ed uno disorganizzato (D). Per i soggetti adolescenti ed adulti è stata creata la Adult Attachment Interview (Crittenden, 1999). Questo strumento permette di classificare lo stato mentale di un adulto in relazione alla sua storia di attaccamento, valutando in particolare la coerenza fra emozioni e pensieri. La Strange Situation e la Adult Attachment Interview tendono a mettere in rilievo modelli di attaccamento omologhi, laddove quelli presenti nell’infanzia tenderebbero ad esitare in quelli strutturalmente identici dell’età adulta. Nell’attaccamento sicuro, il bambino protesta per la separazione dalla madre e viene prontamente confortato dal loro ricongiungimento. Quando la madre è presente, il bambino può giocare liberamente o esplorare l’ambiente. La configurazione omologa dell’Adult Attachment Interview è la configurazione autonoma, contraddistinta dal libero accesso alla 20 propria storia di attaccamento, permesso dalla coerenza di tutti i sistemi di memoria: procedurale, iconica, semantica ed episodica. II modelli insicuri sono legati generalmente all’intrusività, al rifiuto e alla inadeguatezza delle cure. Il bambino si trova nella condizione di dover gestire il proprio stato emotivo non trovando nella figura di attaccamento un supporto adeguato. Nell’attaccamento insicuro-evitante il bambino non piange al momento della separazione e tende ad evitare la figura di attaccamento al momento del ricongiungimento. Il bambino impara quindi ad essere falsamente autosufficiente e ad esprimere la rabbia in modo inappropriato. La configurazione omologa dell’Adult Attachment Interview è la distanziante; il soggetto tende a svalutare l’importanza delle proprie esperienze di attaccamento, a raccontare eventi coinvolgenti in modo freddo e distaccato, a svalutare l’altro o, all’opposto, ad idealizzarlo. Nell’attaccamento insicuro-ambivalente, il bambino protesta con angoscia alla separazione, condizione che non viene eliminata dal ricongiungimento. Il bambino appare inibito nel gioco, alternando rabbia ed accondiscendenza verso una figura di attaccamento percepita come imprevedibile. La configurazione omologa dell’Adult Attachment Interview è quella preoccupata: questi individui manifestano eccessivo coinvolgimento nel racconto della propria storia di attaccamento, raccontata con molte incoerenze e destando nell’ascoltatore l’impressione che non abbiano ancora raggiunto l’autonomia adulta (Lorenzini, Sassaroli, 1995). L’attaccamento disorganizzato si evince dalla difficoltà ad esibire un comportamento tendente ad un fine. Questi bambini mostrano invece comportamenti incoerenti, paradossali, di freezing, stereotipie, di irrigidita vigilanza e iperallerta (Ammaniti, Stern, 1992; Bowlby, 1988; Liotti, 1994; Rezzonico, Ruberti, 1996). La funzione di accudimento entra in empasse perché sono contemporaneamente attivati sia il bisogno di approccio che quello di fuga dal genitore. Questo modello si ritrova in presenza di figure di accudimento che sono state oggetto di traumi, gravi lutti o maltrattamenti in generale. Il modello omologo nell’Adult Attachment Interview è quello irrisolto, tipico delle persone impegnate nella elaborazione di gravi eventi traumatici o luttuosi o con disturbi affettivi maggiori (Main, Hesse, 1992). Nei primi anni di vita gli eventi traumatici vengono memorizzati in termini essenzialmente procedurali e viscerali, con ridotte componenti visive e sono, fin dall’inizio, dissociati dallo stato ordinario di consapevolezza, in quanto costituitisi all’interno di stati di coscienza modificati in concomitanza ad esperienze gravemente traumatizzanti. I deficit di sintonizzazione affettiva della figura di attaccamento possono produrre scadenti capacità di gestione delle emozioni. Le emozioni infantili, esperite inizialmente in termini essenzialmente somatici, per essere veicolate adeguatamente, hanno bisogno di essere espresse verbalmente in un contesto interpersonale dove una figura di attaccamento funga da base sicura. Interferenze a questo livello possono portare ad un disconoscimento del mondo emotivo e alla difficile integrazione fra elementi somatici, emotivi, cognitivi e comportamentali. 21 4.2) Dal modello diatesi/stress alla teoria della suscettibilità genetica differenziale In un lavoro del 2010, Giuseppe Ducci (Ducci, 2010) ha rimarcato il ruolo della terapia esperienziale nel favorire una diversa espressione dei geni regolatori del comportamento. La costruzione del contesto di cambiamento affettivo/emozionale/immaginativo risulta essere l’elemento più rilevante di una riuscita terapia, non solo ericksoniana. L’intero strumentario ipnotico (le suggestioni, le metafore, ecc.), la trance stessa ed i fenomeni ad essa correlati, avrebbero soltanto la funzione di costruire uno spazio psichico nel quale il paziente, proprio in virtù della modificazione dello stato di coscienza, può fare esperienza concreta di cambiamento. Il modello della vulnerabilità ha certamente modificato la nostra visione di molti disturbi psichici, che vengono spiegati oggi non come un prodotto della natura o della cultura, ma come il risultato di una serie di interazioni tra gene e ambiente; i geni non ci condannano ad avere questo o quel disturbo, ma se possediamo la versione “cattiva” di questi geni e la vita ci tratta male, tendiamo a soffrirne. Il disagio o il disturbo non sono quindi funzione solo dei nostri geni, ma della presenza variabile di fattori protettivi e fattori di rischio. La maggior parte degli studi è stata condotta da persone che si occupano di malattie mentali e sono interessate soprattutto alla vulnerabilità ad esse (Belsky et al, 2007). Sebbene la genetica comportamentale si sia a lungo concentrata sulle disfunzioni, assai più recentemente, da questa ipotesi ne è emersa un’altra, per la quale è un errore considerare i geni rischiosi solo come uno svantaggio: se in un contesto sfavorevole questi geni possono provocare disfunzioni, in un contesto favorevole potrebbero anche rivelarsi preziosi. Se in campo somatico la persistenza dei geni disfunzionali è una delle prove più significative della teoria dell’evoluzione, per la psichiatria biologica moderna l’ipotesi di una suscettibilità genetica differenziale rappresenta una novità. Come hanno sottolineato Ellis e Boyce (2008), gli psichiatri svedesi parlano da tempo di bambini soffione. I bambini soffione sono sani e normali, dotati di geni elastici che permettono loro di cavarsela bene quasi ovunque, sia che crescano nell’equivalente di una crepa nel marciapiede, sia in quello di un giardino ben curato. Ci sono però anche bambini orchidea, i quali, se ignorati o maltrattati, appassiscono, ma se invece vengono coltivati in serra, fioriscono in modo spettacolare. La nuova ipotesi, che chiameremo teoria dell’orchidea, non è semplicemente una aggiunta a quella della vulnerabilità, non significa semplicemente che l’ambiente e l’esperienza possono spingere una persona in una direzione o nell’altra. In realtà è un modo completamente nuovo di vedere la genetica e il comportamento umano. Il rischio diventa potenzialità, la vulnerabilità diventa plasticità e sensibilità. Alcune varianti genetiche di solito considerate sfortunate – si pensi al DRD4 VNTR, Dopamine D4 receptor polymorphism, un allele di rischio (allele = variante di un gene polimorfico) che aumenta la tendenza a soffrire di determinati disturbi psichiatrici, dell’umore o della personalità – possono essere interpretate come scommesse evolutive che implicano forti rischi, ma offrono anche la possibilità di grandi successi. Secondo questa ipotesi, avere sia figli soffione sia figli orchidea fa aumentare le possibilità di successo di una famiglia – e di una specie – nel corso del tempo e in qualsiasi ambiente. La varietà di comportamenti di questi due caratteri garantisce esattamente quello di cui ha bisogno una specie forte e 22 intelligente se vuole diffondersi e dominare un mondo in evoluzione. I soffioni garantiscono la morfostasi, ovvero la stabilità di una popolazione. Le orchidee, che sono meno numerose, possono trovarsi in difficoltà in alcuni ambienti, ma eccellere in quelli che gli sono più congeniali, garantendo la morfogenesi. Anche se hanno un’infanzia travagliata, la maggiore reattività dei bambini orchidea, la loro continua ricerca di novità, i comportamenti esternalizzanti come l’irrequietezza, le difficoltà di concentrazione, l’aggressività, in certe situazioni si rivelano utili. Messi insieme, gli stabili soffioni e le irrequiete orchidee assicurano una flessibilità adattiva che nessuno dei due potrebbe garantire da solo, ottenendo risultati individuali e collettivi altrimenti irraggiungibili. Da più di quindici anni i sostenitori dell’ipotesi della vulnerabilità dicono che alla base di almeno alcuni dei problemi più angosciosi per l’umanità – disperazione, crudeltà a tutti i livelli, alienazione – ci sono certe varianti specifiche dei geni. La teoria dell’orchidea accetta questa tesi ma aggiunge, provocatoriamente, che quegli stessi geni sono anche responsabili dello straordinario successo della nostra specie. La teoria dell’orchidea, detta anche della plasticità, della sensibilità o della suscettibilità genetica differenziale, anche se recente, raccoglie un consenso crescente nella comunità scientifica internazionale. I limiti di spazio di questa dissertazione non consentono di dilungarsi sulle prove sperimentali reperibili altrove. Si segnalano tuttavia alcuni interessanti esperimenti riportati in bibliografia (Bakermas-Kranenburg et al. 2008; Belsky, et al., 2007; Caspi & Moffit, 2006). Gli esperimenti condotti da Suomi (2003, in Ducci, 2010) spiegano la permanenza degli alleli di rischio nel corso dell’evoluzione. Noi siamo sopravvissuti non malgrado quegli alleli, ma proprio grazie a loro. Quegli alleli non sono semplicemente sfuggiti al processo di selezione: sono stati volutamente selezionati. Molti alleli dei geni orchidea sarebbero emersi negli esseri umani solo negli ultimi 50.000 anni, e ognuno è nato da una mutazione casuale in una sola o in poche persone e poi si è diffuso rapidamente. Le scimmie rhesus e gli esseri umani si sono staccati dalla loro stirpe comune circa 25 o 30 milioni di anni fa; quindi questi polimorfismi devono essersi creati e diffusi separatamente nelle due specie, rivelandosi utili per entrambe. I comportamenti variano in base al contesto; se ci sono troppe persone aggressive, scoppiano continui conflitti, e l’aggressività viene rimossa perché è troppo rischiosa per la società. Quando si riduce al punto da essere meno rischiosa, l’aggressività diventa un tratto prezioso e si diffonde nuovamente. Nello stesso lavoro del 2010, Ducci rimarca come lo stesso discorso della permanenza dei geni apparentemente disfunzionali potrebbe valere per il polimorfismo valinavalina/metionina-metionina dell’enzima COMT (catecol-O-metiltransferasi), implicato nella genesi della schizofrenia, anche se non esistono ancora sufficienti dati in proposito. Rimane una ed una sola evidenza incontrovertibile: la vita si dipana nell’ignoranza della sua stessa ragione di esistere, rispondendo ad un unico imperativo categorico: preservare! 