anno III
numero 32/33
dicembre 2006
gennaio 2007
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postale DCB 70% Lecce
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CoolClub.it
“Abbassa la tua radio per favor, se vuoi sentire i battiti del mio cuor” (Bracchi, D’Anzi 1940)
Silenzioso slow più conosciuta come Abbassa la tua radio è una canzone d’amore, censurata al tempo perché sembrava
invitasse all’ascolto di Radio Londra, emittente bandita durante il periodo fascista per il suo taglio “diverso”. Abbassa
la tua radio è anche il titolo di un disco di Stefano Bollani che rivisita squisitamente alcune canzoni della nostra musica
leggera del passato. Abbassa la tua radio è anche il titolo del numero di Coolclub.it che state sfogliando.
Ci siamo sempre un po’ sentiti il giornale delle radio. Più o meno tutti nel collettivo abbiamo un passato o un presente
in radio, molta della nostra formazione musicale parte e si nutre dalla radio. Di mitiche trasmissioni, di voci che ci hanno
fatto innamorare della musica. Moltissimi dei nostri collaboratori si muovono nell’etere (Ciccio Riccio, Primavera Radio,
Contro Radio, Rete Otto, Radio Città Futura, Radio Capital, Repubblica Radio, Radio Paz). Un compleanno, quello delle
radio libere, ci ha spinto a dedicarle questo numero. Ad alcuni sembrerà un mezzo desueto, passato, ma è con un certo
orgoglio che registriamo che la radio non è mai passata di moda, anzi, oggi più che mai, raccoglie ascolti record. Perché
ha saputo tenere il passo con i tempi che cambiano, si è evoluta, ha esplorato e trovato casa in nuovi canali (ultimo la
rete). E anche perché la radio è da sempre e sempre sarà vicina, calda, familiare, poco invadente. Per me è stata sempre
un rifugio, nelle notti insonni una voce che come me non dormiva tenuta sveglia dalla passione.
A ognuno la sua radio, ce n’è veramente per tutti i gusti. Abbiamo provato a offrirne un campionario attraverso le voci
(mai come in questo caso parola azzeccata) dei protagonisti. Quella di Antonello Dose co-conduttore del Ruggito del
Coniglio (in onda su Radio Due), quella di Alessio Bertallot (B-Side su Radio Deejey) e di Enea Roveda direttore di Life
gate. Abbiamo esplorato il passato e il presente della radio anche attraverso le parole di chi della radio ha fatto la
storia, il nostro amico Giancarlo Susanna (mitica voce di Rai stereo notte), ma anche il suo futuro con una panoramica
sul fenomeno del podcast e delle radio on-line. E poi ancora interviste con Sodastream, Franklin Delano, Marlene Kuntz,
Casino Royale e soprattutto Gianmaria Testa, al quale abbiamo dedicato la copertina, che sarà in concerto a Lecce
e Bari (21 e 22 dicembre). Si avvicina il Natale e gli scaffali dei negozi straripano di dischi. Noi abbiamo selezionato per
voi le nostre scelte, i nostri consigli all’acquisto. E come ogni mese, lo abbiamo fatto anche per i libri e i film. Settimane,
le prossime, piene di appuntamenti. Abbiamo cercato di segnalarne il maggior numero possibile. Questo numero di
Coolclub.it come ogni anno, questo è il quarto, è doppio. Ci ritroverete in giro a febbraio. Nel frattempo si apre la nostra
campagna abbonamenti. Se volete che questo giornale continui ad esistere regalate un abbonamento a Coolclub.it
alle persone a cui volete bene. Io che il regalo più bello l’ho già ricevuto non posso che augurarvi un nuovo anno pieno
di amore, di felicità e di amicizia. Buona lettura. “Abbassa la tua radio per favor, perché io son geloso del mio amor”
Osvaldo Piliego
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Via De Jacobis 42 73100 Lecce
Telefono: 0832303707
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Anno 3 Numero 32/33
dicembre 2006/gennaio 2007
Iscritto al registro della stampa
del tribunale di Lecce il
15.01.2004 al n.844
Direttore responsabile
Osvaldo Piliego
Collettivo redazionale
Dario Goffredo, Pierpaolo Lala,
C. Michele Pierri, Cesare Liaci,
Antonietta Rosato
Hanno collaborato a questo
numero:Giancarlo Susanna,
Dino Amenduni, Ilario Galati,
Livio Polini, Federico Baglivi,
Valentina Cataldo, Giancarlo
Bruno, Nicola Pace, Dario
Quarta, Camillo Fasulo,
Gianpaolo Chiriacò, Gennaro
Azzollini, Carlo Chicco, Silvestro
Ferrara, Rossano Astremo,
Mauro Marino, Raffaella
De Donato, Anna Puricella,
Sabrina Manna, Maria Grazia
Piemontese, Daniele Rollo,
Roberto Cesano
Ringraziamo Pick Up a Lecce e
le redazioni di Blackmailmag.
com, Primavera Radio di
Taranto e Lecce, Controradio
di Bari, Mondoradio di
Tricase (Le), Ciccio Riccio di
Brindisi, Rete Otto di Lecce,
L’impaziente di Lecce,
QuiSalento, Pugliadinotte.net.
4 Il fascino
discreto della
radio
7 Prova un due
tre prova
}
8 Antonello
Dose
9 LifeGate
11 Alessio
Bertallot
22 Casino
Royale
13 Keep Cool
23 Marlene
Kuntz
In copertina Gianmaria Testa
(foto M. Caselli)
Progetto grafico
dario
Impaginazione
Danilo Scalera
Stampa
Martano Editrice - Lecce
Chiuso tra una diavola e
una quattro stagioni, prima
di andare a comprare
l’aspirinetta.
Per inserzioni e abbonamenti:
3394313397
27 Coolibrì
33 Be Cool
41 Gianmaria
Testa
43 Appuntamenti
46 Fumetto
F IGLI DEI FESTIVAL
CoolClub.it C
“Amo la radio perché arriva dalla
gente / entra nelle case e ci parla
direttamente / se una radio è libera
ma libera veramente /piace anche
di più perché libera la mente”
Nel 1976 la nascente Radio Popolare
commissionò – a mo’ di scherzo - un
pezzo al cantautore Eugenio Finardi.
La radio divenne (ed è tuttora) un
vero e proprio inno generazionale
per quanti vissero la nascita delle
radio libere. A trent’anni di distanza
da quell’avvenimento ovviamente
si susseguono i ricordi, le mostre, gli
appuntamenti e le pubblicazioni
per festeggiare questo importante
compleanno.
In casa Popolare esce, ad esempio,
Ma libera veramente, un cofanetto
(libro + cd) sui 30 anni della radio
milanese edito da Kowalski. Il
libro contiene una cinquantina
di considerazioni, interviste e una
selezione di foto; il cd oltre sessanta
minuti di brani tratti dall’archivio di
Radio Popolare. Nel 1991 su impulso
della storica emittente milanese
nacque Popolare Network al quale
sono collegate diverse radio locali.
La Puglia è rappresentata nel
network da Controradio di Bari e
PrimaVeraRadio di Taranto e Lecce.
Radio libere - ma libere veramente
(ed. Malatempora) è un viaggio
nella storia e nelle storie delle radio
libere, di movimento curato da
Mauro Orrico.
Molto interessante è l’operazione
portata avanti dalla casa editrice
Minerva che ha pubblicato un
libro Radio Fm 1976-2006 Trent’anni
di libertà d’antenna a cura di
Peppino Ortoleva, Giovanni Cordoni
e Nicoletta Verna che racconta
questi trent’anni di libera radiofonia
attraverso
immagini,
aneddoti,
interviste, testimonianze e contributi
di importanti personaggi legati al
mondo della radio. Il cammino è
ripercorso dalla Minerva attraverso
un’articolata iniziativa che, oltre al
volume, prevede anche una mostra
itinerante in quindici città (partenza
da Bologna e arrivo a Roma) che
raccoglie foto, suoni, immagini,
musica, jingle, siglie di apertura e
di chiusura dei programmi, filmati,
oggetti, materiali storici, una galleria
cronologica e molto altro, e un sito
internet
www.30annidiradiofm.it
che fornisce tutte le informazioni sul
progetto e permetterà un dialogo
interattivo tra appassionati ed
organizzatori.
È il 1976 e una sentenza della corte
costituzionale riconosce la legittimità
delle radio private. Prima di questa data
potevano trasmettere solo le radio di
stato, il resto era illegale, le altre erano
radio pirata.
Era infatti dalle onde del mare che
arrivavano le onde radio libere, l’inglese
Radio Caroline a metà degli anni 60
trasmetteva da una nave fuori dalle
acque territoriali inglesi aggirando leggi
e invadendo pacificamente la terra
ferma con le canzoni dei Beatles e dei
Rolling Stones. In America già dagli
anni 40 le radio private cominciarono
a moltiplicarsi, erano le famose radio
indipendenti dipinte magistralmente in
film come Radio Days di Woody Allen e
nel più recente Fratello dove sei dei fratelli
Cohen. In Italia, come al solito (pensare
che la radio l’ha inventata il nostro
Guglielmo Marconi) siamo sempre un
po’ in ritardo e, in questo caso, stavamo
a sentire cosa succedeva oltre i confini.
Negli anni 60 tutti gli appassionati si
sintonizzavano, potenza dell’etere, sulle
frequenze di Radio Caroline o su quelle
della più vicina Radio Luxembourg per
sentire il nuovo che impazzava nel mondo.
In Rai esperienze di trasmissioni come
Bandiera gialla e Per voi giovani aprirono
la strada a quella che sarebbe stata una
vera e propria rivoluzione. Con l’avvento
della banda cittadina (frequenze con
copertura locale) e con l’abbattimento
dell’ostacolo tecnico (farsi una radio
divenne accessibile ai più) le frequenze
radio furono in pochissimo sovraffollate
dalle radio libere. Dopo l’entusiasmo
iniziale quelle a resistere furono poche e
pochissime quelle ad arrivare fino ai nostri
giorni: Radio Città futura e Radio Blu a
Roma, Radio Popolare a Milano, Radio
Alice a Bologna (quella raccontata in
Lavorare con lentezza). E ieri come oggi
i problemi erano gli stessi. Fenomeni
come quello delle radio negli anni 60 a
distanza di un ventennio in televisione
con la nascita delle televisioni private
e ancora circa venti anni dopo con la
diffusione di internet. Un momento di
improvvisa e inebriante libertà seguito da
una necessaria e a volte troppo restrittiva
regolamentazione (quella per le radio è
la legge Mammì dell’80). La lotta delle
radio libere contro la Siae è la stessa che
oggi si combatte in rete con il file sharing
e gli mp3. La televisione commerciale
non è altro che il corrispondente di quelle
che a un certo punto hanno smesso di
chiamarsi radio libere e sono diventate
radio private. In alcuni casi, non in tutti
per fortuna, la radio si è piegata alla
pubblicità, ai palinsesti imposti, alle
scalette di brani scelti dalla classifica e
non dal gusto di chi è dietro il microfono.
Ma la radio non si è arresa. Accanto a
cellule resistenti dell’antenna, ci sono gli
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esploratori, gli avanguardisti del mezzo.
Ecco che la radio conquista la rete, i
cellulari, gli ipod, cambia e si trasforma
pur rimanendo fedele alla sua essenza,
quella cantata anche da Eugenio Finardi
negli anni 70, il suo essere discreta, mai
invadente, ma vicina. Ed è per questo
che la radio è di quelle cose vintage
che non passano mai di moda. Uno dei
motivi è sicuramente il ruolo del pubblico
che da semplice ascoltatore diventa
consumatore sempre più protagonista.
È cambiato il luogo della radio non più
solo domestica ma sempre più mobile
(metà dell’ascolto della radio è infatti
registrato nel cosiddetto drive time, il
tempo trascorso in auto). Importante per
la radio è tenersi lontano dai codici della
televisione, la sua grammatica è diversa.
Un fenomeno importante di questi ultimi
tempi, inversione di tendenza rispetto al
passato, è il rifugiarsi di molti personaggi
televisivi in radio (su tutti Fiorello) e anche
il grande successo della radio portata
in tv. Questo sottolinea sempre di più
la longevità del mezzo che ha saputo
mantenere in questi anni un rapporto
privilegiato con il pubblico, un rapporto
stretto, intimo. C’è la magia della voce,
c’è una cosa che il bombardamento di
immagini e di informazioni ci ha tolto: la
fantasia, il sogno.
Osvaldo Piliego
ABBASSA LA TUA RADIO
Avete presente il famigerato “blocco dello scrittore”? Quella specie di timor
panico che ti prende quando proprio non sai come riempire una pagina
bianca? è quello che sto sperimentando adesso, mentre mi sforzo di dare un
senso e un ordine ai mille pensieri che la sola parla “radio” porta con sé. Quando
ero piccolo – sei o sette anni, fin dove arrivano i primi ricordi – a casa mia
c’erano due apparecchi radio: uno era un mobile abbastanza ingombrante,
con due sportelli anteriori che celavano quadro e manopole e uno superiore
che proteggeva il fonografo, troneggiava in salotto e veniva acceso soltanto in
occasioni particolari. L’altro, più piccolo e moderno, era sistemato in cucina: in
bachelite bianco crema con un comando per la sintonia che una volta acceso
diventava arancione. Era una Emerson, americana come tanti altri oggetti che
alimentavano i nostri sogni. Non so dove sia finita, scacciata dal suo posto più
familiare dopo l’arrivo di un più maneggevole transistor giapponese, ma nella
mia memoria è ancora “la radio” e non è un caso che il modello che ho appena
acquistato per la mia nuova casa le somigli moltissimo.
A quei tempi non immaginavo certo che un giorno la mia voce sarebbe uscita
da un altoparlante quasi identico e che sarei stato io a scegliere la musica da
far ascoltare a migliaia di persone. Il mio è uno di quei rari e fortunati casi in cui
una pura e semplice passione diventa un lavoro ed è per questo che della radio
non riesco a parlare – men che mai a scrivere – in modo distaccato e oggettivo.
La radio è stata – ed è ancora – la mia finestra privilegiata sul mondo, quella che
ha dato aria e luce alla mia infanzia e alla mia adolescenza, una scuola molto
più affascinante e proficua di quella che frequentavo e che come tanti non
amavo troppo.
Perfino la radio un po’ ingessata (e al tempo stesso più elegante) degli anni ’50
e ’60, la stessa in cui una commissione di censura bloccava le canzoni sgradite a
un’Italia provinciale e bacchettona, riusciva a insegnare una quantità incredibile
di nozioni.
Un esempio? Una serie di sceneggiati in cui Philip Marlowe, il disincantato
investigatore creato da Raymond Chandler, aveva la voce bellissima di Arnoldo
Foà. Per non parlare di “Alto gradimento”, la trasmissione di Renzo Arbore e
Gianni Boncompagni – con gli interventi surreali e travolgenti di Mario Marenco
e Giorgio Bracardi – che cambiò radicalmente il modo di fare radio nel nostro
paese.
La radio è un mezzo di comunicazione caldo. Puoi ascoltarla facendo altre cose.
Non ti impone la sua presenza ma ti accompagna nelle situazioni più varie. Non
ti costringe a star fermo. Anzi. Ti spinge a muoverti e a spostarti. Sbagliava chi
ha pensato che la televisione l’avrebbe sostituita. Sbagliava chi pensava che
Internet l’avrebbe superata. Non solo fa spesso ascolti più cospicui di quelli della
tv, ma è entrata in rete allargando il suo raggio d’azione. è il futuro senza perdere
nulla del suo fascino romantico. E ogni volta che siedo dietro a un microfono,
intenzionato a condividere pensieri ed emozioni con chi ascolta, il bambino
ammaliato dalla Emerson in bachelite bianca si sovrappone al vecchio e rodato
conduttore. Come se passato, presente e futuro coincidessero per un magico
istante.
Giancarlo Susanna
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Non è solo una trasmissione radiofonica,
è un vero e proprio club, una grande e
imponente opera di psicanalisi dell’etere
dove tutti chiamano, si raccontano,
mettono a nudo vizi e virtù della propria
vita, narrano episodi irraccontabili e
amori ormai introvabili. Da dodici anni
su Radio 2 (mirabile rete che propone
anche altre chicche come Fiorello,
Caterpillar, Decanter e altre ancora)
ogni mattina va in onda il Ruggito del
Coniglio, trasmissione condotta da
Marco Presta e Antonello Dose. La loro
ironia è fulminante, attraverso le storie
degli ascoltatori, la lettura semiseria
dei giornali, le rubriche più o meno
fisse, raccontato l’evoluzione dell’Italia,
questo strano paese. Abbiamo fatto
qualche domanda al più alto dei due,
Antonello Dose.
Innanzitutto una domanda di rito. Come
e perché nasce il Ruggito del Coniglio?
Io e Marco siamo approdati in Rai grazie
a Enrico Vaime, che praticamente
ci ha insegnato il mestiere. Dopo
alcune trasmissioni il 2 ottobre del 1995
lanciammo il Ruggito che doveva
essere un contenitore di attualità con
le telefonate in diretta degli ascoltatori.
La prima puntata avevamo il timore
che nessuno chiamasse, poi per fortuna
tutto funzionò, le telefonate arrivarono e
iniziammo questa avventura.
Com’e cambiata la trasmissione in questi
anni? In base a quali criteri avete scelto
le rubriche?
Noi siamo due tipi poco tranquilli che
cercano di far divertire il pubblico.
Proprio per questo motivo ci piace
cambiare e proporre cose sempre
nuove. In questi anni abbiamo ideato e
proposto centinaia di rubriche diverse;
alcune vanno ancora avanti a furor di
popolo come Coniglierò o gli Stai su:
tutte espressioni che sono entrate nel
linguaggio del nostro pubblico. La cosa
che è rimasta immutata nel corso delle
edizioni è il grande spazio dedicato
all’attualità. L’Italia è un paese dove
abbondano strane notizie, cose che in
altri paesi del mondo non succedono.
Ci sono contrasti, nella vita civile e
politica, talmente stridenti che è quasi
fin troppo facile parlarne. Inoltre un’altra
caratteristica che non cambia è la diretta
del pubblico. Per il resto Il Ruggito muta
continuamente.
Il successo è più merito vostro o dei vostri
radioascoltatori?
Secondo noi esiste un’Italia migliore. In
tante altre trasmissioni radiofoniche e
televisive l’ascoltatore suscita una grande
attenzione soprattutto se è mostruoso, se
ha fatto cose abnormi. Noi cerchiamo
invece di far raccontare la vita di tutti i
giorni. In essa c’è una sublime bellezza,
una voglia di ridere, di scherzare, di
sforzarsi alla ricerca del buonumore
nonostante i tanti problemi di denaro, di
salute, d’amore. Diciamo che nel corso
degli anni ci siamo appassionati a questa
missione sociale.
Qual è la storia più curiosa che ti ricordi?
È difficile fare una classifica perché le
storie che sono state raccontate sono
talmente tante, però ricordo una puntata
in cui il tema era “Chiamateci se non vi
restituiscono degli oggetti”. Chiamò un
uomo che aveva prestato una capra
ad un amico e la rivoleva indietro. Il
problema è che questo disgraziato
l’aveva cucinata e mangiata e non
c’era più nulla da fare. In generale però
la casistica è molto più interessante delle
sceneggiature che mettono in piedi gli
autori dei reality show. L’Isola dei famosi
mi ha ormai infastidito anzi, dirò di più,
credo di non aver mai visto una puntata
intera di un reality. Ritengo sia una follia
pensare che questi spettacoli siano il più
grande risultato della televisione. Secondo
me basterebbe mettersi sul balcone di
casa per vedere uno spettacolo migliore.
È meglio osservare un bancomat che
l’isola.
Dalla radio alla televisione. Qual è il
tuo bilancio su Dove osano le quaglie,
andata in onda su RaiTre?
È stata una bella esperienza. Siamo stati
molto contenti perché ci siamo divertiti e
abbiamo ottenuto buoni risultati di share
per i mezzi a disposizione.
Cosa ti ricordi delle prime radio libere?
Nel periodo del movimento del ‘77 mi
ricordo che le radio politiche erano
un vero e proprio bollettino di contro
informazione. La versione ufficiale, quella
dei giornali, delle radio di stato, della
televisione, raccontava delle cose e la
controinformazione diceva come erano
andati i fatti. Una cosa che mi colpì molto
avvene durante una manifestazione a
Roma. Mi era capitato di assistere ad
una carica della polizia e poi di vedere
il racconto dei fatti di Bruno Vespa. Era
assolutamente una cosa diversa da
quella che avevo visto...
E della radio di adesso cosa pensi?
Il vero problema è che da troppi anni
si sta dando poco spazio alla creatività
personale.
Una curiosità... spesso prendete in giro i
brani che mandate in onda...
Io e Marco non scegliamo la musica
che va durante il Ruggito. Noi subiamo
completamente la playlist scelta dalla
Rai per uniformare il sound della rete.
L’ironia è un nostro modo per interagire
con questo obbligo editoriale.
Che influenza hanno avuto le radio
private nei confronti della Rai?
Grandissima. Quando abbiamo iniziato
su Radio 1 la radio aveva ancora una
estrema formalità, c’era una grande
attenzione nei confronti della lingua
parlata, l’uso doveva essere quello imposto
dall’Accademia della Crusca. Ognuno
di noi aveva un libro di regole e di parole
da non pronunciare assolutamente. Le
cose sono man mano cambiate anche
per l’arrivo in radio di gente comune
che non aveva competenze di dizione.
Noi abbiamo sicuramente contribuito
all’abbassamento
della
soglia
di
formalità. Quando l’ascoltatore va in
diretta poco importa la pulizia linguistica.
Negli anni la lingua parlata dalla gente
comune è entrata sempre di più nel
mezzo radiofonico. Insomma come si
direbbe a Roma si è diffuso il “Parla come
magni”.
Pierpaolo Lala
CoolClub.it
Non poteva mancare, in questa nostra panoramica sul mondo
della radio, Lifegate, una filosofia assolutamente unica di
concepire musica, pubblicità, vita, benessere. Una radio che
rispetta l’uomo, l’ambiente in cui vive, il suo ritmo, il suo futuro.
Attualmente Lifegate copre Piemonte, Lombardia, Roma e
parte del Lazio, trasmette via satellite e si può ascoltare on
line tramite il portale (www.lifegate.it). Abbiamo fatto qualche
domanda al direttore Enea Roveda.
Quale filosofia c’è dietro la radio?
Life Gate nasce come radio nel 2001 insieme al portale internet,
l’idea alla base era quella di veicolare il nostro progetto, il
nostro messaggio, ma anche quello di aziende e privati che
condividono i nostri stessi valori. Vale a dire l’eco-cultura, lo
stare bene, l’amore per l’ambiente. La radio è un modo per far
sapere alla gente cosa si può fare e cosa già si fa per l’ambiente.
Questo implica naturalmente la selezione di inserzionisti che
siano in linea con i nostri valori.
Life gate ha anche un precisa programmazione musicale?
Si. Quando abbiamo pensato a una radio, abbiamo esaminato
le caratteristiche e le programmazioni di tutte le altre radio e li
abbiamo cestinati. Life Gate ha imposto come primo parametro
la qualità. Qualità della musica prima di tutto. Spaziando tra
i generi (forse l’unico genere che non programmiamo è l’hiphop) cerchiamo di proporre buona musica, suonata da grande
artisti, senza tener conto delle classifiche, delle mode, delle
ultime uscite.
Life gate non è solo radio, ci parli un po’ delle vostre altre
attività?
Life gate è moltissime cose. Diciamo, per semplificare, che la
nostra attività si divide in due grandi ambiti. Il primo è quello che
riguarda il network di cui abbiamo già parlato. Oltre al portale
internet e alla radio, Life gate produce anche un giornale,
un bimestrale in 100.000 copie distribuito ai nostri abbonati e
in tutta Italia. Poi abbiamo una serie di progetti che portiamo
avanti. Uno di questi è rivolto alle aziende. Offriamo il nostro
aiuto per portarle verso le certificazioni sociali e ambientali. C’è
poi Impatto 0 e Lifegate energy. Impatto 0 è un’iniziativa rivolta
alla compensazione dell’anidride carbonica prodotta. Ognuno
di noi produce anidride carbonica, la si produce leggendo un
libro, la produce un’industria come un’auto. Per compensare
Life Gate riqualifica e protegge aree boschive. Lifegate energy
è invece indirizzato alla scoperta e all’utilizzo di nuove fonti di
energia rinnovabile. Ma Lifegate è anche molto altro. Potete
scoprirlo visitando il nostro portale.
Come vi ponete nei confronti dei palinsesti frenetici delle altre
emittenti?
Noi crediamo di fare una radio avanti rispetto alle altre.
Cerchiamo con i nostri ritmi di seguire quello della gente, le
sue esigenze. È per questo che i nostri spazi pubblicitari non
superamo mai il 5% della programmazione. La pubblicità è
affidata a un’unica voce senza ricorrere a effetti speciali.
Credete di rivolgervi a un pubblico di nicchia
Beh, dipende cosa intendi, a Milano a breve dalla nostra messa
in onda abbiamo raggiunto il 13% di share, un dato che ha
posto la altre radio nella condizione di accodarsi al nostro stile.
Ho letto di una trasmissione on the road, ce ne parli?
Sempre nell’ottica di un continuo cambiamento abbiamo
realizzato questa trasmissione in collaborazione con Kia Motors.
Una monovolume adattata a studio mobile percorre l’Italia,
l’ospite sceglie una playlist ispirata dal viaggio. Questa insieme
ad altre fa parte di una nuova rivoluzione in corso nella radio.
Per il futuro prevediamo l’incremento della parola, stiamo
pensando a piccoli programmi parlati, il nostro obiettivo è
riuscire a dare la visione, riuscire a dare all’ascoltatore la
suggestione delle immagini.
