Psichiatria

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Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia
Psichiatria
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Introduzione
Lo psichiatra deve avere la capacità di assumere due diversi assetti mentali. Uno è
quello tipico della medicina tradizionale, per il quale esiste una precisa classificazione
dei disturbi (in questo caso si tratta di disturbi mentali) e la prescrizione di farmaci;
l'altro assetto mentale, invece, si basa non già sul mondo della sostanza, ma su quello
della forma, cioè della comunicazione. Questo secondo assetto mentale va ad attingere a
riferimenti quali ad esempio il modello sistemico; secondo il modello sistemico si
considera una persona non come singolo soggetto, ma come facente parte di un sistema
più ampio (società, famiglia...).
Un intervento psicoterapico può dunque di diversi modelli (psicoanalitico,
psicodinamico, comportamentale, cognitivo-comportamentale, etc.); tali modelli vanno
considerati come delle teorie cui seguono specifiche prassi. Le diverse teorie sono a loro
volta derivate dai modelli della mente; infatti la mente non è conoscibile attraverso i
sensi, e quindi per raggiungerla si ha bisogno di modelli.
Per ottenere una ottimizzazione della visita psichiatrica è necessario, oltre che effettuare
un corretto inquadramento diagnostico e prescrivere un farmaco, prescrivere anche un
comportamento, o un "programma" da fare a casa, etc.
I diversi disturbi mentali vanno pertanto affrontati sia sul versante farmacologico che
psicologico.
Accanto alle malattie psichiatriche vere e proprie, ci sono anche dei problemi che non
possono definirsi propriamente psichiatrici, ma in cui lo psichiatra può intervenire
anche solo per un consiglio, come per esempio nei casi di un funzionamento intellettivo
limitato, nel declino cognitivo, dei disturbi scolatici, nel lutto, nei problemi lavorativi,
religiosi, spirituali.
Non bisogna inoltre dimenticare della correlazione tra mente e corpo. Infatti ci sono
persone che, ad esempio, in seguito ad un dispiacere sviluppano un tremore. Il 25% dei
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soggetti che vanno dal cardiologo per un dolore al petto non cardiaco soffrono di
disturbi di attacchi di panico, in cui la sensazione di sofferenza è maggiore di quella
dell'infartuato.
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Il DSM IV
Il DSM IV è la quarta edizione del Manuale Statistico e Diagnostico dei disturbi mentali
elaborato dalla Associazione degli Psichiatri Americani. Si tratta di un volume poderoso
in cui sono descritte le caratteristiche dei vari quadri clinici patologici che ogni
psichiatra può osservare e descrivere. Esso contempla anche una classificazione di tali
disturbi, in diverse sezioni.
Il DSM IV è suddiviso in "assi"; gli assi del DSM IV costituiscono il minimo di
informazioni di cui ogni psichiatra dovrebbe disporre nell'approcciare un malato. In
pratica gli assi sono aspetti del quadro osservabile. Questi assi sono:
- asse I : disturbo clinico vero e proprio;
- asse II : disturbi di personalità, ritardo mentale;
- asse III : condizioni mediche generali potenzialmente rilevanti;
- asse IV : problemi psicosociali e ambientali;
- scala di valutazione globale del funzionamento sociale, psicologico e lavorativo in
riferimento al momento della valutazione.
Ogni paziente va valutato secondo la sua posizione su ognuno di questi assi.
La parte del DSM che si riferisce ai disturbi dell'infanzia, fanciullezza e adolescenza
non viene trattata perché è compito della neuropsichiatria infantile.
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Disturbi cognitivi
Esistono disturbi psichiatrici che hanno una base biologica chiara, cioè nascono da una
noxa che colpisce il cervello.
In linea generale si può dire che tutti i quadri che riporteremo sono riconducibili ad una
"regola" unica: se la noxa agisce acutamente si hanno quadri di confusione mentale (=
delirium), se la noxa agisce cronicamente si hanno quadri di demenza.
Delirium per intossicazione da sostanze
Ad esempio, da alcol. Preso a forti dosi l'alcol dà la cosiddetta "sbronza", cioè un
torpore mentale, con lentezza di riflessi, stato di vuoto. Nei soggetti che fanno uso
cronico di alcol (anche più di un litro al giorno) si realizzano invece danni cerebrali veri
e propri.
I soggetti che interrompono l'assunzione di alcol vanno incontro a un quadro clinico
detto delirium tremens, caratterizzato da confusione mentale, con immagini di animali
piccoli o grandi, fortissimo stato di ansia, disturbi cardiocircolatori. In questi casi è
necessario tenere in vita il soggetto con i classici strumenti della medicina (condizioni
fisiche generali compromesse). La terapia della confusione mentale consiste dunque
nell'intervenire subito per mantenere il cuore e il circolo, evitando la tendenza al
collasso e quindi alla morte; successivamente si cercherà di capirne la causa.
Il termine delirium si riferisce proprio a questo stato confusionale, ed è caratterizzato da
un disorientamento nel tempo e nello spazio; questi soggetti non sanno riferire la data
attuale, né il luogo in cui si trovano. Sono anche caratterizzati da un'incoerenza del
pensiero, e spesso hanno anche dei deliri grossolani. Il termine delirio invece si riferisce
ad una costruzione mentale errata ed incorreggibile. Questi deliri sono spesso associati
ad allucinazioni (le allucinazioni sono percezioni di cose inesistenti); ad esempio,
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vedono oggetti che non ci sono, o ascoltano suoni e voci che non esistono, oppure
hanno delle sensazioni cinestesiche senza nessun substrato organico.
Tra i vari disturbi correlati all'abuso di alcol, vi sono:
1. intossicazione alcolica acuta; è la "sbronza" di cui abbiam detto. Alcuni soggetti
possono avere delle reazioni abnormi, per cui possono avere momenti di grande
violenza, o sviluppare dei deliri di persecuzione; è cioè possibile avere dei quadri
patologici veri e propri, con l'assunzione di anche piccole quantità di alcol;
2. demenza persistente; una assunzione di alcol continuata per anni porta alla demenza
(un danno cerebrale anatomico, con perdita dell'intelligenza). A volte vi sono quadri
di demielinizzazione del corpo calloso, con deficit nella trasmissione nervosa;
3. disturbo amnestico persistente; è la cosiddetta sindrome di Korsakoff. Si tratta di
un'amnesia di fissazione, cioè è un disturbo specifico della memoria di fissazione.
La memoria si divide in memoria di fissazione (permette ai ricordi di fissarsi nella
mente), di ritenzione (permette ai ricordi di soggiornare nella memoria) e di
rievocazione (consente di attingere ai ricordi fissati). Esiste una memoria di
fissazione a lungo termine (per ricordi che dureranno nel tempo) e una a breve
termine (per ricordi fugaci). I soggetti con la sdr di Korsakoff ad es., non sanno dire
cosa hanno mangiato a pranzo; ogni volta che verrà loro fatta tale domanda, essi
risponderanno in maniera sempre diversa. Essi cioè suppliscono alla lacuna mnesica
con invenzioni (cosiddette confabulazioni). Questa malattia è seria, non facilmente
curabile; ha un riscontro anatomopatologico (atrofia in regione ippocampica);
4. disturbi dell'umore; molti alcolisti sono depressi. E' importante ricordare che alcuni
depressi cercano di curarsi con l'alcol peggiorando la situazione, poiché la
depressione aumenta con lo sfumare dell'effetto dell'alcol. Molto spesso quindi
l'acolismo può essere considerato l'equivalente di uno stato depressivo;
5. disturbi sessuali; l'alcol porta spesso ad impotenza, la quale porta talvolta a deliri di
gelosia verso il coniuge. Infatti, non risucendo ad avere rapporti sessuali, costoro
sviluppano l'idea che la moglie abbia un altro uomo, e ciò può anche portare a
violenza nei confronti della moglie;
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6. disturbi del sonno; l'alcol inizialmente facilita il sonno, poi ha invece un effetto
contrario (azione bifasica), portando ad un risveglio precoce, con stato di malessere
fisico e mentale.
La somministrazione di triclici è assolutamente vietata in concomitanza con assunzione
di alcol, in quanto si può verificare un collasso, con un grave malessere fino alla morte.
Inerente al problema alcol, soffermiamoci un po' nel cosiddetto mondo della forma:
l'alcolista è sempre perdente. L'atteggiamento dell'alcolista ha in sé il meccanismo del
perdente.
L'alcolista, infatti, quando comincia a bere solo un sorso, da quel sorso ricade
nell'alcolismo.
E' come se egli sfidasse la bottiglia, che è sempre vincente. L'alcolista è convinto di
poter bere piccole quantità senza cadere nell'alcolismo; vuole cioè dimostrare di essere
un "forte".
E' come se lanciasse una sfida contro la bottiglia. Gli alcolisti anonimi hanno come
prima regola quella di convincere il soggetto di essere un perdente, ponendo così fine a
questa "simmetria" che esiste fra l'alcolista e la bottiglia.
Disturbi correlati all'assunzione di anfetamine
Col tempo le anfetamine danno luogo a dei deliri di persecuzione; i pazienti che
utilizzano questi farmaci hanno inizialmente un effetto positivo (la loro mente funziona
bene), però per poco tempo. Finita l'azione, si ha l'effetto contrario. Inoltre le
anfetamine perdono efficacia nelle somministrazioni protratte, per cui il soggetto
continua a star male nonostante prenda dei farmaci.
Disturbi correlati alla caffeina
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Anche i pazienti possono bere una quantità modica di caffè (3 o 4 tazzine); esistono
soggetti, però, che vanno incontro a caffeinomanie, ingerendo quantità enormi di caffè.
Disturbi correlati a sedativi, ipnotici o ansiolitici
Si tratta di farmaci comunemente utilizzati in psichiatria; è quindi considerevole un
effetto iatrogeno. E' possibile giungere a vere e proprie tossicodipendenze: ci sono
soggetti che arrivano ad assumere anche 40 compresse di TAVOR al dì.
Per inciso, quando si somministrano benzodiazepine non si può interrompere
bruscamente la loro somministrazione, ma occorre ridurre il dosaggio gradualmente
(rischio di astinenza).
I triciclici assunti in forti dosi sono letali.
In sospetto di iperdosaggio farmacologico, bisogna praticare una lavanda gastrica; il
soggetto va poi in terapia intensiva.
Demenza
E' possibile descrivere la demenza come la perdita dell'intelligenza, o come un
impoverimento del pensiero.
Tra le forme primitive di demenza vi è la malattia di Alzheimer. Esiste, di questa
malattia, una forma senile ed una pre-senile [?, NdR]. Si verifica una atrofia progressiva
della corteccia cerebrale con comparsa di certe formazioni definite placche senili, che
nel corso degli anni portano ad un vero e proprio sfacelo mentale.
Inizialmente la malattia si manifesta con piccoli disturbi della memoria (ad es., riporre il
sale al posto dello zucchero), ma poi si arriva progressivamente a non ricordare neanche
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gli avvenimenti recentissimi. Tutti i tre tipi di memoria sono compromessi o comunque
indeboliti. Il paziente arriva a non ricordare più nemmeno come si cammina, o come si
deglutisce; il danno al SNC è molto marcato. Il danno riguarda inizialmente la corteccia
frontale e temporale, e poi si estende a quella temporo-parieto-occipitale.
Attualmente è possibile una terapia con un inibitore dell'Ach-esterasi, che aumenta
l'attività colinergica che in questi pazienti è carente; ma va preso precocemente.
Inoltre nella demenza si ha un'alterazione del pensiero, con un'erroneo riconoscimento
della realtà. Il paziente può, ad es., rubare in casa, e pensare di essere stato derubato
poiché non trova più i suoi oggetti; è possibile lo sviluppo di spunti persecutori che
possono sfociare in veri e propri deliri di persecuzione.
Oppure, questa patologia può comportare un quadro depressivo; la RMN riesce ad
eliminare qualunque dubbio diagnostico. In realtà è vero anche il contrario, cioè soggetti
che sembrano dementi sono in realtà depressi.
Ad ogni modo, come complicanza della malattia di Alzheimer si possono avere come
complicanze deliri e depressioni dell'umore.
Avere un demente in casa comporta numerosi problemi, oltre a rappresentare un rischio
continuo (ad es., possono dimenticare il gas aperto). D'altra parte di solito il ricovero
peggiora la situazione. Un compromesso è rappresentato dal tener tranquillo il malato
con la somministrazione di neurolettici, ad es., LARGACTIL (clorpromazina).
Diversa dalla m. di Alzheimer è la demenza vascolare. In questa il soggetto è cosciente
che il suo cervello non funziona più, e questo gli causa una grande angoscia. Inoltre,
mentre la malattia di Alzheimer ha un andamento progressivo, in questa il
deterioramento è discontinuo; c'è un alternarsi di miglioramenti con peggioramenti.
Questo è dovuto al fatto che, quando si riossigenano i tessuti, si ha un miglioramento
del trofismo delle cellule nervose che riprendono a funzionare. La base della demenza
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vascolare è difatti un insulto ischemico cerebrale. Si tratta infatti di pazienti che possono
avere una anamnesi positiva per accidenti vascolari cerebrali, quindi hanno dei segni la
circolazione cerebrale non va bene, o la circolazione sistemica generale (ad es., infarto
del miocardio, problemi renali, ipertensione).
Altre demenze sono quella che consegue ad infezione da HIV, tipicamente nei soggetti
giovani, e quella che può conseguire ad un trauma cranico. Ancora, è possibile
osservare quadri demenziali nel Parkinson e nella corea di Hungtinton.
Quest'ultima malattia, su base ereditaria, è caratterizzata da movimenti coreici per
alterazione del sistema extrapiramidale; si associa spesso demenza. La malattia
esordisce intorno ai 30 anni, per progredire con diversa velocità negli anni successivi,
invalidando progressivamente il soggetto.
I neurolettici di vecchia generazione danno, come effetto collaterale, dei segni
parkinsoniani; questi farmaci possono essere utili nei coreici, in quanto portano ad una
normalizzazione degli squilibri biochimici extrapiramidali.
Disturbi mentali dovuti ad una condizione medica generale
I farmaci possono produrre dei disturbi anche mentali; anche farmaci che vengono
somministrati comunemente, quali i Calcio-antagonisti nei cardiopatici, possono portare
ad una certa apatia, o a mal di testa, che peggiorano la qualità della vita. E' importante,
quindi, prima di prescrivere un farmaco, porsi il problema se quel farmaco sia il più
giusto o se invece non sarebbe opportuno darne un altro che abbia meno effetti sulla
psiche.
Un esempio è la reserpina, utilizzata in psichiatria, conduceva ad una depressione vera e
propria a causa della deplezione di alcuni neurotrasmettitori.
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Schizofrenia
Nella schizofrenia c'è un 40% di predisposizione genetica ed un 60% di etiologia
ambientale; studi effettuati su gemelli monovulari hanno mostrato che l'ammalarsi
dell'uno coincide solo nel 40% dei casi al fatto che anche l'altro si ammali.
Si tratta di un quadro clinico che generalmente inizia in giovane età. Si distinguono
varie forme di schizofrenia:
1. schizofrenia di tipo paranoide; qui prevalgono i deliri (ad esempio, i deliri di
persecuzione, in cui il soggetto vede il mondo come contro di sé). Questi soggetti
hanno pertanto una visione del mondo diversa da quella delle altre persone;
2. schizofrenia di tipo disorganizzato; è caratterizzata dalla dissociazione mentale, cioè
dal fatto che questi soggetti hanno un cosiddetto "pensiero scucìto", che li porta ad
avere discorsi incoerenti. Quando una persona normale parla e fa un discorso ha
sempre una meta, che viene raggiunta attraverso una serie di passaggi, organizzati
da un punto di vista linguistico, secondo tutta una serie di regole. Il non rispettare
queste regole rende il discorso privo di senso, come nel caso di questi soggetti i
quali, peraltro, non presentano neanche una coerenza per quanto riguarda i
comportamenti;
3. schizofrenia di tipo catatonico; è caratterizzata dai disturbi della psicomotilità. Noi
sappiamo che nel soggetto normale vi è un collegamento tra "progetto" e "azione"; il
rapporto esistente può alterarsi per un disturbo della volontà, venendo così a
mancare un qualcosa che fa passare dal progetto all'azione. I soggetti catatonici,
infatti, sono come completamente privi di volontà: in qualsiasi posizione vengano
messi, essi rimangono come statue di cera, e quindi come se la volontà non esistesse
più. In altri casi si osservano fenomeni di tipo opposto, cioè i soggetti si comportano
in maniera esattamente contraria (se ad es., si cerca loro di allungare un braccio,
questi lo retraggono), ponendo in essere un comportamento di antitesi. Oppure, in
altri casi, essi sembrano costretti a ripetere in continuo la stessa azione (ad es.,
cantare lo stesso ritornello, o effettuare sempre lo stesso movimento - in questo caso
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si parla di stereotipia -), e il modo di parlare è quasi inumano (come se fossero dei
grandi attori);
4. schizofrenia di tipo indifferenziato; quando non c'è nessuna di queste caratteristiche;
5. schizofrenia di tipo residuo; si tratta di una forma di schizofrenia che, non guarendo
del tutto - cosa che accade soltanto nel 20% dei casi -, migliora ma lascia una mente
non del tutto normale; cioè restano degli aspetti patologici, ma essi sono molto
leggeri (è come se queste persone si fossero impoverite: l'eliminazione delle
allucinazioni, che sono presenti in tutte le forme di schizofrenia, sembra impoverire
la percezione). Si tratta in pratica di ciò che residua dalla fase acuta.
Nel tipo paranoide si verificano deliri, come quelli di persecuzione. Occorre essere
molto attenti ai termini da utilizzare. Non bisogna dire al paziente: "tu hai delirio di
persecuzione", ma: "tu vedi il mondo contro di te". Quest'ultima frase viene accolta
molto meglio, mentre la prima può apparire come un insulto.
In tutte le forme di schizofrenia molto spesso sono associate allucinazioni, soprattutto
uditive, come ad es., voci che insultano, che comandano, che parlano fra di loro con
varie tonalità.
Per fare diagnosi di schizofrenia si fa riferimento a vari criteri:
1. criterio clinico;
2. criterio funzionale;
3. criterio cronologico.
Da un punto di vista clinico, è possibile individuare nella schizofrenia due tipi di
sintomi, cosiddetti sintomi positivi e sintomi negativi. I sintomi positivi sono definiti da
alcuni autori come "aspetti della difesa mentale da parte del paziente", e consistono in
deliri,
allucinazioni,
eloquio
disorganizzato,
comportamento
grossolanamente
disorganizzato o catatonico. I sintomi negativi riguardano invece aspetti deficitari, e
sono riscontrabili nell' appiattimento dell'affettività, nell'alogia, nell'abulia. Tenendo
conto di questo, negli anni scorsi fu introdotta una tipizzazione della schizofrenia -
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tipizzazione che, in realtà, oggi comincia già ad essere superata - in due "tipi". La
schizofrenia tipo 1 e tipo 2. Nella "tipo 1" prevalgono i sintomi positivi e nella "tipo 2" i
negativi.
I sintomi positivi rispondono molto bene al trattamento neurolettico; non così avviene
invece per i sintomi negativi, perlomeno con i farmaci di non recentissima introduzione.
Nella "tipo 1" non vi sono reperti radiologici alterati, mentre nella "tipo 2" in alta
percentuale si osservano dilatazioni dei ventricoli laterali, soprattutto a carico del corno
temporale, insieme ad una atrofia della corteccia (una sede interessata è quella frontale).
In realtà questa distinzione va considerata più che altro come un modello operativo di
approccio al quadro schizofrenco; infatti dalla schizofrenia tipo 1 si può passare alla
tipo 2, ma non viceversa, poiché probabilmente la schizofrenia tipo 2 sarebbe la
cosiddetta schizofrenia di tipo residuo, cioè l'evoluzione deficitaria della schizofrenia
tipo 1.
Sintomi positivi
(caratterizzati da produzioni da parte del paziente)
allucinazioni (es., voci dialoganti fra loro)
delirio di persecuzione
"
di gelosia
"
di colpa
"
di grandezza
"
di influenzamento
"
di lettura del pensiero
"
di diffusione del pensiero
"
di inversione del pensiero
"
di furto del pensiero
comportamento bizzarro aggressivo
"
disinibito
"
stereotipato...
disturbo formale positivo del pensiero
deragliamento
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tangenzialità
incoerenza
illogicità...
Sintomi negativi
(deficit del soggetto)
appiattimento affettivo
riduzione dei movimenti spontanei
immobilità dell'espressione facciale
povertà della gestualità affettiva
perdita del contatto visivo
affettività inappropriata
alogia
con povertà dell'eloquio
a contenuti vaghi e astratti
apatia
deficit di pulizia ed igiene personale
anergia fisica
anedonia
asocialità
compromissione dell'attenzione
Da un punto di vista funzionale, la schizofrenia si caratterizza per una marcata riduzione
del funzionamento sociale, lavorativo, affettivo, sessuale.
Da un punto di vista cronologico, occorre osservare una durata di almeno 6 mesi, di cui
almeno uno con sintomatologia attiva.
Naturalmente per poter parlare di schizofrenia è necessario escludere altre condizioni,
quali i disturbi dell'umore o altre condizioni mediche.
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Ora, da tutti questi criteri diagnostici - riportati anche nel DSM IV - sembrerebbe che la
schizofrenia sia per definizione una malattia che non abbia una spiegazione etiopatogenetica.
La schizofrenia può avere vari tipi di decorso; il peggiore è quello che porta ad una
demenza progressiva; questo si verifica nel 30-40% dei casi, e si tratta di forme che non
rispondono né ai farmaci né alla psicoterapia. Un vecchio nome della schizofrenia è
infatti "demenza precoce", sebbene non tutti i casi osservati portino di fatto a demenza.
Un dato certo è invece che più la schizofrenia è precoce, tanto peggiore è la prognosi,
così come la prognosi peggiora con il perdurare più o meno a lungo dell'episodio
psicotico. In pratica, ci sono degli indicatori che permettono, per grandi linee, di predire
l'evoluzione della malattia.
Nella schizofrenia la terapia fondamentale è costituita dai neurolettici. Ce ne sono
moltissimi, ad esempio SERENASE (aloperidolo).
In che termini si può parlare di guarigione della schizofrenia? In passato si riteneva che
esistesse una schizofrenia a prognosi favorevole e una a prognosi sfavorevole; altri
invece sostenevano che la schizofrenia fosse solo quella inguaribile: se guariva non era
schizofrenia.
In realtà dalla schizofrenia si guarisce; è comunque un disturbo cronico, che deve durare
almeno sei mesi. Nel 10% dei casi la malattia scompare senza trattamento.
L'impressione è che ci sia come uno spegnimento del processo schizofrenico: dopo 5-10
anni c'è uno spegnimento dei disturbi.
Nei paesi del terzo mondo la prognosi è migliore rispetti ai paesi più civili, e questo
perché nei paesi sviluppati c'è una aspettativa infausta maggiore che influenza la
prognosi stessa. Nei paesi più poveri, invece, c'è una visione più arcaica della follia, più
accettabile, tollerabile.
Note:
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Nel delirio di influenzamento il paziente prova l'esperienza soggettiva che le sue
sensazioni od azioni siano controllate da qualche forza esterna.
Sappiamo che i disturbi del pensiero possono riguardare la FORMA del pensiero, cioè il
"come il pensiero si articola" oppure il CONTENUTO del pensiero (si tratta dei deliri).
Molta della sintomatologia negativa può essere ricondotta al trattamento neurolettico.
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Disturbi psicotici
Disturbo schizofreniforme
Prima di parlare di schizofrenia è necessario che vi sia un decorso dei disturbi osservati
abbastanza prolungato. Prima di 6 mesi non si può parlare di schizofrenia. Se l'episodio
è acuto e dura poco tempo si parla di disturbo schizofreniforme.
Disturbo schizoaffettivo
Si tratta di un quadro misto in cui ci sono degli elementi caratteristici della schizofrenia
ed altri elementi che sono invece caratteristici di altri disturbi affettivi.
Disturbo delirante
In passato definito come paranoia, è caratterizzato da un delirio allo stato puro. Non vi
sono né allucinazioni né dissociazione del pensiero. C'è invece il delirio, che ne è
l'aspetto dominante. I deliri possono avere molti temi:
1. erotomania, cioè il delirio di essere amati da personaggi importanti;
2. di grandezza, in cui ci si sente delle persone molto importanti, quasi divine;
3. di gelosia, nei confronti del coniuge e basata su cose inesistente; il più delle volte è
rivolta anche verso persone anziane, e quindi immotivabile;
4. di persecuzione, quando ci si sente perseguitati, e il mondo appare come contro il
soggetto (ad es., il soggetto riferisce che c'è qualcuno che vuole ucciderlo, o che
vuole fare del male a lui e alla sua famiglia);
5. di tipo somatico, cioè un delirio riferito al corpo
Disturbo psicotico breve
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Un episodio psicotico dalla brevissima durata, anche di pochi minuti.
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Disturbi dell'umore
L'umore è lo stato affettivo basale, abituale, che influenza costantemente l'esistenza di
ogni individuo.
L'umore è quindi lo stato emozionale interno di un individuo, che ne condiziona la
qualità e l'intensità dei vissuti, oltre che la attività cognitiva, volitiva e
comportamentale.
L'umore pertanto, inteso come emozione duratura che colora l'intero stato psichico, ha
un proprio tono (una propria caratteristica di espressione, cioè il tono dell'umore), che
può presentarsi alterato: o nel senso di una deflessione (condizioni depressive) o nel
senso di una esaltazione (mania, ipomania). Per definizione, le emozioni sono stati
affettivi di breve durata, reattivi, a brusca insorgenza, mentre le passioni sono i
sentimenti, cioè componenti dell'affettività più duraturi e stabili.
Disturbi depressivi
Sono disturbi in cui vi è un abbassamento del tono dell'umore. Si distinguono:
1. disturbo depressivo maggiore; in questo l'entità della depressione è molto forte. Può
mostrarsi come un episodio singolo (un solo episodio nella vita, e poi sta bene)
oppure può essere ricorrente, con episodi di depressione circoscritti nel tempo e
periodici;
2. disturbo distimico; si tratta di un disturbo depressivo non così forte come la
depressione maggiore, ma più leggero e cronico; esso infatti deve durare non meno
di due anni. Dunque è una depressione leggera ma costante, che quasi sfuma con la
personalità depressiva;
3. disturbo depressivo Non Altrimenti Specificato (NAS).
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Si possono osservare disturbi della sfera neurovegetativa, come debolezza, insonnia,
inappetenza. Naturalmente il paziente può presentare una facies "triste".
Nella depressione maggiore vi possono essere dei deliri, come il delirio ipocondriaco
(cioè la convinzione, la certezza incorreggibile, di avere una malattia fisica), o il delirio
di rovina (la convinzione che la famiglia andrà in rovina economica, tanto da non poter
più mangiare), o il delirio di colpa (il soggetto si sente colpevole di diverse cose; a volte
questo delirio è molto grossolano, ad es., il soggetto si sente colpevole di tutti i mali del
mondo). Nella depressione maggiore vi possono essere questi tre tipi di delirio (di
colpa, di rovina, ipocondriaco).
