STEFANO LOCATELLI
Interferenze fra pratiche di lettura e pratiche del teatro nel Settecento italiano
Per una ricerca tra pagina e scena
1. Ipotesi di base della ricerca
Le relazioni tra pagina e scena costituiscono un territorio di studi solo
parzialmente esplorato sino a ora in Italia, di contro a una considerevole
produzione in ambito anglosassone e francese1.
Ho cercato in alcune mie ricerche di coniugare alcune acquisizioni disciplinari
della Storia del libro (con particolare riferimento alla Histoire du livre francese) con
la Storia del teatro, al fine di indagare le relazioni tra prassi editoriali di antico
regime e prassi scenica. L’indagine (ovviamente ancora da approfondire) si è
Per un panorama, oltre a lavori che citeremo in seguito, cfr. J.S. Peters, Theatre of the Book.
1480-1880. Print, Text, and Performace in Europe, Oxford Universiy Press, New York 2000. Tra gli
studi italiani si segnalano in particolare: L. Mariti, Commedia ridicolosa. Comici di professione dilettanti
editoria teatrale nel Seicento. Storia e testi, Bulzoni, Roma 1978 (in part. La commedia in-dodicesimo: il
fenomeno editoriale, pp. XL-LXX); Id. Una stamperia, certi autori e il pubblico, in «Biblioteca Teatrale», a.
VI, 1976, nn. 15-16, pp. 216-247. Attenzione privilegiata alle questioni di editoria teatrale si
riscontra in diversi contributi di R. Guarino: Comici, stampe e scritture nel Cinquecento veneziano, in
«Quaderni di teatro», a. VIII, n. 29, 1985, pp. 103-134, Id., Teatro e mutamenti. Rinascimento e spettacolo
a Venezia, il Mulino, Bologna 1995; Id., Storia del libro, storia del teatro. Studi skakespeariani, in «Teatro e
Storia», a. XV, 2000, pp. 473-492; anche il capitolo Teatri, libri, scritture, in Il teatro nella storia. Gli
spazi, le culture, la memoria, Laterza, Roma-Bari 2005 e infine il più recente Shakespeare. La scrittura nel
teatro, Carocci, Roma 2010. Si vedano inoltre almeno: M. Pieri, Fra scrittura e scena: La cinquecentina
teatrale, in E. Cresti, N. Maraschio, L. Toschi (a cura di), Storia e teoria dell’interpunzione, Atti del
convegno internazionale di studi Firenze 19-21 maggio 1988, Bulzoni, Roma 1992; Ead., Il teatro di
carta. Spigolature, in C. Leonardi, M. Morelli, F. Santi (a cura di), Album. I luoghi dove si accumulano i
segni, Centro Italiano di Studi sull’altomedioevo, Spoleto 1997, pp. 127-145; Ead., Problemi e metodi di
editoria teatrale, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, diretta da R. Alonge e G. Davico Bonino,
vol. II, Einaudi, Torino 2000, pp. 1073-1101; C. Valenti, Comici artigiani. Mestieri e forme dello spettacolo
a Siena nella prima metà del Cinquecento, Franco Cosimo Panini, Ferrara 1992; P. Ventrone, Fra teatro
libro e devozione: sulle stampe di sacre rappresentazioni fiorentine, in «Annali di Storia Moderna e
Contemporanea», a. IX, 2003, pp. 267-313; M.G. Accorsi, Scena e lettura. Problemi di scrittura e
recitazione dei testi teatrali, Mucchi, Modena 2002. Fiorenti ormai gli studi goldoniani e gozziani
incentrati su questa specifica materia. Si vedano in particolare: R. Pasta, La stamperia Paperini e
l’edizione fiorentina delle Commedie di Goldoni, in Editoria e cultura nel Settecento, Olschki, Firenze 1997, pp.
39-86; A. Scannapieco, Giuseppe Bettinelli editore di Goldoni, in «Problemi di critica goldoniana», a. I,
1994, pp. 7-152; Ead., Carlo Gozzi: la scena del libro, Marsilio, Venezia, 2006; L. Riccò, «Parrebbe un
romanzo». Polemiche editoriali e linguaggi teatrali ai tempi di Goldoni, Chiari, Gozzi, Bulzoni, Roma 2000;
per le questioni di filologia, anche relative alla nuova edizione nazionale delle opere di Goldoni,
fondamentale Ead., Testo per la scena – Testo per la stampa: problemi di edizione, in «Giornale Storico della
Letteratura Italiana», a. CLXXIII, 1996, pp. 210-66.
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concentrata sul alcuni aspetti relativi alla costruzione dell’identità d’autore
drammatico in antico regime, sul ruolo degli stampatori nella definizione della
tradizione teatrale, sullo studio della circolazione e delle pratiche di lettura del libro
di teatro nel Settecento2.
Dal punto di vista metodologico, credo che studiare la storia del libro significhi,
quasi naturalmente, trascendere la stessa storia del teatro in quanto letteratura
drammatica (almeno quella letteratura drammatica che considera il testo come una
astrazione). Le stesse metodologie di ricerca proprie della Histoire du livre e della
Textual bibliography consentono di studiare qualsiasi testo nelle condizioni concrete
in cui esso viene consegnato ai lettori; l’interesse per la materialità del libro di
teatro può consentire di indagare elementi essenziali alla ricostruzione stessa dei
significati di cui un testo drammatico può essere investito nell’atto della lettura3.
Si tratta di un aspetto specifico della relazioni tra libro e scena che credo trovi
nel Settecento uno dei periodi di maggiore interesse poiché si tratta del secolo che,
a livello europeo, si caratterizza per consistenti interferenze tra pratiche di lettura
del libro di teatro, ricezione dello spettacolo e, verrebbe da dire conseguentemente
(anche se forse si tratta di un azzardo) pratiche della scena.
Su quest’ultimo versante, la differenziazione e l’estensione delle pratiche di
lettura, che nel corso del Settecento investe direttamente il pubblico teatrale,
paiono essere parte integrante di quei processi che conducono, oltre al
riconoscimento effettivo di una esteticità allo spettacolo teatrale, a un progressivo
rinnovamento della stessa prassi scenica (o quanto meno, in prima istanza, della
teoresi a essa relativa).
Mi permetto di segnalare S. Locatelli, Edizioni teatrali nella Milano del Settecento. Per un dizionario biobibliografico dei librai e degli stampatori milanesi e annali tipografici dei testi drammatici pubblicati a Milano nel
XVIII secolo, Isu, Milano 2007; S. Maffei, Merope, a cura di S. Locatelli, Ets, Pisa 2008 e S. Locatelli,
Tra libro e scena. Pratiche di lettura del teatro nel Settecento milanese, in A. Cascetta, R. Carpani, D. Zardin
(a cura di), La cultura della rappresentazione nella Milano del Settecento: discontinuità e permanenze, Bulzoni,
Roma 2010, pp. 265-295, che qui parzialmente riprendo specie nei paragrafi 4-6.
3 Cfr. in particolare gli studi di Roger Chartier, in particolare Forms and Meanings. Texts, Performances,
and Audiences from Codex to Computer [1995], tr. it. Cultura scritta e società, S. Bonnard, Milano 1999;
Publishing Drama in Early Modern Europe [1999], tr. it. In scena e in pagina. Editoria e teatro in Europa tra
XVI e XVIII secolo, Silvestre Bonnard, Milano 2001; L’ordre des livres. Lecteures, auteurs, bibliothèques en
Europe entre XIV e XVIII siècle [1992], tr. it. L’ordine dei libri, Il Saggiatore, Milano 1994. Cfr. anche,
per una fondazione teorica e metodologica: D.F. McKenzie, Bibliography and the Sociology of Texts
[1986], tr. it. Bibliografia e sociologia dei testi, Sylvestre Bonnard, Milano 1999. Tra gli studi di
McKenzie si veda in particolare Typography and Meaning: the case of William Congreve (1981), oggi
leggibile in traduzione italiana con altri saggi sulle edizioni di Congreve e Shakespeare in D.F.