Osvaldo Piliego
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10
CoolClub.it
Per nostra fortuna, Alessio Bertallot
non disdegna il sud Italia. Affatto. E
così lo abbiamo incontrato a Bari, allo
ZenzeroClub, l’11 novembre, prima del
suo set. Dj poliedrico (lo dimostra il suo
programma, B-Side, in onda su Radio
Deejay dal lunedì al giovedì, dalle 21
alle 22.30) e artista di talento (ha vinto un
premio della critica nel 1992 a Sanremo
con gli Aeroplanitaliani, con la canzone
Zitti zitti in cui imponeva alla platea
30 secondi di silenzio assoluto durante
l’esibizione), le sue considerazioni sul
mondo della radiofonia e più in generale
sulla musica, possono rappresentare un
interessante motivo di dibattito sullo stato
di salute del “sistema” oggi in Italia.
La tua presenza qui oggi è veramente
una fortuna. Probabilmente saremmo
venuti comunque a intervistarti, a sentire
la tua, ma il fatto che Coolclub.it di questo
mese abbia come tema la radio ha reso
quest’intervista pressoché “obbligata”. A
proposito di radio, qual è lo stato di forma
della radiofonia oggi in Italia?
La situazione non è delle migliori, il
problema maggiore è legato all’assenza
di creatività. Si sacrificano sempre di più
la musica, in nome dell’intrattenimento, e
l’originalità. Non ci sono più linee editoriali
specifiche, e così ne risente la qualità
generale. Tutto questo, poi, annulla di
fatto la personalizzazione della radio: le
emittenti hanno palinsesti troppo simili.
E la crisi della Tv generalista, di cui tanto si
parla? Pensi che ci sia qualcosa di simile
tra i due fenomeni?
Un altro difetto della radio di oggi è che
insegue troppo la televisione, perciò non
è difficile riscontrare analogie, anche in
senso negativo. La tv è lo specchio della
società, ma di una società fittizia, in cui
la gente crede di potersi immedesimare,
ma in fondo non accade mai. E in questo
circuito è stata travolta anche la carta
stampata, che infatti appare sempre più
11
interessata ad aspetti come il gossip..
E allora perché non ci vai tu in televisione?
Sono oramai quasi 10 anni che non
fai nulla in tivù… (l’ultimo programma,
Alt-Mtv è andato in onda su MTV nella
stagione ‘98-99)
Sono io che non interesso alla televisione!
(sorride). Di musica si parla sempre poco,
e la musica che si può sentire in tv è
sempre mainstream.
Tornando alla radio, su Radio Deejay,
dove lavori, nasce il “Deejay Store”
(e-store per il download, legale e a
pagamento, di mp3): che idea ti sei fatto
su questa enorme novità? La pensi più
come un’evoluzione o un’involuzione?
Io la vedo come una cosa tutto
sommato positiva, come una potenziale
evoluzione. Immagino una vera e propria
“triangolazione” tra radio, musica e
informazione. Inoltre, gli utenti diventano
protagonisti: lo diventano soprattutto
perché sono coinvolti sotto l’aspetto
emotivo, perché possono ascoltare una
canzone di una specifica tracklist come
quella del mio programma, possono
apprezzarla e scaricarla immediatamente.
Questo è potenzialmente un passo in
avanti, mentre un’idea come il “Deejay
Store” non porterebbe niente di nuovo se
si distribuissero solo pezzi “mainstream”.
Il tuo programma in radio vede da 23 anni un forte aumento della musica
italiana in scaletta. Questo dipende da
una tua scelta stilistica a monte oppure
in Italia oggi si produce così tanta buona
musica che quasi si è “imposta”?
La prima…purtroppo. Non vedo grandi
progressi nella musica italiana in questo
ultimo periodo. Siamo storicamente
ancorati a un modo provinciale di fare
musica, anche se per fortuna le eccezioni
non mancano.
In questo senso il tuo ruolo è ritenuto da
molti determinante: si attribuisce a te il
merito di aver scoperto talenti indiscutibili
come Amalia Grè, Ivan Segreto, Diego
Mancino (gli ultimi due saranno in
concerto al Teatro Antoniano di Lecce
rispettivamente il 13 gennaio e il 19
maggio NDR)… magari questo può aver
creato un circuito positivo…
Magari! Sarebbe bello sapere che in
Italia qualcuno fosse stimolato a creare
prodotti di qualità per il solo fatto che
possa essere io a passarlo un giorno in
radio..
Dopo aver parlato dei massimi sistemi,
parliamo un po’ di te…mi rendo conto
che questa domanda, fatta da me che
ho poco più di 20 anni, ti farà sorridere;
comunque, cosa vuoi fare da grande?
(effettivamente
sorride)…vorrei
addestrare un cane da tartufo!
Attività redditizia…e nel mondo della
musica? Ti sei mai immaginato come
produttore, ad esempio?
Si, mi immagino come produttore, ma
di certo non oggi: ci vuole pazienza e
passione, tanta e tale da privarti del
sonno la notte, e ora come ora non ci
sono questi presupposti. Magari in futuro si,
mi piacerebbe, a condizione che si lavori
su qualcosa di realmente originale…già
come DJ mi sforzo di divulgare cose
nuove, non vedo perché non dovrebbe
essere così da produttore.
Suggerisci ai lettori un cd in uscita che
merita di essere ascoltato.
Sicuramente Biscuits for Breakfast di
Fink, l’ultimo cd di Trentmoller, Last
Resort, perché questo dj tedesco tratta
l’elettronica come pochi altri e poi, per
la musica italiana, vi suggerisco I Cosi:
fanno musica di stampo anni ‘60, ma in
modo assolutamente originale!
E se dovessi suggerire un classico?
Scelgo Blue Lines dei Massive Attack!
Dino “doonie” Amenduni
Keep Cool
Pop, Alternative, Metal, Elettronica, Lounge,Italiana, Indie
la musica secondo coolcub
Tom Waits
Orphans
Anti
blues (?) / *****
Un flusso sonoro che si dipana per tre cd
attraverso più di cinquanta canzoni, per
un totale di oltre tre ore di musica. Il ritorno
di Tom Waits ha, se volete, un aspetto
seminale. E non tanto per la quantità di
canzoni, per buona parte assolutamente
inedite, quanto perché Orphans è a tutt’ora
lo strumento più utile per comprendere
uno dei massimi autori di canzoni che gli
Usa abbiano partorito nell’ultimo mezzo
secolo. Ogni sfaccettatura, ogni sinistro
angolo dell’arte sconfinata dell’orco
di Pomona confluisce in questa opera,
che risponde in maniera esauriente alla
domanda (in forma di canzone) che ci
poniamo ogni qual volta ci accostiamo
ad un suo nuovo disco: tell me, who are
you this time? Bene, Orphans ci dice che
Tom Waits questa volta è tutti e nessuno, e
uno e trino. E lo spaventapasseri e il blues,
e l’attacco di cuore e il cane randagio,
e l’essere più dolce del pianeta e il più
meschino cantore di postriboli.
I tre cd che compongono Orphans,
accompagnati da un sontuoso booklet
di 90 pagine (ma inspiegabilmente avaro
di notizie), hanno un titolo che chiarisce
il loro contenuto: Brawlers, vale a dire
attaccabrighe, che contiene molti dei
blues e degli stomp che hanno reso
unico il suo stile; Bawlers, cioè urlatori, che
comprende le ballate notturne ed esalta
il lato squisitamente crooner del nostro;
Bastards, che non ha bisogno di traduzione
e che racchiude gli esperimenti più estremi,
musica che puzza di zolfo, blues cubisti,
reading e preghiere cavernose. Vale a
dire, i molteplici aspetti della sua arte.
Coadiuvato come sempre da Kathleen
Brennan (dietro ogni grande uomo c’è una
grande donna diceva qualcuno) Waits in
questa monumentale opera raccoglie
di tutto, dalla musica scritta per i film o il
teatro ai cosiddetti ‘scarti’, che però in
questo caso sono materiale di elevatissima
fattura: ci sono melodie, arrangiamenti o
semplici trovate che valgono la vita intera
di sedicenti cantautori pop incensati
dalla critica. Dai rantoli che diventano
tappeto sonoro agli arrangiamenti mai
banali suonati dal solito nugolo di musicisti
strepitosi, sino alle melodie maestose che
Waits sembra tirare fuori dal suo cilindro
senza alcuna difficoltà, anche quando si
tratta di … ehm, appunto… scarti. Citare
qualcosa è assai arduo perché ogni singola
traccia di questo Orphans è al contempo
paradigmatica e insufficiente a descrivere
un’arte così complessa e affascinante:
Little Drop of Poison, Widow’s Grave,
Down There Down The Train (scritta per
Johnny Cash), Road To Peace (un Waitspolitico che sentiamo di rado), Lucinda,
Lie To Me… e poi Ramones, Brecht/Weill,
Leadbelly, Biancaneve e i Sette Nani,
Woyczek, Bukowski, Kerouac e tanto altro
ancora. Sembrano mostriciattoli e sono
solo canzoni. Di quelle che mordono,
graffiano, seducono. Canzoni che fanno
venire il mal di pancia, le eruzioni cutanee
e gli eritemi. Canzoni che, per dirla con
le parole di Tom, “sono dure e tenere.
Rumbe e sirene, tarantelle sugli insetti,
madrigali sull’annegamento. Canzoni
orfane impaurite e dirette, che parlano di
estasi e di malinconia. Canzoni che sono
cresciute in modo difficile. Canzoni di
origini dubbie ritrovate dal destino crudele
ed ora lasciate sole a desiderare qualcuno
che si prenda cura di loro”. In nessun caso
- ed è quello che più conta - canzoni che
lasciano indifferenti.
Ilario Galati
KeepCool
14
Joanna Newsom
Ys
Drag City/Wide
Folk / ****
All’età di otto anni Joanna decise di imparare a suonare uno
strumento particolarmente difficile e fuori moda, l’arpa. La
scelta fu consigliata probabilmente dal padre, chitarrista, e
dalla madre, polistrumentista. Con gli anni sono arrivate le
prime esperienze in alcuni gruppi musicali come cantante
e tastierista (Golden Shoulders, The Pleased). Dopo due ep
autoprodotti finalmente nel 2004, all’età di 22 anni, arriva
l’album di debutto, The Milk-Eyed Mender, folk e rock in dodici
canzoni di buon livello. Ora, a distanza di due anni, ritorna
sulla scena con Ys, un disco in cui davvero nulla sembra sia
lasciato al caso. Di rock questa volta ce n’è ben poco, sono il
cantautorato ed il folk a dominare. Importanti collaborazioni
hanno contribuito a questa realizzazione: Van Dyke Parks (per l’arrangiamento
e l’orchestrazione), Steve Albini (engineer) e Jim O’Rourke (produttore). In Ys
vengono proposti cinque brani di notevole lunghezza (la media è intorno ai 10
minuti), ci troviamo davanti scenari incantevoli e delicati, lontani nel tempo, tra
la magia dei suoni e la poesia delle parole. La voce splendida di questa giovane
cantante impreziosisce e caratterizza in maniera ulteriore un lavoro pregevole dal
punto di vista della composizione. Non c’è che dire, un ottimo album.
Livio Polini
Sufjan Stevens
Songs for Christmas
Asthmatic kitty records/
Promorama
Christmas song / ***
Che a Sufjan Stevens
le cose semplici non
piacciano lo avevamo
già capito. Da un po’
di tempo porta avanti
l’assurdo progetto di
raccontare in musica i
50 stati americani (ne
abbiamo già parlato in occasione di
Come on feel the Illinoise, Coolclub n.
17, ndr). Quando ha un po’ di tempo,
magari durante le vacanze di natale, ne
approfitta per fare musica con gli amici.
Il risultato sono dei dischetti registrati
dal 2001 ad oggi, prima riservati a un
pubblico di pochi sparsi per il mondo,
oggi pubblicati in un generoso cofanetto.
Un vero e proprio regalo con tanto di
libretto a cura del grande romanziere
Rick Mooody e molte altre chicche
da scoprire. Ai brani della tradizione
come Jingle bells Sufjan affianca sue
composizioni originali. Difficile dare un
giudizio artistico al lavoro. L’idea, anzi
lo spirito che si coglie, è quello della
festa e dell’amore per le persone care.
Dolce, arioso e intimo, riesce a conciliare
convivenze iperboliche di strumenti a
intermezzi che scavano nella tradizione
americana. Non mancano uscite di pop
raffinato in bilico tra Burt Bacharach e
Brian Wilson, momenti vagamente jazzy,
un po’ di rock (Hey Guys! It’s Christmas
time) tutto nel perfetto disordine
organizzato tipico di questo folle e un po’
geniale ragazzotto.
Osvaldo Piliego
Dave Fishoff
The Crawl
Secretly Canadian
Indie-Pop / ***
Ritorna
Dave
Fishoff,
dopo l’innovativo The
Ox and the Rainbow
del 2001, si ripresenta,
sempre con la Secretly
Canadian, con The Crawl:
undici elaborate tracce
che lasciano appena
intuire il gran lavoro svolto da Dave Fishoff.
Fondamentalmente si tratta di pop, quelle
musiche che passano in questi ultimi anni
nei lettori di chi ama l’indie-pop sporcato
dall’elettronica. Tra le tracce migliori
Landscape Skin, Rai, Rain, Gasoline e
The Matrimony vine. Si potrebbe definire
un disco di geniale ricerca, all’interno
della canonicità del pop. Tuttavia dopo
ripetuti ascolti il disco non mi lascia del
tutto convinto, resto perplesso, e in parte
deluso: pur essendo cosciente dell’ottima
qualità del lavoro, non riesco a pensare
cosa possa dire di nuovo: un altro buon
disco che tuttavia rischia di disperdersi nel
grande calderone dell’elettro-pop di inizio
millennio.
Federico Baglivi
South
Adventures in the underground
journey to the stars
Cooking Vinyl
Pop / ****
Un gruppo come i South
meriterebbe molto di
più e questo nuovo
terzo album non fa che
dimostrarlo. Tra Londra
e Manchester, da una
parte gli Stone roses, i
New Order, dall’altra i
Nada Surf, i Teenage fanclub i South sono
un lungo sogno intriso di wave e pop.
C’è il cielo prima di un temporale, quello
spiraglio in cui filtra un po’ di luce, c’è una
romantica malinconia nelle loro canzoni.
Questo disco più del precedente recupera
l’uso di suoni e strumenti tradizionali e si
muove su cadenze dilatate soffi e i cori
che si intrecciano agli arpeggi (all’inizio
sembrano ricordare addirittura i Birds).
Up close and Personal alza un po’ i toni,
il clap è delizioso, il ritornello spiazzante. Il
resto è un dialogo continuo tra acustico
ed elettrico con qualche episodio più
danzereccio. Il tutto è dolce, pop,
caramelloso... e che male c’è. (O.P)
Ratatat
Classics
Beggars Banquet /Self
Electrorock / ***
Vengono
da
New
York, precisamente da
Brooklyn, ed entrambi
in materia musicale
non sono proprio dei
principianti. Chitarrista
l’uno,
impegnato
KeepCool
spesso in tour con Ben Kweller e con
i Dashboard Confessional, amante
dell’elettronica l’altro, con già all’attivo
alcuni lavori pubblicati con l’Audio Dregs,
i Ratatat si sono fatti strada nel vasto
panorama musicale americano con il
genere faticosamente definibile come
electrorock. Dopo un album d’esordio
omonimo, composto da undici tracce
strumentali in cui l’assenza dell’apporto
vocale era praticamente impercettibile,
approdano ora al secondo album, Classics
e a un tour – letteralmente - mondiale. Se
ai loro esordi erano stati gli Interpol a volerli
come opening act dei loro show, adesso
li ritroviamo nientepòpòdimenocchè in
Giappone accanto ai Mogwai. La nuova
tournèe di questo duo formato da Mike
Stroud ed Evan Mast è iniziata dagli Stati
Uniti e Canada e ha toccato Messico,
il già citato Giappone, l’Australia, la
Nuova Zelanda, per poi ritornare, a fine
Novembre, in America e avvicinarsi a noi,
con delle date inglesi ed europee a breve
consultabili sul sito della band (www.
ratatatmusic.com). Li ho scoperti per caso
su Internet - e dove sennò? - vagando
per blog pieni zeppi di musica e di nomi
e ancora adesso continuo ascoltando
Gettysburg a ritmo forsennato. Carica,
semplice, deliziosamente elettronica.
Valentina Cataldo
15
Nikki Sudden
The truth doesn’t matter
Sleeping star
Rock / ***
The Truth doesn’t matter
è il testamento artistico
di un eroe vissuto
nell’ombra.
Nikky
Sudden, che alcuni
ricorderanno
come
fondatore degli Swell
Maps, è uno di quei
musicisti citati come punto di riferimento
da band del calibro di Sonic Youth e
Rem. Quando un’artista ci lascia, come
in questo caso, si fanno le somme su una
carriera. Quella di Nikky è trascorsa sotto
i riflettori, magari non sulle grandi ribalte,
ma una vita dedicata alla musica. Dagli
esordi post-punk la sua musica si è via
via spostata verso sonorità rock più
classiche. Un rock onesto, semplice, che
omaggia Bob Dylan come gli Stones,
classico, ruvido e dolce. Una voce, la
sua, inconfondibile, un amore quello per
la musica che trasuda da ogni nota. Nikki
Sudden non c’è più, ma la sua musica
resterà. (O.P.)
The Drones
Gala Mill
Atp / Goodfellas
Alt-rock / ***½
Il terzo album degli australiani The Drones prende il titolo dal
luogo in cui è stato registrato, Gala Mill, una fattoria nell’est
della Tasmania. Interessante, potremmo dire. Paragoni
importanti sono stati sprecati per questa band, da Sufjan
Stevens ai Tindersticks, da Nick Cave a Neil Young, con un
po’ di immaginazione si sarebbe potuto nominare anche
il Mark Lanegan dei primi lavori da solista, subito dopo gli
Screaming Trees. Ma questa non è una plagio-band, tutt’altro,
in primo piano troviamo una forte personalità e carattere
di tutti i componenti, a cominciare dai due fondatori del
gruppo, Gareth Liddiard (cantante e chitarrista) e Rui Pereira
(chitarrista). Malinconia e rabbia elettrica, profondità nei testi,
impulsi assassini, rabbia e disperazione, ballate struggenti ed
introspettive, paesaggi scuri. Ricchezza e cura nei dettagli, passionalità profonda,
viscerale. Unico difetto il nome della band, è un po’ bruttino, ma per il resto sembra
vada tutto bene. Per la prima volta troviamo la voce della bassista Fiona Kitschin
(in Work For Me), insieme a lei nella sezione ritmica c’è il batterista Mike Noga. Un
album abilmente suonato ed arrangiato, rock dalle tinte scure e buone capacità
cantautoriali.
Livio Polini
Arab Strap
Ten years of tears
Chemikal Underground/
audioglobe
Rock / ****
In un periodo in cui
escono una serie di best
off a celebrare carriere
e storie infinite ne esce
uno a dichiarare la fine
di un unione. E non
poteva che essere così
per un gruppo come
gli Arab strap. Alziamo allora il calice
e festeggiamo con amara ironia la
separazione di questa band che dopo 10
anni di bellissimi album decide di separarsi.
E lo fa con Ten years of tears, dieci anni di
lacrime, dieci anni di carriera. Dieci anni
a raccontare il dolore, il sesso, la tristezza.
Tutto con quella sorta di leggerezza di chi
alla fine ci beve su un bel po’ di bicchieri.
Questo album raccoglie una serie di
brani celebri della band, alcuni live, altri
riarrangiati, qualcosa manca magari, ma
poco importa.
Quel che si sente in queste tracce è
l’essenza di un gruppo che nel corso di
questi anni ha saputo percorrere strade
diverse riuscendo a mantenere una
coerenza di fondo, un senso profondo,
che una nutrita schiera di appassionati
ha amato e non potrà dimenticare. Non
è la fine. Sicuramente Michael Middleton
e Aidan Moffat percorreranno strade
diverse ma continueranno a produrre
musica. E noi gli saremo vicini.
Osvaldo Piliego
Jay-z
Kingdom Come
Universal
hip-hop / ****
Venga il regno. Sia
fatta la sua volontà.
“Ho lasciato tutti per
primo”, avrà pensato
tre anni fa, quando
dopo il suo Black Album
decise di mettersi dietro
una scrivania, diventare
amministratore delegato della Def Jam
(la sua etichetta), di spendere e spandere
in abbigliamento sportivo e nel basket.
Nel frattempo tutti si affannavano a
piangere il morto prima ancora che fosse
KeepCool
16
Mario Biondi & The high five quintet
Handful of Soul
Schema Records
Nu-Jazz / ****
Ascoltare a freddo questo album, dopo che le radio hanno
rallentato un po’ la frenetica rotazione giorno e notte,
consente di apprezzare il lavoro anche sotto un’ottica più
jazzistica. Il quintetto con cui Mario Biondi incide il suo primo
album a suo nome è di tutto rispetto; il trombettista Fabrizio
Bosso non ha ormai bisogno di molte presentazioni, ha
suonato e continua a suonare con i migliori jazzisti a livello
mondiale, scopritore di nuovi talenti (vedi il nostrano Andrea
Sabatino), batte ormai le strade consapevoli delle grandi
tradizioni del passato ma fortemente proiettate al futuro; Daniele Scannapieco (in
passato già sassofonista di Dee Dee Bridgewater) impreziosisce le dodici tracce
con eleganza e carattere; la sezione ritmica (Luca Mannutza al pianoforte,
Piero Ciancaglini al contrabbasso e Lorenzo Tucci alla batteria) crea atmosfere
geometriche e profonde e offre la possibilità a voce e fiati di esprimere il meglio.
Il lavoro di Mario Biondi rappresenta un punto fondamentale nello sviluppo di
questa corrente definita nu-jazz; la larga diffusione di cui sta godendo ha permesso
di sdoganare un genere troppo spesso relegato nelle intimissime stanze del jazz
oppure bollato superficialmente come musica da cocktail…musicisti come Nicola
Conte o Gerardo Frisina che sempre per Schema Records avevano inciso i loro
primi lavori, non rappresentano più un isolato esempio di lettura in chiave moderna
della tradizione jazzistica, ma rappresentano dei pionieri che con il loro impegno
hanno dato la possibilità a validi artisti come Mario Biondi di fare ascoltare a più
orecchie possibili un assolo bop.
Giancarlo Bruno
stato seppellito. Nel frattempo i tributi,
nelle parole e nei fatti si sprecavano.
Nel frattempo Beyoncè cambiava,
diventava star più di quanto già non lo
fosse. La fanciulla, che accidentalmente
è anche la sua fidanzata, si faceva
produrre proprio da lui. Nel frattempo lui
contava i soldi che venivano su da soli,
superava i 35 anni d’età (siamo arrivati
a 37), si presentava in giacca e cravatta
a fare il “chiamatemi Shawn” per una
famosa pubblicità. Nel frattempo lui
pensava a una hall of fame dell’hip-hop
mondiale. Nel frattempo corteggiava il
pop d’oltre Manica. 21 novembre 2006,
il regno è venuto. Tutto ciò che faceva
nel frattempo, appare oggi, in un unico
album. Just Blaze e Dr. Dre dietro il mixer,
John Legend, Pharrell, Usher, Beyoncè,
Ne-Yo, e il jolly, Chris Martin dai Coldplay
(che, nonostante un inaudito taglio del
duetto dal cd di Nelly Furtado, deve
averci preso gusto). Applausi per le prime
4 tracce (intro compresa), tutto merito
suo e di Just Blaze: la serie finisce col
singolo Show me what you got, e sono
già tutti pazzi per quel campione che
potrebbe tranquillamente venire da una
jam session di New Orleans. La città che
affogava sotto Katrina. Shawn è potente
e lo sa, e così tira le orecchie a Bush sulla
questione, campionandolo in Minority
Report. Tratta gli ospiti come se fossero
a casa loro, in particolare John Legend,
protagonista di un’ottima Do U Wanna
ride, o la coppia Usher-Pharrell in Anything.
Beyoncè fa il suo compitino (che non è
mai –ino) in Hollywood. E nel finale, riesci
anche a intravedere i Coldplay in Beach
Chair. La sua volontà è stata fatta, è
vero, è il migliore come dicono in tanti. Lo
aspettiamo senza amici e amichetti, per
fare, da solo, l’album definitivo.
Dino “doonie” Amenduni
Planet Funk
Static
Virgin
Elettronica / ***
Iniziamo dalla fine, ovvero da una
dichiarazione rilasciata dalla band
all’uscita
dell’album:
“un
lavoro
controcorrente, essenziale, che non ha
la minima pretesa di finire ai primi posti
in classifica”. Interessante analizzare un
prodotto a partire dalle parole di chi
lo ha creato. A partire da un concetto
inopinabile: l’album non finirà al primo
posto. Non perché sia brutto, ma perché
sono state operate delle scelte musicali
ben precise: per darvi un’idea, la carta
“pop” i Planet se la sono già giocata,
sparando It’s your time come primo
singolo, un singolo rassicurante, che
suona proprio così come ce lo saremmo
aspettati. È vero, è un lavoro essenziale,
un prodotto che appare in maniera
lampante come un divertissement da
parte dei quattro italianissimi componenti
del Pianeta (Marco Baroni, Alex Neri,
Domenico Canu, Sergio della Monaca).
Ecco, questo è il punto: cantante nuovo
a parte (Luke Allen, meno indimenticabile
di Dan Black, ma anche più affidabile,
a detta dello stesso Alex Neri), c’è
poca comunicazione reale tra gruppo
e pubblico. Non mi sento di dire che
sia un errore, ma a quel punto ti tocca
sfornare un capolavoro per mettere tutti
d’accordo. E invece abbiamo a che
fare con un cd onesto, con un pugno di
tracce ben confezionate (Static su tutte),
alcuni tentativi di contaminazioni pop,
un richiamo alla dance elegante stile
Chicane (Running through my head),
ma tutte condizionate dalla sindrome da
“già sentito”. Anche se alla fine di questo
terzo album (storicamente un album
difficile), c’è il tentativo di colpo di coda:
la collaborazione con Jovanotti per Big
Fish, uno space-dub riuscito solo in parte.