23 5) IL CONCETTO DI DISSOCIAZIONE NEL SUO SVILUPPO STORICO Il termine dissociazione viene introdotto da William James (James, 1890) per indicare il meccanismo per il quale alcuni complessi ideo-affettivi, spesso estesi al punto tale da costituire una sorta di seconda personalità, possono restare scissi o segregati dalla personalità cosciente. Nei “Principi di Psicologia” (1901), James racconta il caso del reverendo Ansel Bourne affetto da personalità multipla e faceva riferimento al termine dèsagrégation utilizzato da Pierre Janet per indicare la “dissociazione isterica”, intesa, dal filosofo e medico francese, come “debolezza della sintesi psicologica” (misère psychologique). Negli Studi sull’isteria (1893-1895), Breuer e Freud elaborano una teoria della dissociazione che prevedeva, per la genesi del sintomo, la rimozione, cioè una repressione attiva da parte del soggetto del materiale traumatico; per loro la dissociazione viene a coincidere con il concetto di “rimozione” che non ha a che fare con un’insufficienza o “debolezza psichica” ma, al contrario, con un “eccesso di efficienza”, una sovraprestazione di tal energia per la coesistenza “impossibile” di due serie eterogenee di rappresentazioni. Se, dunque, l’ipotesi di Janet era fondata su un modello psicopatologico passivo, di deficit dell’Io, la teoria freudiana della rimozione prevedeva un modello di formazione del sintomo basato su un conflitto psicodinamico attivo. Ad ogni modo, a partire dagli studi di Janet e di Freud, si fa strada la concezione di un legame tra trauma e dissociazione. Il trauma, interagendo con una struttura debole, produce una riduzione dell’energia psichica che mantiene integrate le varie funzioni della personalità, con successiva “degenerazione” di questa (la dèsagrégation di cui parlava Janet), oppure un’eliminazione attiva dalla coscienza del ricordo del trauma (la rimozione freudiana). Mentre il meccanismo della rimozione rimanda ad un modello pulsionale e al concetto di contenuti inconsci profondi e non accessibili, quella della dissociazione può essere considerato come un meccanismo di difesa basato sulla esclusione selettiva dell’informazione dall’elaborazione cosciente. L’ipotesi di Janet venne ulteriormente elaborata da Morton Prince, che introdusse il concetto di co-conscio proprio per sottolineare come quei sistemi ideo-affettivi, di cui l’individuo è inconsapevole, rimangano attivi – sebbene posti a latere – e caratterizzino dei processi mentali che proseguono parallelamente a quelli coscienti. Il concetto di “co-coscienza” di Morton Prince riporta alla luce la differenza delle idee di Pierre Janet da quelle di Sigmund Freud. Anche Binet (1890), nel suo libro “On double consciousness”, riprenderà il concetto di désegrégation di Janet, per riportarlo allo psichismo normale. Traducendola nell’inglese dissociation, diventerà una modificazione dell’attività della coscienza attivabile in ognuno mediante l’ipnosi. Con Binet la dissociazione viene intrinsecamente associata all’ipnosi, che è contemporaneamente strumento e campo di indagine. Lo studio dell’ipnosi si svilupperà prevalentemente negli USA. Nel suo cammino di emancipazione da pratica oscura e magica a tecnica terapeutica medica avanzata, si possono riconoscere due distinte posizioni, non in contrapposizione. L’una, che fa principalmente riferimento a Hilgard, Orne e Weitzenhoffer, vedrà l’ipnosi come strumento di indagine sperimentale – ed è quella più vicina e più cara ad una visione cognitivista; l’altra, che conta tra gli altri su Ross, Bliss, Rossi, ma soprattutto su Milton Erickson, si muove in una prospettiva clinico-terapeutica ed enfatizza la relazione. 24 Più o meno nello stesso periodo di James, la dissociazione della coscienza di Janet diventerà dissociazione ideoaffettiva con Bleuler tanto che poi l’evoluzione del concetto di dissociazione, almeno in Europa, si allontanerà dalla coscienza fino ad identificarsi con la schizofrenia, la forma più grave di psicosi. Gli psicopatologi europei, tedeschi in particolare, utilizzeranno con Bleuler il termine Spaltung per indicare la “scissione” tipica del pensiero schizofrenico. Nella nozione bleuleriana di schizofrenia come sindrome dissociativa confluivano anche tutte le psicosi isteriche: “Quando un paziente isterico diventa psicotico, egli di fronte a me non è affatto un isterico, ma uno schizofrenico”(Bleuler, 1911). Più esattamente, per Zerspaltung si intendeva il fenomeno dell’allentamento delle associazioni e della disgregazione del processo mentale dell’individuo affetto da schizofrenia; per Spaltung la successiva formazione e stabilizzazione di nuovi gruppi associativi, il più delle volte bizzarri e dominati da complessi ideoaffettivi. Nella stessa accezione (Niolu, 2010), si parlava allora di scissione dell’Io (Ichspaltung), dell’oggetto (Objektspaltung), della coscienza (Bewusstsein-Spaltung). Eugen Bleuler (1911) è indissolubilmente legato alla schizofrenia per aver coniato per questo disturbo mentale un termine elegante e scevro da gravi implicazioni destinali, seppur gravato da pregiudiziali teoriche traslate dagli studi associazionistici allora di attualità. Sostituendo il termine kraepeliniano dementia praecox con quello di schizofrenia, Bleuler intendeva infrangere la posizione dogmatica che la psicosi schizofrenica dovesse essere inguaribile per principio (cfr. Weitbrecht, 1963) ma, in realtà, si mantenne molto cauto sostenendo che la malattia, pur potendosi arrestare e regredire in ogni stadio non consentisse una completa restitutio ad integrum. Secondo alcuni (Janiri e coll., 2014) la ridefinizione da parte di Bleuler della dementia praecox con il neologismo “schizofrenia” sarebbe all’origine delle confusioni terminologiche tra le forme dissociative isteriche e la dissociazione della gravissima psicosi endogena. Durante un entusiasmante Convegno tenutosi a Parma il 13 novembre 2002, in presenza di un nutrito consesso di scienziati e qualche giovane studente di psicologia atipico - fra cui chi scrive - Carlo Maggini espresse con convinzione che:“con il termine schizofrenia, Bleuler rifiutò la concezione kraepeliniana che fondava sul criterio evolutivo l’unitarietà nosologica e la diagnosi di quadri sintomatologici eterogenei e ad esso sostituì il criterio psicopatologico del disturbo fondamentale che, sulla scia della psicologia associazionistica allora prevalente, ritenne di individuare nella perdita di coesione strutturale della personalità la frattura e la dissociazione delle varie funzioni psichiche”. Con lo spostamento del centro di gravità del processo diagnostico dal decorso al quadro sintomatologico, Bleuler si propose infatti di individuare i sintomi di maggior rilievo diagnostico (sintomi fondamentali) rispetto a quelli che, pur frequenti ed eclatanti, riteneva secondari (sintomi accessori). In altre parole, diversamente da Kraepelin, che era abbastanza restìo ad avventurarsi in speculazioni teoriche, Bleuler si era proposto di prospettare una teoria dei sintomi, più che un nuovo approccio diagnostico alla malattia. I sintomi fondamentali erano espressione di un ipotetico processo somatico cerebrale ( << … alterazione delle associazioni, dell’affettività, … tendenza a dare più importanza alla fantasia che alla realtà e … tendenza ad isolarsi in un mondo fantastico- autismo >>); i sintomi accessori, invece, rappresentavano la conseguenza dei tentativi di adattamento ai disturbi primari ( << … le allucinazioni e le idee deliranti … i disturbi della memoria e le trasformazioni della personalità… i sintomi catatonici >>. 25 Come sostenuto dal figlio Manfred (M. Bleuler, 1984), con la distinzione sintomi primarisintomi secondari - e la ricerca di senso di questi ultimi - che considerava l’espressione diretta o simbolica della vita interiore del paziente, Bleuler inaugurò l’approccio psicologico alla schizofrenia. La distinzione tra sintomi primari e sintomi secondari ebbe vita breve; nel 1926, nella relazione tenuta al Congresso degli Alienisti e Neurologi di Francia, di Ginevra e di Losanna, Bleuler abbandonò ogni speculazione relativa al rapporto tra processo morboso e sintomatologia, alla base di detta distinzione, e parlò solo di sintomi diagnostici: sintomi cardinali e sintomi accessori. Kurt Schneider (1950), poi, seguì Bleuler sulla priorità della diagnosi di stato rispetto alla diagnosi basata sul decorso di Kraepelin, il quale aveva comunque descritto casi a decorso favorevole che non esitano in demenza. Tuttavia, Schneider, che si muoveva nel solco della psicopatologia fenomenologica jaspersiana, contrappose ai sintomi fondamentali (o cardinali) di Bleuler - di non agevole identificazione in quanto si pongono lungo un continuum con i fenomeni normali – fenomeni ben distinti, tutto o nulla, nettamente patologici, sintomi “ la cui comprensione concettuale e il cui riconoscimento clinico non presentino difficoltà eccessive” (Schneider, op.cit.). Schneider, inoltre, considerò i sintomi cardinali bleuleriani un semplice postulato teorico; stigmatizzò il concetto di disturbo dissociativo come “ vago ed ambiguo” e considerò la speculazione teorica dei sintomi-primari e secondari “non del tutto chiara”. Per Schneider, mancava il primum movens. Ciononostante, le conseguenze cliniche e medico-legali del modello diagnostico di Bleuler sono state rilevanti soprattutto negli Stati Uniti in cui la schizofrenia negli anni ’60 del secolo scorso finì per essere considerata non una, ma la malattia mentale tout court. Con le parole di Silvano Arieti (Arieti, 1983), “la competenza e la capacità clinica dello psichiatra veniva giudicata dal numero di casi di schizofrenia che era in grado di diagnosticare”. Il ricorso estensivo a questa diagnosi fu accolta con una certa cautela dalla psichiatria europea che continuerà ad avvalersi del criterio evolutivo kraepeliniano come ineludibile ancoraggio diagnostico (Andreasen & Akiskal, 1983) e di cui sono permeate tanto le varie edizioni del DSM che l’ICD-10. Shitij Kapur (2003) è stato uno dei primi autori a descrivere interessanti scenari della psichiatria contemporanea in cui interpretazioni neuroscientifiche e fenomenologiche della mente coesistono. In particolare a lui si deve il concetto di salienza aberrante come via di interpretazione del fenomeno psicotico. Secondo il modello di Kapur, il sistema mesolimbico dopaminergico rivestirebbe un ruolo importante nell’attribuzione della “salienza”, che è il processo per mezzo del quale avvenimenti, percezioni e pensieri catturano l’attenzione del soggetto e generano comportamenti finalizzati secondo le leggi comportamentali di “ricompensa” e “punizione” (concetto di “salienza motivazionale”). In corso di psicosi la disregolazione della dopamina nel sistema mesolimbico genererebbe un aumento di “salienza” ovvero un eccesso di attribuzione di significato a stimoli altrimenti ritenuti neutri che si trasformerebbero in entità avverse, pericolose o misteriose che portano il paziente ad attuare sforzi interpretativi “aberranti” e, di conseguenza, scorretti sul piano della normale percezione della realtà e del suo rapporto con le nostre capacità di analisi. In questo modello i sintomi deliranti o allucinatori costituiscono un instabile tentativo, che Shitij Kapur definisce “Top-Down”, mediante il quale un soggetto psicotico tenta di spiegare le proprie esperienze secondarie allo stato di salienza aberrante. In altre parole i contenuti deliranti ed allucinatori sarebbero il risultato del tentativo di comprendere “esperienze di relazione con alterate attribuzioni di significato del reale” mediante l’applicazione dei normali processi del ragionamento logico. 26 Nell’accezione data dalla psicologia cognitivista e nella ricerca psicologica statunitense, invece, il termine dissociazione, inteso come disorganizzazione, assume un significato attivo, in cui i diversi Io, o le diverse personalità non integrate tra di loro, nel senso di dissociate, hanno vita autonoma e un “potere decisionale” attivo nella vita psichica del soggetto. Sulla scia inaugurata da William James, l’espressione dissociazione si trova spesso collegata a lavori sul trauma, sull’isteria, sull’ipnosi, sulle personalità multiple (l’odierno Disturbo Dissociativo dell’Identità). Rivisitando il sinonimo cui Janet si riferiva per dissociazione, désagrègation, si sono mossi in tal senso tutta una serie di studi longitudinali attraverso i quali si è cercato di identificare l’impatto del trauma sulla dissociazione fisiologica e patologica, sull’ipnotizzabilità, sull’assorbimento dell’attenzione e l’inclinazione alla fantasia. Oggi siamo concordi nel ritenere che la vita mentale possa essere composta da esperienze frammentarie continuamente integrate nella costruzione della coscienza e del Sé, e che tale tendenza all’integrazione possa essere disturbata sia in risposta ad eventi psicologicamente traumatici che come conseguenza di modelli rappresentativi multipli e non integrati di sé e degli altri (Liotti,1993; 2005). I Disturbi Dissociativi furono ufficialmente riconosciuti come disturbi psichiatrici nel 1980, con la pubblicazione del DSM-III. Antecedentemente alla pubblicazione di questa edizione del Manuale, venivano compresi fra le “nevrosi isteriche”. Da allora in poi, l’esistenza dei DD è stata spesso messa in discussione da molti nel campo della psichiatria e tale diagnosi sovente non viene utilizzata da alcuni medici (Brand, et al., 2009).Nonostante la convinzione di alcuni psichiatri che questi disturbi siano molto rari e di altri che persino dubitano della loro esistenza, prevalgono stime che vanno dal 12% al 18% dei pazienti ambulatoriali (Myrick et al, 2012). Allen e Smith (1993) rimarcano come i DD rappresenterebbero un