LA CONCILIAZIONE DI LAVORO E TEMPI SOCIALI IN EUROPA E IN CANADA:
ATTUALITÀ E PROSPETTIVE.
Roberto Gialdi
I dati Eurostat ci confermano una realtà che il senso comune aveva già intuito.
Le coppie in cui entrambi i componenti lavorano rappresentano il 62% del totale e la forma abituale
è quella in cui entrambi i partner lavorano a tempo pieno (Eurostat intende come tempo pieno una
prestazione lavorativa di almeno trenta ore settimanali). Tuttavia, la percentuale di coppie in cui
entrambi lavorano a tempo pieno diminuisce se vengono considerate solo le coppie con figli: qui il
modello diventa quello in cui l’uomo è occupato a tempo pieno e la donna a tempo parziale. In
generale, però, non si osserva “una condivisione dei tempi lavorativi compatibile con una
ripartizione più equilibrata del lavoro retribuito e non retribuito [vale a dire familiare], in grado di
condurre i due partner ad una combinazione di tempi pieni di durata media [vale a dire da trenta a
quaranta ore settimanali] o di tempi parziali lunghi [vale a dire tra le venti e le trenta ore
settimanali]” (Franco e Winqvist).
In particolare, poi, impiego e durata del lavoro, per le donne tra i venti e i quarantanove anni, sono
legati al numero dei figli e alla loro età. Il tasso di occupazione delle donne diminuisce con
l’aumento del numero di figli piccoli (mentre per gli uomini varia relativamente poco). La
proporzione di donne occupate a tempo parziale aumenta globalmente al crescere del numero dei
figli. Quindi, in sostanza: in presenza di figli, il numero delle donne occupate diminuisce e quelle
che lo sono lavorano prevalentemente a tempo parziale (Aliaga).
Le statistiche europee, pertanto, non fanno altro che rimarcare l’esistenza del problema di conciliare
lavoro e tempi familiari e sociali.
Il panorama in Canada – e in particolare in Québec – non è molto diverso da quello europeo. La
presenza femminile nel lavoro ha fatto registrare un incremento considerevole, come pure il numero
di coppie a doppio reddito (divenuto il “modello dominante”). La conseguenza più immediata è la
nascita di nuove difficoltà nella conciliazione di lavoro e famiglia, ovviamente perché nessuno dei
due genitori può essere considerato “disponibile” a priori. E come corollario ritroviamo, anche qui,
la scarsa presenza dei partner maschili nella presa in carico delle responsabilità familiari. A tutto
questo occorre poi aggiungere i cambiamenti che si registrano nel lavoro, in particolare per quanto
riguarda l’articolazione dell’orario: cresce il ricorso a forme di orario atipico, mentre si riduce
progressivamente la distribuzione standard dell’orario (dalle 9 alle 17). Si realizza, in questo modo,
un paradosso: un’articolazione dell’orario di lavoro non standard potrebbe essere un valido aiuto
alla conciliazione di lavoro e famiglia, ma quando è imposta dall’azienda – non richiesta dal
lavoratore o dalla lavoratrice – finisce per essere un problema ulteriore (Tremblay).
A fronte di questa situazione problematica, le imprese hanno iniziato ad approntare strumenti più o
meno idonei a fornire una soluzione. Una ricerca condotta su 150 aziende spagnole con più di 100
dipendenti (Chinchilla et al., 2003) ha rivelato che il 7% di esse si è dotato di un programma per
conciliare lavoro e famiglia, mentre il 19% è comunque intenzionato a farlo. Tra gli strumenti
maggiormente utilizzati, la ricerca evidenzia:
• Flessibilità dell’orario di lavoro;
• Concessione di periodi di aspettativa;
• Flessibilità del luogo di lavoro;
• Rimborso delle spese sostenute per l’asilo infantile o l’assistenza agli anziani;
• Modifiche temporanee degli incarichi e delle responsabilità.
Anche le aziende italiane si trovano su questa medesima strada: assicurazioni varie, asili nido,
convenzioni commerciali, assistenza alle lavoratrici madri, fino ad arrivare alla lavanderia o al
personal trainer. Un vero e proprio “welfare aziendale” che aumenta il rendimento, migliora il clima
aziendale e riduce il turn over (cfr. Il Sole-24 Ore del 17 ottobre 2007, pagg. 24-25).
La situazione in Québec appare meno diversificata: soltanto due misure di conciliazione hanno una
certa diffusione (la concessione di congedi per ragioni personali e il riconoscimento di integrazioni
salariali e di congedo in caso di nascita o adozione di figli). Si tratta di misure comunque spinte
dalla legislazione lavoristica del Québec. Tutte le altre misure (dall’orario flessibile alla
compressione volontaria della settimana lavorativa, dal lavoro a domicilio ai servizi di assistenza
all’infanzia) trovano pochissimo posto nelle aziende (Tremblay).