McKenzie, Di Shakespeare e Congreve, Sylvestre Bonnard, Milano 2004. Interessante anche, per
un’analisi del caso di Molière, A.E. Zanger, Paralyzing Performance: Sacrificing Theater on the Altar of
Publication, in «Stanford French Review», a. XII, nn. 2-3, 1988, pp. 169-185. Per una analisi relativa
al Settecento italiano cfr. M. Paoli, L’autore e l’editoria italiana del Settecento. Parte prima: le edizioni di
lusso, in «Rara Volumina», a. II, n. 2, 1995, pp. 5-42, e Id.,“L’Appannato specchio”. L’autore e l’editoria
italiana nel Settecento, Fazzi, Lucca 2004.
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Vi è un’ipotesi di fondo, che sarà utile qui esplicitare, nella ricerca che sto
cercando di condurre sulla lettura del libro di teatro nel corso del Settecento.
Un’ipotesi forse azzardata, senza la quale tuttavia la ricerca rischierebbe di perdere
la propria matrice essenzialmente teatralogica e dunque scadere entro i più limitati
confini della storia del libro.
Tra i processi in atto che segnano un netto mutamento dell’idea di teatro nel
corso del XVIII secolo ve n’è uno di capitale importanza (affrontato anche in
svariati contributi recenti): l’affermazione della cosiddetta autorialità dei
drammaturghi, o di una autorialità drammaturgica.
È già stato notato da diversi studiosi che a essa sia strettamente connessa la
progressiva affermazione della regia (o almeno di quella idea di regista inteso come
guardiano del testo)4. Ora, la costruzione dell’identità autoriale dei drammaturghi è
un processo che con ogni evidenza si consolida in tutta Europa proprio nel corso
del Settecento (pur con fondamentali premesse che risalgono al secolo precedente)
anche grazie alle pratiche di produzione libraria. Bisognerà del resto ricordare che
nel corso del XVIII secolo vi è un altro mutamento in atto (che si consoliderà a
inizio Ottocento) a livello di pratiche editoriali: il passaggio progressivo dalla figura
dello stampatore a quella di editore nel senso moderno del termine5.
L’affermazione dell’autorialità drammaturgica presiede alla stessa costituzione di
un canone di testi drammatici fondamentale anzitutto per la definizione di una
tradizione letteraria (operazione che in Italia possiamo far risalire a Muratori,
Maffei soprattutto, Quadrio, Crescimbeni, Gimma ecc.)6. Ci situiamo in un
contesto tipicamente Settecentesco di «discernimento dell’ottimo» in materia di
letteratura. È il cosiddetto buongusto arcadico che definisce per la prima volta in
Italia (ma processi simili sono individuabili a livello europeo) un repertorio di testi
teatrali meritevoli di salvaguardia in quanto considerati parte di una tradizione
letteraria.
A questa opzione che diremmo estetica, si sovrappone lentamente una seconda
opzione che diremmo di natura giuridica: si tratta della progressiva affermazione
del diritto d’autore. E non sarà un caso che essa sia stata promossa, sempre a
partire dal Settecento, dagli stessi ambienti intellettuali che sosterranno la necessità
di una garanzia nei confronti del testo drammatico-letterario-preventivo nel
contesto della rappresentazione dal vivo.
Cfr. almeno F. Taviani, Ideologia teatrale e teatro materiale: sul «teatro che fa a meno dei testi», in «Quaderni
di teatro», a. I, n. 1, 1978, pp. 17-25; R. Alonge, Il teatro dei registi. Scopritori di enigmi e poeti della scena,
Laterza, Roma-Bari 2006, in part. cap. 2, e anche Id., Testo, testimone, testamento, in I. Romeo (a cura
di), Specchio delle mie brame. Teatro e letteratura, Guerini, Milano 1991, pp. 107-111.
5 Presupposto di tutti questi processi è ovviamente una nuova concezione del teatro, inserito a
partire almeno da inizio Settecento nell’«ordine della cultura», non più visto «come una pericolosa
escrescenza dal corpo della società» (F. Taviani, Il teatro della morale e della cultura, in Id., La Commedia
dell’Arte e la società barocca. La fascinazione del teatro, Bulzoni, Roma 1969, p. CXII).
6 Cfr. ora in proposito C. Viola, Canoni d'Arcadia: Muratori, Maffei, Lemene, Ceva, Quadrio, Ets, Pisa
2009.
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Aspetto fondamentale, se non premessa, di questi stessi processi è anche
l’affermarsi della lettura individuale, silenziosa, del libro di teatro.
Si tratta dunque, per i fini della presente ricerca, di impostare l’indagine sulla
lettura del libro di teatro tra Sette e Ottocento come parte di un contesto culturale
che vede nel testo teatrale inteso come opera autoriale (parte, come si è detto, di
una tradizione letteraria) un oggetto meritevole di salvaguardia.
È un argomento solo parzialmente indagato dagli studi, su cui dunque sarà
necessario lavorare a lungo. Quel che mi pare tuttavia di poter dire senza troppa
tema di smentite è che la riforma di fondo che conduce alla stessa regia non sia
tanto un «ripristino della centralità del testo»7.
Credo invece si tratti di una decisa affermazione della centralità del testo
drammatico-letterario, e dunque della necessità della sua salvaguardia di contro alle
pratiche produttive degli attori.
È chiaro che stiamo parlando di processi culturali lenti, che giungono a maturità
solo nella seconda metà del XIX secolo ma provengono dal cuore del Settecento.
Certo, se scegliamo di guardare le cose teatrali solo dal punto di vista della
affermazione dell’autorialità drammaturgica, ci rendiamo presto conto che ciò che
viene messo in gioco è anzitutto la progressiva affermazione di un nuovo criterio
produttivo. È indubbio: l’affermazione dell’autorialità (e monumentalità)
drammaturgica si manifesta come il primo passo verso un modo produttivo altro.
Ma non basta, poiché le questioni relative all’Autore teatrale e al riconoscimento
dello statuto di monumentum a testi drammatici, pur costituendo una premessa
fondamentale della regia, ancora non sono sufficienti a definire pienamente quella
che sarà la cultura della regia; questa si affermerà infatti definitivamente, come
genuina cultura del teatro, solo quando diventerà una cultura capace di occuparsi
integralmente dell’attore.
Nel corso del Settecento, e forse ancora (salvo eccezioni) nella prima metà
dell'Ottocento, la cultura teatrale europea non è ancora giunta a tale maturazione.
Vi è però senz’altro, in quel contesto culturale, una fermentazione che giunge a
coinvolgere le stesse pratiche della scena, a partire ovviamente da quelle attoriali.
2. Il ‘mutamento genetico’ del teatro.
«I classici come non li avete mai visti». Si tratta del titolo della campagna
abbonamenti per la stagione 2011/2012 del Piccolo Teatro di Milano, il primo e
più importante Stabile pubblico italiano. Non è solo un titolo, neanche forse una
idea di teatro (se vogliamo di teatro come servizio pubblico), ma l’idea di teatro che
ancora domina nella nostra contemporaneità, cioè che tra scena e tradizione
letteraria, tra teatro e testi, vi sia un rapporto quasi consustanziale.
7
Così U. Artioli, Le origini della regia teatrale, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, II, cit., p. 56.
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Storicamente è proprio nel corso del XVIII secolo che il teatro inizia a essere
concepito come oggi ancora lo concepisce la stragrande maggioranza delle
persone.
Nel corso del Settecento infatti, a livello europeo, diventa sempre più evidente
una progressiva repertorizzazione dell’attività teatrale.
Stiamo parlando di un processo strettamente connesso alla lenta affermazione
della autonomia e del valore estetico della scena teatrale, che in Europa è stato al
centro di un dibattito secolare, indirizzato anzitutto contro il teatro, e che viene a
sciogliersi compiutamente in Francia già almeno tra la fine del XVII e l’inizio del
XVIII secolo8. E il dibattito culturale circa il valore estetico del teatro risulta a tal
punto in fase di consolidamento, nella Francia di fine Seicento, che la fondazione
della Comédie Française non lascia più adito a dubbi: il teatro è una forma d’arte, che
ha valenza pubblica e, in quanto tale, merita di essere sostenuta con finanziamenti
statali. La Comedie Française è il monumento che il potere costruisce in risposta a
(ma, si intende, anche con la volontà precisa di indurre) un sentire comune
favorevole a un’idea complessiva del teatro in quanto arte, cui fa da péndant il
riconoscimento dello scrittore di teatro in quanto autore.