tentativo da parte dell’individuo di “impedire uno schiacciante allagamento della coscienza da parte degli aspetti più terrificanti di un trauma”. La dissociazione può presentarsi in modi differenti a seconda di ciascun individuo e avrebbe una significativa efficacia adattiva. Quando un individuo esperisce un trauma, la dissociazione è un tentativo per sopravvivere, tollerare, fuggire consapevolmente o adattarsi alla situazione. Quando la dissociazione da semplice difesa temporanea diviene un disturbo? Una volta che l’individuo ha appreso a dissociarsi nel contesto di un trauma, egli può trasferire la propria reazione in altre situazioni e in altre circostanze che richiamino aspetti del trauma primigenio. E’ a questo punto che la dissociazione destabilizza l’adattamento e diviene patologica. Il Disturbo Dissociativo dell’Identità è una diagnosi controversa all’interno dei professionisti che si occupano di salute mentale (Gillig, 2009). Si caratterizza dalla presenza di due o più identità distinte o stati di personalità, ognuna con il proprio modello relativamente duraturo di percezione, di relazionarsi, di pensare a sé stesso e all’ambiente che lo circonda che alternativamente prende il controllo sul comportamento della persona rendendola incapace di richiamare importanti informazioni personali in maniera diversa da una normale dimenticanza (DSM-IV-TR). Il DDI non è provocato dalla assunzione di alcool, uso di altre sostanze o da condizioni mediche particolari. Si tratta di un disturbo complesso che ingloba sintomi post-traumatici, somatoformi e depressivi. Raramente esclude ulteriori patologie psichiatriche in comorbilità, in larga parte perché gli effetti di un trauma sono diversi. Le identità o le personalità alternative possono avere una minima conoscenza l’una 27 dell’altra, anche se la personalità principale, di solito, non ne riconosce la presenza. Gli stati di personalità possono variare da 1 a 50, ma la media è di 13 stati. Myrick et al. (2012) hanno riferito che nonostante la maggior parte degli studi riguardino pazienti con età uguale o superiore ai 35 anni, anche popolazioni di pazienti più giovani presentano frequentemente importanti sintomi dissociativi. Putnam (1997) riferisce che le prime esperienze di maltrattamento possano esitare diversamente in individui diversi. A parità di qualità e gravità dei maltrattamenti, gli effetti dipenderanno anche dallo stile di attaccamento, e dalla presenza o meno di supporti sociali ad anche se l’abuso avviene nelle prime fasi di sviluppo. L’analisi dei DDI nel DSM-5 include l’uso di una scala Likert di verifica da sottoporre al paziente con le seguenti affermazioni: - Mi trovo a fissare il vuoto e a non pensare a nulla. - La gente, gli oggetti o il mondo intorno a me sembrano estranei o irreali. - Trovo di aver fatto cose che non ricordo di aver fatto. - Quando sono solo parlo ad alta voce con me stesso. - Mi sento come se stessi guardando il mondo attraverso una nebbia, così che le persone e le cose sembrano lontane o poco chiare. - Sono in grado di ignorare il dolore. - Mi comporto in maniera così diversa da una situazione all’altra che è come se io fossi due persone differenti. - Riesco a fare facilmente cose che per me di solito sono difficili. La prevalenza dei DD è prossima al 2,4% nella popolazione dei paesi industrializzati, mentre per il DDI, la prevalenza è vicina all’1%. Il rapporto tra i sessi è 1:1 (Brand et al., 2012). 28 5.1) Interdipendenza tra Trauma e Memoria L’amnesia, nella dissociazione, non cancella il ricordo del trauma; lo sposta dalla consapevolezza all’inconsapevolezza. In molte condizioni l’amnesia è naturale o persino necessaria. Se alla mente venisse costantemente richiesto di processare nella memoria, a livello conscio, tutti i dati accessibili, il risultato sarebbe un sovraccarico di stimoli. Senza capacità di oblio, infatti, sarebbe quasi impossibile vivere e la capacità di dimenticare si rivela altrettanto preziosa quanto quella di ricordare. (F. Rovetto, Conversazioni del martedì sera, Autunno 2000). La Memoria può essere considerata la parte più essenziale della coscienza umana perché abbiamo bisogno di mantenere una memoria continua degli eventi per poter attribuire loro significati. La Memoria è il linguaggio dell’identità, poiché il senso di sé si costruisce attorno alla propria storia personale; l’immagine di noi stessi si fonda in larga parte sul ricordo della storia degli eventi, delle relazioni e delle convinzioni personali, ma anche sull’attesa di un certo tipo di risposta alle situazioni sulla base della propria esperienza passata. La Memoria, nei primi tre anni di vita è frammentata. Di regola, non ricordare la propria infanzia prima dei tre anni è considerato un fenomeno normale. Le esperienze infantili sono codificate nella prima forma pre-linguistica e pre-verbale e, di solito, non possono essere recuperate dall’adulto la cui modalità di codifica è per lo più di tipo linguistico, la più elevata dal punto di vista evolutivo. L’amnesia, come tutti i sintomi dissociativi, nasce, quindi, come difesa sana contro il sovraccarico psicologico. Spesso l’amnesia implica una distorta percezione del tempo trascorso. Fra le strategie di compensazione adottate dalle persone con amnesia cronica, allo scopo di mantenere il lavoro e per non compromettere le relazioni interpersonali, ricordo la confabulazione: inventare ricordi per “colmare” lacune nella memoria. Il processo fondamentale che contribuisce all’amnesia nei disturbi dissociativi è conosciuto come apprendimento stato-dipendente (Laub & Auerhahn, 1993; Joseph, 1999; Perry B.D., Conroy L., Ravitz A., 1991) che trova il suo correlato in una ipotesi di Ernest Rossi (Rossi,1987). Rossi ha ipotizzato che il sistema limbico-ipotalamico, un insieme di aree corticali e sottocorticali preposte principalmente alla elaborazione emotiva, ma che svolgono anche un ruolo importante nei processi di apprendimento, memorizzazione e vigilanza, nonché nel controllo dei comportamenti legati allo stato (State Dependent Memory Learning Behaviour), attivi dei pattern che possono essere resi utilizzabili in terapia, per codificare i sintomi e modificarli. Secondo questa ipotesi, l’informazione codificata in un certo stato mentale viene recuperata più facilmente in uno stato successivo se ci si trova nello stesso stato. Per es., apprendimenti avvenuti sotto l’influsso di alcool o di un farmaco possono non essere disponibili quando il soggetto non si trova più sotto l’effetto di tali sostanze, ma possono essere facilmente ritrovati quando il soggetto è di nuovo in stato di ubriachezza o sotto l’influsso del farmaco. Anche per Erickson (1980) la trance è un’esperienza legata allo stato. Normalmente, egli dice, il senso di realtà, la nostra salute mentale ed il nostro benessere sono determinati dal modo in cui impariamo a reagire a quanto si presenta spontaneamente alla soglia della coscienza (immagini, sensazioni, emozioni, sogni e associazioni). 29 Nella trance sono alterati gli schemi abituali di controllo e direzione, mentre la funzione osservatrice dell’io si conserva a livello variabile. La semina, con la caratteristica di essere una incisiva suggestione indiretta associativo-dissociativa, consentirebbe al paziente di accedere e di utilizzare per il cambiamento i patterns stato-dipendenti, altrimenti definiti da Erickson come apprendimenti esperienziali. Se una persona che sperimenta un trauma si dissocia in stati separati della mente, ricordi diversi diventeranno disponibili per quella persona in momenti diversi. I dati codificati in uno stato non saranno disponibili quando la persona si trova in un diverso stato psicologico. L’incapacità di integrare i ricordi traumatici fa sì che la persona rimanga fissata al momento del trauma e compromette l’integrazione di nuove esperienze. In maniera provvidenziale la dissociazione altera la realtà ma permette anche alla persona di stare in contatto con essa in modo che possa trovare una soluzione. Questa dualità è evidente nelle metafore che le persone utilizzano per descrivere i loro sentimenti di distacco dalla realtà durante gli episodi dissociativi: “era come”, “come se”, “vedevo accadere tutto intorno a me come fossi uno spettatore di un film”,ecc. Ripetute esposizioni a situazioni paradossali, in cui il caregiver, invece di dare protezione al bambino, è egli stesso causa della sua paura, provocano esperienze di autoipnosi (Liotti, 1992). I ricordi del trauma restano inaccessibili alla coscienza fino all’età adulta, perché il bambino non può riconoscere il tradimento della fiducia, finché è dipendente dalle cure, necessarie alla sopravvivenza, dell’autore dell’abuso. Vedremo come l’obiettivo ultimo di una ipnositerapia curativa per i disturbi dissociativi sia la reintegrazione e riconnessione fra le parti dissociate del Sé. 5.2) Le ipotesi di E. R. Hilgard e la formulazione della teoria neodissociativa Sul finire degli anni ’70 del Novecento, Ernest Hilgard compie una indagine molto accurata sui processi psichici nell’ipnosi e nella dissociazione. I presupposti da cui egli parte sono i seguenti: - - l’unità della coscienza è illusoria (ad es. nella conversazione l’attenzione è divisa e fluttuante); l’esperienza cosciente può dissociare azioni e pensieri; il senso dell’unità e della continuità sono garantiti dalla continuità della memoria; ciò non contrasta con l’evidenza che ognuno recita normalmente diversi ruoli nel corso della vita; la dissociazione va considerata come una strategia di coping: un evento normale e quotidiano. Hilgard ritiene l’ipnosi una esperienza dissociativa per la prevalenza dell’immaginazione che può arrivare fino alla negazione della realtà. Le risposte ipnotiche rappresenterebbero due stadi di dissociazione. Nel primo stadio, più superficiale, le risposte riflettono le suggestioni; nel secondo, più profondo, un processo di tipo amnesico consente ad alcune informazioni di essere elaborate sotto il livello di consapevolezza. Lo studioso giunge quindi ad identificare i meccanismi psichici che sostengono i fenomeni della trance. 30 Amnesia: partendo dal processo di memorizzazione, Hilgard evidenzia il ruolo facilitatorio dell’immaginazione e della motivazione nella ritenzione di informazioni, ma anche nell’amnesia. L’amnesia post-ipnotica differisce dal normale oblio perché ha a che fare con il sistema motivazionale del soggetto e con un processo di disattenzione selettiva. Sonnambulismo, allucinazioni, scrittura automatica, processi ideomotori ed ideosensori, regressione d’età: si tratta di processi dissociativi, legati ad una iperattività dell’emisfero destro. In particolare la regressione d’età comporta una ipermnesia, anche somatica, e una dissociazione ideo-affettiva. Analgesia: l’anestesia ipnotica toglie la sofferenza, ma non elimina il dolore sensoriale: le risposte fisiologiche sono quelle di un organismo che soffre. Il soggetto ipnotizzato nega di soffrire, ma se viene intervistato con la scrittura automatica, scrive che sta soffrendo. Per spiegare quest’ultimo fenomeno, Hilgard introduce la metafora dell’osservatore nascosto, inteso come una parte dissociata dell’Io. L’esistenza di una risposta coperta e di una risposta aperta al dolore gli suggerisce la presenza di sistemi alternativi di controllo della coscienza. La coscienza è fornita di funzioni esecutive di controllo e di monitoraggio. L’ipnosi facilita esperienze dissociative rompendo l’ordinaria continuità dei dati mnestici e distorcendo l’orientamento alla realtà mediante suggestioni, l’attenzione selettiva e la stimolazione dell’immaginazione. La perdita dell’esperienza del corpo, negli stati di rilassamento profondo, provoca disorientamento spaziale. La perdita dei ricordi riduce la critica e l’esame di realtà. L’immaginazione può trasformarsi in allucinazioni positive o negative, in tutte le modalità sensoriali. Piuttosto che un’alterazione della qualità della coscienza, si ha una modificazione delle funzioni di controllo. Le funzioni di monitoraggio confluiscono nell’osservatore nascosto, ovvero quella parte di queste funzioni che diviene accessibile attraverso automatic talking e automatic writing, e in una parte che è coinvolta nell’esperienza ed è acritica , accettando la realtà anamorfica. L’ipnosi sarebbe in grado di alterare i rapporti gerarchici tra questi sistemi di controllo. La possibilità che l’ipnosi offre di accedere senza mediazioni alle parti dissociate suggerisce che queste non siano inconsce, ma indisponibili per via della barriera amnesica (Ducci, 1995). Il costrutto dell’osservatore nascosto implica nell’esperienza soggettiva della trance la compresenza di tre realtà: 1) L’Io osservatore (che osserva se stesso nell’esperienza di trance); 2) la parte di sé coinvolta nell’esperienza di trance; 3) la parte non coinvolta nell’esperienza di trance (osservatore nascosto) Paradossalmente, il restringimento della coscienza in ipnosi consente la compresenza di percezioni riconducibili alla realtà presente e di percezioni riferite ad una realtà allucinata, di percezioni “interne” ed “esterne”, di associazioni di idee legate alle evocazioni (parole, musica, immagini, odori) , di ricordi, di speranze. Coesistono vari livelli di consapevolezza: sono qui – nel contesto dell’ipnosi – ma anche contemporaneamente lì – nella realtà ipnotica nella quale sono calato e posso assistere a quello che accade nel mio corpo e nella mia mente. 