Criteri diagnostici per l'episodio depressivo maggiore: cinque (o più) dei seguenti
sintomi sono stati contemporaneamente presenti durante un periodo di tempo di due
settimane e rappresentano un cambiamento rispetto al precedente livello di
funzionamento; almeno uno dei sintomi è costituito da umore depresso o perdita di
interesse/piacere. Non bisogna includere i sintomi chiaramente dovuti a una condizione
medica generale o a deliri o allucinazioni interagenti con l'umore. I sintomi sono:
1.
umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno, come riportato
dal soggetto, o come osservato da altri; nei bambini e negli adolescenti l'umore può
essere irritabile;
2.
mancata diminuzione di interesse o piacere per tutte, o quasi tutte, le attività per la
maggior parte del giorno, quasi ogni giorno, come riportato dal soggetto o asserito
da altri;
3.
significativa perdita di peso in assenza di dieta o significativo aumento di peso (per
es., un cambiamento di più del 5% del peso corporeo in un mese), oppure
diminuzione dell'appetito quasi ogni giorno; nei bambini bisogna considerare
l'incapacità di raggiungere i livelli ponderali attesi;
4.
insonnia o ipersonnia quasi ogni giorno;
5.
agitazione o rallentamento psicomotorio quasi ogni giorno (asserito dagli altri, e
non semplicemente sensazioni soggettive di essere irrequieti o rallentati);
6.
faticabilità o mancanza di energia quasi ogni giorno;
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7.
sentimenti di autosvalutazione oppure sentimenti eccessivi, inappropriati di colpa
(possono essere deliranti) quasi ogni giorno (non semplicemente autoaccusa o
sentimenti di colpa per il fatto di essere ammalato);
8.
diminuzione della capacità di pensare o di concentrarsi, o difficoltà a prendere
decisioni quasi ogni giorno (come impressione soggettiva o osservata dagli altri);
9.
ricorrenti pensieri di morte (non solo paura di morire), ricorrente ideazione suicida
senza elaborazione di piani specifici, oppure un tentativo di suicidio o
l'elaborazione di un piano specifico per commettere il suicidio.
Dunque vi sono aspetti fisici (perdita di peso, insonnia, faticabilità), e aspetti cognitivi
(perdita di capacità decisionale, pensieri di morte, sensi di colpa).
Generalmente una depressione maggiore dura almeno 1-2 mesi; la durata dipende anche
dalla latenza della azione farmacologica, che quando si attua migliora la sintomatologia.
Nel caso della depressione maggiore, il 25% dei soggetti trattati guarisce, il 50% si cura
bene ("responder"), il 25% non reagisce né a terapie farmacologiche, né ad approcci
psicoterapici.
Nei disturbi depressivi la terapia fondamentale è costituita dagli antidepressivi:
triciclici, inibitori del reuptake della serotonina (SSRI), e altri ancora.
Tra i triciclici il più importante è ANAFRANIL (clorimipramina). Circa la
somministrazione di questo farmaco ci sono diverse scuole di pensiero. Se non si ha
fretta si dà un confetto da 10 mg la mattina e un altro alla sera. Dopo 3 giorni i confetti
da utilizzare passano a 25 mg (1 da 25 mg la mattina, 1 altro da 25 mg la sera). Dopo
una settimana, ancora, i confetti passano a 3, introducendo un altro confetto da 25 mg a
mezzogiorno. Quest'ultimo è il dosaggio terapeutico (75 mg/die). ANAFRANIL
(crorimipramina) va associato a un ansiolitico, EN (delorazepam) in gocce: 8 gtt la
mattina, 8 gtt a mezzogiorno, 8 gtt alla sera. Nel caso di depressione maggiore
ricorrente non si somministra l'ansiolitico, ma solo il farmaco antidepressivo. Con
questo trattamento il miglioramento è previsto dopo un mese, e di ciò il paziente va
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informato. Ottenuto il miglioramento la cura va mantenuta per almeno 6 mesi, dopo i
quali si "scende" molto lentamente. Da 3 cpr di ANAFRANIL (clorimipramina) da 25
mg si passa a 2 cpr per alcuni mesi, e poi ad 1 cpr per altri mesi; in molti casi si lascia 1
cpr da 25 mg per sempre.
Di SSRI ce ne sono molti. Ricordiamo SEROXAT (paroxetina). Si prescrive 1 cpr e
dopo 7-8 giorni se non sono stati ottenuti miglioramenti si passa a 2 cpr; in ogni caso
non si superano le 2 cpr/die (cioè 40 mg/die). PROZAC (fluoxetina) si somministra in 1
cpr singola e si associa a LARGACTIL (clorpromazina), poiché da solo, in certi casi,
può dare stati di eccitazione.
Dosaggi di alcuni farmaci antidepressivi:
1. LAROXYL (imipramina) - 150-300 mg/die;
2. ANAFRANIL (clorimipramina) - 45-100 mg/die;
3. Tranilcipromina - 10-20 mg/die;
4. Fenelzina - 45-75 mg/die;
5. PROZAC (fluoxetina) - 5-10 mg/die;
6. SEROXAT (paroxetina) - 20 mg/die;
7. DUMIROX (fluvoxamina) - 150 mg/die.
Disturbo disforico premestruale
Fa parte dei disturbi depressivi Non Altrimenti Specificati (NAS). Presente nella
maggior parte dei cicli durante l'anno con sintomi (umore modestamente depresso, ansia
marcata, labilità affettiva marcata, ridotto interesse per le attività) che si presentano
regolarmente durante l'ultima settimana della fase luteinica, con remissione entro pochi
giorni dall'inizio delle mestruazioni. Questi sintomi devono essere abbastanza gravi da
interferire marcatamente con il lavoro, la scuola o le attività abituali, ed essere
completamente assenti per almeno una settimana dopo le mestruazioni.
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La disforia premestruale riconosce una etiologia ormonale, come un aumento del
rapporto Estrogeni/Progesterone, o un aumento dell'influenza degli ormoni sui neuroni
aminergici. Un'altra depressione su base ormonale è quella post-partum, che si verifica
al momento della montata lattea.
Disturbo bipolare
E' caratterizzato da periodi di depressione e periodi di eccitamento. E' detto bipolare
perché il soggetto si muove tra una tonalità dell'umore all'altra, e quindi va da un ton
dell'umore depresso ad un tono dell'umore molto elevato, e cioè a periodi di eccitamento
maniacale.
Per quanto riguarda la fase maniacale, è importante che il paziente conosca è riconosca
gli indicatori del disturbo, cioè i sintomi premonitori, che sono insonnia, disinibizione e
aumento di energia, in modo da iniziare subito la terapia (che è costituita
fondamentalmente dal litio).
Anche questo disturbo bipolare può essere un singolo episodio oppure presentare varie
possibilità:
1. andamento bipolare (classico), cioè D (depressione) - M (mania) - D - M - D - M ecc;
2. casi di M - M - M - M - M - M - M - ecc;
3. casi di D - M - M - D - M - M - D - ecc;
4. depressioni forti con manie leggere.
Ciò che caratterizza comunque questo quadro è la variazione notevole del tono
dell'umore.
Per i disturbi bipolari la terapia è basata sugli stabilizzanti dell'umore, che rendono
l'umore stabile. Questi farmaci sono fondamentalmente tre. Il LITIO, che il realtà è
carbonato di litio, è uno di essi; va somministrato in dosaggi talchè la quantità nel
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sangue sia compresa tra 0,6 e 1 mEq. Concentrazioni inferiori a 0,6 mEq non servono a
niente, superiori a 1 mEq possono intossicare. Si inizia con certi dosaggi bassi e poi si
sale, finchè nel sangue non arriva a questi livelli.
Il litio viene somministrato in capsule da 300 mg. Si inizia con il somministrare 2
cpr/die, una al mattino, una alla sera. Dopo una settimana, a 12 ore dall'ultima
somministrazione, si valuta la concentrazione di litio nel sangue e si vede se il livello
minimo (cioè 0,6 mEq) è stato raggiunto. Di solito con 2 cpr non si arriva, e quindi si
sale a 3 cpr/die, e quindi si valuta nuovamente la litiemia. Se neanche in tal modo si
raggiunge il valore minimo, si procede a somministrare 4 cpr, 2 al mattino e 2 alla
pomeriggio (2+2). Il nome commerciale del litio carbonato è CARBOLITHIUM.
Il litio è efficace anche durante gli episodi di eccitamento maniacale, poiché li spegne.
Questi periodi sono molto fastidiosi dal momento che i pazienti non vogliono curarsi,
sentendosi in forma perfetta; spesso interrompono la cura. Per questo occorre che
imparino a riconoscere i segni premonitori della fase maniacale.
Nell'attesa che il litio raggiunga le concentrazioni adeguate e quindi manifesti i suoi
effetti si somministrano dei neurolettici; si "fa" la cosiddetta "triplice", e cioè:
1. una fiala di SERENASE (aloperidolo);
2. una fiala di DISIPAL (orfenadrina);
3. una fiala di LARGACTIL (clorpromazina).
In realtà anche le benzodiazepine, e.v. o i.m., aiutano molto. L'importante è calmare
subito queste persone, poiché nelle fasi maniacali sono capaci di tutto e sono molto
pericolosi; sono superficiali, e hanno mancanza critica.
Altri stabilizzanti dell'umore sono il TEGRETOL (carbamazepina) e il DEPAKIN
(sodio valproato), che in realtà sono antiepilettici. Vanno in realtà utilizzati quando il
litio non è tollerato o è inefficace.
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Nella fase maniacale si somministrano litio e neurolettici. Nella fase depressiva invece
si danno antidepressivi e stabilizzanti dell'umore; questa associazione è indispensabile,
poiché se si fa a meno degli stabilizzanti dell'umore il paziente va in crisi maniacale
iatrogena.
Disturbo ciclotimico
Si tratta di un disturbo che ha la caratteristica di avere una andamento per cui ci sono
periodi in cui l'umore è elevato e altri in cui è più basso, però rispetto al disturbo
bipolare le "escursioni" del tono dell'umore sono molto più leggere. Secondo il DSM IV
il disturbo ciclotimico fa parte dei disturbi bipolari.
Psicoterapia nei disturbi dell'umore
Nei disturbi dell'umore alla terapia farmacologica bisogna sempre associare la
psicoterapia fatta da uno psicoterapeuta e finalizzata a far sì che il paziente conosca la
sua mente; esistono diversi approcci (psicoanalisi, psicoterapie psicodinamiche, terapia
cognitivo-comportamentale, terapia relazionale, terapia interpersonale - quest'ultima è
poco usata in Italia).
Circa la terapia relazionale, bisogna dire che qui a Bari è privilegiata ed è considerata la
prima terapia. Il contesto di vita nel quale queste persone vivono è fondamentale. Nelle
forme bipolari il coniuge conosce la situazione e può riconoscere i segnali premonitori,
aiutando così il terapeuta. Le situazioni che vanno a finir meglio sono quelle in cui
collabora il coniuge.
Anche nella semplice visita psichiatrica, oltre ai farmaci, bisogna dare qualcosa in più.
Quando si convoca la famiglia si danno alcuni consigli:
1. non minimizzare;
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2. non appellarsi alla volontà del paziente; questi soggetti hanno un super-io
gigantesco ad appellarsi alla loro volontà significa schiacciarli. Va detto che il 18%
dei depressi profondi si suicida;
3. ciò che bisogna fare è comportarsi da testimoni partecipi, cioè ascoltare e non dire
nulla.
I familiari devono collaborare, per non portare il processo alla cronicizzazione.
La Scuola di Bari tende a non fare un discorso di "causa/effetto", poiché la ricerca delle
cause appare inutile. E' invece necessario ascoltare il discorso degli altri e concentrarsi
sulla sofferenza di quel momento.
C'è un modello, un programma, in cui vi sono dei movimenti oculari da seguire; nel
frattempo il paziente cerca di rivivere la sua sofferenza, ma non può farlo poiché è
operativo, e non può fare due cose contemporaneamente. Questo serve per riorganizzare
la mente del malato.
Depressione e infarto del miocardio
L'antica scissione tra soma e psiche è in realtà un artificio mentale; si tratta infatti di due
aspetti diversi di un'unica entità. Vedremo infatti quali strette connessioni ci siano tra
depressione (psiche) e infarto del miocardio (soma).
E' stato fatto uno studio su 2000 persone per 13 anni; si è visto che l'8% delle persone
che, tra queste, avevano sofferto di depressione maggiore, e il 6% di chi aveva avuto
una depressione più leggera, aveva avuto un infarto, contro il 3% degli altri (cioè di
coloro i quali non avevano mai sofferto di depressione): una correlazione significativa.
Raffinando meglio lo studio si vede come i soggetti che avevano avuto una depressione
maggiore avevano una probabilità 4 volte maggiore di sviluppare un infarto del
miocardio, rispetto ai soggetti che non avevano avuto depressione maggiore.
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La psiche ha dunque una influenza sul soma, ma è vero anche il contrario, cioè
condizioni patologiche che riguardano il soma possono avere pesanti risvolti psichici
fino a sfociare nella patologia psichiatrica.
Il 10% di coloro che hanno avuto un infarto del miocardio va incontro ad una
depressione maggiore se il rilievo viene eseguito entro il mese successivo all'attacco
cardiaco. La percentuale sale al 34% de il rilievo viene eseguito ad un anno di distanza.
Questo perché all'infarto del miocardio segue un "infarto dell'Io", poiché persone che si
ritenevano invulnerabili vengono drammaticamente messe di fronte alla loro caducità,
ricevendo così una grave ferita narcisistica. Solitamente gli infartuati appartengono ad
una categoria di individui che vuole emergere, dotati di notevole aggressività e che
investono molto nella loro figura, e per questo poi è facile che sviluppino una
depressione.
Quando un coniuge soffre d'infarto, l'altro va incontro a disturbi psichiatrici in misura
doppia rispetto alla popolazione di controllo, e otto volte superiore se è avvenuta la
morte del coniuge.
Interessante è anche notare il rapporto tra depressione e ricovero per infarto. Degli
infartuati ricoverati il 27,5% ha sofferto di uno o più episodi di depressione maggiore
nella storia passata. DI questi il 7,7% è depresso nell'anno precedente l'infarto. Di
questa popolazione il 31% sviluppa una depressione nel ricovero in ospedale o nell'anno
successivo alla dimissione. In un campione di 70 persone:
1. 35 depressi durante il ricovero;
2. 30 depressi nel periodo fra la dimissione e 6 mesi;
3. 5 depressi nel periodo fra i 6 e i 12 mesi dalla dimissione.
Anche la cardiochirurgia è correlata con la depressione: il 61% dei pazienti che subisce
un intervento cardiochirurgico al cuore è depresso.
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Le persone anziane possono tendere ad una depressione ingravescente. Per quanto visto
subito prima, peraltro, in loro la possibilità di infarto, di ictus o di morte aumenta molto
significativamente.
Depressione e farmaci
Possono dare depressione iatrogena farmaci cardiovascolari (alfa-metildopa, reserpina,
propranololo,
digitale,
clonidina,
tiazidici,
guanetidina),
farmaci
neurologici
(amantadina, carbamazepina, levodopa), psicotropi (benzodiazepine, barbiturici,
neurolettici), antineoplastici, steroidi, FANS, altri (metoclopramide, ranitidina, cocaina,
anfetamine).
Una domanda interessante è: "è possibile associare antidepressivi tra loro?". In genere
all'inizio si usa un antidepressivo da solo, ad esempio un triciclico: se dopo un mese non
ci sono effetti, allora si può provare un altro antidepressivo, un SSRI, aumentando
gradualmente il dosaggio senza mai superare le dosi terapeutiche. Le asociazioni di più
antidepressivi sono pericolosissime e anche mortali: non è possibile associare
ANAFRANIL (clorimipramina) e SEROXAT (paroxetina). Per quanto attiene gli SSRI
è da evitare l'interazione con gli I-MAO (farmaci inibitori delle MonoAminoOssidasi,
un'altra categoria di antidepressivi assieme ai triciclici e agli SSRI), a causa della
possibilità di indurre una sindrome serotoninergica potenzialmente fatale a seguito di un
aumento eccessivo della serotonina (gli SSRI ne bloccano il re-uptake, gli I-MAO ne
impediscono la degradazione).
In cosa consiste la sindrome serotoninergica?
In vari sintomi:
1. crampi addominali, meteorismo, diarrea;
2. tremore, mioclono, disartria, incoordinazione motoria, ipereflessia, Babinski+;
3. tachicardia, ipertensione;
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4. eccitamento, confusione, disforia, stato maniacale;
5. ipertermia;
6. collasso cardiocircolatorio che porta a morte.
Sempre per quanto riguarda gli SSRI, c'è da dire che SEROXAT (paroxetina) ha un
maggior tendenza alle interazioni farmacologiche rispetto a PROZAC (fluoxetina) o a
SEROD (sertralina); queste interazioni possono verificarsi con vari farmaci, anche di
uso internistico, che al pari di essa vengono metabolizzate dall'enzima epatico cytP450.
Ad esempio TAGAMET (cimetidina) può aumentare le concentrazioni di SEROXAT
(paroxetina).
Riguardo agli I-MAO la pericolosità risiede nel cosiddetto "effetto formaggio" legato
alla tiramina, una monoamina che non potendo più essere metabolizzata si accumula,
dando crisi ipertensive importanti, anche fatali.
Fonti di tiramina sono: vino Chianti, birra, formaggi fermentati, minestre conservate [?],
concentrati di cardne, fegato, selvaggina, aringhe, fichi conservati, fave, cioccolato,
banane. Per lo stesso motivo non si possono somministrare insieme I-MAO e
simpaticomimetici.
Come dissuadere un paziente dal suicidio
(ricordati che tocchi il fondo, ma poi risali)
Ai pazienti che molto probabilmente - vista la loro condizione - potrebbero suicidarsi la
Clinica Psichiatrica consegna un piccolo testo contenente una serie di proposizioni che
dissuadono il paziente dal suicidio:
1. Prima di suicidarti pensaci bene, e renditi conto della reale situazione in cui ti trovi.
Spesso le soluzioni ai tuoi problemi sono vicine, anche se non ti sembra così.
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2. Ricordati che prima di trovarti nell'attuale situazione avevi pensato ai suicidi come a
dei pazzi; rifletti quindi del fatto che se tu ti suicidi gli altri ti riterrebbero un pazzo,
anche se questo non è vero perché sappiamo che chiunque viva ciò che tu stai
vivendo sarebbe legittimato a pensare al suicidio. Ad esempio, ricordi il generale
Delfino? Ha tentato il suicidio prendendo la rincorsa e sbattendo la testa contro il
muro. Per una persona come lui, un carabiniere, che ha una struttura di personalità
rigida, l'aver reso di pubblico dominio la sua vicenda giudiziaria e stato causa di una
tensione "invincibile".
3. Non tenere i problemi per cui vorresti morire chiusi dentro te stesso; la soluzione
dei problemi nasce sempre dall'interazione con altri.
4. Se il motivo per cui ti vuoi suicidare è la solitudine, noi conosciamo delle tecniche
per risolvere questo problema.
5. Vi sono cose che fanno male a tutti, che bruciano. Non è sbagliato essere depressi,
non è stupido essere depressi, non è un peccato essere depressi: è solo una maniera
umana di reagire agli eventi di cui tutti noi sofriamo. Ricorda però che la
maggioranza delle depressioni scompaiono da sole, e che comunque anche quelle
che hanno una forte componente biologica possono essere curate facilmente.
Ricorda che la maggior parte dei depressi guariscono entro sei mesi, con o senza
trattamento, e che se prendi dei farmaci questi ti tireranno fuori in poche settimane.
6. Se vuoi possiamo aiutarti anche a gestire la rabbia.
7. Se sei troppo disperato per sperare: coloro che hanno studiato scientificamente la
"disperazione appresa" hanno scoperto che le persone che sperimentano
ripetutamente e a lungo il fallimento imparano che qualsiasi tentativo facciano per
gestire la loro vita sono incapaci a gestirlo, entrando in depressione e in un altro
stato mentale, la disperazione, che alla depressione segue. E' la disperazione e non
tanto la depressione a farti desiderare la morte.
8. Attenzione: l'alcol può renderti improvvisamente disperato e farti suicidare. Non
permettere ad una bottiglia di prendere questa grave decisione su di te.
9. Il tuo istinto di sopravvivenza, che è più forte di qualsiasi tua volontà potrebbe
impedirti di morire; inoltre le circostanze potrebbero fare lo stesso. Il tuo
insuccesso, però, può segnarti a vita, e potresti sviluppare una menomazione
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persistente (paralisi, paraplegia). Stranamente questi soggetti una volta menomati
non tentano più il suicidio.
10. Il suicidio non riguarda solo te, potrebbe far male a chi ti sta attorno.
11. Il tempo guarisce. Infatti molti soggetti in lista d'attesa per un colloquio psichiatrico
in Ospedale non si presentano ai colloqui perché la crisi è passata.
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Disturbi d'ansia
Ci sono diversi quadri di disturbi d'ansia.
Attacchi di panico
Di che si tratta? Ci sono persone che, improvvisamente, vanno incontro ad uno stato di
malessere molto intenso, fino quasi a sentirsi morire; si realizzano disturbi
neurovegetativi, senso di soffocamento, di vertigine, di instabilità. Molto spesso questi
soggetti si recano al pronto soccorso, e possono dare l'impressione di avere un'angina in
atto. I disturbi durano poco ma sono molto intensi. Queste persone hanno sempre il
timore che tale "attacco" possa ricomparire (cosiddetta ansia di attesa).
Negli attacchi di panico il soggetto vive un periodo di intensa paura o disagio, durante il
quale quattro o più dei sintomi che seguono si sono sviluppati improvvisamente, ed
hanno raggiunto il picco in dieci minuti:
1. palpitazioni, cardiopalmo, tachicardia;
2. sudorazione;
3. tremori fini o a grandi scosse;
4. dispnea o sensazioni di soffocamento;
5. sensazione di asfissia;
6. dolore o fastidio al petto;
7. nausea o disturbi addominali;
8. sensazione di sbandamento, instabilità, di testa leggera o di svenimento;
9. derealizzazione (cioè sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (essere distaccati
da se stessi);
10. paura di perdere il controllo o di impazzire;
11. paura di morire;
12. parestesie (torpore o formicolio);
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13. brividi o vampate di calore.
Dunque una sintomatologia multiforme. E' importante quindi effettuare una corretta
diagnosi differenziale. Negli attacchi di panico c'è un quadro psichico specifico, in
quanto il paziente avverte un senso di catastrofe imminente, un'intensa ansia psichica,
paura di morire, di impazzire, di perdere il controllo. Errore possibile nei periodi
intercritici è una tachicardia parossistica sopraventricolare.
Patologie psichiatriche associate a disturbi di attacchi di panico sono disturbi depressivi
(50%), fobici (40%), ossessivo-compulsivi, alcolismo, uso di sostanze stupefacenti.
L'associazione più tipica è con l'agorafobia.
Un po' con i farmaci, un po' con la psicoterapia e un po' con l'autogestione di queste
sensazioni i soggetti poi si sentono meglio. In sostanza, si tratta di quadri che si riescono
a curare con una certa efficacia. Il farmaco da utilizzare è XANAX (alprazolam), unica
benzodiazepina che funziona; gli ansiolitici non vanno bene, al massimo si danno
antidepressivi. XANAX (alprazolam) è una benzodiazepina ad emivita breve; il suo
dosaggio è 3-6 mg/die. L'alprazolam va dato all'inizio fino a quando non subentra
l'azione degli antidepressivi, evento che può verificarsi anche dopo un mese; è
possibibile utilizzare ANAFRANIL (crorimipramina) o SEROXAT (paroxetina), o altri
SSRI.
La guarigione completa si ha solo nel 10-20% dei casi, però l'evoluzione,
complessivamente, è favorevole, con occasionale comparsa di qualche crisi nel 50% dei
casi. La guarigione si ha anche perché il paziente, col tempo, impara a conoscere sé e il
proprio organismo.
L'ottimizzazione della visita psichiatrica negli attacchi di panico prevede:
1. Insegnamento di una respirazione più funzionale; l'espirazione completa aiuta
moltissimo dato che normalizza il ritmo respiratorio. Se notiamo bene, gli ansiosi
"respirano a metà";
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2. Esercizi per rinforzare il sistema neurovegetativo, per ridurre l'ipersensibilità del
proprio corpo. Un esercizio utile è quello in cui facciamo fare un certo numero di
respirazioni forzate al paziente, e questo entra in uno stato di malessere che gli
ricorda il panico. Noi calcoliamo quanti atti respiratori sono necessari per provocare
l'attacco. Supponiamo che essi siano 10. Piano piano gli facciamo aumentare il
numero delle respirazioni (11, 13, 15, etc.) regolarizzando il sistema
neurovegetativo;
3. Tecnica del "correre-correre", da utilizzare con l'aiuto della famiglia. In pratica si fa
l'opposto di ciò che si fa con l'infartuato, cioè si fa correre il paziente, così che in lui
l'organismo riprenda il funzionamento abituale;
E' importante ad ogni modo valutare quali esercizi consigliare prima di somministrare
un farmaco: lavorare nel biologico e nello psicologico dà sempre ottimi risultati.
Disturbi di panico con agorafobia
Sono situazioni in cui la persona, spaventata da un intenso stato di malessere (quello
dell'attacco di panico già descritto), finisce con l'aver paura ad uscire di casa (difatti
agorafobia significa "paura della piazza"). Queste persone non riescono ad uscire di
casa, ne hanno paura; a volte dicono di aver paura di stare in mezzo alla gente. Il non
poter uscire di casa rende queste persone prigioniere di sé stessi. Comunque il disturbo,
se curato, molto spesso scompare del tutto.
Abbiamo così presentato il quadro dell'agorafobia con disturbi di panico. Però esiste
anche un'agorafobia senza attacchi di panico. Oppure, ci sono casi di attacchi di panico
che vengono successivamente complicati da agorafobia, o, ancora, casi in cui c'è una
agorafobia "semplice" che poi si complica con attacchi di panico.
Nell'agorafobia l'ottimizzazione della visita psichiatrica prevede "uscite e rientri", nella
situazione che genera la fobia, programmati, e sempre più prolungati, eseguiti con
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controllo scritto circa il tempo di esposizione al fattore fobico; si cerca di aumentare
sempre più tale tempo di esposizione, fino a quando il soggetto guarisce.
Altre fobie e fobia sociale
Oltre all'agorafobia, ci sono tantissime altre fobie; possiamo fare qualche esempio,
come le fobie per gli animali, per il sangue, per i temporali o per i topi. In pratica
qualsiasi oggetto può diventare oggetto di fobia (cioè di paura).
Una forma interessante è la fobia sociale; si tratta di persone che, trovandosi in luoghi
affollati, ove c'è molta gente accalcata, siviluppano un senso d'ansia molto intenso, che
arriva a farli star male.