In Italia si tratta di un processo che avverrà molto più lentamente che nel resto
d’Europa. Basti ricordare che le stesse edizioni goldoniane saranno pur esse
strenuo tentativo di affermazione di uno statuto autoriale del drammaturgo, di
contro alle consuetudini della cultura teatrale italiana, priva di quelle grandi
collezioni di testi teatrali che in Francia, per esempio, erano state pubblicate con
grande magnificenza già nel corso del XVII secolo9. Questa mancanza non
pertiene unicamente alla sfera delle pratiche editoriali relative al genere teatrale, ma
è strettamente connessa al riconoscimento stesso, a livello della cultura alta,
dell’esistenza di una tradizione teatrale italiana, tanto che la storia del teatro italiano
del XVIII secolo, a partire dalla famosa querelle italo-francese10, pare attraversata da
una smania di affermazione dell’esistenza di un «teatro della nazione italiana»11.
Andrà sottolineato il fatto che nel contesto italiano risulta a lungo difficoltosa (e
netto dunque il ritardo, come non casualmente netto sarà da noi il ritardo
dell’avvento della regia) l’affermazione dei processi che in tutta Europa, a partire
dalla Francia, conducono a un progressivo consolidarsi del legame tra scena e
letteratura; di quei processi cioè che partono almeno dalla fondazione della Comedie
Cfr. M. Fumaroli, Comédiens et acteurs. L’art du théâtre à Paris de Bossuet à Chateaubriand, in Id.,
Exercices de lecture. De Rabelais à Paul Valery, Gallimard, Paris 2006, pp. 411-459.
9 Cfr. in proposito M. Pieri, Il teatro di carta, cit., pp. 127-145, Ead., Problemi e metodi di editoria teatrale,
cit., pp. 1073-1101.
10 Su questo aspetto fondamentale per l’intera cultura letteraria del Settecento italiano risulta
imprescindibile C. Viola, Tradizioni letterarie a confronto. Italia e Francia nella polemica Orsi-Bouhours,
Edizioni Fiorini, Verona 2001.
11 Tra le molte collezioni di testi teatrali dell'epoca cfr. in particolare la Biblioteca teatrale italiana
curata da Ottaviano Diodati (12 voll., Della Valle, Lucca 1762-1765), sulla quale cfr. G. Zanlonghi,
La riforma della tragedia nel Settecento: l’identità italiana a teatro, in «Annali di storia moderna e
contemporanea», a. XIII, 2007, pp. 25-65, in part. pp. 50-54.
8
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Française nel 1680 e che nel corso di un secolo e mezzo rendono sempre più il
teatro, inteso come spazio pubblico, un museo di testi canonici, «vivente museo
della letteratura drammatica»12. Iniziò a realizzarsi proprio allora, tra fine Seicento e
inizio Settecento, a livello europeo, quel rapporto stretto che a noi oggi sembra
normale tra scena e tradizione letteraria, tra teatro e testi teatrali, dunque l’idea
stessa che il teatro (specie se inteso come servizio pubblico) sia anzitutto il luogo
dove andare a vedere e a rivedere (magari come non si erano mai visti prima) i
cosiddetti classici13.
3. Congiunzione tra pratiche di lettura individuale ed esperienza spettatoriale
Un dato di fondo da tenere presente, a livello di pratiche di lettura, è che nel
corso del Settecento viene progressivamente messo in crisi quel modello di
appropriazione dei testi che, sin dall’antichità, ritroviamo come fonomeno di lunga
durata ancora in età moderna, nonostante l’esplosione della parola stampata.
La storia sociale del libro affermatasi negli ultimi quarant’anni ha infatti
mostrato chiaramente come in età moderna risulti ancora una netta prevalenza
della lettura oralizzata, cioè della performance orale come principale modello di
appropriazione del testo scritto14. Un modello che con ogni evidenza riscontriamo,
ancor meglio che in altri generi, nella pubblicazione (uso il termine in maniera
estensiva) dei testi teatrali.
F. Taviani, Ideologia teatrale e teatro materiale, cit., p. 24.
Su questo tema sono ancora fondamentali le considerazioni di Taviani, Ivi, pp. 17-25.
14 Per una panoramica, critica e metodologica, si veda nel suo complesso la Histoire de l’édition
française, [sous la direction de H.J. Martin et R. Chartier], publié avec le concours du Centre
National des Lettres, 4 voll., Promodis, Paris 1983-1986; per un primo panorama sugli studi
francesi che, dalle ricerche quantitative dirette da Furet negli anni Sessanta, giunge fino alla ricerche
di storia della lettura, cfr. L. Braida, La storia sociale del libro in Francia dopo Livre et société. Gli studi sul
Settecento, in «Rivista Storica Italiana», a. CI, n. 2, 1989, pp. 412-467; e inoltre R. Darnton, The Kiss of
Lamourette. Reflections in Cultural History [1990], tr. it. Il bacio di Lamourette, Adelphi, Milano 1994, in
particolare si veda il capitolo Primi passi verso una storia della lettura, pp. 117-153; R. Chartier, Dalla
storia del libro alla storia della lettura: la prospettiva francese, in «Archivio Storico Italiano», a. CLII, n. 1,
1994, pp. 135-172. Risultano inoltre imprescindibili per un quadro d’insieme: Histoire de la lecture. Un
bilan des recherches, actes du colloque Paris 29-30 janvier 1993, sous la direction de Roger Chartier,
IMEC, Paris 1995; G. Cavallo, R. Chartier (a cura di), Storia della lettura nel mondo occidentale, Laterza,
Roma-Bari 1995; A. Bermingham, J. Brewer (a cura di), The Consumption of Culture, 1600-1800,
Routledge, London-New York 1995; B. Dooley, Lettori e letture nel Settecento italiano, in M. Infelise, P.
Marini (a cura di), L’editoria del ’700 e i Remondini, atti del Convegno, Bassano, 28-29 settembre 1990,
Ghedina & Tassotti, Bassano del Grappa 1992, pp. 17-37. Per gli studi sul consumo culturale in
ambito italiano con particolare attenzione alla lettura, si veda almeno R. Ago, O. Raggio (a cura di),
Consumi culturali nell’Italia moderna, n. monogr. di «Quaderni storici», a. XXIX, n. 1, 2004; sullo
specifico settecentesco, M. Infelise, L’utile e il piacevole. Alla ricerca dei lettori italiani del secondo Settecento,
in M.G. Tavoni, F. Waquet (a cura di), Gli spazi del libro nell’Europa del XVIII sec., Pàtron, Bologna
1997, e R. Pasta, Appunti sul consumo culturale: pubblico e letture nel ’700, in «La fabbrica del libro», a. X,
n. 2, 2004, p. 2.
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13
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Nel corso del Settecento si assiste invece a una esplosione delle pratiche di
lettura individuale e silenziosa15. È un dato macroscopico, pur non sempre
documentabile con facilità, che risulta per noi essenziale allorché assistiamo
proprio nel Settecento all’esplosione (assieme al romanzo) del ‘teatro da leggere’,
che assume i tratti di vero proprio fenomeno editoriale16.
Nel corso della prima metà del Settecento la stessa cultura italiana prende
coscienza della mancanza, a livello stesso delle pubblicazioni a stampa, di una
definizione complessiva della tradizione teatrale italiana. In genere, e per tradizione
ormai secolare, la tipologia editoriale media dei libri teatrali italiani è caratterizzata
da volumetti di scarsa qualità tipografica, per non dire effimeri, considerati molto
spesso di poco valore. Un valore che non è solo economico, ma si traduce (e del
resto è anche il presupposto) in un giudizio di valore sul versante estetico quanto
mai ambiguo non solo circa questo genere di prodotti editoriali, ma verso la
dimensione della scena tout court.