31 5.3) E. Bliss: un modello eziopatogenetico della trance Per Bliss (1986) in (Ducci, 1995, op.cit.) vi è una totale equivalenza tra trance e dissociazione. L’ipnosi è sempre autoipnosi spontanea e l’ipnotista è un facilitatore di tale esperienza nel paziente. La capacità di entrare spontaneamente in trance, sperimentando amnesia, analgesia ed altri fenomeni ipnotici, è una proprietà di base della mente geneticamente determinata e viene attivata in situazioni di pericolo; costituisce un meccanismo etologico di difesa ai fini dell’omeostasi. Tale capacità promuove nella maggior parte dei bambini fantasie realistiche (ad es. il compagno immaginario) e negli adulti facilita il coinvolgimento immaginativo e la creatività. Che sia spontanea o facilitata dal terapeuta, l’ipnosi manipola con realismo tutte le funzioni corticali privando la mente dall’esame di realtà e producendo la logica della trance. Può simulare o indurre ogni sintomo psichiatrico. L’ipnosi/dissociazione, può essere provocata sia da situazioni di shock – come le tecniche di sorpresa e confusione di Erickson – ma anche attivata da manovre di “rilassamento” con conseguente passività e perdita di iniziativa. L’ipnosi/dissociazione separa dalla coscienza le esperienze intollerabili con una barriera amnesica. In uno stesso individuo possono infatti coesistere stati di coscienza compatibili con la presenza di un mondo interno separato dal mondo esterno e dalle percezioni ambientali; le esperienze dissociate possono produrre comportamenti sintomatici. La predisposizione innata all’autoipnosi è più elevata nelle persone sofferenti di Disturbi Dissociativi. I bambini hanno una capacità innata di esperire trance/dissociazione di fronte a ripetuti traumi e violenze, specialmente quando esercitate dai genitori, e ciò comporta l’assorbimento dell’attenzione in una attività immaginativa vivida e ricca, attività che può costituire la base per la creazione di altre identità separate dalla discontinuità mnesica. Tali parti dissociate potranno poi estinguersi, oppure, di fronte al ripetersi di esperienze traumatiche, costituire la noxa di un comportamento sintomatico. La precocità, la durata, l’intensità e la varietà delle violenze subite, e la presenza o meno di legami interpersonali affettivamente validi, determineranno l’entità delle manifestazioni psicopatologiche in un continuum che porta dalla semplice depersonalizzazione alle forme più severe del Disturbo Dissociativo dell’Identità. I DD appaiono legati alle primissime esperienze dissociative da una continuità quantitativa, consistendo nell’amplificazione di un processo fisiologico (Ducci, 1995, op.cit). 5.4.) L’approccio naturalistico - relazionale di M.H. Erickson L’approccio clinico caratterizza l’opera di Milton Hyland Erickson. Si tratta di un approccio volutamente ateoretico e privo di una teoria esplicativa globale. Egli amava pensare che ogni essere umano fosse unico nella sua storia e che, per questo, anche la sua terapia dovesse essere unica. Erickson (Opere,1980) pone l’accento sul rapport definito già da Freud come una modalità peculiare di relazione che riproduce schemi arcaici ed infantili. Erickson amplia questa accezione, introducendo altri elementi caratteristici come la motivazione, la focalizzazione, l’attenzione responsiva, l’assorbimento. Lo stile che Erickson adopera e che consente l’instaurarsi del rapport privilegia i meccanismi dissociativi. Scrive Giuseppe De Benedittis (1985): “Il messaggio di Erickson utilizza un codice ricco di metafore, analogie, 32 pars pro toto, è spesso alogico, perché privo della bipolarità affermazione-negazione (…) Molti degli approcci ericksoniani - dalla pantomima alla tecnica di confusione, a quella di disseminazione – costituiscono dei formidabili strumenti per depotenziare l’emisfero sinistro ed attivare l’emisfero destro (…) L’uso della dissociazione e del paradosso, l’enfasi sul linguaggio del corpo, il privilegiare la suggestione indiretta rispetto a quella diretta, rappresentano altrettante appropriate modalità di conversione dallo stile analitico-digitale del soggetto a quello sintetico-intuitivo.” Erickson utilizza costantemente, nell’induzione e nella terapia, le risorse del soggetto, le sue capacità immaginative, le sue modalità di comunicazione, i fenomeni ipnotici spontaneamente prodotti, in particolar modo la regressione d’età e la progressione nel futuro. Il suo approccio è definito “naturalistico” perché Erickson insiste sulla quotidianità della trance, intesa come una condizione di semplice focalizzazione verso l’interno che si sviluppa accanto alla realtà esterna, senza sostituirla. Proprio l’esistenza di queste “coscienze parallele” rende necessaria una comunicazione a livelli multipli. Anche le suggestioni post-ipnotiche sono, per Erickson, microtrance limitate al compito: delle azioni dissociate sorrette da una discontinuità mnesica, ma legate comunque alla relazione con il terapeuta e con le persone circostanti, e alle motivazioni che tali relazioni sono capaci di elicitare. Poiché è nel rapporto con gli altri che si creano livelli diversi di integrazione dell’individuo, ci sembra opportuno definire l’ipnosi come dissociazione in un rapporto, cioè come uno degli stati di coscienza che quel rapporto consente. I processi di dissociazione e di integrazione determinano tanto la qualità della relazione quanto la qualità dell’apprendimento. Un umanesimo essenziale animava la visione che M. H. Erickson aveva del paziente ed un pragmatismo americano informava le sue mosse terapeutiche. Il suo è stato definito “approccio naturalistico”, ove per naturalistico s’intende l’accettazione della situazione che si incontra e la sua utilizzazione, senza tentare di ristrutturarla da un punto di vista psicologico. L’utilizzazione consiste nel far diventare nutrimento per la terapia anche fattori apparentemente indesiderabili; il comportamento del paziente diviene un preciso aiuto ed una parte effettiva nella induzione di trance, non già una forma di impedimento. Naturale è il terapeuta che quando induce l’ipnosi va incontro in maniera adeguata al paziente come personalità e risponde ai suoi bisogni come individuo. E’ la tecnica che deve adattarsi al paziente, non il paziente alla tecnica. Artificiale è il terapeuta che adotta prescrizioni e procedimenti rituali, laddove ogni soggetto è unico. Da Erickson ho imparato a costruire la terapia attraverso il ricorso agli stessi schemi che sono alla base del comportamento disfunzionale. Le tecniche di utilizzazione consistono nell’adoperare il tempo, lo spazio, il reale e l’immaginario, le speranze, le paure, le abilità, le realizzazioni e i fallimenti. Utilizzare, significa accettare che qualsiasi situazione comunicativa sviluppata dal paziente, l’espressione del suo sistema di valori, le resistenze e i sintomi manifestati, siano colti ed utilizzati dal terapeuta al fine di raggiungere la trance. Il suo approccio è definibile anche relazionale in quanto per M. H. E. l’ipnosi è sia un fenomeno interpersonale – i quadri di comportamento cambiano in rapporto alla situazione, al contesto e alle richieste dell’ipnotista – che intrapsichico – ogni individuo ha un repertorio personale di associazioni, credenze e potenzialità che contribuiscono in modo sostanziale alla modalità di risposta allo stato di trance. In quest’ottica, prassi del terapeuta e funzionamento inconscio del paziente sono interrelati ed interdipendenti. Apprendere il linguaggio inconscio 33 del paziente, che si esprime attraverso le minimal cues, significa: osservare, osservare, osservare, come premessa ineludibile per un intervento efficace. L’ipnositerapia ericksoniana è anzitutto una relazione sinergica basata su una solida alleanza terapeutica riconducibile alla partecipazione attiva del terapeuta, dove per attività si intende attenzione responsiva. Sinergismo significa anche utilizzazione clinica delle risorse umane del terapeuta, della sua umanità profonda e sincera. Il terapeuta non offre al paziente uno spazio bianco in cui esprimersi, piuttosto mette in atto un comportamento evocativo (e-vocare = chiamare fuori) per cui il paziente sia naturalmente portato ad esprimersi. Mentre quando il paziente arriva da noi portandoci il suo disagio le competenze “sane” sono bloccate, la terapia riscopre, sviluppa e valorizza le risorse della persona. Erickson non si sostituiva mai ai propri pazienti, non pensava al posto loro attraverso le sue interpretazioni; manifestava un interesse reale per il paziente, al punto che questi si sentisse sufficientemente sicuro da ridurre le proprie abituale difese ostruttive e, in condizioni di assoluta sicurezza, potesse sperimentare e vivere i cambiamenti di cui aveva bisogno vivendoli come un evento spontaneo ed originale. L’approccio naturalistico si prefigge di limitare l’adulterazione causata dai giudizi del clinico – filosofici, teoretici o tecnici – non tanto in favore della ricostruzione di una realtà oggettiva, quanto piuttosto per rispettare la realtà percepita così come emerge nello scambio reciproco tra due coscienze che condividono una relazione, al fine del raggiungimento degli obiettivi terapeutici. Il talento ipnotico è una caratteristica distintiva di ogni persona e l’ipnositerapeuta ha il compito di creare il contesto migliore per facilitare l’espressione di questo talento. L’illusione di controllo e prevedibilità di alcuni terapeuti strategici, viene sostituita da noi con la consapevolezza che non è dato a nessun essere umano conoscere il futuro, che l’ordine degli eventi non si può controllare. Si può, anzi, si deve accettare il caso, il disordine, l’incertezza, l’accidente e la sorpresa e contemplarli. L’ipnosi naturalistica, con le parole di Consuelo Casùla, ESH President Elect, “invita a riconoscere che Madre Natura è la regina del regno, e governa secondo regole di imparzialità, omogeneità, semplicità e necessità (…) dovremmo imparare ad accettare con equanimità ciò che non si può cambiare (…)la Natura ama i cambiamenti, le differenze, i misteri. Ricordati che ogni animale, ogni pianta, ogni fiore, persino ogni filo d’erba sono diversi … impara a riconoscere le differenze che rendono unica e speciale ogni creatura umana … gli eventi scorrono inesorabili … ogni giorno c’è un cambiamento: il sole sorge e tramonta a ore diverse; anche il più bel giorno non dura in eterno, ma viene la notte a prendere il suo turno; la gioia più grande può essere disturbata da un grande dolore … ma anche questo finisce. Nulla dura in eterno, né la gioia, né il dolore. Tutto cambia … … proprio così! ”. (Casùla, induzione di trance a me medesimo. Ad un certo punto ho manifestato doppia levitazione e movimenti rotatori del capo sotto gli occhi basiti dei miei colleghi di corso - Anno Accademico 2012). L’ipnosi naturalistica e relazionale di Milton H. Erickson invita a trasformare i sintomi traumatici in apprendimenti. La crescita post-traumatica rende consapevoli che la modifica del progetto di vita provocato dal trauma porta, con la facilitazione del terapeuta, a reinventare un nuovo futuro, che può essere anche migliore del paradiso perduto del passato. 