Per (de)merito di Lorenzo, che sembra
poter esplodere da un momento all’altro,
e che invece appare un po’ stretto nel
vestitino messo a punto dai Planet: nella
parziale incompiutezza, è proprio questa
traccia più delle altre, a farci riscoprire il
potenziale della musica italiana. Di cui
abbiamo tanto bisogno.
Dino “doonie” Amenduni
Kelis
Kelis was here
hip-hop, r’n’b / ***½
Eclettica per forza. È il suo stile che
lo richiede, la sua propensione alla
sperimentazione.
Se
si
desse
una
calmatina o perlomeno
sperimentasse un po’
alla volta, saremmo
costretti a inchinarci,
e invece siamo qui a
parlare di un cd che ha
letteralmente spaccato
in due le critiche. In America tutti
d’accordo (pubblico compreso, solo
120000 copie vendute): troppo fumo,
poco arrosto. In Europa, da sempre
primo mercato della Rogers, classe ‘79,
originaria di Harlem, NY, va già molto
meglio. Le contaminazioni ci piacciono
di più. E così, abbandonati a fatica gli
onnipresenti Neptunes, si affida a un
cast comunque stellare, capeggiato da
suo marito Nas, altro pezzo molto grosso
della scena americana, suo partner
anche nel prossimo singolo, Blindfold
me, (questa piacerà molto in America,
scommettiamo?); Cee-Lo, il cantante
dei Gnarls Barkley, che conferma, con
il suo timbro oramai inconfondibile,
il suo stato di grazia in Lil’Star, forse il
momento migliore dell’album, in cui sono
soddisfatte le voglie soul di Kelis; Will.i.am
(ora è lui quello onnipresente), presente
in Weekend, traccia assolutamente
trascurabile; inoltre c’è anche Linda Perry,
ex-Four Non Blondes, che dopo aver
prodotto Pink, deve averci preso gusto.
C’è anche lo spazio per una metamorfosi,
in Peaches precisamente, in I don’t
think so: sfido chiunque a distinguerle.
E in questo campionario di pezzi unici,
che definire eterogenei è comunque
un eufemismo, va assolutamente citata
la “sfida” brasiliana di Have a nice day:
che Sergio Mendes abbia fatto scuola?
Lasciata alla fine, ma non a caso, la
citazione per il singolo ora in rotazione:
Bossy. Al primo ascolto, si rimane perplessi,
al secondo già va meglio, dal terzo
in poi credo che si impari a memoria
in automatico. Un grande merito per
una grande artista, capace di giocare
con la voce (non entusiasmante, ma
eccezionalmente flessibile). È giovane e
si farà. Per il momento, invito tutti a fare la
caccia al tesoro in questa vera e propria
eruzione.
Dino “doonie” Amenduni
KeepCool
Sly & Robbie
Rhythm Doubles
Rootdown/Promorama
Ritmi / ***
Quando si parla di
ritmo, non si può non
parlare di loro. Sly &
Robbie, direttamente
dalla Giamaica, sono
una vera
e propria
macchina che ha fatto
muovere e ballare il
mondo. Una carriera lunghissima che
ha come base di partenza il raggae e
ha sconfinato nei generi più disparati.
Basta ascoltare l’apertura di questo
Rhythm doubles per testarne l’ecletticità.
El Cumbachero, celeberrimo ritmo latino
precede l’hip hop di Bounce che ospita
Wyclef Jean ex dei Fugees. Nella lunga
carrellata di produzioni a firma Sly &
Robbie si sprecano le star coinvolte. Da
Elephant man, passando per Lady Saw
fino al grande Luciano. Trait d’union
di questa compilation è il pulsare di
basso e batteria. Sly & Robbie sono i
migliori e si sente, che si tratti di reggae,
raggamuffin, hip-hop o r’n’b, la spinta
è sempre incalzante e trascinante.
Insuperabili sul beat lento Sly & Robbie
sono il motore propulsivo, hanno il sound
e il colore dell’Africa, della Giamaica,
della metropoli. (O.P)
Node
As God kills
Massacre/ Audioglobe
Death-thrash / ***½
Il nuovo As God kills
si pone subito ad un
primo ascolto come
degnissimo successore
del precedente Das
Kapital e come il
17
precedente disco continua ad esplorare,
sotto forma di inchiesta, i mali del nostro
mondo. Il tema che lega tutti i brani,
anche se non ci troviamo al cospetto di
un concept, è la guerra. I Node indagano
sul perché di tante guerre diffuse in tutto il
mondo ed in particolare si chiedono e ci
chiedono, per farci prendere coscienza,
le motivazioni delle guerre scatenate da
una nazione in particolare, cercando di
portare alla luce le diffuse conseguenze
di queste, cioè le più disparate violenze
come gli stupri ed i più atroci e meschini
abusi perpetrati alle spalle delle
popolazioni inermi. Musicalmente il deaththrash dei Node si è rinnovato portando in
superficie il lato thrash, ispirato dalla bay
area americana; non mancano incursioni
melodiche ed i growls laceranti di Botti,
che si conferma cantante e scrittore
ispirato. Nuovo elemento formale, nello
stile della band è l’inserimento nei ritornelli
nelle clean vocals del chitarrista D’Eramo
che riescono a dare forte musicalità e
fluidità alla scrittura dei brani.
Nicola Pace
Khaosphere
Entering The Khaosphere
Autoproduzione
Metal sperimentale / ***
I pugliesi Khaosphere rappresentano
la realtà di un metal che sta cercando
assolutamente di cambiare e rinnovarsi,
aprendosi alle più svariate influenze
musicali. La cosa eccitante e che le
influenze prese in considerazione, il più
delle volte e nelle maggior parte dei
casi, non abbiano nessuna vicinanza
storica con gli schemi creativi tipici del
rock-metal. Così anche per i pugliesi
accade che in Entering the Kaosphere le
premesse di metal estremo evocate dalla
voce del cantate siano subito smentite
dal lavoro musicale dei rimanenti cinque
AA.VV.
Rhythms del mundo
Universal
Cover / ****
Che c’azzeccano gli Arctick Monkeys con il “mondo”
Buena Vista Social Club? E i Coldplay? Si direbbe
niente, o quasi. Almeno prima di ascoltare i simpatici
inciuci eurocubani, o caraibicoccidentali, di Rhytms
del mundo, che qualcosa fanno scoprire. Che è
assai piacevole, per esempio, il colore e il calore del
romanticismo cubano dato a Clocks dei Copldplay,
e alla voce di Chris Martin, non per niente scelta
per aprire il disco. È molto divertente immaginare,
o veder ballare, le scarpe dei freschissimi Arctic
Monkeys (Dancin Shoes) sostenute da passionali battiti
latinoamericani. E si inserisce bene pure la voce di Dido nell’orecchiabile One
step too far. Ballabilissima, un po’ alla Richard Cheese, è la Modern Way dei Kaiser
Chiefs, davvero dolce, è Better Together di Jack Kohnson. E, per dar gloria a tutto,
si sporcano di salsa anche le star: U2 (I Still Havent Found What Im Looking Fore),
Sting (con la celebre Fragile che diventa Fragilidad). E così via, lungo 16 tracce,
attraverso le strade polverose de l’Havana, dove si incontrano voci del posto, ma
anche Franz Ferdinand, Radiohead e pure i Maroon 5. Ovviamente immancabili,
in due splendidi inediti, Ibrahim Ferrer e Omara Portundo, alle prese prima con i
classici occidentali (As time goes by, Killing me softly). Poi, nella bonus track, in
duetto, in una Casablanca ancora più immortale. Disco simpatico, e importante,
con parte degli introiti Artists Project Earth (APE), l’associazione che sostiene le
aree colpite da disastri naturali e cambiamenti climatici.
Dario Quarta
componenti del gruppo. Il metal estremo
parte, subito colpisce i padiglioni auricolari
degli ascoltatori e contemporaneamente
il bandolo della matassa si complica,
la loro proposta incomincia ad essere
celebrale complessa, nasce una fitta
rete di complicati arrangiamenti fusion
passando poi da lidi free-jazz fino ad
arrivare a soluzioni al limite del progressive
estremo in stile Sadist. Non aggiungerei
altro se non per dire che i K. per le doti
creative espresse e per la qualità del
suono di registrazione utilizzato nel loro
EP auto prodotto, abbiano dimostrato di
essere già pronti ad un serio e dignitoso
contratto discografico, complimenti.
Contatti:www.Khaosphere.net
Nicola Pace
Vanden Plas
Christ-O
Inside Out/Audioglobe
Prog / ***
Ispirato al romanzo Il
conte di Montecristo di
Dumas, ha finalmente
visto la luce il nuovo e
più volte posticipato
lavoro Christ – O, uno
degli album prog più
attesi del 2006. E non
deludono i Vanden Plas! È in ogni caso
fin dall’ormai lontano 1994, anno in
cui esordirono con lo splendido Colour
Temple, che questa band non sbaglia un
colpo. Confesso di aver sempre avuto un
debole per questa formazione tedesca
che, a mio modesto avviso, meglio di
chiunque altro, ha saputo rielaborare in
modo molto personale i dettami stilistici
impartiti dagli immensi Dream Theater.
Forse non saranno mai ricordati come
una band originale e, se proprio vogliamo
cercare il classico pelo nell’uovo, anche
la favolosa scorrevolezza di quest’album
è lievemente increspata da qualche
rimando fin troppo evidente al combo
newyorkese di cui sopra, ma la musica
dei Vanden Plas è così intensa ed
emozionante che gli si perdona anche
qualche piccola caduta di stile. Christ–O
rimane, comunque, uno spaccato di
prog-metal assolutamente esaltante,
quasi un compendio di quanto questo
genere abbia offerto negli ultimi quindici
anni. Emozionante dal primo all’ultimo
istante è anche il lavoro più complesso e
appagante che i Vanden Plas abbiano
mai composto.
Camillo “RADI@zioni” Fasulo
Voivod
Katorz
Nuclear Blast/Audioglobe
Heavy metal / ****
È triste proporre un
album sapendo che
questo
rappresenta
in effetti il testamento
artistico di una band.
E
l’ottimo
livello
qualitativo di questo
lavoro non fa che
aumentare il rammarico sapendo anche
KeepCool
18
Beatrice Antolini
Big Saloon
Madcap Collective
caleidoscopio sonoro / ****
Arriva dalla italianissima Madcap Collective questo nuovo
preziosissimo lavoro di indie nostrano. Beatrice Antolini,
all’esordio come solista, ci confeziona con Big Saloon un
caleidoscopio sonoro in formato digipack. Fa subito impressione
leggere la miriade di strumenti suonati tutti dalla ragazza, una
polistrumentista a tutti gli effetti. Sin dai primi minuti di ascolto
si è immersi in un mondo di psidechelia circense di trapezisti
e equilibristi, cowboy, topolini e scimmiette, fenomeni da
baraccone e personaggi fiabeschi... un genere indefinibile,
come assistere a un grande abbuffata di film comici di inizio
secolo mista alle sventure di Willy, il coyote. Tra le tredici
tracce del disco è stupefacente Topogò, ideale per una festa
di topolini. Per questo lavoro, Beatrice Antolini si avvale anche
dell’aiuto del Jennifer Gentle Marco Fasolo che lascia la sua impronta. In definitiva
un gran bel disco, fantasioso e fantastico, per i momenti più allegri delle nostre
giornate.
Federico Baglivi.
che non potrà mai più esserci un futuro
nell’evoluzione del gruppo. Katorz è
la quattordicesima uscita del mostro
Voivod e ruota tutto attorno alla chitarra
di Denis “Piggy” D’Amour. Non potrebbe
essere altrimenti visto che il processo
creativo si è sviluppato proprio seguendo
le istruzioni dettate dallo stesso musicista
fino a poche ore prima della sua dipartita.
Scomparso la scorsa estate, stroncato da
un incurabile male, Piggy ha combattuto
per la propria musica fino alla fine e Katorz
si è purtroppo trasformato in un tragico
epitaffio per la band. Oggi Away, Snake
e Jasonic si ritrovano soli con il loro dolore
ma con una piccola grande certezza:
Piggy ha speso tutte le sue energie per far
vivere il più a lungo possibile la musica dei
Voivod e il semplice fatto che Katorz sia
diventato realtà rappresenta la sua più
grande vittoria. Questo è un lavoro che
va ad aggiungersi, senza mezzi termini,
alle migliori pagine di un’autentica
leggenda del rock di tutti i tempi e allo
stesso tempo anche un davvero sentito
tributo per uno sfortunato amico.
Camillo “RADI@zioni” Fasulo
l’autore lascia che le sue parole si
perdano, vaghino in tranquillità. Per poi
riprenderle con uno strattone, con un
verso icastico, o con un riff di chitarra più
aspro a sottolineare e riverberare una
frase. Una scia, quella del folk d’autore,
sempre viva ma senza mai troppo
apparire. Costituita da personaggi, quali
Stefano Maria Ricatti, gli Acustimantico fino all’ultima veste di Ginevra di Marco
o alle rare apparizioni di Piero Brega -,
che si muovono tra folk, poesia, jazz, pop
sofisticato. Allo stesso modo, Stefano
Rossi Crespi, che può vantare un’assidua
frequentazione del leggendario Folk
Studio di Roma, si affida ad arrangiamenti
scarni, prosciugati, essenziali. E pur
nell’apparente semplicità, si riconoscono
uno stile limpido (Amico mio, L’uomo
che hai davanti) e un approccio attento
e concreto (La città, Non sento, Il
comico).
Gianpaolo Chiriacò
Stefano Rossi Crespi
“Si può essere interpreti dei Pink Floyd?”.
Occorre partire da questa domanda
per capire i Fluido Rosa e il loro disco.
La formazione, conosciuta in tutta
Italia come la più autorevole cover
band dei Pink Floyd, afferma infatti di
essere un’interprete di Waters e soci e
non una pedissequa fotocopia. Cioè,
chiama in causa la tradizione tipica
della musica colta di rileggere le pagine
Vola via
Fuoristile/Tempi moderni
Folk d’autore / ****
Dignitoso,
riflessivo,
ironico,
sottile
ma aperto, Stefano Rossi Crespi ha
pubblicato un bel disco d’esordio. La
formula introspettiva, ancorché presente
in gran parte dei testi, non è abusata:
Fluido Rosa
Live
Fuoristile/Tempi moderni
Rock psichedelico/ ***½
scritte (da Beethoven piuttosto che da
Shostakovich) e di eseguirle in maniera
personale, con il proprio tocco e la propria
sensibilità artistica. Va detto allora che
Astronomy Domine è molto bella, Mother
è intensa, ed è intrigante anche il pezzo
originale posto a chiusura dell’album. Di
grande efficacia le due voci femminili,
e impeccabile è il suono complessivo.
Forse, il punto è che i Pink Floyd della
loro musica ne hanno dato una versione
così sacra da rendere difficile l’ascolto
distaccato di altre interpretazioni, però
sono personalmente convinto che la
rilettura libera potrà essere una delle
strade future del rock - il quale, sia detto
per inciso, fonda l’intera propria storia
sulla pratica delle cover.
Gianpaolo Chiriacò
Swan Lake
Beast Moans
Jagjaguwar
Pop-rock psichedelico / ***
Daniel Bejar lo avevo
già conosciuto con
il
suo
precedente
progetto, i Destroyer.
Poi ho scoperto che
stava in mezzo ai New
Pornographers, e ora
ha messo su questo
nuovo progetto con Spencer Krug dei
Wolf Parade e Carey Mercer dei meno
conosciuti Frog Eyes. A firmare con loro
è la fidata Jagjaguwar e Beast Moans,
autoprodotto in un cottage estivo, è il
loro album di debutto. Ascoltandolo, a
farsi notare fin dal primo brano Window’s
Walk è inevitabilmente l’inconfondibile
stile vocale di Bejar e l’attitudine pop
rock leggera e sognante che accomuna
in vario modo i tre anche nei loro
personali progetti. Il disco scorre che è
una meraviglia, con punta di goduria
nell’intensa All fires e la coinvolgente Are
you swimming in her pools?, perfetta indie
song che ti rende difficile andare avanti
con il disco e ti fa ballare come un cretino
in mezzo alla strada quando stai con il
walkman. Nubile Days ha un intro che
sembra rubato a Beck, City Calls e il dark
ipnotico di Shooting Rockets richiamano
la sofferenza di Jamie Stewart degli Xiu
Xiu, mentre Nel complesso un bel disco,
che conferma ancora una volta quanto
oggi come oggi la terra promessa di tutti
gli indiekids sia il Canada. Interessante
anche l’artwork curato dall’artista Shary
Boyle
Gennaro Azzollini
KeepCool
19
Morose
First Nation
Benni hemm hemm
La band ligure composta da Valerio
Sartori, Davide Speranza e Pier Giorgio
Storti, giunge al suo terzo album, la
produzione è affidata all’abilità di Fabrizio
Modonese Palombo. Dopo lo strambo La
mia ragazza mi ha lasciato del 2002 ed
il mirabile People Have Ceased To Ask
Me About You del 2005, dopo qualche
cambio durante questi anni di line-up, i
Morose tornano con un nuovo album di
slowcore e sperimentazione carico di forte
emotività. L’inquietudine e la riflessione,
tema al centro di tutto, è una pazzia o
secondo voi si può accettare come
proposta di pensiero? Certo che si può,
in certi casi è necessario. Quest’album è
a dir poco affascinante, il magnetismo
ed il pathos accompagnano tutta la
durata, la base elettrica è contaminata
in varie occasioni, pianoforte, carillon,
strani e svariati rumori, voci spettrali ed
inquietanti, trombe, chitarra classica,
come in veri e propri mosaici visivi oltre
che sonori. Immaginate di entrare in un
labirinto, è difficile trovare l’uscita, ma
in mezzo all’agitazione e lo smarrimento
puoi scorgere i colori che non conoscevi,
e soprattutto sfumature importanti,
preziose, rare. Una buona sorpresa per
chi ancora non li conosceva, i Morose, un
album importante e di indubbia qualità.
Livio Polini
Continua
l’ondata
weird folk americana,
questa
volta
con
un trio di streghette
(Melissa Livaudais, Nina
Mehta e Kate Rosko,
da New York) prodotto
dalla etichetta degli
Animal Collective (e come sarebbe
potuto
essere
altrimenti).
Ancora
natura selvaggia, spiritata, oscura e
fantasmagorica, docile e accogliente e
improvvisamente terrifica e minacciosa.
Le cantilene che si susseguono per
tutto il disco accompagnate da un
inquieto rumoreggiare, antichi giochi
atonali, balletti infantili, flauti incantatori,
percussioni
ipnotiche,
permettono
un viaggio assicurato nei territori
ancora incontaminati, almeno nella
loro immaginazione, del continente
americano (atmosfera gotico-rurale
tipo The Village di Shyamalan). A tratti le
vocette stridule e i giri di chitarra ossessivi
ricordano i primi Blonde redhead (nel
pezzo Omen in particolare) e ci sono
dei punti davvero accattivanti (Swells
e Creation). In generale il disco si lascia
ascoltare con piacere se si è nella
condizione giusta. Ad ogni modo dura
poco, una mezz’oretta. Ma è giusto così,
sta roba dopo un po’ inizia a scassare le
palle.
Gennaro Azzollini
A soli tre mesi di distanza
dall’omonimo debutto
torna
l’ensemble
islandese
vincitore
dell’Icelandic
Music
Award. Tredici nuove
canzoni, scritte in una
manciata di giorni,
segno del ricco periodo produttivo e di
ispirazione che stanno vivendo. Numerosi
i momenti strumentali, e anche laddove
appare una voce o un coro (difficile non
farsi venire in mente i Sigur ros), le singole
fonti sonore si condensano in un tutt’uno
fluido e sinfonico (i fiati dominano come
sempre). La musica rispecchia il vento
gelido e la ricerca costante del calore
tipici della loro terra. Il fatto che escano
per Morr music non deve lasciarvi
ingannare. Qui di pop e di elettronica c’è
ben poco. L’atmosfera è molto spirituale,
quasi mistico-religiosa. Ma il bello di sti
nordici è che sanno essere intensi ma
leggeri, armoniosi ma mai pomposi,
nonostante l’elevato numero di musicisti
e strumenti. Affrontano l’infinito ma con
spirito libero e gioioso. Sarebbe una
perfetta colonna sonora per qualche
storia di avventura fantastico-moralistica
per bambini in cui dopo tanti casini
(nella penultima traccia c’è pure la lotta
definitiva con il mostro finale e nell’ultima
il ritorno della pace e della tranquillità,
giuro) il bene vince sempre, o cose così.
Vabbhè, se non riuscite a provare le mie
stesse sensazioni durante l’ascolto fatevi
una canna e vedrete.
Gennaro Azzollini
On The Back of Each Day
Suiteside
slowcore, post-rock / ***½
First Nation
Paw Tracks
weird folk / ***
O-side
Nowhere
Autoprodotto
Rock / ***
Che tra le band ispiratrici degli O-side, solida e affiatata
formazione leccese, ci siano i Muse non è un segreto
neanche per loro. Dopo la necessaria gavetta, una miriade
di concerti e una assurda causa legale per appropriazione
indebita di nome gli O-side autoproducono il loro primo full
length. Il paesaggio sonoro degli O-side vede l’Inghilterra
all’orizzonte, quella dei Radiohead, dei Manic street
preachers e degli anni 90. C’è cuore e nervi nei loro brani,
una certa maturità nell’assemblare i pezzi del loro mosaico
e la padronanza di una gamma espressiva non indifferente.
Tra lunghe ballad psichedeliche e momenti più ruvidi gli
O-side sembrano aver trovato un equilibrio nel contrasto
degli opposti. Sono anche coraggiosi nel cimentarsi con l’italiano in un brano dal riff
killer. Il disco nel complesso ha in sé brani con uno slancio verso la migliore delle strade
percorribili, quella in cui grinta melodia e pochi fronzoli sono gli elementi forti. D’altro
canto in alcuni episodi uno spirito glam un po’ datato ingolfa e imbarocchisce un po’
le idee. Prova superata a pieni voti comunque. È il caso di dire “i ragazzi sono intelligenti
e si applicano”. (O.P.)
Kajak
Morr music
Atmosfera spirituale / ***½
Simon Joyner
Skeleton Blues
Jagjaguwar
Alt-country-folk / *** ½
Con questo Skeleton blues festeggia il
suo decimo album ufficiale (ma la sua
storia è costellata da una miriade di lavori
paralleli, ep, singoli, e le solita introvabilie,
raccolte in Beautiful Losers) Simon Joyner,
per l’occasione accompagnato da
una band vera e propria, i Fallen Men,
di Omaha. Il sound intimista alla Smog,
sbilenco alla Bob Dylan e leggermente lofi alla Bright eyes del cantautore di New
Orleans (ma da anni ormai trasferitosi
in Nebraska), viene sostanzialmente
rispettato, senonché la presenza della
band rende alcuni dei brani (tutti lunghi,
KeepCool
20
7 in quasi 50 minuti), più corposi e rockbluesy (come l’iniziale Open window
blues o il country-rock anni ’70 di
Medicine blues). Nei pezzi finali Simon tira
fuori tutta la sua verve crepuscolare per
lunghi lamenti accompagnati da poche
e dilatate note fino alla conclusiva,
lentissima e soporifera My side of the
blues. In buona sostanza un altro grande
cantautore americano, solo che non si
sa perché, nonostante la lunga carriera,
non è ancora riuscito a sollevarsi dalla
inestricabile poltiglia sotterranea di
musicisti americani, rivisitatori, ciascuno
a suo modo, della splendida tradizione
della loro terra contaminata di bianco e
nero. Sarà in tour a cavallo del 2006/07,
speriamo di vederlo in italia.
Gennaro Azzollini
AA.VV
Soul shaker vol. 3
Record kicks
Funk-Soul / **
Siamo al terzo volume
di Soul Shaker, una
delle
compilation
prodotte dall’etichetta
milanese Record Kicks e
selezionata dal patron
Nick
Recordkicks.
Qualsiasi genere di
compilazione dopo un certo numero di
volumi perde forza e sorprende sempre
meno l’ascoltatore, a maggior ragione
C’è un appuntamento fisso da tre
anni a questa parte organizzato
dall’Assessorato alle Politiche giovanili del
Comune di Galatina in collaborazione
con Coolclub.it. Si chiama, senza
troppa fantasia, Giovani e ed è voluto
dall’amministrazione per festeggiare
il compleanno del Centro Progetto
Giovani, una struttura riservata appunto
ai giovani e a tutte le informazioni sul
lavoro, sul diritto allo studio, sulla cultura,
sullo spettacolo, sull’attualità, sulla
salute.
quando i brani selezionati sono circoscritti
per ovvie ragioni in un genere così poco
frequentato dal grande pubblico e che
punta solo ad una fetta di ascoltatori
attenti, senza considerare i tre progetti
molto simili (Let’s Boogaloo 1-2-3). La
particolarità forse più rilevante consiste
nell’aver escluso dalla scelta brani datati
anni ’60 e ’70 per concentrarsi sulla scena
attuale o di non molti anni addietro (del
1993 è la travolgente Practice what you
Preach dei Poets of Rhythm). Sonorità
afro-funk che raccolgono la struttura
degli arrangiamenti di Fela Kuti si possono
ascoltare in Aynotchesh Yereflu di The
Budos Band, mentre viene in mente
Lyn Collins, che suona con la band di
James Brown alle spalle, nell’ascoltare
Take my time dei Breakstra con la
partecipazione di Choklate alla voce.