Particolare attenzione bisogna prestare al fenomento delle traduzioni della
drammaturgia francese per la scena italiana. Non posso ora soffermarmi ad
elencare la miriade di testi francesi e collezioni teatrali di testi teatrali francesi
pubblicate in Italia nel Settecento (tra cui spicca soprattutto Voltaire, specie per la
seconda metà del secolo).
L’ambito delle traduzioni dal francese, apparentemente segno di un certo
cosmopolitismo culturale, mi pare metta anzitutto in evidenza la ricerca di una
dimensione nazionale del teatro italiano inteso come spazio pubblico (che è poi
una delle declinazioni della riforma già auspicata da Ludovico Antonio Muratori).
Ma quel che ora mi preme sottolineare è che soprattutto per mediazione del
teatro francese, e in particolare delle sue traduzioni a uso delle scene italiane
(pubblicate a stampa in organiche collezioni editoriali), assistiamo nell’Italia del
Settecento, per quel che riguarda l’ambito del teatro drammatico, alla progressiva
congiunzione delle esperienze di lettura e fruizione spettacolare, del complicarsi
Per una discussione recente, con relativa bibliografia, su questo aspetto Cfr. J.F. Gilmont, Une
révolution de la lecture au XVIIIe siècle?, in G. Petrella (a cura di), «Navigare nei mari dell’umano sapere».
Biblioteche e circolazione libraria nel Trentino e nell’Italia del XVIII secolo, Provincia autonoma di TrentoSoprintendenza per i beni librari e archivistici, Trento 2008, pp. 129-139.
16 Cfr., per esempio, M. Duraccio, Note sull’editoria napoletana nel Settecento, in A.M. Rao (a cura di),
Editoria e cultura a Napoli nel XVIII secolo, Liguori, Napoli 1998, pp. 683-696; fondamentale
ovviamente il caso goldoniano, specie per comprendere appieno l’attenzione degli stampatori verso
il teatro, rispetto al quale risultano fondamentali: Pasta, La stamperia Paperini, cit.; A. Scannapieco,
Giuseppe Bettinelli editore di Goldoni, cit. Per la librettistica, al fine di misurare l’effettiva esplosione
dell’editoria teatrale nel corso del Settecento a confronto col secolo precedente, si veda il caso
romano esemplarmente studiato da S. Franchi, Drammaturgia romana. Repertorio bibliografico cronologico
dei testi drammatici pubblicati a Roma e nel Lazio. Secolo XVII, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma
1988; Id., Drammaturgia romana. II (1701-1750). Annali dei testi drammatici e libretti per musica pubblicati a
Roma e nel Lazio dal 1701 al 1750 [...], Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1997; Id., Le impressioni
sceniche. Dizionario bio-bibliografico degli editori e stampatori romani e laziali di testi drammatici e libretti per
musica dal 1579 al 1800, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1994.
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7
progressivo della tensione tra spettacolo e letteratura, tra lettura individuale ed
esperienza spettatoriale.
4. Alla ricerca di fonti e documenti sulla lettura. Gli inventari post-mortem
Il primo problema di metodo da affrontare per questa ricerca è senz’altro quello
delle fonti. Come documentare le pratiche di lettura del libro di teatro nel
Settecento italiano?
Oltre alle fonti iconografiche, cui mi risulta si stia dedicando anche per quel che
riguarda questo specifico tema Maria Ines Aliverti17, credo si possano utilizzare
con profitto diverse tipologie di testimonianze.
Di una certa utilità possono essere gli inventari post-mortem di biblioteche
private. Si tratta di documenti facilmente recuperabili negli archivi storici, spesso in
forma manoscritta, ma anche nelle biblioteche nel caso in cui si presentino come
veri e propri cataloghi di vendita. La Bibliothèque Nationale de France, per
esempio, ne possiede un fondo vastissimo (e ben catalogato) di grande utilità
anche per misurare la circolazione del libro teatrale italiano.
Vi è una cautela di cui sarà necessario sempre munirsi nello scandaglio di questi
documenti: la testimonianza di un possesso librario non è necessariamente
testimonianza di una lettura certa.
Applichiamo però una lente di ingrandimento: ci interessano le relazioni tra
potenziali letture individuali e scena contemporanea.
Da questo punto di vista gli inventari post-mortem ci dicono forse qualcosa di
interessante sull’Italia del Settecento, aiutandoci a definire in nuce quel
cambiamento genetico del teatro cui abbiamo fatto cenno sopra.
Ai fini della mia ricerca ho provato ad analizzare la presenza (o assenza) del
libro di teatro in alcune biblioteche private della prima metà del Settecento. Oltre a
consultare fonti già edite, ho recuperato a tal fine gli inventari post-mortem di
alcune biblioteche di personalità milanesi dell’epoca18.
Non vi è spazio ora per entrare nei dettagli. Posso tuttavia dire, in sintesi, che in
tutte queste biblioteche private di inizio Settecento, permane forte, ampiamente
preponderante rispetto alla contemporaneità, la presenza della tragedia, commedia
cinquecentesche e del terzo genere, la pastorale, specie nei suoi testi chiave (Aminta
e Pastor Fido).
Cfr. almeno M.I. Aliverti, Mise en scène: un rêve d'espace, in M. Fazio e P. Frantz (a cura di), La
fabrique du théâtre. Avant la mise en scène (1650-1880), Èditions Desjounquères, Paris 2010, pp. 309320.
18 Ricordo in particolare gli inventari delle biblioteche personali di Giovanni Maria Aliprandi,
Gianmatteo Pertusati, Francesco D’Aguire, oltre che di Filippo Argelati e del plenipotenziario
Firmian. Per maggiori notizie e una puntuale disamina rimando a S. Locatelli, Edizioni teatrali nella
Milano del Settecento, cit., e Id., Tra libro e scena, cit.
17
8
Mi pare si tratti, nell’Italia di inizio Settecento, di un segnale evidente di un forte
scollamento tra lettura e fruizione spettacolare (a parte il caso del Pastor Fido,
cavallo di battaglia di molte compagnie comiche ancora a inizio Settecento). Pare
di poter dire che la tendenza di fondo nella prima metà del Settecento italiano sia
che quel che di teatro si legge (almeno a livello di lettura individuale) non sia quel che di
teatro si vede.
Ma vi è certamente un processo in atto (riscontrabile germinalmente già in
alcuni di questi inventari), nel quale assistiamo al complicarsi progressivo della
tensione tra spettacolo e letteratura.
Possiamo renderne conto osservando le cose, a partire da un altro inventario
post-mortem, dallo scorcio del secolo.
Una biblioteca privata di grande interesse è quella di Pietro Verri, il cui
inventario ci è stato in tempi recenti restituito da Carlo Capra19.
Su un totale approssimativo di 910 volumi presenti nella biblioteca, sono 102
quelli dedicati al teatro. Un buon 11% dei libri che Pietro Verri teneva nel proprio
studio era dunque di argomento teatrale. Si tratta soprattutto, come è evidente
dalla sproporzione quantitativa tra titoli e volumi, di collezioni.
Quasi tutti i titoli sono degli ultimi venti-trent’anni del Settecento. Vi traspare
un forte interesse per il teatro francese, ampiamente esemplato a partire dagli
autori del Grand Siècle fino alla seconda metà del Settecento20. L’attenzione per gli
autori moderni è rivolta inevitabilmente a Voltaire, di gran lunga l’autore più
presente (con 19 titoli) nella biblioteca21.
Nel 1795 Pietro aveva inoltre acquistato con grande foga e aspettativa una
raccolta di libri di teatro appartenuta prima al Tanzi e poi passata al Casati
(ambiente dei Trasformati, dunque). Così scriveva in proposito al fratello
Alessandro nel settembre di quell’anno:
L’inventario post-mortem dei libri conservati nello studiolo privato di Pietro Verri, redatto nel 1797
dal libraio Luigi Galeazzi, è conservato nell’Archivio Verri presso la Fondazione Mattioli di Milano.
Carlo Capra nel suo studio identifica con precisione la maggior parte dei volumi presenti
nell'inventario, descritti spesso solo sommariamente dal Galeazzi. Cfr. C. Capra, Pietro Verri e il
«genio della lettura», in L. Antonielli, C. Capra, M. Infelise (a cura di), Per Marino Berengo. Studi degli
allievi, Franco Angeli, Milano 2000, pp. 619-677. Per un ri-calcolo delle edizioni teatrali (diverso da
quello proposto dal Capra) rimando a S. Locatelli, Edizioni teatrali, cit., pp. 145-146.