Disturbo ossessivo-compulsivo
Tutto parte da idee che persistono e che non si riesce a mandare via, radicate come sono
nella mente. Si possono associare a dei comportamenti che vengono definiti
"cerimonali"; queste persone, per compensare la situazione di disagio psicologico in cui
si trovano ricorrono a tecniche per stare meglio. Ad esempio, se hanno l'idea dello
sporco si lavano le mani per molte volte; a volte possono passare anche ore e ore in
bagno, con la conseguenza di perdere tempo e, cosa ancor più grave, di procurarsi gravi
danni alla cute.
Tutto questo succede perché quando costoro compiono un'azione, essi non sono
"presenti al 100%", ma "solo al 50%", per cui è necessario che l'azione venga sempre
ripetuta. Non vi è un totale investimento nella azione. Sono ossessionati dal dubbio, e il
dubbio è il fondamento di questa situazione. La personalità di questi soggetti è molto
scrupolosa, essi tendono sempre a controllare.
Disturbo post-traumatico da stress
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Quando una persona va incontro a degli stress molto forti (lutto, donne violentate, e così
via) si ha in sé una modifica. Queste persone hanno ogni tanto dei flash-back, cioè ogni
tanto viene loro in mente l'avvenimento stressante, e il suo ricordo, e poi hanno una
modifica del carattere che subisce, spesso, un irrigidimento.
Che fare in questi casi? Bisogna che questo trauma venga sviscerato fino in fondo,
esprimendo ciò che è successo e lo stato d'animo provato. Solo questo è in grado di far
uscire queste persone dalla situazione in cui si trovano. Esistono delle tecniche per
superare il problema.
Altri disturbi
Sono dati dal disturbi acuto da stress e dal disturbo d'ansia generalizzato, in cui l'ansia si
manifesta con sintomi fisici.
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Disturbi somatoformi
Disturbo di conversione
E’ quello che ai tempi di Freud veniva chiamato isteria. I soggetti affetti da disturbo di
conversione vanno incontro a disturbi fisici importanti di tipo funzionale, cioè senza un
danno anatomico vero e proprio (ad es., attacchi epilettici). Spesso si tratta di paralisi
che nascono dalla grandissima angoscia di questi soggetti, angoscia che trova una difesa
nel trasferimento (“conversione”) nel corpo. Infatti, questi soggetti diventano molto
tranquilli quando realizzano la paralisi, a differenza da ciò che avviene di norma. Con
questa “via di scarico” somatica i soggetti eliminano, con un meccanismo di difesa, la
loro ansia e la loro angoscia. Giusto il termine “conversione”, cioè convertire dallo
psichico al somatico (ansia – malattia fisica).
Anche per questo genere di disturbo la terapia si avvale di tecniche ben codificate. E’
possibile far regredire la paralisi molto velecemente agendo sulla motricità del soggetto:
la
paralisi,
con
queste
tecniche,
scompare
perché
il
paziente
non
può
contemporaneamente tenere il corpo paralizzato e muoversi [“…muoverlo sotto la
spinta di una protezione…”], per cui si sbloccano subito. Fatto questo, che serve per il
temporaneo, bisogna poi lavorare sul motivo di fondo che li porta alla conversione.
Il disturbo di conversione si può manifestare con:
1. sintomi o deficit motori;
2. attacchi epilettiformi o convulsioni;
3. sintomi o deficit sensitivi (es., anestesia isterica);
4. sintomatologia mista;
5. disturbo algico.
Nell’ambito dei disturbi di conversione si individuano anche altre patologie che un
tempo erano separate, poiché sono di origine molto diversa. Esse vengono illustrate qui
di seguito.
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Disturbo ipocondriaco
Si riferisce alla convinzione di avere una malattia fisica importante (tumori, malattie del
sangue, AIDS, e così via).
Disturbo dismorfico corporeo
Il soggetto vede il proprio corpo deformato, trasformato. Tale “costruzione propria”
deriva da un disturbo patologico che fa vedere il corpo in una certa maniera, deforme. A
volte arrivano a sottoporsi a interventi chirurgici per eliminare qualche difetto che
diventa fondamentale nella loro vita. Questo è un atteggiamento da scoraggiare, poiché
molto spesso dietro questo problema c’è una situazione psichica compromessa;
eliminando il problema queste persone vanno incontro a problemi psichici importanti.
Cosa succede, in realtà? Una convinzione forte, ben radicata nella mente, serve anche ad
eliminare le oscillazioni, le ambivalenze. Cioè, quando un individuo è ambivalente, è
insicuro: e allora, se vi è una convinzione assoluta, in lui viene eliminato il dubbio.
L’idea forte agisce come “attrattore”; se questo attrattore viene meno il soggetto
precipita nel dubbio e nella insicurezza. La convinzione forte, in questo caso, è quella di
avere un difetto corporeo. Se andiamo a eliminare il difetto corporeo, eliminiamo anche
la convinzione forte, che può darsi sia l’unica cosa che serva a mantenere integro il
resto della mente.
Il disturbo di dismorfismo corporeo si ha anche nelle anoressiche le quali si trovano a
descrivere, specialmente quando sono sole, il loro corpo in maniera del tutto irreale.
Disturbi fittizi
Detta anche “sindrome di Munchausen”, si tratta di condizioni per cui la persona ha la
necessità assoluta di essere considerata malata. La simulazione non avviene per
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vantaggio economico (ad es., per una pensione d’invalidità), ma solo per il bisogno
assoluto di far credere alla gente di essere ammalati. Sono bravissimi, tanto che se uno
non ci sta attento rischia di operarli; a volte sono veri e propri “collezionisti di
operazioni”. Riescono molto bene a ingannare i medici, perché fanno un lavoro molto
accurato, si documentano per bene e simulano. Possono simulare anche malattie
psichiatriche.
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Disturbi dissociativi
Sono un gruppo di fenomeni caratterizzati da un deficit del normale processo di
integrazione delle funzioni mentali, coscienza, memoria e identità. La funzione della
dissociazione è quella di proteggere il soggetto dall’angoscia connessa ad eventi della
realtà esterna o da impulsi disturbanti della realtà interna. La dissociazione così intesa è
diversa dalla dissociazione propria della schizofrenia, dove essa indica un processo di
profonda destrutturazione dell’intera personalità e dell’insieme delle sue funzioni
psichiche.
Amnesia dissociativa
E’ una perdita di memoria di tipo funzionale, senza una base anatomica (come invece
accade, ad es., nel morbo di Alzheimer).
Questi soggetti possono dimenticare alcuni episodi della loro vita, oppure tutta la loro
vita, mantenendo però le capacità apprese (ad es., leggere). Ci sono persone che dopo
l’amnesia si sono rifatte una vita completamente diversa. Il recupero di questi pazienti è
possibile, ma è solo parziale, e comunque ha bisogno di tempi lunghi.
Disturbi di depersonalizzazione
E’ il più frequente fenomeno dissociativo. Il paziente si sente osservatore di se stesso.
Manca “il calore del corpo” perché manca il fenomeno dell’unicità; si diventa “freddi
osservatori” e ci si sente come separati da se stessi, la realtà appare distante.
Esiste una depersonalizzazione rispetto a se stessi ed una rispetto alla realtà.
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Disturbo dissociativo dell’identità – Disturbo da personalità multipla
In questo disturbo in una persona convivono più identità che non si conoscono fra di
loro. Il prof. De Giacomo racconta: “Una volta ho curato una ragazza che in alcuni
periodi diventava come una bambina piccola, parlando, muovendosi e comportandosi in
modo incosciente, ad esempio scagliando oggetti. Fu curata dicendo ai genitori di
imitare il comportamento della ragazza durante la crisi; poi la ragazza doveva imitare se
stessa, nonostante non ricordasse niente, e così guarì”.
La storia dei disturbi da personalità multipla origina dal caso di una donna che accudiva
la madre ammalata che, prima di morire, cadde dal letto e fu da questa aiutata. Questo
episodio angoscioso fu dalla donna dimenticato, salvo rivivere in alcuni momenti quella
scena, rifacendo gli stesi gesti. La dissociazione è come una coscienza che si è staccata
dall’altra. Famoso è il caso di Anna O. raccontato da Freud.
Fuga dissociativa
I pazienti prendono il treno, vanno via, come una parte di sé si staccasse dal resto;
quando si riprendono è come se si risvegliassero, e tornano a casa.
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Disturbi di personalità
Si intende con questi specificare un certo modo di essere, cioè un qualcosa che è una
caratteristica dell’individuo, non una malattia. Si tratta di un qualcosa che è continuo
nella vita del soggetto; in questi disturbi vediamo elencate tutte le caratteristiche
dell’umanità. La normalità sarebbe l’equilibrio tra tutte queste situazioni. Naturalmente
ognuno di noi tende verso uno particolare di questi aspetti.
Disturbo paranoide
I pazienti non hanno un delirio vero e proprio, ma dei piccoli deliri (deliroidi), che gli
fanno vedere il mondo contro di loro.
Disturbo schizoide
Si tratta di persone ritirate nel loro mondo.
Disturbo schizotipico
Tipi bizzarri, che pensano alla magia, alla fattura, in modo esagerato. Hanno in minus le
caratteristiche della schizofrenia.
Disturbo antisociale
Criminali per tendenza che non provano alcun pentimento. Uccidono senza scrupolo e
nelle bande diventano i capi o, meglio, i killer.
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Disturbo borderline di personalità
Caratterizzato dalla grande variabilità anche nel giro di poche ore. Questi soggetti sono,
in minus, manico-depressivi. La loro caratteristica è l’incostanza. Anche la
considerazione che hanno di sé cambia nel tempo.
Disturbo istrionico
Vedono la vita come un palcoscenico, vivono per gli altri. Sono attori e mancano di
genuinità; stanno attenti a chi sta loro di fronte assumendo gli atteggiamenti secondo
loro richiesti dal momento.
Disturbo narcisistico
Vivono in funzione di una loro immagine ad alto livello (si vedono molto belli, molto
bravi, molto capaci) e organizzano la vita in modo da avere conferma del loro modo di
essere.
Non riescono ad amare, e gli altri esistono solo per una propria gratificazione.
Se, ad esempio, parlando con un altro, questo dà segno di annoiarsi, vanno in crisi,
poiché si accorgono di non riuscire a mantenere una immagine di alto livello, e a volte
possono anche tentare il suicidio. La cura si basa sulla terapia familiare.
Disturbo evitante di personalità
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Si tratta di grandi timidi, che evitano i contatti interpersonali per paura di subire
frustrazioni.
Disturbo dipendente di personalità
Sono i gregari, i sottomessi; persone che non hanno una capacità di iniziativa, e che
vivono in funzione dei capi.
Disturbo ossessivo-compulsivo
Rigidità di pensiero. E’ un disturbo più leggero del precedente [?]; c’è la tendenza a
mantenere la propria scrupolosità e, secondo Freud, sono avari. Lo psichiatra li
riconosce subito perché questi soggetti parlano in modo monotono, ed è seccante sentirli
parlare. Essi devono mantenere i loro programmi ed è inutile interromperli, anche
perché facendo così non si fa altro che contrariarli.
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Disturbi della sessualità
Si distinguono in disfunzioni sessuali e parafilie.
L’atto sessuale viene distinto in diverse fasi:
1. Desiderio; è caratterizzato dal fatto di voler praticare l’attività sessuale e dalle
fantasie sessuali;
2. Eccitazione; consiste in un soggettivo senso di piacere sessuale e nei cambiamenti
fisiologici associati (erezione del pene, lubrificazione e congestione dei genitali
esterni femminili);
3. Orgasmo; consiste in un picco di piacere sessuale che si accompagna
all’eiaculazione nel maschio, e alla contrazione dei muscoli pelvici perivaginali
nella donna;
4. Risoluzione; questa fase comprende un senso di rilassamento generale, di benessere
e di rilassamento muscolare. Durante questa fase gli uomini sono refrattari
all’orgasmo, mentre le donne possono avere orgasmi multipli senza un periodo
refrattario.
Disfunzioni sessuali
Le disfunzioni sessuali sono caratterizzate da un disturbo nei processi che costituiscono
il ciclo di risposta sessuale oppure da dolore nell’atto sessuale; si classificano in:
1. Ia classe = disturbi del desiderio, a loro volta classificati in disturbi del desiderio
ipoattivo (molto spesso la causa è la depressione) e in disturbi da avversione
sessuale;
2. IIa classe = disturbi dell’eccitazione, che comprendono i disturbi dell’eccitazione
sessuale maschile e quelli dell’eccitazione sessuale femminile;
3. IIIa classe = disturbi dell’orgasmo, ripartiti in disturbi dell’orgasmo maschile e
femminile e eiaculazione precoce;
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4. IVa classe = disturbi da dolore sessuale, classificati i disturbi da dolore sessuale e
vaginismo;
5. Va classe = disturbi sessuali dovuti a condizioni mediche generali; molti farmaci
prevedono una condizione di questo genere, come ANAFRANIL (clorimipramina).
Tutti questi disturbi sono curati abbastanza bene facendo lavoro di coppia mediante
terapia comportamentale senza ricorrere ai farmaci. Più difficili da trattare sono i
disturbi dell’eccitazione e dell’erezione.
Nel disturbo da desiderio sessuale ipoattivo le fantasie sessuali e il desiderio dell’attività
sessuale sono persistentemente o ricorrentemente carenti, se non del tutto assenti.
Nel disturbo da avversione sessuale vi è persistente o ricorrente estrema avversione ed
evitamento di tutti (o quasi tutti) i contatti sessuali genitali con il partner sessuale.
La prima condizione è più comune della seconda. Si stima che il 20% della popolazione
abbia un disturbo da desiderio sessuale ipoattivo. L’affezione è più comune tra le donne.
Il desiderio dipende da numerosi fattori quali: condotta biologica, adeguata autostima,
precedenti esperienze con il sesso, la disponibilità di un partner appropriato, buoni
rapporti con il proprio partner in campi non sessuali. Il deterioramento di uno qualsiasi
di questi fattori può risultare in una diminuzione del desiderio.
I pazienti con problemi di desiderio spesso usano l’inibizione del desiderio come difesa
per proteggersi dalle paure inconsce del sesso. Non tralasciamo di ricordare che la
mancanza di desiderio può conseguire ad una depressione, e dunque i disturbi del
desiderio vanno sempre affrontati dallo psichiatra.
Il disturbo dell’eccitazione sessuale maschile consiste in un disturbo dell’erezione,
caratterizzato dall’incapacità ricorrente o persistente, parziale o completa, di
raggiungere o mantenere un’erezione fino al completamento dell’atto sessuale;
rappresenta il 55% dei disturbi sessuali maschili.
Il disturbo dell’eccitazione sessuale femminile consiste nell’incapacità persistente o
ricorrente, parziale o completa, di raggiungere o mantenere la risposta “lubrificazioneturgore” dell’eccitazione sessuale fino al completamento dell’atto.
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Questi disturbi – così come le altre disfunzioni sessuali - possono essere curati con una
terapia comportamentale per la quale non bisogna avere remore morali, in quanto si
tratta di atti terapeutici.
Nel maschio l’impotenza potrebbe dipendere dal considerare e limitare la sessualità ai
soli organi genitali; in realtà numerose reazioni neurovegetative, quali l’aumento della
frequenza cardiaca, l’iperpnea, la sudorazione, testimoniano che l’atto sessuale è
compiuto con tutto il corpo, e con tutta la mente, che è focalizzata sul rapporto. Dunque
è importante che i soggetti impotenti mutino concezione della sessualità attraverso degli
esercizi, detti “di focalizzazione primaria e secondaria”, dove per “focalizzazione” si
intende “concentrare l’attenzione”:
1. I due partner devono carezzarsi reciprocamente su tutto il corpo e in tutte le
maniere, concentrandosi sulle sensazioni provate; all’inizio non bisogna includere i
genitali;
2. Quando l’uomo ha “imparato” ad avere un’erezione completa potrà avvenire una
copula, anch’essa finalizzata al riconoscimento delle sensazioni provocate;
3. Le posizioni che i partner avranno sono, in sequenza: donna a cavalcioni, posizione
laterale, uomo sopra/donna sotto.
La prevalenza del disturbo dell’eccitazione nella donna è sottistimata; spesso a questo si
associa anche un disturbo dell’orgasmo (anorgasmnia). Questo disturbo dipende da una
particolare concezione psicologica del rapporto: in queste donne manca il collegamento
tra psiche e organi genitali, in più il maschio è considerato come un “prepotente”; si
tratta di due blocchi psicologici che bisogna vincere. La donna dovrà:
1. Guardare i propri genitali allo specchio;
2. Stimolare il clitoride;
3. Masturbarsi di fronte al partner;
4. Le posizioni che i partner avranno sono, in sequenza: donna a cavalcioni, posizione
laterale, uomo sopra/donna sotto.
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Il disturbo dell’orgasmo femminile consiste in un persistente o ricorrente ritardo o
assenza dell’orgasmo dopo una fase di eccitazione sessuale normale. Per vincere le
difficoltà nell’orgasmo femminile, la donna interessata farà degli esercizi finalizzati
all’esercizio dei muscoli interessati all’orgasmo; tali esercizi consistono nel trattenere
l’urina, rilasciarla e poi di nuovo trattenerla, sempre a cavalcioni del partner.
L’eiaculazione precoce, che costituisce il 45% dei disturbi sessuali maschili, è una
persistente o ricorrente eiaculazione a seguito di minima stimolazione sessuale prima,
durante o poco dopo la penetrazione, e prima che il soggetto lo desideri. Tale disturbo in
questi soggetti si realizza perché è come se fossero sopraffatti dalla bellezza della
partner.
In questi casi bisogna agire con esercizi che consentano a queste persone di imparare a
controllare l’eiaculazione stessa:
1. La donna masturberà l’uomo fermandosi quando questo sta per eiaculare; quindi la
pratica viene ripresa fino al segnale successivo, e così via;
2. Successivamente potranno essere utilizzati lubrificanti che simulino il liquido
vaginale;
3. Le posizioni vengono variate secondo il già detto schema; la donna “si ferma” prima
dell’eiaculazione del partner.
Il vaginismo è un persistente o ricorrente spasmo involontario della muscolatura del
terzo esterno della vagina, che interferisce con il rapporto sessuale interferendo con la
penetrazione del pene.
Si tratta di donne che hanno paura del sesso e della penetrazione; vi è un rapporto
conflittuale di opposizione verso il sesso. Il pene può essere visto come un’arma ed è
spesso associato al peccato. Anche in questo caso è possibile una terapia
comportamentale:
1. La donna guarda allo specchio i propri genitali;
2. La donna si masturberà usando prima un dito, quindi due, poi tre;
3. La donna si farà poi masturbare dal partner;
4. A questo punto può iniziare una graduale penetrazione.
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Si vede bene che per tutti questi problemi è fondamentale l’approccio relazionale; senza
questo tipo di approccio le situazioni non si sbloccano. Quindi la collaborazione tra i
due partner, la concordia e l’amore sono importantissime. In caso contrario il sesso può
essere vissuto come uno strumento da utilizzare contro l’altro.
Parafilie
Le parafilie sono disturbi che derivano da una “deviazione dall’oggetto di attrazione”, e
contemplano esisbizionismo, feticismo, froutterismo, pedofilia, masochismo sessuale,
sadismo, feticismo di travestimento, voyeurismo, altri disturbi non altrimenti specificati.
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Disturbi da controllo degli impulsi
I soggetti fanno cose estranee alla loro mentalità e che non vorrebbero mai fare. Tra
queste:
1. Esplosioni di collera, in cui fanno del male anche a chi hanno a cuore;
2. Cleptomania; è ricordato il caso di una signora che ogni giorno rubava 50mila lire
dalla cassa di un supermercato. Un giorno fu scoperta e, ammettendo la
involontarietà del fatto, ha restituito tutti i soldi, anche perché li aveva messi tutti da
parte senza spenderli;
3. Piromania; si tratta di persone che danno fuoco a diverse cose e restano sul luogo in
cui hanno appiccato il fuoco;
4. Gioco d’azzardo patologico. I giocatori sono dei perdenti per definizione, come gli
alcolisti, poiché vogliono sfidare il “Dio” gioco, e non riescono a resistere,
nonostante mandino in rovina la loro famiglia;
5. Tricotillomania; consiste nello strapparsi i capelli. Colpisce soprattutto le donne, che
diventano molto brutte, provocandosi chiazze d’alopecia oppure anche alopecia
totale. La paziente, prima di uscire ha bisogno di molto tempo per prepararsi. Con la
terapia si ottengono buoni risultati;
6. Spendere soldi. C’è un quadro clinico in cui la gente si sente costretta a spendere
soldi, senza in realtà fare mai uso di ciò che compreranno. La terapia è condotta con
gli SSRI. Si tratta come se fosse un disturbo ossessivo, così come molti dei disturbi
visti in precedenza.
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Disturbi del sonno
Si distinguono disturbi primari (dissonnie e parasonnie) e disturbi del sonno collegati a
malattie mentali.
Dissonnie
Le dissonnie sono disturbi dell’inizio e del mantenimento del sonno. Esse si classificano
in:
1. Insonnia primaria;
2. Ipersonnia primaria;
3. Narcolessia, in cui il soggetto perde la forza muscolare. Il paziente dorme con il
corpo e non con la mente. Spesso ci può essere una cataplessia, cioè una caduta a
terra improvvisa, per perdita del tono muscolare;
4. Disturbi del sonno correlati alla respirazione, che colpiscono soprattutto gli obesi, il
cui respiro è pesante e affannoso;
5. Disturbi del ritmo circadiano del sonno; i soggetti invertono il ritmo del sonno, cioè
dormono di giorno e son desti di notte. E’ un quadro frequentissimo. Che si fa?
Quando si presenta un paziente che dice di essere insonne in realtà ha un’alterazione
del ritmo circadiano. Consigliamo durante il giorno di non avere i microsonni
diurni, e si prescrivono pesanti privazioni di sonno, oppure si prescrive di andare a
letto a mezzanotte fino alle 6 del mattino, poi si sta svegli fino a mezzanotte e così
via fino al terzo giorno. Dal quarto giorno aumentiamo il sonno di un’ora e così via.
In casi di insonnia forte si prescrive una privazione totale di sonno, ed è un metodo
efficace.
6. Altre dissonnie non altrimenti specificate.
Parasonnie
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Le parasonnie sono fenomeni indesiderati che si verificano durante il sonno. Esse sono:
1. Disturbi da incubi. Se un soggetto dorme di più, aumentano gli incubi, e aumenta la
veglia seguente per recuperare le ore di sonno in eccesso. Ci sono diverse tecniche
per curare gli incubi tra cui quella di svegliare il soggetto alla fase REM;
2. Disturbi da terrore nel sonno. Colpisce soprattutto l’infanzia, e i bambini che ne
sono colpito non sono coscienti di ciò [cioè del terrore durante il sonno];
3. Disturbi da sonnambulismo. I soggetti si possono risvegliare, anzi conviene, per
evitare eventuali incidenti;
4. Parasonnie non altrimenti specificate.
Disturbi correlati a patologie mentali
Ci sono disturbi del sonno negli stati di eccitamento maniacale, nella depressione; e non
c’è solo insonnia ma, più raramente, anche ipersonnia. Comunque questi disturbi del
sonno si curano tutti bene, così come i primari.
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Disturbi dell’adattamento
Per capire questi disturbi bisogna considerare che tutti quanti vanno incontro a grossi
problemi (ad es., lutti, o licenziamenti), tutti soffrono, ma in realtà poi si trova la
capacità di recupero e si ritorna “normali” entro 3-4 mesi. Una reazione invece è
patologica quando dura più di 8 mesi. In verità non sono proprio quadri di patologia
franca, ma piuttosto degli “aspetti”:
1. depressione;
2. ansia;
3. ansia-depressione;
4. alterazione della condotta;
5. alterazione mista di condotta ed emotività.
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Altre condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica
Fattori psicologici che influenzano una condizione medica
Il 30% dei soggetti infartuati ha avuto in precedenza la depressione.
Disturbi iatrogeni
1. Parkinsonismo. I neurolettici provocano sindromi parkinsoniane con rigidità
corporea, atteggiamento camptocormico; i pazienti camminano in avanti,
lentamente. I neurolettici agiscono nel sistema nigrostriatale, che è compromesso
nel Parkinson; si tratta di un “Parkinson artificiale”.
2. Sindrome maligna da neurolettici. Si tratta di una condizione molto grave; se i
pazienti non sono curati in tempo ne muoiono. Attenzione se compare febbre:
potrebbe trattarsi di un’influenza, ma anche di una reazione ai neurolettici. Il
paziente è rigido, sudato e mostra una grave situazione tossica.
3. Distonia acuta indotta da neurolettici. I pazienti vanno incontro a disturbi a tipo
coreico, atassico. Mostrano contorsioni corporee con quadri anche molto
drammatici. In questi casi si somministrano antiparkinsoniani, e la distonia
scompare rapidamente. Per evitare fenomeni distonici si somminitrano neurolettici e
antiparkinsoniani.
4. Acatisia. Il paziente ha come l’esigenza di muoversi continuamente, non può farne a
meno, non può stare fermo e questo è un effetto farmacologico dei neurolettici.
5. Discinesia tardiva. I pazienti presentano una ipercinesia quasi ignorabile quando
togliamo il farmaco. Spesso si tratta di movimenti della bocca e più in generale del
viso. Se sospendiamo subito il farmaco c’è qualche posibilità di evitare queste
manifestazioni, altrimenti no.
6. Tremore posturale. Cioè un tremore che si realizza in determinate posture.
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Gli effetti tossici dei neurolettici non sono ugualmente marcati per tutti i farmaci. Tra
SERENASE (aloperidolo) e LARGACTIL (clorpromazina), quest’ultimo è più
tranquillo ai fini degli effetti tossici.
Problemi relazionali
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Psicoterapia e modelli della mente
Scala a zig-zag
Quando viene condotta una psicoterapia ci si muove entro una situazione ove vige una
gerarchia, chiamata da Bateson “scala a zig-zag forma/processo”. Per esemplificare
questo concetto, si pensi alla situazione per cui si vedono dei piedi che si muovono;
guardano bene il movimento si nota che si tratta di una danza. Guardando ancora meglio
notiamo che ci sono accanto altri piedi che si muovono similmente; dunque si tratta non
più di una danza ma di una coreografia. Gli elementi inizialmente osservati (i piedi)
sono passati via via ad essere classificati secondo un’ottica sempre superiore. Dalla
descrizione degli alimenti (piedi) si passa ad una loro “costruzione”, classificando tali
elementi secondo certi “contenitori” (danza – coreografia), certe “categorie”, un
qualcosa cioè di superiore. Quindi si valuta l’interazione che hanno tra loro tali elementi
così classificati, e si scopre che si può ancora classificare ulteriormente le interazioni di
tali elementi, e così via. Idealmente si può visualizzare questo processo conoscitivo
come una linea a zig-zag.
