Ipnosi e Dist Dissociativi

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L’IPNOSITERAPIA DEI DISTURBI DISSOCIATIVI
ANTEFATTO
Mi ha sempre affascinato il momento preciso in cui, mentre il pubblico attende
seduto, la porta del palcoscenico si apre e l’artista appare
illuminato dalle luci
della scena, ovvero, scegliendo l’altra prospettiva, il momento in cui l’artista
che sta in attesa nella semioscurità vede aprirsi quella stessa porta, che rivela le
luci, il palcoscenico e il pubblico.
(…) mentre rifletto su quanto ho scritto, capisco che entrare nella luce è anche
una potente metafora della coscienza, della nascita della mente che conosce,
del comparire, semplice eppur grave, del senso di sé nel mondo del mentale.
ANTONIO DAMASIO, Emozione e Coscienza, 2000.
E’ impossibile affrontare la problematica dei disturbi dissociativi senza considerare
l’alterazione patologica che ne costituisce la caratteristica principale, ovverossia il gap che si
viene a creare tra le due più complesse funzioni della mente: la memoria e la coscienza. La
coscienza è da sempre motivo d’interesse per filosofi e scienziati, ma resiste ancora, dopo
secoli di ricerche, alle esigenze di comprensione e di spiegazione. Non è questo il luogo in cui
enunciare e confrontare i vari modelli attualmente proposti sul funzionamento della coscienza,
che sono al centro di un vivace dibattito interdisciplinare, tanto da meritarsi l’appellativo di
“the hard problem” da alcuni Filosofi della Mente (Chalmers, 1995). Ancora oggi mancano
teorie in grado di descrivere in modo convincente quali potrebbero essere i modelli neurali
che ne spieghino la comparsa, e quali collegamenti possano essere ipotizzati tra questa
funzione ed altri processi mentali, come ad esempio la formazione dei concetti e lo sviluppo
del linguaggio. Allo stato attuale delle nostre conoscenze disponiamo di approfondite
conoscenze su aspetti parcellari. Manca ancora una visione di insieme condivisa e
scientificamente convalidata. In molti casi, addentrandoci in questo campo di indagine
attraverso la scienza che si occupa di alcuni fenomeni che sono centrali riguardo ai livelli di
coscienza, l’Ipnosi, viene spontaneo condividere le parole che Tolstoj attribuisce ad Anna
Karenina: “Non ho scoperto nulla, ho soltanto imparato a conoscere quello che sapevo”.
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INTRODUZIONE
La dissociazione rappresenta una difesa adattiva sana in risposta ad un elevato livello
di stress o a un trauma, caratterizzata da perdita di memoria e sensazione di distacco da se
stessi o dal proprio ambiente. Si tratta di una difesa usata universalmente dagli individui.
Essa non si presenta sempre nella sua veste peggiore, ma si dispone lungo un continuum
che va da lieve a grave. Molti individui sperimentano episodi dissociativi, di tanto in tanto,
senza riportare alcun problema psichiatrico; altri ne fanno esperienza come risposta
temporanea ad un incidente che ha messo a repentaglio la vita o a un episodio di pre-morte;
altri vivono episodi dissociativi in momenti di intenso stress e crisi momentanea. I sintomi
gravi si ritrovano per lo più in coloro che hanno un disturbo dissociativo, che, nella sua
forma più grave si esprime nel Disturbo Dissociativo dell’Identità (DDI), in precedenza
chiamato disturbo da personalità multipla. Qui il “bambino interiore” o qualche altra parte
nascosta di sé opera in maniera indipendente, prende il controllo e fa agire la persona in
maniera inappropriata o compromette la sua capacità di agire. I sintomi dei disturbi
dissociativi sono molto più diffusi nella popolazione generale di quanto si pensasse in
precedenza. Le ricerche di Marlene Steinberg e Maxine Schnall (2001) hanno dimostrato
come questi sintomi siano altrettanto diffusi di quelli depressivi e di ansia. La scarsa
conoscenza da parte del pubblico dei sintomi dissociativi e l’incapacità di identificarli di
molti terapeuti, hanno fatto sì che la dissociazione sia diventata l’epidemia taciuta dei
nostri giorni. Le persone vanno nello studio del terapeuta descrivendo solo quei sintomi
che sono in grado di riconoscere: “Mi sento triste”, “Ho continui sbalzi d’umore”, “Soffro
di attacchi di panico”, “Non riesco a concentrarmi”, “Mi sento costretto a lavarmi le mani
continuamente”. Se il terapeuta non indaga anche se il problema abbia una base
dissociativa, i problemi presentati – depressione, disturbo bipolare, DAP, ADDH, DOC –
saranno quelli diagnosticati, e la persona potrà restare in terapia per lungo tempo senza
compiere nessun reale progresso. La dissociazione, intesa come naturale reazione al
trauma, ha una notevole capacità di aumentare lo stato di allerta escludendo dalla
consapevolezza le emozioni che sconvolgerebbero e paralizzerebbero chi lo sperimenta e
gli aspetti più terrificanti della situazione. Sentire che l’orologio del tempo si è fermato nel
mondo esterno dà alla persona la libertà di focalizzarsi sulla accelerazione dei pensieri di
autoconservazione. Noi consideriamo l’ipnositerapia (se ben condotta da professionisti
qualificati, che padroneggino la psicodinamica) come la forma elettiva di trattamento dei
disturbi dissociativi, senza negare l’importanza di un intervento farmacologico integrativo.
L’ipnositerapia è da noi intesa come l’uso deliberato della dissociazione e della riassociazione della coscienza all’interno di una peculiare relazione che privilegia
l’esperienza senso-motoria diretta e che consente di costruire un’esperienza concreta di riapprendimento e cambiamento rispetto al trauma. I fattori essenziali del cambiamento
terapeutico che le scienze cognitive riconoscono come decisivi sono: coscienza,
apprendimento, memoria, relazione (G. Ducci, supervisione del 25.II.2015 ). L’insieme
delle tecniche ipnotiche non sempre può essere connesso in maniera diretta con gli
obiettivi terapeutici da raggiungere, ma è finalizzato alla costruzione di un contesto (la
trance, l’attivazione e la riattivazione emozionale, la rielaborazione mnesica, ecc.) che
rende possibile e probabile il cambiamento. La psicoterapia ha il compito di tentare la
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costruzione ( o la ricostruzione) di quelle condizioni che trasformano le potenzialità in
espressione positiva, vera e piena delle caratteristiche del paziente, inteso come individuo.
Milton Hyland Erickson introdusse una modalità rivoluzionaria di utilizzare la
dissociazione, intesa come proprietà della mente. L’ipnositerapia dissocia-associando e
associa-dissociando; lo stato modificato di coscienza che chiamiamo trance è elicitato
dall’interazione tra i membri della diade terapeuta-paziente e che il terapeuta utilizza
sapientemente per creare un percorso che unisca il polo del sapere a quello esperienziale.
Per Erickson la trance, in precedenza considerata come un fenomeno eteroindotto, è una
esperienza di reciprocità tra ipnotista e soggetto. In quanto fenomeno dissociativo
funzionale, la trance ipnotica consente all’individuo di operare una risintesi del proprio
mondo interiore, un miglior funzionamento personale e sociale, aumentando le sue
possibilità di scelta e i gradi di libertà nell’interazione con l’ambiente (Erickson, 1980;
Whitaker, 1984). La specificità dell’ipnositerapia, come di ogni buona psicoterapia del
resto, è lavorare sulla modulazione del mentale: usando la propria coscienza per
influenzare quella del paziente, il terapeuta lo accompagna alla scoperta di modalità di
funzionamento nuove e più funzionali, in cui le risorse personali hanno modo di riassortirsi
in equilibri inediti. Vedremo infine come il cambiamento si verifichi nello stile di
attaccamento (Bowlby) e nel ripristino della continuità autobiografica, presupposto per il
senso di continuità identitaria e di un modello rappresentativo integrato di sé,
indispensabile per una vita relazionale sana, gratificante e produttiva. Semplificando
molto, in un ri-apprendimento. La biografia di ognuno di noi, poi, si gioca continuamente
tra elementi di continuità e discontinuità, in una ciclicità senza fine (Liotti, 1993).
Considerare l’ipnositerapia come un insieme di ricette o una combinazione di congegnate
“prescrizioni” raggruppabili in evanescenti “protocolli”, come un cook-book per la
psicoterapia, è un errore fuorviante che nasce da una visione tecnicistica dell’ipnosi che
sottovaluta uno degli insegnamenti fondamentali di M.H. Erickson: l’unicità (e la novità)
di ogni individuo e che, oltretutto, trascura le determinanti efficaci di una buona
psicoterapia. Il pericolo è quello di confondere il mezzo con il fine, dando per scontato che
applicare alcune procedure piuttosto che altre produrrà ipso facto un cambiamento
terapeutico duraturo, come alcuni fra i più sprovveduti terapeuti di stampo strategico o
proto-comportamentista pensano, il più delle volte basandosi sulla fallace illusione di avere
un controllo unilaterale della relazione con il paziente che ricorda molto da vicino la Prima
Cibernetica. Sappiamo, invece, che la qualità dell’holding – caratteristica assolutamente
aspecifica e legata alle caratteristiche individuali del terapeuta – rappresenta l’elemento più
efficace di tutte le psicoterapie. La costruzione del contesto di cambiamento,
affettivo/emozionale/immaginativo è l’elemento più pregnante dell’ipnositerapia
ericksoniana. Questa, per come è da noi intesa, rappresenta una forma di genitorialità
affidataria che prevede sin dall’inizio la sua conclusione. Non è un percorso infinito né
ultrabreve, in nome di un presunto efficientismo e di un frainteso pragmatismo.
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1.
SULLE POSSIBILI ORIGINI DELLA COSCIENZA
Se l’Ipnosi è coscienza modificata, vi è da chiedersi innanzitutto che cosa intendiamo
per Coscienza e da dove essa provenga. Noi preferiamo credere di essere sempre coscienti,
ma a disilluderci basterebbe la semplice considerazione che i neuroni hanno scarica finita e
saltuaria. Per la maggior parte del tempo non siamo coscienti o lo siamo solo in modo
parziale. Così come non esiste sempre nel corso della giornata, la coscienza soggettiva non
è esistita sempre nel corso della evoluzione umana. In tempi antichi ci furono dei primati
totalmente animali, dai quali poi si evolsero ominidi e poi, da alcuni di questi, le specie
umane fino alla sub-specie Homo sapiens sapiens – unica sopravvissuta: noi. E’ verosimile
che questo processo non si sia concluso ma sia in divenire. Sembra evidente che nel corso
dell’ evoluzione si sia ad un certo punto manifestata la coscienza soggettiva, che noi
ancora ospitiamo. Una volta manifestatasi, questa si è poi mantenuta grazie al vantaggio
evolutivo che comporta per la specie.
Sebbene la coscienza non sia necessaria in termini biologici e non sia la base della
cosiddetta logica umana (Mérò, 2005), si potrebbe pensare a che cosa significhino in
termini di sopravvivenza dell’individuo e della specie l’aspettativa e la paura della morte, i
sentimenti, l’amicizia, l’erotismo o l’amore, tutti epifenomeni della coscienza egoica. E’
impossibile stabilire quando il processo evolutivo che ha condotto alla coscienza
soggettiva si sia concluso. Alcuni antropologi ritengono che ciò sia avvenuto piuttosto di
recente, in epoca storica, e non come ritenuto da altri in epoca preistorica. Questa ipotesi è
suffragata dal ritrovamento di reperti archeologici, dai ritrovamenti di resti umani,
dall’analisi di antichi testi. Certamente la formazione della coscienza deve aver avuto
luogo dopo l’ultima glaciazione (11000 a.C.), ma secondo alcuni si sarebbe concretizzata
assai più recentemente, nell’età del bronzo, forse verso il 1250 a.C., nell’area compresa fra
Egitto e Mesopotamia (Baldacci, 1999). Secondo Julian Jaynes (Jaynes, 1976) per un
cataclisma naturale l’isola di Tera sprofondò, costringendo i sopravvissuti bicamerali o
proto-coscienti a migrare e ad abbandonare gli “idoli-parlanti” che davano loro la spinta
all’azione; finisce il plurisecolare impero Ittita, tutte le sue città sono bruciate e la scrittura
cuneiforme viene dimenticata; la distruzione di Troia segna il trionfo dei non-coscienti eroi
micenei che obbediscono a voci inconsce che chiamano Zeus e Athena; i Filistei invadono
le coste siriane; Mosè conduce gli Ebrei fuori dall’Egitto e li porta nella terra di Cana, dove
riceverà il Decalogo; nella penisola italiana c’è l’avvento degli Etruschi. La Grecia
svilupperà subito dopo una potente coscienza egoica di stampo intellettuale, ma lo stesso
avverrà più o meno contemporaneamente intorno al Sinai con la coscienza morale degli
Ebrei e in Egitto (Bibbia di Gerusalemme, Antico Testamento). Per millenni l’uomo ha
trasmesso le proprie conoscenze con il solo strumento della voce. Le informazioni
passavano di bocca in bocca e procedevano a velocità pedonale. Un uomo siffatto aveva
una relazione con le parole profondamente diversa dalla nostra: egli sarà stato più un
uditivo che un visivo ed amava la ridondanza. Nelle culture orali primarie i pensieri erano
espressi in versi o in una prosa molto ritmica (Iliade, Odissea), in quanto, con le parole di
Walter J. Ong (1986, pp. 62-63) “il ritmo aiuta la memoria anche da un punto di vista
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fisiologico (…) e vi è un intimo legame esistente fra i modelli ritmici orali, il processo
respiratorio, i gesti e la simmetria bilaterale del corpo umano nelle antiche parafrasi
aramaiche e greche dell’Antico Testamento (…) e anche nell’ebraico antico”.
Si racconta (Mons. Andrea Maggiali, O.E.S.S.G., comunicazione personale,ottobre
2000, San Sepolcro - Parma) che alcuni Padri del deserto, quei monaci che dal III al VI
sec. dopo Cristo si ritirarono nell’Alto Egitto, nei deserti della Siria e della Palestina,
conoscessero a memoria l’Antico e il Nuovo Testamento nella loro interezza. Essi
passavano la loro vita “ruminando”, cioè meditando in continuazione brani della Scrittura,
ma tale loro incredibile performance mnemonica – incredibile per i parametri odierni – era
resa possibile anche dal fatto che il testo sacro era stato trasmesso per secoli oralmente. Era
un racconto ritmato, strutturato in modo da essere facilmente memorizzabile. Nelle culture
orali primarie, dunque, la memoria occupa un ruolo centrale tra le facoltà mentali e le
persone più sapienti sono quelle che posseggono una memoria di ferro: eidetica. Nelle
culture orali primarie il sapere finisce con l’essere trasmesso attraverso formule, frasi fatte,
proverbi, massime, finendo con l’essere un sapere veicolato in espressioni verbali
essenziali o, per meglio dire, quintessenziali. “Rosso di sera bel tempo si spera”, “Divìde et
ìmpera”, “Sbagliare è umano, perdonare è divino”, “la vecchia volpe di Via del Castello,
che da più di trenta anni ama fare solo quello, sta perdendo i capelli, ma non il vizio”,
“Bacco, tabacco e venere conducono l’uomo in cenere”, o, con Salomone,“Buona è la
mestizia più del riso, perché un triste aspetto fa buono il cuore” (Qoèlet 7,3).
Alla fine del XIV-XIII secolo a.C., attraverso l’oralità, la coscienza soggettiva avrà
ormai fatto irruzione come un’epidemia nella storia dell’uomo mediterraneo ed europeo. In
altre aree del globo terracqueo il processo sarebbe stato più lungo. Non coscienti erano
verosimilmente i sudamericani colonizzati nel XV secolo d.C., vale a dire 2800 anni più
tardi, e molto probabilmente proto-coscienti erano anche gli indigeni tribali visitati da C.G.
Jung sui monti Elgon in Africa nei primi anni del Novecento (Jung, 1940; 2005). Questi
uomini non erano meno intelligenti di quelli moderni, ma semplicemente diversi
nell’approccio alla vita interiore, all’immagine mentale e quindi al mondo.
Ovunque nel tempo si voglia situare la nascita della coscienza, vi fu un’epoca nella
quale gli uomini, esponenti del genere Homo, non avevano volizione e semplicemente
agivano su base istintiva come ancora accade agli animali. Poi si sviluppò, molto
lentamente, un inconscio (o un non-conscio per non essere troppo freudiani) che produceva
una vita interiore ricca ma, appunto, inconsapevole … e venne così un’epoca nella quale
gli uomini primitivi, ancora privi di volizione cosciente, possedevano tuttavia una
volizione inconscia e agivano in risposta a comandi provenienti dall’inconscio: a voci.
Voci, delle quali, non avendo coscienza, non erano consapevoli e che erano probabilmente
simili o affini alle voci udite ancor oggi in condizione di stress dagli schizofrenici e da
persone normali. Anche negli psicotici di oggi le voci hanno spesso valenza numinosa e
carattere incontestabile, cioè sono accettate e obbedite con poco senso critico, ma per gli
uomini primitivi esse dovevano avere addirittura valore di comandi neurologici, tanto che
udirle e obbedire era tutt’uno.
Jaynes ritiene che queste voci/comando originassero dall’emisfero destro che, allora,
era probabilmente più separato dal sinistro da un punto di vista funzionale e forse anche
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anatomico di quanto non sia attualmente, e fossero sentite inconsciamente dal sinistro, in
una condizione che Jaynes definisce bicamerale: a doppia camera, a due emisferi.
Possiamo immaginare l’uomo bicamerale come diviso in due parti entrambe inconsce, una
impositiva/direttiva e una obbediente/acquiescente. Solo molto più tardi, con il venir meno
della netta suddivisione fra emisfero destro ed emisfero sinistro, le voci bicamerali
taceranno e finiranno per essere incorporate in una funzione nuova, mai esistita prima,
nella quale la parte acquiescente e la parte direttiva del cervello si uniranno per dar vita a
quella funzione soggettiva che oggi chiamiamo coscienza. A tale sintesi di parte soggetta e
di parte direttiva potrebbero aver contribuito diversi fattori, tanto biologici quanto sociali:
le dimensioni del cervello, aumentate dai 500 cm cubi dell’Australopitecus (un
ominide alto circa 1 metro, capace di stazione eretta, datato circa 4 milioni di
anni fa), ai 600-800 cm cubi dell’Homo abilis (che già 3 milioni di anni fa
realizzava rozzi strumenti in pietra o legno) che conosceva ed utilizzava il fuoco,
all’Homo sapiens neandertalensis (300000- 35000 anni fa) che mostrava culto
dei morti e tendenze religiose, fino agli 10.000.000.000.000.000 circa di
potenzialità di connessione dendritica dell’Homo sapiens sapiens;
la plasticità neuronale, con conseguente facilità di adattabilità all’ambiente;
il bipedismo completo dell’Homo erectus, che ha lasciato gli arti superiori liberi
di specializzarsi in funzioni quali prendere, disegnare, accarezzare e scrivere Il
bipedismo ha anche nascosto la fenomenologia dell’estro femminile, facendo
nascere la necessità del corteggiamento e la possibilità di scelta del partner, utile
per la selezione naturale del più astuto e affascinante piuttosto che del più forte;
l’addomesticamento dei grandi mammiferi e l’agricoltura, che hanno fornito
nutrimento atto a sviluppare le istruzioni genetiche e svincolato l’uomo dalle
necessità della caccia lasciandogli più tempo per pensare;
una genetica favorevole al controllo del comportamento;
la selezione naturale a favore degli uomini via via divenuti coscienti, in un
sistema autocatalitico che certamente avrà favorito la sopravvivenza degli
esemplari coscienti, timorosi della morte;
le migrazioni;
l’abbassamento della glottide e lo specializzarsi di centri cerebrali che hanno
consentito la nascita e lo sviluppo del linguaggio;
la scrittura. Essa fu dapprima semplicemente sintetica, poi divenne pittografica e
analitica, poi ideografica, ancora più tardi sillabica, poi consonantica e, infine,
vocalica, in uno sforzo di progressiva astrazione (Ong, 1982);
l’insorgere delle capacità di astrazione, nata nel corso dell’evoluzione per ragioni
molto concrete, ad esempio riconoscere tra i fili d’erba gialli della savana la
criniera del leone o tra le macchie gialle e nere della foresta il maculato del
ghepardo o tra le fronde della foresta lo zebrato di una possibile preda da
mangiare – mangiare e non essere mangiati erano quasi certamente le attività
principali della nostra specie ai primordi. Concretissima nella sua origine (cibo,
caccia, fuga), l’astrazione porterà poi alla narratizzazione di concetti astratti
come la vita e la morte.