34 6. L’ipnositerapia come modalità di trattamento per i disturbi dissociativi Siamo troppi se guardiamo chi siamo (...) Ognuno di noi è più di uno, è molti, è una prolissità di se stesso (…) la mia anima è una misteriosa orchestra; non so quali strumenti suoni o strida dentro di me: corde, arpe, timpani, tamburi. Mi conosco come una sinfonia. F. Pessoa, Il libro dell’Inquietudine Le persone non sanno come si legge. Non sanno come si ascolta. Tendono a sentire ciò che vogliono sentire, a pensare ciò che vogliono pensare, a capire ciò che vogliono capire. Tendono a far rientrare ciò che ascoltano e leggono nello schema di riferimento della loro esperienza, e questo non è certamente il modo di fare psicoterapia. Occorre ascoltare il paziente. Occorre capire il paziente. J. Zeig , 1990 Già a partire dalla pubblicazione del DSM-III-R, il significato della dissociazione appare più legato al concetto di discontinuità della memoria, della identità e della coscienza, piuttosto che alla rottura dei nessi associativi, proprio della schizofrenia. Giovanni Liotti (1993) scrive che la dissociazione può essere descritta come un disturbo della tendenza attiva ed innata alla integrazione delle esperienze nella costruzione della coscienza e del Sé. Nel DSM-5 i disturbi dissociativi sono descritti più o meno come nel DSM-IV-TR. Vengono però associate tra loro la amnesia e la fuga dissociativa, evidenziando come chi intraprende una fuga dissociativa (un improvviso allontanamento da casa o da un luogo familiare senza una particolare meta) spesso manifesti anche amnesia. La realtà è divenuta intollerabile: il paziente tende a crearsi una amnesia ed a fuggire come modo di difendersi. Si tratta di una negazione profonda che comunque non risolve le cose; quando non è dovuta a semplice noia o per rispondere ad un preciso ordine delle voci, come nello schizofrenico, la fuga psicogena è espressione di uno stato confusionale o messa in atto per fuggire da presunti persecutori (Rovetto, 2015). 35 6.1) La richiesta di psicoterapia Al di là delle specifiche ragioni che spingono un individuo ad intraprendere un percorso psicoterapico, la richiesta sottesa è sempre la stessa: avere un maggior controllo sui propri pensieri, sentimenti e azioni, in modo da raggiungere uno stato interno di relativa tranquillità e maggior benessere, che consenta di vivere una vita più produttiva. Assai di frequente, nel mio lavoro, al di là del tipo di disturbi o problemi, mi imbatto nel dato di fatto che nei pazienti, per qualche ragione, si sono instaurati dei circoli viziosi, certi modi automatici di considerare se stessi, gli altri e di rispondere al mondo circostante che non sono sani, che generano sofferenza, e che hanno bisogno di essere riorganizzati. Per le persone con DD, il processo di riorganizzazione è intrinsecamente più complicato in virtù del fatto che hanno una molteplicità di stati interni che necessitano di essere riorganizzati. Tutto ciò di cui i pazienti sono consapevoli è che, a volte, sopravviene un “umore”, una specie di “demone” interno che li fà agire con rabbia, sperimentare sensazioni di panico o comportare in un modo che non sembra per niente consono alla loro personalità. E’ infatti possibile che si abbiano sintomi dissociativi o, semplicemente, aspetti di se stessi che non sono sotto il proprio controllo quanto si vorrebbe. L’efficacia della psicoterapia – non solo ipnotica – è funzione della progressiva riduzione della rigidità sintomatica lamentata dal paziente. Tale riduzione è resa possibile grazie all’attivazione persistente di cambiamenti nelle aree (interconnesse) emozionali, attitudinali, cognitive, relazionali e comportamentali del paziente, sia ad un livello conscio che ad un livello inconscio. La possibilità di ottenere cambiamenti persistenti si fonda su tre fattori (Strupp et al., 1977): 1. la modificazione dello stato di coscienza. 2. i cambiamenti nella memoria a lungo termine di tipo implicito (cfr. Ducci & Casilli, 2004). 3. la qualità specifica della relazione terapeutica. Qualunque sia il sintomo – depressione, attacchi di panico, abuso di sostanze, gambling, sbalzi d’umore, ecc. – esso potrebbe essere la manifestazione esterna di un problema dissociativo sottostante. A meno che il problema sottostante non venga individuato e trattato in maniera appropriata, non si può ottenere la migliore guarigione possibile. L’abuso di sostanze (alcolici, tabacco, sostanze stupefacenti), per esempio, può rappresentare il tentativo di curare da soli le sensazioni interiori di distacco da se stessi o dalle proprie emozioni, sintomi della depersonalizzazione. Anche una semplice ipnosi neutra è già psicoterapia nel momento in cui, richiedendo una particolare intimità ed autenticità per l’instaurarsi del rapport, mette in gioco i modelli di attaccamento del paziente. La gestione dei problemi dell’induzione consiste nel fare psicoterapia essendo capaci di divenire per il paziente un “base sicura ipnotica” affidabile, ma non onnipotente. Diversamente, il paziente corre il rischio di essere ritraumatizzato invece che curato, o non si lascia curare. L’ipnositerapia, inoltre, rispetto ad altre forme di psicoterapia, possiede un accesso privilegiato alla modificazione di episodi traumatici ed alla creazione di realtà ipnotiche che consentono di fare esperienza diretta di nuove relazioni di attaccamento. 36 Alcuni pazienti sono incapaci di perseguire l’integrazione o restii a farlo. Ricordo Konstance (il nome, ovviamente, è di fantasia), una mia vecchia paziente ninfomane quasi trentenne, che innamoratasi perdutamente di un rampante diciottenne, si trovava regredita ad uno stadio infantile. Trovandosi in una situazione che non sapeva comprendere e in preda alle incandescenti, travolgenti, sensazioni sessuali, si rivolse a me perché incominciava a sperimentare i sintomi di un attacco di panico e fobia sociale. Si lamentava del panico, ma i sintomi vegetativi correlati erano legati all’alterazione dell’identità, cioè alle paure della sua parte infantile che aveva improvvisamente perso il controllo. Ella sperimentava ogni tentativo di integrazione come la “morte” della sua personalità alternativa e si rifiutava di abbandonarla. Fidanzata di tutti e di nessuno, si era anche provocata un aborto. Ella riuscì a raggiungere faticosamente una sorta di “cooperazione funzionale” fra le due parti di sé con una ipnositerapia combinata a SSRI (paroxetina) e BDZ (alprazolam); è stato possibile curarla, non guarirla. Si sposerà qualche anno dopo la conclusione del trattamento, con un uomo assai più anziano di lei, vedovo, che definiva “una presenza rassicurante”, dal quale erediterà i figli di un’altra donna, ma rimarrà una moglie infedele. 6.2) Le peculiarità della psicoterapia ipnotica Per la costruzione dell’intervento ericksoniano è essenziale una approfondita analisi della domanda e, anche saper discriminare fra la richiesta portata dal paziente e il problema sottostante. Spesso, durante l’evoluzione della terapia, la richiesta iniziale viene ridefinita. I sintomi fanno emergere il bisogno di riequilibrare le risorse. La trance è una condizione naturale, una condizione diffusa (“common everyday trance” di Erickson) caratterizzata più che dai segnali, dalla loro modalità di esecuzione. Non è necessariamente legata al rilassamento o al rallentamento fisico e motorio. Essa è definita da: attenzione responsiva; discontinuità fra l’orientamento verso la realtà ipnotica e quello verso la realtà non-ipnotica (la perdita di orientamento verso la realtà esterna e lo stabilirsi di un nuovo orientamento nei confronti di una realtà concettuale astratta); rapport. Il rapport ipnotico è un tipo di relazione particolare che potrebbe essere definita come una mutua sensibilità, dell’ipnotista e del paziente alle minimal cues. Il terapeuta manifesta nei confronti del paziente un respicio che consiste nel prendersi cura di lui come persona e che funziona come “anestesia per il cambiamento” (Whitaker, 1989). Re-spicio è etimo di rispetto: osservo e riosservo con attenzione il paziente nei suoi minimi dettagli, mentre, circolarmente, il paziente osserva nei dettagli il terapeuta e inconsapevolmente entrambi modulano il feed-back e il feed-forward (Rapone & Trasarti Sponti, 2009). Consideriamo la trance come una sensibilità mutuale sia dell’ipnotista che del paziente alle minimal cues dell’altro, ovvero agli indicatori apparentemente insignificanti e irrilevanti di uno specifico stato mentale o di un processo interno connessi alle risposte comportamentali (Loriedo, 1996). Attraverso l’attentività responsiva reciproca, focalizzata sulla relazione esclusiva e selettiva che include focalizzazione e assorbimento reciproco; aumentata responsività reciproca; sincronismo; prevalenza di attività inconsce congiunte; tendenza a sviluppare idee e significati comuni (monoideismo relazionale) (Ducci, 2002), le minimal cues possono 37 rivelarsi uno strumento importante e utile se usati consapevolmente dal terapeuta che presta loro particolare attenzione. Il paziente, percependo l’attenzione del terapeuta, può permettersi una emozione regressiva di accoglienza e totale accettazione, e il terapeuta può ri-osservare l’effetto che questa osservazione produce su sé stesso. Il lavoro in ipnositerapia richiama così il concetto di holding di Winnicott, inteso come sistema di sostegno psicofisiologico, cura e contenimento che circonda il bambino) e quello di sintonizzazione materna di Daniel Stern, attraverso la quale il genitore segue ritmi di attività, vocalizzazione ed espressione fisica del bambino. Il lasciarsi portare dall’altro e il sintonizzarsi permettono ad un essere umano di “essere – con - l’altro” condividendo esperienze interiori probabilmente simili in un’atmosfera di continuità (…) l’essere reciprocamente sintonizzati” (Stern, 1987). Nella sintonizzazione intermodale la madre segue il bambino nelle sue attività con propri movimenti e suoni armonizzati con quelli del bambino, utilizzando canali sensoriali diversi, permettendo in tal modo al bambino sia di rinforzare il suo senso del Sé, sia di elicitare le sue risorse. Questo avviene attraverso l’utilizzo di metafore ed analogie, grazie ad un caregiver adeguato, e un “corredo genetico” rintracciato nei neuroni specchio (Gallese et al.,2006). “L’individuo ha una capacità innata e preprogrammata di internalizzare, incorporare, assimilare, imitare ecc., lo stato di un’altra persona, e i neuroni specchio costituiscono la base di questa capacità. Ma per il raggiungimento della sua piena espressione, questa predisposizione ha bisogno di avere come complemento un adeguato comportamento del caregiver che lo rispecchi, interagendo con lui in modo coerente o prevedibile (…) La simulazione incarnata (…) costituisce un meccanismo cruciale nell’intersoggettività. I diversi sistemi di neuroni specchio ne rappresentano i correlati sub-personali. Grazie alla simulazione incarnata non assistiamo solo a una azione, emozione o sensazione, ma parallelamente nell’osservatore vengono generate delle rappresentazioni interne degli stati corporei associati a quelle stesse azioni, emozioni e sensazioni, “come se” stesse compiendo un’azione simile o provando una simile emozione o sensazione”. (Gallese, ivi). L’esperienza di “esserci” in quanto visto, riconosciuto, è una funzione della holding materna che condiziona tutte le successive relazioni di attaccamento. In questo sta la grande potenzialità dell’Ipnosi che rappresenta “l’unico strumento che ha la funzione di ricostruzione dell’holding materna” (Rabboni, 2006, comunicazione personale). Il rapport, infatti, è un’esperienza sensomotoria globale, fisica, che cambia l’esperienza relazionale delle persone (Ducci, 2007). La capacità di sviluppare l’alleanza terapeutica, intesa come relazione terapeutica sintonica, è considerata il miglior fattore predittivo aspecifico di esito comune ai diversi approcci terapeutici. Infatti, indipendentemente dal modello terapeutico specifico adottato, numerosi studi definiscono fondamentale il ruolo della relazione terapeutica (Loriedo, 2000). In una prospettiva co-evolutiva è possibile ipotizzare la reciproca alterazione della coscienza tra paziente e terapeuta all’interno del setting clinico, come dimostrato dalle ricerche svolte a Budapest da Eva Bànyai che mettono in evidenza la sincronia interattiva come fenomeno sviluppato in Ipnosi (Bànyai, 1987). Sappiamo che nei primi giorni di vita, nella relazione madre/figlio, il tentativo di decodificazione della madre delle necessità del figlio e l’espressione del figlio ai tentativi 38 di risoluzione della madre, inducono la madre in un ruolo nel quale è difficile distinguere chi ha ipnotizzato chi. Nel rapport (Ducci, 2000) assistiamo