Comunque sia, tutte le misure proposte in Europa e in Canada qualche risultato positivo, in effetti,
lo danno. Spesso, infatti, le controversie di lavoro nascono da un conflitto tra lavoro, famiglia e vita
personale, con tutte le conseguenze negative (anche economiche) del caso: assenteismo, scarso
impegno, minore produttività, minore competitività, alto turn over. Questa circostanza riflette un
risvolto psicologico molto interessante: di fronte alla scelta di un posto di lavoro, l’aspetto
strettamente economico non è determinante. Più importanti della retribuzione sono la possibilità di
apprendimento e la possibilità di conciliare la vita professionale con la famiglia e la vita personale.
Questo “salario mentale” ha soppiantato un criterio di scelta come l’autorealizzazione, che aveva il
torto di ignorare la sfera affettiva della persona (Chinchilla et al., 2004).
L’impressione che se ne trae, tuttavia, è che le strategie attuali vadano bene, ma che in prospettiva si
possa fare meglio. Quelle attuate dalle aziende in Europa e in Canada ci appaiono come politiche di
azione che nascono all’esterno e che vengono poi trapiantate in azienda, in una struttura
organizzativa già esistente e in un sistema gestionale già esistente. Ciò che manca, invece, è una
visione d’insieme, che faccia sì che la soluzione del problema nasca già all’interno dell’azienda e
non debba essere importata, risultando – per così dire – posticcia.
Di qui la necessità di un cambiamento organizzativo, che – secondo Nuria Chinchilla ed Elizabeth
Torres – deve concretizzarsi nel passare dal modello meccanicista a quello antropologicoumanistico e comportare, da parte dell’azienda, la considerazione per tutte e quattro le dimensioni
dell’essere umano: materiale, spirituale, individuale e sociale. Per giungere così ad un’impresa
flessibile e “familiarmente responsabile” (Chinchilla e Torres).
Le considerazioni di Nuria Chinchilla e dei suoi collaboratori, però, presentano due criticità molto
marcate. La prima è il forte accento posto sulla “famiglia tradizionale” (un padre, una madre e dei
figli). È una visione del mondo troppo ristretta e, per certi versi, limitata. Ogni singola persona
esiste con tutta la sua vita relazionale, fatta di amore, di amicizia, di socialità da vivere a tutto
tondo, indipendentemente dalla presenza o meno di una famiglia. E l’azienda deve tenerne conto:
l’impresa deve essere responsabile non solo familiarmente, ma relazionalmente.
La seconda criticità è che non è sufficiente adottare un modello organizzativo umanistico e
considerare i lavoratori come persone, per essere un’impresa flessibile e responsabile. Se nel
modello meccanicista l’uomo è un mero strumento dell’organizzazione, nel modello umanistico
l’uomo diventa un obiettivo dell’organizzazione. Ma ancora non basta. Occorre assumere il modello
dell’azienda-essere (Gialdi): un’azienda centrata sull’uomo, in cui l’uomo diventa soggetto attivo
dell’organizzazione. Solo in questo modo sarà possibile giungere ad una piena conciliazione di
tempi lavorativi e sociali, realizzando un’impresa relazionalmente flessibile e responsabile.
Riferimenti:
Aliaga, 2005, Conciliation entre vie professionnelle et vie familiale: des écarts entre les femmes et
les hommes, Eurostat.
Chinchilla N., Poelmans S., León C., 2003, Políticas de conciliación trabajo-familia en 150
empresas españolas, IESE Business School, Barcelona – Madrid.
Chinchilla N., Poelmans S., León C., Tarrés J.B., 2004, Guía de Buenas Prácticas de la Empresa
Flexible y Responsable, Comunidad de Madrid, Madrid.
Chinchilla N. e Torres E., 2006, Why Become a Family-Responsible Employer?, IESE Business
School, Barcelona – Madrid.
Franco A. e Winqvist K., 2002, Les femmes et les hommes concilient travail et vie familiale,
Eurostat.
Gialdi R., 2006, L’azienda in progresso. Organizzazione, gestione e conoscenze, FrancoAngeli,
Milano.
Tremblay D.-G., 2004, Conciliation emploi-famille et temps sociaux, Télé-université, Québec.
Roberto Gialdi
Laureato in Pedagogia all’Università di Parma, si è perfezionato in Comunicazione educativa e
didattica all’Università di Padova ed ha conseguito il Master in Management della formazione
all’Università di Parma. Consulente del lavoro, è iscritto all’Associazione italiana formatori ed è
membro dell’Ordre des conseillers en ressources humaines et en relations industrielles agréés du
Québec. È autore del libro “L’azienda in progresso. Organizzazione, gestione e conoscenze”,
pubblicato da FrancoAngeli.