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Lo sviluppo della coscienza egoica a seguito della integrazione in un’unica funzione
delle voci bicamerali si è rivelato favorevole per la sopravvivenza della specie ma è anche
accompagnato da epifenomeni non sempre graditi come la consapevolezza della immanenza
della morte, lo scorrere del tempo, la colpa, il rimorso. Così precaria la coscienza, che
potremmo immaginare come una navicella sul mare dell’inconscio, così agognato il ritorno al
pre-cosciente, che basta davvero poco per “dimenticare” il proprio stato di umani emancipati
e tornare temporaneamente alla sottostante e latente condizione bicamerale: un’ischemia
cerebrale, una stimolazione elettrica dell’encefalo, un qualche evento della vita quotidiana con
significato dissociativo, di solito un trauma, ma anche la poesia, la musica, i movimenti
simmetrici del corpo durante il ballo o la corsa, o, appunto, la pratica dell’Ipnosi (Casiglia,
2008). Nell’Ipnosi, l’ipnotista assume momentaneamente le funzioni delle voci bicamerali,
annullando temporaneamente la funzione-coscienza che ad esse si è sovrapposta negli ultimi
3300 anni e permette al paziente di ritornare soggetto, rinunciando per un po’ ad essere
soggettivo; un’operazione che l’ipnotizzato nella maggior parte dei casi è inconsciamente ben
felice di “subire”, essendo grande il suo desiderio inconscio di abdicare alla faticosa
coscienza. E parlando di coscienza, la prima cosa che mi torna alla mente è che la nostra vita
è divisa in due grandissime esperienze contigue e alternanti: il sonno e la veglia, in cui vi è
una diversità di stato, ciò che i Greci chiamavano ònar e ùpar.
L’unità e la continuità della coscienza sono illusioni che noi manteniamo nonostante le
numerose fonti di discontinuità dell’esperienza soggettiva. La coscienza è un processo
sequenziale, come tanti fotogrammi di una pellicola cinematografica, un flusso, che “nel suo
divenire temporale, passa alternativamente da uno stato all’altro e che può interrompersi del
tutto” (Liotti, 1998, pag.16). Tra le fonti di discontinuità vi sono normali esperienze
quotidiane:
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•
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il sonno, il dormiveglia, l’affaticamento, l’orgasmo, la concentrazione intensa,
l’immergersi in fantasticherie, la meditazione profonda;
gli stati tossici e le condizioni morbose del sistema nervoso;
la molteplicità e la relativa indipendenza degli schemi motivazionali e le
identità di ruolo;
le trance ipnotiche.
La coscienza è “un fenomeno intrinsecamente relazionale, emergente continuamente dalla
comunicazione fra cervello individuale e il mondo (…) essa può essere descritta come un
processo sequenziale in cui le informazioni vengono elaborate in successione e lentamente,
nella dimensione che rende possibile il vaglio, la riflessione, la scelta.” (Liotti, 1998, pag.18 19).
7
2.
COSCIENZA, VIGILANZA E ATTENZIONE
La coscienza è l’espressione di una funzione integrativa centrale di tutte le attività
cerebrali: le coordina, le finalizza e le dirige al fine di ottimizzare i comportamenti adattivi.
Essa è flessibile e mutevole in funzione degli stimoli sensoriali, di quelli generati dalla
memoria e di quelli generati dalle strutture somatiche a livello centrale. Sebbene siano ancora
poco chiari i confini che le delimitano reciprocamente, vigilanza, attenzione e coscienza sono
organizzazioni anatomo-fisiologiche basilari nella strutturazione dell’attività mentale. Una
loro compromissione, conseguente per lo più a disturbi su base organica, interferisce
inevitabilmente con l’intera sfera psichica, coinvolgendo in primo luogo le altre funzioni di
base dell’attività mentale superiore: memoria e intelligenza.
In termini psicologici la coscienza è intesa come consapevolezza di se stessi, del
proprio corpo e mondo interno e dell’ambiente esterno, in una parola del proprio esistere. E’
una funzione fondamentale a che ognuno di noi possa dire “Io sono io, e sono qui ora” (Casilli
e Ducci, 2002). Comprende la totalità dei fenomeni psichici vissuti in un dato momento,
garantendo l’orientamento spazio-temporale e i processi di discriminazione e di scelta.
Condizione necessaria per l’esperienza cosciente è la vigilanza che ne connota il grado di
chiarezza e lucidità. La vigilanza ha un corrispettivo neurofisiologico nei centri attivatori e
inibitori interposti fra tronco cerebrale e corteccia. In stretto rapporto alla vigilanza sta
l’attenzione (dal greco prosoché - dal verbo prosécho = dirigo, avvicino, ad es. le navi
all’approdo) che consente, nell’ambito dell’insieme delle esperienze coscienti che
costituiscono il campo della coscienza, la selezione di uno specifico contenuto che emerge
dagli altri assumendo particolare rilievo e nitidezza. Pertanto il campo della coscienza non è
omogeneo, ma si presenta come uno sfondo sfocato nel quale gli elementi su cui l’attenzione
si concentra appaiono più chiari degli altri. La coscienza si articola con i diversi fenomeni
psichici sperimentati (percezione, rappresentazione, ricordo, ecc.), li attiva e li organizza
conferendo loro la forma e la struttura unitaria con la quale essi si esprimono istante per
istante. Tale attività strutturante (controllo della coscienza) è premessa indispensabile nella
distinzione tra sogno e realtà, tra soggetto e oggetto. Il processo che consente di svincolarsi
dalla coscienza attuale per riflettere su se stessi, sui propri pensieri e sentimenti e di prendere
posizione nei loro confronti viene definito autocoscienza ed è il fondamento della continuità
esistenziale della persona che opera, giudica, sceglie e diviene artefice del proprio mondo
(Sarteschi & Maggini, 1992). Più approfondita è l’analisi di Gianpaolo Pierri (Pierri, 1993) il
quale sottolinea come già il filosofo H. Von Hartmann, prima di Freud, facendo riferimento
all’aspetto intenzionale della coscienza, parlasse di una coscienza aperta e di una coscienza
chiusa, che insieme configurano due modi diversi ed alternativi di porsi dell’uomo rispetto al
mondo. Attraverso la propria coscienza, che diviene così mediazione e presenza dell’essere
animato, l’uomo progetta e si proietta, cioè trascende nella realtà o si chiude di fronte alla
minaccia ed alla paura.
Per H. Ey (Ey, 1968;1977) la coscienza è la scena dove scorre l’esistenza, il luogo ove
lo spazio e il tempo, l’Io e il Mondo si articolano nella attualità della loro rappresentazione.
La coscienza è quel momento del tempo vissuto che esclude tutto ciò che non è attuale, ciò
che resta incosciente. La coscienza implica una stratificazione funzionale, una architettura
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radicata nelle strutture somatiche e di conseguenza essa è vulnerabile nella sua composizione:
nella dissoluzione essa perde progressivamente la sua capacità di resistere all’incosciente,
come nei casi di confusione mentale. Nel manifestarsi della coscienza intervengono
presumibilmente funzioni strutturanti correlate al sistema talamo-corticale, deputate
all’integrazione delle varie attività psichiche. Henri Ey distingue, in modo clinicamente
semplice e pregnante, i “disturbi mentali acuti” dai “disturbi mentali cronici”. Se i primi
sono espressione della strutturazione sincronica della coscienza (lo “stato”), i secondi sono
espressione della struttura diacronica (il “processo”). Abbastanza recentemente alcuni autori
(Edelman, Tononi, 2000) hanno proposto un modello secondo il quale, ogniqualvolta una
persona è cosciente, esiste un insieme di regioni cerebrali che interagiscono tra loro con molta
più forza (nucleo dinamico) che con il resto del cervello in frazioni di secondo. Secondo il
modello proposto da Edelman e Tononi, una scissione del nucleo dinamico potrebbe essere
alla base sia del PTSD che dei fenomeni dissociativi e della schizofrenia. In particolare,
Edelman, nel suo “Darwinismo neurale” (1989) distingue una “coscienza primaria” e una
“coscienza di ordine superiore”. La prima rappresenterebbe lo stato di consapevolezza
mentale delle cose del mondo, consentendo una immagine mentale del presente, senza però
fornire la sensazione di essere una persona con un passato ed un futuro – una sorta di presente
ricordato, sulla base della storia personale dell’individuo e del suo bagaglio di conoscenze
apprese. La seconda, invece, comporterebbe da parte del soggetto il riconoscimento razionale
dei propri atti e dei propri sentimenti: è la coscienza di essere coscienti, che si costruisce
attraverso le interazioni con gli altri individui.
Le emozioni aiutano la coscienza ad esplicare le sue funzioni integrative: attivano
sistemi neuromodulatori producendo effetti diretti sull’eccitabilità neuronale, sulla plasticità e
crescita di connessioni sinaptiche e sul coordinamento delle funzioni cerebrali. Nello stato di
coscienza normale si verificano oscillazioni di tipo fasico, legate al ritmo veglia-sonno.
Durante il sonno il sistema centrale di integrazione non è funzionante, e i dati che provengono
dagli organi di senso e dalla memoria non vengono accettati. Durante il sogno, invece, tale
sistema funziona in maniera ridotta, elaborando i dati provenienti dalla memoria: il risultato di
tale attività sono i contenuti fantastici propri dello stato sognante, simili a quelli che si
ritrovano in alcune condizioni psicopatologiche. Le oscillazioni di tipo critico che si
verificano durante la veglia in condizioni di normalità sono invece legate alle variazioni
nell’ampiezza del campo di coscienza (numero e quantità dei contenuti consapevoli presenti
in un dato momento): si può avere un restringimento del campo di coscienza su un unico
stimolo quando questo ha un significato particolare di evocazione emozionale.
I contenuti di coscienza sono come le scene di una rappresentazione teatrale: se il
campo di coscienza è la parte di palcoscenico mostrata agli spettatori, l’attenzione è il
riflettore che evidenzia una sezione scenica, determinando la messa a fuoco di specifici
contenuti di coscienza, siano esperienze interiori o stimoli ambientali. Una diminuzione della
vigilanza è rappresentata da un diminuito risalto della scena stessa: le variazioni quantitative
della vigilanza determinano il livello di intensità della coscienza. Fra vigilanza e attenzione vi
è uno stretto legame, dal momento che occorre un normale livello di vigilanza per permettere
all’attenzione di operare.
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La vigilanza è considerata una proprietà fondamentale del SNC per cui esso è in grado
di essere ricettivo all’ambiente esterno e capace di autocoscienza con una periodicità
circadiana. Questa proprietà ha le sue basi anatomiche e funzionali in quel complesso sistema
tronco-talamo-corticale identificato e definito da Moruzzi e Magoun verso la metà del secolo
scorso con il termine di sostanza reticolare attivante ascendente (Umiltà, 1999). Si considera
un livello base della vigilanza – vigilanza tonica – e una serie di modificazioni transitorie in
risposta agli stimoli – vigilanza fasica – valutabili tramite lo studio dei potenziali evocati. Le
alterazioni della vigilanza sono indicative di patologie organiche cerebrali o extracerebrali
(per es. turbe dismetaboliche) o stati d’intossicazione. Le strutture cerebrali che la controllano
sono dunque la formazione reticolare, che è un insieme di raggruppamenti neuronali
equivalenti alla rete interneurale del midollo spinale (localizzata a livello bulbare, pontino e
mesencefalico), l’ipotalamo (area preottica e nucleo soprachiasmatico) e la corteccia. Sono
implicati vari sistemi neurotrasmettitoriali: il locus coeruleus (situato a livello del ponte,
principale sede di neuroni noradrenergici con proiezioni eccitatorie); i nuclei del rafe
(localizzati a livello bulbare, pontino e mesencefalico, principali sedi di neuroni
serotoninergici con funzione modulatoria). Anche i sistemi dopaminergici e acetilcolinergici
sembrano svolgere un ruolo. Le monoamine, dopamina, noradrenalina e serotonina, regolano
la nostra energia, il livello di attività e il senso di benessere. La dopamina è un
neurotrasmettitore chiave nei sistemi umani di ricompensa; la noradrenalina modula
l’attivazione e le reazioni di attacco-fuga; la serotonina media umore, emozione e aggressività
(Cozolino, 2008).
Per valutare il livello di vigilanza, si esaminano la capacità reattiva del soggetto nei
confronti degli stimoli e la sua capacità d’attenzione. Nello stato vigile il soggetto è
normalmente recettivo agli stimoli ambientali. Nel caso di compromissione della vigilanza si
osserva ideazione rallentata, fino all’arresto psicomotorio.
L’attenzione determina il grado di lucidità della coscienza rendendo volontariamente o
involontariamente, attivamente o passivamente, più vivaci le percezioni. E’ influenzata da
motivazioni, interessi e stati emotivi, è correlata al sistema limbico (il centro integratore delle
emozioni) e alla corteccia cerebrale (lobi frontali, in particolare il giro cingolato interno e i
lobi parietali). E’ stata ipotizzata per l’attenzione un’attività selettiva, nel senso che filtrerebbe
le informazioni rilevanti da quelle inutili. Disfunzioni o anomalie a questo livello sarebbero
all’origine di alcune tra le più gravi manifestazioni cliniche delle sindromi schizofreniche
(Pierri, 1993). Un’alterazione dell’attenzione è implicata nella sindrome frontale. Negli stati
di dormiveglia l’attenzione è dispersa, cioè ridotta. L’attenzione diffusa è invece lo stato di
allerta, cioè la capacità di mantenere o sviluppare una sensibilità ottimale alla stimolazione
esterna. L’aumento dell’attenzione, un eccesso di attenzione, riscontrabile per es. in pazienti
deliranti o in fase maniacale, è chiamato iperprosessi; la diminuzione, un difetto di attenzione,
riscontrabile per es. nei pazienti depressi, è chiamato ipoprosessi.
La distraibilità dell’attenzione, di frequente riscontro nei pazienti con episodio maniacale,
consiste nella continua fluttuazione dell’attenzione da un oggetto a un altro (De Giacomo,
Resnik, Pierri, 1980).
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3) LA COSCIENZA E I SUOI DISTURBI
La psicopatologia della coscienza comprende i disturbi dello stato di coscienza e i disturbi
della coscienza dell’Io.
A) Disturbi dello stato di coscienza
Anche se in clinica difficilmente sono riscontrabili quadri puri, sulla base della
alterazione prevalente di uno dei meccanismi coscienziali si distinguono :
a) Alterazioni quantitative della coscienza
- turbe della lucidità o della vigilanza: alterazione ipnoide della coscienza.
b) Alterazioni qualitative della coscienza:
- restringimento del campo della coscienza orientato: stato crepuscolare.
- turbe della funzione strutturante o del controllo della coscienza: alterazioni
oniriche della coscienza.
1) Alterazione ipnoide della coscienza
Le turbe della lucidità della coscienza sono rappresentate dagli stati di obnubilamento
o di offuscamento caratterizzati da un deficit quantitativo della vigilanza e da una
riduzione globale del livello funzionale delle attività psichiche. Il soggetto appare
sonnolento, abulico e inerte; presenta compromissione delle capacità percettive, della
concentrazione, della elaborazione del pensiero e della comprensione e risponde agli
stimoli con ritardo. Se sollecitato con una certa insistenza riesce a prestare attenzione
per breve tempo, per ricadere in uno stato di sonnolenza e di apatia. La comprensione
delle domande rivoltegli è difficoltosa, l’ideazione lenta, poco elaborata, tendente alla
perseverazione, talora incoerente. L’affettività è inibita o può presentare evidenti
fluttuazioni. Esistono livelli diversi di obnubilamento indicati come torpore, sopore,
precoma e coma. Nello stato di torpore il soggetto presenta solo un generico
intorpidimento della attività psichica; il sopore rappresenta una più grave
compromissione del livello di coscienza per cui il soggetto può essere richiamato alla
realtà solo mediante forti stimolazioni. Il soggetto in precoma non può essere
ricondotto alla realtà in nessun modo, ma continua a rispondere agli stimoli con
movimenti incoordinati. Nello stato di coma non si ha reazione ad alcun stimolo, si ha
perdita di qualsiasi attività psichica mentre è conservata la vita vegetativa.
L’alterazione ipnoide della coscienza riconosce una patologia organica cerebrale o
extracerebrale o stati di intossicazione acuta o cronica.
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2) Stato crepuscolare
Lo stato crepuscolare è la condizione in cui la coscienza è circoscritta su un numero
limitato di contenuti psichici. Il soggetto appare così intensamente assorto nelle sue
esperienze da precludere ogni rapporto con l’ambiente: al di fuori dell’ambito
consapevole la realtà non è percepita ed elaborata correttamente, ma rimane
inavvertita o è interpretata in armonia al tema coscienziale dominante. Il
comportamento è di solito ordinato nel suo disporsi nei confronti dei contenuti della
coscienza e sovente l’orientamento è conservato. In alcuni stati crepuscolari si può
avere distorsione illusionale dell’ambiente, possono presentarsi turbe allucinatorie,
idee deliranti o intensi stati affettivi cui conseguono comportamenti oggettivamente
inadeguati pur se coerenti nell’ambito ristretto del campo di coscienza. Seguendo Von
Economo, il grande studioso dell’encefalite letargica, gli stati crepuscolari sono dei
residui dello stato di sonno nello stato di veglia. Più tardi, Binder, definirà questi stati
collegandoli ad una diminuzione del tono simpatico, senza che il tono parasimpatico
sia esaltato: uno stato di semi-sonno. Le modalità di insorgenza dello stato
crepuscolare sono di solito improvvise e altrettanto brusco è il ritorno alla normalità
dopo un periodo variabile da pochi minuti ad alcuni giorni o qualche settimana. Non
residua alcun ricordo dell’accaduto. Questo disturbo della coscienza si osserva nella
epilessia, in special modo in quella temporale, ma soprattutto a seguito di gravi eventi
emotivi (bombardamenti, catastrofi naturali).
3) Alterazioni oniriche della coscienza
Rappresentano gli stati in cui maggiore è la compromissione e la disorganizzazione
della coscienza per il venir meno della sua capacità strutturante. La vita psichica si
frantuma, come in molti esordi psicotici acuti. Si possono distinguere varie forme:
a ) Stato crepuscolare onirico o disorientato
Oltre al restringimento del campo della coscienza su un tema ideo-affettivo e al
disorientamento spazio- temporale, si osservano turbe dei processi ideativi che
appaiono frammentati e abnormemente strutturati. Viene meno la capacità di distinguere
tra immaginario e realtà, tra mondo soggettivo e oggettivo; il mondo soggettivo si
proietta nello spazio esteriore sotto forma di immagini e di visioni, senza peraltro
sostituirsi completamente al mondo esterno, di cui certi aspetti più familiari e più
abituali si conservano intatti e si confondono con gli oggetti dell’immaginario. Sono
frequenti i fenomeni dispercettivi sotto forma di illusioni e di allucinazioni.
b) Amenza o stato confusionale (Delirium)
E’ il quadro psicopatologico più grave e complesso tra i diversi disturbi della
coscienza e rappresenta il livello più grave di destrutturazione del normale stato di
coscienza. Al disorientamento spazio-temporale e verso le persone, si aggiungono
disturbi mnesici, compromissione delle funzioni percettive con illusioni e allucinazioni
per lo più visive (per es. falsi riconoscimenti di persone - Sindrome di Capgras). Il
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pensiero è incoerente, frammentario e disarticolato; le reazioni affettive appaiono
abnormi e incongrue (allarme, paura, perplessità, fatui atteggiamenti ludici) Il carattere
distintivo dei deliri è la frammentarietà, con contenuti essenzialmente persecutori. Sul
versante psicomotorio si riscontrano stati di inibizione e di stupore, ma anche stati di
eccitamento, condizionati dalle allucinazioni e dai deliri ed inadeguate alla realtà.
L’amenza si associa sempre a gravi fenomeni vegetativi e ad alterazioni dell’equilibrio
elettrolitico. Infatti, accanto alle alterazioni psichiche si riscontra nella amenza un
insieme di manifestazioni somatiche, evidenti specialmente nelle forme più gravi della
malattia. La più evidente è uno stato febbrile o subfebbrile, insieme alle allucinazioni
molto vivaci e terrifiche, e alla sitofobia. L’aspetto esterno del paziente è tipico:
presenta congiuntive oculari arrossate, labbra secche e screpolate, talvolta eruzioni
erpetiche alle labbra, lingua fuligginosa, rapido dimagramento. Infine vi sono
alterazioni meno appariscenti dei diversi organi interni e dei liquidi organici (sangue,
urina, bile, ecc.). Di queste alterazioni è importante da ricercare l’iperazotemia, i cui
valori normali oscillano fra 0,10 e 0,40 per mille (De Giacomo, Resnik, Pierri, 1980).