alla “riduzione bilaterale della consapevolezza periferica e delle attività dirette verso la realtà esterna”, rileviamo la “presenza di attività inconsce congiunte” e la “tendenza a sviluppare idee e significati comuni”. Lo stile comunicativo di Erickson consentiva l’instaurarsi del rapport attraverso una attenzione privilegiata ai meccanismi dissociativi (Bowers, 1992). Utilizzando poi la triade “Paziente – Terapeuta – Inconscio”, egli sapeva accedere “alla capacità naturale di apprendere del paziente, depotenziando al contempo i suoi schemi limitanti” (Erickson & Rossi, 1982, pag.10). Durante l’induzione il paziente percepisce dei cambiamenti psicofisici, quali inerzia, torpore, distensione. A tali cambiamenti si aggiungeranno in seguito altre modificazioni che consentiranno un riposo sempre più completo, diffuso e profondo, che andrà ad estendersi fino a permeare di sé ogni struttura mentale, nervosa, muscolare, provocando ancora altre modificazioni che il paziente sarà in grado di percepire e apprezzare sempre meglio. Camillo Loriedo spesso ribadisce come l’induzione, essendo forse l’atto più propriamente ipnotico, rappresenta un aspetto cruciale del processo terapeutico e può contribuire in modo determinante all’evoluzione della terapia. Rappresenta un momento di ulteriore valutazione e serve a preparare la strategia terapeutica. Conferma che l’ipnositerapeuta e il paziente sono in grado di risolvere i problemi e, insieme, riassume le possibilità e le difficoltà del rapport. Se si risolve il problema dell’induzione, si è sulla buona strada per risolvere il problema sotteso alla richiesta che ha portato il soggetto in terapia. Le suggestioni sono formulate con un linguaggio vago ed indiretto, per consentire al paziente di rispondere a modo proprio, liberamente e secondo i suoi tempi. Lo stato di ipnosi si realizza in un tempo variabile, con manifestazioni più o meno numerose a seconda del paziente e delle circostanze. Lo stato ipnotico è un fenomeno estremamente soggettivo e le sue manifestazioni esteriori possono variare notevolmente da soggetto a soggetto. La semeiologia dello stato di Ipnosi comprende: modificazioni dell’attenzione, rallentamento dell’attività motoria; rilassamento muscolare; catalessia; letteralismo nelle risposte; cambiamenti nei movimenti oculari; fenomeni di perseverazione; fenomeni di fascicolazione; fenomeni allucinatori; distorsione temporale; analgesia, anestesia; modificazioni mnesiche (regressione d’età, rammemorazione fino alla rivivificazione); movimenti automatici; dissociazione (mente-corpo; mente-mente; ideo-affettiva). La fenomenologia ipnotica va agganciata alla risoluzione del problema presentato dal paziente, per mezzo di collegamenti causali, al fine di far dipendere la soluzione del problema presentato dal fenomeno ipnotico prevalente nel soggetto (ad es., la riduzione della cefalea dalla levitazione della mano, in un paziente che riesce a sollevare facilmente le sue estremità. Non si finirà mai di sottolineare come la fenomenologia ipnotica non dipenda in assoluta dalla profondità della trance quanto invece dalle insite capacità del soggetto; può succedere che si sviluppi una analgesia in trance anche molto superficiali e non solo in trance sonnambuliche. 39 6.3) Ipnosi e Dissociazione Erickson utilizza spesso il dualismo mente conscia-mente inconscia, per favorire la dissociazione e depotenziare i processi logici coscienti. Questo linguaggio appare coerente con la concezione della mente come il prodotto di una pluralità di moduli mentali capaci di processare enormi quantità di informazioni in parallelo e che agiscono generalmente sotto il livello di coscienza. Il sintomo non è visto come un simbolo, ma come un comportamento che, sebbene disfunzionale e indesiderato, rappresenta pur sempre il miglior comportamento possibile all’interno degli schemi interpretativi della realtà, cioè della rete associativa del soggetto. La rigidità di questi schemi interpretativi maladattivi impedisce però al soggetto di attingere alle proprie conoscenze e di esplorare le proprie possibilità. Per il cambiamento desiderato si dovranno creare nuove associazioni, entrando in contatto e utilizzando esperienze adattative passate e altre risorse interne che comprendono anche i progetti, i desideri, le speranze, i valori e le aspettative. 6.3.1) Tipi di dissociazione ipnotica a) Mente conscia – mente inconscia: è forse la modalità dissociativa maggiormente usata da Erickson, sia per indurre la trance ed approfondirla, sia come intervento terapeutico. “… Lascia che la tua mente inconscia faccia ciò che vuole mentre aspetti ciò che la tua mente conscia vuole comunicarti …” b) Cognizione – vissuto affettivo: utilizzata in particolare nelle fobie, ma anche nelle polarizzazioni ideoaffettive depressive. “… E mentre pensi a tutto questo, puoi accorgerti con stupore che ciò può lasciarti assolutamente indifferente …” c) Intelletto – Emozione: si possono cioè provare emozioni ma slegate da un contesto esplicativo intellettuale oppure, al contrario, ricordare con precisione fatti e avvenimenti, oggettivamente a forte carica emotiva, e percepirli semplicemente nel loro contesto intellettuale, scissi dagli aspetti emotivi. “… E mentre sei comodamente adagiato sulla poltrona, senti arrivare un’onda di serenità (gioia, allegria) improvvisa …” 40 d)Mente – corpo: appare indicata per i pazienti psicosomatici, per le forme di conversione e i disturbi somatoformi in genere. Sembra favorire l’anestesia e per questo può essere impiegata nella terapia del dolore. “… Ora che la tua mente sa dove vuole andare, puoi guardare con curiosità al tuo corpo, che perde impercettibilmente e gradualmente sensibilità … … … e il tuo dito indice che si solleva indica la via … … …” e) Testa – busto: permette di ratificare la trance e quindi favorisce l’intervento terapeutico e la responsività in soggetti che sentono molto il problema di mantenere il controllo e che possono accettare una dissociazione parziale nella percezione del corpo perché si identificano essenzialmente con “la testa”. f) Parti diverse del corpo: focalizza la mente sul corpo e su aspettative concrete di nuove esperienze non programmate. Ciò che viene sperimentato di “dissociativo” nel comportamento del proprio corpo, apre alla possibilità di dissociare i vecchi pensieri limitanti dalla situazione problematica ed apre all’esperienza di nuove associazioni. “… Forse la tua mano destra o forse la tua mano sinistra si solleverà … … e mentre il tuo braccio destro è pesante come quei problemi …. … conosce delle alternative che io e te non conosciamo e può sentirsi veramente sollevato da quei problemi … e ha voglia di comunicarti quella leggerezza …” g)Differenti immagini di sé: si invita il paziente a ricercare diverse parti di sé stesso come si era in altri momenti della vita, per consentire uno scambio di “informazioni”. “… e, ora, puoi lasciare che le tue spalle e le tue braccia robuste incontrino quel bambino che veniva deriso dai compagni di scuola …” h) Situazione di rapport – mondo esterno: focalizza l’attenzione sull’hic et nunc del rapport, scotomizzando la percezione della realtà. “… e mentre tu sei qui … e ascolti la mia voce … tutto il resto, lo squillo del telefono, i rumori delle macchine per strada, perdono gradualmente consistenza e si allontanano …”. 41 6.4) Verso l’integrazione Il trattamento ipnositerapico della dissociazione, se ben condotto, fornisce al paziente un modo nuovo di relazionarsi a se stesso che è profondamente accudente. In ipnosi, il terapeuta si servirà di metafore in contatto con il mondo interno del paziente per aiutarlo ad accettare e rispettare le diverse parti di se stesso, entrando in comunicazione con queste in modo rassicurante e “incoraggiandole” a cooperare e a riconnettersi in un tutto funzionale, piuttosto che rimanere in conflitto. La terapia per le persone con disturbi dissociativi fa cadere delicatamente i muri dell’amnesia, che tengono nascoste le diverse parti della persona a se stessa e tra loro. L’ipnositerapeuta aiuterà il paziente a integrare ricordi, sentimenti e comportamenti. Tale processo è come unire i punti di un disegno per bambini; i punti sono le diverse parti della persona e i tratti sono i nessi della memoria da costruire. Una volta che si è condotto il paziente a sentirsi sufficientemente sicuro da accettare i ricordi, l’amnesia e gli altri sintomi dissociativi si sciolgono come neve al sole e la persona diviene intera, proprio come il disegno diventa un tutt’uno. Gli studi di P. Kluft (1993) hanno dimostrato che tale tipo di trattamento, se combinato con i farmaci per altri sintomi, come i cambiamenti repentini d’umore, la depressione, l’ansia, il comportamento ossessivo - compulsivo, si rivela altamente efficace. Il campione di Kluft comprendeva 184 soggetti e l’81% dei pazienti con Disturbo Dissociativo dell’Identità trattati con terapia integrata, ha raggiunto una “fusione stabile”. I segni di DD e i sintomi connessi non si sono ripresentati per oltre ventisette mesi. Regolari visite di follow-up da due a dieci anni hanno confermato l’efficacia del trattamento. La lunghezza del trattamento variava tra i tre e i cinque anni in media. La farmacoterapia prevede come prima linea gli SSRI per il trattamento dei sintomi depressivi che frequentemente si trovano in comorbilità; i betabloccanti (propanololo) che hanno un ruolo nel controllo dell’ansia (va valutato con estrema attenzione l’impiego delle BDZ, per il rischio di abuso in questi pazienti); gli ipnoinducenti e gli antidepressivi sedativi (trazodone, mirtazapina) nella gestione dell’insonnia. Qualora si associno impulsività, discontrollo o siano rilevabili alterazioni elettroencefalografiche, è indicato l’impiego di anticolvulsivanti (acido valproico, carbamazepina). Il primo passo per un lavoro terapeutico efficace consiste nell’esplorare insieme al paziente le sensazioni di distacco dalla propria identità, dal proprio ambiente e dai propri ricordi e, nel caso ce ne siano, scoprire quali siano le sue diverse parti. E’ probabile che queste parti nascoste emergano quando si è sotto stress: magari la persona incomincia ad agire in modi insoliti o ad avere un’esperienza fuori dal corpo, non si riconosce allo specchio o si sente distante da quello che sta succedendo. E’ come aver nascosto i sentimenti in un armadio fino a riempirlo. Poi, un giorno, succede qualcosa di stressante e la persona spinge i suoi sentimenti di disagio nello stesso armadio. Poiché non c’è più spazio, i sentimenti di venti anni prima si rovesciano fuori e questa persona risponde alla situazione attuale in maniera strana. Se delle parti nascoste al suo interno essenzialmente 42 per salvaguardarla, le stanno distruggendo la vita, non si potrà sentire meglio, a meno che queste non siano identificate con l’aiuto del terapeuta, fatte emergere, siano riconosciute ed accettate. In questo modo la persona potrà guarire dal trauma che le ha portate in primo piano. Occorre che il terapeuta e i familiari del paziente siano supportivi. Con il flusso e la condivisione ripetuta dei ricordi e delle emozioni ad essi connesse, le barriere alzate dall’amnesia poco alla volta vengono erose e ciascuna parte frammentata entra a far parte della corrente principale dell’identità di una persona portando ad una integrazione degli elementi dis-associati. I soggetti affetti da DD sono capaci di entrare velocemente in uno stato di ipnosi profonda e la connessione tra trauma e ipnosi può essere un elemento centrale del lavoro terapeutico. Spesso, piuttosto che utilizzare tecniche induttive elaborate, le induzioni ipnotiche possono essere semplici inviti a “… chiudere gli occhi e andare in trance …”, secondo l’insegnamento naturalistico di M. H. Erickson. Gli studi condotti da Johan Vanderlinden tra il 1993 e il 1998 hanno evidenziato alcuni importanti fattori di “mediazione” che intervengono con molta probabilità tra l’esperienza traumatica e i DD. Tra questi si riconoscono: l’età precoce nella quale si subisce il trauma; la natura della violenza (se da parte dei genitori, familiari, vicini, ecc.; se con la forza o meno), le variabili familiari (ambiente familiare multiproblematico, caotico), eventi della vita stressanti e rivittimizzanti; immagine negativa di sé (sensi di colpa, vergogna, auto denigrazione). 