Quanto appena accennato è quello che succede quando vogliamo conoscere il
funzionamento della mente. Nelle interazioni, infatti, ci sono degli elementi che
vengono scambiati, ma ci sono anche i “contenitori” di questi elementi, un qualcosa
cioè che è a livello superiore rispetto ad essi. Gli “elementi della relazione” hanno
quindi un “contenitore”, una “categoria”, entro cui possono essere posizionati. Quando
questo accade, l’elemento più importante diviene il contenitore stesso; il contenitore va
in primo piano (diviene “figura”), mentre i suoi elementi passano in secondo piano
(divengono “sfondo”; i rapporti “figura”-“sfondo” sono il fondamento della psicologia
della Gestalt). Abbiamo ottenuto così diversi contenitori. Ora, il passo successivo è
considerare l’organizzazione di tali contenitori. Attraverso la conoscenza di queste
“organizzazioni di sequenze di contenitori” siamo passati ad un secondo livello di
conoscenza nella scala forma-processo, e questo ci consente di riconoscere i vari pattern
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mentali, le varie “configurazioni”, le varie “disposizioni” della mente, dei suoi elementi,
strutturati in contenitori.
In realtà si tratta di un concetto semplice e facilmente applicabile [!]. La nostra mente è
come il tempo; certe volte nevica, altre volte c’è il sole. Cioè, ci sono molte possibilità
di cambiamento: la mente cambia spesso modalità di costruzione. Si può dire che
siccome la nostra mente non conosce a priori la realtà ognuno vede la realtà a modo suo,
ognuno vede la realtà con gli strumenti che ha a disposizione. Ciò è all’origine, ad
esempio, di tante incomprensioni.
La nostra realtà è formata da dieci costruzioni mentali. Se non ci rivolgiamo a noi stessi
vediamo:
1. Costruzione Tragedia Grande (CTG): la nostra mente pensa a fatti angosciosi, con
molta intensità, e per cui non si vede possibilità di uscita, oppure a grandi errori
commessi; tutti quanti possono subire momenti di questo genere;
2. Costruzione Tragedia Media (CTM): è uguale alla CTG, ma con minore intensità;
3. Costruzione Tragedia Piccola (CTP): ce ne capitano continuamente; ha un grado di
intensità basso e molto più tollerabile delle prime;
4. Costruzione Commedia Molto Divertente (CMD): fatti simpatici che ci fanno ridere,
che ci mettono di buonumore;
5. Costruzione Commedia Moderatamente Divertente (CD): situazioni divertenti, ma
non tanto da farci ridere a crepapelle;
6. Costruzione Commedia Poco Divertente (CPD): situazioni appena gratificanti, che
ci fanno ridere poco;
7. Costruzione Operativa (CO): quando la mente è impegnata a svolgere determinati
compiti;
8. Costruzione Trionfo (CT): corrisponde a quando ci sentiamo molto bravi, molto
orgogliosi di noi stessi, invincibili, con un momenti di gloria del nostro Io;
9. Costruzione Ricordi Mentali del Passato (CMP): quando ricordiamo qualcosa che
non si configura né come tragedia né come commedia;
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10. Costruzione Sogni per il Futuro (CF): sogni ad occhi aperti, fantasie, aspirazioni. Si
pensa a ciò che si vorrebbe accadesse nella propria vita.
Ritornando allo schema di Bateson, queste dieci costruzioni sono dieci contenitori,
riconoscono in essi i molteplici elementi mentali entro cui possono essere classificati; è
possibile descrivere una loro classificazione in base a come queste costruzioni si
succedono l’una all’altra.
De Giacomo ha pensato che “questo discorso dei contenitori” poteva essere brevettato;
ha così creato una ruota, che riprende il Mandala, cioè una figura circolare della
religione orientale: all’esterno di essa ci sono tutte le costruzioni mentali. Questa ruota
scorre su un disco orario. Ciò serve per verificare il proprio stato mentale nelle varie ore
della giornata; segnando opportunamente tale sequenza, è possibile una autoriflessione.
Lo strumento non è valido solo per i pazienti, ma per tutti quanti. Dopo diversi giorni il
soggetto nota che i contenitori si dipsongono con una certa sequenza, cioè si
organizzano secondo certi patterns; ci si conosce meglio, e con il meccanismo di
biofeedback si può creare un auto-cambiamento. Lo strumento mette in comunicazione
la “mente calda” (stati d’animo) con la “mente fredda” (classificazioni) permettendo
una disamina della mente di un soggetto da parte dello stesso soggetto, che è un autoosservatore. Si passa così dallo “stato d’animo” alla sua “classificazione” secondo la
scala a zig-zag di cui abbiamo detto. Trovata la strada per far interagire la mente calda
con quella fredda (e quello presentato è uno di questi modi) è possibile modificare la
propria mente. Con ciò è stato presentato uno degli strumenti possibili della
psicoterapia.
Modello Pragmatico Elementare
Il Modello Pragmatico Elementare, inventato dalla scuola barese, prevede l’esistenza di
16 stili di interazione. Allora è possibile collegare ogni stile di relazione con una serie di
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interventi psicoterapeutici. I sedici stili relazionali sono indicati con F (funzione) e poi i
numeri da 0 a 15. Essi sono:
F0 – vuoto, assente;
F1 – partecipante, condivisore;
F2 – solitario, appartato;
F3 – tenace, egocentrico;
F4 – docile, arrendevole;
F5 – altruista che si immedesima;
F6 – misterioso, ambiguo;
F7 – collaborativo, mediatore;
F8 – astratto, imprevedibile;
F9 – condivisore, innovativo;
F10 – ribelle, antagonista;
F11 – prepotente, dittatore;
F12 – doppia faccia, falso altruista;
F13 – altruista, imprevedibile;
F14 – inconcludente, disorganizzato;
F15 – confuso, caotico.
Si è chiesto a diverse persone di classificare se stessi e di porsi entro una di queste 16
categorie, di queste 16 costruzioni, e quindi di indicare quali di questi aggettivi si
avvicinasse di più alla loro essenza. Questo è già qualcosa che modifica la mente poiché
costringe ad entrare nei famosi “contenitori”. Per esempio, qualcuno può definirsi F3 –
tenace, egocentrico, qualcun altro F7 – collaboratore, mediatore, e così via. Poi si può
raffinare la domanda chiedendo di indicare, tra le costruzioni rimanenti, quali aggettivi
posizionerebbero al “secondo” e al “terzo” posto. Si può valutare come cambiano queste
stime nel tempo, o vedere come è previsto il futuro. Si può anche fare un discorso di
tipo interattivo, in cui i singoli elementi della famiglia svolgono il test tra di loro.
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Il MPE è stato utilizzato per trattare diverse patologie. E’ ad esempio il caso di una
donna con disturbo di personalità multipla. Il caso è stato risolto con l’imitazione. Da
parte dei parenti, e poi con l’imitazione dei parenti da parte della paziente. L’imitazione
fa parte, nel MPE, della categoria “entrare nel mondo dell’alro”; questo fa rinforzare il
suo mondo e il soggetto non oscilla più.
Come si fa ad entrare nel mondo degli altri? Si può ad esempio usare il profilo F8 –
astratto, imprevedibile, e parlare “schizofrenese puro”, come quando Ericson, di fronte
ad un paziente dissociato, cominciò a parlare come lui, fintanto che il paziente non
chiese ad Ericson di spiegarsi meglio in quanto non lo capiva quando parlava. La ratio
qual’è? Il segreto è un’alternanza tra “rigor” e “imagination”, cioè porre insieme
elemento molto forti e tautologici (cioè strettamente logici tra loro) ed elementi liberi e
caotici. L’idea sarebbe questa e cioè:
qualcosa che non sta né nel mondo dell’uno né nel mondo dell’altro. Se io uso la stessa
modalità, poiché il paziente non può accettare qualcosa di uguale a sé, rientra in
quest’altra situazione:
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cioè nello schema del mondo suo e dell’altro.
C’è una logica teorica su cui facciamo delle prove e se il risultato è positivo lo
applichiamo in altri campi. Come abbiam fatto per le donne che tornano bambine,
laddove il metodo è risultato positivo, così abbiam fatto in altri casi. Se i pazienti stanno
bene dopo una settimana, questo è dovuto al nostro intervento, mentre un
miglioramento dopo dieci anni chiaramente no. Cioè l’intervento è efficace se ha effetto
a breve termine.
Come si fa a entrare nel mondo di una persona (F5) che, ad esempio, non parla perché
ha un blocco? Si usa il linguaggio del corpo, imitando i movimenti del muto. C’è chi è
bloccato a livello della forma (delirio di percezione), che a livello del processo (non
parla, ma ha movimenti): entrambe queste categorie di soggetti possono essere
raggiunte toccandole.
E’ importante anche la mediazione nella comunicazione (F7). Ad esempio, una moglie
riferiva che il marito non l’accontentava mai, mentre il marito sosteneva esattamente
l’opposto. In realtà il marito le faceva dei regali, però con un atteggiamento di “scarico”
[!], tipo “vuoi la pianta di fiori? Va bene, ti regalo io questa schifezza di pianta!”. A
livello comunicativo si tratta di un gesto percepito come rifiuto perché si ha una
distorsione nella comunicazione.
In questo caso, come trattamento, prima di fare il regalo, il marito doveva baciare la
moglie. Così il regalo non sarebbe più diventato un oggetto “scagliato” contro l’altro.
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La comunicazione è importante anche a proposito degli schizofrenici. Per costoro è
importante vedere i genitori uniti, non solo fisicamente, ma anche, magari,
nell’educazione dei figli. Non devono cioè trasmettere un messaggio contraddittorio. A
questo proposito è stata formulata la teoria del doppio legame (due proposizioni poste a
livello comunicativo differente che sono riferite ad un medesimo atto ma sono
contrastanti fra loro), per cui lo schizofrenico non riesce a classificare ciò che accade
nel mondo, fissandosi sui predicati e non sui soggetti, e questo fa sì che il contesto
fornisca allo schizofrenico delle immagini, degli elementi, che non possono essere
comunicati. E allora, per aiutare queste persone applichiamo i quattro comandamenti:
1. chiudere la porta della camera da letto, poiché se non viene chiusa è un segno di
invischiamento;
2. uscire per tre volte a settimana per una o due ore al giorno mantenendo il segreto ai
figli, così si evita l’invischiamento;
3. dare ordini ai figli in modo netto, come un comando;
4. apparire molto affettuosi in presenza dei figli.
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Ottimizzazione della visita psichiatrica
Una visita psichiatrica dovrebbe comporsi di 4 momenti differenti:
1. inquadramento tradizionale;
2. prescrizione dei farmaci;
3. ricerca del problema da affrontare con terapia interattiva;
4. prescrizione per la psicoterapia interattiva breve.
Quando
si
esegue
una
visita
psichiatrica
non
bisogna
limitarsi
soltanto
all’inquadramento tradizionale e alla prescrizione del farmaco, ma bisogna affrontare il
problema del paziente prescrivendo anche “qualche comportamento”, cioè dei compiti
che il soggetto deve svolgere a casa, oppure un programma da eseguire, delle consegne.
Risulta importante avere, oltre che il paziente, una “squadra” (la famiglia) con cui poter
lavorare; occorre puntare sulla soluzione di un certo problema, trovando soluzioni
originali del problema, soluzioni basate sulla creatività. Per far questo chi imposta la
terapia dovrà lavorare secondo le modalità sia del pensiero convergente sia del pensiero
divergente.
Lavorare sulle relazioni
E’ fondamentale lavorare non soltanto con il paziente ma anche con altre persone;
verranno convocati pertanto o il marito/moglie, oppure la famiglia intera, o le persone
che vivono nella stessa casa. L’approccio è ampliativo sul sistema, bisogna cioè cercare
di vedere molti elementi del sistema.
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Prima della visita
Molto del successo che si può raggiungere avviene prima del contatto con il medico.
Importante è in questo senso il prestigio che il medico interpellato riscuote presso il
paziente o chi gli sta intorno.
Inoltre molto dipende anche dal modo con cui il medico di base manda un paziente
dallo psichiatra: l’invio può essere un semplice suggerimento (“…faresti meglio ad
andare da uno psichiatra…”) oppure un qualcosa di più perentorio (“…vai dal dott. ***;
è l’unico che può risolvere il tuo problema…”); naturalmente questo secondo modo di
fare è molto più incisivo e risolutivo. Tra parentesi, questo dà la possibilità di creare un
“canale preferenziale” verso un certo specialista anziché un altro, cosa che può venire a
crearsi anche quando gli stessi pazienti, parlando tra di loro, si spargono la voce: il
risultato è che lo specialista può trovarsi a ricevere molte persone che provengono tutte
quante da uno stesso quartiere, o da uno stesso paese.
Un errore che commettono molti psichiatri è quello di far prendere gli appuntamenti
dalla segretaria; il primo contatto del malato deve invece essere direttamente con chi lo
curerà.
Fare qualcosa subito – Le mappe terapeutiche
Una volta che lo psichiatra risponde al telefono e parla con il paziente, deve subito
rendersi conto se si tratta di una qualcosa di sua competenza o meno; al paziente va
detto che dovrà presentarsi non da solo ma in compagnia di qualche familiare, e che
dovrà portare la docimentazione sanitaria di precedenti visite. Già da ora il soggetto
viene in confidenza con la voce del medico.
Quando arriva il paziente, che viene “visto” per la prima volta, lo si invita ad
accomodarsi, insieme agli altri familiari eventualmente presenti. Questo “gruppo” di
persone potrà essere dal medico disposto in maniera opportuna, secondo un’approccio
strutturale. Il disporre i vari componenti secondo dei confini fa comprendere ai singoli
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di essere presi in considerazione. E’ possibile modificare l’assetto delle posizioni
occupate dai singoli familiari nel corso della stessa seduta.
Il potere terapeutico
Perché il paziente possa compiere ciò che gli viene imposto dal medico, è chiaro che
quest’ultimo deve avere abbastanza potere da poter essere obbedito. Questo potere si
acquista con il prestigio, con il “savoir-faire”, con la competenza, con il modo giusto di
esprimersi.
Alle prese con una famiglia dubbiosa, ad esempio, si potrà chiedere se sia disposta a
fare “qualsiasi cosa” per risolvere il problema. Questa modalità è chiamata “patto con il
diavolo”, e risolve già il 50% del problema. Nel caso in cui questo impegno a far
qualsiasi cosa non viene rispettato, si può adottare la tecnica della “scatola vuota”: il
medico confida alla famiglia che egli sa cosa deve fare, però ha bisogno di una
“maturazione” da parte della famiglia, di un piccolo contributo. In questo caso la
soluzione del problema, che secondo la famiglia non c’è, viene presentata come
effettivamente esistente dal medico. La famiglia collaborerà con grande partecipazione.
Il successo della terapia va sempre ottenuto in presenza della famiglia. In tal modo si va
a rompere la regola che mantiene il disturbo, dato che questo è sempre mantenuto da
una certa organizzazione della famiglia. Se la famiglia vede che il paziente ha superato
il disturbo, essa stessa lo supera.
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Centrare il problema
Per poter aiutare la famiglia nell’immediato si possono fare alcune cose. Ad esempio,
aiutare un paziente a fare qualcosa che prima non riusciva a fare; questo, se riesce, fa
acquistare al medico un grande prestigio. Ad esempio, i pazienti fobici che non riescono
ad ingoiare le pillole chiedono al medico di non prescrivergli mai pillole; se a questi
pazienti si riesce a far ingoiare le pillole in presenza del medico, si è già fatto un
grandissimo passo avanti. Similmente si può dire a proposito delle anoressiche, oppure
– questo è interessante – con le atassie psichiche. In quest’ultimo caso si può far mettere
queste persone in piedi sulla scrivania [?], ad occhi chiusi, su un piede: se riescono a
stare in piedi non potranno più dire a se stessi di non essere capaci.
Bisogna anche considerare che ad un disturbo corrisponde sempre una risposta. Ad
esempio, nel disturbo ossessivo si può porre al paziente la domanda: “l’hai fatto
abbastanza?”. In tal modo si smuove l’ansia del paziente e lo si tranquillizza. Bisogna
cioè andare incontro al paziente ed evitare di dirgli qualcosa che già gli han detto tutti
(ad esempio, dare un rimprovero). Solo attualizzando il trauma del passato si riesce a
superare il problema.
La crisi durante la visita
Ha importanza chiedere al paziente di “avere una crisi” durante la visita: il medico potrà
meglio valutare cosa succede durante una crisi. Spesso, però, a seguito di questa
richiesta (“stare male al massimo”), il paziente non sta più male perché si rilassa. Se c’è
una ricaduta, si può utilizzare la tecnica della “scatola vuota” vista in precedenza.
Non colpevolizzare
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I pazienti psichiatrici non vanno considerati come pezzi di una catena di montaggio, ma
singolarmente: ognuno ha un problema diverso dall’altro. Non bisogna colpevolizzare
né il paziente né i parenti.
Purtroppo alla base di ogni nostro modo di pensare c’è sempre una filosofia; i terapisti
familiari di matrice cattolica, per esempio, o di matrice ebrea, fanno emergere l’idea del
peccato, che diventa poi colpa ed espiazione. La famiglia entra così in un circolo
vizioso che non è di sicuro terapeutico.
Bisogna evitare di intrappolarsi nei canali usuali, perché non funzionano. Ad esempio,
nel caso di un padre che non si interessa del figlio, il problema non va risolto accusando
il padre, ma ordinandogli di abbracciare il figlio. Si salta la colpevolizzazione e si
capovolge in positivo la situazione. Si deve, dunque, fornire una soluzione originale del
problema.
Mantenere la terapia
Bisogna stare attenti a non cambiare facilmente il farmaco; sappiamo che un farmaco
difficilmente funziona prima di un mese. Se il paziente telefona pretendendo un altro
farmaco, bisogna suggerirgli di attendere. Può anche verificarsi che il paziente dica di
stare male: in tal caso il farmaco non va cambiato da subito, perché potrebbe trattarsi di
un attacco d’ansia. In questi casi bisogna dire al paziente di assumere il farmaco e di
recarsi subito dopo allo studio per un controllo diretto. La visita li rassicura ed essi
stanno bene. Mantenere la terapia è di per sé un atto terapeutico perché rassicura il
paziente sulla preparazione del medico.
Incoraggiare all’esposizione
Spesso ai pazienti bisogna dire che la paura continua a salire, fino a che arriva ad un
picco e comincia a scendere. Ed è la verità, perché la paura non sale all’infinito. Questo
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va detto al paziente, perché così si dà la consapevolezza che la paura finisce; è un passo
avanti.
Quindi queste persone vanno incoraggiate all’esposizione a ciò che induce l’ansia con
questa constatazione scientifica: se loro, piuttosto che ritirarsi, affrontano, superano il
problema. I pazienti commettono l’errore di pensare di conoscere la loro mente: spesso
è preferibile farli agire piuttosto che parlare.
Entrare nel mondo del paziente
Il segreto per aiutare il paziente è quello di entrare nel suo mondo, cercare di capirlo.
Più lo psichiatra domanda, più il paziente si ritira in sé stesso. Bisogna fornire al
paziente una motivazione per dargli i farmaci. Occorre che il paziente senta il medico
come dalla sua parte, per evitare che lo percepisca come un elemento di un complotto;
al paziente si dice che è diventato più sensibile.
Se il paziente avverte che la sua mente non è libera ma è influenzata da altre persone (è
il caso della schizofrenia), bisogna innalzare la soglia della “sensibilità” con i farmaci;
ovviamente si parla di sensibilità alla realtà.
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Le risorse dei pazienti
Occorre trasmettere al paziente la capacità di premunirsi di costruzioni mentali che lo
possano aiutare. Un paziente una volta ha riferito che si curava da solo ponendosi
davanti ad uno specchio e adulandosi; ciò lo faceva star bene, ma poi si rendeva conto
che andava incontro a depressione. Per cui egli capì che non doveva adularsi davanti
allo specchio. Quando il paziente confida una certa tecnica per curarsi questa va
ricordata, perché poi si potrà usarla con altri soggetti.
In più, bisogna tener conto delle frasi che rimangono impresse al paziente. Se un
paziente ritorna dopo molti anni e dice di ricordare una certa frase che gli si era detta
molto tempo prima, significa che quelle parole gli sono state utili a riorganizzare la
mente; se a due persone che litigano si dice che hanno avuto un rapporto sessuale, la
questione è trasformata dal punto di vista della coppia, e questo li aiuta.
Le depresse fanno “i figli buoni”, perché sono persone molto serie, quasi schiacciate
dalla loro serietà: esse si impediscono tutto [?].
Pensiero Zen
Lo Zen è simile al buddismo, ma è privato della componente religiosa; aiuta ad aprire
gli orizzonti della mente. Un aspetto di questa teoria è che la sofferenza scaturisce da un
modello teorico della realtà e di quello che si è. Ad esempio, se una persona si sente
inadeguata, è perché non ha come referente sé stessa ma un “quadro dipinto” di sé
stessa. Questa persona si lamenterà del fatto che in alcune circostanze dovrebbe
comportarsi diversamente da come di fatto si comporta; cioè si relaziona in base non a
ciò che è, ma a ciò che dovrebbe essere.
La guarigione
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Il paziente può star meglio e superare il sintomo, ma questo non significa che sia
soddisfatto. Se i pazienti ritornano, è utile ricordargli quelli che sono stati i loro
problemi e vedere se sono stati di fatto superati. Questo li sorprende, ma li incoraggia
anche, poiché essi comprendono che i problemi hanno un inizio ma possono avere
anche una fine.
Ci sono pazienti che hanno in sé la predisposizione per guarire, e, al contario, pazienti
che non vogliono guarire. Altri pazienti guariscono per fare un dispetto al terapeuta.
Altre volte i pazienti non ritornano per problemi economici. Questo aspetto del rapporto
va messo bene in chiaro dal principio.
Gelosia
Si presenteranno molti casi di persone gelose. Questa gelosia può essere anche
patologica, nel senso che si tratta di una gelosia presunta, senza nessun fondamento.
Può essere anche una gelosia delirante; esiste infatti la gelosia paranoica: in queste
persone la gelosia è completamente immotivata e con una rigidità, cioè con una
certezza, che rende molto problematico lavorare con queste persone.
In questi casi il trattamento qual è? Il trattamento è quello che si usa quando ci sono dei
deliri, cioè i neurolettici come SERENASE (aloperidolo), RISPERDAL (risperidone),
farmaco quest’ultimo oggi molto usato. E’ dunque possibile dare un neurolettico, ma
bisogna ricordare che, essendo necessario procedere sempre per una doppia linea,
biologica e psicologica, è indispensabile fare un intervento psicologico.
Per esempio, si chiede all’elemento geloso della coppia se è disposto a perdonare, nel
suo mondo, il tradimento del coniuge, anche se il tradimento non è stato mai confessato.
E poi si chiede all’altro do accettare il perdono per qualcosa che non si è commesso.
Delirio persecutorio
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Il più comune delirio che si può incontrare è il delirio persecutorio: la persona si sente
perseguitata, sente che “ce l’hanno con lui”, vogliono il suo male, lo vogliono uccidere,
lo vogliono danneggiare.
Cosa si fa in questi casi? Per prima cosa si fa la diagnosi, che è schizofrenia paranoidea
– delirio persecutorio. Segue lo stilamento della ricetta medica: neurolettici,
SERENASE (aloperidolo), RISPERDAL (risperidone), eventualmente LARGACTIL
(clorpromazina), ed altri, ce ne sono molti. Quando c’è il delirio quasi sempre ci vuole il
neurolettico, eccetto che nei deliri depressivi, nei quali spesso è necessario
l’antidepressivo. Non si dà cioè il neurolettico soltanto ma associato all’antidepressivo:
dando solo il neurolettico la depressione peggiora, c’è un effetto negativo iatrogeno.
Oltre alla ricetta medica, cosa dobbiamo fare? Seguendo il MPE (Modello Pragmatico
Elementare), bisogna “andare verso il mondo del paziente”, ampliando. Il paziente ci
presenta una certa costruzione mentale, che noi sappiamo essere falsa; però se noi
diciamo al paziente che sta dicendo un sacco di sciocchezze è la fine. Il paziente
peggiora, il medico viene incluso nel delirio, entra a far parte della schiera dei
persecutori. Invece bisogna accettare il mondo del paziente, andare verso di esso,
eventualmente anche ampliando un pochettino.
Nel caso di un paziente con delirio persecutorio bisogna “ampliare”. Che significa
ampliare? Ad esempio, si può chiedere al paziente:
1. Quali sono gli aspetti della tua persecuzione?
2. Chi è il capo del complotto?
3. Puoi darmi informazioni molto precise su costui, i suoi contatti, le sue abitudini, il
suo lavoro, e così via?
Lo psichiatra dovrà inviare al paziente un messaggio implicito, che lo aiuterà e che
influenzerà la persona chiave in una direzione favorevole, perché faccia cessare il
problema. Si può chiedere al paziente: “Chi è che ti fa del male? Dimmi nome e
cognome! Dove abitano? Da chi possono essere influenzate? Sono vicine a qualche
partito?”. Questo significa ampliare.
Facendo le domande al paziente implicitamente gli diciamo che proveremo ad
influenzare il persecutore positivamente verso di lui. Quindi, non soltanto bisogna
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entrare nel suo mondo, ma bisogna anche dare la sensazione di aiutarlo concretamente.
Più si spinge in questa direzione e più tali soggetti tendono ad uscire dal delirio, con
un’azione esattamente contraria a quello che il medico si sforza di fare.
Possiamo ricordare un caso di delirio persecutorio. Un soggetto aveva visto delle
automobili con targa NA (Napoli), e aveva pensato di essere perseguitato dai camorristi;
in più, era stato lasciato dalla propria donna, che era entrata a far parte dei persecutori,
coi quali era d’accordo (l’orologio di lei poteva in realtà essere una rice-trasmittente,
grazie alla quale la gente poteva sapere le cose dette a lei).
Di fronte ad un caso del genere, sono in verità possibili due atteggiamenti:
1. di fronte al paziente che manifesta un delirio lo psichiatra può fare la diagnosi e
dare un farmaco; questa soluzione tende al ricovero, ed è quanto adottato in Svezia.
In Italia, invece, il Basaglia-pensiero porta ad una considerazione più ambulatoriale
di questi pazienti;
2. lavorare con una modalità relazionale. Si va nei particolari, si insiste, si cerca di
capire, si chiedono i particolari. Più si spinge e più il soggetto sembra ritirarsi,
tant’è che alla fine dice: “ma forse è tutto uno scherzo”; la spiegazione è che la sua
sensibilità nei confronti della realtà è aumentata, e bisogna abbassargliela: egli vede
più cose di quelle che vedono gli altri.
Depressione
Anche nel caso della depressione l’ottimizzazione della visita psichiatrica è condotta
secondo i quattro punti chiave: diagnosi, ricetta medica, ricerca del problema da
risolvere, prescrizione di un compito. Ed è appunto di quest’ultima prescrizione che qui
parliamo.
La prescrizione della depressione prevede:
1. essere testimoni partecipi;
2. concentrarsi sui pensieri tristi;
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3. fare l’elenco dei pensieri tristi;
4. girare intorno a due sedie esprimendo l’idea generatrice d’ansia;
5. marcare sul calendario i giorni buoni, mediocri, cattivi;
6. tabulazione delle costruzioni mentali;
7. accontentare il super-Io, divinità severa;
8. contrassegnare sul calendario le date in cui il paziente starà bene;
9. adoperare la frase che ricorre: “toccare il fondo per poi risalire”, e che il suicidio è
una maniera di impedire questo risultato;
10. nucleo di sofferenza e movimento degli occhi.