Qui non si ritrova più una struttura egoica come centro della coscienza, come
riferimento elettivo del soggetto: la persona confusa non si ritrova come soggetto. Non
c’è ricordo.
c) Stato oniroide
Si caratterizza per una ricca produttività delirante fantastica e per cangianti
fenomeni allucinatori visivi che si mescolano alla percezione corretta della realtà,
rendendo difficile il discernimento tra reale e fantastico. L’orientamento spaziotemporale è sufficientemente conservato; la produzione fantastico-allucinatoria si
accompagna ad intensa partecipazione affettiva più o meno adeguata. Qui l’Io è ancora
punto di referenza del soggetto, si ritrova come io narrante, ma è alterato nella sua
essenza. Le produzioni deliranti cambiano di contenuto con estrema facilità, spesso in
conseguenza di stimoli esterni occasionali. Il paziente è come immerso in uno stato
sognante da cui può essere distolto con difficoltà e partecipa alla sua esperienza con
atti, gesti, grida, recitando il suo ruolo nell’ambito del delirio. Gli stati oniroidi
corrispondono a stati di coscienza definiti dagli psichiatri francesi bouffée deliranti.
Le alterazioni dello stato di coscienza si riscontrano nelle psicosi secondarie a
intossicazioni croniche (alcolismo, ecc.), a malattie infettive, febbrili, a lesioni
cerebrali traumatiche, vascolari, degenerative, ad epilessia (cfr.R.Canger, 1999). Esse
accompagnano talora i disturbi acuti dell’emodinamica cerebrale ( es. insufficienza
cardiaca, tentativi di suicidio per impiccagione, ecc.), le malattie del ricambio (uremia,
insufficienza epatica, prodromi del coma diabetico, ipoglicemia, ecc.) . Una patologia
organica cerebrale costituisce il terreno favorevole alla comparsa dei disturbi della
coscienza a seguito di fattori patogeni acuti, infettivi o dismetabolici (Pierri, 1993). Il
ricordo è al modo del sogno.
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B) Disturbi della coscienza dell’Io
La coscienza dell’Io, secondo Jaspers, indica “il modo” nel quale l’Io è consapevole di
se stesso attraverso la sua attività, unità, identità e contrapposizione al mondo esterno. I
principali disturbi sono:
1) Depersonalizzazione. Tale termine ha acquisito significati non univoci. Nell’accezione
jaspersiana la depersonalizzazione è l’angosciante vissuto che gli eventi psichici non
appartengano più all’Io, ma gli siano estranei e indotti dall’esterno. Il soggetto non
riconosce il suo “personaggio”, lo sente estraneo e lontano emozionalmente. Avverte
un senso di distacco da quanto sta intorno e l’incapacità di provare sentimenti: può
sentirsi “come un robot che cammina nella nebbia” o come un automa. Il numbing
delle emozioni placa l’ansia e scongiura il panico,consentendo al soggetto di
comportarsi in maniera automatica, come se una qualche forza superiore avesse preso
il controllo. Kurt Schneider connota questo disturbo come la perdita del carattere della
“meità”, del concernente il me, dei propri atti e stati psichici. Sentirsi distaccati da se
stessi, accompagnato dalla sensazione di guardarsi dall’esterno e dall’appiattimento
della risposta emotiva è un tipico episodio piuttosto diffuso nella popolazione normale.
Distinguiamo:
-
Depersonalizzazione autopsichica: estraneità dei propri pensieri alla propria
mente;
-
Depersonalizzazione somatopsichica: estraneità di parti del proprio corpo, che
sono percepite come fossero non proprie o distaccate, o appartenenti ad altre
persone;
-
Depersonalizzazione allopsichica: senso di stranezza o d’irrealtà o di “mutamento
pauroso” di tutto il mondo esterno, luoghi e persone.
Si tratta di un’esperienza di solito sgradevole, che si ritrova in: schizofrenia, uso di alcol e
sostanze stupefacenti (allucinogeni in particolare), oppure di farmaci (barbiturici), disturbi
depressivi, disturbo di panico.
2) Derealizzazione, intesa come sentimento di trasformazione della realtà, in cui l’ambiente
circostante appare strano o irreale, non più familiare per l’individuo, le cose intorno
sembrano senza vita, artificiali. Spesso riguarda persone che sono familiari. La si può
pensare come una sorta di jamais vu. Invece della sensazione di dèjà vu, in cui luoghi
e persone nuove ci sembrano familiari, si ha la sensazione opposta: persone e luoghi
che dovremmo conoscere molto bene ci sono estranei. La distinzione tra
depersonalizzazione e derealizzazione si deve a Mayer-Gross, che intuì la dignità
nosologica della derealizzazione, ipotizzando una disconnessione tra aree temporolimbiche e aree visive, considerandola una risposta preformata cerebrale allo stress.
3)Transitivismo: attribuzione ad altre persone di azioni, percezioni e pensieri propri
(schizofrenia)
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4) Appersonazione: autoattribuzione di azioni, percezioni, pensieri altrui.
5) Confusione dell’identità: è una sensazione di incertezza, perplessità o conflitto su chi si è.
Spesso ci si sente come se al proprio interno si svolgesse in modo singolare una
continua lotta per definire se stessi, compresa la propria identità sessuale.
6) Alterazione dell’identità: consiste in un cambiamento nel ruolo o nell’identità della
persona, accompagnato da cambiamenti comportamentali osservabili dagli altri, come parlare
con un timbro vocale diverso o usare nomi diversi.
Tutte queste esperienze rappresentano una forma di distacco dal proprio senso di sé o
dal proprio corpo o dalle proprie emozioni e, spesso, si verificano simultaneamente. Tali
manifestazioni si muovono su un continuum di gravità, che va da una intensità e una
frequenza basse nelle persone cosiddette normali, fino a una intensità e frequenza alte in
coloro che hanno un disturbo dissociativo. Una lieve depersonalizzazione è di solito associata
a stress o rappresenta una conseguenza di situazioni in cui si è esposti a pericoli estremi. Una
depersonalizzazione moderata, non precipitata da eventi avversi o stressanti, si ritrova in una
serie di condizioni psichiatriche. Una depersonalizzazione grave è presente in persone con
PTSD e con disturbi dissociativi.
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4)
IL TRAUMA E LE SUE IMPLICAZIONI
“Non c’è trauma né spavento che non abbia come conseguenza
un accenno di scissione della personalità”
S. Ferenczi (1932)
Il concetto di trauma, in psicopatologia, fa riferimento ad una ferita dell’organismo
psichico per effetto di eventi che vi irrompono bruscamente in modo distruttivo. Non sempre
corrisponde ad un solo evento specifico. Si tratta di un processo attraverso il quale il soggetto
che lo subisce viene ridotto ad oggetto, vittimizzato dalla rabbia dei suoi consimili o dalla
furia della natura. Un evento si definisce traumatico quando minaccia la salute e il benessere
di un individuo, lo rende impotente di fronte ad un pericolo, vìola gli assunti di base della
sopravvivenza ed evidenzia l’impossibilità di controllare e prevedere l’evento stesso. I traumi
si manifestano generalmente come cambiamenti della risposta biologica allo stress (Selye,
1956). Per tamponare gli effetti del trauma, il soggetto deve riorganizzarsi mentalmente e
fisiologicamente e, laddove questo lavoro fallisca, si osserva un’evoluzione psicopatologica,
rappresentata dai disturbi dello spettro traumatico: disturbo acuto da stress, disturbo posttraumatico da stress, disturbi dissociativi. La forza traumatica che l’evento assume per
l’individuo è legata, oltre che alla qualità ed intensità dell’evento stesso, anche allo stato
psichico del soggetto che lo riceve, che può renderne possibile la metabolizzazione, o al
conflitto che, al contrario, ne impedisce l’integrazione con altre parti di sé.
L’introduzione del concetto di trauma psichico si deve a Breuer e Freud, anche se già
Charcot associava la patogenesi delle paralisi isteriche ad un evento traumatico che,
dimenticato nella veglia, poteva riemergere solo attraverso l’Ipnosi. Pierre Janet (Janet, 1889)
postulava che le reazioni emozionali intense mutassero gli eventi in eventi traumatici
interferendo con la loro integrazione negli schemi di memoria preesistenti. Egli riteneva che, a
causa di tale incapacità, i soggetti rimanessero fissati, congelati, sul passato, ossessionati dal
trauma, avendo la sensazione di riviverlo continuamente. Egli riteneva che:
-
il trauma produce una scissione, ovvero una mancanza di sintesi tra funzioni che
normalmente sono invece integrate tra loro;
i ricordi e le idee fisse che si riferiscono al trauma, separandosi dalla coscienza
danno luogo ad una varietà di sintomi isterici;
tutto questo accade a causa di una debolezza congenita della sintesi psichica
(psicoastenia);
l’ipnosi permette di individuare le idee fisse e di risolverle eliminandole o
trasformandole.
Janet definì “dèsagrégation” il meccanismo psicologico col quale un soggetto reagisce ad un
trauma devastante; i ricordi e le idee possono evadere dalla coscienza col risultato di una
ampia varietà di sintomi (percezione alterata del Sé, depersonalizzazione, derealizzazione). La
dissociazione, nell’accezione di Janet, non rappresentava solo una reazione acuta, ma anche
una forma di adattamento al trauma. Anche Freud riteneva centrale, nella trasformazione di un
evento stressante in traumatico, l’incapacità integrativa della coscienza e la tendenza a
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rimanere fissati al trauma: “dopo un grave shock… l’attività onirica riporta continuamente il
paziente indietro alla situazione del disastro, da cui si sveglia con rinnovato terrore… il
paziente ha subito una fissazione fisica al trauma” ma spiegava ciò ricorrendo al meccanismo
di difesa della rimozione. (Breuer & Freud, 1893-1895).
Pavlov coniò il termine “reazione difensiva” per definire il cluster di risposte riflesse
innate alle minacce ambientali. Dopo ripetute stimolazioni ambientali, alcuni stimoli di per sé
non minacciosi, se associati al trauma (stimoli condizionati), diventano capaci di suscitare la
reazione difensiva (risposta condizionata). Pavlov specificava come le differenze individuali
nel temperamento (la base biologica del carattere) potessero spiegare le differenze
nell’adattamento al trauma stesso (Moderato, 1999).
Studi su animali e sull’uomo (Seligman, 1975) hanno evidenziato due tipologie di
reazione ai traumi: l’hyperarousal che può condurre o alla “risposta di attacco o fuga” o alla
dissociazione (defeat response). Nella prima fase di esposizione all’evento si ha una reazione
di allarme, con attivazione del SNC, mediata dal tronco encefalico (locus coeruleus,
ippocampo, asse ipotalamo-ipofisi-surrene), che produce un aumento del rilascio dei livelli
circolanti di adrenalina e degli steroidi dello stress. Da questo tronco comune l’evoluzione
della reazione può proseguire verso l’hyperarousal o deviare verso la dissociazione, nel qual
caso si verifica un incremento del tono vagale ed un coinvolgimento del sistema
dopaminergico (Pierri, 1993). La persistenza dello stimolo traumatico renderebbe permanenti
tali modificazioni neurobiologiche, con il passaggio da alterazioni di “stato” ad alterazioni di
“tratto”, come è documentato da studi condotti su bambini traumatizzati. Tali modificazioni
neurobiologiche hanno come correlato, sul piano psicopatologico, lo sviluppo di una
particolare sensibilità temperamentale nei confronti degli eventi traumatici che, nell’incontro
con un nuovo trauma, potranno nuovamente estrinsecarsi sul piano comportamentale e
psicopatologico. Fondamentale, nel determinare l’esito del trauma, è l’età del soggetto; traumi
nella prima infanzia determinano più frequentemente disturbi dello spettro dissociativo; nella
seconda infanzia o nell’adolescenza, l’evoluzione più probabile è verso il PTSD. Sono state
osservate anche differenze di genere: il sesso femminile più frequentemente prende la via
della dissociazione; quello maschile è più incline alla risposta fight or flight. Affinché si
configuri il trauma, l’evento stressante deve interagire in maniera disadattiva con le strategie
di coping dell’individuo che, se sono inefficienti, determineranno un ricordo intrusivo del
trauma non integrabile in uno schema di sé, perché egodistonico. Protettiva è una buona
resilienza (Casùla C. C., 2004; 2011) che può agire a tre livelli: di adattamento positivo
nonostante l’esposizione ad ambienti ad elevato rischio psicosociale; di funzionamento
competente in presenza di forti fattori stressanti; di processo di recupero da un trauma.
Fra i fattori protettivi rispetto ad un trauma rientrano certamente la solidità e la stabilità
delle relazioni familiari: caregiver stabili, attenti ed affettivamente responsivi gettano le basi
per lo sviluppo di una coscienza coerente, flessibile e aperta ad abbracciare stati della mente
anche molto distanti tra loro (Liotti, 1994; 2001). Un accudimento trascurante, indisponibile e
poco rispondente ai bisogni del figlio, al contrario, contribuirà a generare una coscienza
frammentata, coartata, con un funzionamento limitato ad alcuni stati della mente, predisposta
a collassare in un crescendo emotivo negativo e frammentante (Van der Kolk et al., 2004).
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Oggi siamo in grado di ridimensionare l’importanza del ruolo di un grande evento
traumatico circoscritto, riconoscendo invece l’importanza di screzi di minore entità, la cui
portata patogena risiede piuttosto nella quantità e sistematicità. Già Masud Khan, allievo di
Donald Winnicott, adoperava il concetto di trauma cumulativo per suggerire che subire
quotidianamente transazioni caratterizzate da invalidazione affettiva da parte di figure di
riferimento fosse paragonabile, per gravità, ai traumatismi maggiori (Khan, 1965). Più di
recente, Philip Bromberg (Bromberg, 2009), fra i maggiori esponenti della psicoanalisi
relazionale, utilizza l’espressione di trauma evolutivo, per rimarcare l’inevitabilità e l’ubiquità
delle lacerazioni affettive che determineranno nell’adulto una tendenza alla dissociazione, se
non addirittura il consolidarsi di una mente strutturalmente dissociativa, cioè cronicamente
incapace di rivolgersi intenzionalmente e consapevolmente ad intere porzioni del reale, pena il
collasso delle capacità integrative della coscienza. Bromberg scrive: “il ritiro del genitore
dall’immediatezza della relazione rappresenta un atto di mancato riconoscimento altrettanto
traumatizzante, a volte anche più debilitante del dolore causato da un genitore che perpetra
attivamente un abuso sul bambino”. (Bromberg, op.cit.).
Daniel Stern (Stern, 1987) ha descritto come dentro una relazione, sia essa madrebambino o terapeuta-paziente, possiamo rintracciare i segni delle variazioni dei parametri
fisiologici e comportamentali di base, gli affetti vitali, che riguardano le caratteristiche di
altezza, intensità, durata e frequenza di tutti gli atti verbali, paraverbali e non-verbali, in modo
non molto dissimile dalle minimal cues di noi ericksoniani. Nei primissimi scambi
comunicativi tra madre e bambino, la dinamica processuale degli affetti vitali permette
all’osservatore di decifrare gli atti intenzionali del bambino nei confronti del caregiver. La
capacità di sintonizzazione affettiva del caregiver, ovvero il grado in cui egli riesce a cogliere
e ad utilizzare questi segnali, è funzione della prontezza, della responsività e
dell’appropriatezza dei suoi segnali di risposta. I segnali emessi reciprocamente da bambino
ed adulto si configurano così come veri e propri dialoghi, della durata di alcuni secondi, in cui
il secondo imita i segnali del primo, in una sorta di rispecchiamento. Il rispecchiamento
veicola un riconoscimento sostanziale dello stato interno del bambino, che riceve un
contenimento e un rinforzo a continuare lo scambio; inoltre, aggiunge un elemento di
variazione che veicola implicitamente nella mente del bambino l’esistenza di un “altro-da-sé”.
In una riflessione successiva (Stern, 2005), vero capolavoro di analisi fenomenologica
coerente con le evidenze empiriche fornite dagli studi in ambito evolutivo e neurofisiologico,
il noto professore onorario di Psicologia all’Università di Ginevra e professore di Psichiatria
presso il Medical Center della Cornell University di New York, sosterrà che è proprio nello
scarto esistente tra il rispecchiamento ed un semplice atto di imitazione che si gioca
l’emersione di una coscienza primitiva, preverbale e, ad essa coeva, un’embrionale
consapevolezza intersoggettiva. Un rispecchiamento efficace è quello riconosciuto dal
bambino come atto da parte dell’adulto: deve avere un livello di somiglianza analogica con il
segnale da questi emesso, ed essere prodotto entro un tempo definito. Per essere informativi
ed aumentare la complessità della comunicazione in corso, i due segnali devono essere
somiglianti (ma non troppo) e ravvicinati (ma non troppo). Trasponendo queste osservazioni
nella nostra stanza di terapia, il mirroring, il peacing and leading , e l’intero approccio di
utilizzazione sono vie che mirano ad accordare (Stern parla di “attunement”) gli stati della
mente di terapeuta e paziente, favorendo il passaggio di contenuti percettivi, emotivi,
cognitivi e motivazionali. Lo psicoterapeuta ben formato e capace sarà come uno specchio
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“caldo” per il suo paziente, veicolando in questo l’esperienza di essere riconosciuto. Se è vero
che la salute mentale consiste, parafrasando John Bowlby (Bowlby, 1989), nell’essere liberi di
esplorare, la sicurezza e la fiducia personale necessarie per farlo si costruiscono solo se si è
esposti alla certezza durevole che un posto sicuro (reale o interiorizzato) ove far ritorno sia
sempre disponibile. Scrivono Liotti e Farina: “il terapeuta dovrebbe, idealmente, dimostrarsi
costantemente aperto, sincero, accogliente, calmo, gentile, rispettoso, autenticamente
interessato ed empaticamente sintonizzato con i bisogni del paziente (…) ciò corrisponde a
quello che ogni essere umano desidera ricevere in una relazione d’aiuto e che di norma i
pazienti con trauma relazionale precoce non hanno potuto avere” (Liotti, Farina, 2011).
Liotti e Farina (2011), riprendendo Holmes e coll. (2005), distinguono due modalità
attraverso cui la dissociazione agisce:
-
i fenomeni da distacco (detachment), ossia le esperienze di distacco da sé e dalla
realtà, generalmente causate da emozioni dirompenti in situazioni di grave
minaccia. In questa prima categoria sono presenti sintomi quali la
depersonalizzazione, la derealizzazione, l’anestesia emotiva transitoria e le
esperienza di autoscopia;
-
i fenomeni da compartimentazione (compartmentalization), che sono dovuti alla
suddivisione in una sorta di compartimenti stagni di funzioni superiori come la
Memoria, l’Identità, lo schema e l’immagine corporea, il controllo delle emozioni
e dei movimenti volontari, che normalmente risultano integrate tra loro, i flashback
traumatici, la dissociazione somatoforme (include: sintomi da conversione,
sindromi pseudoneurologiche, dolori psicogeni acuti, dismorfofobie), le alterazioni
del controllo dell’attenzione.
Mentre i sintomi da distacco possono essere vissuti da chiunque si ritrovi a dover affrontare
situazioni estreme, quelli da compartimentazione, riconducibili a storie di vita segnate da
traumi cumulativi, alterano la struttura stessa della personalità. Molti Autori, parlano, in
questi casi, di dissociazione strutturale della personalità.
4.1) John Bowlby e la Teoria dell’Attaccamento
La teoria dell’attaccamento di John Bowlby viene considerata da molti clinici come un
solido ed euristico trait d’union fra differenti orientamenti teoretici ed operativi. Essa è ben
accetta da etologi (Eibl-Eibesfeldt, 1984), psicoanalisti (Ammaniti, Stern, 1992) e cognitivisti
(Safran, Segal, 1990; Liotti, 1994). Nonostante una formazione psicoanalitica ortodossa
(analisi e successiva supervisione con Melanie Klein), Bowlby mantenne vivo uno spirito non
settario che lo condusse ad una pratica che, nella prima metà del Novecento era snobbata o
considerata ridicola e inutile dalla maggioranza degli psicoanalisti: l’osservazione diretta dei
bambini per l’elaborazione di una teoria dello sviluppo e della psicopatologia. Nel
1951pubblica, sotto il patrocinio dell’OMS, “Mental Care and Mental Health”, in cui mostra
l’esistenza di una correlazione fra scadenti condizioni di vita, in particolare la privazione di
adeguate cure materne, e la psicopatologia o quanto meno la sofferenza psichica.