6.5) Alcune strategie da me adoperate In terapia uso libri per bambini, perché in maniera molto semplice ma efficace, si adattano a persone di tutte le età. I genitori amorevoli e premurosi leggono storie rassicuranti ai loro bambini e agiscono in una maniera congruentemente accudente, impiegando un ricco repertorio di tecniche supportive affinché i loro bambini possano sperimentarle e ripeterle. Leggere libri per bambini che hanno a che fare con il conforto e la rassicurazione o invitare il paziente a scavare nella soffitta e a ritrovare i libri d’infanzia preferiti, può aiutare a riconoscere il bisogno di consolazione di quelle parti “bambine” di sé e a compensare, in parte, ciò che non era disponibile durante lo sviluppo. Parte del piacere che si ricava dal leggere una storia al bambino, deriva dal fatto che il messaggio tranquillizzante e la morale della storia calmano il lettore quanto l’ascoltatore. Leggere insieme al paziente la buona definizione che si trova nel DSM-5 può essere un altro utile passo. Specialmente per quanto riguarda il disturbo di depersonalizzazione/derealizzazione, il paziente va informato sulla estrema diffusione di questo problema e sulla sua transitorietà: NON evolve verso la psicosi. L’obiettivo del trattamento del Disturbo Dissociativo di Personalità, assai più impegnativo, consiste nello sviluppare la consapevolezza delle diverse subpersonalità e portarle ad una connessione per superare il meccanismo difensivo della scissione. Non c’è bisogno di essere neri o bianchi. Nel mondo reale le persone sono grigie e non sembrano neppure stabili nelle loro varie sfumature di grigio. Un professore può essere un dittatore in Università e una pecora in casa, o viceversa. Col ruolo cambia, a volte, anche il nome: in Accademia lo chiamano 43 “Prof.”, a casa papà. Non dimentichiamo che la personalità è una maschera che indossiamo per affrontare il mondo. Fondamentalmente, ciò che i sopravvissuti ai traumi hanno bisogno di imparare è come fare da genitori a se stessi. Possono essere dei buoni genitori per i loro figli o gentili e premurosi con gli amici: possiedono queste qualità ma, semplicemente, non le applicano a loro stessi. Corrono a confortare un figlio, una figlia, un fratello o una sorella che piange, ma ignorano le parti di sé che hanno pianto per anni. Le persone che hanno dei disturbi dissociativi e sono sopravvissute ad una infanzia costellata da traumi sono spesso in grado di essere dei buoni genitori, che non farebbero mai ai loro figli quello che hanno subito. Tuttavia, fare i genitori è per loro una lotta continua a causa del caos interiore che sperimentano. Molti di loro hanno bambini a cui viene diagnosticato un ADDH (disturbo da deficit di attenzione con iperattività), anche se, in base alla mia esperienza, è raro che venga posta una diagnosi di dissociazione dai neuropsichiatri infantili, anche in presenza di un disturbo dissociativo compresente a quello diagnosticato. Un’utile strategia di coping che il paziente può mettere in atto fuori dallo studio professionale è quella di dedicarsi ad una attività esterna gradita che assorba le energie. Leggere, un lavoro di artigianato, lo jogging, conversare con gli amici e così via, può in molti casi interrompere il ciclo dei pensieri e delle sensazioni in escalation che conduce a una sensazione di mancato contatto con se stessi o con il proprio corpo o ad un sentimento di irrealtà. Io chiedo ai pazienti di fare una lista con i giorni della settimana e un elenco delle cose che possono fare per consolarsi. Raccomando pure di fare ogni giorno qualcosa di rassicurante ma possibilmente diverso e di portare la lista nella seduta successiva, in modo che io possa vedere quello che sono riusciti a fare per ciascun giorno, esplorando insieme a loro le possibilità di cambiamento. Una tecnica che trovo particolarmente utile con le persone sopravvissute a traumi o abusi è il metodo dello “schermo diviso” di D. Spiegel (Spiegel, 1981), che insegna come integrare i propri ricordi e sentimenti dissociati. Suggerisco al paziente di immaginare uno schermo televisivo diviso in due parti: le immagini rassicuranti sono in una metà, mentre la scena traumatica è nell’altra metà. Al termine della seduta ipnotica, il paziente ricorda nel normale stato di veglia solo ciò che non turba la sua sicurezza. Questa tecnica può essere utilizzata anche per ritrovare ricordi piacevoli del passato, così che le persone possano visualizzare dei “posti sicuri” dove andare durante gli episodi di depersonalizzazione e derealizzazione. La visione di ciò che ha traumatizzato il paziente nel contesto protetto dello studio del terapeuta, in condizioni di sicurezza, consente l’accesso alle vecchie informazioni reagendo ad esse con nuove risposte emotive, cognitive e relazionali. La fase successiva può essere il recupero di controllo sull’avvenimento, la modificazione virtuale dei fatti, il riapprendimento ed il ribilanciamento verso il Sé del locus of control. Per quanto riguarda la depersonalizzazione, una volta che il paziente riesce ad accettare che il trauma è accaduto proprio a lei/lui, e non a qualche estraneo che lo ha separato da se stesso/a, non ha più bisogno di depersonalizzarsi quando qualche stimolo gli/le ricorda il trauma. Per quanto riguarda la derealizzazione, riuscendo a distinguere il presente dal passato e a sentirsi sicuro, il paziente avvertirà sempre meno il bisogno di distaccarsi dalle persone familiari e dall’ambiente domestico. Per i bambini abusati, la derealizzazione ha una sua utilità: il distacco mentale dall’abusatore è l’unico modo che il bambino ha di scappare. Dopo che è 44 avvenuta la completa reintegrazione dei ricordi traumatici è importante continuare a seguire il paziente con un adeguato follow-up, in modo da evitare che ricada in difese di tipo dissociativo se messo di fronte a nuove situazioni difficili per lui. Avere a che fare con due o più parti di una persona ed avere l’ambizione di condurla ad integrarle, implica un lavoro sulle emozioni. Aiuto così il mio paziente ad identificare l’emozione negativa che ha sperimentato durante il trauma, a localizzare l’emozione nel corpo, a descrivere ciò che prova in termini concreti. Aiutato dallo stato di trance ipnotica, che induce calma e chiarezza mentale, rendendo possibile focalizzare l’attenzione sulle realtà interiori, oriento poi il soggetto nel presente – che altro non è se non il futuro dell’episodio passato – ed insieme esploriamo le sue risorse attuali, le competenze acquisite dopo l’evento. Con queste risorse esploriamo l’emozione che avrebbe potuto/voluto provare allora. Allora propongo di fornirmene una rappresentazione visiva concreta: cosa immagina che l’emozione sia. Individuata l’immagine, invito il soggetto a tornare indietro nel tempo e a sperimentare le sensazioni che avrebbe provato immaginando di provare quella emozione. Ciò, nei casi più fortunati, promuove un riapprendimento ed evita il ripresentarsi del comportamento dissociativo in situazioni simili nel presente. La strategia ipnoterapeutica deve confrontarsi costantemente con un limite: la non linearità dell’evoluzione del cambiamento. Si tratta di una caratteristica tipica dei sistemi complessi ed è alla radice del comportamento caotico e dell’entropia dei sistemi deterministici (Casati, 1991). Ciò significa che il futuro non è sempre determinato in maniera univoca dallo stato iniziale. Il processo di cambiamento in ipnosi è paragonabile all’aspetto di una struttura frattàle (Mandelbrot, 1982). Le spontanee capacità del paziente di sviluppare processi dissociativi della coscienza entrando in uno stato di trance facilitato dal terapeuta, sono da noi utilizzate per facilitare i processi di recupero di memorie e di correzione di strutture cognitivo-emotive disfunzionali, all’interno di un dialogo terapeutico fluente, non interrotto da procedure di induzione formale e diretta della trance ipnotica, né da suggestioni dirette o direttive. Questo è per noi il modo elettivo di intervenire sulle rappresentazioni disfunzionali e svantaggiose che il paziente ha sviluppato in seguito all’attivazione inconsapevole ed automatica di processi difensivi basati sulla scissione, attraverso una relazione terapeutica empaticamente accogliente. La lotta interiore lascia spazio ad una relativa pace e le persone che hanno sofferto così tanto, alla fine della terapia sono in grado di costruire relazioni con altri amorevoli ed equilibrate. Le situazioni più complesse si presentano in presenza di pazienti multi sintomatici e pluritraumatizzati, massicciamente carenzati sotto il profilo delle esperienze di accudimento, spesso diffidenti e sospettosi. In questi casi il lavoro procede molto più lentamente. Una solida alleanza terapeutica è il passo necessario per la costruzione della fiducia e del rapport, per far vivere al paziente una esperienza relazionale correttiva. In base alla mia esperienza, si rivela utile lavorare per la costruzione ipnotica di esperienze di attaccamento utili a sbloccare l’impasse evolutiva del paziente. Una strategia comunemente utilizzata consiste nell’impiegare il Sé guarito nel futuro per effettuare a ritroso le esperienze che avrebbero consentito al paziente di crescere più adeguatamente. 45 Come nel caso dell’Uomo di Febbraio di Erickson, è possibile impiegare figure alternative, come parenti sostitutivi, amici, il partner attuale o anche il terapeuta, tenendo presenti le restrizioni e i rischi che questa operazione transferale comporta. Questa è forse l’applicazione della ipnositerapia che implica la maggiore quantità di creatività, intuizione ed esperienza. La realtà ipnotica, comunque, è insufficiente. Altre relazioni importanti dovranno essere costruite nella realtà ordinaria e condivisa, e ciò comporta molto tempo. Attraverso griglie più o meno rigide, il terapeuta ericksoniano è obbligato ad osservare e a rilevare nel racconto, nel comportamento, nella risonanza emozionale, nei fenomeni ipnotici spontanei, tutti gli elementi caratteristici del paziente per poterli mettere in gioco nella terapia. Anche il terapeuta mette in gioco fino in fondo il proprio repertorio esperienziale, costituito da immagini, ricordi e soprattutto emozioni, ai fini della cocostruzione di uno spazio esperienziale e di un’esperienza senso-motoria intensa e coinvolgente. La relativa brevità e intensità dell’intervento ericksoniano non sono però funzione degli artifici tecnici (suggestioni dirette ed indirette, post-ipnotiche, metafore, semine e disseminazioni, ecc.), ma è la concentrazione nel tempo e nello spazio ad essere rilevante (Ducci, 2014). In ogni caso, che si sia dissociati o meno, la connessione tra il proprio lato emotivo e quello intellettuale, fra cuore e ragione, rimane una questione di importanza vitale, tanto per i pazienti quanto per i curanti. L’ultimo traguardo consiste nella acquisizione della capacità di affrontare la vita con una personalità finalmente unificata ed integra. Le tecniche ipnositerapiche si rivelano utili nel trattare l’esperienza traumatica, consentendo l’esplorazione del vissuto del paziente e la reintegrazione della sua personalità. Le tecniche esplorative possono essere dirette e indirette. L’approccio deve essere quanto più possibile evocativo e graduale. L’approccio evocativo è tale se non cerca a tutti i costi di trovare i traumi, non li insegue, ma semplicemente crea le condizioni per un contatto del paziente con la sua storia, con le parti di Sé più recondite ed eventualmente danneggiate. Se durante l’esplorazione si avverte la presenza di esperienze traumatiche è sempre consigliabile un’esposizione graduale e controllata. In tal modo è possibile ridurre i rischi dell’effetto “inondazione” e si evita sia la sopraffazione da parte del ricordo sia che il ricordo stesso diventi un evento rivittimizzante. 1) Tecnica del questionario ideo-motorio con i segnali delle dita. Viene detto ai pazienti che il loro mondo interiore rivelerà informazioni finora inaccessibili sui loro problemi. Dal mondo interiore potranno provenire risposte alle domande mediante segnali ideomotori. 2) Tecnica degli Stati dell’IO (Watkins & Watkins, 1982). Per Stato dell’IO Watkins intende quel complesso organizzato di comportamenti, pensieri, sentimenti ed esperienze, i cui vari elementi sono legati insieme da qualche principio comune, ma separati da un’altra parte dell’Io da confini più o meno permeabili. Il terapeuta prova a parlare con quella parte, una parte antica, che nasconde, che sa, che vorrebbe comunicare, ma che finora non ha potuto. Questa tecnica la integro spesso con la tecnica della sedia vuota, di derivazione gestaltica. 