Che cosa dobbiamo fare? Innanzitutto la diagnosi (depressione maggiore, malattia
bipolare). Quindi la ricetta medica: antidepressivi (triciclici, SSRI, altri). Poi, cerchiamo
un problema. Come aiutiamo questi soggetti?
Bisogna essere testimoni partecipi, cioè né minimizzare né dire al soggetto: “dai, forza,
con la tua volontà”.
Poi, bisogna concentrarsi sui pensieri tristi, cioè il depresso spesso è così perché non
lascia la porta aperta alla depressione, la vuole chiudere, e più la vuole chiudere più
rimane intrappolato nella depressione. Ecco, allora, lasciarsi andare al pensiero
depressivo, abbandonarsi ad esso, non resistergli, questo può aiutare ad uscire, perché la
depressione è un fatto comune, cioè tutti hanno la depressione. Perché certi ne vengon
fuori ed altri rimangono intrappolati? Esiste un meccanismo che fa sì che il depresso
rimanga tale, e noi su quel meccanismo dobbiamo agire.
Se si tratta di una persona molto carica d’ansia, ad esempio si alza e non riesce a stare
seduto, non dobbiamo dirgli di star seduto, ma, al contrario, dovremo farlo sfogare
spingendolo a girare tutt’intorno; spingere al massimo i suoi sentimenti, farlo piangere a
voce alta, far esprimere a voce alta i suoi sentimenti. Anche questo è “andare verso il
mondo dell’altro” ampliando. Ricordiamoci che possiamo scegliere tra 16 stili di
relazione, secondo il MPE. Tra questi il migliore è appunto “andare verso il mondo
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dell’altro”. Per esempio, se il paziente ha un segreto (questo avviene sempre) noi
possiamo dire: “pensa a quella cosa che non mi vuoi dire in questo momento, ma non
dirmela”.
Circa il calendario che i pazienti devono stilare, esso consiste nel definire la qualità
(bello, mediocre, brutto) di ogni giorno vissuto. Alla visita il paziente porterà il
calendario che chiarisce l’andamento del disturbo. Spesso il paziente si accorge che ha
delle variazioni, piuttosto che uno stato di malattia vero e proprio; se inizia a migliorare,
registra tali miglioramenti. Introdurre quindi il fattore tempo è molto interessante.
Per “tabulazione delle costruzioni mentali” si intende che il soggetto deve controllare e
definire l’inizio e la fine del disturbo: questa classificazione e disamina del disturbo
stesso ne permette l’uscita. Il paziente ha uno strumento per conoscere il funzionamento
della propria mente.
Accontentare il super-Io significa fare un sacrificio, cioè fare una cosa seccante. Ad
esempio, ad un ossessivo che aveva una pianta sul terrazzo e saliva 50 volte al giorno
con l’ascensore per controllarla, fu detto di salire a piedi. Con questa idea smise.
Similmente si può operare con un depresso. Il super-Io, facendo un sacrificio, e quindi
una volta accontentato, “diventa più buono e lascia in pace” [!].
Perché i farmaci facciano effetto occorrono 30 giorni; sul calendario andrà
contrassegnato il 30° giorno, data in cui il paziente starà bene. Questo servirà anche ad
aumentare il prestigio del medico.
E’utile, ed è anche una cosa vera, dire che: “si tocca il fondo, ma poi si risale: il suicidio
è una maniera per impedirlo”; quando il paziente è vicino al suicidio, in realtà, sta per
guarire perché il suicidio è come stare vicino al fondo, e quando uno tocca il fondo poi
risale. Questo esplicitare la realtà è una maniera convincente per aiutare il paziente.
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“Nucleo di sofferenza e movimento degli occhi” – in pratica si tratta di tecniche per la
concentrazione su ciò che fa soffrire e di movimento degli occhi; è anche detta “tecnica
di movimento oculare”.
Di questa prescrizione la famiglia deve essere informata; la famiglia non deve spingere
il paziente, la cui volontà è inefficace. Il super-Io schiaccia con le sue forze questi
soggetti; secondo una teoria è proprio questo super-Io alla base della depressione.
Bisogna, allora, vedere che cosa si può chiedere a queste persone, ad esempio: “mettiti a
letto e non ti muovere”, oppure: “facciamo un ricovero in casa” (tecnica del ricovero in
casa). In questo modo si scarica la loro ansia derivante loro autorimprovero. Il mondo di
stanchezza, di incapacità a muoversi, di mancanza di volontà, così facendo, viene
accettato pienamente (“non ti devi muovere!”). Aiutare il paziente significa fargli
accettare la passività con la sua forza di volontà. La reazione del depresso è quella di
voler mettere in lui la sua energia, ma non può farlo. In questo caso bisogna aiutare non
aiutando.
Tecnica di De Shazer
Si tratta di una tecnica che si può utilizzare in tutti i casi, anche per la depressione.
Consiste nel chiedere al malato: “cosa succede dentro di te quando ti senti bene?”. Di
solito l’analisi verte sui momenti di malessere; questo analista invece ha pensato di
analizzare i momenti in cui il paziente sta bene. Si dice: “Durante la giornata c’è un
momento in cui stai meno male?”, e siccome questi momenti sicuramente ci sono, la
domanda spiazza un po’ il paziente e lo costringe ad una riflessione in un’area che lui
non ha mai analizzato; non è facile rispondere a questa domanda! Mentre quando uno
sta male è pronto a dire che cosa gli succede, non è facile dire che cosa succede quando
sta bene. Questo lo può portare ad uno spostamento favorevole. Poi si può aggiungere:
“Evidentemente la tua mente sa che cosa deve fare per stare bene; se tu stai bene anche
un momento al giorno ci deve essere un programma nella tua mente che ti consente di
stare meglio”, ed allora il problema diviene come ripescare questo programma.
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Far dubitare del dubbio
Dicendo ad una persona: “entra nel dubbio”, “cerca di dubitare”, “considera i pro ma
anche i contro”, in realtà la persona non viene spinta verso il dubbio, ma verso
l’inseguire una meta in maniera creativa e originale.
E’ questa una situazione abbastanza interessante. Entrare nel dubbio richiede un lavoro
molto ingegnoso, bisogna essere molto creativi per riuscire ad entrare nel dubbio.
Le ossessioni psichiche
Come si fa ad andare verso una organizzazione che consenta all’ossessivo, mediante
legami interni, di seguire certi “loops” mentali? Abbiamo scoperto una tecnica: si
prepara un tabulato in cui si associano le idee ossessive con dei simboli. Quindi vari
membri della famiglia devono, a turno e in maniera casuale, citare un simbolo; il
paziente deve citare l’idea ossessiva. E viceversa (i familiari citano l’idea, il paziente il
sibolo). Ciò perché le ossessioni psichiche sono più difficili da curare nelle ossessioni in
cui c’è un cerimonale, cioè un comportamento.
Questa tecnica è stata adoperata per la prima volta più di dieci anni fa, in una donna che
aveva sei pensieri ossessivi. Era religiosa e, come succede spesso, aveva pensieri
opposti, quali bestemmiare Dio, o la Madonna. Bene, ogni idea ossessiva doveva avere
un simbolo. Si cercava una sorta di organizzazione che spezzava i legami interni che la
facevano pensare in maniera ossessiva. Questo, in generale, può succedere quando si
spinge molto in un senso; allora si può tendere ad andare in senso opposto [?].
In queste tecniche si attinge molto alla creatività, e migliorarla è un problema
fondamentale. Questo perché in qualsiasi campo ci troviamo, dobbiamo sempre
attingere a qualche cosa che è la creatività. Creatività = Problem Solving.
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Schizofrenia
Una cosa che c’è sempre nella schizofrenia, e che ci fa fare diagnosi di certezza è
l’influenzamento; cioè i pazienti pensano che qualcuno influenza la loro mente in
maniera strana, cioè attraverso strumenti, macchine, apparecchi, con la trasmissione del
pensiero, cioè attraverso una modalità, non vi è un coinvolgimento dialettico. E’ un
influenzamento vero e proprio. La loro mente è influenzata da altri, non è più la loro.
In questo caso c’è il delirio, c’è l’influenzamento (“pressione su di lui”), e si può fare
diagnosi. Che fare? Come già accennato, bisogna alzare la soglia della sensibilità con
dei farmaci che lo facciano dormire e riposare. Inoltre si dà un messaggio implicito: “ti
auto io”, “stai attento ai primi segni dell’abbassamento della pressione che viene fatta su
di te”. A ben vedere, anche in questo caso la prescrizione è paradossale perché lo
schizofrenico paranoideo è molto sensibile ai segnali (ad es., per la strada), e gli si dice
di stare più attento!
Un caso clinico
Una donna giovane, sposata, esperta di informatica aveva contattato via internet un’altra
donna, di cui si era innamorata. La corrispondente, non volendo avere rapporti lesbici,
aveva interrotto la comunicazione. Nonostante ciò la paziente, a suo avviso, continuava
ad avere rapporti, via etere [?], con quest’altra donna, attraverso un’influenza mentale.
Per inciso, si sono verificati molti casi di innamoramento via internet; si ricorda il caso
di una giornalista che aveva voluto fare un esperimento consistente nel far innamorare
di lei un uomo, via internet, riuscendoci. Rivelando poi che si trattava di un
esperimento, aveva generato in quest’uomo una grande frustrazione.
Ritornando a noi, la donna si reca in Clinica Psichiatrica chiedendola di trasformarla in
un uomo, così da poter vivere una vita normale. Al che non le si risponde: “no, non
voglio” ma “è un po’ difficile, vediamo; intanto prenda queste medicine”. Alle visite
successive c’è anche il marito; pian piano guarisce con il suo aiuto.
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Alla fine del disturbo, però, la paziente è depressa (si chiede: “come può essere successa
una cosa del genere?”); allora, compito dello psichiatra sarà quello di convertire questa
situazione da negativa in positiva. Come? Dicendo che la depressione è un bene, perché
si è sulla strada della guarigione.
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Farmaci utilizzati in psichiatria
In psichiatria vengono utilizzati diversi farmaci; è possibile individuare le seguenti
classi farmacologiche:
1. neurolettici e antipsicotici;
2. antidepressivi;
3. antimaniacali;
4. farmaci usati per la terapia dell’ansia.
Dell’uso di questi farmaci ho già parlato nel corso della trattazione delle singole
malattie, tuttavia mi sembra giusto a questo punto riassumere i concetti base di questi
farmaci in una visione unitaria.
Neurolettici e antipsicotici
Si tratta dei farmaci che hanno fatto la storia della psichiatria in quanto proprio u
neurolettico, la clorpromazina, fu il primo farmaco ad essere utilizzato nei pazienti
psichiatrici. Questo farmaco ha la capacità di indurre uno stato di estrema rilassatezza
fisica e quindi fu in grado di sedare anche i pazzi furiosi, a quel tempo temibili e ritenuti
incurabili anche perché era difficilissimo avvicinarli.
I neurolettici di vecchia generazione, attivi sulle componenti motorie, danno, come
effetto collaterale, dei segni parkinsoniani; questi farmaci possono essere utili nei
coreici, in quanto portano ad una normalizzazione degli squilibri biochimici
extrapiramidali.
I neurolettici si dividono in:
1. fenotiazine;
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2. butirrofenoni;
3. benzamidi;
4. dibenzoazepine.
Le febotiazine a loro volta sono caratterizzate dal residuo chimico che portano sulla loro
molecola, per cui si parla di fenotiazine:
1. a carattere alifatico, come la clorpromazina (LARGACTIL) – dosaggio 300-600/die;
2. a carattere piperidinico, come la tioridazina (MELLERIL) – dosaggio 300-600/die;
3. a carattere piperazinico, come la flufenazina (MODITEN) – dosaggio 25/mese.
Tra i buitirrofenoni il più usato è senza dubbio l’aloperidolo (SERENASE).
Tra le benzamidi ricordiamo:
1. sulpiride (LEVOPRAID);
2. amisulpride (DENISAN).
Questi farmaci necessitano di un basso dosaggio.
Le dibenzoazepine comprendono:
1. clozapina (LEPONEX);
2. clotiapina (ENTUMIN).
La clozapina provoca tra gli effetti collaterali una leucopenia che può essere anche
molto grave per cui i pazienti in trattamento con questo farmaco hanno la necessità di
sottoporsi periodicamente ad un controllo dei valori della formula leucocitaria;
ricordatevi di guardare i valori assoluti dei globuli bianchi e non le percentuali.
Esistono poi dei farmaci antipsicotici di nuova concezione, come:
1. risperidone (RISPERDAL);
2. olanzapina (?)
i quali hanno uno scarso o nullo effetto neurolettico, per cui non implicano
quell’”addormentamento” del paziente così impressionante come avveniva con i
farmaci più vecchi, soprattutto con le fenotiazine.
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I neurolettici pongono una serie di problemi dovuti ai loro effetti collaterali, che sono:
1. Parkinsonismo. I neurolettici provocano sindromi parkinsoniane con rigidità
corporea, atteggiamento camptocormico; i pazienti camminano in avanti,
lentamente. I neurolettici agiscono nel sistema nigrostriatale, che è compromesso
nel Parkinson; si tratta di un “Parkinson artificiale”.
2. Sindrome maligna da neurolettici. Si tratta di una condizione molto grave; se i
pazienti non sono curati in tempo ne muoiono. Attenzione se compare febbre:
potrebbe trattarsi di un’influenza, ma anche di una reazione ai neurolettici. Il
paziente è rigido, sudato e mostra una grave situazione tossica.
3. Distonia acuta indotta da neurolettici. I pazienti vanno incontro a disturbi a tipo
coreico, atassico. Mostrano contorsioni corporee con quadri anche molto
drammatici. In questi casi si somministrano antiparkinsoniani, e la distonia
scompare rapidamente. Per evitare fenomeni distonici si somminitrano neurolettici e
antiparkinsoniani.
4. Acatisia. Il paziente ha come l’esigenza di muoversi continuamente, non può farne a
meno, non può stare fermo e questo è un effetto farmacologico dei neurolettici.
5. Discinesia tardiva. I pazienti presentano una ipercinesia quasi ignorabile quando
togliamo il farmaco. Spesso si tratta di movimenti della bocca e più in generale del
viso. Se sospendiamo subito il farmaco c’è qualche posibilità di evitare queste
manifestazioni, altrimenti no.
6. Tremore posturale. Cioè un tremore che si realizza in determinate posture.
Gli effetti tossici dei neurolettici non sono ugualmente marcati per tutti i farmaci. Tra
SERENASE (aloperidolo) e LARGACTIL (clorpromazina), quest’ultimo è più
tranquillo ai fini degli effetti tossici.
Antidepressivi
Tra i farmaci ad azione antidepressiva distinguiamo:
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1. triciclici;
2. IMAO;
3. SSRI;
4. SNRI.
Gli antidepressivi triciclici sono i primi antidepressivi che furono messi in commercio e
risultarono molto potenti per la sindrome depressiva. Ancora oggi qualcuno di questi
farmaci viene usato, come ho già detto nelle lezioni dei giorni scorsi.
Tra i triciclici ricorderei:
1. imipramina (TOFRANIL) – dosaggio 200-300;
2. amitriptilina (LAROXYL) – dosaggio 100-300;
3. clorimipramina (ANAFRANIL).
Gli IMAO sono farmaci inibitori delle MonoAminoOssidasi. Anche di questa catagoria
di farmaci ho parlato. Ricordiamo tra questi farmaci:
1. fenelzina;
2. tranilcipromina;
3. nuovi IMAO (come la moclobemide, AURORIX).
Gli SSRI sono gli inibitori selettivi del ReUptake della Serotonina; sono farmaci molto
maneggevoli che hanno dato il via a una nuova concezione terapeutica della
depressione, tanto che il primo farmaco messo in commercio negli USA, la fluoxetina
(PROZAC), fu chiamato “la pillola della felicità”; una costruita campagna giornalistica
ne decretò il successo e talvolta anche l’uso sconsiderato e fin troppo leggero di un
farmaco che, comunque, è bene che venga ben conosciuto in tutti i suoi aspetti dalla
classe medica, sia tra i generici che tra gli specialisti.
Tra gli SSRI:
1. fluoxetina (PROZAC);
2. paroxetina (SEROXAT).
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Dosaggi di alcuni farmaci antidepressivi:
1. LAROXYL (imipramina) - 150-300 mg/die;
2. ANAFRANIL (clorimipramina) - 45-100 mg/die;
3. Tranilcipromina - 10-20 mg/die;
4. Fenelzina - 45-75 mg/die;
5. PROZAC (fluoxetina) - 5-10 mg/die;
6. SEROXAT (paroxetina) - 20 mg/die;
7. DUMIROX (fluvoxamina) - 150 mg/die.
Una domanda interessante è: "è possibile associare antidepressivi tra loro?". In genere
all'inizio si usa un antidepressivo da solo, ad esempio un triciclico: se dopo un mese non
ci sono effetti, allora si può provare un altro antidepressivo, un SSRI, aumentando
gradualmente il dosaggio senza mai superare le dosi terapeutiche. Le asociazioni di più
antidepressivi sono pericolosissime e anche mortali: non è possibile associare
ANAFRANIL (clorimipramina) e SEROXAT (paroxetina). Per quanto attiene gli SSRI
è da evitare l'interazione con gli I-MAO (farmaci inibitori delle MonoAminoOssidasi,
un'altra categoria di antidepressivi assieme ai triciclici e agli SSRI), a causa della
possibilità di indurre una sindrome serotoninergica potenzialmente fatale a seguito di un
aumento eccessivo della serotonina (gli SSRI ne bloccano il re-uptake, gli I-MAO ne
impediscono la degradazione).
In cosa consiste la sindrome serotoninergica?
In vari sintomi:
1. crampi addominali, meteorismo, diarrea;
2. tremore, mioclono, disartria, incoordinazione motoria, ipereflessia, Babinski+;
3. tachicardia, ipertensione;
4. eccitamento, confusione, disforia, stato maniacale;
5. ipertermia;
6. collasso cardiocircolatorio che porta a morte.
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Sempre per quanto riguarda gli SSRI, c'è da dire che SEROXAT (paroxetina) ha un
maggior tendenza alle interazioni farmacologiche rispetto a PROZAC (fluoxetina) o a
SEROD (sertralina); queste interazioni possono verificarsi con vari farmaci, anche di
uso internistico, che al pari di essa vengono metabolizzate dall'enzima epatico cytP450.
Ad esempio TAGAMET (cimetidina) può aumentare le concentrazioni di SEROXAT
(paroxetina).
Riguardo agli I-MAO la pericolosità risiede nel cosiddetto "effetto formaggio" legato
alla tiramina, una monoamina che non potendo più essere metabolizzata si accumula,
dando crisi ipertensive importanti, anche fatali.
Fonti di tiramina sono: vino Chianti, birra, formaggi fermentati, minestre conservate [?],
concentrati di cardne, fegato, selvaggina, aringhe, fichi conservati, fave, cioccolato,
banane. Per lo stesso motivo non si possono somministrare insieme I-MAO e
simpaticomimetici.
Antimaniacali
Usati nella malattia bipolare, in passato venivano classificati tra i farmaci “stabilizzanti
dell’umore”. Tra essi:
1. il litio;
2. antiepilettici;
3. Calcio-antagonisti.
Il litio (CARBOLITHIUM) serve alla prevenzione delle recidive. Importante, nel suo
“management” che il paziente conservi una buona compliance per il trattamento e una
costante attenzione alle disfunzioni tiroidee o renali che l’uso prolungato del litio può
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determinare nei singoli pazienti. Per qui questi soggetti, ai quali è stato prescritto il litio,
vanno opportunamente controllati.
In seconda battuta anche gli antiepilettici vengono usati per la terapia della malattia
bipolare e quindi possono essere posti tra gli antimaniacali. Ricordiamo:
1. carbamazepina (TEGRETOL) – questo farmaco viene usato per la malattia
epilettica, nelle crisi di grande male;
2. acido valproico (DEPAKIN) – questo farmaco viene usato per la malattia epilettica,
nel “piccolo male”, cioè nelle crisi di assenza.
Per i disturbi bipolari la terapia è basata sugli stabilizzanti dell'umore, che rendono
l'umore stabile. Questi farmaci sono fondamentalmente tre. Il LITIO, che il realtà è
carbonato di litio, è uno di essi; va somministrato in dosaggi talchè la quantità nel
sangue sia compresa tra 0,6 e 1 mEq. Concentrazioni inferiori a 0,6 mEq non servono a
niente, superiori a 1 mEq possono intossicare. Si inizia con certi dosaggi bassi e poi si
sale, finchè nel sangue non arriva a questi livelli.
Il litio viene somministrato in capsule da 300 mg. Si inizia con il somministrare 2
cpr/die, una al mattino, una alla sera. Dopo una settimana, a 12 ore dall'ultima
somministrazione, si valuta la concentrazione di litio nel sangue e si vede se il livello
minimo (cioè 0,6 mEq) è stato raggiunto. Di solito con 2 cpr non si arriva, e quindi si
sale a 3 cpr/die, e quindi si valuta nuovamente la litiemia. Se neanche in tal modo si
raggiunge il valore minimo, si procede a somministrare 4 cpr, 2 al mattino e 2 alla
pomeriggio (2+2). Il nome commerciale del litio carbonato è CARBOLITHIUM.
Il litio è efficace anche durante gli episodi di eccitamento maniacale, poiché li spegne.
Questi periodi sono molto fastidiosi dal momento che i pazienti non vogliono curarsi,
sentendosi in forma perfetta; spesso interrompono la cura. Per questo occorre che
imparino a riconoscere i segni premonitori della fase maniacale.
Nell'attesa che il litio raggiunga le concentrazioni adeguate e quindi manifesti i suoi
effetti si somministrano dei neurolettici; si "fa" la cosiddetta "triplice", e cioè:
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1. una fiala di SERENASE (aloperidolo);
2. una fiala di DISIPAL (orfenadrina);
3. una fiala di LARGACTIL (clorpromazina).
In realtà anche le benzodiazepine, e.v. o i.m., aiutano molto. L'importante è calmare
subito queste persone, poiché nelle fasi maniacali sono capaci di tutto e sono molto
pericolosi; sono superficiali, e hanno mancanza critica.
Altri stabilizzanti dell'umore sono il TEGRETOL (carbamazepina) e il DEPAKIN
(sodio valproato), che in realtà sono antiepilettici. Vanno in realtà utilizzati quando il
litio non è tollerato o è inefficace.
Nella fase maniacale si somministrano litio e neurolettici. Nella fase depressiva invece
si danno antidepressivi e stabilizzanti dell'umore; questa associazione è indispensabile,
poiché se si fa a meno degli stabilizzanti dell'umore il paziente va in crisi maniacale
iatrogena.
Terapia dell’ansia
Il trattamento farmacologico dell’ansia si avvale di benzodiazepine (ad esempio,
XANAX può essere usati nei momenti di acuzie – cioè negli attacchi di panico) o di
farmaci quali azaspironici (come il buspirone).
Alcune benzodiazepine vengono usate anche come ipnotici o come farmaci per la preanestesia.
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La perizia psichiatrica1
La capacità di intendere e di volere
“Dica il perito, valutato l’imputato e presa conoscenza degli atti e fatte tutte le
acquisizioni e gli accertamenti che riterrà opportuni, se, al momento dei fatti per cui si
procede, egli era capace di intendere e di volere, oppure se le capacità erano totalmente
o grandemente scemate”. È questa la formula che, con piccole variazioni, viene usata
giudizialmente nel conferire l’incarico a uno psichiatra. Talvolta si legge: “ Dica il
perito qual è la capacità di intendere e di volere allo stato attuale e al momento dei fatti
per cui si procede”. Spesso può essere aggiunta un’ulteriore domanda: “Dica, inoltre, il
perito se il soggetto sia socialmente pericoloso”. A questa parte del quesito il perito
dovrà dare risposta solo qualora si configuri, nel soggetto, una limitazione della capacità
di intendere e di volere, mentre non può esprimersi sul punto, e anzi il suo
comportamento sarebbe illecito, se dalla conclusione della sua indagine risultasse che
l’imputato non è limitato grandemente o totalmente in queste capacità.
Quello che oggi ci domandiamo è se il tenore del quesito, formulato secondo il
contenuto delle norme che regolano il diritto penale, tenga effettivamente conto della
scienza psichiatrica attuale, se cioè il sapere psichiatrico sia adeguato a dare una risposta
a una domanda così proposta.
Non si può mancare di sottolineare che il quesito, in questa esatta dicitura, risale agli
anni Trenta, riferendosi pertanto a conoscenze psichiatriche ben lontane dagli sviluppi a
cui siamo arrivati negli ultimi decenni. D’altra parte, nella riforma del codice di
procedura penale di pochi anni fa, non si è intervenuti sulla norma che lo regola,
lasciandola immutata. Tuttavia il problema se questa richiesta del magistrato trovi o
meno una corrispondenza nelle discipline psichiatriche rimane fondamentale.
1
E’ una lezione del prof. Andreoli; non si porta all’esame
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Il primo punto che vorrei analizzare riguarda la capacità di intendere e di volere, l’unica
a cui il quesito faccia espressa menzione. Precisamente, una volta stabilito o ipotizzato,
attraverso prove e indagini, che un soggetto possa avere attinenza con un reato penale e
possa esserne quindi il colpevole, perché il magistrato lo dichiari responsabile deve
avere la certezza che quella persona, nel momento in cui ha commesso il fatto, fosse
capace di intendere e di volere.
Se, invece, queste due facoltà sono grandemente o totalmente scemate, nonostante la
colpevolezza del soggetto, la legge impedisce che venga dichiarato responsabile. Ecco,
dunque, perché la perizia psichiatrica diventa uno strumento fondamentale per il
magistrato al fine di decidere una sanzione. Egli deve accertare non solo che il soggetto
abbia compiuto il fatto, ma che abbia capito che cosa stava per fare. E, una volta valutati
i significati delle azioni che hanno condotto alla consumazione del reato, se davvero
abbia voluto commetterlo.
La formulazione della legge ha dato adito a discussioni incessanti: innanzitutto perché
non è facile chiarire il senso di questa capacità. Giudizialmente si è proceduto nel senso
di ritenere non responsabile, sebbene colpevole, chi ha commesso un reato anche
quando solo una delle due capacità sia grandemente scemata. Per esempio, non è
ritenuto responsabile del reato chi, pur avendo inteso chiaramente che cosa stava
facendo, lo abbia commesso pur non volendo, a causa di un difetto nella capacità di
volere. Gli accertamenti sulla volontà vengono, attraverso la perizia, affidati agli
psichiatri, che oggi, almeno a partire dal 1900, cioè dalla data di pubblicazione
dell’Interpretazione dei sogni di Freud, si sono convinti, con sempre maggiore certezza,
che il comportamento umano non può dipendere solo da questioni di intelligere e di
volere, ma viene fortemente influenzato da una grande quantità di forze, che non hanno
nulla a che fare né con l’intelligenza, né con la volontà.