20 Nella biblioteca troviamo infatti le tre collezioni stampate dal Masi a Livorno tra 1774 e 1776, per
un totale di trenta volumi; cfr. Collection de tragédies, comédies et drames choisis des plus célèbres auteurs
modernes, chez Thomas Masi et Compagnie editeurs & imprimeurs libraires, a Livourne, 1774-1775,
12 voll.; Collection de tragédies et comédies choisies des plus célèbres auteurs anciens, chez Thomas Masi et
Compagnie, editeurs & imprimeurs-libraires, a Livourne, 1775-1776, 12 voll.; Collection de comédies
choisies en un acte et en deux des plus célèbres auteurs, chez Thomas Masi et Compagnie, editeurs &
imprimeurs-libraires, a Livourne, 1776, 6 voll.
21 Il suo teatro è ampiamente documentato nella prima delle raccolte del Masi, ma soprattutto in
quattro dei volumi della Collection complète des ouvres che Pietro possedeva nella princeps ginevrina edita
per i tipi dei fratelli Cramer (1756-1764). Sempre di Voltaire, troviamo i Commentaires sur le théâtre de
Pierre Corneille, le singole tragedie Saul (1763) e Eriphile (1779).
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Ho fatto acquisto di 42 braccia di libri per 12 scudi. [...] Vi sono in quantità libricini di Tragedie,
e commedie del 1500, poi del secolo passato. Una congerie d’Opere, Pastorali, Commedie, e
Tragedie, e altrettante del secolo cadente, in somma gli ho misurati per porli ne’ scafali, e sono
42 braccia, cosicchè non vengo a pagarli 40 soldi al braccio, nè credo che possano valere di più,
perchè tutte le volte che a caso ho scelto un libretto di questa congerie non ho potuto reggere a
terminare la pagina casualmente aperta22.
Così Alessandro rispondendogli il 27 settembre:
[...] Dio liberi ch’io legga mai non un braccio, ma un oncia sola delle vostre 42 braccia di
Drammi Italiani! Che tentazione vi ha preso di possedere un monumento di vergogna
Nazionale! Questa è la sola parte del n.ro Parnaso che meriti il fuoco, e la obblivione. Credo
però che in carta vecchia vi sia l’intrinseco del prezzo. Scusate, ma non vi applaudisco per tale
aquisto. Addio di cuore a tutti23.
E il 7 ottobre così Pietro:
Avete ragione, sono pentito d’aver gettati i miei 12 scudi per le 42 braccia di Poesie e Prose
teatrali. Servono come un mobile al pianterreno nella stanza della Cameriera. Sin ora ai scaffali
non sono poste le reti d’ottone e qualche garzone del falegname mi ha rubato un mezzo braccio
di questa mercanzia che avrà venduta per qualche soldo24.
Nello scambio di lettere tra i fratelli pare di sentire riaffiorare i discorsi della
querelle italo-francese di inizio Settecento (il teatro italiano definito da Alessandro
come «monumento di vergogna nazionale»).
Ma a Pietro la delusione derivava più probabilmente da un semplice confronto
con la collezione di testi teatrali che faceva bella mostra nel suo studio privato.
La lettura distratta e rapsodica che Pietro dichiara per la raccolta appena
acquistata pare anzitutto negativamente influenzata dallo scarso valore del singolo
prodotto a stampa.
Dobbiamo invece immaginare per i volumi teatrali che Pietro conservava nel
suo studio privato un tipo di lettura solitaria, attenta, portata avanti in un luogo
che diremmo ‘intimo’ che, nella sua globalità, raccoglieva complessivamente un
numero limitato di volumi.
Si tratta di un diverso approccio alla lettura del teatro che è veicolato anche da
forme librarie affatto differenti rispetto a quelle che per lunga tradizione il teatro
italiano aveva conosciuto. Pietro infatti teneva sì sotto mano nel suo studio privato
molti testi teatrali. Ma questi erano perlopiù pubblicati in grandi collezioni di testi,
composte in dignitosissimi formati editoriali (secondo una moda che in Italia si
consolida veramente solo dalla secondà metà del Settecento).
S. Rosini (a cura di), Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, vol. VIII, Edizioni di Storia e Letteratura,
Roma 2008, t. II, p. 983.
23 Ivi, pp. 990-991.
24 Ivi, p. 997.
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Capiamo forse allora la delusione di Pietro nei confronti della biblioteca teatrale
acquistata nel 1795. Egli pensava di dotarsi di una collezione organica, che
integrasse magari quelle che si era abituato a leggere, e per questo ne rimane
deluso, al punto da decidersi a collocare l’intera raccolta nella «stanza della
cameriera».
Quel che mi pare evidente è il diverso approccio al teatro da leggere allorché questi
assume una forma editoriale consona a veicolare tali testi come parte integrante
dell’istituzione letteraria, e non come necessariamente connessi all’occasione
scenica, di per sé effimera.
La congerie di libretti che finiscono nella stanza della cameriera paiono a Pietro
troppo legati alle contingenze dello spettacolo. Anche il loro formato li avvicina
alla moltitudine di libretti per musica che certamente Pietro avrà acquistato e
maneggiato a teatro, ma che non conservava poi certo nel suo studio personale.
Quando infatti un librettista vi compare, come Metastasio, lo è nelle forme purgate
ed editorialmente garantite di una stupenda raccolta parigina (anche se Pietro
acquista, al risparmio, la sua pur pregevolissima ristampa veneziana)25. Quel che vi
compare è dunque Metastasio in quanto esponente della cultura teatrale italiana
riconosciuta a livello europeo, in quanto dunque parte di una tradizione culta (cui
appartiene del resto lo stesso Goldoni)26, magnificamente definita e rappresentata
nello studio di Verri nelle già citate raccolte edite a Livorno dallo stampatore Masi.
Bisognerà sottolineare con decisione che, almeno dalla secondà metà del
Settecento, è su queste tipologie librarie (quando non si tratta di grandi collezioni,
comunque si tratta di volumi editorialmente molto curati) che per lo più si esercita
negli ambienti colti del Settecento (e della secondà meta del secolo in particolare)
la lettura silenziosa.
5. Epistolari e memorie
Già dall’esempio precedente risulterà evidente, quanto ovvia, l’importanza degli
epistolari settecenteschi ai fine della presente ricerca27. Va da sé, epistolari e
memorie sono fondamentali allorché rendono conto in maniera diretta di
esperienze spettatoriali o di letture di libri teatrali.
Pietro Verri possedeva l’edizione, in 16 voll., Opere del signor ab. Pietro Metastasio poeta cesareo giusta le
correzioni e aggiunte dell’autore nell’edizione di Parigi del 1780, in Venezia, presso Antonio Zatta, 17811783 che riprende in economia la magnifica edizione curata da Giuseppe Pezzana Opere del signor
abate Pietro Metastasio, In Parigi, presso la Vv. Hérissant, 1780-1782 (a proposito della quale si veda
W. Spaggiari, Giuseppe Pezzana editore delle opere di Metastasio [1984], in Id., L’armonico tremore. Cultura
settentrionale dall’Arcadia all’età napoleonica, Franco Angeli, Milano 1990, pp. 104-124).
26 Strenuo sostenitore della riforma goldoniana sin dalla prefazione al teatro del Destouches e poi
nel Caffè, Pietro Verri conservava nel suo ultimo studio l’edizione delle Commedie di Goldoni
stampata a Torino per i tipi di Guibert et Orgeas (1772-1777).
27 Fondamentali ora i repertori a cura di Corrado Viola: Epistolari italiani del Settecento: repertorio
bibliografico, Fiorini, Verona 2004 (e il relativo Primo supplemento, Fiorini, Verona 2008).
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Credo tuttavia che questa tipologia di fonti possa essere considerata ben più
interessante quando di teatro parla in maniera indiretta, in occasioni non-teatrali;
quando consente di verificare il grado di permeazione del teatro nella cultura e
nell’immaginario dell’epoca.