L’ostracismo dei colleghi era legato all’atteggiamento allora indiscusso che relegava in
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posizione marginale le esperienze reali delle persone, concentrando invece l’attenzione sulla
realtà intrapsichica e fantasmatica. All’origine di tale opzione metodologica vi era
probabilmente l’abbandono da parte di Freud della iniziale teoria della seduzione infantile per
quella successiva del complesso di Edipo, evoluzione che Bowlby non esitò a definire un
“disastroso voltafaccia” (cit. in Oliverio Ferraris, 1989). Per Bowlby, l’abbandono, il lutto e il
rifiuto incidono sulla salute mentale ma, non trovando risposte nella tradizione psicoanalitica,
si diresse verso altre fonti. Si ispirò all’etologia, in particolare alla teoria dell’imprinting di
Konrad Lorenz ed agli studi sui macachi rhesus di Harlow. Avvalendosi di collaboratori
capaci, innanzitutto di Mary Ainsworth, alla quale dobbiamo lo sviluppo del concetto di base
sicura, Bowlby parlerà di un comportamento di attaccamento verso una figura che fornisce
sicurezza e protezione, ritenuta in grado di affrontare il mondo in maniera adeguata. Questo
comportamento verso la figura di attaccamento diviene evidente ogni volta che la persona è
spaventata, affaticata o malata, e si attenua quando si ricevono conforto e cure. (Bowlby,
1988). Compito biologico e psicosociale di tale figura è quello di svolgere nei confronti del
bambino il ruolo di una base sicura da cui poter partire per esplorare il mondo esterno, e a cui
possa ritornare, sapendo con certezza che sarà il benvenuto, nutrito sul piano fisico ed
emotivo, confortato se triste, rassicurato se spaventato. Questo ruolo consiste nell’essere
disponibili e pronti a rispondere quando chiamati in causa, indipendentemente dal proprio
genere sessuale, ma intervenendo solo quando è chiaramente necessario (Bowlby, 1988). Il
comportamento di attaccamento, frutto dell’evoluzione per la sopravvivenza della specie, non
viene considerato da Bowlby l’unico nucleo motivazionale, ma spartisce il suo dominio con
almeno altri tre sistemi motivazionali: i sistemi paura/cautela, esplorativo ed affiliativo
(Bowlby, 1969) .
Il primo dispositivo elaborato per evidenziare le differenti modalità o patterns con cui
si esplica il comportamento di attaccamento umano è la Strange Situation (Ainsworth, Blehar,
Water, Wall, 1978). Consiste in una procedura sperimentale interamente videoregistrata
composta di otto fasi dove si alternano la separazione, la solitudine, il ricongiungimento fra
un bambino, la figura di attaccamento e lo sperimentatore. La modalità con cui viene gestito
lo stress da separazione è la variabile che permetterebbe di inferire le “rappresentazioni
interne” delle relazioni di attaccamento, ed in particolare “ le differenze individuali nei
modelli procedurali del Sé e della figura di attaccamento” (Crittenden, 1994). Molto
sinteticamente, la Strange Situation ha evidenziato quattro principali modelli di attaccamento:
uno sicuro (B), due insicuri – l’insicuro evitante (A) e l’insicuro ambivalente (C) – ed uno
disorganizzato (D).
Per i soggetti adolescenti ed adulti è stata creata la Adult Attachment Interview
(Crittenden, 1999). Questo strumento permette di classificare lo stato mentale di un adulto in
relazione alla sua storia di attaccamento, valutando in particolare la coerenza fra emozioni e
pensieri. La Strange Situation e la Adult Attachment Interview tendono a mettere in rilievo
modelli di attaccamento omologhi, laddove quelli presenti nell’infanzia tenderebbero ad
esitare in quelli strutturalmente identici dell’età adulta.
Nell’attaccamento sicuro, il bambino protesta per la separazione dalla madre e viene
prontamente confortato dal loro ricongiungimento. Quando la madre è presente, il bambino
può giocare liberamente o esplorare l’ambiente. La configurazione omologa dell’Adult
Attachment Interview è la configurazione autonoma, contraddistinta dal libero accesso alla
20
propria storia di attaccamento, permesso dalla coerenza di tutti i sistemi di memoria:
procedurale, iconica, semantica ed episodica.
II modelli insicuri sono legati generalmente all’intrusività, al rifiuto e alla
inadeguatezza delle cure. Il bambino si trova nella condizione di dover gestire il proprio stato
emotivo non trovando nella figura di attaccamento un supporto adeguato. Nell’attaccamento
insicuro-evitante il bambino non piange al momento della separazione e tende ad evitare la
figura di attaccamento al momento del ricongiungimento. Il bambino impara quindi ad essere
falsamente autosufficiente e ad esprimere la rabbia in modo inappropriato. La configurazione
omologa dell’Adult Attachment Interview è la distanziante; il soggetto tende a svalutare
l’importanza delle proprie esperienze di attaccamento, a raccontare eventi coinvolgenti in
modo freddo e distaccato, a svalutare l’altro o, all’opposto, ad idealizzarlo. Nell’attaccamento
insicuro-ambivalente, il bambino protesta con angoscia alla separazione, condizione che non
viene eliminata dal ricongiungimento. Il bambino appare inibito nel gioco, alternando rabbia
ed accondiscendenza verso una figura di attaccamento percepita come imprevedibile. La
configurazione omologa dell’Adult Attachment Interview è quella preoccupata: questi
individui manifestano eccessivo coinvolgimento nel racconto della propria storia di
attaccamento, raccontata con molte incoerenze e destando nell’ascoltatore l’impressione che
non abbiano ancora raggiunto l’autonomia adulta (Lorenzini, Sassaroli, 1995).
L’attaccamento disorganizzato si evince dalla difficoltà ad esibire un comportamento
tendente ad un fine. Questi bambini mostrano invece comportamenti incoerenti, paradossali,
di freezing, stereotipie, di irrigidita vigilanza e iperallerta (Ammaniti, Stern, 1992; Bowlby,
1988; Liotti, 1994; Rezzonico, Ruberti, 1996). La funzione di accudimento entra in empasse
perché sono contemporaneamente attivati sia il bisogno di approccio che quello di fuga dal
genitore. Questo modello si ritrova in presenza di figure di accudimento che sono state
oggetto di traumi, gravi lutti o maltrattamenti in generale. Il modello omologo nell’Adult
Attachment Interview è quello irrisolto, tipico delle persone impegnate nella elaborazione di
gravi eventi traumatici o luttuosi o con disturbi affettivi maggiori (Main, Hesse, 1992). Nei
primi anni di vita gli eventi traumatici vengono memorizzati in termini essenzialmente
procedurali e viscerali, con ridotte componenti visive e sono, fin dall’inizio, dissociati dallo
stato ordinario di consapevolezza, in quanto costituitisi all’interno di stati di coscienza
modificati in concomitanza ad esperienze gravemente traumatizzanti.
I deficit di sintonizzazione affettiva della figura di attaccamento possono produrre
scadenti capacità di gestione delle emozioni. Le emozioni infantili, esperite inizialmente in
termini essenzialmente somatici, per essere veicolate adeguatamente, hanno bisogno di essere
espresse verbalmente in un contesto interpersonale dove una figura di attaccamento funga da
base sicura. Interferenze a questo livello possono portare ad un disconoscimento del mondo
emotivo e alla difficile integrazione fra elementi somatici, emotivi, cognitivi e
comportamentali.
21
4.2) Dal modello diatesi/stress alla teoria della suscettibilità genetica differenziale
In un lavoro del 2010, Giuseppe Ducci (Ducci, 2010) ha rimarcato il ruolo della
terapia esperienziale nel favorire una diversa espressione dei geni regolatori del
comportamento.
La
costruzione
del
contesto
di
cambiamento
affettivo/emozionale/immaginativo risulta essere l’elemento più rilevante di una riuscita
terapia, non solo ericksoniana. L’intero strumentario ipnotico (le suggestioni, le metafore,
ecc.), la trance stessa ed i fenomeni ad essa correlati, avrebbero soltanto la funzione di
costruire uno spazio psichico nel quale il paziente, proprio in virtù della modificazione dello
stato di coscienza, può fare esperienza concreta di cambiamento.
Il modello della vulnerabilità ha certamente modificato la nostra visione di molti
disturbi psichici, che vengono spiegati oggi non come un prodotto della natura o della
cultura, ma come il risultato di una serie di interazioni tra gene e ambiente; i geni non ci
condannano ad avere questo o quel disturbo, ma se possediamo la versione “cattiva” di questi
geni e la vita ci tratta male, tendiamo a soffrirne.
Il disagio o il disturbo non sono quindi funzione solo dei nostri geni, ma della presenza
variabile di fattori protettivi e fattori di rischio. La maggior parte degli studi è stata condotta
da persone che si occupano di malattie mentali e sono interessate soprattutto alla vulnerabilità
ad esse (Belsky et al, 2007). Sebbene la genetica comportamentale si sia a lungo concentrata
sulle disfunzioni, assai più recentemente, da questa ipotesi ne è emersa un’altra, per la quale è
un errore considerare i geni rischiosi solo come uno svantaggio: se in un contesto sfavorevole
questi geni possono provocare disfunzioni, in un contesto favorevole potrebbero anche
rivelarsi preziosi. Se in campo somatico la persistenza dei geni disfunzionali è una delle prove
più significative della teoria dell’evoluzione, per la psichiatria biologica moderna l’ipotesi di
una suscettibilità genetica differenziale rappresenta una novità.
Come hanno sottolineato Ellis e Boyce (2008), gli psichiatri svedesi parlano da tempo di
bambini soffione. I bambini soffione sono sani e normali, dotati di geni elastici che
permettono loro di cavarsela bene quasi ovunque, sia che crescano nell’equivalente di una
crepa nel marciapiede, sia in quello di un giardino ben curato. Ci sono però anche bambini
orchidea, i quali, se ignorati o maltrattati, appassiscono, ma se invece vengono coltivati in
serra, fioriscono in modo spettacolare. La nuova ipotesi, che chiameremo teoria
dell’orchidea, non è semplicemente una aggiunta a quella della vulnerabilità, non significa
semplicemente che l’ambiente e l’esperienza possono spingere una persona in una direzione o
nell’altra. In realtà è un modo completamente nuovo di vedere la genetica e il comportamento
umano. Il rischio diventa potenzialità, la vulnerabilità diventa plasticità e sensibilità.
Alcune varianti genetiche di solito considerate sfortunate – si pensi al DRD4 VNTR,
Dopamine D4 receptor polymorphism, un allele di rischio (allele = variante di un gene
polimorfico) che aumenta la tendenza a soffrire di determinati disturbi psichiatrici, dell’umore
o della personalità – possono essere interpretate come scommesse evolutive che implicano
forti rischi, ma offrono anche la possibilità di grandi successi. Secondo questa ipotesi, avere
sia figli soffione sia figli orchidea fa aumentare le possibilità di successo di una famiglia – e
di una specie – nel corso del tempo e in qualsiasi ambiente. La varietà di comportamenti di
questi due caratteri garantisce esattamente quello di cui ha bisogno una specie forte e
22
intelligente se vuole diffondersi e dominare un mondo in evoluzione. I soffioni garantiscono
la morfostasi, ovvero la stabilità di una popolazione. Le orchidee, che sono meno numerose,
possono trovarsi in difficoltà in alcuni ambienti, ma eccellere in quelli che gli sono più
congeniali, garantendo la morfogenesi. Anche se hanno un’infanzia travagliata, la maggiore
reattività dei bambini orchidea, la loro continua ricerca di novità, i comportamenti
esternalizzanti come l’irrequietezza, le difficoltà di concentrazione, l’aggressività, in certe
situazioni si rivelano utili. Messi insieme, gli stabili soffioni e le irrequiete orchidee
assicurano una flessibilità adattiva che nessuno dei due potrebbe garantire da solo, ottenendo
risultati individuali e collettivi altrimenti irraggiungibili. Da più di quindici anni i sostenitori
dell’ipotesi della vulnerabilità dicono che alla base di almeno alcuni dei problemi più
angosciosi per l’umanità – disperazione, crudeltà a tutti i livelli, alienazione – ci sono certe
varianti specifiche dei geni. La teoria dell’orchidea accetta questa tesi ma aggiunge,
provocatoriamente, che quegli stessi geni sono anche responsabili dello straordinario successo
della nostra specie. La teoria dell’orchidea, detta anche della plasticità, della sensibilità o
della suscettibilità genetica differenziale, anche se recente, raccoglie un consenso crescente
nella comunità scientifica internazionale. I limiti di spazio di questa dissertazione non
consentono di dilungarsi sulle prove sperimentali reperibili altrove. Si segnalano tuttavia
alcuni interessanti esperimenti riportati in bibliografia (Bakermas-Kranenburg et al. 2008;
Belsky, et al., 2007; Caspi & Moffit, 2006). Gli esperimenti condotti da Suomi (2003, in
Ducci, 2010) spiegano la permanenza degli alleli di rischio nel corso dell’evoluzione. Noi
siamo sopravvissuti non malgrado quegli alleli, ma proprio grazie a loro. Quegli alleli non
sono semplicemente sfuggiti al processo di selezione: sono stati volutamente selezionati.
Molti alleli dei geni orchidea sarebbero emersi negli esseri umani solo negli ultimi 50.000
anni, e ognuno è nato da una mutazione casuale in una sola o in poche persone e poi si è
diffuso rapidamente. Le scimmie rhesus e gli esseri umani si sono staccati dalla loro stirpe
comune circa 25 o 30 milioni di anni fa; quindi questi polimorfismi devono essersi creati e
diffusi separatamente nelle due specie, rivelandosi utili per entrambe. I comportamenti
variano in base al contesto; se ci sono troppe persone aggressive, scoppiano continui conflitti,
e l’aggressività viene rimossa perché è troppo rischiosa per la società. Quando si riduce al
punto da essere meno rischiosa, l’aggressività diventa un tratto prezioso e si diffonde
nuovamente.
Nello stesso lavoro del 2010, Ducci rimarca come lo stesso discorso della permanenza
dei geni apparentemente disfunzionali potrebbe valere per il polimorfismo valinavalina/metionina-metionina dell’enzima COMT (catecol-O-metiltransferasi), implicato nella
genesi della schizofrenia, anche se non esistono ancora sufficienti dati in proposito. Rimane
una ed una sola evidenza incontrovertibile: la vita si dipana nell’ignoranza della sua stessa
ragione di esistere, rispondendo ad un unico imperativo categorico: preservare!
23
5) IL CONCETTO DI DISSOCIAZIONE NEL SUO SVILUPPO STORICO
Il termine dissociazione viene introdotto da William James (James, 1890) per indicare il
meccanismo per il quale alcuni complessi ideo-affettivi, spesso estesi al punto tale da
costituire una sorta di seconda personalità, possono restare scissi o segregati dalla personalità
cosciente. Nei “Principi di Psicologia” (1901), James racconta il caso del reverendo Ansel
Bourne affetto da personalità multipla e faceva riferimento al termine dèsagrégation utilizzato
da Pierre Janet per indicare la “dissociazione isterica”, intesa, dal filosofo e medico francese,
come “debolezza della sintesi psicologica” (misère psychologique). Negli Studi sull’isteria
(1893-1895), Breuer e Freud elaborano una teoria della dissociazione che prevedeva, per la
genesi del sintomo, la rimozione, cioè una repressione attiva da parte del soggetto del
materiale traumatico; per loro la dissociazione viene a coincidere con il concetto di
“rimozione” che non ha a che fare con un’insufficienza o “debolezza psichica” ma, al
contrario, con un “eccesso di efficienza”, una sovraprestazione di tal energia per la
coesistenza “impossibile” di due serie eterogenee di rappresentazioni. Se, dunque, l’ipotesi di
Janet era fondata su un modello psicopatologico passivo, di deficit dell’Io, la teoria freudiana
della rimozione prevedeva un modello di formazione del sintomo basato su un conflitto
psicodinamico attivo. Ad ogni modo, a partire dagli studi di Janet e di Freud, si fa strada la
concezione di un legame tra trauma e dissociazione. Il trauma, interagendo con una struttura
debole, produce una riduzione dell’energia psichica che mantiene integrate le varie funzioni
della personalità, con successiva “degenerazione” di questa (la dèsagrégation di cui parlava
Janet), oppure un’eliminazione attiva dalla coscienza del ricordo del trauma (la rimozione
freudiana). Mentre il meccanismo della rimozione rimanda ad un modello pulsionale e al
concetto di contenuti inconsci profondi e non accessibili, quella della dissociazione può essere
considerato come un meccanismo di difesa basato sulla esclusione selettiva dell’informazione
dall’elaborazione cosciente. L’ipotesi di Janet venne ulteriormente elaborata da Morton
Prince, che introdusse il concetto di co-conscio proprio per sottolineare come quei sistemi
ideo-affettivi, di cui l’individuo è inconsapevole, rimangano attivi – sebbene posti a latere – e
caratterizzino dei processi mentali che proseguono parallelamente a quelli coscienti. Il
concetto di “co-coscienza” di Morton Prince riporta alla luce la differenza delle idee di Pierre
Janet da quelle di Sigmund Freud. Anche Binet (1890), nel suo libro “On double
consciousness”, riprenderà il concetto di désegrégation di Janet, per riportarlo allo psichismo
normale. Traducendola nell’inglese dissociation, diventerà una modificazione dell’attività
della coscienza attivabile in ognuno mediante l’ipnosi. Con Binet la dissociazione viene
intrinsecamente associata all’ipnosi, che è contemporaneamente strumento e campo di
indagine. Lo studio dell’ipnosi si svilupperà prevalentemente negli USA. Nel suo cammino di
emancipazione da pratica oscura e magica a tecnica terapeutica medica avanzata, si possono
riconoscere due distinte posizioni, non in contrapposizione. L’una, che fa principalmente
riferimento a Hilgard, Orne e Weitzenhoffer, vedrà l’ipnosi come strumento di indagine
sperimentale – ed è quella più vicina e più cara ad una visione cognitivista; l’altra, che conta
tra gli altri su Ross, Bliss, Rossi, ma soprattutto su Milton Erickson, si muove in una
prospettiva clinico-terapeutica ed enfatizza la relazione.
24
Più o meno nello stesso periodo di James, la dissociazione della coscienza di Janet
diventerà dissociazione ideoaffettiva con Bleuler tanto che poi l’evoluzione del concetto di
dissociazione, almeno in Europa, si allontanerà dalla coscienza fino ad identificarsi con la
schizofrenia, la forma più grave di psicosi. Gli psicopatologi europei, tedeschi in particolare,
utilizzeranno con Bleuler il termine Spaltung per indicare la “scissione” tipica del pensiero
schizofrenico. Nella nozione bleuleriana di schizofrenia come sindrome dissociativa
confluivano anche tutte le psicosi isteriche: “Quando un paziente isterico diventa psicotico,
egli di fronte a me non è affatto un isterico, ma uno schizofrenico”(Bleuler, 1911). Più
esattamente, per Zerspaltung si intendeva il fenomeno dell’allentamento delle associazioni e
della disgregazione del processo mentale dell’individuo affetto da schizofrenia; per Spaltung
la successiva formazione e stabilizzazione di nuovi gruppi associativi, il più delle volte
bizzarri e dominati da complessi ideoaffettivi. Nella stessa accezione (Niolu, 2010), si parlava
allora di scissione dell’Io (Ichspaltung), dell’oggetto (Objektspaltung), della coscienza
(Bewusstsein-Spaltung). Eugen Bleuler (1911) è indissolubilmente legato alla schizofrenia per
aver coniato per questo disturbo mentale un termine elegante e scevro da gravi implicazioni
destinali, seppur gravato da pregiudiziali teoriche traslate dagli studi associazionistici allora di
attualità. Sostituendo il termine kraepeliniano dementia praecox con quello di schizofrenia,
Bleuler intendeva infrangere la posizione dogmatica che la psicosi schizofrenica dovesse
essere inguaribile per principio (cfr. Weitbrecht, 1963) ma, in realtà, si mantenne molto cauto
sostenendo che la malattia, pur potendosi arrestare e regredire in ogni stadio non consentisse
una completa restitutio ad integrum. Secondo alcuni (Janiri e coll., 2014) la ridefinizione da
parte di Bleuler della dementia praecox con il neologismo “schizofrenia” sarebbe all’origine
delle confusioni terminologiche tra le forme dissociative isteriche e la dissociazione della
gravissima psicosi endogena.