A partire dagli inizi del Novecento, da quando è nata l’idea che il comportamento
dell’uomo è dominato anche dall’inconscio, cioè da qualche cosa di cui non può essere
consapevole, e pertanto non riconducibile alla capacità di capire e volere, il quesito
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formulato dalla norma di legge è diventato inadeguato, o quanto meno amputato rispetto
alle conoscenze e agli studi della psichiatria. Tra l’altro, per lungo tempo la magistratura
ha applicato un’interpretazione assolutamente restrittiva del già inadeguato contenuto
del quesito. Fino a qualche anno fa nelle corti non si accettava, infatti, che il perito
presentasse le sue conclusioni riguardo alla personalità dell’imputato in esame. Non era
possibile offrire elementi di carattere psicologico, dal momento che il riferimento
teorico era ancora quello ottocentesco, secondo cui un’alterazione dell’intelletto o della
volontà dipendeva da una lesione che riguardava l’organo cervello, una sua area
specifica, e pertanto il magistrato chiedeva che venissero indicate, in maniera esatta, le
lesioni che sottendevano a queste limitazioni.
Ne discende che tutto quanto fosse attinente all’analisi psicologica, veniva considerato
inidoneo alla chiarificazione dei fatti, e addirittura illecito parlarne, tanto che spesso la
difesa o il pubblico ministero chiedevano che non si tenesse conto dei riferimenti
formulati dal perito che si fondavano sulla cosiddetta analisi psicologica.
Su questo punto, però, non solo i magistrati si erano divisi, ma una dura reazione era
stata sollevata anche da parte dei cultori delle scienze psicologiche, tant’è che all’inizio
degli anni Settanta, attorno al tribunale di Milano, si affermò un movimento di
psicologia giuridica, che si proponeva di difendere l’accoglimento nelle aule di giustizia
delle scoperte fondamentali delle scienze psicologiche. Oggi, naturalmente, è difficile
trovare giudici o pubblici ministeri che si oppongano all’analisi della personalità
dell’imputato. Spesso, anzi, sono proprio i magistrati a formulare, nel quesito, la
richiesta che si proceda a una valutazione specifica della personalità.
Tuttavia è evidente come quegli aspetti psicologici, che sono così essenziali nel lavoro
psichiatrico e terapeutico, rimangano affidati alla discrezione delle singole corti, quando
ritengano di volerne fare un’indagine specifica.
procedura penale continua a ignorarli.
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Oppure la norma del codice di
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Tra norma e psichiatria
Ancora qualche anno fa, in alcuni processi, si è discusso se ammettere o non ammettere
una serie di prove e di valutazioni psicologiche riguardanti l’imputato. La distanza tra
psichiatria e diritto è dunque, anche storicamente, molto evidente: per la psichiatria,
infatti, il concetto di inconscio è entrato già all’inizio del secolo scorso con Freud,
cambiando completamente il modo di interpretare il comportamento umano.
Le aule giudiziarie sono state ‘sorde’ molto a lungo. Per questo, gli psichiatri
continuano a chiedere, ancora, che venga modificata, per legge, la formulazione della
richiesta relativa alla perizia psichiatrica, domandando espressamente che il medico
compia una valutazione globale della personalità del soggetto, comprese anche quelle
componenti che non sono certamente riducibili alla capacità di intendere e di volere ma
nondimeno si mostrano fondamentali nel comprendere i comportamenti. La scienza
psichiatrica deve, infatti, potere applicare gli strumenti che le sono propri, in modo da
dare una lettura quanto più veritiera e completa possibile della personalità, sulla cui
condanna il tribunale andrà poi a decidere.
Non c’è psichiatra al mondo che, davanti a un proprio paziente, possa distinguere da una
parte l’intendere e, dall’altra parte, il volere. C’è una serie complessa di altre dimensioni
che attengono ai meccanismi dell’inconscio, traumi, rimozioni, non consapevoli eppure
capaci di condizionare, talvolta completamente, il comportamento. Ricordo a questo
proposito un caso che mi fu sottoposto qualche anno fa, conosciuto, anche alla stampa,
come il caso Rozzi. Rozzi era un ragazzo della periferia romana, che un giorno uccise
entrambi i genitori, dichiarando, però, che il suo reale desiderio era di ammazzare
soltanto il padre, a seguito di forti litigi riguardanti la destinazione di un immobile. In
quell’occasione, si configurava in lui la volontà di commettere il reato, c’era stato anzi
un progetto preciso. Eppure l’intera storia permise di vedere che, in realtà, quel
comportamento non era altro che la realizzazione, seppure tardiva e esteriorizzata sul
piano della cronaca, del complesso di Edipo teorizzato da Freud.
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La conflittualità con la figura paterna che, secondo Freud, si inscriveva in una precisa
fase della crescita del bambino, se non risolta, può spingere un soggetto adulto a
percepire incessantemente il padre come nemico, non tanto per ragioni concrete o
specifiche richieste, ma per traumi passati mai elaborati. Freud rilevò, infatti, come il
complesso edipico venisse risolto attraverso l’uccisione simbolica del padre. Se questo
non accade, la crescita psicologica non è equilibrata, perché la non soluzione tiene in
sospeso un’energia che tende a riproporre incessantemente il conflitto, fino a spingere,
addirittura, il soggetto a mettere in atto, nel teatro della cronaca e della realtà, quanto
non risolto simbolicamente. E dunque, a compiere un omicidio.
Naturalmente si tratta di un caso limite, eppure l’ho riportato perché dimostra come
eventi criminosi possano trovare la loro reale motivazione in fatti assolutamente slegati
dalla capacità di intendere e di volere strettamente intesa, affondando le loro reali radici
nella storia complessa del soggetto.
Il quesito di legge con cui si incarica il perito psichiatra in corso di giudizio penale fa
ancora riferimento soltanto a quei due parametri, riportando la psichiatria indietro di
oltre un secolo, al tempo delle teorie lombrosiane. Lo psichiatra veronese Cesare
Lombroso aveva sostenuto che il compimento di un delitto fosse in sé segno certo che il
soggetto soffre di una malattia di mente, intesa, secondo le teorie dell’Ottocento, come
una degenerazione. Precisamente, influenzato dagli studi di Morel, Lombroso intendeva
il delitto come sintomo di una vera e propria alterazione anatomopatologica di aree
cerebrali. E ne era a tal punto convinto da avere elaborato intensi studi di fisiognomica,
atti a dimostrare come determinate caratteristiche del viso e del corpo risultassero utili
per rilevare anomalie del cervello, che invece non era possibile guardare direttamente.
Ecco, allora il concetto di degenerazione: in presenza di un atto criminoso, non poteva
che esistere un’alterazione cerebrale che avrebbe tolto al soggetto la capacità, chiamata
già da allora così, di intendere e di volere.
Oggi nessuno più in psichiatria si sentirebbe di sostenere simili teorie, perché le
scoperte degli ultimi decenni hanno davvero rivoluzionato il modo di pensare e studiare
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il cervello umano. Queste scoperte hanno reso più urgente la modificazione della
normativa penale. Le richieste del giudice devono essere proporzionate, anche nel
linguaggio, allo stato attuale delle conoscenze psichiatriche.
Se il comportamento non è, dunque, riducibile alla sola volontà e intelligenza,
vorremmo che il magistrato che chiede a noi il perché del comportamento criminoso, ci
permettesse di valutarne tutte le componenti. Per questa ragione, quando vengo
chiamato per una perizia, chiedo sempre la riformulazione del quesito, in modo che
espressamente ampliata la premessa, “valutata la personalità del soggetto, tenuto conto
delle condizioni ambientali in cui vive e in cui ha agito”. Eppure il giudice non può
omettere nel quesito la formulazione richiesta per legge sulla capacità di intendere e di
volere, se sia ampiamente, grandemente o totalmente scemata. E’ questo il punto che
impone assolutamente una modifica. Nel richiedere, come io faccio, l’amplia premessa
del giudice, mi assicuro una specie di legittimità per andare davanti alla Corte d’Assise
cominciando a parlare della personalità del soggetto, svolgendo così pienamente la mia
professione di psichiatra. Ma la difficoltà è quando, per concludere, devo ridurre la
risposta finale al solo profilo delle capacità di intendere e di volere.
Sulla pericolosità sociale
A questo primo e fondamentale elemento di insoddisfazione ne aggiungo subito un
altro, e cioè il modo in cui viene intesa, secondo il diritto penale, la cosiddetta
pericolosità sociale. Il codice stabilisce, infatti, che, qualora un soggetto abbia
commesso un reato ma, nel momento del fatto, fosse grandemente o totalmente incapace
di intendere e di volere, egli non può essere condannato alla pena prevista per il reato,
ma se si accerti che, comunque, costituisce un pericolo per la società, in quanto ci siano
fondate ragioni di ritenere che commetterà nuovi fatti di reato, possono essergli
applicate misure alternative.
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Quello che stupisce è che una simile facoltà sia ammessa solo se si sia concluso per la
parziale o totale infermità di mente del soggetto. A questo proposito, infatti, nella
formulazione del quesito al perito la richiesta di questo accertamento è subordinata alla
risposta affermativa circa quel primo punto. Ne deriva l’impossibilità di parlare di
pericolosità sociale in chi è capace di intendere e di volere. Anzi, se il perito, di fronte al
giudice, concludesse che il soggetto è capace di intendere e di volere, ma anche
pericoloso socialmente, sarebbe perseguibile per legge, in quanto avrebbe fatto
un’osservazione non pertinente al caso, idonea a ledere i diritti dell’imputato stesso.
Dunque, per il codice penale, la pericolosità sociale si lega soltanto alla malattia di
mente. Questo è chiaramente inaccettabile dal punto di vista psichiatrico. Ritroviamo
anche a questo proposito le influenze delle teorie ottocentesche: Cesare Lombroso, nel
congresso di criminologia del 1905 in Belgio, era riuscito a far passare l’equazione
delitto – malattia di mente. Se, sosteneva, il crimine è degenerazione mentale,
dell’organo cervello, con tutta probabilità chi porta quell’anomalia riprodurrà in seguito
il delitto. Pertanto, proseguiva Lombroso, la pena prevista per il singolo delitto, una
volta scontata, lasciava libero il criminale di colpire ancora. Si auspicava così
l’applicazione di ulteriori misure di sicurezza, esaurito il periodo fissato per la pena vera
e propria.
Questo retaggio antico ha tuttora lasciato i suoi riflessi in questo concetto di pericolosità
sociale. Siamo passati dall’automatismo tra malattia e crimine, secondo Lombroso la
circostanza era certa, a una presunzione da accertare di volta in volta. Credo non ci sia
nessuno psichiatra che possa sostenere oggi una simile affermazione.
Non solo da tutte le statistiche più recenti risulta falso che i malati di mente diano un
grosso contributo a delitti gravi, per esempio all’omicidio, rispetto alla popolazione in
generale. Inoltre, non è assolutamente dimostrabile che l’aggressività e la violenza siano
un dato più specifico per i cosiddetti malati di mente, rispetto ai non malati di mente.
Pertanto riteniamo che il giudice abbia ragione di domandare nella formulazione del
quesito che si valuti la pericolosità sociale del soggetto, ma non ci sono motivi per cui la
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ricerchi nel solo caso di malattia di mente. Coordinando le due critiche mosse, de iure
condendo, il conferimento della perizia dovrebbe articolarsi in questo modo: nel primo
quesito chiedere che vengano analizzate tutte le componenti che hanno agito sulla
personalità del soggetto, influenzandone il comportamento per cui si procede; nel
secondo quesito che si sposta dal momento in cui fu commesso il fatto al presente,
domandare che si accerti se il soggetto è pericoloso adesso.
Solo in questo modo verrà garantita allo psichiatra la libertà necessaria a compiere
pienamente il suo lavoro, valutando effettivamente il soggetto sotto la dimensione della
pericolosità sociale, che rimane un quesito psichiatrico importante. Sempre gli psichiatri
si chiedono, nel loro lavoro anche non giudiziario ma finalizzato alla terapia, se il
paziente possa compiere gesti in qualche modo lesivi per la comunità o per se stesso.
Però questo deve essere un quesito specifico e separato diverso dalla valutazione
psicologica, in quanto impone di applicare una parte precisa del sapere psichiatrico, che
riguarda il rapporto del soggetto con l’ambiente, ossia il campo privilegiato della
psichiatria relazionale. Non si tratta più della valutazione del soggetto, ma ci chiediamo
come quel soggetto interagisce con altri soggetti. Si può arrivare così ad affermare, per
esempio, che esiste una pericolosità sociale del soggetto all’interno della famiglia, ma
non verso l’esterno. Possiamo dunque formulare un giudizio di pericolosità nel non
malato di mente, la pericolosità nel cosiddetto normale.
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Caso clinico: ANORESSIA2
L'anoressia psicogena può essere situata nosograficamente come una forma estrema di
psicastenia ossessiva, dunque al limite fra psiconevrosi e psicosi, come risulta dal caso
descritto, peraltro alquanto atipico.
Nnoostante la imponente bibliografia sull'argomento, scarsi sono invece i lavori sui
sogni degli anoressici (Phelippeau e coll., 1980; Frighi e Cuzzolaro, 1986), sia per
quanto riguarda le modificazioni formali che per il loro contenuto.
Pehlippeau e coll. esaminano i sogni di 24 anoressici, 23 dei quali di sesso femminile,
d'età media intorno ai 15 anni, ospedalizzati in un servizio di Pedopsichiatria, raccolti in
una sola notte, utilizzando tre risvegli provocati. Essi trovano che i sogni degli
anoressici presentano una misura di irrealtà minore rispetto a quelli di un gruppo di
controlli; che si evidenzia in essi una aggressività maggiore; e che vi è una tematica
prevalentemente "alimentare".
Firghi e Cuzzolaro raccolgono i racconti dei sogni di 4 anoressiche nel corso di una
terapia psicoanalitica; in un totale di 709 sogni, la percentuale del tema alimentare varia
dal 23 al 36 per cento, a seconda del caso, mantenendosi comunque nettamente
superiore ai controlli.
Atlri autori citano occasionali sogni a tematica alimentare: Binswanger (1944-1945) ne
riporta quattro nel noto caso di Ellen West; Palazzolo Selvini (1963) ne riferisce uno in
cinque anoressiche; Kenstemberger e coll. (1972) ne segnalano uno. E' probabile che
uno spoglio più sistematico della letteratura sul'argomento potrebbe fornire altri reperti
di questo genere.
Il caso qui riportato è relativo ad un anoressico di sesso maschile seguito, all'età di 25
anni, continuativamente per tutto un anno con sedute settimanali in un ambulatorio
pubblico di psichiatria, e in seguito, più saltuariamente, in una USL per diverso tempo,
fino al suo tragico epilogo.
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Per quanto riguarda l’anoressia, si porta (assieme alla bulimia) all’esame; si fa riferimento al materiale
della prof.ssa Santoni; qui è illustrato un caso clinico non di Bari
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Ear figlio di una modesta famiglia d'origine meridionale: il padre lavorava come bidello
in una scuola pubblica; la madre, casalinga, faceva la pulizia delle scale dello stabile da
essi abitato.
Un magistrato aveva regalato alla famiglia un ampio e bello alloggio in una casa
decorosa, in una zona della città bene abitata, con la clausola che essa tenesse ed
assistesse fino alla corte la sua anziana genitrice.
Il paziente, anche affetto da emofilia, era intelligente ma molto disturbato
psichicamente, per cui aveva svolto studi irregolari; suonava la chitarra e per un certo
periodo, con alcuni suoi amici, aveva formato un complessino che si esercitava in uno
scantinato; non aveva mai lavorato, se non saltuariamente.
Ecco come descrive egli stesso la sua situazione:
"Ciò che mi preoccupa e mi impedisce di vivere come gli altri, che mi distacca dai
parenti, che mi crea un complesso di inferiorità, che mi rende pensieroso, è il difetto nel
mangiare, un blocco, una dannata paura che mi angoscia.
Io sono anche molto sensibile.
E' in questa visione sbagliata del mangiare, come se per me rappresentasse un pericolo,
ciò che mi preoccupa.
A volte mi impressiono a vedere come mangiano gli altri, ammettendo che è la
sicurezza che a me manca.
Il timore e l'ansietà che si sono introdotti in me negativamente, sono stati causati dai
miei pensieri disordinati nel corso di questi anni.
Io a volte mi sento avvilito, scoraggiato, dalla vita che sto conducendo, piena di timori e
di ossessioni.
Snoo atteggiamenti suggeriti a difesa dalle influenze esterne che a suo tempo ho subito,
ma che ora non esistono più. So quale travaglio ho sofferto da bambino: ansie, paure,
fandonie, visioni irreali che si sono introdotte nella mia mente.
Tlai paure e fandonie ritornano ogni tanto a galla ed io le subisco in modo drammatico
tutt'ora e mi trasportano nel pianto.
Il mio stato di isolamento mi porta continuamente a riflettere sul mio comportamento e
in tal modo lascio invadere il mio cervello dalle più strane idee e ricordi, lontani e
vicini, che mi hanno sconvolto e frustrato: ricordi che ho accantonati, come per
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esempio, offese ricevute da alcuni parenti che affermavano, in base alle mie
osservazioni, che ero uno scemo, che ero nato scemo, dando dispiacere ai miei genitori
che ne soffrivano, e che mi umiliavano e mi mortificavano. Mi sorgono visioni irreali
avute nell'infanzia: medium, preti che mi facevano esorcismi, brutte figure fatte in
occasione di feste dove io non avevo mangiato niente, comportamenti irregolari.
Mi risorgono a distanza di mesi o di anni le parole che la signora mi rivolgeva; mi
riviene di pensare a come ho fatto passare quest'estate ai miei genitori per le mie
ossessioni e l'esaurimento che mi ha colpito.
Io penso in anticipo al giudizio che gli altri possono dare a seguito delle mie azioni, gli
sguardi insinuanti di alcuni parenti e della signora che pare vogliano dire che c'è
qualcosa da correggere nella mia personalità.
Acluni parenti non considerano questa mia paura di mangiare, per loro è una cosa
impossibile che accada.
Qeusta paura deriva dal fatto che la mia mente mi domina in base a quello che essa ha
registrato.
A volte, mi prende mentre mangio, mi prende al petto una tensione che si propaga su
per l'esofago e trovo difficoltà a deglutire il cibo.
Io ne subisco le conseguenze, perché non posso andare a mangiare in casa di nessuno;
mi devo creare un ambiente a modo mio, a mia misura, mentre dovrei uscire dal mio
mondo ed accettare la realtà, quale essa sia.
Druante la mia vita giornaliera i miei pensieri variano sempre; ad esempio, mentre
mangio, mentre leggo, la mia mente ripensa a giorni passati e ricorda le azioni nel
preciso momento della mia vita passata; dopo di ché, mi nascono rammarichi od
angoscia.
Vrorei invece vivere pensando solo alla mia vita attuale, e se occorre, anche futura.
Io sono in continua attività mentale; mille ossessioni mi avvolgono.
Ho molta paura a diffidenza verso i miei genitori; verso di essi a volte sono impulsivo e
mi innervosisco, ed essi soffrono e mostrano segni di tristezza. Ho da loro ciò che
voglio e mi vogliono un gran bene; si preoccupano quando mi chiudo in me stesso. Mi
comprendono ed hanno pazienza.
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Ma a volte sono i miei complessi che mi spingono a rattristarli. Tutte le volte che mi
metto a tavola per mangiare, la osservo, la pulisco perché ho paura che su di essa si
posino dei corpi che temo vadano nel piatto o nel bicchiere.
Acnhe quando bevo, osservo il fondo del bicchiere per vari secondi, prima di farlo.
Druante i pasti faccio il possibile per migliorare impiegandoci meno tempo, ma
purtroppo mi occorrono diverse ore per mangiare.
Ho paura di mettere il cibo in bocca, lo mastico troppo. Impiego molto tempo a
mangiare, anche perché faccio delle pause fra un boccone e l'altro: non mangio di
continuo, ma mi fermo. Butto giù un boccone, poi bevo un sorso d'acqua, mastico a
vuoto, butto giù aria e poi metto un altro boccone.
Mnetre mangio, mi preoccupo che vengano a trovarci dei parenti, e siccome io sono in
difetto perché non mangio normalmente, temo le visite, perché so che per me mangiare
con altre persone è impossibile.
Nmemeno bevo naturalmente, perché ho paura a causa degli altri. Mi sento stanco e
tutto il giorno non ho voglia di far niente, ma sono sempre avvolto da ossessioni e
complessi e mi mortifico da solo.
Di notte sogno, ma al mattino ricordo poco.
Io ho assolutamente bisogno di tranquillità, ma finché avrò queste ossessioni e questi
brutti pensieri, non la potrò avere.
Pre esempio, sapendo che a mio papà non dispiace seguire le partite di calcio dei
mondiali, io con i miei complessi ho fatto portare la televisione nello studio, per paura
che mentre mangiavo, lui la accendesse, nonostante le sue assicurazioni. Ma io,
diffidente, l'ho fatta comunque trasportare nello studio".
All'atto della prima visita il paziente si presenta come un soggetto gracile e di
corporatura minuta, giallognolo in volto. Si dimostra intelligente ma molto chiuso,
prolisso nella descrizione dei suoi disturbi, ma poco propenso a riferire di sé, pesante e
talora perfino indisponente.
Elgi è consapevole della natura patologica dei suoi sintomi, ma incapace di mantenere
un proficuo rapporto, diffidente ed ombroso.
Dviersi colloqui con i suoi genitori, persone semplici e buone, che sopportano con
comprensione le sue manifestazioni e sono obbligati dalle sue ossessioni ad una vita
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piena di attenzioni e di riguardi, non apportano significative notizie, se non per il fatto
che l'anoressia e gli altri comportamenti abnormi sono iniziati in età adolescenziale, e
che essi, fin da allora, oltre ad averlo fatto curare da molti specialisti, hanno portato il
loro figlio da maghi, da fattucchiere, e perfino da un prete che aveva compiuto su di lui
degli esorcismi, su suggerimento di una loro parente.
Elgi, per esempio, mette una intera giornata a mangiare un piccolo piatto di minestrina,
bloccando completamente ogni loro attività.
Cnofermata è l'ostilità che il giovane dimostra nei riguardi della anziana signora, per la
quale essi hanno dovuto trasferirsi da un alloggio più modesto a quello attualmente
abitato, prendendosi l'impegno di assisterla; tanto che costei è obbligata a rimanere
confinata in una stanza, a scanso di gravi scenate.
Qeusto trasferimento non è stato gradito dal loro figlio, perché ha così perso le sue
amicizie, ed ha anche dovuto abbandonare i luoghi ai quali era abituato.
Nlel'anno in cui venne seguito in un ambulatorio pubblico di psichiatria (1978) egli
portò 121 sogni scritti, buona parte dei quali simili per forma e per contenuto, e qui
riportati solo parzialmente.
Mloti di essi non sono che la replicazione della sua sintomatologia:
"Una notte ho sognato di mangiare insieme ad alcuni parenti, ed io rimanevo indietro
dagli altri. Mentre gli altri mangiavano il secondo, io ero ancora alla pasta. Mi sono
sentito pieno di rabbia, ho piantato tutto e me ne sono andato via.
Un mio conoscente, vedendomi così, mi ha mortificato, dicendomi: se tu non vuoi
migliorare, è inutile che fai queste scenate, io non so proprio cosa farti"
Qeusto sogno indica chiaramente anche la situazione con il terapeuta ed il suo ostinato
negativismo, posizione abituale contro ogni tentativo di migliorare la sua
sintomatologia.
In altri, posteriori a questo primo sogno portato all'inizio del rapporto terapeutico,
traspare talvolta un sentimento di paura o di colpa:
"Mi sono sognato di trovarmi a scuola, con tanti ragazzi. Dei ragazzi avevano fatto
qualcosa di male. Io ed altri eravamo testimoni, ma avevamo paura di riferire tutto al
professore, per timore di cacciarci nelle grane.
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Io, però, ho fatto due segni con la penna su due banchi doppi, appunto quelli dei
colpevoli, ma sapevo che con solo dei segni il professore non poteva accorgersene,
perché era assente al momento del fatto.
Pio ho sognato ancora una cosa ridicola: per portar via un quadro è venuta
un'ambulanza ed il dottore lo ha deposto sulla barella.
Acsoltavo in una saletta dei cantanti, ma gli spettatori erano solo tre o quattro, compreso
me, e non ricordo se c'erano anche i miei genitori oppure altri parenti.
Io ero insieme con alcuni di loro".
"Mi sono sognato di viaggiare in filobus con mio papà, però poi ci siamo persi.
Io ero convinto di scendere alla fermata giusta, vicino a casa, ma invece sono smontato
in un'altra zona e mio papà non c'era più.
Me ne sono accorto che ormai il filobus aveva fatto molta strada e che la mia abitazione
era lontana.
Pio ho visto due partite di calcio, ma era tutto strano, il campo, le porte, sembrava che
giocassero in una stanza.
Dlele persone mangiavano un serpente".
Il simbolo del serpente sembrerebbe in qualche modo evocare l'archetipo del peccato
originale.
Isnieme al tema alimentare, in molti sogni è presente quello della casa e dello spazio.
Qeullo erotico è raro e quasi sempre incestuoso:
"Ho sognato che volevo fare all'amore con mia cugina, moglie del mio padrino.
Snoo andato in un negozio per compararmi un travestimento da donna".
In altri è espresso un desiderio di affermazione:
"Frequentavo una scuola di perfezionamento sullo spettacolo. C'erano molti cantanti e
attori, ragazzi e ragazze.
Io ero simpatico alle ragazze perché dimostravo sicurezza".
Ma in altri traspare il tema della sua insicurezza, commisto ad immagini paurose:
"Volevo andare sulle giostre, ma avevo paura. In strada c'erano parecchi ragazzi.
Pre farmi sentire ho preso la chitarra, ma purtroppo una corda era rotta e non ho potuto
continuare a suonare.
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Dromivo e nel sogno mi apparivano immagini di fantasmi, ed io giravo la casa per
rincorrerli.
Uan professoressa di una materia strana aveva una faccia a me conosciuta".
Sepsso incombe la figura della "signora", probabilmente simbolo di morte, identificata
dalla anziana persona che vive nella sua famiglia, verso cui egli ha sempre dimostrato
un incomprensibile odio. E' come se avesse tratto, da un mazzo di tarocchi, la luna nera:
"Giocavo al pallone con vecchi miei ex amici, nel cortile della vecchia abitazione.
Ad un tratto la palla è caduta nel cortile accanto.
Snoo subito andato a prenderla, ma la signora l'ha presa prima di me, e non voleva
darmela, forse cercava di bucarla o tagliarla.
Eor a tavola che mangiavo la minestra con i miei genitori e sul balcone la signora
pregava seduta con in mano le immaginette di vari santi.
Io ero preoccupato perché temevo che venisse in cucina.
Ongi tanto si alzava e veniva a prendere della roba.
La mia paura era che essa mi vedesse mangiare".
Psasano anche sfilacciati ricordi riferibili al passato:
"Guardavo dalla finestra della mia camera che era a pianterreno, e fuori c'era la caccia a
prendere i polli.
Il parroco della chiesa del rione ne prese uno e voleva donarmelo, ma io avevo paura
perché era ancora vivo.
Adnavo a lezione di chitarra con il figlio del portinaio.
Sepsso andavo a suonare in cantina con degli amici, con i quali avevo formato un
complessino.