Rispetto alle precedenti è sicuramente
è la compilation più marcatamente
funk; a fare da padroni ci sono bassi
puliti e potenti, rullanti tirati all’estremo e
ottoni in prima linea: suoni essenziali, non
altrettanto il disco.
Giancarlo “Zanca” Bruno
Piers Faccini
Nordgarden
A brighter kind of blue
Stoutmusic
Folk / ****
Questo
biondo
per caso dalla Norvegia in Italia e nel
belpaese ha trovato asilo artistico ed
etichetta discografica (la Stoutmusic).
Nordgarden è al suo secondo cd e
conferma l’ottima impressione suscitata
dal suo omonimo esordio di circa tre
anni fa. La ricetta è ancora più semplice
e diretta, chitarra acustica e voce,
pochi ulteriori inserti per una produzione
scarna ma completa. Tra gli ospiti Pete
Hanafin (violino), Julie Lillehaug Johnsen
(cori), Arvid Solvang (percussioni) e
soprattutto Peder Oiseth (tromba) che
ha curato la produzione del cd (il primo
capitolo era stato ottimizzato da Paolo
Benvegnù). Il risultato complessivo forse
è di poco inferiore alla sua prima prova
ma sicuramente apprezzabile. Un passo
indietro negli arrangiamenti, nel senso
che basso e batteria sono praticamente
spariti, un passo avanti
nella scrittura e nella
impostazione di una
forma canzone che
denota un elemento
che dalle nostre parti
spesso viene messo da
parte: il talento.
Pierpaolo Lala
folksinger
Tearing sky
Label Bleu – Edel
Pop rock / ****
è
arrivato
Si tratta di una importante opportunità
per sperimentare e proporre una formula
diversa dal concerto. Sul palco infatti il
nostro amico e collaboratore, Giancarlo
Susanna (voce storica di Rai Stereo
Notte e uno dei più apprezzati giornalisti
musicali d’Italia) conduce una specie di
talk show (se la parola non fosse abusata
e brutta) su tematiche diverse anno dopo
anno. Nella prima edizione parlammo
dei 50 anni del rock e del compianto
Jeff Buckley con la partecipazione di
Alberto Campo e Niccolò Fabi. Nel
2005 l’attenzione era
rivolta al rapporto tra
parola e musica con
la presenza di Cristina
Donà,
Federico
Fiumani,
Amerigo
Verardi e di Iain
Matthews. Il musicista
inglese, anima negli
anni ’70 dei Fairport
Convention,
proprio
da questa esperienza
ha ripreso il suo lungo
viaggio nei club e sui
palchi, attività che
aveva
ridotto
da
Dopo
l’esaltante
esordio
(neanche tanto prematuro,
tempo.
Sabato 16 dicembre presso il
Salone Oratorio San Biagio di
Galatina (il freddo ci costringe
ad abbandonare l’atrio del
Palazzo della Cultura), si
discuterà del rapporto tra
immagini e suoni e della nuova
scena musicale italiana. Gli ospiti sono,
secondo noi, tra i migliori esempi della
“nuova generazione” di musicisti italiani.
Paolo Benvegnù, Cesare Basile e Songs
For Ulan.
Il primo, dopo la sua lunga esperienza
con gli Scisma, nel 2003 ha sorpreso
tutti con un esordio solista bellissimo
(senza esagerare), Piccoli fragilissimi
film, ed è diventato punto di riferimento
e produttore di numerosi artisti. Cesare
Basile presenterà il suo cd-dvd live
“14.06.06”. Legato a doppio filo a Basile
è il napoletano Songs for Ulan (al secolo
Pietro De Cristofaro). Il suo primo lavoro è
il frutto di una session tra amici, registrata
allo Zen Arcade di Cesare Basile (che
è anche il produttore) e mixata al The
Cave da Daniele Grasso a Catania, nel
luglio, torrido, del 2003.
Ma “Giovani e” ospita anche un
KeepCool
21
a 35 anni) con Leave No Trace
l’italoanglofrancese Piers Faccini torna,
sempre per la Bleu – etichetta cui si deve
il lancio di Gianmaria Testa – con un cd
lungo e intenso. La sua musica sa di soul
e blues, west coast e jazz, New Orleans e
Africa, Inghilterra e rock, gli arrangiamenti
sono ancora più articolati e densi del
precedente. Il cd ospita anche Ben
Harper (di cui Faccini ha aperto i concerti
del tour italiano) nel brano Each Wave
That Breaks e Chris Darrow. Forse manca
un pezzo memorabile ma il cd è da
segnalare. Era difficile ripertersi a certi
livelli, Faccini ce l’ha fatta. (pila)
Luciano Revi
Thoughts in the wind
autoprodotto
Dal Salento arriva un disco che non ti
aspetti. Il venticinquenne leccese Luciano
Revi sforna Thoughts in the wind, un’opera
prima molto interessante. Nulla di nuovo,
sia chiaro, ma le ballate folk scivolano
via che è una bellezza. Arrangiamenti
minimali, una chitarra e un’armonica
bastano per intrattenere l’ascoltatore per
una quarantina di minuti. Undici tracce in
inglese (ma nel booklet c’è la traduzione
in italiano) di stampo statunitense in bilico
tra Bob Dylan, Joan Baez, Neil Young,
Bruce Springsteen e, tra gli italiani, De
Andrè e Battisti. (pila)
corso per la realizzazione
di Video Clip (dal 4 al 15
dicembre). L’idea è infatti
quella di realizzare, sulla scia
del successo del precedente
Foto-grammi (che ha portato
alla produzione di quattro mini
spot sulla città di Galatina)
un laboratorio finalizzato alla
realizzazione di video clip. La
novità
rispetto
all’edizione
precedente è l’introduzione
di un corso interamente
dedicato alla musica per immagini.
Il corso avrà nelle sue prime fasi
una struttura aperta. I partecipanti
seguiranno una prima parte teorica
in cui verranno istruiti sul rapporto
tra musica e immagini. I ragazzi
saranno seguiti dall’attore e regista
Ippolito Chiarello, già coordinatore
del progetto lo scorso anno e
regista del cortometraggio Fumo
che vie proprio del rapporto tra
musica e immagini, e dal critico
musicale
Gianpaolo
Chiriacò,
collaboratore delle testate musicali
nazionali Muz e Jazzit e dottorando
di ricerca presso l’Università degli
Studi di Lecce. I lavori saranno
presentati domenica 17 dicembre.
L’ingresso è gratuito. Info e iscrizioni:
www.progettogiovanigalatina.
it; 0836564097; www.coolclub.it
– 0832303707
Hanno trovato in Casasonica di Max
Casacci il trampolino per tuffarsi dal
Salento
direttamente
sul
mercato
nazionale. Nipotini degli Africa Unite gli
SteelA hanno le idee chiare, l’energia e
la vitalità dei vent’anni, tanta esperienza
alle spalle e un futuro pieno di impegni.
Un miscela di reggae, pop ed elettronica
che li porterà lontano. abbiamo parlato
con Moreno ( cantante della band) in
occasione di una pausa del loro tour
promozionale.
Prima di tutto, le presentazioni di rito. Nomi
e provenienza.
Iniziamo quindi con le presentazioni.
Moreno(voice)-Ruspa
(key)-V.
Bass
(basso)-Sciampy (guitar)-Dema (drums)Cusci (key,sinth).Tranne Dema che è di
Martano, proveniamo tutti da Borgagne.
Non solo venite dal Salento, ma da
Borgagne, vale a dire il fulcro del reggae
nella nostra terra. A pochi passi dalle
vostre case c’è Torre Sant’Andrea, un
luogo dove si sono svolti mitici concerti.
Anche se siete giovanissimi, che ricordi
avete?
Anche se eravamo abbastanza piccoli,
abbiamo avuto modo di vedere i concerti
di tutta la Torino alternativa e non solo a
S. Andrea e quindi di prendere spunto e
input giusto per iniziare a fare un po’ di
musica. Questo è stato un punto a nostro
favore e ci ha aiutato tantissimo. Non
dimentichiamo che da tutti quei concerti
visti nascono gli SteelA!
Facile dire Salento = reggae. Come vivete
questa associazione, proprio voi che alla
fine il reggae lo suonate.
Salento=reggae perchè i Sud Sound
System hanno spianato la strada facendo
diventare il dialetto salentino una realtà
importantissima nel panorama reggae
nazionale e non. E poi diciamocela tutta...
le dance hall più belle le fanno soltanto
nel Salento. Cosa c’è di più “reggae” di
questo?
Come avete conosciuto Max Casacci?
Come è stato l’ingresso in Casasonica?
Il Salento ha fatto la sua parte in quanto
Max lo ha sempre prediletto per le sue
vacanze, poi abbiamo proposto a lui
alcuni nostri lavori e quindi siamo entrati
a registrare in Casasonica, per la prima
volta, il nostro primo brano “Resto in
piedi”(incluso anche nel disco).
È uscito in questi giorni il vostro primo
disco, ce ne parli un po’, cosa di voi e
della vostra terra è in queste canzoni,
cosa volete comunicare con la vostra
musica, perché questo titolo?
E’uscito il 10 di novembre ed è in vendita
in tutta Italia(quindi acquistatelo...) il
nostro “1°livello”. è un disco fresco, pieno
di un sacco di emozioni che un gruppo
al primo disco può provare. É un misto
tra il reggae-ragga e l’elettronica un
po’ più grezza, quindi c’è del Salento nel
dico, ma contaminato... un po’ come
vorremmo (in meglio ovviamente, senza
renderlo banale e senza togliere niente di
quello che lo caratterizza e rappresenta).
Il titolo poi rivela tutto...primo livello, prima
tappa, primo lavoro prima esperienza,
”primi passi” in un ambiente dove la
musica é veramente una professione.
Avete condiviso il palco con grandi nomi,
ci racconti tra le varie esperienze quella
che più ti ha emozionato?
Abbiamo suonato prima di Giuliano Palma
(Blue Beaters), di Anthony B, Caparezza e
qualcun’altro, ma in assoluto la “botta”
più forte è stata quella del cornetto
free music a Roma prima dei Subsonica
e BlakeyedPeas. Non avevo mai visto
100.000 persone di fronte... viste dal palco
insomma... un ricordo allucinante.
Qual è il vostro rapporto con la scena
musicale locale, e il vostro giudizio?
Parto dal presupposto che nel salento
abbiamo la materia prima, quindi ottimi
musicisti e artisti. Stimiamo le nostre realtà
musicali (Apres la classe, i Sud, le varie
crew; i Negramaro per quello che hanno
fatto) perchè non fanno altro che fare del
bene a noi e a tutto ciò che è Salento.Per
quanto ci riguarda, spero che gli SteelA
diventino ennesimo motivo d’orgoglio per
questa terra e per la gente. (O.P.)
I Casino Royale sono tornati. Dopo nove anni di silenzio e
di “progetti paralleli” arriva Reale. Abbiamo fatto qualche
domanda ad Alioscia.
Ciao Ali, come stai? Finalmente un nuovo disco a nove anni
da Crx, anche se poi di Reale mi parlavi anche ai tempi di
Royalize?
Abbiamo fatto come i maestri di pittura giapponese che stanno
li nove anni a guardare un filo d’erba e poi zac un segno, in un
solo gesto, senza togliere il pennello dal foglio di carta di riso
(!!?) a parte gli scherzi sono passati nove anni da Crx ma mentre
eravamo impegnati con il progetto
Royalyze pensavamo ugualmente
ad un nuovo album con i Casino
Royale, poi però sono successe un
po’ di cose. Giuliano è andato via
e cose del genere, ci siamo fermati
a pensare ed abbiamo fatto delle
cose attraverso il nostro sito come il
singolo protect me firmato Casino
Royale e poi abbiamo fatto un tour
dove sul palco ero accompagnato
da altre persone, quello in cui
eravamo nascosti dietro uno
schermo con le proiezioni, era però
un momento di interregno per i Casino Royale, ci siamo resi conto
che per il mercato discografico italiano e dei live era difficile
far girar la macchina con sporadiche uscite discografiche o
dal vivo, quello che abbiamo fatto sul sito era un lavoro un po’
concettuale, allora abbiamo deciso di metterci seriamente
a lavorare sul disco lo abbiamo fatto per sei mesi anche a
distanza tra di noi e poi confrontandoci, tirando fuori alla fine
un po’ di tracce anche se poi ne abbiamo utilizzate solo dieci
perché il buon Howie b ha detto che bastavano 50 minuti per
questo disco.
In verità bisogna sottolineare che non vi siete mai fermati, il
sito era ormai una fucina di artisti che hanno collaborato con
voi a 360°, artisti che andavano in direzioni diverse da quella
musicale formando una squadra completa..
Effettivamente abbiamo fatto questa squadra allargata; la
nostra creatività parte sempre dalla musica e speriamo sia
sempre così, però c’erano una serie di soggetti che hanno reso il
progetto tridimensionale come i grafici che, oltre alla copertina,
hanno curato l’estetica dell’idea. Chi si occupa di video ha
cercato di integrare il tutto, insomma abbiamo una serie di amici
e collaboratori di riferimento che lavorano con noi da tanto,
con i quali a noi piace avere degli scambi creativi. Abbiamo
intrapreso però una nuova collaborazione ultimamente con dei
ragazzi di un collettivo di Bologna che hanno curato la grafica
del nuovo lavoro. Alla fine nulla di nuovo ma credo che un
progetto per essere completo e ad ampio respiro ha bisogno di
più persone coinvolte. Casino royale è quello che è perché ci
sono più persone che ci lavorano
Come è andata con Howie B? Quando è stato a Bari mi ha
costretto a mangiare alle 8 di mattina penne all’arrabbiata
molto piccanti senza mai smettere di bere..
È così, lui è così!! Cosa avete bevuto? Lui ha una resistenza
incredibile….. la nostra scelta è stata un po’ a scatola chiusa nel
senso che lo conoscevamo, è un personaggio noto, sapevamo
che venendo dalla Gran Bretagna aveva un background british
come noi, amante di black music, è uno che ha ascoltato hip
hop a suo modo e lo ha rielaborato come abbiamo fatto noi,
ha un background 70-80 inglese come noi, insomma punkrock
dub etc e poteva capirci. Ma la rivelazione è stata soprattutto
dal punto di vista umano. È una persona amabile e disponibile
con il quale puoi avere un rapporto diretto anche se poi è un
“partyman” e vuole stare sempre in giro ed è difficile seguirlo. Sul
lavoro è molto professionale e riesce a creare il giusto equilibrio
in studio..
Alla fine ha tirato fuori un bel disco, anzi come diresti tu
“stiloso”!!
A me fa piacere che a te piaccia perché hai sempre trovato lati
negativi nel nostro lavoro, nelle varie interviste e chiacchierate
che abbiamo fatto in passato, sul fatto che non capivi quale
direzione stesse prendendo il progetto Casino Royale, anche
per Royalyze. Credo che con questo disco abbiamo dimostrato
che i Casino riescono a fare cose di qualità e di un certo livello,
poi può piacere di più o di meno ma non importa. In venti anni
di attività abbiamo cambiato un po’ il nostro stile ma sempre
mantenendo una forte personalità, abbiamo un disco che come
dici tu è “stiloso” che suona meno elettronico e più rock. C’è un
po’ tutta la nostra storia musicale in questo album, il sunto del
nostro background e penso che possa mettere d’accordo un
po’ tutti, siamo riusciti anche con l’aiuto di Howie a non dover
forzatamente sperimentare ma ad avere delle canzoni forse
diverse tra loro ma che insieme formano un album coerente
con quello che volevamo.
Il tour partirà il prossimo anno,
giusto?
Noi ripartiamo dal prossimo 27
febbraio 2007 aspettando che
alcuni di noi finiscano le tournee
con Bluebeaters e Africa Unite e
Bari sarà sicuramente una tappa.
Spero di venire presto in Puglia
per suonare ma soprattutto per
mangiare le cozze!
Carlo Chicco
31
Dopo un anno e mezzo dall’ultimo lavoro in studio, Bianco
Sporco, i Marlene Kuntz tornano con il cd live S-Low e con un
dvd. Ne abbiamo parlato con Cristiano Godano.
Partiamo dal dvd, cosa contiene?
Il dvd contiene la nostra partecipazione ad un programma
format televisivo di Mtv Storytellers dove essenzialmente la band
viene chiamata a spiegare il proprio processo creativo, come
nasce una canzone con lo scopo di insegnare l’affascinante
percorso che porta alla creazione che ha un suo travaglio
come un’altra forma espressiva artistica
Siete stai voi a lanciare l’idea oppure Mtv?
Siamo stati noi a lanciare l’idea a Mtv perché alla fine c’era
dell’ottimo materiale sia audio che video e abbiamo pensato
fosse un’idea carina, probabilmente ora anche altri seguiranno
il nostro esempio, però noi siamo stati i primi!
Parliamo di S-low, un cd live, una testimonianza dell’ultimo
tour, avete fatto uscire un live ma da quanto non entrate in
studio?
Il live semplicemente racconta l’ultimo tour, le date del 2006. In
verità poi in studio ci entriamo in continuazione anche quando
siamo in giro per concerti, Riccardo e Luca entrano in studio
perennemente da mesi per lavorare su delle nuove tracce, io
lavoro da casa su altre, poi ci incontreremo per mescolare le
nostre creazioni e vedere quale materiale utilizzeremo per il
nuovo album che però non sappiamo quando uscirà. Magari
se siamo bravi ad aprile o maggio, abbiamo già una ventina
di brani utili, dieci persino con testo, vorremmo raggiungere i
venti brani completi di testo per poi poter scegliere. La bravura
sta nelle scelte giuste e non impantanarsi mai, se saremo bravi
di qui in avanti vorrà dire che ce la faremo.
Qual è la differenza di approccio che hanno i Marlene quando
entrano in studio e quando salgono sul palco
Qualsiasi band credo si senta costretta tra 4 mura quando
è in studio e possa esplodere quando suona dal vivo, sono
due aspetti complementari della stessa personalità. Quando
un artista riflette in studio lavora più a livello intellettivo e
cerca di trovare soluzioni interessanti per la propria musica
dal vivo, c’è una componente fisica, si interpreta quello che
si è creato in studio credo valga anche per noi! E poi ogni
concerto riplasma ogni pezzo, quando per esempio un brano
lo suoniamo per molte volte allora assume una connotazione
diversa, una sua evoluzione musicale. Ci sono dei brani in S-low
che durano tanto, anche uno da 11 minuti, e terminano nel
caos di distorsioni. Credo che sia una caratteristica dei Marlene
dal vivo che non perderemo mai; lo facciamo perché a noi
piace, ci diverte, e capisci bene che dal brano originale di
tre minuti aggiungendo distorsioni per sei la traccia si allunga
notevolmente assumendo una connotazione diversa. Una
nostra caratteristica imprescindibile..
Tornerete in Puglia?
Speriamo di tornare presto in Puglia perché la gente ci
aspetta sempre con tanta ansia e calore, a noi piace molto
l’accoglienza che ci avete sempre riservato, quindi...a presto.
Carlo Chicco
KeepCool
24
Bari, Auditorium Vallisa, 22 novembre. Il
festival Time Zones continua a emozionare
il pubblico, quanto mai eterogeneo,
perché è la musica proposta ad essere
quanto mai eterogenea. Lo scopo del
festival, giunto alla sua 21ima edizione, in
fondo è proprio questo: illustrarci le “vie
delle musiche possibili”. Oggi protagonisti
i Jackie O’Motherfucker, avanguardisti
americani del post-rock, ma soprattutto
i Sodastream. Album appena uscito,
distribuito qui da noi grazie a una label
tutta italiana (Homesleep), gran forma,
grande disponibilità, nonostante la
stanchezza di un tour massacrante e
affascinante al tempo stesso, fatto di
continui spostamenti e di vita “on the
road”.
È molto affascinante l’idea che una band
australiana possa essere distribuita da
un’etichetta italiana. E non una qualsiasi,
la Homesleep! perché avete scelto
proprio loro e come è nato il tutto.
Il come e il perché si sono intrecciati:
avevamo un contratto con un’altra
etichetta, la Spin!go (distribuzione
Rough Trade, ndr), che era sì piuttosto
grande ed efficiente, ma ci mancava il
contatto diretto con le persone con cui
lavoravamo. E così abbiamo inviato una
demo da noi costruita apposta per la
Homesleep: loro sono stati entusiasti di
noi e noi siamo molto contenti di lavorare
con gente giovane, che tra l’altro cura la
distribuzione di altri ottimi artisti.
A questo proposito, avete sentito qualche
artista italiano sotto Homesleep?
Si, gli Yuppie Flu più di tutti! Ma anche
Giardini di Miro e Julie’s Haircut non sono
affatto male..
Questa partnership vi ha portato in modo
quasi automatico a girare l’Italia. Siete qui
da quasi un mese e avete concerti per
i prossimi due: a parte le solite banalità
sul buon cibo, il buon vino e la bella vita,
vi siete fatti un’idea del “sistema Italia”?
Potete contemporaneamente osservarla
come musicisti, ma anche come turisti, o
semplici osservatori..
La cosa che ancora oggi mi stupisce è
quanto siate differenti a distanza di non
più di 200 chilometri: differente stile di
vita, differente cultura, diversi piatti tipici,
diversi dialetti. In Australia questa cosa è
ovviamente impensabile. Un’altra cosa
che mi ha colpito è la vostra disponibilità:
ho conosciuto un sacco di gente pronta
a mettersi a nostra completa disposizione,
cordiali, calorosi, al nord come al sud.
Da italiano sono contento di sentire
un ragazzo straniero che vede l’Italia
omogenea sotto questo aspetto: spesso
siamo noi stessi a considerarci separati,
il nord dal sud e viceversa. E del vostro
rapporto con l’Australia che mi dite? Siete
praticamente in tour costante, non ne
sentite la mancanza?
Se tu pensi che noi siamo in tour
praticamente da quattro anni, capisci
come sia normale che ci manchi casa.
Tra l’altro, abbiamo suonato in posti
completamente diversi dall’Australia:
siamo stati addirittura in Bangladesh a
suonare! Allo stesso tempo essere in tour
non è una cosa definitiva, quindi siamo
consapevoli che torneremo e questo ci
fa stare molto meglio. Poi, suonare in un
posto come questo ti gratifica a tal punto
da pensare che ne vale la pena...magari
in Francia mi manca un po’ di più casa,
lì sono un po’ più noiosi (ride). Ma in Italia
e in Germania ci divertiamo e quindi la
nostalgia la si sente un po’ meno.
Siete stati considerati come esponenti
del NAM (New Acoustic Movement). Vi
identificate in questa definizione? E cosa
pensate del movimento in generale?
Sembra essere un po’ scemato l’interesse
generale sulla questione..
Sono solo cose che crea la stampa! Non
abbiamo mai vissuto preoccupandoci di
come venivamo etichettati: se pensano
che noi apparteniamo al New Acoustic
Movement va bene, noi continueremo a
suonare la nostra musica, non dobbiamo
certo seguire una tipologia musicale, ma
la nostra personalità. Se suoniamo acustici
è solo perché oggi sentiamo di esserlo.
Riguardo il NAM in generale, è ovvio
che, come tutte le etichette create dalla
stampa, la cosa si sia sgonfiata; basta
che un qualsiasi artista precedentemente
etichettato come “acustico” passi al rock
o all’electro-clash, per farti capire come
queste definizioni siano semplicistiche.
Prima di andare a dormire, Pete
(contrabbasso e voce) scrive sul sito
della band:
“Lo show è andato bene. Un luogo
incredibile. Una specie di chiesa,
qualcosa del genere. Era piena di gente.
Direi che ce la siamo cavata. Ora sono
distrutto. E vedremo quali avventure ci
aspetteranno domani”
(ho scoperto il giorno dopo l’intervista che
i ragazzi sono giunti a Bari in ritardo e con
un guasto al radiatore del van, hanno
fanno un soundcheck di 5 minuti dopo
un viaggio di 500 km: considerando che
hanno rilasciato l’intervista intorno all’una
di notte, c’è davvero da apprezzarli).
Dino “doonie” Amenduni
KeepCool
É bello sapere che esistono gruppi come
i Franklin Delano. Ascoltare dischi come il
loro ultimo Come Home (Ghost Records) ti
riappacifica con la musica. Ti fa credere
che l’Italia ha ancora tante cose da
dire anche in ambito rock e che i confini
nazionali sono solo linee tracciate che
non fermano e non possono racchiudere
la musica. Abbiamo intervistato Paolo
Iocca, cantante e chitarrista della band.
Franklin Delano, nome strano per una
band. Una scelta frutto di una casualità
ma allo stesso tempo a presa rapida.
È un nome che in qualche modo dona
senso al progetto, visto che abbiamo
avuto sempre un legame con gli States,
fin dall’inizio, e che ora, con questo
nuovo album, emerge con più precisione
e nitidezza. Noi consideriamo il nome
del progetto come una bussola che ci
consente di non allontanarci troppo da
un percorso organico, rivolto ad ovest.
Quando penseremo che avremo esaurito
le nostre esplorazioni in quella direzione
(o ci saremo stufati di proseguire in quella
direzione), allora forse sarà il momento
di cambiare nome - o di fondare altri
progetti differenti, chissà. Però noi diamo
molta importanza al nome, che è un po’
una dichiarazione d’intenti, e anche un
po’ una “benedizione” del progetto in
sé. Il fatto che sia a presa rapida e quindi
efficace nella comunicazione esterna, ci
da la sensazione che dobbiamo insistere
e proseguire in questo cammino. In altre
parole, la sensazione che il progetto
funzioni passa anche attraverso il nome
scelto.
Quali ascolti ti hanno fatto maturare
questo suono?
È stato, sia per me che per Marcella,
una sorta di percorso a ritroso, un po’
come uno che studia il cubismo per
progressivamente arrivare al classicismo.
Noi abbiamo iniziato con i Red Red Meat e
i Califone, perché cercavamo un legame
con il blues vero, e non con quella terribile
parodia che è diventato il blues come
genere da tanto tempo a questa parte.