Durante un entusiasmante Convegno tenutosi a Parma il 13 novembre 2002, in presenza di
un nutrito consesso di scienziati e qualche giovane studente di psicologia atipico - fra cui chi
scrive - Carlo Maggini espresse con convinzione che:“con il termine schizofrenia, Bleuler
rifiutò la concezione kraepeliniana che fondava sul criterio evolutivo l’unitarietà nosologica
e la diagnosi di quadri sintomatologici eterogenei e ad esso sostituì il criterio
psicopatologico del disturbo fondamentale che, sulla scia della psicologia associazionistica
allora prevalente, ritenne di individuare nella perdita di coesione strutturale della
personalità la frattura e la dissociazione delle varie funzioni psichiche”. Con lo spostamento
del centro di gravità del processo diagnostico dal decorso al quadro sintomatologico, Bleuler
si propose infatti di individuare i sintomi di maggior rilievo diagnostico (sintomi
fondamentali) rispetto a quelli che, pur frequenti ed eclatanti, riteneva secondari (sintomi
accessori). In altre parole, diversamente da Kraepelin, che era abbastanza restìo ad
avventurarsi in speculazioni teoriche, Bleuler si era proposto di prospettare una teoria dei
sintomi, più che un nuovo approccio diagnostico alla malattia. I sintomi fondamentali erano
espressione di un ipotetico processo somatico cerebrale ( << … alterazione delle associazioni,
dell’affettività, … tendenza a dare più importanza alla fantasia che alla realtà e … tendenza
ad isolarsi in un mondo fantastico- autismo >>); i sintomi accessori, invece, rappresentavano
la conseguenza dei tentativi di adattamento ai disturbi primari ( << … le allucinazioni e le
idee deliranti … i disturbi della memoria e le trasformazioni della personalità… i sintomi
catatonici >>.
25
Come sostenuto dal figlio Manfred (M. Bleuler, 1984), con la distinzione sintomi primarisintomi secondari - e la ricerca di senso di questi ultimi - che considerava l’espressione
diretta o simbolica della vita interiore del paziente, Bleuler inaugurò l’approccio psicologico
alla schizofrenia. La distinzione tra sintomi primari e sintomi secondari ebbe vita breve; nel
1926, nella relazione tenuta al Congresso degli Alienisti e Neurologi di Francia, di Ginevra e
di Losanna, Bleuler abbandonò ogni speculazione relativa al rapporto tra processo morboso e
sintomatologia, alla base di detta distinzione, e parlò solo di sintomi diagnostici: sintomi
cardinali e sintomi accessori.
Kurt Schneider (1950), poi, seguì Bleuler sulla priorità della diagnosi di stato rispetto alla
diagnosi basata sul decorso di Kraepelin, il quale aveva comunque descritto casi a decorso
favorevole che non esitano in demenza. Tuttavia, Schneider, che si muoveva nel solco della
psicopatologia fenomenologica jaspersiana, contrappose ai sintomi fondamentali (o cardinali)
di Bleuler - di non agevole identificazione in quanto si pongono lungo un continuum con i
fenomeni normali – fenomeni ben distinti, tutto o nulla, nettamente patologici, sintomi “ la
cui comprensione concettuale e il cui riconoscimento clinico non presentino difficoltà
eccessive” (Schneider, op.cit.). Schneider, inoltre, considerò i sintomi cardinali bleuleriani un
semplice postulato teorico; stigmatizzò il concetto di disturbo dissociativo come “ vago ed
ambiguo” e considerò la speculazione teorica dei sintomi-primari e secondari “non del tutto
chiara”. Per Schneider, mancava il primum movens. Ciononostante, le conseguenze cliniche e
medico-legali del modello diagnostico di Bleuler sono state rilevanti soprattutto negli Stati
Uniti in cui la schizofrenia negli anni ’60 del secolo scorso finì per essere considerata non
una, ma la malattia mentale tout court. Con le parole di Silvano Arieti (Arieti, 1983), “la
competenza e la capacità clinica dello psichiatra veniva giudicata dal numero di casi di
schizofrenia che era in grado di diagnosticare”. Il ricorso estensivo a questa diagnosi fu
accolta con una certa cautela dalla psichiatria europea che continuerà ad avvalersi del criterio
evolutivo kraepeliniano come ineludibile ancoraggio diagnostico (Andreasen & Akiskal,
1983) e di cui sono permeate tanto le varie edizioni del DSM che l’ICD-10. Shitij Kapur (2003)
è stato uno dei primi autori a descrivere interessanti scenari della psichiatria contemporanea in
cui interpretazioni neuroscientifiche e fenomenologiche della mente coesistono. In particolare
a lui si deve il concetto di salienza aberrante come via di interpretazione del fenomeno
psicotico. Secondo il modello di Kapur, il sistema mesolimbico dopaminergico rivestirebbe
un ruolo importante nell’attribuzione della “salienza”, che è il processo per mezzo del quale
avvenimenti, percezioni e pensieri catturano l’attenzione del soggetto e generano
comportamenti finalizzati secondo le leggi comportamentali di “ricompensa” e “punizione”
(concetto di “salienza motivazionale”). In corso di psicosi la disregolazione della dopamina
nel sistema mesolimbico genererebbe un aumento di “salienza” ovvero un eccesso di
attribuzione di significato a stimoli altrimenti ritenuti neutri che si trasformerebbero in entità
avverse, pericolose o misteriose che portano il paziente ad attuare sforzi interpretativi
“aberranti” e, di conseguenza, scorretti sul piano della normale percezione della realtà e del
suo rapporto con le nostre capacità di analisi. In questo modello i sintomi deliranti o
allucinatori costituiscono un instabile tentativo, che Shitij Kapur definisce “Top-Down”,
mediante il quale un soggetto psicotico tenta di spiegare le proprie esperienze secondarie allo
stato di salienza aberrante. In altre parole i contenuti deliranti ed allucinatori sarebbero il
risultato del tentativo di comprendere “esperienze di relazione con alterate attribuzioni di
significato del reale” mediante l’applicazione dei normali processi del ragionamento logico.
26
Nell’accezione data dalla psicologia cognitivista e nella ricerca psicologica statunitense,
invece, il termine dissociazione, inteso come disorganizzazione, assume un significato attivo,
in cui i diversi Io, o le diverse personalità non integrate tra di loro, nel senso di dissociate,
hanno vita autonoma e un “potere decisionale” attivo nella vita psichica del soggetto. Sulla
scia inaugurata da William James, l’espressione dissociazione si trova spesso collegata a
lavori sul trauma, sull’isteria, sull’ipnosi, sulle personalità multiple (l’odierno Disturbo
Dissociativo dell’Identità). Rivisitando il sinonimo cui Janet si riferiva per dissociazione,
désagrègation, si sono mossi in tal senso tutta una serie di studi longitudinali attraverso i quali
si è cercato di identificare l’impatto del trauma sulla dissociazione fisiologica e patologica,
sull’ipnotizzabilità, sull’assorbimento dell’attenzione e l’inclinazione alla fantasia. Oggi
siamo concordi nel ritenere che la vita mentale possa essere composta da esperienze
frammentarie continuamente integrate nella costruzione della coscienza e del Sé, e che tale
tendenza all’integrazione possa essere disturbata sia in risposta ad eventi psicologicamente
traumatici che come conseguenza di modelli rappresentativi multipli e non integrati di sé e
degli altri (Liotti,1993; 2005).
I Disturbi Dissociativi furono ufficialmente riconosciuti come disturbi psichiatrici nel
1980, con la pubblicazione del DSM-III. Antecedentemente alla pubblicazione di questa
edizione del Manuale, venivano compresi fra le “nevrosi isteriche”. Da allora in poi,
l’esistenza dei DD è stata spesso messa in discussione da molti nel campo della psichiatria e
tale diagnosi sovente non viene utilizzata da alcuni medici (Brand, et al., 2009).Nonostante la
convinzione di alcuni psichiatri che questi disturbi siano molto rari e di altri che persino
dubitano della loro esistenza, prevalgono stime che vanno dal 12% al 18% dei pazienti
ambulatoriali (Myrick et al, 2012). Allen e Smith (1993) rimarcano come i DD
rappresenterebbero un tentativo da parte dell’individuo di “impedire uno schiacciante
allagamento della coscienza da parte degli aspetti più terrificanti di un trauma”. La
dissociazione può presentarsi in modi differenti a seconda di ciascun individuo e avrebbe una
significativa efficacia adattiva. Quando un individuo esperisce un trauma, la dissociazione è
un tentativo per sopravvivere, tollerare, fuggire consapevolmente o adattarsi alla situazione.
Quando la dissociazione da semplice difesa temporanea diviene un disturbo? Una volta che
l’individuo ha appreso a dissociarsi nel contesto di un trauma, egli può trasferire la propria
reazione in altre situazioni e in altre circostanze che richiamino aspetti del trauma primigenio.
E’ a questo punto che la dissociazione destabilizza l’adattamento e diviene patologica.
Il Disturbo Dissociativo dell’Identità è una diagnosi controversa all’interno dei
professionisti che si occupano di salute mentale (Gillig, 2009). Si caratterizza dalla presenza
di due o più identità distinte o stati di personalità, ognuna con il proprio modello
relativamente duraturo di percezione, di relazionarsi, di pensare a sé stesso e all’ambiente che
lo circonda che alternativamente prende il controllo sul comportamento della persona
rendendola incapace di richiamare importanti informazioni personali in maniera diversa da
una normale dimenticanza (DSM-IV-TR). Il DDI non è provocato dalla assunzione di alcool,
uso di altre sostanze o da condizioni mediche particolari. Si tratta di un disturbo complesso
che ingloba sintomi post-traumatici, somatoformi e depressivi. Raramente esclude ulteriori
patologie psichiatriche in comorbilità, in larga parte perché gli effetti di un trauma sono
diversi. Le identità o le personalità alternative possono avere una minima conoscenza l’una
27
dell’altra, anche se la personalità principale, di solito, non ne riconosce la presenza. Gli stati
di personalità possono variare da 1 a 50, ma la media è di 13 stati.
Myrick et al. (2012) hanno riferito che nonostante la maggior parte degli studi riguardino
pazienti con età uguale o superiore ai 35 anni, anche popolazioni di pazienti più giovani
presentano frequentemente importanti sintomi dissociativi. Putnam (1997) riferisce che le
prime esperienze di maltrattamento possano esitare diversamente in individui diversi. A parità
di qualità e gravità dei maltrattamenti, gli effetti dipenderanno anche dallo stile di
attaccamento, e dalla presenza o meno di supporti sociali ad anche se l’abuso avviene nelle
prime fasi di sviluppo.
L’analisi dei DDI nel DSM-5 include l’uso di una scala Likert di verifica da sottoporre al
paziente con le seguenti affermazioni:
-
Mi trovo a fissare il vuoto e a non pensare a nulla.
-
La gente, gli oggetti o il mondo intorno a me sembrano estranei o irreali.
-
Trovo di aver fatto cose che non ricordo di aver fatto.
-
Quando sono solo parlo ad alta voce con me stesso.
-
Mi sento come se stessi guardando il mondo attraverso una nebbia, così che le
persone e le cose sembrano lontane o poco chiare.
-
Sono in grado di ignorare il dolore.
-
Mi comporto in maniera così diversa da una situazione all’altra che è come se io
fossi due persone differenti.
-
Riesco a fare facilmente cose che per me di solito sono difficili.
La prevalenza dei DD è prossima al 2,4% nella popolazione dei paesi industrializzati, mentre
per il DDI, la prevalenza è vicina all’1%. Il rapporto tra i sessi è 1:1 (Brand et al., 2012).
28
5.1) Interdipendenza tra Trauma e Memoria
L’amnesia, nella dissociazione, non cancella il ricordo del trauma; lo sposta dalla
consapevolezza all’inconsapevolezza. In molte condizioni l’amnesia è naturale o persino
necessaria. Se alla mente venisse costantemente richiesto di processare nella memoria, a
livello conscio, tutti i dati accessibili, il risultato sarebbe un sovraccarico di stimoli. Senza
capacità di oblio, infatti, sarebbe quasi impossibile vivere e la capacità di dimenticare si rivela
altrettanto preziosa quanto quella di ricordare. (F. Rovetto, Conversazioni del martedì sera,
Autunno 2000). La Memoria può essere considerata la parte più essenziale della coscienza
umana perché abbiamo bisogno di mantenere una memoria continua degli eventi per poter
attribuire loro significati. La Memoria è il linguaggio dell’identità, poiché il senso di sé si
costruisce attorno alla propria storia personale; l’immagine di noi stessi si fonda in larga parte
sul ricordo della storia degli eventi, delle relazioni e delle convinzioni personali, ma anche
sull’attesa di un certo tipo di risposta alle situazioni sulla base della propria esperienza
passata. La Memoria, nei primi tre anni di vita è frammentata. Di regola, non ricordare la
propria infanzia prima dei tre anni è considerato un fenomeno normale. Le esperienze infantili
sono codificate nella prima forma pre-linguistica e pre-verbale e, di solito, non possono essere
recuperate dall’adulto la cui modalità di codifica è per lo più di tipo linguistico, la più elevata
dal punto di vista evolutivo. L’amnesia, come tutti i sintomi dissociativi, nasce, quindi, come
difesa sana contro il sovraccarico psicologico. Spesso l’amnesia implica una distorta
percezione del tempo trascorso. Fra le strategie di compensazione adottate dalle persone con
amnesia cronica, allo scopo di mantenere il lavoro e per non compromettere le relazioni
interpersonali, ricordo la confabulazione: inventare ricordi per “colmare” lacune nella
memoria.
Il processo fondamentale che contribuisce all’amnesia nei disturbi dissociativi è
conosciuto come apprendimento stato-dipendente (Laub & Auerhahn, 1993; Joseph, 1999;
Perry B.D., Conroy L., Ravitz A., 1991) che trova il suo correlato in una ipotesi di Ernest
Rossi (Rossi,1987). Rossi ha ipotizzato che il sistema limbico-ipotalamico, un insieme di aree
corticali e sottocorticali preposte principalmente alla elaborazione emotiva, ma che svolgono
anche un ruolo importante nei processi di apprendimento, memorizzazione e vigilanza,
nonché nel controllo dei comportamenti legati allo stato (State Dependent Memory Learning
Behaviour), attivi dei pattern che possono essere resi utilizzabili in terapia, per codificare i
sintomi e modificarli. Secondo questa ipotesi, l’informazione codificata in un certo stato
mentale viene recuperata più facilmente in uno stato successivo se ci si trova nello stesso
stato. Per es., apprendimenti avvenuti sotto l’influsso di alcool o di un farmaco possono non
essere disponibili quando il soggetto non si trova più sotto l’effetto di tali sostanze, ma
possono essere facilmente ritrovati quando il soggetto è di nuovo in stato di ubriachezza o
sotto l’influsso del farmaco.
Anche per Erickson (1980) la trance è un’esperienza legata allo stato. Normalmente, egli
dice, il senso di realtà, la nostra salute mentale ed il nostro benessere sono determinati dal
modo in cui impariamo a reagire a quanto si presenta spontaneamente alla soglia della
coscienza (immagini, sensazioni, emozioni, sogni e associazioni).
29
Nella trance sono alterati gli schemi abituali di controllo e direzione, mentre la
funzione osservatrice dell’io si conserva a livello variabile. La semina, con la caratteristica di
essere una incisiva suggestione indiretta associativo-dissociativa, consentirebbe al paziente di
accedere e di utilizzare per il cambiamento i patterns stato-dipendenti, altrimenti definiti da
Erickson come apprendimenti esperienziali.
Se una persona che sperimenta un trauma si dissocia in stati separati della mente,
ricordi diversi diventeranno disponibili per quella persona in momenti diversi. I dati codificati
in uno stato non saranno disponibili quando la persona si trova in un diverso stato psicologico.
L’incapacità di integrare i ricordi traumatici fa sì che la persona rimanga fissata al momento
del trauma e compromette l’integrazione di nuove esperienze. In maniera provvidenziale la
dissociazione altera la realtà ma permette anche alla persona di stare in contatto con essa in
modo che possa trovare una soluzione. Questa dualità è evidente nelle metafore che le persone
utilizzano per descrivere i loro sentimenti di distacco dalla realtà durante gli episodi
dissociativi: “era come”, “come se”, “vedevo accadere tutto intorno a me come fossi uno
spettatore di un film”,ecc. Ripetute esposizioni a situazioni paradossali, in cui il caregiver,
invece di dare protezione al bambino, è egli stesso causa della sua paura, provocano
esperienze di autoipnosi (Liotti, 1992). I ricordi del trauma restano inaccessibili alla coscienza
fino all’età adulta, perché il bambino non può riconoscere il tradimento della fiducia, finché è
dipendente dalle cure, necessarie alla sopravvivenza, dell’autore dell’abuso. Vedremo come
l’obiettivo ultimo di una ipnositerapia curativa per i disturbi dissociativi sia la reintegrazione e
riconnessione fra le parti dissociate del Sé.
5.2) Le ipotesi di E. R. Hilgard e la formulazione della teoria neodissociativa
Sul finire degli anni ’70 del Novecento, Ernest Hilgard compie una indagine molto
accurata sui processi psichici nell’ipnosi e nella dissociazione. I presupposti da cui egli parte
sono i seguenti:
-
-
l’unità della coscienza è illusoria (ad es. nella conversazione l’attenzione è divisa e
fluttuante);
l’esperienza cosciente può dissociare azioni e pensieri;
il senso dell’unità e della continuità sono garantiti dalla continuità della memoria;
ciò non contrasta con l’evidenza che ognuno recita normalmente diversi ruoli nel
corso della vita;
la dissociazione va considerata come una strategia di coping: un evento normale e
quotidiano.
Hilgard ritiene l’ipnosi una esperienza dissociativa per la prevalenza dell’immaginazione che
può arrivare fino alla negazione della realtà. Le risposte ipnotiche rappresenterebbero due
stadi di dissociazione.
Nel primo stadio, più superficiale, le risposte riflettono le suggestioni; nel secondo, più
profondo, un processo di tipo amnesico consente ad alcune informazioni di essere elaborate
sotto il livello di consapevolezza. Lo studioso giunge quindi ad identificare i meccanismi
psichici che sostengono i fenomeni della trance.
30
Amnesia: partendo dal processo di memorizzazione, Hilgard evidenzia il ruolo facilitatorio
dell’immaginazione e della motivazione nella ritenzione di informazioni, ma anche
nell’amnesia. L’amnesia post-ipnotica differisce dal normale oblio perché ha a che fare con il
sistema motivazionale del soggetto e con un processo di disattenzione selettiva.
Sonnambulismo, allucinazioni, scrittura automatica, processi ideomotori ed ideosensori,
regressione d’età: si tratta di processi dissociativi, legati ad una iperattività dell’emisfero
destro. In particolare la regressione d’età comporta una ipermnesia, anche somatica, e una
dissociazione ideo-affettiva.
Analgesia: l’anestesia ipnotica toglie la sofferenza, ma non elimina il dolore sensoriale: le
risposte fisiologiche sono quelle di un organismo che soffre. Il soggetto ipnotizzato nega di
soffrire, ma se viene intervistato con la scrittura automatica, scrive che sta soffrendo. Per
spiegare quest’ultimo fenomeno, Hilgard introduce la metafora dell’osservatore nascosto,
inteso come una parte dissociata dell’Io. L’esistenza di una risposta coperta e di una risposta
aperta al dolore gli suggerisce la presenza di sistemi alternativi di controllo della coscienza.
La coscienza è fornita di funzioni esecutive di controllo e di monitoraggio. L’ipnosi facilita
esperienze dissociative rompendo l’ordinaria continuità dei dati mnestici e distorcendo
l’orientamento alla realtà mediante suggestioni, l’attenzione selettiva e la stimolazione
dell’immaginazione. La perdita dell’esperienza del corpo, negli stati di rilassamento profondo,
provoca disorientamento spaziale. La perdita dei ricordi riduce la critica e l’esame di realtà.