3) Affetto-ponte. Ideata da Watkins, si rivela utile per produrre la regressione temporale e svelare ricordi e fantasie associati ad un particolare affetto. In questo procedimento, una specifica emozione o sensazione che solitamente precede il comportamento 46 problematico nel presente, viene utilizzata come un ponte che collega al passato, a una o più situazioni in cui quel sentimento era presente, comprensibile o spiegabile. L’affetto-ponte risulterà più efficace quando l’intensità della emozione sarà abbastanza forte. Si possono dare dei suggerimenti per ampliare l’emozione, ma se l’intensità del sentimento diventa troppo forte, l’esercizio deve essere interrotto e il paziente ricondotto alla calma. 4) La desensibilizzazione implosiva. Si utilizza per ridurre l’intensità dei sentimenti associati all’evento traumatico, in modo che l’esperienza traumatica alla base del comportamento dissociativo possa essere integrata meglio nella storia personale del paziente. E’ una tecnica dolce di inondazione, in cui il paziente, nello stato di trance, viene gradualmente esposto alla situazione traumatica originaria. Il paziente deve rivivere innumerevoli volte i sentimenti associati all’esperienza traumatica, nella stessa seduta e in sedute diverse, inserendo ogni volta una breve pausa per riposare. Dopo ciascun esercizio di esposizione, si può domandare al paziente di misurare su una scala da 1 a 10 il grado di ansia provata durante il procedimento. Il terapeuta farà proseguire l’esposizione fino a che l’ansia non sia sufficientemente diminuita, ma estenderà la durata dell’esercizio di immaginazione in base alla capacità del paziente di tollerarla. 5) Tecnica dell’altalena di Langellotti. Al paziente viene chiesto di immaginare di montare su una vecchia altalena che “… avanti e indietro … avanti e indietro … e poi indietro, … solo indietro …e poi indietro …”, in spazi e tempi mai o poco esplorati, significativi per la sua storia e che sono legati alla sua sofferenza, al suo problema. Poi si suggerirà: “…e quando sei lì, … puoi rimanere sull’altalena, … rallentare la corsa … o puoi scendere ed entrare …”. 6) Tecnica del diario di Langellotti. Si chiede al paziente di immaginare che la sua vita è stata scritta su un diario, che ora può sfogliare: “… e ti accorgerai che ci sono pagine che sembrano illeggibili, … sbiadite, … ma il tuo inconscio, … una parte profonda di te può riempire, … può completare queste pagine, ... un pezzo alla volta, senza fretta … quel tanto che puoi, … che vuoi …”. 47 Appendice Le scale di valutazione Sebbene il colloquio e la relazione terapeuta-paziente sia alla base di ogni diagnosi, l’utilizzo di scale “obiettivabili” rimane un valido aiuto e corollario. Ciò è particolarmente vero nell’ambito dei disturbi dissociativi, dove un’integrazione testologica si rivela fondamentale per superare la barriera costituita dalle difficoltà nel trasporre in parole i propri sintomi e renderli effettivamente misurabili. Le scale di valutazione più usate sono: • La Dissociative Experiences Scale (DES), una scala di valutazione che misura il livello e il tipo di esperienza dissociativa presente. Le 28 domande che la compongono descrivono delle esperienze dissociative delle quali il soggetto deve indicare la frequenza con la quale le ha sperimentate. Il punteggio della scala è dato dalla somma dei punteggi dei singoli item diviso per il numero degli item (28) e, perciò, può andare da 0 a 100. Punteggi superiori a 30 sono in genere associati ad una diagnosi di DD. La DES-Revised (Dalenberg, Carlson, 2010) è una nuova versione della DES che usa al posto delle percentuali una scala di risposta Likert (da mai ad almeno una volta alla settimana). • Il Multidimensional Inventory of Dissociation (MID) (Dell, 2006) è una scala autosomministrata composta da 218 item, in grado di valutare ampiamente la tendenza dissociativa del soggetto e mostra ampia affidabilità interna e stabilità. • Il Questionnaire of Experience of Dissociation (QED) è uno strumento messo a punto per la misurazione della incapacità di integrare a livello conscio pensieri, sentimenti e azioni. E’ composto da 26 item, ricavati dalla letteratura clinica sull’argomento che sono valutati su una scala dicotomica vero/falso. • La Structured Clinical Interview for DSM-IV Dissociative Disorders-Revised: SCID-R è una intervista semistrutturata che comprende 276 item, per la valutazione della presenza e della gravità dei 5 sintomi fondamentali (amnesia, confusione e alterazione dell’identità, depersonalizzazione e derealizzazione). Viene utilizzata per formulare una diagnosi DSM di DD. Questa si basa sull’identificazione dei sintomi-chiave dei DD, sulla valutazione della loro gravità e sul confronto del quadro clinico del paziente con quello previsto dai criteri diagnostici del DSM-IV. La gravità di ciascuno dei 5 sintomi fondamentali è valutata da 1 (assente) a 4 (grave). E’ in via di preparazione una versione aggiornata dell’intervista SCID basata sulla nuova classificazione del DSM-5. 48 CONCLUSIONI La dissociazione altera la realtà, ma permette di stare in contatto con essa in uno stato mentale tale da riuscire ad affrontare il caos esperienziale che il trauma produce. Il trauma produce la dissociazione: il fenomeno dissociativo è una difesa adattativa in risposta ad un elevato livello di stress. Il fenomeno dissociativo si dispone lungo un continuum: una differenza importante tra dissociazione normale e quella patologica è legata alla memoria: nella dissociazione normale si produce il fenomeno della memoria panoramica, uno sguardo retrospettivo sulla vita passata, mentre nella dissociazione patologica vi sono fenomeni persistenti e ricorrenti di tempo perduto, lacune nella memoria che inglobano periodi estesi di vita (Steinberg & Schnall, 2001). La natura essenziale del trauma consiste nel fatto che la persona non è preparata ad affrontarlo: il meccanismo dissociativo protegge quindi contro la frammentazione e scollega ipnoticamente gli stati di consapevolezza incompatibili. Il trauma produce perciò dissociazione e questa crea una distorsione temporale rispetto al passato e alla capacità di proiettarsi nel futuro. I fenomeni dissociativi sono molto vicini ai fenomeni che si evidenziano durante la trance ipnotica: il realizzarsi di amnesie, la comparsa di aspetti di personalità che possono essere in contrapposizione con la struttura psichica abituale, la regressione d’età, il verificarsi di fenomeni di depersonalizzazione. La grande differenza tra i fenomeni dissociativi e i fenomeni ipnotici si osserva nel fatto che i primi si verificano in modo automatico, creano problemi alla persona che li sperimenta e disagio; solitamente durano per un lasso di tempo abbastanza lungo. I secondi, invece, vengono attivati all’interno di un tempo definito e di uno spazio condiviso, cioè il setting terapeutico: l’obiettivo è evocarli ed utilizzarli per superare altri sintomi disfunzionali. Tali fenomeni possono a volte attivarsi autonomamente, come nella comune trance quotidiana, ma non raggiungono mai l’intensità e l’evidenza clinica dei disturbi dissociativi che rientrano nell’ambito psicopatologico. L’uso della trance ipnotica da parte dell’ipnositerapeuta può consentire, nel lavoro di terapia, il collegamento degli stati di sé disconnessi. L’Ipnosi, in quanto modificazione dello stato di coscienza che si fonda su naturali meccanismi dissociativi in grado di produrre plasie ideo-senso-motorie e somato-viscerali, si caratterizza quale condizione di temporanea dissociazione o disconnessione tra le varie parti del sistema-mente che normalmente sono ben integrate. Si tratta, chiaramente, di una dissociazione controllata, all’interno di un sistema accudente, il cui fine è la riassociazione, la reintegrazione, la ricombinazione di esperienze, apprendimenti, memorie e quindi parti di sé. Il paziente relativizza le proprie mappe cognitive ed emotive e questo apre la possibilità per una ristrutturazione di realtà problematiche. L’Ipnosi, definita in tal modo, si situa fra le forme paradossali di terapia (dissocio per riassociare) ed è, endogenamente ‘utilizzazione’, al di là del disturbo per il quale viene usata: utilizzo lo stesso schema del problema portatomi nella stanza di terapia dal paziente per condurlo verso la soluzione, facilitandolo nel compito di accesso alle sue risorse. Fra problema e soluzione vi è un isomorfismo che sta al terapeuta cogliere ed utilizzare 49 sapientemente. La terapia con l’Ipnosi costituisce poi un sistema di accesso e di utilizzazione dei patterns stato-dipendenti o sistemi SDMLB ( State Dependent Memory Learning Behaviour) (Rossi, 1985) che erano stati definiti da Erickson “apprendimenti esperienziali”. Con le tecniche ipnotiche possiamo avere esperienza del passato immaginandolo attraverso diverse prospettive, amplificando questa possibilità di trasformarlo attraverso modificazioni di stati psichici memoria-dipendenti. L’Ipnositerapia può dunque essere utilizzata per esplorare e gestire le esperienze traumatiche e i fenomeni dissociativi, in quanto la trance ipnotica altera gli schemi abituali di controllo e direzione consentendo l’integrazione di apprendimenti, memorie, sensazioni, ricordi che diventano accessibili in uno stato modificato di coscienza. Permette di recuperare materiale rimosso e di rivivere l’effetto connesso a tale materiale. Favorisce l’attenuazione dell’effetto stesso ed il riapprendimento del modo di fronteggiare le situazioni associate a quelle traumatiche o problematiche. Ciò che accomuna i Disturbi Dissociativi e l’Ipnosi è la Dissociazione, ed è proprio la condivisione di processi e meccanismi dissociativi che rende naturale l’utilizzo dell’Ipnosi in questi importanti disturbi. Le ricerche e i risultati clinici ottenuti da M.H. Erickson descrivono la potenza della parola e della comunicazione interumana come processo di cura. Non solo l’utilizzo di farmaci, droghe o sostanze psicoattive può indurre un cambiamento evidente nello stato psichico, ma anche l’utilizzo di parole e frasi pronunciate in un certo contesto, come il setting psicoterapeutico, con una certa tonalità di voce e utilizzando un linguaggio metaforico che sappia creare piccole confusioni, e che può agire a livello di vie neuronali ormai cristallizzate in schemi ripetitivi – da cui i sintomi psichici . Se ogni psicoterapia, qualunque sia il suo modello di riferimento e se ben condotta, agisce a livello bio-psicologico, l’ipnositerapia nella sua versione moderna può inserirsi in quella indissolubile dimensione mente-corpo, trasformando stati psichici in percezioni nuove a livello corporeo e viscerale e, in un processo inverso, trasformando sensazioni che giungono dalla cute, dai muscoli, dalla percezione del respiro in stati psichici modificati da questa profonda esperienza incarnata. Lo stato psichico si crea attraverso tonalità affettive che vengono a formarsi prima di tutto dalle percezioni corporee, le quali da sensazioni diventano emozioni, a loro volta profondamente legate alle cognizioni. L’ipotesi che i sistemi neuronali legati alle emozioni siano diversi da quelli legati alle cognizioni si considera ormai superata: ogni atto decisionale che riteniamo essere un processo volontario e razionale è sempre legato anche ad un intervento emozionale. L’ipnositerapia ericksoniana consente di agire parallelamente sui processi cognitivi ed emozionali, i quali utilizzano schemi neuronali comuni, ottenendo come risultato la modificazione di un’emozione che, a sua volta, modifica la cognizione che a essa è collegata, aprendo la via al cambiamento. 50 BIBLIOGRAFIA Ainsworth M.D., Blehar M.C., Waters B.A., Wall S. (1978), Patterns of Attachment: A Psychological Study of the Strange Situation, New York, Hillsdale, Erlbaum. Ammaniti A., Stern D. N. (a cura di ), (1992), Attaccamento e psicoanalisi. Bari, Laterza. Andreasen N.C., Akiskal, (1983) The specificity of Bleulerian and Schneiderian sympotms: a critical reevaluation, Psychiatr. Clin. North Am., 41-54. Arieti S. (1985 e seg.), Manuale di Psichiatria (in 3 voll.), Torino, Bollati Boringhieri. Baldacci M., (1999), Il Diluvio. Mito e realtà del più grande cataclisma di tutti i tempi. Milano, Mondadori. Balugani R., Ducci G. (2007), Ipnosi e neuroscienze. 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