Cercavamo un modo “bianco” di fare
blues, o anzi un modo “universale” di fare
blues. La nostra successiva esplorazione
di tutta la scena neo-folk e post-rock
è partita da lì. Poi abbiamo iniziato a
renderci conto di quanto differente fosse
la loro cultura dall’idea che se ne ha qui
in Italia. Abbiamo sentito l’esigenza di
andare ad ascoltare i maestri dei nostri
maestri. Cercare un’origine comune, per
ripartire da zero, in una
direzione più “nostra”,
meno
“nel
trend”.
Questo è il nucleo di
pensiero nascosto dietro
Come Home.
Ho visto che avete
sostenuto un tour senza
respiro
in
America.
Ci parli di questa
esperienza?
Guarda,
non
basterebbe un libro per
raccontare tutto quello
che abbiamo passato,
nel bene e nel male. Mi
rammarico di non aver
tenuto un diario, ma so anche che non
sarebbe stato possibile. Ti bastino un po’ di
dati alla mano: quasi 24 mila km percorsi
in 50 giorni, per la bellezza di quasi 40 date
(un paio ci sono saltate per ritardi nostri).
La media dei pagamenti (percentuale
sugli incassi del locale) si aggirava sui 50
dollari, che chiaramente bastavano a
coprire la benzina e poco altro. Spesso
ci si faceva ospitare dai promoter o da
qualcuno del pubblico. Abbiamo dormito
in quasi tutti i generi di posti: dalle case
superconfortevoli alle baracche luride,
da letti veri e propri a pavimenti di legno
zozzi. Per non parlare dei Motels, di cui
conosciamo tutti i segreti (prezzi, zone,
coupons di sconto, etc.). Il secondo tour
è stato un po’ più “leggero”: meno di un
mese, ma con soli 3 day off, impiegati tutti
per un viaggio lunghissimo nel deserto
dell’Arizona, tra Los Angeles e Little Rock
nell’Arkansas.
Abbiamo
conosciuto
persone meravigliose, che speriamo di
poter rincontrare in futuro.
Nel vostro ultimo Come Home si nota
una ulteriore crescita. Alcune soluzioni
sembrano addirittura più pop, l’uso dei
fiati in alcune tracce vi da un colore quasi
soul. Cosa è cambiato?
Il percorso è stato proprio quello di
indagare cosa c’era sotto i Red Red
Meat, sotto i Wilco, sotto l’underground.
Cosa è la tradizione americana. Non
sai quante volte abbiamo ascoltato e
riascoltato Otis Redding per esempio, o i
Beach Boys. Volevamo fare un album che
suonasse classico e contemporaneo allo
stesso tempo. Abbiamo desiderato più di
tutto non essere accomunati a un trend o
a un altro. Volevamo mescolare le carte
e vedere cosa succedeva. Aggiungi che
le composizioni nascono proprio dalle
esperienze del tour negli States (nei testi se
ne parla quasi dovunque), e quindi il tono
emotivo dell’album rispecchia un po’
la carica delle emozioni vissute durante
il tour, e la colonna sonora a base di FM
radio rock’nroll.
Quanto vi riconoscete in una scena
italiana e quanto credete nella natura
apolide della musica?
La scena italiana si evolve sulla falsariga
di quelle americana o inglese. Non la
definirei neppure scena. La scena nascerà
quando più musicisti (noi compresi beninteso!) avranno il coraggio di osare
distaccandosi da quello che ci arriva
dall’estero e dai clichè imposti dai media
(come succede in Francia ad esempio),
e quando i giornalisti smetteranno di
snobbare i progetti italiani a favore di
tutti i cialtroni che arrivano dall’estero per
guadagnare due soldi in Italia (perché
non tutto quello che arriva dagli States
o dalla Gran Bretagna è superiore alle
nostre produzioni, anzi). Riguardo la
natura apolide della musica, è una
bella questione. Non è facile rispondere.
Nell’era della globalizzazione tutto si
muove con fluidità. Non dimentichiamo
che culture che sembrano lontanissime
da noi, sono in qualche modo più vicine.
Penso non solo a tutti gli italiani che hanno
influenzato la cultura americana, ma
anche a cose più profonde. Ad esempio
alla Santeria cubana, che è un sincretismo
tra panteismo africano e cattolicesimo
spagnolo. Ecco perché penso che
bisogna, in questo periodo di estremo
culto della superficie, andare a cercare il
sommerso della cultura, ovunque esso sia.
Il futuro della buona musica sono forse le
culture minoritarie?
Osvaldo Piliego
KeepCool
26
Quando la passione si riflette nell’amicizia
nascono cose preziose come il collettivo
Madcap. Ragazzi uniti dall’amore per
la musica un po’ pazzi, un po’ artigiani.
Abbiamo parlato con Fred e Paolo.
Innanzitutto perché Madcap. È un tributo
ad Alice nel paese delle meraviglie o a
Syd Barrett?
Fred: Il nome Madcap fu suggerito da
Andrea (Oswald) durante una merenda
pomeridiana tra il sottoscritto, Andrea
appunto e Paolo (Littlebrown). Se non
ricordo male, non distante c’era anche
Chiara Lee. Avevamo appena scoperto
quanto i rispettivi nostri primi dischi, da
poco scambiati l’uno con l’altro, fossero
contraddistinti da una sorta di dichiarazione
d’amore nei confronti del buon Barrett.
Quando poi arrivò Roger Keith, che a quel
tempo viveva ancora nella campagna
vicino a Treviso, ottenemmo anche tutta la
sua approvazione, e quindi Madcap fu.
Paolo: La risposta non mi è chiara, ma
penso di propendere verso Syd Barrett.
È tanto noioso quanto necessario dare
un nome a qualsiasi cosa, e anche per
Madcap doveva essere così. Syd Barrett
è un artista che sicuramente ci unisce
tutti, Roger stesso ha voluto assemblare
il collettivo dandoci ancora, di tanto in
tanto, qualche indicazione. Non posso
però tralasciare del tutto Alice…
Vi presentate come un collettivo e non
come un’etichetta in senso classico, ce lo
spieghi?
Fred: È una questione di sincerità,
trasparenza e conoscenza dei propri
mezzi. Abbiamo deciso di definirci
Collettivo perché è il termine che meglio
descrive i rapporti e le dinamiche che
esistono tra i vari progetti che ne fanno
parte. Mi accorgo che effettivamente non
è facilissimo spiegarlo in poche parole...
ecco, il lato “etichetta” rientra in parte nel
macrocosmo del collettivo, ma non è che
una parte del tutto. Ci sono le produzioni
video, c’è la nostra piccola St.Louis &
Lawrence Books... ci sono i reading qui
e lì... Se Madcap dovesse essere vista
dal suo lato promozionale/distributivo/
organizzativo per quanto riguarda i soli
progetti musicali, allora la vedrei forse più
come un trampolino che come appunto
un’etichetta.
Paolo: La scelta è abbastanza semplice.
Non siamo un’etichetta in senso classico.
Madcap è composta da persone che
collaborano attivamente allo sviluppo
del collettivo. Non esiste un rapporto
“etichetta/artista”, piuttosto un rapporto
“persona/persona” e proprio per questo
abbiamo sempre lavorato con artisti che
ci vanno a genio prima di tutto come
persone e poi, ovviamente, per quello che
fanno. Altra precisazione: Madcap non è
solo musica.
Se dovessi in breve spiegare il vostro
orientamento musicale...ce la faresti?
Fred: Potrei risponderti che siamo convinti
che l’orientamento musicale di Madcap
derivi dal fatto che, essendo Madcap
stessa 6, tutti le proposte sonore che ne
fanno parte non possano che partire dal
3. Penso che ogni progetto di Madcap sia
contraddistinto dal fatto che all’interno
della propria produzione ci siano
tantissime piccole dichiarazioni d’amore.
Contraddistinte da un’attitudine comune
e da un forte credenza nella cabala. E
per questo ci possono essere produzioni
davvero molto diverse l’una dall’altra, ma
rese vicine quasi da un “puzzo” comune...
Paolo: Oddio. no. È come chiedere a un
gatto di dirti cosa farà durante il giorno.
Il vostro catalogo presenta un serie di
produzioni con una precisa immagine,
un’estetica. È parte anche questo del
progetto Madcap?
Fred: È una tacita comunanza che parte
anche da piccole cose, come la scelta
di cercare di evitare il più possibile la
plastica nel packaging dei cd. Paolo si
occupa della veste grafica del sito (www.
maledetto.it) e supervisiona un po’ tutte le
produzioni, ma molte altre sono le persone
che hanno collaborato o continuano a
collaborare con noi per la grafica dei
dischi o dei libretti, e non ho mai notato
alcuna discrepanza con quello fatto fino a
quel momento.
Paolo: Si, anche se non vorrei che si
pensasse che Madcap veicola gli artisti
nella scelta grafica. Per rifarmi a quanto
detto prima, siamo persone con attitudini
molto vicine. Ecco perché l’estetica è
omogenea.
Avete proposte musicali abbastanza
trasversali, ce ne parli un po’?
Fred: Fondamentalmente Madcap, a
tutt’oggi, è costituita da: Father Murphy,
Littlebrown, Oswald, Gomma Workshop,
Franklin Delano (si si, so che escono per
Ghost adesso, ma fanno sempre parte
del Collettivo) Stop the Wheel e Beatrice
Antolini. Più supporta altre realtà come
Pentolino’s Orchestra, Princesa e Lorenzo
Fragiacomo. Vedendo le varie recensioni,
articoli apparsi a proposito dei progetti
Madcap penso che uno degli aggettivi
più utilizzati sia “obliquo” e quindi anche
appunto “trasversale”. Penso che, in forme
e con caratteristiche tutte differenti, parta
comunque tutto da un gusto diverso
nell’approcciare il pop e, tirandola un po’
per il collo, la psichedelia. Ecco un’idea:
credo che tutti noi riteniamo la produzione
solista di Barrett come una delle espressioni
più riuscite di psichedelia acustica (anche
se non so cosa possa voler dire), per
quanto almeno concerne i nostri gusti. Da
qui poi aggiungi un po’ di attitudine che
non può non essere contaminata dal punk,
e dall’amore per la melodia, viva viva la
melodia!
Paolo: Su questo non ho molto da dire.
Madcap è nata per promuovere la
musica dei tre artisti che inizialmente
la componevano (Littlebrown, Father
Murphy e Oswald). Da qui ci siamo sempre
più “ingranditi” facendoci ammaliare da
progetti musicali.
Domanda di rito per chi, come voi, non
gode di grandi distribuzioni. Dove e come
si possono trovare i dischi della Madcap?
Paolo: Ci sono dei punti di vendita
“fidelizzati”, ma in linea di massima il
metodo più veloce di comprare dischi
Madcap è il web. www.maledetto.it e si
trovano tutti i dischi in vendita. Se non si
ha la possibilità di comprarli via paypal,
utilizzate il servizio di mailorder e verrete
subito ricontattati.
Fred: a quanto detto da Paolo aggiungo
solo che, oltre a maledetto.it, ad ogni
concerto di ciascun progetto di Madcap
sono disponibili sempre tutti i titoli prodotti.
E che a volte, il non aver la distribuzione
come almeno è concepita adesso, può
anche essere un bene. Che internet e il
mailorder trionfino!
Osvaldo Piliego
Coolibrì
Narrativa, Noir, Giallo, Italiana, Sperimentale
27
la letteratura secondo coolcub
Critica della Ragion Criminale
Michael Gregorio
Einaudi Stile Libero BIG
1804. Prussia. Napoleone terrorizza o eccita
gli animi di mezza Europa. I suoi nemici
lo temono, i suoi seguaci lo aspettano
fiduciosi. Una nuova corrente di pensiero
si affaccia nelle menti più sensibili: il
Romanticismo. L’Illuminismo, ormai al
tramonto, viene messo alla berlina,
così come il suo più grande interprete,
Immanuel Kant, ormai autoreclusosi
nella sua casa di Koningsberg, per non
essere più preda degli sberleffi dei suoi
concittadini, gli stessi che fino a pochi
anni prima usavano regolare l’orologio
sui suoi spostamenti.
Ma in quei giorni alcuni avvenimenti
inquietanti spingono il grande filosofo
a uscire di nuovo di casa: un misterioso
serial killer ante litteram semina il terrore
per le strade di Koningsberg. Il Re
Federico è convinto che si tratti di spie
francesi che vogliono seminare il terrore in
Prussia per spianare la strada alle armate
napoleoniche.
Con il carisma che si pensa debba
avere il filosofo più temuto dai liceali di
mezzo mondo, il professor Kant sfodera
un metodo di indagine talmente evoluto
da fare impallidire Gill Grissom di CSI,
mettendo a frutto i suoi studi sulla logica
e le sue vaste conoscenze dello scibile
umano.
E così, tra colpi di scena, atmosfere noir al
limite dell’horror, si dipana questo Critica
della Ragion Criminale mirabile thriller a
metà tra il romanzo storico e la noir-fiction
alla Fox Crime.
Michael Gregorio riesce a costruire una
trama che non ha cedimenti, compatta
e con un ritmo serratissimo, che costringe
il lettore a non lasciare il libro prima di
essere arrivato alla fine delle quasi 500
pagine, gustando, pagina dopo pagina,
le numerosissime chicche e i saggi del
pensiero kantiano applicato alla scienza
forense.
Sembra quasi, lo scrittore, voler dare una
solida base filosofica alle più moderne
tecniche di indagine delle scienze
criminali, dall’autopsia alle fotografie – nel
romanzo rudimentali ma efficaci disegni
– della scena del crimine, dalla raccolta
dei referti agli interrogatori dei sospetti,
alle perquisizioni e alla catalogazione
sistematica delle prove, con uno sguardo
quanto mai attento all’arma del delitto.
Sarà una mia deviazione, ma davvero
leggendo questo romanzo ho dato
a Immanuel Kant il volto sornione del
supervisore del turno di notte dell’Unità
Scena del Crimine di Las Vegas. Sarò
un bestemmiatore per gli amanti della
Critica della Ragion Pratica, ma che ci
volete fare, sono un figlio bastardo della
mia formazione classica e della mia
deformazione televisiva.
Dario Goffredo
Coolibrì
28
S’è fatta ora
Antonio Pascale
Minimum Fax
Nella seconda di copertina di S’è fatta ora, nuovo romanzo
di Antonio Pascale, edito da minimum fax, viene riportata
una considerazione di Alfonso Berardinelli: “Qualunque cosa
racconti, Pascale è credibile, è divertente, smonta e rimonta
la realtà davanti ai nostri occhi portando ogni elemento e
dettaglio al più alto grado di evidenza”. Parole che sottoscrivo
pienamente, poiché la forza di Pascale sta proprio in questa
prosa accattivante, coinvolgente, che ci pone dinanzi ai dolori
che minano le nostre esistenze, senza, però, perdere mai quel
pizzico d’ironia che dona alla disperazione una tenue aura di
speranza. Il romanzo è strutturato in cinque episodi, tutti aventi
come protagonista Vincenzo Postiglione, alter ego dell’autore,
già presente in altri libri di Pascale, nel pieno di alcuni momenti focali della vita di
un uomo: la giovinezza, la politica, l’amore, il rapporto con il dolore e quello con
le scienze. In realtà i cinque episodi possono essere letti singolarmente, come se
si trattasse di cinque racconti, senza perdere la loro forza narrativa. In Pascale, il
tempo della narrazione viene smembrato. Non un intreccio lineare, ma circolare.
Cinque cerchi concentrici, uno per ogni episodio, all’interno dei quali si dipana la
vita dell’io narrante. Vincenzo Postiglione è infatti alle prese con cinque iniziazioni
fondamentali della sua vita (iniziazioni sentimentali, civili ed esistenziali) che
intarsiandosi tra di loro creano un romanzo di formazione prezioso e originale, con
momenti di profonda bellezza. Chiudo con un estratto del divertente episodio
Amori romani: “Non perdiamo tempo, perché le chiacchiere stanno a zero, c’è chi
l’amore lo fa per strategia chi per desiderio. Io lo faccio per desiderio, cerchiamo
di non analizzarlo più del necessario, tanto è destinato a spegnersi, dura giusto
il tempo di un attraversamento di strada. Lo sai tu e lo so io. Tu sei qui, su questa
terrazza borghese che guarda l’isola Tiberina, solo perché soffri; io per lo stesso
motivo. Quindi niente parole, cene, dichiarazioni, complimenti o autopromozioni,
niente trucchi e subito sesso. L’unico modo reale che abbiamo per comunicare”.
Quanta verità in queste parole!
Rossano Astremo
Pancho Villa e lo squadrone
ghigliottina
a lacerarsi fra la tensione verso i suoi ideali
e l’abbaglio della sirena della Storia. Tanto
divertimento dunque, ma non solo.
Silvestro Ferrara
La Rivoluzione Messicana
del 1910 raccontata in
toni picareschi. L’avido
Feliciano
Velasco
y
Barbolla de la Fuente,
un paffuto avvocato
conservatore, ha messo
a punto la ghigliottina
perfetta
e,
insieme
ai
suoi
imbranati
aiutanti, si presenta al
cospetto di Pancho Villa
convincendolo a comprarla. Sperava di
arricchirsi e invece si ritrova, suo malgrado,
arruolato in un esercito straccione e volgare,
agli ordini di un colonnello con la pancia
e l’alito cattivo e di un ladro di galline che
si fa chiamare generale. A capo dello
squadrone ghigliottina, lui, discendente
da una famiglia di gran lignaggio, si
ritrova a giustiziare membri della sua
stessa classe e ben presto diventa, grazie
a una serie di esilaranti equivoci, l’eroe più
acclamato della Rivoluzione. Guillermo
Arriaga, l’apprezzato sceneggiatore di 21
grammi e Babel, rivela in queste pagine
una vis comica sorprendente. Con penna
leggera dà vita ad un Messico surreale,
colto nei giorni più caotici della sua storia.
La trama è una girandola di situazioni
comiche
perfettamente
orchestrate,
con il colpo di scena sempre in agguato.
Riuscitissimo il personaggio dell’antieroe
- deplorevole ma spassoso - Velasco,
capace di acquistare gradualmente una
inaspettata complessità che lo conduce
Una donna in bilico
Guillermo Arriaga
Fazi Editore
Lucía Etxebarría
Guanda
La versione originale
del romanzo risale
al 2004 con il titolo,
eloquente,
di
Un
milagro en equilibrio.
Esce ora la versione
italiana con un titolo
completamente
diverso ma altrettanto
eloquente. La donna
in bilico in questione
è Eva, neo mamma, alle spalle anni
passati tra storie e persone sbagliate,
molte insicurezze e fiumi di alcool per
tappare i buchi che quelle insicurezze
avevano prodotto, un lavoro appagante
come solo la scrittura può essere ma
economicamente
poco
redditizio,
cadute e sollevamenti e di nuovo altre
cadute. Adesso, di fronte ad un computer
e con in braccio la piccola Amanda che
le respira profondo sul collo e dorme
placida, Eva prova a fare il punto della
situazione, in una lettera-diario indirizzata
proprio a questa figlia, in cui affiorano i
pensieri, le paure, i tentavi, le delusioni,
i rapporti difficili della sua vita fino a
quel momento. Vengono a galla segreti
di famiglia, svela il tormento di essersi
“sempre sentita doppia”, “mai tutta d’un
pezzo”. Scritto nello stile che da sempre
caratterizza la “enfant terribile” della
letteratura spagnola, questo romanzo di
quattrocento pagine si snoda veloce,
chiaro e coinvolgente, tanto da aver
fatto vincere alla sua autrice il premio
Planeta 2004. In queste pagine potrebbe
essere racchiusa la storia di ogni donna
in bilico.
Valentina Cataldo
La Merca
Chiara Daino
Fara editore
Entri nel testo e ne rimani scosso. La
protagonista di La Merca, romanzo
d’esordio di Chiara Daino, è Jenny, una
giovane donna affetta da disturbi del
comportamento
alimentare
(d.c.a.).
All’inizio della storia Jenny è rinchiusa in una
clinica. Lo scopo è quello di guarire. In realtà
Jenny declina ogni invito alla guarigione.
Preferisce scoparsi uno dei dottori che
svolge il proprio “lavoro” in clinica. Un
certo Gian. Personaggio sgradevole. Basti
annusare il suo nome. Jenny evade da
quell’angusta prigionia. Abbandona la
clinica. Le uniche armi di sopravvivenza
l’alcol, le sigarette, la scrittura e il cazzo.
Jenny ama autodistruggersi. Lo fa con
consapevolezza. Come se non conoscesse
alternative più costruttive. A questo lento
logorio del suo corpo corrisponde, sul
piano stilistico, la presenza di una lingua
sperimentale, connotativa, frammentaria,
sfuggente. Distruggere il proprio corpo.
Decostruire il linguaggio. La fine è presto
detta. Persino scontata. La morte aleggia
sin dal primo respiro. “Per Jenny mangiare
in ganga era pari ad urinare/ defecare
in pubblico: solo esibizionisti e depravati
possono farlo. Certi bisogni fisiologici
dovevano, per lei, essere protetti da romito
pudore, ma si assoggettava al malcostume
generale di banchettare in compagnia,
ingurgitando cibo cucinato da estranei,
volte numero 3 all’anno: Pasqua, Natale e
il suo compleanno. Più volte avrebbe poi
(naturalmente) espulso tutto, ignorando e
(volutamente) omettendo che negli ultimi
giorni rimettesse sangue”. Tenete ben in
mente questo nome: Chiara Daino. Ne
Coolibrì
sentiremo presto parlare.
Rossano Astremo
Bungee Jumping
Gero Giglio
Marsilio
Esce il nuovo romanzo
della collana Marsilio X,
interessante contenitore
di nuova letteratura
del più antico editore
italiano.
Bungee
Jumping è un tuffo nei
meandri più oscuri della
vergogna. Un libro che
scava e passa oltre i muri
delle case nel privato
che alcuni vorrebbero
nascondere anche a se stessi. Il ritmo che
scandisce le pagine di questo libro è quello
della città, del rap. Attraverso i versi in
rima Tommy sfoga la sua rabbia repressa,
l’odio per gli abusi sessuali subiti per una
vita così giovane e già irrimediabilmente
compromessa. Sullo sfondo l’apparente
normalità. E poi c’è la piccola Sole, anche
lei ha un segreto, vorrebbe essere come
le sue amiche ma lei non può. Quando
Tommy e Sole non serve spiegare niente,
c’è attrazione, la purezza che nessuno
dei due ha. E si legano, si stringono uno
all’altro con una tenerezza che riscalda il
cuore. Ma c’è sempre la realtà, violenta e
cruda a fare male. Nel rapporto di questi
due ragazzi si apre però uno spiraglio, una
via di uscita, un po’ di luce. Un libro crudo
quello di Gero Giglio che tratta tematiche
scomode con realismo e senza mezzi
termini. Uno spaccato degli adolescenti
di oggi visto da un’ottica diversa. Come
lui stesso ha affermato in un’intervista
“Bungee Jumping sta a Tre metri sopra il
cielo come Capitan Harlock sta a Kiss me
Licia.”
Osvaldo Piliego
ÒperÉ
Stefano Di Lauro
Besa
Un vecchio garage
sotto il livello del suolo,
permanente odore di
benzina, il necessario
e il superfluo mischiati
insieme alla rinfusa,
la moto con il pieno,
una
tromba;
un
posto dove tutto è a
portata di mano, senza
finestre. Dà un senso
di riposo. “Abbasso la
saracinesca e mi scordo del mondo”,
dice Io/Orfeo. Questo Orfeo/giocatore di
Stefano Di Lauro, che si mette occhiali neri
per mediare il conto dei tanti “sonni sfiniti
col sole negli occhi”. Il suo corredo minimo
di sopravvivenza è tutto qui, contenuto
alla rinfusa e poi… Euridice, a sanare la
solitudine, la fuga, il sentirsi nel fastidio
del mondo. Euridice, veleno e antitodo.
Mancanza
e
necessità,
incontrata
nella vertigine di un destino nuovo, che
all’improvviso spazza tutto via e t’innamora,
t’innamora! Ah come t’innamora, la
malattia del mondo. Tanto da perderti in
una affabulazione che viene a cascata
29
dove la realtà trova conforto in una
disperata virtualità, senza passato e senza
futuro, tutta nella libertà del presente. Atto
che si consuma e si rigenera. Basta un clik
e …open file e un clik e …close file. Chiuso,
tutto finito, andare e venire dal niente di
sé, dal rammarico, dall’acido vivere. Basta
un clik, per tornare nel ‘sogno’, nel gioco,
nel non esserci. C’è un poetare sotteso,
che fa la trama. Lirico, sospeso, ‘mitico’…
Le ninfe dei boschi, uscendo dalle loro
querce, si affrettano verso il cantore, e
perfino le belve accorrevano dalle loro
tane al melodioso canto. Una ritmica del
‘raccontar-dicendo’ che accompagna il
lettore in un avventura fatta di immagini
costruite con la luce. Una dannazione di
paesaggi che mischiano le suggestioni
della pittura (Edward Hopper, con le sue
stazioni di servizio sulle lunghe e desolate
strade d’America, e il blu meraviglia di
Yves Klein) ai pixel, a fluttuazioni elettriche.
“Invisibile che diventa visibile” è questo
romanzo, che travalica le categorie e
mischia, frulla, centrifuga, lasciando il
succo d’amore vivo, presente, unico. Un
soliloquio, un monologare, in un Sistema
dove non smette mai di piovere, dove
sembra abitare la sensibilità di Ridley Scott,
di Orwell, di Huxley, un plot transgender
dove la lettura diventa un attraversamento
fantastico e il mito conferma la sua
carica profetica il so tutto degli antichi.
L’ammonimento che ieri non abbiamo
saputo
ascoltare,
profondamente
conoscere!