L’immaginazione può trasformarsi in allucinazioni positive o negative, in tutte le modalità
sensoriali. Piuttosto che un’alterazione della qualità della coscienza, si ha una modificazione
delle funzioni di controllo. Le funzioni di monitoraggio confluiscono nell’osservatore
nascosto, ovvero quella parte di queste funzioni che diviene accessibile attraverso automatic
talking e automatic writing, e in una parte che è coinvolta nell’esperienza ed è acritica ,
accettando la realtà anamorfica. L’ipnosi sarebbe in grado di alterare i rapporti gerarchici tra
questi sistemi di controllo. La possibilità che l’ipnosi offre di accedere senza mediazioni alle
parti dissociate suggerisce che queste non siano inconsce, ma indisponibili per via della
barriera amnesica (Ducci, 1995). Il costrutto dell’osservatore nascosto implica nell’esperienza
soggettiva della trance la compresenza di tre realtà:
1) L’Io osservatore (che osserva se stesso nell’esperienza di trance);
2) la parte di sé coinvolta nell’esperienza di trance;
3) la parte non coinvolta nell’esperienza di trance (osservatore nascosto)
Paradossalmente, il restringimento della coscienza in ipnosi consente la compresenza di
percezioni riconducibili alla realtà presente e di percezioni riferite ad una realtà allucinata, di
percezioni “interne” ed “esterne”, di associazioni di idee legate alle evocazioni (parole,
musica, immagini, odori) , di ricordi, di speranze. Coesistono vari livelli di consapevolezza:
sono qui – nel contesto dell’ipnosi – ma anche contemporaneamente lì – nella realtà ipnotica
nella quale sono calato e posso assistere a quello che accade nel mio corpo e nella mia mente.
31
5.3) E. Bliss: un modello eziopatogenetico della trance
Per Bliss (1986) in (Ducci, 1995, op.cit.) vi è una totale equivalenza tra trance e
dissociazione. L’ipnosi è sempre autoipnosi spontanea e l’ipnotista è un facilitatore di tale
esperienza nel paziente. La capacità di entrare spontaneamente in trance, sperimentando
amnesia, analgesia ed altri fenomeni ipnotici, è una proprietà di base della mente
geneticamente determinata e viene attivata in situazioni di pericolo; costituisce un
meccanismo etologico di difesa ai fini dell’omeostasi. Tale capacità promuove nella maggior
parte dei bambini fantasie realistiche (ad es. il compagno immaginario) e negli adulti facilita
il coinvolgimento immaginativo e la creatività.
Che sia spontanea o facilitata dal terapeuta, l’ipnosi manipola con realismo tutte le
funzioni corticali privando la mente dall’esame di realtà e producendo la logica della trance.
Può simulare o indurre ogni sintomo psichiatrico. L’ipnosi/dissociazione, può essere
provocata sia da situazioni di shock – come le tecniche di sorpresa e confusione di Erickson –
ma anche attivata da manovre di “rilassamento” con conseguente passività e perdita di
iniziativa. L’ipnosi/dissociazione separa dalla coscienza le esperienze intollerabili con una
barriera amnesica. In uno stesso individuo possono infatti coesistere stati di coscienza
compatibili con la presenza di un mondo interno separato dal mondo esterno e dalle
percezioni ambientali; le esperienze dissociate possono produrre comportamenti sintomatici.
La predisposizione innata all’autoipnosi è più elevata nelle persone sofferenti di Disturbi
Dissociativi. I bambini hanno una capacità innata di esperire trance/dissociazione di fronte a
ripetuti traumi e violenze, specialmente quando esercitate dai genitori, e ciò comporta
l’assorbimento dell’attenzione in una attività immaginativa vivida e ricca, attività che può
costituire la base per la creazione di altre identità separate dalla discontinuità mnesica. Tali
parti dissociate potranno poi estinguersi, oppure, di fronte al ripetersi di esperienze
traumatiche, costituire la noxa di un comportamento sintomatico. La precocità, la durata,
l’intensità e la varietà delle violenze subite, e la presenza o meno di legami interpersonali
affettivamente validi, determineranno l’entità delle manifestazioni psicopatologiche in un
continuum che porta dalla semplice depersonalizzazione alle forme più severe del Disturbo
Dissociativo dell’Identità. I DD appaiono legati alle primissime esperienze dissociative da una
continuità quantitativa, consistendo nell’amplificazione di un processo fisiologico (Ducci,
1995, op.cit).
5.4.) L’approccio naturalistico - relazionale di M.H. Erickson
L’approccio clinico caratterizza l’opera di Milton Hyland Erickson. Si tratta di un
approccio volutamente ateoretico e privo di una teoria esplicativa globale. Egli amava pensare
che ogni essere umano fosse unico nella sua storia e che, per questo, anche la sua terapia
dovesse essere unica. Erickson (Opere,1980) pone l’accento sul rapport definito già da Freud
come una modalità peculiare di relazione che riproduce schemi arcaici ed infantili. Erickson
amplia questa accezione, introducendo altri elementi caratteristici come la motivazione, la
focalizzazione, l’attenzione responsiva, l’assorbimento. Lo stile che Erickson adopera e che
consente l’instaurarsi del rapport privilegia i meccanismi dissociativi. Scrive Giuseppe De
Benedittis (1985): “Il messaggio di Erickson utilizza un codice ricco di metafore, analogie,
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pars pro toto, è spesso alogico, perché privo della bipolarità affermazione-negazione (…)
Molti degli approcci ericksoniani - dalla pantomima alla tecnica di confusione, a quella di
disseminazione – costituiscono dei formidabili strumenti per depotenziare l’emisfero sinistro
ed attivare l’emisfero destro (…) L’uso della dissociazione e del paradosso, l’enfasi sul
linguaggio del corpo, il privilegiare la suggestione indiretta rispetto a quella diretta,
rappresentano altrettante appropriate modalità di conversione dallo stile analitico-digitale del
soggetto a quello sintetico-intuitivo.” Erickson utilizza costantemente, nell’induzione e nella
terapia, le risorse del soggetto, le sue capacità immaginative, le sue modalità di
comunicazione, i fenomeni ipnotici spontaneamente prodotti, in particolar modo la
regressione d’età e la progressione nel futuro.
Il suo approccio è definito “naturalistico” perché Erickson insiste sulla quotidianità della
trance, intesa come una condizione di semplice focalizzazione verso l’interno che si sviluppa
accanto alla realtà esterna, senza sostituirla. Proprio l’esistenza di queste “coscienze parallele”
rende necessaria una comunicazione a livelli multipli. Anche le suggestioni post-ipnotiche
sono, per Erickson, microtrance limitate al compito: delle azioni dissociate sorrette da una
discontinuità mnesica, ma legate comunque alla relazione con il terapeuta e con le persone
circostanti, e alle motivazioni che tali relazioni sono capaci di elicitare. Poiché è nel rapporto
con gli altri che si creano livelli diversi di integrazione dell’individuo, ci sembra opportuno
definire l’ipnosi come dissociazione in un rapporto, cioè come uno degli stati di coscienza
che quel rapporto consente. I processi di dissociazione e di integrazione determinano tanto la
qualità della relazione quanto la qualità dell’apprendimento.
Un umanesimo essenziale animava la visione che M. H. Erickson aveva del paziente ed un
pragmatismo americano informava le sue mosse terapeutiche. Il suo è stato definito
“approccio naturalistico”, ove per naturalistico s’intende l’accettazione della situazione che si
incontra e la sua utilizzazione, senza tentare di ristrutturarla da un punto di vista psicologico.
L’utilizzazione consiste nel far diventare nutrimento per la terapia anche fattori
apparentemente indesiderabili; il comportamento del paziente diviene un preciso aiuto ed una
parte effettiva nella induzione di trance, non già una forma di impedimento. Naturale è il
terapeuta che quando induce l’ipnosi va incontro in maniera adeguata al paziente come
personalità e risponde ai suoi bisogni come individuo. E’ la tecnica che deve adattarsi al
paziente, non il paziente alla tecnica. Artificiale è il terapeuta che adotta prescrizioni e
procedimenti rituali, laddove ogni soggetto è unico. Da Erickson ho imparato a costruire la
terapia attraverso il ricorso agli stessi schemi che sono alla base del comportamento
disfunzionale. Le tecniche di utilizzazione consistono nell’adoperare il tempo, lo spazio, il
reale e l’immaginario, le speranze, le paure, le abilità, le realizzazioni e i fallimenti.
Utilizzare, significa accettare che qualsiasi situazione comunicativa sviluppata dal paziente,
l’espressione del suo sistema di valori, le resistenze e i sintomi manifestati, siano colti ed
utilizzati dal terapeuta al fine di raggiungere la trance.
Il suo approccio è definibile anche relazionale in quanto per M. H. E. l’ipnosi è sia un
fenomeno interpersonale – i quadri di comportamento cambiano in rapporto alla situazione, al
contesto e alle richieste dell’ipnotista – che intrapsichico – ogni individuo ha un repertorio
personale di associazioni, credenze e potenzialità che contribuiscono in modo sostanziale alla
modalità di risposta allo stato di trance. In quest’ottica, prassi del terapeuta e funzionamento
inconscio del paziente sono interrelati ed interdipendenti. Apprendere il linguaggio inconscio
33
del paziente, che si esprime attraverso le minimal cues, significa: osservare, osservare,
osservare, come premessa ineludibile per un intervento efficace. L’ipnositerapia ericksoniana
è anzitutto una relazione sinergica basata su una solida alleanza terapeutica riconducibile alla
partecipazione attiva del terapeuta, dove per attività si intende attenzione responsiva.
Sinergismo significa anche utilizzazione clinica delle risorse umane del terapeuta, della sua
umanità profonda e sincera.
Il terapeuta non offre al paziente uno spazio bianco in cui esprimersi, piuttosto mette in
atto un comportamento evocativo (e-vocare = chiamare fuori) per cui il paziente sia
naturalmente portato ad esprimersi. Mentre quando il paziente arriva da noi portandoci il suo
disagio le competenze “sane” sono bloccate, la terapia riscopre, sviluppa e valorizza le risorse
della persona. Erickson non si sostituiva mai ai propri pazienti, non pensava al posto loro
attraverso le sue interpretazioni; manifestava un interesse reale per il paziente, al punto che
questi si sentisse sufficientemente sicuro da ridurre le proprie abituale difese ostruttive e, in
condizioni di assoluta sicurezza, potesse sperimentare e vivere i cambiamenti di cui aveva
bisogno vivendoli come un evento spontaneo ed originale.
L’approccio naturalistico si prefigge di limitare l’adulterazione causata dai giudizi del
clinico – filosofici, teoretici o tecnici – non tanto in favore della ricostruzione di una realtà
oggettiva, quanto piuttosto per rispettare la realtà percepita così come emerge nello scambio
reciproco tra due coscienze che condividono una relazione, al fine del raggiungimento degli
obiettivi terapeutici. Il talento ipnotico è una caratteristica distintiva di ogni persona e
l’ipnositerapeuta ha il compito di creare il contesto migliore per facilitare l’espressione di
questo talento.
L’illusione di controllo e prevedibilità di alcuni terapeuti strategici, viene sostituita da noi
con la consapevolezza che non è dato a nessun essere umano conoscere il futuro, che l’ordine
degli eventi non si può controllare. Si può, anzi, si deve accettare il caso, il disordine,
l’incertezza, l’accidente e la sorpresa e contemplarli. L’ipnosi naturalistica, con le parole di
Consuelo Casùla, ESH President Elect, “invita a riconoscere che Madre Natura è la regina
del regno, e governa secondo regole di imparzialità, omogeneità, semplicità e necessità (…)
dovremmo imparare ad accettare con equanimità ciò che non si può cambiare (…)la Natura
ama i cambiamenti, le differenze, i misteri. Ricordati che ogni animale, ogni pianta, ogni
fiore, persino ogni filo d’erba sono diversi … impara a riconoscere le differenze che rendono
unica e speciale ogni creatura umana … gli eventi scorrono inesorabili … ogni giorno c’è un
cambiamento: il sole sorge e tramonta a ore diverse; anche il più bel giorno non dura in
eterno, ma viene la notte a prendere il suo turno; la gioia più grande può essere disturbata da
un grande dolore … ma anche questo finisce. Nulla dura in eterno, né la gioia, né il dolore.
Tutto cambia … … proprio così! ”. (Casùla, induzione di trance a me medesimo. Ad un certo
punto ho manifestato doppia levitazione e movimenti rotatori del capo sotto gli occhi basiti dei miei colleghi di
corso - Anno Accademico 2012).
L’ipnosi naturalistica e relazionale di Milton H. Erickson invita a trasformare i sintomi
traumatici in apprendimenti. La crescita post-traumatica rende consapevoli che la modifica
del progetto di vita provocato dal trauma porta, con la facilitazione del terapeuta, a
reinventare un nuovo futuro, che può essere anche migliore del paradiso perduto del passato.
34
6. L’ipnositerapia come modalità di trattamento per
i disturbi dissociativi
Siamo troppi se guardiamo chi siamo (...) Ognuno di noi è più di uno, è molti, è una prolissità di se stesso (…) la
mia anima è una misteriosa orchestra; non so quali strumenti suoni o strida dentro di me: corde, arpe, timpani,
tamburi. Mi conosco come una sinfonia.
F. Pessoa, Il libro dell’Inquietudine
Le persone non sanno come si legge. Non sanno come si ascolta. Tendono a sentire
ciò che vogliono sentire, a pensare ciò che vogliono pensare, a capire ciò che vogliono
capire. Tendono a far rientrare ciò che ascoltano e leggono nello schema di riferimento
della loro esperienza, e questo non è certamente il modo di fare psicoterapia. Occorre
ascoltare il paziente. Occorre capire il paziente.
J. Zeig , 1990
Già a partire dalla pubblicazione del DSM-III-R, il significato della dissociazione
appare più legato al concetto di discontinuità della memoria, della identità e della
coscienza, piuttosto che alla rottura dei nessi associativi, proprio della schizofrenia.
Giovanni Liotti (1993) scrive che la dissociazione può essere descritta come un disturbo
della tendenza attiva ed innata alla integrazione delle esperienze nella costruzione della
coscienza e del Sé. Nel DSM-5 i disturbi dissociativi sono descritti più o meno come nel
DSM-IV-TR. Vengono però associate tra loro la amnesia e la fuga dissociativa,
evidenziando come chi intraprende una fuga dissociativa (un improvviso allontanamento
da casa o da un luogo familiare senza una particolare meta) spesso manifesti anche
amnesia. La realtà è divenuta intollerabile: il paziente tende a crearsi una amnesia ed a
fuggire come modo di difendersi. Si tratta di una negazione profonda che comunque non
risolve le cose; quando non è dovuta a semplice noia o per rispondere ad un preciso ordine
delle voci, come nello schizofrenico, la fuga psicogena è espressione di uno stato
confusionale o messa in atto per fuggire da presunti persecutori (Rovetto, 2015).
35
6.1) La richiesta di psicoterapia
Al di là delle specifiche ragioni che spingono un individuo ad intraprendere un
percorso psicoterapico, la richiesta sottesa è sempre la stessa: avere un maggior controllo
sui propri pensieri, sentimenti e azioni, in modo da raggiungere uno stato interno di relativa
tranquillità e maggior benessere, che consenta di vivere una vita più produttiva. Assai di
frequente, nel mio lavoro, al di là del tipo di disturbi o problemi, mi imbatto nel dato di
fatto che nei pazienti, per qualche ragione, si sono instaurati dei circoli viziosi, certi modi
automatici di considerare se stessi, gli altri e di rispondere al mondo circostante che non
sono sani, che generano sofferenza, e che hanno bisogno di essere riorganizzati. Per le
persone con DD, il processo di riorganizzazione è intrinsecamente più complicato in virtù
del fatto che hanno una molteplicità di stati interni che necessitano di essere riorganizzati.
Tutto ciò di cui i pazienti sono consapevoli è che, a volte, sopravviene un “umore”, una
specie di “demone” interno che li fà agire con rabbia, sperimentare sensazioni di panico o
comportare in un modo che non sembra per niente consono alla loro personalità. E’ infatti
possibile che si abbiano sintomi dissociativi o, semplicemente, aspetti di se stessi che non
sono sotto il proprio controllo quanto si vorrebbe.
L’efficacia della psicoterapia – non solo ipnotica – è funzione della progressiva
riduzione della rigidità sintomatica lamentata dal paziente. Tale riduzione è resa possibile
grazie all’attivazione persistente di cambiamenti nelle aree (interconnesse) emozionali,
attitudinali, cognitive, relazionali e comportamentali del paziente, sia ad un livello conscio
che ad un livello inconscio. La possibilità di ottenere cambiamenti persistenti si fonda su
tre fattori (Strupp et al., 1977):
1. la modificazione dello stato di coscienza.
2. i cambiamenti nella memoria a lungo termine di tipo implicito (cfr. Ducci &
Casilli, 2004).
3. la qualità specifica della relazione terapeutica.
Qualunque sia il sintomo – depressione, attacchi di panico, abuso di sostanze,
gambling, sbalzi d’umore, ecc. – esso potrebbe essere la manifestazione esterna di un
problema dissociativo sottostante. A meno che il problema sottostante non venga
individuato e trattato in maniera appropriata, non si può ottenere la migliore guarigione
possibile. L’abuso di sostanze (alcolici, tabacco, sostanze stupefacenti), per esempio, può
rappresentare il tentativo di curare da soli le sensazioni interiori di distacco da se stessi o
dalle proprie emozioni, sintomi della depersonalizzazione. Anche una semplice ipnosi
neutra è già psicoterapia nel momento in cui, richiedendo una particolare intimità ed
autenticità per l’instaurarsi del rapport, mette in gioco i modelli di attaccamento del
paziente. La gestione dei problemi dell’induzione consiste nel fare psicoterapia essendo
capaci di divenire per il paziente un “base sicura ipnotica” affidabile, ma non onnipotente.
Diversamente, il paziente corre il rischio di essere ritraumatizzato invece che curato, o non
si lascia curare. L’ipnositerapia, inoltre, rispetto ad altre forme di psicoterapia, possiede un
accesso privilegiato alla modificazione di episodi traumatici ed alla creazione di realtà
ipnotiche che consentono di fare esperienza diretta di nuove relazioni di attaccamento.
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Alcuni pazienti sono incapaci di perseguire l’integrazione o restii a farlo. Ricordo
Konstance (il nome, ovviamente, è di fantasia), una mia vecchia paziente ninfomane quasi
trentenne, che innamoratasi perdutamente di un rampante diciottenne, si trovava regredita
ad uno stadio infantile. Trovandosi in una situazione che non sapeva comprendere e in
preda alle incandescenti, travolgenti, sensazioni sessuali, si rivolse a me perché
incominciava a sperimentare i sintomi di un attacco di panico e fobia sociale. Si lamentava
del panico, ma i sintomi vegetativi correlati erano legati all’alterazione dell’identità, cioè
alle paure della sua parte infantile che aveva improvvisamente perso il controllo. Ella
sperimentava ogni tentativo di integrazione come la “morte” della sua personalità
alternativa e si rifiutava di abbandonarla. Fidanzata di tutti e di nessuno, si era anche
provocata un aborto. Ella riuscì a raggiungere faticosamente una sorta di “cooperazione
funzionale” fra le due parti di sé con una ipnositerapia combinata a SSRI (paroxetina) e
BDZ (alprazolam); è stato possibile curarla, non guarirla. Si sposerà qualche anno dopo la
conclusione del trattamento, con un uomo assai più anziano di lei, vedovo, che definiva
“una presenza rassicurante”, dal quale erediterà i figli di un’altra donna, ma rimarrà una
moglie infedele.
6.2) Le peculiarità della psicoterapia ipnotica
Per la costruzione dell’intervento ericksoniano è essenziale una approfondita analisi
della domanda e, anche saper discriminare fra la richiesta portata dal paziente e il problema
sottostante. Spesso, durante l’evoluzione della terapia, la richiesta iniziale viene ridefinita.
I sintomi fanno emergere il bisogno di riequilibrare le risorse. La trance è una condizione
naturale, una condizione diffusa (“common everyday trance” di Erickson) caratterizzata
più che dai segnali, dalla loro modalità di esecuzione. Non è necessariamente legata al
rilassamento o al rallentamento fisico e motorio. Essa è definita da: attenzione responsiva;
discontinuità fra l’orientamento verso la realtà ipnotica e quello verso la realtà non-ipnotica
(la perdita di orientamento verso la realtà esterna e lo stabilirsi di un nuovo orientamento
nei confronti di una realtà concettuale astratta); rapport. Il rapport ipnotico è un tipo di
relazione particolare che potrebbe essere definita come una mutua sensibilità, dell’ipnotista
e del paziente alle minimal cues. Il terapeuta manifesta nei confronti del paziente un respicio che consiste nel prendersi cura di lui come persona e che funziona come “anestesia
per il cambiamento” (Whitaker, 1989). Re-spicio è etimo di rispetto: osservo e riosservo
con attenzione il paziente nei suoi minimi dettagli, mentre, circolarmente, il paziente
osserva nei dettagli il terapeuta e inconsapevolmente entrambi modulano il feed-back e il
feed-forward (Rapone & Trasarti Sponti, 2009). Consideriamo la trance come una
sensibilità mutuale sia dell’ipnotista che del paziente alle minimal cues dell’altro, ovvero
agli indicatori apparentemente insignificanti e irrilevanti di uno specifico stato mentale o di
un processo interno connessi alle risposte comportamentali (Loriedo, 1996). Attraverso
l’attentività responsiva reciproca, focalizzata sulla relazione esclusiva e selettiva che
include focalizzazione e assorbimento reciproco; aumentata responsività reciproca;
sincronismo; prevalenza di attività inconsce congiunte; tendenza a sviluppare idee e
significati comuni (monoideismo relazionale) (Ducci, 2002), le minimal cues possono
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rivelarsi uno strumento importante e utile se usati consapevolmente dal terapeuta che
presta loro particolare attenzione. Il paziente, percependo l’attenzione del terapeuta, può
permettersi una emozione regressiva di accoglienza e totale accettazione, e il terapeuta può
ri-osservare l’effetto che questa osservazione produce su sé stesso. Il lavoro in
ipnositerapia richiama così il concetto di holding di Winnicott, inteso come sistema di
sostegno psicofisiologico, cura e contenimento che circonda il bambino) e quello di
sintonizzazione materna di Daniel Stern, attraverso la quale il genitore segue ritmi di
attività, vocalizzazione ed espressione fisica del bambino. Il lasciarsi portare dall’altro e il
sintonizzarsi permettono ad un essere umano di “essere – con - l’altro” condividendo
esperienze interiori probabilmente simili in un’atmosfera di continuità (…) l’essere
reciprocamente sintonizzati” (Stern, 1987).