Ma procediamo per gradi. Epistolari e memorie possono contenere anzitutto
attestazioni di lettura silenziosa e solitaria del libro di teatro.
Si tratta di una tipologia di lettura che nel corso del Settecento diventa (così
parrebbe) soprattutto femminile. Ma è necessaria forse una avvertenza per la
lettura delle fonti. È senz’altro vero che il Settecento è per molti versi il secolo
delle donne colte. Ma direi tuttavia che ancora nel Settecento vada tenuta sempre
come salda la consuetudine secolare, certamente divenuta ora topica, tradizionale,
di considerare i testi teatrali a stampa come qualche cosa di culturalmente più
basso rispetto alla letteratura istituzionale28. Entro questa tradizione va collocata
anche la diffusissima tendenza settecentesca di attribuire al pubblico femminile (e
ai fanciulli) la lettura di testi teatrali29.
Un esempio efficace ci viene ancora da Pietro Verri, che così raccontava alla
figlia Teresa a proposito delle letture della madre:
Anche de’ libri Maria faceva uso la mattina, per lo più mentre era fralle mani del parrucchiere, e
i libri ch’ella sopra tutti amava erano i drammatici, ha letto tutto il Goldoni, tutta la raccolta del
Teatro Francese, e un altro genere di lettura ella amava, cioè i bei deliri della immaginazione
orientale dei mille e un giorno, mille e una notte ec. Altra lettura più seria non la gustava, e
certamente ciò sarebbe accaduto s’ella avesse avuto più lunga vita che non ebbe 30.
Pietro parla della moglie anche come di un’appassionata lettrice del teatro di
Voltaire (ma non dei suoi scritti filosofici). Gusti molto vicini a quelli del marito,
come si evince anche dall’attenzione a Shakespeare (sostanzialmente ignoto
nell’Italia di fine Settecento), più volte citato nell’epistolario dei fratelli, che lo
Ne è dimostrazione evidente la tendenza all’affermazione retorica di una reticenza alle stampe
allorché ci si appresta, in qualità di autori, a pubblicare i propri lavori teatrali. Si tratta di ciò che
Anna Scannapieco ha efficamente definito noluntas auctoris, cioè la dichiarata riluttanza dell’autore
drammatico e infine del suo cedimento (per cause che si direbbe di forza maggiore) a pubblicare
per mezzo della stampa il proprio lavoro. In generale sull’autore nel XVIII secolo cfr. almeno L.
Braida, Il commercio delle idee. Editoria e circolazione del libro nella Torino del Settecento, Olschki, Firenze
1995, pp. 315-356 (specie il cap. VI: La condizione dell’autore); per lo specifico teatrale A.
Scannapieco, I silenzi dell’Autore. Tradizione del testo nel teatro veneziano tra ’700 e ’800, in R. Drusi, D.
Perocco, P. Vescovo (a cura di), «Le sorte dele parole». Testi veneti dalle origini all’Ottocento. Edizioni,
strumenti, lessicografia, Esedra, Padova 2004, pp. 213-242; e si vedano inoltre L. Riccò, «Parrebbe un
romanzo», cit.; R. Tessari, Maschere di cera. Riforme, giochi, utopie: il teatro europeo del ’700 tra pensiero e scena,
Costa & Nolan, Genova 1997, in part. pp. 51-74); I. Mattiozzi, Carlo Goldoni e la professione di scrittore,
in «Studi e problemi di critica testuale», a. I, 1972, pp. 95-153; A. Scannapieco, Carlo Gozzi: la scena
del libro, cit.
29 Cfr. in proposito M. Pieri, Problemi e metodi, cit., pp. 1089-1090.
30 P. Verri, Notizie intorno alla vita, i costumi e la morte di vostra madre, in P. Verri, Scritti di argomento
familiare e autobiografico, a cura di G. Barbarisi, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2003, p. 292.
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leggono nella traduzione francese di Le Tourneur. Al punto che, verrebbe da dire,
Pietro pare attribuire alla moglie le proprie passioni di lettore.
Ancora, alla figlia Pietro consigliava la lettura dei testi teatrali come strumento
formativo di grande utilità per una donna:
Io approvo che voi leggiate sterminatamente tutte le commedie e tutte le tragedie possibili:
sono queste una dilettevolissima occupazione, vi conducono a sviluppare insensibilmente in voi
medesima i penetrali del vostro cuore e dell’altrui, vi insegnano il più nobile e decente modo di conversare,
vi sviluppano sentimenti nobili e generosi e sono una eccellente lezione di morale pratica31.
Dagli scritti del Verri traspare un universo femminile che fa del libro di teatro
una tipica lettura «da toilette», ma pur sempre di qualche utilità per una signora che
sappia stare in società32. È pur vero che i consigli di Pietro Verri sono prudenziali e
mirano di fatto a indirizzare la figlia, anche attraverso l’esempio materno, verso
letture meno pericolose (e più controllabili) rispetto ai romanzi contemporanei,
inesorabilmente condannati in quegli anni, per esempio, da Giovanni Battista
Roberti33.
Antidoto dunque, possiamo dire, contro le derive romanzesche, da più voci
condannate, il libro di teatro viene visto come oggetto di lettura privilegiato per
rendere possibile, ma disciplinata, la speculazione immaginifica del lettore (è qui
evidente, si noterà, il magistero gesuitico sotteso alla formazione dello stesso
Pietro Verri)34.
Ma da una fonte memorialistica come questa di Pietro Verri si può evincere
anche dell’altro, forse qualcosa per noi più interesante. Tali pratiche di lettura
silenziosa e individuale del libro di teatro paiono avere un corollario anche a livello
di ricezione dello spettacolo.
Leggiamo quanto scrive Pietro poco dopo aver parlato delle letture solitarie (in
prevalenza teatrali) della moglie:
Dopo pranzo usciva sempre colla mia Marietta [...]. Andavamo al Corso, poi al teatro, prima al
Collegio de’ nobili, poi alla metà di Settembre si aprì il teatro S. Gio. in Conca, dove io presi la
quarta loggia alla sinistra seconda fila e regolarmente andavamo a passare la sera allo spettacolo,
e io stava immobile colla mia marietta, divertendoci tutti e due 35.
P. Verri, Ricordi a mia figlia Teresa, in Id., Scritti di argomento familiare e auobiografico, cit., p. 415 (corsivi
miei).
32 Cfr. R. Turchi, Libri per la «Toelette», in «Studi Italiani», a. XIV, nn. 1-2, 2002, pp. 153-205.
33 Maestro prima (presso il collegio dei Gesuiti di Parma) e poi amico dello stesso Pietro, Giovanni
Battista Roberti aveva scritto il famosissimo Del leggere libri di metafisica e divertimento trattati due con
prefazione sopra un libro intitolato De la predication par l’auteur du dictionnaire philosophique aux delices
MDCCLXVI, In Bologna MDCCLXIX nella stamperia del Sant’Uffizio, con licenza de’ superiori.
34 Cfr. in proposito, specie per la fruizione doppia delle tragedie spirituali, nei teatri e attraverso la
lettura individuale, B. Majorana, Governo del corpo, governo dell’anima. Attori e spettatori nel teatro italiano
del XVIII secolo, in P. Prodi (a cura di), Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra
Medioevo ed età moderna, Il Mulino, Bologna 1994, pp. 437-490.
35 P. Verri, Notizie intorno alla vita, cit. p. 292 (corsivo mio).
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Pietro rende conto in questo caso, come è ben noto agli studiosi del teatro
italiano (e in particolare milanese) del Settecento, di una ricezione quantomai
avulsa rispetto alle consuetudini dell’epoca. Pietro dice: a teatro me ne stavo
immobile con mia moglie, cioè seduto tutto il tempo a seguire lo spettacolo, e non ci
annoiavamo, ma tutti e due ci divertivamo; non solo lei, ma tutti e due. È questo il
sottinteso: da buon uomo di mondo avrei dovuto fare come tutti gli altri, che se ne
andavano in giro per il teatro durante la rappresentazione, a fare conversazione,
stringere affari, giocare d’azzardo. Ma io me ne stavo lì tutto il tempo seduto, a
seguire dall’inizio alla fine la rappresentazione.