Mauro Marino
Diario dall’Apocalisse
Eleanor Coppola
Minimum fax
“A Francis dirò: non aver
paura. Ricordi quelli
che si buttarono dalla
finestra quando crollò
la borsa? Credevano
di essere i loro soldi. Tu
non sei il tuo film. Se
gli altri pensano che è
grandioso, tu non sei
Dio. Se gli altri pensano
che fa schifo, tu non sei
uno scemo. Tu sei un
essere umano che ha dato a questo film
tutto quello che aveva.” Queste alcune
frasi del libro dove si intuisce che se è vero
che dietro ogni grande uomo c’è una
donna altrettanto importante, questo libro
ne è la prova vivente. Scritto da Eleanor,
moglie del regista, Diario dell’Apocalisse è
il racconto della genesi di un capolavoro,
un documento eccezionale su un film
indimenticabile, che ha segnato un’epoca
e ha mostrato al mondo cos’era davvero il
Vietnam. Questo diario non è una semplice
sequela di avvenimenti, ma molto di
più. Porta con se il travaglio interiore che
segna la nascita di un’opera, descrive
dubbi ed amarezze, racconta i sogni e la
vita e lo fa con la sensibilità che solo una
penna femminile può avere. Un’opera
imperdibile per ogni appassionato, ma
anche didattica. Soprattutto per chi,
molto superficialmente, vede un film come
un semplice rotolo di celluloide.
C. Michele Pierri
Il cinema salvato dal Sud
Rita Picchi
Kurumuny
Ci si interroga sempre
più spesso su quello
che voglia dire oggi, in
tempi di globalizzazione,
avere
tratti
locali,
distintivi,
attraverso
i quali si cerchi di
raccontare a noi stessi
e agli altri il microcosmo
in cui viviamo. Con
tutti i mezzi, compreso
il cinema. Quello di
Rita Picchi è un libro
interessante, che prova a descrivere
il cosiddetto “cinema del sud” in una
chiave differente. Non più partendo dal
locale, ma intraprendendo un percorso
a ritroso, che va dal cinema d’autore e si
sposta pian piano per motivare la nascita
e la diffusione di un fenomeno limitato, ma
di forte influenza. Tralasciando entusiasmi
ed aspetti folkloristici, l’autrice sceglie la
strada del rigore analitico, accompagnata
da una prosa leggera che rende la
lettura agevole e veloce. Truffaut e Rubini
diventano così il mezzo per intraprendere
riflessioni sociologiche che spaziano dalla
radio alla tv commerciale, per arrivare
al moderno concetto di documentario.
Un’occasione in più per riflettere, informarsi
e seguire un po’ più da vicino i mutamenti,
sempre più veloci, che caratterizzano il
mondo in cui viviamo.
C. Michele Pierri
Un’ultima stagione da
esordienti
Cristiano Cavina
Marcos y Marcos
“Non vedo l’ora di
diventare vecchio (…)
per raccontare a un
bambino
come
un
pallone possa trasformare
i più deboli nella Rocca di
Gilbilterra”. È il potere del
calcio: fare di novanta
minuti di polvere, calci
d’angolo, passaggi e
goal una storia di epiche
peripezie.
Cristiano
Cavina fa proprio questo: racconta le
vicende di piccoli calciatori come se
stesse scrivendo di battaglie epocali.
Basta poco per scoprire che questa non
è solo la storia dei tredicenni di Casal
Valsennio, ma è la sua storia. È la storia
dei suoi fantastici tredici anni, quelli in cui
nulla poteva competere con la brama
di calcio e di vittoria, neanche i sorrisetti
maliziosi delle belle compagne di classe e
le grida assillanti di mamme premurose. È
il racconto di partite giocate nei campetti
di calcio di periferia con personaggi fuori
dalle righe, protagonisti di un calcio
goliardico e sincero. Cristiano Cavina,
pagina per pagina diverte con i suoi
aneddoti di “benniana” ironia. Attraverso
la scelta di una scrittura semplice e
lineare racconta l’abbandono dei sogni
adolescenziali e il passaggio obbligato al
futuro attraverso i tempi di un ultimo, ma
glorioso, campionato da esordienti.
Raffaella De Donato
Coolibrì
30
Gay every day
A.A.V.V.
Manni editori
La nuova sfida editoriale di Manni esce
in questi giorni a replicare il successo di
Tu quando scadi? raccolta di racconti
sul mondo dei precari.
Quanto mai azzeccato il tempismo
e il tema in entrambi i casi, segno di
sguardo attento e di una politica di
intervento su temi di grande interesse e
attualità. In un momento in cui si parla
tanto di outing esce nei negozi Gay
every day, racconti dalla quotidianità
omosessuale.
Operazione
delicata
quella
di
delimitare in un libro dei racconti a
tema, si rischia di sortire un effetto
contrario all’intento. Per farlo bisogna
calibrare bene la scelta degli interventi,
farne un libro che sta in piedi da solo e
non perché alla moda.
Gay every day tutto sommato ce la
fa. Al suo interno ci sono dei racconti
carichi di disarmante sincerità, pieni
d’amore. Alcuni scritti molto bene,
altri meno. Una panoramica sui
mille modi di vivere l’omosessualità,
firmata da nomi noti ai più (l’apertura
è affidata al mitico Giò Stajano) e
da molti pseudonimi (piccolo neo,
ma comprensibile). Like a virgin e Un
anno di amore spiccano per scrittura,
freschezza e intensità. (O.P.)
Daniele Del Pozzo è il direttore artistico
del Gender Bender, festival internazionale
delle arti legate alle rappresentazioni
del corpo, alle identità di genere e di
orientamento
sessuale.
Quest’anno
il festival, accompagnato da mille
polemiche di stampo politico e religioso,
ha avuto più di 10.000 presenze. Merito
anche del grande lavoro del Cassero,
gay lesbian center di Bologna, dalla storia
ventennale.
Recentemente
ha
pubblicato
per
Mondadori Gay – la guida italiana in 150
voci.
Il Gender Bender, giunto al suo quarto
anno, si è appena concluso. Come è
cambiato e cresciuto il festival rispetto
alla prima edizione?
Il festival è cresciuto sia come
programmazione che come pubblico.
Per quanto riguarda la programmazione,
quest’anno si è dato ampio spazio a
spettacoli di danza e teatro, oltre che
concerti. Si è mirato a creare luoghi di
incontro tra artisti e pubblico, con incontri
e dibattiti che seguivano le performance.
Ogni anno viene fornito un questionario
anonimo, compilato in questa edizione
da 850 persone. Rispetto all’anno scorso,
c’è stata maggiore affluenza di pubblico,
soprattutto femminile. Lo scorso anno si
contava un 50% di uomini e 50% di donne
– tra gay, lesbiche ed etero – quest’anno
le donne sono state il 60%.
Molti omosessuali prendono le distanze
dalle manifestazioni folcloristiche di
matrice gay, come i Pride, ritenendo che
sviliscano la loro condizione e li ghettizzino
ulteriormente agli occhi dell’opinione
pubblica. Lei cosa ne pensa?
Tutte le forme di socializzazione gay e
lesbiche sono un’occasione di formazione
oltre che di incontro. Non mi riferisco solo
ai Pride, ma anche alle discoteche, alle
saune. Sono luoghi dove si socializza,
aiutano la persona a crescere, a formare
la propria identità. Inoltre permettono di
trovare dei modelli di comportamento,
anche solo per conoscerne l’esistenza e
sperimentare. Più che di ghettizzazione,
parlerei di momenti di esperienza formativa
salutari. La ghettizzazione – faccio anche
riferimento agli attacchi arrivati al festival è infatti più nel cervello delle persone che
nelle attività del Gender Bender. Queste
occasioni offrono un’ulteriore scelta, dato
che la partecipazione non è obbligatoria.
Ecco perché ritengo siano un’occasione
in più per la propria crescita formativa.
La guida gay in 150 voci esce in Italia
con notevole ritardo rispetto ad altri paesi
europei. Quali sono le ragioni e a chi si
rivolge la guida?
La guida si rivolge innanzitutto ai gay.
Costruisce però una memoria storica
del nostro paese che può permettere
al mondo gay di uscire dal ghetto, ed
essere riconosciuto come elemento
fondamentale nella cultura italiana,
anche mainstream. Credo che la guida,
oltre agli omosessuali, possa rivolgersi a
chiunque si interessi di cultural studies o
di costume della società italiana. Offre
infatti una nuova chiave di lettura alle
trasformazioni sociali e storiche avvenute
nel nostro paese. Il ritardo rispetto agli altri
paesi è semplicemente dovuto al fatto
che la teorizzazione arriva sempre per
ultima: prima ci sono forme di espressione
mediatica, culturale. Solo in un secondo
momento si passa ad analizzarle e definire
un ordine.
Pensa che la guida possa aiutare un
eterosessuale a muovere i primi passi
verso la conoscenza del mondo gay?
Sì, appunto perché non parte dall’identità
gay in sé, che può interessare o meno.
Parte dal contributo che quella identità
ha avuto sul sistema culturale italiano tout
court. Ecco perché può interessare chi si
interessa della cultura italiana, aiutando
a capire perché, ad esempio, Renato
Zero si è trovato a cantare la sigla di
Fantastico, a evidenziare la personalità di
un cantante quale Umberto Bindi, capire
perché appaiano i Gay Pride a dar così
fastidio al Vaticano.
Tempo fa ne L’infedele di Gad Lerner si
parlava dell’accettazione del gusto gay
da parte del mercato. La diffusione del
gusto gay è giustificata dal fatto che
ultimamente gay fa tendenza. Crede che
l’immagine del gay offerta dai media
corrisponda a quella reale?
I media hanno sempre i loro linguaggi
e modi di comunicazione che non
rispondono in toto alla realtà, la quale
è molto più stratificata. È interessante
che si occupino di omosessualità perché
permettono di aprire un dibattito. È
sempre meglio dialogare che censurare.
È vero che i gay hanno avuto delle
nicchie di ascolto e attenzione più o
meno tutelate o coperte. Ma ci sono
anche grandi nomi della letteratura e
del cinema, universalmente riconosciuti,
Coolibrì
come Pasolini e Almodovar, o Testori
sul Corriere della Sera, i quali hanno
dato la loro interpretazione del mondo
partendo dall’esperienza personale,
da una visione molto vicina all’estetica
omosessuale. Come evidenziato anche
dal libro, possiamo dire che il gay è
accettato nella cultura. La vera novità
invece è che ora si ha una maggiore
attenzione e visibilità delle vite private
delle persone gay. È stata proprio
questa la vera svolta degli ultimi anni.
Un aggettivo che descriva i Pacs.
Necessari.
Come vede la condizione gay in Italia
tra dieci anni?
Purtroppo credo ci sia una rimonta
dell’integralismo, che mi fa pensare
male. Le conquiste delle libertà civili e
sociali sembrano tornare indietro di 3040 anni. Dall’altra parte, però, ritengo
che ci sia una sorta di avanguardia
profetica. Proprio i Pacs, ad esempio,
si inseriscono in un contesto di grande
cambiamento della società. Non parlo
solo per i gay, perché i Pacs offrono
un’alternativa al matrimonio valida
anche per gli eterosessuali. La realtà
che viviamo oggi – penso soprattutto
alla generazione dei 40enni - ha subito
dei profondi cambiamenti economici.
Si vive nell’insicurezza, nel precariato.
Affrontare un matrimonio diventa
impossibile. Proprio i Pacs quindi
garantirebbero delle forme di tutela
alternative e valide. Ecco perché credo
che in questa lotta per i diritti civili i gay
abbiano una missione profetica. Certo,
c’è sempre molto lavoro da fare, ma se
da un lato vedo ombre nere, dall’altro
c’è voglia di prendere atto delle
trasformazioni della società italiana.
Che
consiglio
darebbe
ad
un
adolescente in piena crisi di identità?
Sperimentare e non darsi dei giudizi. Né
tanto meno partire da pregiudizi. Trovare
in ogni modo la sua strada, qualunque
essa sia, senza aver vergogna.
E ad un omofobo?
Uscire di più la sera e incontrare gente
Cosa suggerisce ai politici italiani, tanto
presi dalla necessità di dare un bagno a
Vladimir Luxuria?
Credo che le questioni cocenti e
importanti della politica italiana siano
ben altre. Dovrebbero occuparsi di
quelle.
Anna Puricella
Quella che vi presentiamo è una intervista
con Giancarlo De Cataldo all’indomani
della ripubblicazione di Terroni, saggio
sulla “sua” Taranto, scritto una decina
d’anni fa, in piena epoca Cito. Nonostante
questo, un libro terribilmente attuale che
può aiutare a comprendere la situazione
tragica di dissesto, economico e culturale
e umano, che vive la città bimare.
Nella prefazione alla nuova edizione scrivi
che avresti voluto aggiornare Terroni alla
luce di quanto accaduto negli ultimi dieci
anni ma poi hai lasciato perdere. Come
Mai?
Perché mi sono reso conto che avrei
dovuto riscriverlo per intero e questo
avrebbe snaturato e alterato lo spirito con
cui questo libro è stato scritto che è un po’
lo spirito di distacco, di presa di distanza.
E anche di bilancio, in qualche modo,
per cercare di capire se c’erano degli
elementi comuni per tentare di legare le
varie storie di una terra di cui si parlava
pochissimo: la Taranto di Cito, appunto. A
distanza di anni tutto sembra terribilmente
mutato, anche se credo che si tratti
principalmente di apparenza. Anzi, certi
meccanismi fondanti sono rimasti gli stessi
al punto che una riscrittura mi avrebbe
portato ad un altro libro. Perciò ho ritenuto
che la ristampa fosse il modo migliore per
sottolineare il senso che questo libro ha
avuto allora e credo possa avere anche
adesso.
Qual è la relazione tra un passato legato
ad un personaggio come Cito e un
presente disastrato per colpa di una
amministrazione comunale sicuramente
più presentabile del suo predecessore ma
portatrice di un modo di fare politica che
ha spinto la città alla bancarotta? Sono le
facce di una stessa medaglia?
Sai, ci sono delle inchieste in corso per
cui preferirei non esprimermi. Io direi
che in democrazia le elezioni si vincono
conquistando il consenso. Per cui se la
città si trova in questo stato la colpa è di
chi ha scelto una maggioranza piuttosto
che un’altra. Quindi, non solo i politici, ma
anche la società civile. Inoltre distinguerei
molto bene tra chi ha governato e ha le
sue responsabilità, e chi non ha governato
al quale si può imputare solo il non aver
vinto le elezioni. Si può e si deve invece
puntare il dito contro una borghesia
piccola o media che, dovendo scegliere
tra un onesto magistrato e un pregiudicato,
ha preferito quest’ultimo spalancando le
porte al baratro.
La Puglia, pur con le sue sacche di miseria
e le sue contraddizioni, ha visto negli ultimi
anni mutare certe situazioni. Non mi riferisco
solo a Vendola, che tu definisci new-entry,
ma a tutta una serie di produzioni culturali
che hanno denotato una vivacità artistica
sorprendente. Come mai questo ‘new deal’
non ha interessato affatto la provincia di
Taranto che è rimasta al palo?
Io sono convinto che ci sia una ragione
contingente, nel senso che lo slancio
alle nuove comunità viene dai nuovi
amministratori. Prendi la provincia di Lecce
che è diventato un luogo capace di
evocare miti con una portata mondiale,
senza che questo ne snaturasse l’essenza.
Lo stesso vale per Bari, che in un momento
di crisi molto profonda, si è buttata nelle
mani di un sindaco che proveniva dalla
magistratura e che ha molti meriti nel
cambiamento della città. Certo, non tutto
è risolto ma la situazione è migliorata. Tutto
questo a Taranto è mancato. Inoltre c’è un
altro elemento che è quello dell’orgoglioso
isolamento che caratterizza i miei
concittadini. È quell’aspetto ‘leghista’ di
cui parlo proprio in Terroni. Isolamento e
cattiva amministrazione danno vita ad un
cocktail micidiale che ti spinge ai margini.
Eppure in Terroni parli anche della Taranto
degli anni ’70 e racconti una città ben
diversa…
Quando faccio questi discorsi vivo
l’imbarazzo
dell’osservatore
distante,
informato dei fatti se vuoi ma non presente
perché a Taranto non ci vivo da tempo.
Io voglio sperare che i fermenti in città ci
siano ma al contempo lamento il fatto
che questi fermenti non abbiano ancora
prodotto un’alternativa alla Taranto
degli ultimi anni. Il problema è sempre lo
stesso: una borghesia retriva, soffocante,
conformista che non ha mai colto le tante
occasioni di slancio che sono state offerte
nel tempo alla città.
L’appartenenza a cui tu fai riferimento
invece di indebolirsi si consolida. Cos’è,
autodifesa?
Se il rapporto con le proprie radici è una
rivendicazione orgogliosa può anche
andar bene. Se deve diventare una
chiusura verso l’esterno invece… noi,
non dimentichiamolo, abbiamo avuto le
ronde contro gli immigrati, in una città che
immigrati non ne aveva. Se deve essere
questo, se deve essere la ritualità di una
belle epoque tarantina che non è mai
esistita allora buttiamola a mare.
Ilario Galati
Coolibrì
32
Il nostro viaggio tra le piccole e medie
case editrici prosegue con DeriveApprodi.
Ilaria Bussoni ci ha raccontato la nascita e
l’evoluzione
Come nasce la casa editrice e da chi è
composta attualmente?
Prima di una casa editrice DeriveApprodi
è
una
rivista.
Nasce
nel
1992,
contemporaneamente al riflusso, politico,
culturale e teorico, degli anni Ottanta.
È un periodo molto ricco, dal punto di
vista dell’innovazione del pensiero critico.
Insieme a DeriveApprodi, nascono molte
altre riviste: Luogo Comune, Altre ragioni,
La balena bianca. Sono tutti dei laboratori
che tentano di ripensare le condizioni, lo
stile e le forme di una critica del presente.
In qualche modo si tratta di riannodare
dei fili con i movimenti e le prassi degli anni
Settanta, analizzandone i limiti e i possibili
superamenti, ma tracciando anche
una linea di continuità oltre la parentesi
degli anni Ottanta. Si tratta, insomma,
di riprendere interi blocchi di pensiero
finiti nel dimenticatoio del “pensiero
debole”, ma anche di sdoganare delle
biografie o dei percorsi esistenziali ritirati
a vita privata. Tutto questo avviene in
un clima estremamente effervescente:
il movimento universitario della pantera
del 1990-1991 porta alla nascita di
decine di collettivi, luoghi di riflessione
e seminari; i centri sociali subiscono una
grande trasformazione e da luoghi di
semplice resistenza diventano spazi in cui
si sperimentano nuove forme di creatività
e di esistenza. Inoltre, si vanno a cercare
nuovi strumenti teorici e il pensiero critico
italiano si innesta sul post-strutturalismo
francese (Foucault e Deleuze ad
esempio), sul pensiero della differenza e
di genere (soprattutto americano) e su
molti altri filoni tra cui quello delle nuove
tecnologie. La rivista DeriveApprodi
nasce in questo contesto e rimane attiva
per molti anni, contribuendo a questo
dibattito e a questo lavoro di innovazione.
La casa editrice, che nasce
nel 1998, eredita questo
bagaglio di esperienze,
discorsi e problemi e
continua a riproporlo anche
nel suo lavoro editoriale.
A lavorare in casa editrice
oggi sono cinque persone e
sette sono i soci. Ma c’è una
vasta rete di collaboratori,
amici, sostenitori, consulenti
che hanno partecipato
al
progetto
in
modo
volontario. La casa editrice,
come già la rivista prima,
è nata come un progetto
collettivo,
con
un
impianto fortemente
cooperativo.
Senza
i contributi di figure
come Nanni Balestrini,
Gianni-Emilio
Simonetti, Paolo Virno,
Franco Berardi (bifo)
per citare solo alcuni
nomi conosciuti, non
saremmo sopravvissuti
e forse nemmeno mai
nati. In tanti ci danno una mano, ciascuno
dal proprio ambito di competenza, dalla
grafica a chi cura il sito internet… La
nostra principale risorsa è stata appunto
questa rete, che ci ha fornito idee,
proposte, spunti e non di rado anche aiuti
materiali. L’intelligenza della casa editrice
DeriveApprodi non è quella di un singolo
editore, ma è collettiva.
Il vostro catalogo è molto variegato. Ci
spieghi un po’ la divisione? Quali sono i
vostri autori di punta?
Siamo
principalmente
un
editore
di
saggistica.
Facciamo
libri
di
approfondimento, per lo più interdisciplinari
e non universitari, anche se spesso molti
degli autori per professione insegnano.
Più che per collane raggruppiamo i libri
per aree tematiche, il che comporta
spesso una varietà di scrittura che va
dal piccolo saggio al reportage, dal
diario al racconto letterario. Un’area
importante è senz’altro quella destinata
alla riflessione sui movimenti radicali e le
esperienze politiche degli anni Settanta.
Poi c’è il filone di storia dei movimenti
ereticali avviato con la monografia su
fra Dolcino. Ma anche testi di etnografia,
antropologia urbana e di ricerca sociale
che si presentano come veri e propri
racconti (con personaggi e un intreccio)
della realtà sociale di volta in volta
indagata. Ci piace anche pensare di
aver contribuito alla nascita di un genere
letterario, quello dei ricettari storici. La
serie della “cuoche ribelli”
(La cuoca rossa o La cuoca
di Buenaventura Durruti) ci
ha consentito di parlare di
alcuni dei fatti più tragici e
determinanti del Novecento
in un modo completamente
nuovo, partendo dall’intreccio
tra il racconto della vita
quotidiana o materiale e le
ispirazioni e la dimensione
ideale di quel secolo. Ma ci
sono molti altri temi, abbiamo
dato spazio alla gay culture
e alla analisi di genere; ci
siamo occupati di migranti
e migrazioni, di trasformazioni del lavoro
e movimenti, di società di controllo e
media-attivismo.
La vostra esperienza editoriale ha una
forte radice ideologica. Ci illustri i motivi
che sono alla base della Deriveapprodi.
Ideologia non è un buon termine.
Abbiamo semplicemente deciso da
che punto di vista parlare. Non esiste
una cultura “oggettiva”, ogni teoria,
analisi o narrazione è sempre di parte.
Siamo continuamente sommersi da
enunciati che assumono una consistenza
oggettiva. Sostenere che è in atto uno
scontro di civiltà tra Oriente e Occidente,
ad esempio, significa configurare la
percezione delle cose, dare sostanza
a una realtà. I sostenitori di questa tesi
lavorano strenuamente perché questo
enunciato non sia una semplice tesi, ma
sia percepito come l’effettiva descrizione
della realtà. Quello che facciamo è
cercare di mettere in crisi ciò che sembra
un dato di fatto. Le tesi, le analisi, i discorsi
portano con sé rapporti di dominio,
dispongono ciò che può essere detto e
non detto, modificano la percezione. Ciò
vale per ogni enunciato, per questo è
importante sapere da che luogo si parla.
Qual è lo stato dell’editoria oggi in Italia?
Non buono purtroppo. La concentrazione
sul piano distributivo e la configurazione
delle librerie in catene non favorisce le
piccole realtà editoriali. Librai ed editori
indipendenti vivono le stesse difficoltà.
Ciononostante sembra difficile trovare
un comune denominatore per proporre
un’alternativa al modello commerciale
oggi dominante. Forse anche per i libri si
dovrebbe guardare alle esperienze del
consumo critico, immaginando forme di
filiera corta, vendita diretta e gruppi di
acquisto. Crediamo poco nell’intervento
“protettivo” istituzionale o nelle iniziative
per la promozione della lettura. Per le
case editrici piccole o persino medie,
anche per quelle esistenti da anni, sembra
essere più difficile conservare uno spazio
di accesso ai banchi delle librerie. (pila)
Be Cool
il cinema secondo coolcub
Il vento che accarezza l’erba
Ken Loach
Bim distribuzione
Un Paese lacerato da un conflitto civile,
prima che da una guerra di liberazione
e l’eterna e mai semplice lotta per
la conquista della libertà. Questi gli
ingredienti de Il vento che accarezza
l’erba, poetico titolo del nuovo film di
Ken Loach. Palma d’oro all’ultimo festival
di Cannes, il regista britannico riprende
in questo lavoro i temi già affrontati
in Terra e libertà (guerra di Spagna)
e La canzone di Carla (i Sandinisti in
Nicaragua), concentrandosi stavolta sul
conflitto irlandese degli anni ‘20. Molti gli
elementi che lo rendono un film di qualità,
ma ciò che ne ha senza dubbio garantito
la vittoria è la possibilità di legarlo
istantaneamente alla situazione odierna,
di poter scorgere in quel conflitto civile
la moderna situazione irachena, come
lo stesso autore ha tenuto a sottolineare.
Il che ovviamente è un’arma a doppio
taglio, che se da un lato lo rende un film
attuale e fruibile a tutti, dall’altro lo rende
vulnerabile e politicamente esposto.
Sebbene lontano dal miracolo di Terra e
libertà, che nel ‘95 arrivò a rappresentare
il manifesto universale di ogni popolo
oppresso, va dato credito a Loach di
aver fatto quello che nessun regista
italiano è mai stato in grado di effettuare
con il periodo fascista e che il giornalista
Giampaolo Pansa tenta di compiere oggi
con i suoi libri (Il sangue dei vinti), ossia
di rendere visibile il disagio morale di un
popolo, diviso e contrapposto nei valori
prima che unito in una causa comune.