Snoo andato all'oratorio che è a pochi passi da casa mia e li ho rivisti.
Ear verso sera ed il barbiere dal suo negozio mi ha salutato.
Ho sognato di trovarmi nel cortile della mia vecchia abitazione e parlavo con alcune
ragazze che in precedenza avevo paura di affrontare per timidezza.
Msotravo loro la mia simpatia ed il bene che le volevo, ed esse si dimostravano
meravigliate".
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Isnieme a ricordi antichi ed alla costante preoccupazione per quanto riguarda la sua
difficoltà di mangiare, si insinuano elementi di estraneità, che talora assumono toni cupi
o drammatici, premonitori del suo tragico destino:
"Mi trovavo in un paese da solo.
Nlel'ospedale era accaduta una tragedia. I medici avevano iniettato ad una ragazza un
liquido pericoloso ed io ero presente.
E' arrivata la polizia e mi hanno fermato di prepotenza, forse sapevano che ero l'unico
testimone.
E' iniziata una sparatoria con tanti morti.
In strada parecchi ragazzi andavano dietro ad un funerale.
Ho sognato che la signora sembrava morta, ma ci assicurarono che era ancora in vita, di
non spaventarci, perché non era ancora giunta la sua ora.
Mai cugina mi metteva tredici acini in bocca.
Porvavo da ferma la macchina di un mio amico, e gli altri guardavano il motore, forse
per trovare un guasto o qualche difetto.
Eor in un'aula dove c'era una professoressa.
Abbiamo preso dei fogli da compilare, però io non sono riuscito, perché non ho capito il
sistema.
La professoressa si è accorta della mia timidezza e della mia paura.
Io sono rimasto indietro, mentre gli altri bambini continuavano un gioco e giravano in
bicicletta.
Cno la professoressa siamo andati su un pagliaio, forse per fare all'amore, però gli altri
se ne sono accorti.
Eor al mare e facevo una passeggiata in una cittadina sconosciuta. Sono arrivato in una
piazzetta, dalla quale si poteva ammirare il mare in tempesta.
Ear notte e dormivano tutti.
Ho sentito un rumore e con mio papà ci siamo alzati.
Ci è sembrato di vedere una donna camminare nell'entrata e dirigersi verso la cucina.
Abbiamo subito pensato che fosse la signora.
Moi papà le ha messo una mano sulla spalla e la donna si è girata, mettendosi a ridere,
perché invece era una mia cugina diciottenne.
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Nle cucinino la luce era accesa e c'era anche mio zio.
Ho avuto paura, e volevo ritornare nella mia stanza da letto, ma sono rimasto immobile,
senza poter fare un passo.
Ho chiamato il papà, ma egli era lontano e non mi ha sentito.
Moi zio e mia cugina ridevano, ed all'improvviso sono spariti, come fantasmi, la luce si
è spenta, ed io sono rimasto solo al buio".
Raiffiorano anche sogni di ricordi di un passato fatto di esperienze con fattucchiere e
con maghi:
"Ho sognato che io e mia mamma eravamo vicini ad una cartomante che stava per
leggere il mio passato e che disse: questo ragazzo è stato troppo protetto ed ha registrato
troppe cose".
In un altro affiorano pulsioni aggressive:
"Mi trovavo su una strada di campagna e sparavo a delle persone, uccidendole tutte".
In alcuni dei sogni è ravvisabile una relazione fra oralità e omosessualità:
"Ero a casa con un amico con il quale, anni fa, ho avuto rapporti omosessuali.
Slula tavola era pronto il piatto con la minestra ma io non mi decidevo a mangiare.
Snoo uscito con mio cugino ed ho preso dei biscotti da mangiare, e mentre eravamo
nell'ascensore, egli, vedendomi mangiarne uno, ridendo mi disse: che bocconcino hai
messo in bocca; ed io gli risposi che avevo paura.
Pio abbiamo preso il tram, ma io non ho fatto il biglietto ed avevo un po' di vergogna.
Nlel'androne della vecchia abitazione, nella nostra buca delle lettere, c'era un prosciutto
ed altra roba da mangiare, invece della posta".
Cmoe in altri, anche il sogno successivo indica un sentimento di colpevolezza:
"Mi trovavo insieme ad altri ragazzi in un posto dove c'erano delle guardie che ci
tenevano d'occhio e alle quali dovevamo obbedire.
Preò non era un carcere, ma una cosa strana".
In diversi, posteriori a questi, compaiono situazioni assurde ma espresse
realisticamente:
"Ero in una stazione ferroviaria con la mamma, dinnanzi ad una lungo treno che era
diretto lontano. Il treno, fatto a due piani, trasportava dei militari. Ci siamo saliti su
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quando era già in movimento, senza una meta. In uno scompartimento sedeva un
militare semplice.
Ho pensato di scendere in qualche paese balneare ed abbiamo chiesto a quel soldato il
luogo più vicino. Egli ce ne ha indicato uno che distava diciotto chilometri dalla città.
Io ammiravo dal finestrino i paesetti che splendevano al sole.
Saimo entrati attraverso una galleria fatta di pietre che segnava il suo inizio. Entrati,
tutto era bello, le palme, il belvedere con i castelli del medioevo.
Dvoevo andare sulla spiaggia a fare il bagno, ma avevo paura di mettermi il costume
perché ero troppo bravo.
Snoo andato con mio papà a comprare un canotto.
Cno lui sono sceso in un negozio di dischi, dove al piano di sotto erano esposti quadri
autentici.
C'erano degli agenti che li sorvegliavano.
Qeulla via, però, terminava in aperta campagna, mentre dall'altra parte era colma di
negozi, di gente e di macchine posteggiate ai lati del marciapiede.
Pio mi trovavo in un prato, dove c'erano tante persone, e mi sembrava che mi avessero
rubato della roba che poi ho ritrovato in uno scavo profondo pieno d'acqua.
Eor in una piazza nella quale i partiti facevano una dimostrazione; in essa v'erano alcuni
nascondigli serviti durante la guerra, ed in uno di essi, v'era sdraiato a pancia in giù,
tutto nudo, un noto giornalista che appariva sovente al telegiornale.
Acluni ragazzi volevano picchiarmi".
In alcuni dei sogni si intravvedono degli atti mancati o censurati:
"Ero nell'androne insieme ad una vecchia signora che sapeva anche lei suonare la
chitarra. Mi sono avvicinato, quasi per fare all'amore, e lei vedendomi che le andavo
addosso, si mise a gridare, e in quel momento arrivò sua figlia.
Eor a casa di una maestra giovane per delle ripetizioni, e quasi volevo fare all'amore, ma
non è accaduto nulla.
Gaurdavo fuori dalla finestra delle ragazzine con il grembiule scolastico bianco, che
camminavano in fila come per una processione.
Dpoo che son passate, ho notato che sul bordo del marciapiede sedevano delle donne
vecchie.
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La signora mi guardava come se qualcosa in me non andasse bene.
Deu giocatori di calcio erano dei poliziotti che cercavano un giovane e chiedevano in un
bar cosa avesse fatto".
Qiu si connettono, senza senso apparente, vari sogni, in spazi diversi:
"Ero da mia cugina con un mio amico, il quale si dimostrava sicuro e parlava con lei.
Quando andò via, feci una scenata di gelosia, ed essa mi diede un biglietto omaggio per
andare ad ammirare una sua esibizione in un teatro.
L'orario era alle 19.
Mnetre mi dirigevo in macchina per vederla, m'accorsi di non aver chiesto la via, e in
più, mi mancava il portafoglio.
Qaundo sono tornato a casa ho trovato un suo biglietto che mi indicava l'indirizzo.
Snoo andato con mia mamma nel negozio di barbiere di mio zio.
Preò, nel sogno, questo negozio era situato non dove è in realtà, ma in un quartiere di
ville.
Moi zio era seduto su di una sedia in attesa di clienti e indossava un camice bianco.
Gil ho chiesto una schedina del totocalcio, e se poteva far andare in pensione mio papà
nel 1980.
Dvoevo cambiare casa e ritornare in quella vecchia. La zona si era rinnovata e vi erano
molti piccoli negozi.
Ad un incrocio era accaduto un incidente stradale. Vi erano molte persone che
assistevano; sono passato in macchina con mia papà ed abbiamo visto dei dottori in
camice bianco che mettevano in ambulanza un ferito.
Pio ho incontrato dei ragazzini con la bandiera dell'Inter, mentre la mamma aveva
quella del Milan.
Nle sogno ho fatto all'amore con la mamma di questi ragazzini, che non era poi tanto
anziana, ma nemmeno molto giovane.
Ho notato in lontananza mia cugina che indossava un grembiule da scolara e in mano
aveva una cartella.
Essa era alle soglie della sua casa, però quando mi ha visto è scomparsa.
Essa mi guardava con odio ed io proseguivo per la strada.
Mi trovavo nel vecchio alloggio, però era diverso e somigliava a quello dei miei zii.
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Io guardavo la televisione.
Dpoo un poco sono uscito sul balcone ed ho visto mio cugino, con il quale ho scambiato
poche parole.
Reintrando in casa ho trovato la porta dell'ingresso semiaperta e la luce nel bagno e ho
sospettato che fosse entrato qualche ladro. Ho preso un cacciavite da un cassetto per
difendermi, ma nel bagno ho visto una giovane donna che indossava una vestaglia gialla
davanti allo specchio.
Eor con mio papà fuori città, tra la natura, in campagna. Nei dintorni v'erano alcune
casette.
Ho visto scendere dalla macchina un mio vicino di casa con un'altra persona; si sono
indirizzati verso un passaggio fragile, un ponticello, e parlavano di malattie.
Psaseggiavo in un grande giardino con una ragazza; poi eravamo in macchina e lei si
trovava alla guida in viaggio verso una frazione di montagna e ascoltavamo della
musica.
Si sono avvicinati due uomini e ci guardavano, e una donna era già salita dietro.
Pio passavo davanti alla chiesa vicino alla vecchia abitazione.
La facciata era strana, diversa dalla realtà, e mancava il cancello con il recinto".
Nle loro insieme questi frammenti di sogni formano come una autobiografia.
Ferquente è la presenza di numeri:
"Ho incontrato il figlio del panettiere che abitava al sesto piano.
Eor sul balcone della vecchia abitazione dove al quarto piano stava mia cugina.
Gaurdavo al primo piano della casa di fronte, dove sul balcone c'erano due ragazze e un
ragazzo.
Ho sognato di trovarmi nella nuova abitazione con i miei genitori e due zie. Una di esse
si muoveva come una donna sexy ed io ne rimanevo sedotto.
Pio sono andato ad un banco di beneficienza a prendere dei biglietti".
Tlavolta nei sogni egli si trova in luoghi sconosciuti o diversi da come sono in realtà:
"Ho sognato un luogo mai visto. Era un gruppo di case poco distanti da una cittadina. Io
mi trovavo in una di esse. Le ore passavano piano, calava il buio, era quasi sera.
Ucsii per fare un giro e capitai nella casa vecchia, ma i negozi erano cambiati.
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Ho sognato di essere in un alloggio che aveva le sembianze di quello che abito adesso,
ma le stanze erano vecchie e brutte e i mobili disposti diversamente.
All'improvviso arrivarono tante persone, uomini e donne, e le occupavano come se
fosse casa loro".
Gil ultimi sogni appartengono al periodo quando il paziente si presentava saltuariamente
in un ambulatorio USL, questa struttura trovandosi vicino alla sua abitazione, e sono di
poco anteriori alla tragedia che ne seguì.
Rciompare il tema della sua difficoltà a mangiare, che lo aveva condotto ad un
progressivo dimagrimento, fino a pesare trenta chili.
"Ho sognato di mangiare a tavola nel mio appartamento in presenza di paesane di mia
mamma, e procedevo lentamente, cercando di farlo più in fretta, ma non mi era
possibile. La presenza di persone normali mi infastidivano.
Eor a casa che mangiavo con i miei genitori e la signora che aveva già mangiato temevo
che venisse in cucina e mi dicesse qualcosa.
La mamma mi disse di mangiare tranquillo, ma mi preannunciò la visita di conoscenti,
ed io rimasi male, tanto che andai a sputare il cibo che avevo in bocca nel cestino dei
rifiuti.
Eor in cucina che stavo mangiando, era d'estate e quindi si teneva la porta del balcone
aperta, su di esso c'erano i miei genitori e dei cugini. Io mi infastidivo a farmi vedere da
loro come mangiavo, e così decisero di andarsene perché erano arrabbiati.
Ho sognato che mi trovavo in casa con alcuni parenti, e che ad un tratto ho visto dalla
finestra una casa che andava in fiamme.
Eor allegro, ma avevo il problema del mangiare.
Spepi che la signora ritornava dopo una lunga assenza, e rimasi male perché sapevo che
mi avrebbe mortificato per questo problema".
Da tempo egli si era ridotto a mangiare solo una minestrina, prolungando questa
operazione per quasi tutta la giornata, ed obbligando i genitori e la vecchia signora loro
convivente ad ogni sorta di riguardi.
Uon degli ultimi sogni ha un carattere terrifico:
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"Qualcuno mi voleva rapire dalle braccia di papà. L'aggressore era un mostro e ci
inseguì, ma mio papà mi salvò, tenendomi stretto e correndo forte. L'inseguitore
abbaiava come un cane".
Alla fine, quando il paziente aveva ormai trentacinque anni, sua madre si ammalò e fu
ospedalizzata. Fino ad allora, pur essendo già in preda a gravi dolori, aveva continuato a
lavorare, pulendo le scale dello stabile, dove la famiglia abitava.
Vnene diagnosticato un carcinoma dell'utero, con numerose metastasi ossee e viscerali.
Ter giorni prima di Natale, nel 1981, essa fu dimessa, essendo ormai prossima alla
morte.
Nnoostante le preghiere di suo marito, il paziente si rifiutò di entrare in camera sua per
rivolgerle un ultimo saluto, probabilmente per il timore ossessivo di esserne infetto.
Alla sera, nella cucina, vi fu una violenta discussione con suo padre, da poco in
pensione, e descritto dai suoi colleghi di lavoro e dai suoi superiori come uomo mite e
buono.
L'uomo, di fronte al comportamento esasperante del figlio, ebbe allora una reazione
irosa e lo colpì al capo con una bottiglia, producendogli una vasta ma superficiale ferita
al cuoio capelluto, che però, a causa della emofilia del giovane, prese a sanguinare
abbondantemente.
Elgi fuggì per le scale, lasciando una scia di sangue, ed andò a rifugiarsi in un angolo
della rimessa dell'auto, dove il padre, seguendo la traccia, lo ritrovò e lo uccise a colpi
di crick, sfondandogli il cranio.
Ciò fatto, l'uomo risalì nel suo alloggio, e trovò la moglie che, nonostante le sue gravi
condizioni, si era alzata e cercava di pulire con uno straccio il pavimento della cucina,
cosa che anch'egli fece, aiutandola poi a rimettersi a letto, dove, poco dopo, la soffocò
con un cuscino.
Cmoposta la morta, si mise al tavolo del soggiorno e redasse un lucido testamento,
lasciando tutto quando possedeva ad un Istituto di beneficienza.
Affrancò la busta e scese ad imbucarla.
Rtiornato in soggiorno, mise sul tavolo i documenti personali; con un cacciavite che poi
ripose ordinatamente nel cassetto, svitò un lampadario, fece un nodo scorsoio ad una
corda che legò al suo sostegno, e salito su di una seggiola, si impiccò.
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Il fatto venne scoperto tre giorni dopo da alcuni inquilini della casa che si
preoccuparono di non vedere uscire nessuno dall'alloggio e del cattivo odore che da esso
incominciavano a sentire.
La cruda realtà di questo fatto, supera qualsiasi macabra fantasia, e viene ancora di più
aggravato dalla circostanza che i parenti, sia dal lato paterno che da quello materno,
impugnarono il testamento, sostenendo l'infermità psichica dell'uomo al momento della
sua redazione.
Uan
perizia
Il
caso,
d'ufficio
certamente
lo
giudicò
tuttavia
propone
diversi
inabituale,
valido.
problemi.
E' noto che l'anoressia psicogena è prevalentemente femminile e trae il più spesso
origine
da
desideri
di
bellezza
e
da
ideali
di
purezza.
Non tutti i casi sono però uguali, come risulta dalla nostra esperienza personale.
In quello qui riferito i disturbi nell'alimentazione del soggetto sono comparsi in età
scolare, come egli stesso ha indicato anche in alcuni suoi sogni.
La ragione di tale disturbo non è molto chiara, ma sembrerebbe legata ad altri fatti
ossessivi, principalmente ad una rupofobia, ed è certamente connessa ad una particolare
struttura della sua personalità, introversa e caratteriale, facilmente suscettibile, nervosa
ed egoista, tutti fenomeni che d'altronde sono facilmente reperibili negli anoressici.
Non manca qualche spunto interpretativo, peraltro consapevolmente criticato dal
paziente, che si rende lucidamente conto della natura patologica dei suoi disturbi.
I sogni sono sovraffollati di personaggi: zii e zie, cugini e cugine, altri parenti, il
professore di chitarra, la professoressa di matematica, amici e ex amici, e più raramente,
figure fantastiche, talvolta minacciose.
Nie sogni, come nella vita reale del soggetto, sono espressi sentimenti di inferiorità e di
inadeguatezza, che derivano fondamentalmente da una timidezza e dalla difficoltà di
mantenere rapporti interpersonali: per quest'ultimo fatto, i suoi sogni sono così popolati
di
figure
che
sostituiscono
quelle
mancanti
nella
sua
esistenza.
Più raramente si evidenzia un sentimento di superiorità, che costituendone il
controaltare, determina anche una cortina di difesa, come accade in certi schizofrenici,
deliranti
di
grandezza.
Molta importanza hanno le figure genitoriali, soprattutto quella del padre, che gli sono
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stati
vicini
e
comprensivi
in
tutta
la
sua
tribolata
esistenza.
Altrettanto è la figura della "signora", vissuta come un personaggio disturbante anche
nella realtà quotidiana: forse la vecchiaia di costei, con i suoi correlati comportamentali,
fra cui spiccava una bulimia, sono segnali pericolosi e di significato mortale.
Nei sogni, il tema principale è quello della sua difficoltà ad alimentarsi.
Spesso ricorre il confronto fra la casa "vecchia" e quella "nuova", con i loro rispettivi
paraggi; esse, però, si sovrappongono nella loro ubicazione e modello architetturale.
Rrai sono i sogni a contenuto esplicitamente erotico, il più spesso di natura incestuosa.
Manca quasi completamente il tempo, mentre lo spazio è sempre descritto minutamente;
ciò vuol forse significare una perdita di una parte del mondo e in una difficoltà di
declinare la propria esistenza in tale esperire categoriale, come in certi casi descritti da
Binswanger.
Lo spazio, però, appare in complesso, pur nella sua varietà, stereotipo, rigido, senza una
vera risonanza, oppure strano, inconsueto, talora animato da personaggi sconosciuti, da
figure
anonime
e
senza
rilievo,
oppure
mostruosa
o
terrifiche.
Nel caso, dal punto di vista psicopatologico più generale, si può sostanzialmente
ripetere ciò che scritto Binswanger di Lola Voss: "una presenza che rinnega se stessa
come autentica e libera possibilità di Sé, e cade in balia di un determinato progetto di
mondo, dal quale viene sopraffatta, fino al punto che essa può essere se stessa solo entro
dei confini molto definiti e sempre più ristretti, costretta in tale morsa".
Etnro questa strutturazione fenomenologica si determina quel senso angoscioso e
pauroso del terribile, spesso presente, anche se sottaciuto, che presentano i sogni e la
vita
del
paziente
che
si
è
descritto,
con
la
sua
drammatica
fine.
La conferma dell'osservazione di Phelippeau e coll., che nei sogni degli anoressici si
assiste ad una minore irruzione del fantastico e dell'immaginario, a vantaggio di
situazioni
realistiche,
è
probabilmente
da
considerare
in
quest'ottica.
Vi è una forte analogia con l'iper-realismo degli scritti kafkiani, che proprio da questa
caratteristica assumono la loro peculiarità.
Uan interpretazione in chiave psicoanalitica, possibile, appare sotto questo aspetto,
riduttiva, così come quella relazionale, dove il suicidio "allargato" che è venuto
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maturando ed infine si è realizzato, costituisce l'ultimo termine di eventi "che non si
possono dire", ma solo guardare come inermi spettatori.
Bibliografia
1. BNISWANGER L.: Il caso di Lola Voss. In: Essere nel mondo, Roma:
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2. FIRGHI L., CUZZOLARO M.: Les rêves des anorexiques. Psychopatol. 1986;
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3. PEHLIPPEAU E COLL.: A quoi rêvent les anorexiques?. Neuropsych. de
l'Enfance 1980; 28, 179.
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Considerazioni sulla schizofrenia3
Premessa
Definizioni come queste: tipico e atipico nel contesto della schizofrenia, sono
(sottintendono) modelli conciliabili fra loro, o inconciliabili e incompatibili? E ancora:
psicopatologia e clinica sono categorie interscambiabili, o qualcosa le distingue e le
separa radicalmente?
Non sono domande oziose, o sofisticate, queste, ma sono domande decisive ed
essenziali in ordine alla concettualizzazione della schizofrenia e alla ricerca delle sue
(possibili) fondazioni e delle sue (diverse) strategie terapeutiche.
Ovviamente, quando ci si confronta con problemi complessi e brucianti, la tentazione è
anche quella di annacquare le differenze (le distinzioni), facendo di ogni erba un fascio,
o ricorrendo al solito refrain della integrazione dei modelli: cosa che è non di rado
importante, ma che può sconfinare nella inerzia e nella passività.
Come è possibile rispondere alle domande che ci siamo posti? Temiamo che non si
possa non scegliere fra l'essere clinici e l'essere psicopatologi; o, meglio, il problema è
questo: si deve essere consapevoli del fatto che, in psichiatria, il metodo conoscitivo,
che presiede alla clinica, è diverso da quello che sta a fondamento della psicopatologia.
Sicché, è possibile passare da un piano all'altro: ma nella consapevolezza della
distinzione dei piani conoscitivi.
La clinica coglie, le macromolecole di una sintomatologia psicotica o neurotica; la
psicopatologia coglie invece le micromolecole delle fenomenologie psicotica o
neurotica. La clinica, in psichiatria, si serve dello sguardo freddo e distanziante delle
scienze naturali, della medicina che ne fa parte; la psicopatologia si serve, invece, della
immedesimazione e della introspezione che sono emblematici strumenti conoscitivi
delle scienze umane. Già in questa contrapposizione si delinea, del resto, la natura
dilemmatica della psichiatria: il suo volto di Giano: il suo essere scienza naturale e il
3
E’ un intervento al Congresso di Psichiatria tenuto a Bari
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suo essere scienza umana; il suo scivolare dall'una all'altra: nel cambiamento del suo
oggetto (1,2).
La psicopatologia non è la clinica
Come ha scritto Karl Jaspers (3), la psichiatria clinica e la psicopatologia si distinguono
essenzialmente per questa ragione: la prima è una prassi, una modalità di conoscenza
pratica (una Kennerschaft come l'ha definita Klaus Conrad) (4), che si confronta con la
psicopatologia e la somatologia che costituiscono invece discipline scientifiche:
subordinate, cioè, ai criteri che modulano le scienze umane (la psicopatologia) e le
scienze naturali (la somatologia). In ogni caso, anche al di là di distinzioni e di
disgiunzioni di questa natura, il modello di conoscenza e le risultanze conoscitive della
psichiatria clinica si differenziano profondamente da quelli della psicopatologia. La
questione, e la esigenza, si realizzano in una prospettiva che, senza trionfalizzare
enfaticamente e dogmaticamente psichiatria clinica o psicopatologia (e somatologia), sia
consapevole fino in fondo delle diverse forme di conoscenza e delle diverse
conseguenze non solo terapeutiche ma anche epistemologiche che stanno a fondamento
dell'una e delle altre articolazioni costitutive della psichiatria tout court.
Questa distinzione di linee conoscitive e applicative si riflette, del resto, sulla questione
della tipicità e della atipicità della patologia schizofrenica: della fenomenologia
schizofrenica; nel senso che una modalità di conoscenza elettivamente clinica (pratica e
oggettivante) tende a cogliere ciò che c'è di comune, e cioè di tipico, nel contesto
camaleontico delle espressioni (dei sintomi) della schizofrenia; mentre una modalità di
conoscenza essenzialmente psicopatologica, indirizzata a cogliere gli elementi
micromolecolari di una patologia, tende a fare riemergere ciò che c'è di mutevole, di
trasformabile, di friabile, e cioè di a-tipico, nella forma di vita psicotica (schizofrenica).
Certo, nel fare-psichiatria è necessario confrontarci con le emergenze sintomatologiche
delle esperienze psicotiche cercando di sottrarsi alle spirali e agli artigli della ideologia
che ci fanno perdere il senso preciso, reale, concreto, problematico e ambiguo ma,
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comunque, concretizzabile e delineabile della psichiatria. Solo ri-flettendo, e mettendo
fra parentesi ogni ovvietà (5) del discorso, si fa una psichiatria rigorosa.
L'orizzonte di conoscenze della psichiatria clinica
Il grande magistero di Emil Kraepelin (6) si è sempre svolto lungo la linea univoca e
radicalizzata della clinica: della psichiatria clinica come parametro esclusivo e
assiomatico (ma problematico, ovviamente, all'interno delle conoscenze degli elementi
sintomatologici in gioco) al fine di fare diagnosi di schizofrenia.
Come si sa, nel suo gigantesco lavoro di sintesi (di ricapitolazione di schegge
sintomatologiche che, prima di lui, laceravano la configurazione clinica della
schizofrenia in molteplici sindromi), Emil Kraepelin ha sostenuto come la conoscenza
in psichiatria si snoda lungo il semplice e omogeneo sentiero della osservazione e della
descrizione dei modi di comportarsi e dei modi di apparire dei pazienti e dei sintomi in
cui la sofferenza psichica si manifesta: al di là e al di fuori di ogni riflessione e di ogni
attenzione ai contenuti interiori, ai vissuti, dei pazienti e ai significati (alle connotazioni
simboliche) dei sintomi psicotici. Sulla base di queste modalità di osservazione ab
externo e di questa ricerca di tipologie comuni in sindromi cliniche (apparentemente)
scheggiate e atipiche, Kraepelin ha delineata la definizione stessa di dementia praecox
come emblema univoco di ogni esperienza psicotica.
I criteri clinici, applicati allo studio e alla analisi di quelle che oggi chiamiamo
schizofrenia e che, appunto, Kraepelin ha chiamato dementia praecox, hanno consentito
al grande psichiatra tedesco di raccogliere e di unificare in una sola condizione
morbosa, sia pure articolata e suddivisa in tre sindromi cliniche, le molteplici forme
morbose solo apparentemente autonome. Ma, nel fare questo, e nel tematizzare la
tipicità (gli elementi comuni) della malattia e nel riconoscerla nel suo decorso e nella
sua sintomatologia macroscopica (macromolecolare, direi), Kraepelin è rimasto
estraneo all'arcipelago infinito della vita interiore, della interiorità, dei pazienti, alle loro
esperienze vissute: senza le quali non può esistere, invece, psicopatologia che si è
liquefatta nel solco di parametri meramente clinici. Alla vita interiore dei pazienti, alle
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loro espressioni psicologiche ed emozionali, egli non dava alcuna importanza:
considerandole del tutto inattendibili. Inutile, allora, ascoltare i pazienti, cercare di
cogliere quello che si muove nella loro interiorità, cercare di rendere dialettico ogni
sintomo psicotico: correlandolo, e confrontandolo, con il modo (con il loro senso) con
cui ogni sintomo è vissuto da ciascun paziente.