Verrebbe da dire, le pratiche di lettura silenziosa del libro di teatro orientano
anche una diversa modalità di ricezione della scena. E per di più queste rinnovate
modalità di fruizione dello spettacolo teatrale paiono non limitarsi alla sola
attenzione ininterrotta e silenziosa, bensì contribuire anche alla istituzione di uno
sguardo complessivamente nuovo verso la scena.
È una ipotesi ovviamente questa, su cui varrà la pena orientare la ricerca.
Vi è però intanto un altro livello di interesse (credo utile anche a sostenere la
precedente ipotesi) dei documenti epistolari allorché essi documentano che
l’attenzione privilegiata per la scena e, diremmo, alla sua valenza estetica, diventa
strumento di trasfigurazione e lettura della realtà quotidiana. Non è un caso che le
atmosfere dei testi teatrali e degli spettacoli diventino oggetto di trasfigurazione
narrativa della realtà direttamente nella scrittura epistolare dei fratelli Verri.
In una lettera da Civitanova del febbraio 1794 Alessandro raccontava al fratello
di uno smarrimento notturno della Boccapadule in riva al mare:
La mia Marchesa l’altro jeri alle ore 23 si è divertita avviandosi al mare a piedi per vicoli
sconosciuti, seguita da un Cammeriere, dal Ragazzo, e dal Musico. Si è trovata alla riva del mare
a notte, aveva smarrita la strada, aveva dato l’appuntamento alla carrozza a un dato luogo: il
servitore intese male, il cocchiere si confuse: andavano e tornavano come smarriti. Intanto
erano due ore di notte, e notte umida, senza luna, io stava in pensiero [...] Final.te intese diverse
persone, raccolsi da una Donna da qual parte poteva essere questa comitiva smarrita [...]. Andai
con torcia a vento, acciarino per riaccenderla se si spegnesse [...]
Grazie al cielo incontrai la comitiva circa un miglio da qui distante, molto stanca e molto
inquieta del caso. Io ho borbottato come Todero brontolon36.
Non importa tanto il fatto che Alessandro dica di aver borbottato come il Ser
Todero goldoniano (per quanto la similitudine abbia già di per sé un certo
significato per il nostro discorso). Ci interessa invece la risposta di Pietro:
Il racconto che mi fate della Marchesa alla spiaggia del mare a due ore di notte umida colla
strada smarrita e il cocchiere sviato mi ha fatto pena. Voi ve la prendete contro di lei quasi fosse
colpa sua. [...] Ella aveva prese tre persone in sua compagnia [...]. La Marchesa non ha colpa
veruna. Voi bensì avete operato da uomo: di cuore e di testa. V’è una scena nella caccia
36
S. Rosini (a cura di), Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, vol. VIII, cit., t. I p. 617.
14
d’Enrico Quarto che di notte si trova solo sconosciuto, la quale ha qualche somiglianza col
vostro fatto37.
La Caccia di Enrico IV, cui fa riferimento Pietro altro non è che un balletto
eroicomico di Gaspare Angiolini (rappresentato a Milano nel 1773)38. La pronta
similitudine che Pietro vi istituisce con la vicenda narrata dal fratello è segno di un
immaginario fortemente influenzato dalla scena. Sono molti i luoghi del carteggio
verriano in cui questo accade. In quello stesso torno di anni, Alessandro descriveva
al fratello Pietro le varie leccornie che aveva potuto gustare in Umbria.
Un boccone poi stupendo in questa Provincia dell’Umbria sono le Starne, ed i Tordi,
selvaggiume che prospera nelle Montagne, ed ha un sapore delizioso. Il Tordo special.te è così
grasso, e così fragrante di Ginepro che quando vi penso soffro i principj di deliquo a’ quali è
soggetto Trufaldino sentendo menzionare Maccaroni39.
La similitudine in questo caso sarebbe ancora goldoniana. Ma, come ha notato
giustamente Sara Rosini, nel Servitore di due padroni non si fa menzione dei
“maccaroni”. È invece senz’altro vero che l’espediente della maccaronea era tipico
lazzo dei comici, e dunque più che probabile che sulla scena tale situazione potesse
essere stata realizzata. Dunque, ancora, la scena influenza direttamente
l’immaginario. E tuttavia quella scena ha, nel contesto di nostro interesse, anche un
corrispettivo librario, di lettura, che quella immaginazione ulteriormente sorregge.
È una immaginazione che viene alimentata sul doppio versante della scena e della
lettura.
Abbiamo osservato all’inizio del nostro intervento: se nel primo Settecento
ancora, nei fatti, quel che di teatro si legge non è quel che si vede, vediamo ora,
sullo scorcio del secolo, che quel che di teatro si vede, e si è visto, ha un suo
corrispettivo in quel che si legge.
6. Interferenze tra lettura individuale, ricezione spettatoriale e pratica scenica?
Siamo ora al terzo livello, quello più indiretto rispetto all’oggetto (ma forse per
questo più utile), di lettura delle fonti epistolari e memorialistiche. È il livello in cui
l’immaginario teatrale, se non addirittura una ben precisa estetica teatrale, si riversa
nella scrittura privata, per non dire intima. E vi si riversa non per parlare
direttamente di teatro, ma per leggere il mondo col teatro (con una certa idea di
teatro).
Lettera di Pietro ad Alessandro, 1 marzo 1794, Ivi, p. 627.
Cfr. la nota di Rosini, ibidem e Id., Pietro Verri e il balletto (con la Lettre à Monsieur Noverre e altri
scritti inediti), in «Studi Settecenteschi», a. XX, 2000, pp. 257-314; cfr. ora in proposito, sempre a
cura di Sara Rosini, P. Verri, Scritti sul balletto, in G. Panizza (a cura di), I «Discorsi» e altri scritti degli
anni Settanta, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2004, pp. 595-664.
39 S. Rosini (a cura di), Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, cit., t. II, p. 958.
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L’esempio più efficace che fino a oggi sono riuscito a reperire si trova in un
luogo tra i più gustosi del Libro di Teresa Verri, laddove immaginario e sapere teatrale
diventano strumento attraverso il quale Pietro dà consigli pratici sul modo di
vestire alla figlia Teresa.
Poi nel vestirvi non abbiate premura che tutto sia esattamente compassato. Anzi vestitevi in
modo che chi vi osserva non conosca lo studio usato [...]. Teresina mia, questo è il sublime
dell’arte, ed è il precetto massimo per piacere in ogni modo. Datemi un ballerino mediocre, e
vedetelo come si slancia con impeto e lascia vedere l’estrema forza e la attenzione per ballare.
Datemene uno eccellente, e copre l’artificio, cela la forza col volto placido, con un moto naturale
di braccia, sembra che a caso quasi si collochi nelle più belle positure e che naturalmente si trovi nei più eleganti
e difficili atteggiamenti. [...] Nella musica, se una voce vi fa conoscere lo studio e la somma
attenzione del cantante, vi annoja; il valente musico sembra che spontaneamente moduli e,
mentre esattissimamente osserva la misura, sembra che la trascuri. Tutta l’arte di piacere si
riduce a conoscer l’arte, ma celarla e operare in modo che chi ammira quasi dica: «Io pure farei
lo stesso», ma, provandosi, non vi riesce. [...] Un pittore di gusto ti fa una bella donna con
qualche leggiero disordine e ne’ capelli e nell’abbigliamento, niente è più secco e stucchevole quanto la
esatta simmetria, ella non serve che sugli altari ed all’esercizio militare, e questi non sono i licei
della grazia e della venustà certamente [...] Vi consiglio di esaminarvi bene allo specchio prima
di uscire di casa, di adornarvi con grazia e porre ogni studio a coprire lo studio, insomma ad eseguire
Le negligenze sue sono artificj
[...] Osservate il mezzo giorno: sorprende, abbaglia, stanca, ed è sempre lo stesso oggetto.