Composto interamente da motivati
attori irlandesi, perlopiù sconosciuti
(ad eccezione del protagonista Cillian
Murphy), il cast rende onore all’opera,
trasudando impegno e realismo. Derive
marxiste
escluse
e
considerazioni
politiche a parte, quello di Loach rimane
un bel lavoro, che attraverso l’epopea
di due fratelli racconta tutto quello che
un popolo, lentamente e con fatica, è
riuscito a diventare oggi. Il film, proprio
come un malumore, prende respiro
poco la volta, esprimendo una prima
parte piatta e scoprendosi travolgente
nel tumulto finale, dove il senso profondo
della pellicola viene finalmente svelato
e discusso. E mi piace pensare che là
fuori, da qualche parte, ci sia davvero un
vento che inizia a soffiare ogni qual volta
dei diritti vengono calpestati e l’uomo
diventa il peggior nemico di se stesso.
Una brezza fresca, che sposta l’erba e
che porta con se odore di libertà.
C. Michele Pierri
Be Cool
34
Maurizio Sciarra torna in
sala con Quale amore, una
produzione
Rai
Cinema
presentata in anteprima
all’ultimo Festival di Locarno.
Prendendo spunto da Sonata
a Kreutzer, notissimo romanzo
di Tolstoj, Sciarra traspone
la
Russia
ottocentesca
del romanziere russo nel
contemporaneo
mondo
delle banche svizzere, dando
al film un salto temporale
che non può non intrigare,
anche per la presenza di un
cast di giovani emergenti ma di provata
esperienza, come Giorgio Pasotti e
Vanessa Incontrada. Il regista barese
è al suo terzo lavoro, dopo l’esordio
intitolato La stanza dello scirocco (1998)
e il pluripremiato Alla rivoluzione sulla due
cavalli (2001).
Veniamo subito al film. Quale amore
è tratto da Sonata a Kreutzer, celebre
romanzo breve di Lev Tolstoj. Me ne
racconta la genesi?
Mi affascinava la capacità di questa
opera di esprimere il percorso che porta
dalla passione alla normale routine
con tutto il carico di tensione che ciò
comporta. Mi intrigava anche il fatto di
partire da una storia eccellente e famosa
per arrivare a un tema quotidiano che
tutti, prima o poi, abbiamo vissuto.
Una delle critiche che le sono state mosse
è quella di aver scelto un linguaggio
arcaico a dispetto di uno scenario
contemporaneo e di un intreccio in parte
rivisitato. Come motiva questa scelta?
Non condivido le critiche e in particolare
questo appunto. Secondo me il linguaggio
usato è esattamente quello confacente
alla storia raccontata, che non ha temi
banali. Purtroppo siamo in un periodo in
cui impera un linguaggio povero che è
quello televisivo. Ecco, se il cinema serve
a qualcosa è a recuperare momenti
importanti e questo mi sembrava il modo
migliore di farlo.
Tutti e tre i suoi lavori sono tratti dalla
letteratura. È un modo
semplice per trovare un
soggetto o è scelta precisa?
E se si, dettata da cosa?
La derivazione letteraria è
una pratica tra le più diffuse
all’estero. In Italia c’è stato un
periodo in cui si aveva paura
di osare e di confrontarsi con
argomenti importanti. A mio
modo di vedere in un film
la storia è fondamentale e
prendere un intreccio già
collaudato è non solo una
garanzia di successo, ma
anche di qualità.
Nei suoi film è presente una vena
critica e come anche il suo passato da
documentarista dimostra, lei ha una
inclinazione all’analisi e alla fotografia
della realtà. Crede che parte del cinema
abbia il dovere di denunciare e di
assumere una identità politica?
No, quella di documentarista è stata solo
una mia parentesi professionale. Il cinema
deve rappresentare storie e sentimenti.
Non deve servire a denunciare, bensì a
raccontare.
Lei sembra avere un feeling particolare
con i giovani attori, per ultimo mi viene in
mente Pasotti che sembra ormai lanciato.
Cosa ne pensa delle nuove leve? C’è
spazio per un nuovo attore di riconosciuta
statura internazionale?
Non credo si possano fare paragoni. I
nostri attori sono frutto del cinema che
facciamo oggi. Ce ne sono tanti e di
ottimi, ma per aiutarli a crescere servono
buoni film. Ma a prescindere dal loro
percorso quelli che hanno lavorato con
me continueranno ad avere un rapporto
particolare, frutto di un cammino svolto
assieme.
Un’ultima domanda per chiudere. Lei
è di Bari, ma a differenza di altri registi
pugliesi come Rubini e Winspeare, ha
finora resistito alla voglia di raccontare la
terra da cui proviene. Perchè?
Non credo al cinema locale. Semmai
credo a scenari importanti per narrare
storie in cui tutti possano riconoscersi. Se
mi capiterà un film dove la Puglia non sia
uno sfondo, ma un mezzo per raccontare
allora bene. Detto questo non credo
che cinema debba avere dimensione
nazionale, figuriamoci regionale.
C. Michele Pierri
Be Cool
35
Marie Antoinette
Sofia Coppola
Sony Pictures
Si è già parlato tanto e si è scritto
ancora di più dell’ultimo celebre
film di Sofia Coppola. Della sua
presentazione a Cannes e del giudizio
sicuramente non uniforme dei critici.
Della colonna sonora estremamente
e squisitamente rock per un film
ambientato nel settecento. Dei
sontuosi costumi realizzati da Milena
Canonero e delle immense distese
verdi. Dei fronzoli, delle torte a più
piani, delle All Star accanto ai tacchi
a spillo. Soprattutto tanto si è scritto
e detto sulla maniera in cui la regista
ha scelto di rappresentare l’assoluta
protagonista di questa storia: Maria Antonietta. Nel passato ci hanno già pensato
storici e critici storiografici a tracciare il ritratto della giovanissima regina di Francia
di origine austriaca: bella, frivola, insensibile, a commentare il lusso di cui s’era
circondata a corte, a giudicare duramente i vizi, le infedeltà, i capricci che la
caratterizzavano, i primi otto lunghi anni senza mettere alla luce l’atteso erede
al trono, l’accusa di aver condotto il popolo francese alla rovina, alla rivoluzione.
Le intenzioni di Sofia Coppola non sono state decisamente queste. Per lei, Maria
Antonietta (interpretata nella pellicola dalla ventitreenne Kirsten Dunst) è stato uno
shock, un personaggio - ha affermato - affascinante e magnetico, una piccola
donna e mille verità nascoste a cui avvicinare il pubblico. Non un documentario
storico, dunque, né la biografia completa di Maria Antonietta. Uno scorcio di vita
ambientato alla corte di Versailles, col sottofondo di Air, Cure, Phoenix mescolati
alle note di Vivaldi, la velata solitudine di una regina bambina che non lascia
nessuno indifferente.
Valentina Cataldo
The Departed - Il bene e il L’amico di famiglia
Paolo Sorrentino
male
Martin Scorsese
Medusa
Due vite parallele e
speculari
manovrate
dal
luciferino
Frank
Costello, magistralmente
interpretato
da
Jack
Nicholson, si aggirano
in una Boston cupa e
corrotta, emblema di
un conflitto universale e
senza tempo: quello tra
bene e male. Conflitto che
Scorsese intreccia, fonde e confonde
lasciando in bilico l’identità di Colin (Matt
Damon) e Billy (Leonardo Di Caprio).
L’uno allevato dal potente boss Costello
che fa di lui un poliziotto ai massimi
vertici; l’altro costretto ad accettare una
missione rischiosa perché membro di
una famiglia non proprio per bene. Due
poliziotti dunque, uno che dall’interno
protegge Frank, l’altro che si infiltra nella
vita del criminale fingendosene complice
e amico. Due talpe che si cercano, si
inseguono e si sfuggono in un susseguirsi
di riprese che vorticosamente stringono
l’obiettivo sui due antagonisti, fino a
catapultare lo spettatore nelle loro menti
tormentate: chi sono, da che parte sto?
L’ambiguità è esaltata dalla somiglianza
fisica delle due talpe, legate ad un
uomo che tiene in mano le loro vite, e
accomunate da un finale dubbioso:
giustizia è davvero fatta?
Maria Grazia Piemontese
Medusa
L’amico di famiglia esce finalmente
nelle sale italiane (poche nonostante la
distribuzione Medusa), dopo essere stato
presentato già nel mese di maggio al
Festival di Cannes (ricevendo critiche
alterne) e in molte altre rassegne
internazionali. Paolo Sorrentino, classe
1970, torna dopo L’uomo in più (2001) e
il bellissimo Le conseguenze dell’amore
(2003). L’Italia degli “orrori”, mediocre e
arruffona, rappresenta il teatro in cui si
muove Geremia, (interpretato da uno
straordinario Giacomo Rizzo), un uomo
sgradevole e ripugnante alla vista. È
un usuraio fortemente ossessionato
dai soldi, dalle donne e dalla madre, e
che si accompagna a Gino (Fabrizio
Bentivoglio), un singolare cowboy
dell’agro pontino. Le cose sembrano
prendere una svolta, quando incontra
il suo ultimo “cliente”, Saverio. Quest’
ultimo, pur di regalare un matrimonio
sfarzoso alla figlia Rosalba (Laura Chiatti),
decide di mettersi nelle mani dell’usuraio.
Geremia, che sembra non aver mai
conosciuto l’amore, perde la testa per
la giovane donna e per conquistarla,
decide di investire tutti i suoi soldi in un
grosso affare. Paolo Sorrentino sceglie,
anche in questa nuova storia, di mettere
a fuoco e di far interagire personaggi
insoliti, sempre in netto contrasto tra di
loro, il vecchio e sudicio usuraio, “Miss
agro pontino”, il cowboy nostrano;
ambienta il racconto filmico a Latina
e Sabaudia, tra le sterili architetture
fasciste, distaccandosi esteticamente
dalla odierna cinematografia italiana (e
non solo). Anche qui il regista si affida
all’ottima, impeccabile fotografia di
Luca Bigazzi, che oppone agli interni
scuri e opprimenti (soprattutto la casa
di Geremia), esterni spesso accecanti,
ampi spazi che richiamano le piazze di
De Chirico. Sorrentino, oltre a rivelarsi
un abile tecnico della macchina da
presa, costruisce alla perfezione i suoi
personaggi, tutti interpretati in maniera
eccellente dall’intero cast, tra cui spicca
Giacomo Rizzo. Lo spettatore rimane
dunque incollato alla poltrona per
quasi due ore, quasi fosse un thriller. Ma
in fondo questa pellicola rappresenta
molto di più, perché il regista si destreggia
agilmente tra la commedia (anche della
risata spicciola), il genere drammatico, il
noir lynchciano.
Sabrina “Zero project” Manna
Le rose del deserto
Mario Monicelli
Tratto
da
un’opera
di
Mario Tobino,
Le rose del
deserto segna
a 91 anni il
ritorno in sala di
Mario Monicelli,
autentico pezzo
di storia del
cinema italiano. Commedia agrodolce,
il film racconta del Terzo Reparto della
Trentunesima Sezione Sanità che si
accampa a Sorman, sperduta oasi del
deserto libico. Soldati e ufficiali sono sicuri
che vi rimarranno per poco tempo. Ma c’è
bisogno di loro e quella che doveva essere
una breve spedizione militare acquista
la dimensione di una lunga missione
umanitaria. Nel cast Michele Placido e
Alessandro Haber.
The prestige
Christopher Nolan
Il regista britannico rivelatosi al mondo
con Memento (2000) torna in sala con
un film fantastico basato sull’omonimo
romanzo di Chritopher Priest e che ha
per protagonisti Christian Bale e Hugh
Jackman. Il film racconta di due maghi
che combattono l’uno contro l’altro per
migliorarsi e carpire quanti più segreti
possibile all‘avversario. Ma la rivalità
è talmente grande che li porterà ad
uccidere. Da segnalare la presenza di
Scarlett Johansson e la partecipazione di
David Bowie.
36
Io mi ricordo che da piccolo, tipo alle
feste delle medie o a quelle comandate,
quando non sapevi cosa comprare te
ne uscivi con il fatidico e fantasmagorico
buono per i dischi. In realtà era un po’
un rifugiarsi in calcio d’angolo quando
conoscevi poco una persona e non sapevi
cosa regalarle. Era come la cravatta per
tuo padre o il profumo per tua madre.
Comunque e dovunque, andava sempre
bene.
Natale è alle porte e te ne accorgi anche
da quello che passa la radio e da quello
che vedi pubblicizzato nelle riviste o nelle
meravigliose vetrine dei negozi. Natale
per la musica è sinonimo di doppio, triplo,
antologia, live e (nei casi migliori) nuovi
album. In libreria non manca mai l’ultima
fatica di Bruno Vespa (che io personalmente
vorrei comprare ma non trovo il coraggio e
forse lo prenderò un giorno in un autogrill
dove nessuno mi conosce), nel negozio
di cd non mancano mai i titoli dei big.
Così la grande Mina ha deciso di tornare
proprio a scadenza natalizia con il suo Bau
(realizzato in collaborazione con Andrea
Mingardi), Nek è entrato dopo lungo
silenzio Nella stanza 26, Laura Pausini ha
deciso di cantare l’Italia nel mondo (lei si
che se lo può permettere) con le cover di
Io canto (dal poppissimo pezzo di Riccardo
Cocciante), Fiorella Mannoia ha optato
per il Brasile in Italia con Ritmo tropicale,
Gigi D’Alessio esporta il Made in Italy,
mentre Zucchero sta sbancando con Fly.
Tutti dischi che non ci permetteremmo mai
di recensire su Coolclub.it (che possano
cadermi le mani) ma che alla vigilia del
difficile Natale siamo costretti e “contenti”
di consigliare (o sconsigliare) a tutti quelli
che proprio non sanno cosa regalare
(anche io cari miei un giorno sono entrato
in un negozio e ho chiesto il best di Michele
Zarrillo, parlando a bassa voce e facendo
finta di non conoscere quel capolavoro
dell’Elefante e la farfalla).
Babbo Natale porta con sé però anche
prodotti notevoli. Questo 2006 sembra
l’anno dei tripli così Adriano Celentano
(irresistibili gli esordi del supermolleggiato),
Francesco De Gregori (che propone
anche la sua versione di Diamante,
pezzo straordinario donato a Zucchero),
il compianto Fabrizio De Andrè (con la
seconda parte di In direzione ostinata e
contraria), il mitico Tom Waits “offrono” un
cofanetto al prezzo speciale con tre cd.
Vinicio Capossela regala a tutti i suoi fan un
interessante doppio cd/dvd, testimonianza
del lungo viaggio live di Ovunque Proteggi,
mentre Luciano
Ligabue
(che
è
sempre
esagerato)
di
dvd ne fa cinque
per un cofanetto
da
intenditori
(anche un po’
maniaci).
Un
regalo
enorme ai fan
è anche questo
Love dei Beatles con versioni inedite e
rimasterizzate (assolutamente da avere).
Non perdono l’occasione di un agevole
successo commerciale anche Le Vibrazioni,
l’improbabile duo Masini/Tozzi (che insieme
potrebbe firmare Ti amo bella stronza o
Gloria Vaffanculo), Tiziano Ferro, Elisa (con
un best), Niccolò Fabi (con un best), I Pooh
(con un live), Vasco (con un best), Venditti
(con un live), Renato Zero (un best o un
live, mannaggia non mi ricordo).
La scelta è vasta. Ce n’è per tutti i gusti
e tutte le tasche (non fatevi sfuggire
le numerose offerte sotto i dieci euro).
Insomma a Natale mettete la musica sotto
l’albero (non solo ipod nani) che fa bene.
Se mi è sfuggito qualcosa mi scuso, andate
in negozio e cercate. (scipione)
CoolClub.it C
38
CoolClub.it
39
Come per la nascita delle radio libere
negli anni settanta, all’inizio di questo
secolo è arrivato il Podcasting, l’evoluzione
delle radio in streaming, nuova libertà di
espressione radiofonica, economicissima,
senza alcun problema di frequenze,
alla portata di chiunque: un pc, una
connessione, un microfono.
Il Podcasting è un sistema che permette
di scaricare file di qualsiasi tipo, siano essi
audio, video o altro, chiamati “podcast”,
resi disponibili da un sito, utilizzando un
semplice programma (client) chiamato
aggregatore o feeder. La novità che porta
questo nuovo sistema è la fruibilità della
risorsa audio/video in qualsiasi momento.
A differenza dello streaming infatti non è
necessario che l’ascoltatore sia on line
per ascoltare, il podcaster cattura lo
streaming, lo scarica sul pc o su qualsiasi
altro supporto e lo ascolta quando vuole
(e qui non ci dilunghiamo troppo sul
meccanismo di funzionamento).
Un pioniere italiano del podcasting, Marco
Traferri, nel suo libro Podcasting che funziona afferma: “Con il
podcasting non solo l’audio è reso tascabile, trasportabile e
ascoltabile in ogni momento e in base alle esigenze di ciascuno,
ma chiunque può essere in grado di realizzare e diffondere
informazione sonora e musica su scala planetaria. Insomma, il
podcasting segna la rinascita della nuova radio libera”. Ora, il
paragone potrebbe sembrare azzardato; come a volte accade
sulla rete, potrebbe trattarsi di un “fuoco di paglia”, tecnologie
e strumenti in apparenza all’avanguardia, sono spesso e presto
diventati obsoleti in pochi mesi nella giungla internettiana. Ma nel
caso dei podcast i segnali esterni al mondo
della rete sono numerosi e incoraggianti
per i podcaster; infatti sempre più radio via
etere, testate giornalistiche, artisti celebri
aprono i loro podcast entrando a far parte
del gioco, cavalcando l’onda di questi
ultimi due anni. Nel gioco è entrata molto
presto anche Apple, inserendo circa 3
mila podcast su iTunes: in soli due giorni ne
sono stati scaricati un milione. Va quindi
ad Apple il merito di aver introdotto milioni
di ascoltatori al mondo del podcasting.
Tuttavia non è tutto oro quello che luccica:
bisogna spesso fare i conti con il copyright,
perché in effetti si tratta di download di
opere, spesso coperte da diritti d’autore.
Già ai tempi delle radio in streaming
(parliamo del 2001), il RIAA (organizzazione
che rappresenta i discografici americani),
appoggiata da più fronti, impose alle
web-radio il pagamento di royalities per
la musica trasmessa. Fu un duro colpo
per le radio in streaming, tuttavia, nel
2003 a Londra, fu raggiunto un accordo
che prevedeva una licenza unica per le radio in streaming. Ma
per una volta il podcaster sembra avere un asso nella manica;
infatti Apple, visto il suo grande impegno e impiego di risorse
nel campo del podcasting probabilmente non permetterà che
tutto questo si trasformi in un fallimento. E dietro queste lotte tra
i giganti, potrebbe continuare a sopravvivere il ragazzo della
porta accanto che dispensa con il suo podcast, la propria voce,
veicolo di originalità e creatività come lo sono state 30 anni fa le
radio libere.
Federico Baglivi
Pandora.com è una radio on-line che
fa sentire musica calibrata sui gusti
dell’ascoltatore. Si inserisce il nome di un
artista o di una canzone. Pandora suona
una serie di pezzi simili a quello che
abbiamo chiesto per armonia, melodia,
ritmo, e altre caratteristiche. L’ascoltatore
può segnalare a Pandora se il pezzo è
di suo gradimento oppure no. Se lo fa,
Pandora registra questa preferenza, e
ne terrà conto per la scelta dei prossimi
pezzi. A Pandora chiedo “Beatles” e
ascolto nell’ordine: Mr. Moonlight, dei
Beatles, appunto; Odorono, degli Who,
canzone che conoscevo; Tonight at
noon, dei Jam, canzone e gruppo da
me totalmente ignorati; poi, The Wreck
of Antoniette, altro pezzo, bello, che
non conoscevo. E via dicendo. Una
programmazione perfetta, per chi
voleva ascoltare qualcosa di simile ai
Beatles. Rispetto alla radio tradizionale se
una canzone non piace si può passare
al pezzo successivo. Si può anche creare
più di una stazione, quindi ogni utente ha
le sue stazioni personalizzate.
Dal punto di vista della conoscenza,
le webradio come Pandora offrono
possibilità
sbalorditive,
perchè
catturano
l’attenzione
dell’ascoltatore con canzoni che possono plausibilmente
piacergli, ma di artisti che ignora e che magari andrà a cercare.
Le potenzialità di queste webradio si capiscono soprattutto se si
pensa che molti degli utenti-flat non disdegnano, anzi amano,
scaricare musica da internet. Così queste webradio fanno il lavoro
delle vecchie radio, diciamo di promozione – con il vantaggio
che un semplice input dell’utente le mette in condizione di
trasmettere la musica “giusta”. Per
l’ascoltatore, certo, è un piacere
discreto ascoltare una serie di nuove (per
lui) canzoni più o meno gradevoli, ma è
un piacere immenso ottenere in breve
tempo e gratis la discografia completa
di un artista che lo ha impressionato per
tre minuti e mezzo. E c’è un solo modo
per farlo, anche se illegale. Per restare
a monte della questione, diciamo che
le webradio come Pandora risolvono
in maniera brillante il problema della
fame di nuova musica. Della voracità
(figlia di Napster?), verrebbe da dire.
Pandora, ancora una volta a braccetto
con e-mule e gli altri, è segno, - per
ora, ma presto forse anche causa – di
un cambiamento culturale. Quante
volte si riascolta per intero mediamente
un album che si ha sull’hard-disk,
nell’era dell’Mp3, prima che piaccia?
Probabilmente lo si ascolta meno di
una volta, mentre la traccia numero
nove, che colpisce subito, finisce per
essere ripetuta due o tre volte al giorno
nella playlist dell’Ipod. Le eccezioni
non mancano, ma il cambiamento
riguarda molti di noi e il modo in cui
la musica comincia a piacerci. Il riascolto attento di un disco,
diventa obsoleto. In rete c’è tutta la musica del mondo e non
c’è tempo per la degustazione. Pandora, in qualche modo
interpreta questo cambiamento. E non è un bene né un male,
stiamo semplicemente andando in questa direzione: tutti, tranne
i discografici – ovviamente su Pandora non c’è traccia di musica
italiana.
Daniele Rollo
PODCAST
PANDORA
CoolClub.it C
40
CoolClub.it
Nel panorama della musica d’autore
italiana è senz’altro uno degli artisti
più apprezzati e stimati. Gianmaria
Testa, classe 1958, è un ferroviere nato
in provincia di Cuneo. Dopo le prime
esperienze in numerose formazioni rock
nel 1993 partecipa al Premio Recanati. Qui
viene notato da una produttrice francese
che gli propone di incidere un disco con
la sua etichetta. Così la carriera di Testa
parte oltralpe con Montgolfières.
Come mai il suo viaggio discografico
parte dalla Francia? Era troppo bravo per
l’Italia?
È stata una vera e propria casualità.
Questa produttrice francese mi propose di
realizzare un primo disco senza che dovessi
scendere a compromessi. In Italia era
complicato lavorare in quel modo, in molti
mi suggerivano cose da modificare. Io
invece avevo voglia di crescere facendo
i miei errori senza dover subire troppe
modifiche. Da qui la decisione di cogliere
questa opportunità in Francia.
Da alcuni anni pubblica in Italia, gli ultimi
dischi sono andati molto bene, è diventato
un “caso” musicale. Com’è cambiato in
questi dieci anni il mercato discografico?
Dopo i primi lavori ho iniziato a pubblicare
direttamente in Italia con una buona
distribuzione. Credo che in questi ultimi anni
ci sia stata una vera e propria rivoluzione
giacché i dischi si possono facilmente
copiare da internet. Ed è inutile pensarci
troppo, non c’è nulla da fare, è un dato di
fatto. Semmai questa situazione dovrebbe
portare ad una spinta verso l’uscita di
prodotti meno “usa e getta”, quando si ha
qualcosa da dire e non solo per vendere.
Nella sua carriera è molto importante il
rapporto con la letteratura. Basti pensare
alla sua esperienza con Jean Claude Izzo
e ai suoi spettacoli teatrali con Erri De Luca.
Ci racconta un po’ questo rapporto con la
parola?
Io sono un buon lettore e avrei voluto
avere la capacità di scrivere. A differenza
del musicista non c’è bisogno di una
presenza fisica ma tutto può essere fatto
da casa, senza il bisogno di apparire. Per
quanto riguarda Jean Claude e Erri sono
due scrittori che corrispondono a quello
che scrivono. Secondo me è importante
che non ci sia nessun bluff tra autore e
persona giacché di bluff è pieno il mondo.
La loro scrittura è quello che loro sono.
41
Jean Claude aveva citato alcuni miei
brani nei suoi primi libri, poi ci siamo
conosciuti e purtroppo, vista la sua
prematura scomparsa, abbiamo
avuto poco tempo per approfondire
la nostra amicizia.
Erri è uno scrittore che conoscevo
come lettore e che mi impressionava
sempre. Ha un tipo di scrittura che
mi colpisce e non ho mai trovato
qualcosa che mi pottessi permettere
di sottovalutare. La sua è una scrittura
scarna, intensa, da uomo di montagna
nonostante sia di Napoli. Dopo è nata
un’amicizia che continua tuttora. Poi
abbiamo intrapreso l’esperienza di uno
spettacolo teatrale con Don Chisciotte.
Il suo nuovo cd Da questa parte del mare è
un concept album. Da dove nasce questa
idea?
L’idea del concept è fuori tempo massimo.
Ormai la maggior parte dei dischi si
vendono per le suonerie. Ho deciso di
scriverlo perché non pensavo di poter
liquidare il tema dell’immigrazione in una
sola canzone. Nella completezza del cd
ho provato a raccontare il dramma della
differenza tra primo e quinto mondo. L’idea
nasce proprio in Puglia quando assistetti
allo sbarco di due africani. Uno morì sulla
spaggia. Si tratta di un argomento molto
complesso che suscita forti emozioni
ma un conto è sapere e parlare, un
conto è vedere. La tragedia io non la
so raccontare non potrei raccontare in
vece di quelli che vivono in prima persona
questa esperienza. Ho scritto questo cd per
mettere in discussione la nostra indifferenza.
Per questo si chiama Da questa parte del
mare.