Nella sintonizzazione intermodale la madre segue il bambino nelle sue attività con
propri movimenti e suoni armonizzati con quelli del bambino, utilizzando canali sensoriali
diversi, permettendo in tal modo al bambino sia di rinforzare il suo senso del Sé, sia di
elicitare le sue risorse. Questo avviene attraverso l’utilizzo di metafore ed analogie, grazie
ad un caregiver adeguato, e un “corredo genetico” rintracciato nei neuroni specchio
(Gallese et al.,2006). “L’individuo ha una capacità innata e preprogrammata di
internalizzare, incorporare, assimilare, imitare ecc., lo stato di un’altra persona, e i
neuroni specchio costituiscono la base di questa capacità. Ma per il raggiungimento della
sua piena espressione, questa predisposizione ha bisogno di avere come complemento un
adeguato comportamento del caregiver che lo rispecchi, interagendo con lui in modo
coerente o prevedibile (…) La simulazione incarnata (…) costituisce un meccanismo
cruciale nell’intersoggettività. I diversi sistemi di neuroni specchio ne rappresentano i
correlati sub-personali. Grazie alla simulazione incarnata non assistiamo solo a una
azione, emozione o sensazione, ma parallelamente nell’osservatore vengono generate delle
rappresentazioni interne degli stati corporei associati a quelle stesse azioni, emozioni e
sensazioni, “come se” stesse compiendo un’azione simile o provando una simile emozione
o sensazione”. (Gallese, ivi).
L’esperienza di “esserci” in quanto visto, riconosciuto, è una funzione della holding
materna che condiziona tutte le successive relazioni di attaccamento. In questo sta la
grande potenzialità dell’Ipnosi che rappresenta “l’unico strumento che ha la funzione di
ricostruzione dell’holding materna” (Rabboni, 2006, comunicazione personale). Il rapport,
infatti, è un’esperienza sensomotoria globale, fisica, che cambia l’esperienza relazionale
delle persone (Ducci, 2007). La capacità di sviluppare l’alleanza terapeutica, intesa come
relazione terapeutica sintonica, è considerata il miglior fattore predittivo aspecifico di esito
comune ai diversi approcci terapeutici. Infatti, indipendentemente dal modello terapeutico
specifico adottato, numerosi studi definiscono fondamentale il ruolo della relazione
terapeutica (Loriedo, 2000). In una prospettiva co-evolutiva è possibile ipotizzare la
reciproca alterazione della coscienza tra paziente e terapeuta all’interno del setting clinico,
come dimostrato dalle ricerche svolte a Budapest da Eva Bànyai che mettono in evidenza
la sincronia interattiva come fenomeno sviluppato in Ipnosi (Bànyai, 1987).
Sappiamo che nei primi giorni di vita, nella relazione madre/figlio, il tentativo di
decodificazione della madre delle necessità del figlio e l’espressione del figlio ai tentativi
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di risoluzione della madre, inducono la madre in un ruolo nel quale è difficile distinguere
chi ha ipnotizzato chi.
Nel rapport (Ducci, 2000) assistiamo alla “riduzione bilaterale della consapevolezza
periferica e delle attività dirette verso la realtà esterna”, rileviamo la “presenza di attività
inconsce congiunte” e la “tendenza a sviluppare idee e significati comuni”. Lo stile
comunicativo di Erickson consentiva l’instaurarsi del rapport attraverso una attenzione
privilegiata ai meccanismi dissociativi (Bowers, 1992). Utilizzando poi la triade “Paziente
– Terapeuta – Inconscio”, egli sapeva accedere “alla capacità naturale di apprendere del
paziente, depotenziando al contempo i suoi schemi limitanti” (Erickson & Rossi, 1982,
pag.10).
Durante l’induzione il paziente percepisce dei cambiamenti psicofisici, quali inerzia,
torpore, distensione. A tali cambiamenti si aggiungeranno in seguito altre modificazioni
che consentiranno un riposo sempre più completo, diffuso e profondo, che andrà ad
estendersi fino a permeare di sé ogni struttura mentale, nervosa, muscolare, provocando
ancora altre modificazioni che il paziente sarà in grado di percepire e apprezzare sempre
meglio.
Camillo Loriedo spesso ribadisce come l’induzione, essendo forse l’atto più
propriamente ipnotico, rappresenta un aspetto cruciale del processo terapeutico e può
contribuire in modo determinante all’evoluzione della terapia. Rappresenta un momento di
ulteriore valutazione e serve a preparare la strategia terapeutica. Conferma che
l’ipnositerapeuta e il paziente sono in grado di risolvere i problemi e, insieme, riassume le
possibilità e le difficoltà del rapport. Se si risolve il problema dell’induzione, si è sulla
buona strada per risolvere il problema sotteso alla richiesta che ha portato il soggetto in
terapia. Le suggestioni sono formulate con un linguaggio vago ed indiretto, per consentire
al paziente di rispondere a modo proprio, liberamente e secondo i suoi tempi. Lo stato di
ipnosi si realizza in un tempo variabile, con manifestazioni più o meno numerose a
seconda del paziente e delle circostanze. Lo stato ipnotico è un fenomeno estremamente
soggettivo e le sue manifestazioni esteriori possono variare notevolmente da soggetto a
soggetto. La semeiologia dello stato di Ipnosi comprende: modificazioni dell’attenzione,
rallentamento dell’attività motoria; rilassamento muscolare; catalessia; letteralismo nelle
risposte; cambiamenti nei movimenti oculari; fenomeni di perseverazione; fenomeni di
fascicolazione; fenomeni allucinatori; distorsione temporale; analgesia, anestesia;
modificazioni mnesiche (regressione d’età, rammemorazione fino alla rivivificazione);
movimenti automatici; dissociazione (mente-corpo; mente-mente; ideo-affettiva). La
fenomenologia ipnotica va agganciata alla risoluzione del problema presentato dal
paziente, per mezzo di collegamenti causali, al fine di far dipendere la soluzione del
problema presentato dal fenomeno ipnotico prevalente nel soggetto (ad es., la riduzione
della cefalea dalla levitazione della mano, in un paziente che riesce a sollevare facilmente
le sue estremità. Non si finirà mai di sottolineare come la fenomenologia ipnotica non
dipenda in assoluta dalla profondità della trance quanto invece dalle insite capacità del
soggetto; può succedere che si sviluppi una analgesia in trance anche molto superficiali e
non solo in trance sonnambuliche.
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6.3) Ipnosi e Dissociazione
Erickson utilizza spesso il dualismo mente conscia-mente inconscia, per
favorire la dissociazione e depotenziare i processi logici coscienti. Questo linguaggio
appare coerente con la concezione della mente come il prodotto di una pluralità di
moduli mentali capaci di processare enormi quantità di informazioni in parallelo e che
agiscono generalmente sotto il livello di coscienza. Il sintomo non è visto come un
simbolo, ma come un comportamento che, sebbene disfunzionale e indesiderato,
rappresenta pur sempre il miglior comportamento possibile all’interno degli schemi
interpretativi della realtà, cioè della rete associativa del soggetto. La rigidità di questi
schemi interpretativi maladattivi impedisce però al soggetto di attingere alle proprie
conoscenze e di esplorare le proprie possibilità. Per il cambiamento desiderato si
dovranno creare nuove associazioni, entrando in contatto e utilizzando esperienze
adattative passate e altre risorse interne che comprendono anche i progetti, i desideri,
le speranze, i valori e le aspettative.
6.3.1) Tipi di dissociazione ipnotica
a) Mente conscia – mente inconscia: è forse la modalità dissociativa maggiormente
usata da Erickson, sia per indurre la trance ed approfondirla, sia come intervento
terapeutico.
“… Lascia che la tua mente inconscia faccia ciò che vuole mentre aspetti ciò che la
tua mente conscia vuole comunicarti …”
b) Cognizione – vissuto affettivo: utilizzata in particolare nelle fobie, ma anche nelle
polarizzazioni ideoaffettive depressive.
“… E mentre pensi a tutto questo, puoi accorgerti con stupore che ciò può lasciarti
assolutamente indifferente …”
c) Intelletto – Emozione: si possono cioè provare emozioni ma slegate da un contesto
esplicativo intellettuale oppure, al contrario, ricordare con precisione fatti e
avvenimenti, oggettivamente a forte carica emotiva, e percepirli semplicemente nel
loro contesto intellettuale, scissi dagli aspetti emotivi.
“… E mentre sei comodamente adagiato sulla poltrona, senti arrivare un’onda di
serenità (gioia, allegria) improvvisa …”
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d)Mente – corpo: appare indicata per i pazienti psicosomatici, per le forme di
conversione e i disturbi somatoformi in genere. Sembra favorire l’anestesia e per
questo può essere impiegata nella terapia del dolore.
“… Ora che la tua mente sa dove vuole andare, puoi guardare con curiosità al tuo
corpo, che perde impercettibilmente e gradualmente sensibilità … … … e il tuo dito
indice che si solleva indica la via … … …”
e) Testa – busto: permette di ratificare la trance e quindi favorisce l’intervento
terapeutico e la responsività in soggetti che sentono molto il problema di mantenere il
controllo e che possono accettare una dissociazione parziale nella percezione del corpo
perché si identificano essenzialmente con “la testa”.
f) Parti diverse del corpo: focalizza la mente sul corpo e su aspettative concrete di
nuove esperienze non programmate. Ciò che viene sperimentato di “dissociativo” nel
comportamento del proprio corpo, apre alla possibilità di dissociare i vecchi pensieri
limitanti dalla situazione problematica ed apre all’esperienza di nuove associazioni.
“… Forse la tua mano destra o forse la tua mano sinistra si solleverà … … e mentre il
tuo braccio destro è pesante come quei problemi …. … conosce delle alternative che
io e te non conosciamo e può sentirsi veramente sollevato da quei problemi … e ha
voglia di comunicarti quella leggerezza …”
g)Differenti immagini di sé: si invita il paziente a ricercare diverse parti di sé stesso
come si era in altri momenti della vita, per consentire uno scambio di “informazioni”.
“… e, ora, puoi lasciare che le tue spalle e le tue braccia robuste incontrino quel
bambino che veniva deriso dai compagni di scuola …”
h) Situazione di rapport – mondo esterno: focalizza l’attenzione sull’hic et nunc del
rapport, scotomizzando la percezione della realtà.
“… e mentre tu sei qui … e ascolti la mia voce … tutto il resto, lo squillo del telefono,
i rumori delle macchine per strada, perdono gradualmente consistenza e si
allontanano …”.
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6.4) Verso l’integrazione
Il trattamento ipnositerapico della dissociazione, se ben condotto, fornisce al paziente
un modo nuovo di relazionarsi a se stesso che è profondamente accudente.
In ipnosi, il terapeuta si servirà di metafore in contatto con il mondo interno del
paziente per aiutarlo ad accettare e rispettare le diverse parti di se stesso, entrando in
comunicazione con queste in modo rassicurante e “incoraggiandole” a cooperare e a
riconnettersi in un tutto funzionale, piuttosto che rimanere in conflitto. La terapia per le
persone con disturbi dissociativi fa cadere delicatamente i muri dell’amnesia, che tengono
nascoste le diverse parti della persona a se stessa e tra loro. L’ipnositerapeuta aiuterà il
paziente a integrare ricordi, sentimenti e comportamenti. Tale processo è come unire i
punti di un disegno per bambini; i punti sono le diverse parti della persona e i tratti sono i
nessi della memoria da costruire. Una volta che si è condotto il paziente a sentirsi
sufficientemente sicuro da accettare i ricordi, l’amnesia e gli altri sintomi dissociativi si
sciolgono come neve al sole e la persona diviene intera, proprio come il disegno diventa un
tutt’uno.
Gli studi di P. Kluft (1993) hanno dimostrato che tale tipo di trattamento, se combinato
con i farmaci per altri sintomi, come i cambiamenti repentini d’umore, la depressione,
l’ansia, il comportamento ossessivo - compulsivo, si rivela altamente efficace. Il campione
di Kluft comprendeva 184 soggetti e l’81% dei pazienti con Disturbo Dissociativo
dell’Identità trattati con terapia integrata, ha raggiunto una “fusione stabile”. I segni di DD
e i sintomi connessi non si sono ripresentati per oltre ventisette mesi. Regolari visite di
follow-up da due a dieci anni hanno confermato l’efficacia del trattamento. La lunghezza
del trattamento variava tra i tre e i cinque anni in media. La farmacoterapia prevede come
prima linea gli SSRI per il trattamento dei sintomi depressivi che frequentemente si
trovano in comorbilità; i betabloccanti (propanololo) che hanno un ruolo nel controllo
dell’ansia (va valutato con estrema attenzione l’impiego delle BDZ, per il rischio di abuso
in questi pazienti); gli ipnoinducenti e gli antidepressivi sedativi (trazodone, mirtazapina)
nella gestione dell’insonnia. Qualora si associno impulsività, discontrollo o siano rilevabili
alterazioni elettroencefalografiche, è indicato l’impiego di anticolvulsivanti (acido
valproico, carbamazepina).
Il primo passo per un lavoro terapeutico efficace consiste nell’esplorare insieme al
paziente le sensazioni di distacco dalla propria identità, dal proprio ambiente e dai propri
ricordi e, nel caso ce ne siano, scoprire quali siano le sue diverse parti. E’ probabile che
queste parti nascoste emergano quando si è sotto stress: magari la persona incomincia ad
agire in modi insoliti o ad avere un’esperienza fuori dal corpo, non si riconosce allo
specchio o si sente distante da quello che sta succedendo. E’ come aver nascosto i
sentimenti in un armadio fino a riempirlo. Poi, un giorno, succede qualcosa di stressante e
la persona spinge i suoi sentimenti di disagio nello stesso armadio. Poiché non c’è più
spazio, i sentimenti di venti anni prima si rovesciano fuori e questa persona risponde alla
situazione attuale in maniera strana. Se delle parti nascoste al suo interno essenzialmente
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per salvaguardarla, le stanno distruggendo la vita, non si potrà sentire meglio, a meno che
queste non siano identificate con l’aiuto del terapeuta, fatte emergere, siano riconosciute ed
accettate. In questo modo la persona potrà guarire dal trauma che le ha portate in primo
piano. Occorre che il terapeuta e i familiari del paziente siano supportivi. Con il flusso e la
condivisione ripetuta dei ricordi e delle emozioni ad essi connesse, le barriere alzate
dall’amnesia poco alla volta vengono erose e ciascuna parte frammentata entra a far parte
della corrente principale dell’identità di una persona portando ad una integrazione degli
elementi dis-associati.
I soggetti affetti da DD sono capaci di entrare velocemente in uno stato di ipnosi profonda
e la connessione tra trauma e ipnosi può essere un elemento centrale del lavoro terapeutico.
Spesso, piuttosto che utilizzare tecniche induttive elaborate, le induzioni ipnotiche possono
essere semplici inviti a “… chiudere gli occhi e andare in trance …”, secondo
l’insegnamento naturalistico di M. H. Erickson.
Gli studi condotti da Johan Vanderlinden tra il 1993 e il 1998 hanno evidenziato alcuni
importanti fattori di “mediazione” che intervengono con molta probabilità tra l’esperienza
traumatica e i DD. Tra questi si riconoscono: l’età precoce nella quale si subisce il trauma;
la natura della violenza (se da parte dei genitori, familiari, vicini, ecc.; se con la forza o
meno), le variabili familiari (ambiente familiare multiproblematico, caotico), eventi della
vita stressanti e rivittimizzanti; immagine negativa di sé (sensi di colpa, vergogna, auto
denigrazione).
6.5) Alcune strategie da me adoperate
In terapia uso libri per bambini, perché in maniera molto semplice ma efficace, si
adattano a persone di tutte le età. I genitori amorevoli e premurosi leggono storie
rassicuranti ai loro bambini e agiscono in una maniera congruentemente accudente,
impiegando un ricco repertorio di tecniche supportive affinché i loro bambini possano
sperimentarle e ripeterle. Leggere libri per bambini che hanno a che fare con il conforto e
la rassicurazione o invitare il paziente a scavare nella soffitta e a ritrovare i libri d’infanzia
preferiti, può aiutare a riconoscere il bisogno di consolazione di quelle parti “bambine” di
sé e a compensare, in parte, ciò che non era disponibile durante lo sviluppo. Parte del
piacere che si ricava dal leggere una storia al bambino, deriva dal fatto che il messaggio
tranquillizzante e la morale della storia calmano il lettore quanto l’ascoltatore.
Leggere insieme al paziente la buona definizione che si trova nel DSM-5 può essere
un altro utile passo. Specialmente per quanto riguarda il disturbo di
depersonalizzazione/derealizzazione, il paziente va informato sulla estrema diffusione di
questo problema e sulla sua transitorietà: NON evolve verso la psicosi. L’obiettivo del
trattamento del Disturbo Dissociativo di Personalità, assai più impegnativo, consiste nello
sviluppare la consapevolezza delle diverse subpersonalità e portarle ad una connessione
per superare il meccanismo difensivo della scissione. Non c’è bisogno di essere neri o
bianchi. Nel mondo reale le persone sono grigie e non sembrano neppure stabili nelle loro
varie sfumature di grigio. Un professore può essere un dittatore in Università e una pecora
in casa, o viceversa. Col ruolo cambia, a volte, anche il nome: in Accademia lo chiamano
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“Prof.”, a casa papà. Non dimentichiamo che la personalità è una maschera che indossiamo
per affrontare il mondo.
Fondamentalmente, ciò che i sopravvissuti ai traumi hanno bisogno di imparare è
come fare da genitori a se stessi. Possono essere dei buoni genitori per i loro figli o gentili
e premurosi con gli amici: possiedono queste qualità ma, semplicemente, non le applicano
a loro stessi. Corrono a confortare un figlio, una figlia, un fratello o una sorella che piange,
ma ignorano le parti di sé che hanno pianto per anni. Le persone che hanno dei disturbi
dissociativi e sono sopravvissute ad una infanzia costellata da traumi sono spesso in grado
di essere dei buoni genitori, che non farebbero mai ai loro figli quello che hanno subito.
Tuttavia, fare i genitori è per loro una lotta continua a causa del caos interiore che
sperimentano. Molti di loro hanno bambini a cui viene diagnosticato un ADDH (disturbo
da deficit di attenzione con iperattività), anche se, in base alla mia esperienza, è raro che
venga posta una diagnosi di dissociazione dai neuropsichiatri infantili, anche in presenza di
un disturbo dissociativo compresente a quello diagnosticato.
Un’utile strategia di coping che il paziente può mettere in atto fuori dallo studio
professionale è quella di dedicarsi ad una attività esterna gradita che assorba le energie.
Leggere, un lavoro di artigianato, lo jogging, conversare con gli amici e così via, può in
molti casi interrompere il ciclo dei pensieri e delle sensazioni in escalation che conduce a
una sensazione di mancato contatto con se stessi o con il proprio corpo o ad un sentimento
di irrealtà. Io chiedo ai pazienti di fare una lista con i giorni della settimana e un elenco
delle cose che possono fare per consolarsi. Raccomando pure di fare ogni giorno qualcosa
di rassicurante ma possibilmente diverso e di portare la lista nella seduta successiva, in
modo che io possa vedere quello che sono riusciti a fare per ciascun giorno, esplorando
insieme a loro le possibilità di cambiamento. Una tecnica che trovo particolarmente utile
con le persone sopravvissute a traumi o abusi è il metodo dello “schermo diviso” di D.