Osservate un bel cielo azzurro, sereno e stellato, vedete quelle punte lucide della gran volta
sparse in disordine senza simetria ma con un disordine così vago, così curioso, che ciascuno cerca a
conoscervi qualche figura, e così, rapito l’occhio, rapita l’immaginazione in un dolce incantesimo,
non vi saziate di contemplarlo; così è la figura della donna piacevole; così è il suo stile, il suo
modo, niente che annunzi pretensione di occupare di se stessa, ma tutto organizzato in modo
che insensibilmente gli altri se ne occupino e non se ne sazino. Siate piuttosto una bella notte
anzi che un bel giorno40.
Come risulta evidente, vi è tutta una estetica dietro gli apparentemente pratici
consigli che Pietro regala alla figlia. È infatti il discorso sulla naturalità dell’arte (e
del teatro) che si riversa come fondante anche nei Ricordi a mia figlia Teresa. Non si
tratta per Pietro di idee generiche. Hanno invece a che fare con la concezione
dell’arte (in cui rientra anche l’arte teatrale) espressa, tra l’altro, nel Discorso
sull’indole del piacere e del dolore. Anzi, possiamo dire che il brano in questione è, in
particolare, un sunto intelligibile alla figlia dei paragrafi otto e nove del Discorso41.
Già nell’articolo pubblicato nel «Caffè» sulle Delizie della villa Pietro proponeva,
entro la «figura polisemica» del giardino, l’espressione di una «poetica fondata sui
sentimenti della curiosità e dell’inquietudine», a partire da una visione, dotata di
una doppia valenza morale ed estetica, fondata sulla «libertà delle forme [che]
corrisponde all’immaginario mobile della fisica newtoniana e alla sostituzione della
geometria con i fenomeni della vita in movimento»42. L’ispirazione deriva
P. Verri, Ricordi a mia figlia Teresa, cit., pp. 406-408 (corsivi miei).
Il Discorso sull’indole del piacere e del dolore è ora leggibile, con introduzione e commento di S.
Contarini e testo a cura di S. Rosini, in I «Discorsi» e altri scritti degli anni Settanta, cit., pp. 23-152.
42 S. Contarini, Nota introduttiva in Verri, Discorso sull’indole del piacere, cit. p. 48.
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certamente da Dubos (specie dalla sua teoria dei piaceri artificiali) e Fontenelle, Locke,
Burke ed Helvétius, ma soprattutto da Diderot per quel che concerne più
direttamente l’estetica teatrale. È senz’altro vero che sia il Salon de 1767, specie per
il contatto con la psicologia e l’estetica del Sublime e del Pittoresco, l’opera cui
Pietro fa riferimento (oltre che ovviamente a Burke che influenza del resto in tal
senso lo stesso Diderot)43. Ma in ambito teatrale non può che essere il Diderot
degli Entretiens sur le Fils Naturel il fondamento44, con la sua teorizzazione della
conquista di un doppio punto di vista dello spettatore (davanti al quadro, ma anche
dentro al quadro, al tableaux della scena)45, per un compiuto discorso fondativo di
una estetica del teatro che nel corso del Settecento si traduce in un globale nuovo
orientamento della organizzazione spaziale della rappresentazione. Se la cultura
scenografica barocca era fondata su un uso della prospettiva che non ammetteva la
dislocazione dell’attore in profondità e relegava l’azione in primo piano, negando
la possiblità di una perlustrazione dello spazio scenico, nella seconda metà del
Settecento assistiamo invece a una progressiva conquista della scena come luogo in
cui si congiungono contemporaneamente più linee di forza, che spingono verso
dislocazioni dello spazio scenico che dipendono non solo da chi lo organizza, ma
anche da chi lo guarda46. Si tratta a tutti gli effetti della conquista di un punto di
vista multiplo (e non è un caso che si affermi in tutta Europa nello stesso periodo la
prospettiva per angolo dei Galli Bibbiena)47.
È un discorso che necessariamente investe anche le pratiche recitative
dell’attore. Proprio nel corso del Settecento si dà una svolta fondamentale anche in
tal senso. Viene meno infatti finalmente l’identificazione della recitazione con
l’oratoria, a favore di una estetica della azione scenica fondata sul naturale e sulle
asimmetrie armoniose del corpo dell’attore. Una opzione che si consolida per la prima
volta nel XVIII secolo anche a livello di teorie della recitazione (grazie al
precedente, eccezionale nel contesto seicentesco, di D’Aubignac che, a partire dal
paradigma oraziano della ut pictura poesis, aveva definito il teatro come «péinture
agissante et parlante», giungendo così a un guadagno essenziale perché forniva le
Cfr. Verri, Discorso sull’indole del piacere, cit., p. 119n. Tuttavia fondamentale mi pare soprattutto D.
Diderot, Essais sur la peinture pour faire suite au salon del 1765, leggibile in D. Diderot, Oeuvres, t. IV:
Esthétique-Théâtre, édition établie par L. Versini, Robert Laffont, Paris 1996; si confronti in
particolare, anche per un riscontro con il brano sopra citato, p. 497.
44 Si legga per esempio, per un riscontro, D. Diderot, Entretiens sur le Fils Naturel, in Id., Oeuvres, cit.,
p. 1137.
45 Si veda, oltre che estensivamente il Fils Naturel e i suoi Entretiens, anche D. Diderot, De la poésie
dramatique, specie il paragrafo De la pantomime (per un esempio a confronto con il testo di Pietro qui
proposto a testo cfr. in Diderot, Oeuvres, cit., pp. 1342-1343).
46 Su questo specifico aspetto cfr. Aliverti, Mise en scène: un rêve d’espace, cit.
47 Cfr. G. Guccini, Dalla quadratura alla scenografia. Riflessioni sul ‘teatro’ dei Bibiena, in A. Spiriti, G.
Zanlonghi (a cura di) Immagini dello spazio e spazio della rappresentazione. Percorsi settecenteschi fra arte e
teatro, n. monog. di «Comunicazioni Sociali», a. XXVIII, n. 2, 2006, pp. 208-222; nello stesso
volume, cfr. anche L. Valcepina, Un ‘luogo’ d’incontro tra le arti. Interpretazione e simbologia dello spazio
scenico nella trattatistica settecentesca, pp. 223-247.
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basi per una legittimazione dello spettacolare passando attraverso una
legittimazione dell’immagine). Imprescindibile punto di riferimento in tal senso
non potevano che essere anche per Pietro Verri gli scritti teorici di Luigi Riccoboni
(su tutti le Pensées sur la declamation e il Dell’arte rappresentativa). Vi ritroviamo
perfettamente formulate le definizioni di naturalezza, armoniose asimmetrie del
corpo in scena, a partire da una estetica che certamente Riccoboni avrà fatto
propria, con esiti maturi e originali sul versante specifico dell’arte teatrale, a partire
dal dibattito che la riflessione cartesiana sulle passioni aveva suscitato in Muratori,
Gravina e Orsi.
Non sarà un caso che queste idee relative alla concreta prassi scenica, maturate
a livello teorico tra Italia e Francia nel corso di un intero secolo, si affermino con
forza, anche nel contesto milanese, proprio in coincidenza con l’affermasi di nuove
pratiche di lettura del teatro. L’abitudine sempre più diffusa alla lettura silenziosa
dei libri teatrali, con tutti i suoi corollari, non poteva che investire direttamente il
pubblico teatrale, tanto da rendere la ricezione dello spettatore di teatro (che ne era
al contempo lettore) progressivamente incompatibile con una lunga tradizione di
scena rigidamente organizzata, convenzionale, in cui le consuetudini degli attori
prevedevano altresì uno scarso utilizzo della profondità della scena, in cui la stessa
tradizione recitativa fondata sulla declamazione non poteva che contrastare
irrimediabilmente con la naturalità dei mondi immaginati nella lettura.
Non ci sbagliamo troppo, forse, nel voler così rintracciare entro questo
contesto e questi processi, le premesse (estetiche certo, ma anche sociali e culturali)
che porteranno, nel secolo successivo, alla definitiva affermazione della autonomia
estetico-linguistica del teatro e a quella che sarà la grande cultura della regia, specie
di quella linea della regia che si imporrà entro le pratiche della scena in quanto
salvaguardia del testo drammatico letterario; salvaguardia dell’Autore dunque, ma
soprattutto, al contempo, delle esigenze di un pubblico di lettori.
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