Nel cd ci sono anche due pezzi che
raccontano quando gli emigranti eravamo
noi. Com’è cambiata la condizione degli
immigrati?
Il cd è una sorta di arco di tensione che
parte dal racconto dell’immigrazione e
arriva a noi. Noi italiani, putroppo, ci siamo
dimenticati che eravamo noi a partire.
Rital è un pezzo dedicato a Jean Claude,
figlio di salernitani immigrati in Francia. Rital
è l’equivalente di terrone e così i francesi
chiamavano gli italiani che arrivavano lì
per lavorare. Lui mi raccontava che i suoi gli
avevano praticamente proibito di imparare
l’italiano, in modo che l’integrazione fosse
più rapida. Miniera invece è un vecchio
pezzo degli anni ‘20.
Passando dalla musica alla politica. Come
giudichi l’attuale legge sull’immigrazione?
Nel dettaglio credo che nessuna legge,
nessun muro possano in qualche modo
fermare o modificare la tendenza al
disequilibrio di equilibrarsi. Nessun muro
può fermare la voglia di andare dall’altra
parte. Noi da questa parte non riusciremo
mai a fermare quelli che provengono
dall’altra parte. Chi si muove a piedi o in
nave e fa viaggi lunghissimi è spinto dalla
disperazione.
Cosa ascolta in questo momento?
Il Requiem di Mozart è uno dei miei ascolti
preferiti. Ultimamente ho ascoltato gli
ultimi cd di Bill Frisell e di Bob Dylan. Nel
panorama italiano Vinicio Capossela mi
stupisce sempre. Anche se il suo l’ultimo cd
Ovunque proteggi non mi ha colpito molto,
credo che meglio di nessun altro sappia
utilizzare e sviluppare nuove sonorità.
Giovedì 21 dicembre Gianmaria Testa
sarà a Lecce (presso il Db D’essai)
accompagnato da Piero Ponzo (clarinetto,
sax e fiati), Claudio Dadone (chitarra
acustica), Nicola Negrini (contrabbasso).
L’appuntamento è organizzato dalla
Saletta della Cultura di Novoli e da Coolclub
all’interno della rassegna Tele e Ragnatele
e del Capodanno dei Popoli della Provincia
di Lecce. Inizio ore 21.30. Ingresso 20 euro
(platea) e 15 euro (galleria). Prevendite
presso Pick Up a Lecce. Per Informazioni e
prenotazioni [email protected] - 0832303707
Venerdì 22 dicembre sarà a Bari in quintetto
con Erri De Luca all’interno del festival,
organizzato da Princigalli Produzioni, Le
voci dell’anima.
Pierpaolo Lala
CoolClub.it C
42
CoolClub.it
Musica
sabato 9 / Petra Magoni e Ferruccio Spinetti
per le Voci dell’Anima alla Chiesa della
Natività di Bari
Si terrà a Bari dal
9 al 23 dicembre
la terza edizione
del
festival
musicale
“Le
Voci dell’Anima
O c c i d e n t e
Oriente”:
dieci
concerti
in
altrettante chiese
della città in un
viaggio musicale
che
attraversa
alcune delle molteplici visioni espresse
dalle tre grandi religioni monoteistiche del
Mediterraneo in un itinerario migrante fra
suoni e parole, culture e religioni. Primo
appuntamento con il duo Petra Magoni
e Ferruccio Spinetti che proporranno
Quam dilecta, un progetto speciale in
collaborazione con il festival della Provincia
di Milano Musica dei cieli, in prima nazionale
a Bari. Inizio ore 20.30. Ingresso libero fino
ad esaurimento posti disponibili. Info 080
558.35.41; wwwprincigalliproduzioni.it
sabato 9 / David Rodigan dj set allo
ZenzeroClub di Bari
sabato 9 / Darrel Tribute all’Istanbul Café di
Squinzano (Le)
sabato 9 / Vittorio Merlo alla Saletta della
Cultura di Novoli (Le)
È uno degli autori più ascoltati e scaricati
dalla rete. Poco considerato dalla stampa e
dalla televisione nazionale Merlo è diventato
famoso grazie a internet e al passaparola.
Tra le sue canzoni più gettonate Ferrari,
Non sopporto i berlusconi, La filastrocca del
cavaliere, Martina guarda il mare, La mucca
pazza. Nel 2005 è uscito il suo primo cd Ho
sognato Bruno Vespa che contiene sei
brani. Con Merlo sul palco Roberto Manuzzi
maestro di sax e polistrumentista nella band
di Francesco Guccini. L’appuntamento
rientra nella rassegna Tele e Ragnatele
della Saletta della Cultura di Novoli. Inizio
ore 21.30. Ingresso 5 euro. Info 347 0414709
– [email protected].
sabato 9 / Superpartner al Sinatra Hall di
Ugento (Le)
domenica 10 / Trio Joubran per le Voci
dell’Anima alla Chiesa del Salvatore di Bari
La musica di questo trio palestinese di
suonatori di oud, il liuto arabo famoso in tutto
il mondo orientale, non è solo l’espressione
del loro sentire, ma è anche, dalla prima
all’ultima nota, un’alchimia di spirito e
suono, un insieme di sensualità e dolcezza.
Inizio ore 20.30.
lunedì 11 / Misa Flamenca per le Voci
dell’Anima alla Chiesa di San Marcello di
Bari
La
Misa
Flamenca,
composta
dal
celebre chitarrista Paco Peña, originario
di Cordoba, fu eseguita in anteprima
dalla sua compagnia insieme al Coro
dell’Academy St. Martin nel 1991 al Royal
Festival Hall di Londra e quindi filmata e
riportata su disco dall’etichetta inglese
Nimbus. L’appuntamento rientra nel festival
“Le Voci dell’Anima Occidente Oriente”.
Inizio ore 20.30.
mercoledì 13 / Sudario: Desiati, Mansueto,
43
Marmo e i Nuovi poeti salentini per le Voci
dell’Anima all’Auditorium Vallisa di Bari
Quattro diversi momenti poetici, incroci
dell’anima
ritmata,
accomunati
da
un arcaico ma insieme estremamente
contemporaneo riallacciarsi alle origini
comuni della oralità poetica e della musica.
Inizio ore 20.30.
da giovedì 14 a sabato 16 / Controfestival al
Teatro Kismet di Bari e in diretta radiofonica
su Controradio
Controradio di Bari propone anche
quest’anno
il
ControFestival,
un
appuntamento imperdibile per gli amanti
della musica. 96 band emergenti da tutta
la Puglia in 48 ore di musica live no stop.
96 pittori emergenti da tutta la Puglia in 48
ore di live paintings su una grande tela. E
inoltre ospiti e sorprese. Tutto in diretta su
ControRadio. Info www.controweb.it
giovedì 14 / Coro e Ensemble Universitario
in collaborazione con Sudivoce Vocal
Ensemble nell’Aula Magna dell’Ateneo di
Lecce.
Il repertorio varia tra i generi pop, rock e
soul. Inizio ore 12.00. Ingresso gratuito
venerdì 15 / Stillness Blade + Special Guests
all’Istanbul Café di Squinzano (Le)
venerdì 15 / Ellen Alien dj set allo ZenzeroClub
di Bari
venerdì 15 / Cicky Forchetti al Prosit di
Lecce
venerdì 15 / Tanya Michelle Quartet allo
Shui Bar di Lecce
sabato 16 / Paolo Benvegnù, Cesare Basile
e Songs for Ulan a Galatina (Le)
sabato 16/ Vibronics from UK (in
collaborazione con DUBRISING) all’Istanbul
Café di Squinzano (Le)
Basato a Leicester (Uk),Vibronics,negli ultimi
cinque anni ha conquistato potentemente
la scena come pochi altri e la sua musica
è suonata da tutti i migliori sound system.
Vibronics possiede uno stile assolutamente
originale e personale e viene considerato il
futuro del dub.
sabato 16 / Hanif Umair ai Sotterranei di
Copertino (Le)
sabato 16 / Transgender alla Saletta della
Cultura di Novoli (Le)
La rassegna Tele e Ragnatele della Saletta
della Cultura di Novoli prosegue il suo
viaggio alla scoperta della nuova musica
d’autore. Sul palco i Transgender che
presenteranno il loro nuovo lavoro “Mey
ark vu”. I Transgender nascono a Imola nel
1997. Inizio ore 21.30. Ingresso 5 euro. Info
347 0414709 – [email protected].
sabato 16 / My miles ai Cantieri Koreja di
Lecce
Il musicista salentino Cesare Dell’Anna,
presenta in anteprima assoluta presso
i Cantieri Teatrali Koreja il suo nuovo
progetto. My miles è un tributo al grande
Davis a 80 anni dalla nascita del genio che
con la sua testimonianza musicale fatta di
svolte stilistiche ed innovazioni tecniche ha
cambiato per sempre l’idea stessa di Jazz.
Biglietto intero € 10,00 - ridotto (sotto i 25 e
sopra i 60) € 7,00. info 0832.242000
domenica 17 / Miss Fraulein ai Sotterranei di
Copertino (Le)
domenica 17 / Sheikh Ahmad Al-Tuni per
le Voci dell’Anima nella Chiesa di San
Francesco D’Assisi di Bari
lunedì 18 dicembre / Yair Dalal per la Voci
dell’Anima nella Chiesa del SS Redentore di
Bari
Inshalla in arabo significa “con l’aiuto di
Dio”, shalom in ebraico significa “pace”. Il
concerto di Yair Dalal riflette questo desiderio
di pace in Medioriente, la sua è una musica
che va oltre i conflitti e porta unione, pace
e speranza nei cuori con un repertorio di
canti dai diversi paesi del Medioriente e
nelle diverse lingue, tra cui araba, israeliana,
aramaica. Inizio ore 20.30.
martedì 19 / Jam Session all’Araknos di
Aradeo (Le)
Roberta&Carlo presentano Jam Session,
un live itinerante dedicato ai musicisti
appassionati di tutti i generi. Dodici
appuntamenti per dodici locali tra le
province di Lecce e Brindisi. Info 3282703046,
3293538359. Inizio ore 21.00. Ingresso
gratuito.
martedì 19 / Vinicio Capossela per le Voci
dell’Anima alla Chiesa di San Paolo di Bari
Momento
magico,
professionalmente
parlando, per Vinicio Capossela. Fresco
vincitore al Premio Tenco, la più importante
manifestazione italiana di musica d’autore,
grazie a Ovunque proteggi, album splendido
ma complesso, che ha raggiunto la vetta
della Hit parade. Inizio ore 20.30.
mercoledì 20 / Yasmin Levy per le Voci
dell’Anima alla Chiesa Mater Ecclesiae di
Bari
La celestiale voce di Yasmin Levy si immerge
nella ricerca di un repertorio legato al mondo
della lingua ladina, una forma arcaica
dello spagnolo parlato nel secolo XV che,
incrociandosi con la lingua turca e con
la terminologia religiosa ebraica, diventò
lingua indipendente in tutto il bacino del
Mediterraneo, coltivata dagli ebrei sefarditi
dopo la cacciata dalla Spagna del 1492. L
Inizio ore 20.30.
giovedì 21 / Sudivoce vocal e instrumental
ensemble al Teatro Antoniano di Lecce
Formazione canora diretta da Irene Scardia
per gli arrangiamenti di Marco della
Gatta. L’Ensemble propone un repertorio
di assoluta originalità per una formazione
corale. ingresso 5 euro. Inizio ore 21.00
giovedì 21 / Boo boo vibration + Jolaurlo +
Steela allo ZenzeroClub di Bari
giovedì 21 / Gianmaria Testa Quartetto al
Db D’Essai di Lecce (vedi intervista pag. 41)
venerdì
22
/
Musica
tradizionale
CoolClub.it C
44
mediterranea e balcanica con Claudio
Prima, Redhi Hasa, Alessandro Semprevivo
e Emanule Coluccia allo Shui Bar di Lecce
venerdì 22 / Gianmaria Testa Quintetto
con Erri De Luca per le Voci dell’Anima alla
Chiesa di San Sabino di Bari
venerdì 22 / X-mas party ai Cantieri Koreja
di Lecce
La sessione autunnale della rassegna
Strade Maestre si chiude con il consueto
party natalizio realizzato in collaborazione
con Coolclub. Biglietto intero 5 euro. Info
0832.242000.
venerdì 22 / Serena Spedicato e Marco
Della Gatta al Prosit di Lecce
venerdì 22 / Giuseppe di Gennaro al Mirror
Wine di Martano (Le)
venerdì 22 / Andrea Baccassino all’Araknos
di Aradeo (Le)
venerdì 22 / Shank all’Istanbul Café di
Squinzano (Le)
sabato 23 / Electro Night all’Istanbul Café di
Squinzano (Le)
sabato 23 / Goldie dj set allo ZenzeroClub
di Bari
sabato 23 / Emilio Solfrizzi, Giuseppe Battiston
e Sufiana per le Voci dell’Anima alla Chiesa
di Sant’Antonio di Bari
Ultimo appuntamento per la terza edizione
del festival musicale “Le Voci dell’Anima
Occidente
Oriente”.
Sei
dicembre,
festa di San Nicola, il celeberrimo Santo
che rappresenta il lato più orientale
dell’occidente
cristiano.
Diciassette
dicembre, festa di Jallalludin Rumi, grande
Maestro vissuto in Turchia (nato il 17
dicembre 1307), fondatore della via dei
dervisci roteanti. Due momenti altissimi della
storia dell’umanità, pilastri imprescindibili
di un possibile ponte interculturale che il
festival prova a materializzare attraverso la
musica e i racconti che esprimono queste
due grandi figure. Inizio ore 20.30. Ingresso
libero fino ad esaurimento posti disponibili.
Info 080 558.35.41
lunedì 25 / Postman Ultrachic all’Istanbul
Café di Squinzano (Le)
martedì 26 / Orchestra Multietnica della
Provincia di Lecce a Taviano (Le)
mercoledì 27 / Violle Ninfea all’Istanbul
Café di Squinzano (Le)
da martedì 26 a sabato 30 / Le mani e
l’ascolto al Fondo Verri di Lecce
Il Fondo Verri ospita la sesta edizione della
rassegna che si muove tra pianoforte e voci,
musica e scrittura. Il pianoforte diventa infatti
pretesto di incontri, scambi e creazioni, che
attraversano i generi, i modi d’espressione,
l’arte. Per informazioni 0832394522
mercoledì 27 / Papa Leu, Marina e Rankin
Lele a Gallipoli (Le)
giovedì 28 / Tributo ai Pearl Jam all’Istanbul
Café di Squinzano (Le)
giovedì 28 / Luciano Revi al Teatro Paisiello
di Lecce
Il venticinquenne cantautore salentino
Luciano Revi presenta ufficialmente i brani
del suo primo cd “Thoughts in the wind”.
Sul palco Revi (chitarra/armonica/voce)
sarà accompagnato da Antonio Traldi
(pianoforte) e Michele Calogiuri (violino).
Ingresso gratuito.
venerdì 29 / Mama Roots all’Istanbul Café
di Squinzano (Le)
venerdì 29 / Lino Patruno al Teatro Politeama
Greco di Lecce
venerdì 29 / Mario Rosini a Ruffano (Le)
venerdì 29 / Giusy Colì Trio allo Shui Bar di
Lecce
sabato 30 / Zenzerology
dj set allo
ZenzeroClub di Bari
sabato 30 / ska in town all’Istanbul Café di
Squinzano (Le)
domenica 31 / Alba dei Popoli a Otranto
lunedì 1 / Capodanno dei Popoli a Palazzo
dei Celestini di Lecce
Consueto appuntamento tra musica e
gastronomia, integrazione e tradizione con
il Capodanno dei Popoli organizzato dalla
Provincia di Lecce.
da martedì 2 a venerdì 5 gennaio / Le mani
e l’ascolto al Fondo Verri di Lecce
martedì 2 / Jam Session all’Agon Club di
Aradeo (Le)
giovedì 4 / OJM all’Istanbul Café di
Squinzano (Le)
venerdì 5 gennaio / Fiori e cioccolato al
Prosit di Lecce
sabato 6 / Montecarlo Night con Tob Lamare
all’Istanbul Café di Squinzano (Le)
sabato 13 gennaio / Ivan Segreto al Teatro
Antoniano di Lecce
Prende il via con il concerto di Ivan Segreto
la rassegna Suoni a sud organizzata
dall’Assacioziane
Culturale
Antoniano
e diretta da Irene Scardia. La rassegna
ospiterà sino a maggio i gruppi vincitori del
concorso cui hanno partecipato decine di
band da tutta Italia. La chiusura sarà invece
riservata (il 19 maggio) a Diego Mancino.
Ivan Segreto, cantautore e pianista,
trent’anni, nato in Sicilia, a Sciacca , fin dal
suo primo singolo Porta Vagnu (maggio
2004) ha messo tutti d’accordo: critica,
pubblico e operatori radiofonici, tutti hanno
riconosciuto l’eccellenza della sua musica
nel panorama dei nuovi cantautori italiani. Il
secondo album Fidate correnti rappresenta
al meglio la crescita artistica di Ivan Segreto,
i cui punti di forza stanno nella capacità di
amalgamare con straordinaria eleganza
jazz e melodia, con testi particolarmente
poetici ed evocativi. info: 0832.392567
martedì 16 / Jam Session al Bounty di Lecce
martedì 30 / Jam Session al Gargantù di San
Donaci (Br)
CoolClub.it
strade maestre - Koreja
Continua
Strade
Maestre,
rassegna
promossa dai Cantieri Teatrali Koreja,
Provincia di Lecce e Regione Puglia,
Venerdì 8 e sabato 9 dicembre il Teatro
Stabile di Brescia Le Belle Bandiere propone
la sua versione del Macbeth di William
Shakespeare con la regia di Elena Bucci.
Giovedì 21 dicembre i Cantieri ospitano
invece una serata dedicata alla danza
con la Compagnia Nuova Euroballetto che
porta sul palco In volo con zero, coreografia
e regia di Marco Realino su musiche di
Renato Zero.
Il 2007 si apre venerdì 5 gennaio con Kitsch
Hamlet della compagnia Scena Verticale.
Un Amleto rinchiuso in una stanza nella
provincia calabrese. I suoi tre fratelli, “eroi”
mediocri, ordinari e squallidi, serviti e riveriti
da una madre morbosamente dedita alla
famiglia. Ofelia, cui viene concesso il diritto
di esistere nella sola follia. Un contesto di
case popolari degradato e pervaso di
sottocultura di massa, dove le madonnine
sui pianerottoli hanno un lumino acceso
tutto il giorno e a ogni angolo sorride la
barba di Padre Pio.
Venerdì 12 e sabato 13 gennaio la rassegna
prosegue con Mischelle di Sant’Oliva di
Emma Dante. Sulla scena Gaetano e
Salvatore, padre e figlio. Su di loro aleggia il
fantasma della “francisa”, moglie e madre,
che li ha abbandonati per seguire i suoi
sogni di ballerina. Salvatore accudisce con
cura suo padre, ma lui gli volta sempre
le spalle, non vuole guardarlo in faccia
perché la notte Salvatore mette il rossetto,
si traveste e ancheggia nel quartiere di
Sant’Oliva. Un’indagine sul lato oscuro dei
rapporti familiari, sugli incubi generati fra le
mura domestiche, sulla violenza e l’amore
delle relazioni.
Mercoledì 16 gennaio protagonista della
serata sarà la scrittura di Luigi Pirandello.
L’uomo, la bestia e la virtù è messo in scena
dal Teatro Stabile di Sardegna Diablogues.
Sabato 27 e domenica 28 infine la parigina
Associoation Woo propone Trio per un
solo. Cinque parole chiave: resistenza,
entusiasmo,
illuminazione,
politica,
spettacolo, scelte dal giornalista inglese
Simon Barnes per definire la storia del XX°
secolo attraverso il prisma dell’immagine
sportiva, costituiscono la struttura di questo
45
match di un’ora. Cinque individui in scena
ripercorrono una storia doppiamente
nostra, universale e intima allo stesso tempo.
Cinque terreni di gioco, che si trasformano
in territori e frontiere, ci confrontano ai nostri
propri fantasmi, dalle figure leggendarie ai
desideri di autofinzione.
Ingresso 10 euro (ridotto 7). Info www.
teatrokoreja.com; 0832.242000 – 240752.
atto unico - Scena Studio
Prosegue presso lo spazio Scenastudio di
Lecce la rassegna Atto unico – tra poesia
e impegno civile dedicata a titoli che
recuperano la dimensione essenziale del
teatro, ponendo nel rapporto parolaascolto,
attore-spettatore
il
binomio
fondante della propria forma espressiva.
Giovedì 7 e venerdì 8 dicembre Alessandro
Langiu (nella foto) presenta 25 mila granelli
di sabbia. Il monologo tratta il complesso e
conflittuale rapporto della modernità con il
territorio e i suoi protagonisti, come i ragazzi
di “venticinquemila granelli di sabbia”: Panz,
Nunzio e Mustazz.
Ultimo appuntamento giovedì 14 e venerdì
15 dicembre con la compagnia teatrale
Il girasolo che mette in scena Vorrei che
la rosa. Chi si attende da Vorrei che la
rosa di Salvatore Calafiore una squisita ed
asettica analisi “filologica” dell’opera di
Corbière resterà deluso, la nostra analisi
è solo “fisiologica”. Ci interessa convivere
un’esperienza, un percorso interiore che da
una suggestione poetica, l’attore, divenuto
autore, svela in una “crudele” nudità “viva”
nel tempo e nello spazio teatrale.
Ingresso 10 euro (ridotto 7). Sipario ore 21.00.
Lo Spazio Scenastudio è in via Sozy Carafa
48/B a Lecce. Info 0832 279356; www.
scenastudio.it
La redazione di CoolClub.it non è responsabile
di eventuali variazioni o annullamenti.
Gli altri appuntamenti su www.coolclub.it
Per segnalazioni:
[email protected]
CoolClub.it
Non tutti i morti lasciano il nostro mondo;
alcuni infestano i luoghi in cui sono
defunti violentemente per propria o
altrui mano, tormentando i vivi sino a
causarne la fine.
Di ciò è consapevole la giovane Misaki
Saiki dotata di capacità medianiche, che
le permettono di percepire gli spettri e di
comunicare con loro, esorcizzandone la
presenza.
Ma la procace fanciulla possiede
altri talenti ‘particolari’: è, infatti, la
più richiesta ‘regina’ sadomaso di un
night-club per feticisti, grazie al suo
zelo ed alla notorietà acquisita su
Internet e sui giornali. Intanto, come
negromante, lavora per il Dipartimento
per la salvaguardia della vita a Tokyo,
un fantomatico ente governativo istituito
per affrontare i fenomeni paranormali,
sotto la supervisione del funzionario
Soichiro, il quale è perennemente
eccitato dalle sue curve e terrorizzato
dai fantasmi. La spregiudicata medium
si impegna, suo malgrado, a risolvere
incubi metropolitani, mentre un individuo
misterioso incita al suicidio adolescenti
dalla psiche fragile, attraverso un forum
online Rock’N Roll Suicide.
Questo è l’incipit di Day Dream, manga
di ultima generazione scritto da Saki
Okuse e disegnato da Sankiki Meguro
(pubblicato in Italia da Panini Comics,
ogni mese), che, similmente ad altre
opere uscite di recente, presenta un
affresco adulto ed avvincente del paese
del Sol Levante: la Tokyo di tale manga
è una metropoli dalla convulsa vita
notturna, caratterizzata da un bestiario
umano eccessivo ed alienato.
Nell’era,
per
antonomasia,
delle
comunicazioni, nell’ipertecnologizzato
Giappone, moltissime persone vivono
quotidianità
prive
d’ogni
umano
contatto; nel luogo in cui grattacieli
ed antichi templi convivono l’uno
accanto all’altro, esistono negozi in
cui si vendono biancheria usata e
peli pubici delle liceali minorenni. Day
Dream contiene in sé questi controsensi;
è un fumetto eccessivo, morboso, nel
quale si intrecciano horror ed erotismo,
spesso stemperati da esilaranti scenette
comiche in perfetto stile nipponico.
Appaiono chiare le suggestioni ispirate
dai film alla The Ring, nei quali il tema del
morto furente, tornato per vendicarsi,
si fonde con le inquietudini scaturite
dall’uso delle nuove tecnologie.
Nel manga di Okuse e Meguro cellulari
e siti Internet sono latori di messaggi di
morte, soprattutto per i ragazzi (il target
più in confidenza con tali media), ovvero
i soggetti più deboli in una società
particolarmente frenetica e competitiva
qual è quella giapponese, caratterizzata
da uno dei più alti tassi di suicidi giovanili
al mondo.
Non mancano immagini di forte impatto
per la sensibilità del lettore occidentale
medio: le vignette che raffigurano Misaki,
in succinte tenute di cuoio, intenta a
soddisfare le fantasie sadomaso dei suoi
clienti, sono molto esplicite e lo stesso
vale per quelle raffiguranti impiccagioni
ed omicidi! Il tratto di Meguro rende in
pieno l’orrore e lo straniamento che si
celano dietro tali situazioni, così come
riesce a restituire la tenerezza e la
solarità di altre scene di Day Dream,
utilizzando un bianco e nero a momenti
claustrofobico e talora rasserenante
e colmo di luce. Per non parlare delle
splendide figure femminili che incarnano
le più svariate voglie maschili, dalla
dominatrice in pelle alla virginale
fanciulla in tenuta scolastica, dotate di
personalità sfaccettate e riuscite. Misaki
è, in effetti, una giovane donna forte e
consapevole della propria sensualità e
dei propri poteri straordinari che non esita
a sfruttare per guadagnarsi da vivere
senza eccessivo autocompiacimento,
con egual distacco sia verso i propri
clienti che verso gli spettri. Tuttavia non
sempre le riesce di mantenere tale
freddezza: la voce dei morti è carica
d’un’umanità che a volte ai vivi non è
concesso esprimere.
Roberto Cesano
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