Spiegel (Spiegel, 1981), che insegna come integrare i propri ricordi e sentimenti dissociati.
Suggerisco al paziente di immaginare uno schermo televisivo diviso in due parti: le
immagini rassicuranti sono in una metà, mentre la scena traumatica è nell’altra metà. Al
termine della seduta ipnotica, il paziente ricorda nel normale stato di veglia solo ciò che
non turba la sua sicurezza. Questa tecnica può essere utilizzata anche per ritrovare ricordi
piacevoli del passato, così che le persone possano visualizzare dei “posti sicuri” dove
andare durante gli episodi di depersonalizzazione e derealizzazione. La visione di ciò che
ha traumatizzato il paziente nel contesto protetto dello studio del terapeuta, in condizioni di
sicurezza, consente l’accesso alle vecchie informazioni reagendo ad esse con nuove
risposte emotive, cognitive e relazionali. La fase successiva può essere il recupero di
controllo sull’avvenimento, la modificazione virtuale dei fatti, il riapprendimento ed il
ribilanciamento verso il Sé del locus of control. Per
quanto riguarda la
depersonalizzazione, una volta che il paziente riesce ad accettare che il trauma è accaduto
proprio a lei/lui, e non a qualche estraneo che lo ha separato da se stesso/a, non ha più
bisogno di depersonalizzarsi quando qualche stimolo gli/le ricorda il trauma. Per quanto
riguarda la derealizzazione, riuscendo a distinguere il presente dal passato e a sentirsi
sicuro, il paziente avvertirà sempre meno il bisogno di distaccarsi dalle persone familiari e
dall’ambiente domestico. Per i bambini abusati, la derealizzazione ha una sua utilità: il
distacco mentale dall’abusatore è l’unico modo che il bambino ha di scappare. Dopo che è
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avvenuta la completa reintegrazione dei ricordi traumatici è importante continuare a
seguire il paziente con un adeguato follow-up, in modo da evitare che ricada in difese di
tipo dissociativo se messo di fronte a nuove situazioni difficili per lui.
Avere a che fare con due o più parti di una persona ed avere l’ambizione di condurla
ad integrarle, implica un lavoro sulle emozioni. Aiuto così il mio paziente ad identificare
l’emozione negativa che ha sperimentato durante il trauma, a localizzare l’emozione nel
corpo, a descrivere ciò che prova in termini concreti. Aiutato dallo stato di trance ipnotica,
che induce calma e chiarezza mentale, rendendo possibile focalizzare l’attenzione sulle
realtà interiori, oriento poi il soggetto nel presente – che altro non è se non il futuro
dell’episodio passato – ed insieme esploriamo le sue risorse attuali, le competenze
acquisite dopo l’evento. Con queste risorse esploriamo l’emozione che avrebbe
potuto/voluto provare allora. Allora propongo di fornirmene una rappresentazione visiva
concreta: cosa immagina che l’emozione sia. Individuata l’immagine, invito il soggetto a
tornare indietro nel tempo e a sperimentare le sensazioni che avrebbe provato
immaginando di provare quella emozione. Ciò, nei casi più fortunati, promuove un
riapprendimento ed evita il ripresentarsi del comportamento dissociativo in situazioni
simili nel presente.
La strategia ipnoterapeutica deve confrontarsi costantemente con un limite: la non
linearità dell’evoluzione del cambiamento. Si tratta di una caratteristica tipica dei sistemi
complessi ed è alla radice del comportamento caotico e dell’entropia dei sistemi
deterministici (Casati, 1991). Ciò significa che il futuro non è sempre determinato in
maniera univoca dallo stato iniziale. Il processo di cambiamento in ipnosi è paragonabile
all’aspetto di una struttura frattàle (Mandelbrot, 1982). Le spontanee capacità del paziente
di sviluppare processi dissociativi della coscienza entrando in uno stato di trance facilitato
dal terapeuta, sono da noi utilizzate per facilitare i processi di recupero di memorie e di
correzione di strutture cognitivo-emotive disfunzionali, all’interno di un dialogo
terapeutico fluente, non interrotto da procedure di induzione formale e diretta della trance
ipnotica, né da suggestioni dirette o direttive. Questo è per noi il modo elettivo di
intervenire sulle rappresentazioni disfunzionali e svantaggiose che il paziente ha sviluppato
in seguito all’attivazione inconsapevole ed automatica di processi difensivi basati sulla
scissione, attraverso una relazione terapeutica empaticamente accogliente. La lotta
interiore lascia spazio ad una relativa pace e le persone che hanno sofferto così tanto, alla
fine della terapia sono in grado di costruire relazioni con altri amorevoli ed equilibrate.
Le situazioni più complesse si presentano in presenza di pazienti multi sintomatici e
pluritraumatizzati, massicciamente carenzati sotto il profilo delle esperienze di
accudimento, spesso diffidenti e sospettosi. In questi casi il lavoro procede molto più
lentamente. Una solida alleanza terapeutica è il passo necessario per la costruzione della
fiducia e del rapport, per far vivere al paziente una esperienza relazionale correttiva. In
base alla mia esperienza, si rivela utile lavorare per la costruzione ipnotica di esperienze di
attaccamento utili a sbloccare l’impasse evolutiva del paziente. Una strategia
comunemente utilizzata consiste nell’impiegare il Sé guarito nel futuro per effettuare a
ritroso le esperienze che avrebbero consentito al paziente di crescere più adeguatamente.
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Come nel caso dell’Uomo di Febbraio di Erickson, è possibile impiegare figure alternative,
come parenti sostitutivi, amici, il partner attuale o anche il terapeuta, tenendo presenti le
restrizioni e i rischi che questa operazione transferale comporta. Questa è forse
l’applicazione della ipnositerapia che implica la maggiore quantità di creatività, intuizione
ed esperienza. La realtà ipnotica, comunque, è insufficiente. Altre relazioni importanti
dovranno essere costruite nella realtà ordinaria e condivisa, e ciò comporta molto tempo.
Attraverso griglie più o meno rigide, il terapeuta ericksoniano è obbligato ad osservare
e a rilevare nel racconto, nel comportamento, nella risonanza emozionale, nei fenomeni
ipnotici spontanei, tutti gli elementi caratteristici del paziente per poterli mettere in gioco
nella terapia. Anche il terapeuta mette in gioco fino in fondo il proprio repertorio
esperienziale, costituito da immagini, ricordi e soprattutto emozioni, ai fini della cocostruzione di uno spazio esperienziale e di un’esperienza senso-motoria intensa e
coinvolgente. La relativa brevità e intensità dell’intervento ericksoniano non sono però
funzione degli artifici tecnici (suggestioni dirette ed indirette, post-ipnotiche, metafore,
semine e disseminazioni, ecc.), ma è la concentrazione nel tempo e nello spazio ad essere
rilevante (Ducci, 2014). In ogni caso, che si sia dissociati o meno, la connessione tra il
proprio lato emotivo e quello intellettuale, fra cuore e ragione, rimane una questione di
importanza vitale, tanto per i pazienti quanto per i curanti. L’ultimo traguardo consiste
nella acquisizione della capacità di affrontare la vita con una personalità finalmente
unificata ed integra.
Le tecniche ipnositerapiche si rivelano utili nel trattare l’esperienza traumatica,
consentendo l’esplorazione del vissuto del paziente e la reintegrazione della sua
personalità. Le tecniche esplorative possono essere dirette e indirette. L’approccio deve
essere quanto più possibile evocativo e graduale. L’approccio evocativo è tale se non cerca
a tutti i costi di trovare i traumi, non li insegue, ma semplicemente crea le condizioni per
un contatto del paziente con la sua storia, con le parti di Sé più recondite ed eventualmente
danneggiate. Se durante l’esplorazione si avverte la presenza di esperienze traumatiche è
sempre consigliabile un’esposizione graduale e controllata. In tal modo è possibile ridurre i
rischi dell’effetto “inondazione” e si evita sia la sopraffazione da parte del ricordo sia che
il ricordo stesso diventi un evento rivittimizzante.
1) Tecnica del questionario ideo-motorio con i segnali delle dita. Viene detto ai pazienti
che il loro mondo interiore rivelerà informazioni finora inaccessibili sui loro problemi.
Dal mondo interiore potranno provenire risposte alle domande mediante segnali
ideomotori.
2) Tecnica degli Stati dell’IO (Watkins & Watkins, 1982). Per Stato dell’IO Watkins
intende quel complesso organizzato di comportamenti, pensieri, sentimenti ed
esperienze, i cui vari elementi sono legati insieme da qualche principio comune, ma
separati da un’altra parte dell’Io da confini più o meno permeabili. Il terapeuta prova a
parlare con quella parte, una parte antica, che nasconde, che sa, che vorrebbe
comunicare, ma che finora non ha potuto. Questa tecnica la integro spesso con la
tecnica della sedia vuota, di derivazione gestaltica.
3) Affetto-ponte. Ideata da Watkins, si rivela utile per produrre la regressione temporale e
svelare ricordi e fantasie associati ad un particolare affetto. In questo procedimento,
una specifica emozione o sensazione che solitamente precede il comportamento
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problematico nel presente, viene utilizzata come un ponte che collega al passato, a una
o più situazioni in cui quel sentimento era presente, comprensibile o spiegabile.
L’affetto-ponte risulterà più efficace quando l’intensità della emozione sarà
abbastanza forte. Si possono dare dei suggerimenti per ampliare l’emozione, ma se
l’intensità del sentimento diventa troppo forte, l’esercizio deve essere interrotto e il
paziente ricondotto alla calma.
4) La desensibilizzazione implosiva. Si utilizza per ridurre l’intensità dei sentimenti
associati all’evento traumatico, in modo che l’esperienza traumatica alla base del
comportamento dissociativo possa essere integrata meglio nella storia personale del
paziente. E’ una tecnica dolce di inondazione, in cui il paziente, nello stato di trance,
viene gradualmente esposto alla situazione traumatica originaria. Il paziente deve
rivivere innumerevoli volte i sentimenti associati all’esperienza traumatica, nella
stessa seduta e in sedute diverse, inserendo ogni volta una breve pausa per riposare.
Dopo ciascun esercizio di esposizione, si può domandare al paziente di misurare su
una scala da 1 a 10 il grado di ansia provata durante il procedimento. Il terapeuta farà
proseguire l’esposizione fino a che l’ansia non sia sufficientemente diminuita, ma
estenderà la durata dell’esercizio di immaginazione in base alla capacità del paziente
di tollerarla.
5) Tecnica dell’altalena di Langellotti. Al paziente viene chiesto di immaginare di
montare su una vecchia altalena che “… avanti e indietro … avanti e indietro … e poi
indietro, … solo indietro …e poi indietro …”, in spazi e tempi mai o poco esplorati,
significativi per la sua storia e che sono legati alla sua sofferenza, al suo problema. Poi
si suggerirà: “…e quando sei lì, … puoi rimanere sull’altalena, … rallentare la corsa
… o puoi scendere ed entrare …”.
6) Tecnica del diario di Langellotti. Si chiede al paziente di immaginare che la sua vita è
stata scritta su un diario, che ora può sfogliare: “… e ti accorgerai che ci sono pagine
che sembrano illeggibili, … sbiadite, … ma il tuo inconscio, … una parte profonda di
te può riempire, … può completare queste pagine, ... un pezzo alla volta, senza fretta
… quel tanto che puoi, … che vuoi …”.
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Appendice
Le scale di valutazione
Sebbene il colloquio e la relazione terapeuta-paziente sia alla base di ogni diagnosi,
l’utilizzo di scale “obiettivabili” rimane un valido aiuto e corollario. Ciò è particolarmente
vero nell’ambito dei disturbi dissociativi, dove un’integrazione testologica si rivela
fondamentale per superare la barriera costituita dalle difficoltà nel trasporre in parole i
propri sintomi e renderli effettivamente misurabili. Le scale di valutazione più usate sono:
• La Dissociative Experiences Scale (DES), una scala di valutazione che misura il
livello e il tipo di esperienza dissociativa presente. Le 28 domande che la compongono
descrivono delle esperienze dissociative delle quali il soggetto deve indicare la
frequenza con la quale le ha sperimentate. Il punteggio della scala è dato dalla somma
dei punteggi dei singoli item diviso per il numero degli item (28) e, perciò, può andare
da 0 a 100. Punteggi superiori a 30 sono in genere associati ad una diagnosi di DD. La
DES-Revised (Dalenberg, Carlson, 2010) è una nuova versione della DES che usa al
posto delle percentuali una scala di risposta Likert (da mai ad almeno una volta alla
settimana).
• Il Multidimensional Inventory of Dissociation (MID) (Dell, 2006) è una scala
autosomministrata composta da 218 item, in grado di valutare ampiamente la tendenza
dissociativa del soggetto e mostra ampia affidabilità interna e stabilità.
• Il Questionnaire of Experience of Dissociation (QED) è uno strumento messo a punto
per la misurazione della incapacità di integrare a livello conscio pensieri, sentimenti e
azioni. E’ composto da 26 item, ricavati dalla letteratura clinica sull’argomento che
sono valutati su una scala dicotomica vero/falso.
• La Structured Clinical Interview for DSM-IV Dissociative Disorders-Revised: SCID-R
è una intervista semistrutturata che comprende 276 item, per la valutazione della
presenza e della gravità dei 5 sintomi fondamentali (amnesia, confusione e alterazione
dell’identità, depersonalizzazione e derealizzazione). Viene utilizzata per formulare
una diagnosi DSM di DD. Questa si basa sull’identificazione dei sintomi-chiave dei
DD, sulla valutazione della loro gravità e sul confronto del quadro clinico del paziente
con quello previsto dai criteri diagnostici del DSM-IV. La gravità di ciascuno dei 5
sintomi fondamentali è valutata da 1 (assente) a 4 (grave). E’ in via di preparazione
una versione aggiornata dell’intervista SCID basata sulla nuova classificazione del
DSM-5.
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CONCLUSIONI
La dissociazione altera la realtà, ma permette di stare in contatto con essa in uno stato
mentale tale da riuscire ad affrontare il caos esperienziale che il trauma produce. Il trauma
produce la dissociazione: il fenomeno dissociativo è una difesa adattativa in risposta ad un
elevato livello di stress. Il fenomeno dissociativo si dispone lungo un continuum: una
differenza importante tra dissociazione normale e quella patologica è legata alla memoria:
nella dissociazione normale si produce il fenomeno della memoria panoramica, uno sguardo
retrospettivo sulla vita passata, mentre nella dissociazione patologica vi sono fenomeni
persistenti e ricorrenti di tempo perduto, lacune nella memoria che inglobano periodi estesi di
vita (Steinberg & Schnall, 2001). La natura essenziale del trauma consiste nel fatto che la
persona non è preparata ad affrontarlo: il meccanismo dissociativo protegge quindi contro la
frammentazione e scollega ipnoticamente gli stati di consapevolezza incompatibili. Il trauma
produce perciò dissociazione e questa crea una distorsione temporale rispetto al passato e alla
capacità di proiettarsi nel futuro.
I fenomeni dissociativi sono molto vicini ai fenomeni che si evidenziano durante la
trance ipnotica: il realizzarsi di amnesie, la comparsa di aspetti di personalità che possono
essere in contrapposizione con la struttura psichica abituale, la regressione d’età, il verificarsi
di fenomeni di depersonalizzazione. La grande differenza tra i fenomeni dissociativi e i
fenomeni ipnotici si osserva nel fatto che i primi si verificano in modo automatico, creano
problemi alla persona che li sperimenta e disagio; solitamente durano per un lasso di tempo
abbastanza lungo. I secondi, invece, vengono attivati all’interno di un tempo definito e di uno
spazio condiviso, cioè il setting terapeutico: l’obiettivo è evocarli ed utilizzarli per superare
altri sintomi disfunzionali. Tali fenomeni possono a volte attivarsi autonomamente, come
nella comune trance quotidiana, ma non raggiungono mai l’intensità e l’evidenza clinica dei
disturbi dissociativi che rientrano nell’ambito psicopatologico.
L’uso della trance ipnotica da parte dell’ipnositerapeuta può consentire, nel lavoro di
terapia, il collegamento degli stati di sé disconnessi. L’Ipnosi, in quanto modificazione dello
stato di coscienza che si fonda su naturali meccanismi dissociativi in grado di produrre plasie
ideo-senso-motorie e somato-viscerali, si caratterizza quale condizione di temporanea
dissociazione o disconnessione tra le varie parti del sistema-mente che normalmente sono
ben integrate. Si tratta, chiaramente, di una dissociazione controllata, all’interno di un sistema
accudente, il cui fine è la riassociazione, la reintegrazione, la ricombinazione di esperienze,
apprendimenti, memorie e quindi parti di sé. Il paziente relativizza le proprie mappe cognitive
ed emotive e questo apre la possibilità per una ristrutturazione di realtà problematiche.
L’Ipnosi, definita in tal modo, si situa fra le forme paradossali di terapia (dissocio per
riassociare) ed è, endogenamente ‘utilizzazione’, al di là del disturbo per il quale viene usata:
utilizzo lo stesso schema del problema portatomi nella stanza di terapia dal paziente per
condurlo verso la soluzione, facilitandolo nel compito di accesso alle sue risorse. Fra
problema e soluzione vi è un isomorfismo che sta al terapeuta cogliere ed utilizzare
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sapientemente. La terapia con l’Ipnosi costituisce poi un sistema di accesso e di utilizzazione
dei patterns stato-dipendenti o sistemi SDMLB ( State Dependent Memory Learning
Behaviour) (Rossi, 1985) che erano stati definiti da Erickson “apprendimenti esperienziali”.
Con le tecniche ipnotiche possiamo avere esperienza del passato immaginandolo attraverso
diverse prospettive, amplificando questa possibilità di trasformarlo attraverso modificazioni
di stati psichici memoria-dipendenti. L’Ipnositerapia può dunque essere utilizzata per
esplorare e gestire le esperienze traumatiche e i fenomeni dissociativi, in quanto la trance
ipnotica altera gli schemi abituali di controllo e direzione consentendo l’integrazione di
apprendimenti, memorie, sensazioni, ricordi che diventano accessibili in uno stato modificato
di coscienza. Permette di recuperare materiale rimosso e di rivivere l’effetto connesso a tale
materiale. Favorisce l’attenuazione dell’effetto stesso ed il riapprendimento del modo di
fronteggiare le situazioni associate a quelle traumatiche o problematiche. Ciò che accomuna i
Disturbi Dissociativi e l’Ipnosi è la Dissociazione, ed è proprio la condivisione di processi e
meccanismi dissociativi che rende naturale l’utilizzo dell’Ipnosi in questi importanti disturbi.
Le ricerche e i risultati clinici ottenuti da M.H. Erickson descrivono la potenza della parola e
della comunicazione interumana come processo di cura. Non solo l’utilizzo di farmaci,
droghe o sostanze psicoattive può indurre un cambiamento evidente nello stato psichico, ma
anche l’utilizzo di parole e frasi pronunciate in un certo contesto, come il setting
psicoterapeutico, con una certa tonalità di voce e utilizzando un linguaggio metaforico che
sappia creare piccole confusioni, e che può agire a livello di vie neuronali ormai cristallizzate
in schemi ripetitivi – da cui i sintomi psichici .
Se ogni psicoterapia, qualunque sia il suo modello di riferimento e se ben condotta,
agisce a livello bio-psicologico, l’ipnositerapia nella sua versione moderna può inserirsi in
quella indissolubile dimensione mente-corpo, trasformando stati psichici in percezioni nuove
a livello corporeo e viscerale e, in un processo inverso, trasformando sensazioni che giungono
dalla cute, dai muscoli, dalla percezione del respiro in stati psichici modificati da questa
profonda esperienza incarnata. Lo stato psichico si crea attraverso tonalità affettive che
vengono a formarsi prima di tutto dalle percezioni corporee, le quali da sensazioni diventano
emozioni, a loro volta profondamente legate alle cognizioni. L’ipotesi che i sistemi neuronali
legati alle emozioni siano diversi da quelli legati alle cognizioni si considera ormai superata:
ogni atto decisionale che riteniamo essere un processo volontario e razionale è sempre legato
anche ad un intervento emozionale. L’ipnositerapia ericksoniana consente di agire
parallelamente sui processi cognitivi ed emozionali, i quali utilizzano schemi neuronali
comuni, ottenendo come risultato la modificazione di un’emozione che, a sua volta, modifica
la cognizione che a essa è collegata, aprendo la via al cambiamento.
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