Il criterio clinico è considerato, così, come impegno radicalizzato e assolutizzato ad
analizzare e a osservare come abbiano a comportarsi i pazienti e quale sia la
consistenza, e la fisionomia, dei sintomi macroscopici (come vorrei, appunto, definirli):
dei sintomi correlati con i deliri e le allucinazioni, con i disturbi della psicomotricità e
del linguaggio che sono sintomi evidenti e visibili a ogni osservatore dotato, certo, della
facoltà di descrizione e di serializzazione delle diverse sequenze sintomatologiche.
Il criterio clinico è finalizzato, del resto, a cancellare, a oltrepassare e a escludere ogni
variante che interferisca, e sia in collisione, con questo disegno diagnostico (cartesiano,
matematico, geometrico) che giunge a tematizzare e a rendere immobile ogni (possibile)
camaleontica variabilità dei sintomi: a inchiodare, insomma, ciò che costituisce la
tipicità, la dimensione ne varietur della malattia schizofrenica.
Nell'orizzonte kraepeliano del discorso, dunque, la psichiatria clinica tende a cogliere e
a indicare gli elementi immobili della sintomatologia schizofrenica: ripetibili di caso in
caso.
Così intesa e delineata, la schizofrenia si trasforma in una malattia, in una realtà clinica,
che segue sue proprie leggi naturali: insensibile, dolorosamente insensibile a qualsiasi
articolazione, a qualsiasi sollecitazione, ambientale e interpersonale, psicoterapeutica e
socioterapeutica. Si capisce, allora, come mai, se la schizofrenia abbia a seguire sue
proprie fatali (implacabili) destinazioni naturali, non serve a nulla conoscere e
analizzare cosa i pazienti vivano e provino nella loro soggettività, e quali significati essi
attribuiscano ai sintomi: ai modi psicotici di scandagliare e di interpretare la realtà in cui
sono immersi.
Se la schizofrenia non è se non il coagulare di sintomi e di andamenti evolutivi che
abbia a cancellare, e a riassorbire, ogni differenza e ogni distinzione, se esiste un solo
modo di essere schizofrenici, e non invece modi diversi di vivere una esperienza
schizofrenica, ogni atipicità (ogni sostanziale variabilità dei sintomi e dei decorsi)
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scomparirebbe; non configurandosi se non un solo modello di Lebenswelt schizofrenica:
una sua costante e radicale tipicità.
Nella psichiatria clinica postkraepeliniana le cose sono cambiate: nel senso che, alla
tipicità della sintomatologia psicotica (schizofrenica) contrassegnata dalle grandi
costellazioni sindromiche (deliranti, allucinatorie, comportamentali, psicomotorie), si è
aggiunta una prospettiva diversa in ordine al decorso, e cioè alle forme di decorso, della
esperienza schizofrenica. Mentre nella prospettiva kraepeliniana il decorso della
dementia praecox veniva considerato univocamente rettilineo e prefissato lungo binari
fatali e irreversibili a cui non era possibile sfuggire (benché Kraepelin non escludesse la
possibilità di un decorso diverso e reversibile in alcune situazioni cliniche), oggi le
ricerche catamnestiche di Manfred Bleuler (7) in particolare ma anche quelle di Luc
Ciompi e Christian Müller (8) e di altri autori hanno dimostrato come, anche all'interno
dei criteri diagnostici proposti da Kraepelin, non ci sia una sola modalità di decorso ma
diverse modalità di decorso. Sicché, la tipicità (ciò che c'è di tipico) nella Lebenswelt
schizofrenica non può essere ancorata alla forma del decorso se non lungo linee
tendenziali, e non certo univoche e obbligate.
Anche nel contesto di una impostazione kraepeliniana, insomma, la tipicità può essere
ritrovata nella sintomatologia, nella aggregazione sintomatologica, ma non nel decorso
unidimensionale.
Ci sono decorsi (forme di decorso) ovviamente più frequenti e altri meno frequenti, ci
sono decorsi striscianti e nucleari (paradigmatici) e ci sono decorsi periferici, satelliti, ci
sono insomma decorsi che si avvicinano alla "tipicità" indicata da Kraepelin e decorsi
che da esse si allontanano. Ci sono forme di esordio che tumultuosamente si risolvono
in tempi anche molto brevi, e forme di esordio scolorite e, come si sa (9),
prognosticamente negative.
Il criterio clinico, fondato esclusivamente sul decorso (sulla evoluzione longitudinale)
della sintomatologia psicotica, e quello diagnostico correlato, entrano così in crisi nel
momento in cui già l'osservazione clinica dimostra nella galassia schizofrenica la
presenza di camaleontiche, e variabili, forme di andamento.
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In ogni caso, la individuazione (la delimitazione) di andamenti più o meno tipici, e più o
meno atipici, trascina con sè radicali implicazioni terapeutiche. Queste cambiano,
ovviamente, in relazione alle forme di esordio e alle forme di evoluzione.
Insomma, la tipicità nel decorso si fa problematica nella misura in cui la ricerca
catamnestica ne dimostra la variabilità.
L'orizzonte di conoscenze della psicopatologia
Gli scenari sembrano cambiare quando si abbia a che fare con la psicopatologia, con
l'indagine psicopatologica, che è indirizzata a cogliere le costellazioni micromolecolari,
i contenuti di ogni singola funzione psichica, scendendo lungo i sentieri frastagliati e
segmentati della vita interiore (della soggettività) dell'altro-da-noi confrontata con la
nostra soggettività.
Quando Eugen Bleuler (10) ha introdotto il termine di schizofrenia, sostituendolo a
quello di dementia praecox, ha spostato radicalmente e vertiginosamente l'asse della
conoscenza e della denominazione della forma morbosa dal piano di una esperienza
psicotica, che si riconosca e si costituisca utilizzando criteri clinici, a una esperienza
psicotica che si abbia a definire e a diagnosticare mediante criteri non clinici
(comportamentali
ed
esteriori)
ma,
appunto,
psicopatologici
(interiori
e
immedesimativi). Non solo: parlando di schizofrenia, Eugen Bleuler ha inteso
sottolineare la sindromaticità degli elementi sintomatologici, che contrassegnano la
ragione d'essere di questa, che è l'esperienza psicotica par excellence, e l'importanza
della dissociazione (sintomo micromolecolare) nel farne diagnosi.
Nel solco delle grandi analisi bleuleriane e jasperiane si è, così, indotti a sottolineare
come la descrizione e l'analisi, e cioè la conoscenza, non siano possibili in
psicopatologia senza la partecipazione radicale della soggettività del medico alla
soggettività del paziente. Non c'è una modalità astratta e impersonale, in psicopatologia,
ma in essa ogni forma di conoscenza è implacabilmente implicata e immersa in una
circolarità ermeneutica che trascini con sè la interiorità (la soggettività) del paziente e la
soggettività (la interiorità) del medico. Non c'è, dunque, possibilità di conoscenza in
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psicopatologia, non c'è captazione possibile degli orizzonti infiniti che fanno da sfondo
ai sintomi (ai fenomeni), che possano fare a meno delle connessioni radicali con l'area
sfuggente e problematica, ma essenziale, della intersoggettività.
Non è possibile fare della psicopatologia, non è possibile sondare i modi di vivere e di
ri-vivere (le cose e le situazioni) da parte dei pazienti se non si rinuncia a ogni
atteggiamento di neutralità, di fredda e gelida scientificità, di fronte a loro, e se non ci si
serve della intuizione e della immedesimazione.
Ancora: solo mettendo fra parentesi ogni impostazione ideologica, ogni teoria che si
sovrapponga come un diaframma impenetrabile alle realtà umane (normali o
patologiche), solo muovendo dalle esperienze vissute dai pazienti e mettendoci dalla
parte dei pazienti mediante una conoscenza che si abbia ad alimentare, appunto, di
immedesimazione e di intuizione, è possibile cogliere le dimensioni e le interne
articolazioni della vita psichica e il senso che da essa, di volta in volta e di situazione in
situazione, riemerga: frastagliato e straziante, doloroso e opaco, silenzioso e nostalgico.
Una psichiatria, che faccia a meno delle labili sonde della psicopatologia, delle sonde
che abbiano a fare lievitare le stratificazioni magmatiche delle emozioni, si trasforma, o
rischia di trasformarsi, in una meccanica applicazione di metodologie meramente
cliniche incentrate sui comportamenti e sui modi di essere esteriori dei pazienti: come si
è già sottolineato, del resto, nelle pagine precedenti.
Qualche osservazione ancora su questo tema e su questi aspetti del discorso.
La psicopatologia, la decifrazione dei segni dotati di senso, consente una conoscenza
più radicale e più profonda dei modi di essere di ogni esperienza neurotica e di ogni
esperienza psicotica, e consente anche di riconoscere le differenze categoriali che
separano le esperienze neurotiche da quelle psicotiche: tematizzando ciascuna di esse
nei suoi contenuti e nelle sue articolazioni formali che rimandano alle radicali
epistemologie jasperiane (3).
La psicopatologia si riflette anche nei modi con cui la diagnosi, in psichiatria, abbia a
essere rifunzionalizzata. Solo nella ricerca degli elementi psicopatologici, che la
costituiscono, la diagnosi riassume una sua emblematica significazione dialettica e
dialogica che nasce e si continua fra paziente e medico: nel contesto di una relazione
interpersonale, di una rifondazione intersoggettiva della relazione, che sfugga a ogni
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reificazione e a ogni negazione del senso e che non rinunci mai alla intuizione e alla
immedesimazione come strumenti essenziali di conoscenza. Ma la psicopatologia
consente infine di realizzare una farmacopsichiatria che si indirizzi selettivamente alle
singole sindromi psicopatologico-cliniche.
Ma a quali risultanze, a quali contenuti e a quali modi di essere psicotici ( e neurotici),
in particolare a quali modi di essere schizofrenici, giunge una indagine psicopatologica
che analizzi, dunque, le diverse funzioni psichiche nelle loro articolazioni modali e
tematiche?
Ovviamente, non ci è possibile se non svolgere un discorso di sintesi e di ricapitolazione
critica: alcuni sintomi guida della schizofrenia, come l'autismo (considerato sintomo
fondamentale da Eugen Bleuler) (10), la dissociazione, le modificazioni della esperienza
dell'io (riguardate da Kurt Schneider come strutture portanti di ogni fenomenologia
schizofrenica) (11), come anche le modificazioni della esperienza del tempo e dello
spazio così magistralmente analizzate nei lavori di Hubertus Tellenbach (12), e come
del resto le diverse modalità di rivivere affettivamente le situazioni e gli eventi vitali,
sfuggono fatalmente ai criteri conoscitivi rigidamente clinici e si rivelano invece ai
criteri conoscitivi psicopatologici. Solo, infatti, con la rivoluzione copernicana che Karl
Jaspers (3) ha introdotto in psichiatria sottolineando l'importanza decisiva della
soggettività nel conoscere e nel fare-diagnosi, questi sintomi sono riemersi nella loro
fenomenologia.
I criteri psicopatologici di analisi di una forma di vita (di una Lebensform) schizofrenica
conducono alla valutazione e alla delimitazione di sindromi e non già di malattie; ed è
ciò, che è avvenuto, nel momento in cui dal termine di dementia praecox si è slittati in
quello di schizofrenia nel senso di Eugen Bleuler. (La valutazione del decorso di una
esperienza psicotica, o neurotica, rientra invece nei criteri di captazione e di
delimitazione non della psicopatologia ma, ovviamente, della psichiatria clinica; e già
questo significa che il giudizio diagnostico e prognostico complessivo non può
configurarsi se non sulla base di una integrazione e di una aggregazione dialettica dei
criteri clinici e di quelli psicopatologici: non essendo giustificata una escalation
trionfalistica ed enfatizzata che abbia a privilegiare gli uni o gli altri criteri di analisi e di
valutazione).
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Certo, lo slittamento dal conoscere clinico a quello psicopatologico trascina con sè un
indebolimento degli elementi di tipicità e un accrescimento di quelli di atipicità; nel
senso che la connotazione clinica dei modi di insorgere e di evolversi di ciascuna
esperienza schizofrenica, benché non sempre univoci e omogenei, ha in sè una Gestalt e
una impronta di alta pregnanza; e questo fino al punto che alcuni autori, come Henri Ey
(13) che ha svolto lavori di straordinaria significazione psicopatologica e clinica, hanno
sostenuto che la natura e la ragione d'essere della schizofrenia si possono fondare e
giustificare solo nella misura in cui si tenga presente (kraepelinianamente, del resto) la
evoluzione della forma morbosa: la sua scansione implacabile e fatale. Cosa che non è,
oggi, accettabile ovviamente; anche se non è possibile negare che alcune delle forme di
vita schizofreniche mantengano, al di la di ogni strategia terapeutica e riabilitativa, la
tendenza a una evoluzione inafferrabile.
In ogni caso, l'analisi del decorso consente di cogliere meglio quello che c'è di tipico in
una esperienza schizofrenica; meglio che non una analisi fondata sulle aggregazioni
psicopatologiche: nelle quali l'oscillare fra tipico e atipico si fa molto più significativo.
Una ultima cosa; e anche questa induce a ritenere che non sono possibili
assolutizzazioni, in psichiatria, ma che è invece necessaria una alta coscienza critica
della relativizzazione delle cose. La considerazione psicopatologica, anche se più fragile
e più sfuggente che non quella clinica, consente di riguardare l'esperienza schizofrenica
nella sua dimensione dilemmatica: nel senso che essa, alla luce della psicopatologia, si
svolge e si viene articolando come una forma di vita a volte intensa, drammatica e
radicale, ma a volte come una forma di vita sfumata, sfibrata e oscillante: molto più
vicina, cioè, a una esperienza che possa fare parte, sia pure solo virtualmente (sul
virtuale vorremmo rinviare al bellissimo libro di Pierre Levy) (14), della condizione
umana. Intendiamo richiamarci nel dire questo alla tesi suggestiva di Asmus Finzen (9)
che ha prospettato l'esistenza di uno spettro (di un potenziale) schizofrenico, in senso
psicopatologico ovviamente, che da gradienti normali, o schizotimici (rinasce, qui, il
discorso ancora attuale e affascinante di Ernst Kretschmer) (15), si sposterebbe poi
lungo sequenze variabili e zigzaganti verso gradienti di schizofrenicità (come intendeva
dire, nei suoi lavori smaglianti e indimenticabili, Ferdinando Barison) (16-18)
scompensata e radicalmente psicotica.
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La psicopatologia tende a essere, oggi, come ancora ha sostenuto Ferdinando Barison,
ermeneutica: decifrazione dei segni più che non dei sintomi.
La conclusione
Il senso dialettico (ci auguriamo che sia interpretato così) del nostro discorso si
riassume, e si conclude, nella affermazione, o almeno nella considerazione, che le
conoscenze, a cui si giunge con l'applicazione di criteri clinici e di criteri
psicopatologici, sono diverse e cambiano nella misura in cui ci si serva, nell'analisi
sintomatologica della patologia schizofrenica, degli uni o degli altri. I criteri clinici
fanno riemergere con più drastica evidenza quelli che sono gli elementi tipici, ma
incrinati in ogni caso anche da elementi atipici; mentre i criteri psicopatologici,
indirizzati a cogliere i modi di essere, e di rivivere le esperienze vissute, della
schizofrenicità,
fanno
riemergere
costellazioni
sintomatologiche
oscillanti
e
camaleontiche che definiscono, o tendono a connotare, quelli che sono gli elementi
atipici della schizofrenicità.
Nel corso del lavoro questi temi sono sviluppati contestualmente alla esigenza, e alla
riaffermazione, che solo da una confrontazione e da una integrazione, da una reciproca
valutazione, dei criteri clinici e psicopatologici, degli elementi tipici e atipici, si possa
giungere a una più articolata comprensione della realtà e della ragione d'essere
evolutiva, ma anche terapeutica, della schizofrenia.
Bibliografia
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Milano: Feltrinelli,1995.
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122
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Caso clinico: paziente maniacale4
Premessa psicopatologica
Le depressioni che sono chiamate clinicamente endogene, o psicotiche, si distinguono in
depressioni unipolari e in depressioni bipolari, secondo la classificazione di Leonhard:
le prime si manifestano con episodi depressivi, che possono ripetersi a distanza variabile
di tempo, mentre le seconde agli episodi depressivi alternano episodi maniacali.
Alla oscurità e alla pesantezza della malinconia si contrappongono la leggerezza e la
volubilità della mania; ma numerose contraddizioni solcano l'esistenza maniacale, solo
apparentemente segnata dalla luce leggiadra e improblematica della felicità.
La Stimmung maniacale contrassegna la fenomenologia clinica della mania nella quale
si trasformano le articolazioni strutturali del pensiero e i modi di essere nel mondo, nel
tempo e nello spazio.
Il flusso della vita che nella malinconia si rallenta e si arresta, si slancia vorticosamente
nella mania, nella quale la disinibizione, la spinta frenetica e febbrile al movimento, si
costituisce come sua struttura portante.
Nella mania non c'è coscienza di malattia almeno fino a quando essa non incomincia a
declinare; nella malinconia invece, la coscienza di malattia scompare solo nelle forme
tematizzate dalla presenza di esperienze deliranti primarie.
Chiamiamo,
dunque,
sindrome
maniacale
quella
costellazione
di
sintomi
tradizionalmente (secondo Weitbrecht e Kielholz) articolata nella seguente triade, in
base ai disturbi presentati.
1. Disturbo della vita timica (affettiva).
2. Disturbo della vita noetica (idetica).
3. Disturbo della psicomotricità (funzioni centrifughe).
Per la psicopatologia tradizionale la struttura portante della vita maniacale è costituita
dalla trasformazione, dalla metamorfosi della vita affettiva, dello stato d'animo
4
Si tratta di una lezione fatta da un professore esterno
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(Stimmung), mentre sia il disturbo del pensiero come quello della psicomotricità
vengono considerati subalterni.
La psicopatologia che chiamiamo antropologica o fenomenologica (Binswanger)
considera invece il disturbo cardine dell'esperienza maniacale quello del pensiero
(L'uomo della fuga delle idee): il pensiero nella vita maniacale non si articola, non si
snoda secondo quelle che sono le articolazioni della sintassi di cui noi ci serviamo,
soggetto, verbo, complemento; è un articolazione del pensiero che tende infatti mano a
mano che il disturbo si fa più profondo, alla "fuga delle idee" che da ordinata, cioè
ancora in qualche modo comprensibile, si fa invece incoerente e poi confusionale cioè
dilacerata fino a eliminare e stralciare il verbo.
Quando il verbo ancora sopravvive è un verbo che è bloccato sul presente o al massimo
sul passato; scompare il futuro.
L'analisi formale del linguaggio del maniacale rivela l'assenza di una struttura formale
del pensiero; esiste una catena vertiginosa di parole in cui il pensiero però si frantuma
perché salta: Cargnello ha parlato del modo della saltuarietà come di questa esperienza
di radicale discontinuità, di ideazione saltatoria nel contesto del corso del pensiero del
maniacale.
Nella mania la comunicazione si inaridisce e si frantuma dinanzi a ostacoli anche
insignificanti. La frattura della comunicazione è in essa ancor più verticale che non nella
malinconia e nella schizofrenia.
Il maniacale si disperde nel mondo, vive in frammenti di mondo nei quali non riesce a
soffermarsi; è un linguaggio, è un parlare che non dice, che non comunica, che rivela la
"vacuità intima del mondo maniacale" (Cargnello).
Per questo parliamo di autismo maniacale, nel senso di Glatzel, per l'impossibilità a un
contatto con il paziente maniacale: è uno pseudocontatto che non acquista mai il
significato di una autentica e valida comunicazione inter umana e rivela l'impossibilità
per chi vive immerso in questa esperienza a sostare, a fermare la realtà che gli scivola
fra le dita.
Così per il paziente maniacale, tutto è bruciato nell'istante; non c'è storia.
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Egli inoltre non tollera la limitazione della libertà e ha l'esigenza di avere a sua
disposizione spazi infiniti: da qui origina il disturbo della psicomotricità e della
conseguente aggressività legata alle reazioni che l'ambiente intorno gli genera.
Il mondo in cui vive immerso il maniacale è un mondo in cui sono escluse le
contraddizioni, un mondo in cui i colori dominanti, come diceva Binswanger, sono
quello azzurro e quello rosa: tutto è a portata di mano, non ci sono ostacoli, il vicino e il
lontano non sono più categorie psicologiche angoscianti come possono essere per uno
schizofrenico o per un depresso.
Manca la categoria della profondità ma siamo su un piano della esteriorità estrema: tutto
è plastico, mobile, friabilissimo, svuotato di interiorità.
Il mondo maniacale è un mondo governato da uno sfrenato ottimismo, in cui manca la
possibilità di uno scacco o di un fallimento: come ha scritto Minkowski, non c'è più il
dispiegarsi del vissuto nel tempo: si è bloccati in un presente del futuro; il maniacale
agisce, si muove e pensa nell'hic et nunc ogni istante, nella momentaneizzazione di ogni
esperienza vissuta.
Non esiste più un passato che si costituisca come bagaglio esperienziale così come non
esiste un futuro entro cui progettarsi.
Il mondo del maniacale è governato da uno sfrenato ottimismo o euforia, gioia panica.
Tutto assume tinte rosee, gaie, luminose, è tutto luce e quindi è tutto appiattito,
superficiale, livellato.
Il delirio del maniacale non è altro che l'espressione di questo ottimismo della
conoscenza (Binswanger): l'onniscienza, il delirio di grandezza è una emanazione di
questa metamorfosi del mondo che ha perso ogni limite, ogni relatività.
La spinta all'attività e all'azione trascina con sé un'insonnia feroce che non è vissuta
come disturbo ma come condizione felice e inebriante; se dunque, nella depressione non
si può dormire, nella mania non si ha bisogno di dormire.
Il maniacale ha una estrema capacità di cogliere, nel contatto interpersonale, ogni
frangia esteriore, ogni aspetto "superficiale" che un certo comportamento può rivelare.
Quindi può cogliere l'angoscia, la diffidenza e anche l'insicurezza che si genera in un
interlocutore e viverla come aggressione nei suoi confronti. Può allora ingenerarsi una
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risposta a corto circuito in cui all'insicurezza (aggressione) del medico o dell'infermiere
il paziente risponde con una contro aggressività.
Allora il nostro atteggiamento deve essere improntato alla "indifferenza", alla
partecipazione indifferente nel senso di Jaspers. Certo si tratta di una esigenza
psicologica del paziente che non tollera di percepire né troppa vicinanza né troppa
distanza da parte dell'interlocutore.
Nell'incontro con i pazienti sommersi dalla mania si ha inizialmente la sensazione che il
contatto interpersonale non sia difficile. Non si fa fatica, a entrare in relazione con loro:
rispondono volentieri e rapidamente chiedono notizie di noi, lodano la nostra gentilezza
e la nostra intelligenza.
Ma questa accelerazione comunicazionale è solo apparente: rimane alla superficie.
Secondo quanto scritto da von Hofmannsthal: La profondità va nascosta. Dove? Alla
superficie.
Retroscena
Cosa ci sia dietro questo caso di ordinaria e classica storia maniacale che ora andiamo a
descrivere ci è sembrato essere la modalità di vivere lo spazio e quindi la realtà del
maniacale stesso: uno spazio, una realtà, dai confini assolutamente mobili e dilatati
verso infinite prospettive in cui il mondo della fantasia, del sogno e del gioco
prevaricano sul mondo reale. Ma in questo spazio "virtuale", in cui l'esperienza
maniacale fa precipitare la paziente di cui narreremo la storia, l'unica condizione in cui è
possibile continuare a vivere è quella della recitazione, della continua entrata e uscita da
un personaggio all'altro. È il mondo dell'apparenza, intesa nella sua superficialità, come
mondo in cui ciò che conta è lo sfolgorio dei colori, l'invadenza dei profumi, la
clamorosità dei suoni, le vibrazioni della pelle: proprio come sul palcoscenico ove
bisogna "apparire" per vivere.
Eppure questa esperienza della "superficialità" intesa come captazione sottile ed estrema
dell'apparenza, dell'aspetto apparente e appariscente del reale, rivela anche l'esigenza di
vivere e gustare l'aspetto "formale" del reale come dotato anch'esso di fascino e di
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rimandi che troppo spesso restano sepolti dalla superficialità (questa si negativa) del
nostro sguardo routinario e quotidiano.
Quando l'esperienza maniacale si è inaridita e si e spenta, alcuni pazienti la rivivono
nostalgicamente come una esperienza positiva e altri, invece, come un'esperienza
negativa, dolorosa; ma già durante la sequenza maniacale, ci sono pazienti che
definiscono la loro condizione come autentica, angosciante ed estranea alla loro
personalità.
Come ha mirabilmente documentato Weitbrecht, citando una sua paziente che, uscita
dall'episodio maniacale diceva: Ora so cosa possono significare i colori, gli odori, le
sensazioni tattili, e quali sensazioni inebrianti possa dare la musica. L'esperienza
quotidiana le risultava estremamente noiosa e di una desertica ottusità: tutto sembra
allora ricoperto di uno strato di opaco grigiore. Chi non è mai stato immerso in una
condizione maniacale è povero e può solo consolarsi pensando che non sa quali, e
quante esperienze potrebbero fare quando la malattia cancellasse quella specie di velo
grigio.
In particolare questa storia si è ben prestata all'analisi della struttura portante
dell'esperienza maniacale proprio perché la paziente in questione è un'attrice; appare
quindi meno artificioso e inautentico per lei "restare in scena" anche quando la recita è
finita e i riflettori si spengono. Lei sa meglio di altri cosa rappresenti questa realtà,
essendone frequentemente immersa e, per questo, con più difficoltà può cogliere il
deragliamento dal mondo reale a quello della mania.
La storia
Conosciamo la nostra paziente che chiameremo Eleonora, nell'agosto del 1997 quando
effettua il suo primo ricovero presso il nostro reparto per una condizione così descritta
dalla collega che la ricovera quella domenica notte: Si ricovera per agitazione
psicomotoria: al colloquio la paziente è orientata nello spazio e nel tempo, disforica,
mantiene con molta difficoltà i nessi associativi passando rapidamente da un
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argomento all'altro, in una condizione di irrequietezza e agitazione psicomotoria.
Fornisce con difficoltà notizie di ordine anamnestico.
Si pratica terapia neurolettica.
Il giorno dopo la incontriamo e così viene descritta: Appare perplessa e a tratti come
disturbata da dispercezioni acustiche e visive, anche se riesce a costruire quanto
successo nella giornata di ieri con una certa linearità e a fornire i principali dati
anamnestici.
Eleonora è nata nel 1959 in una cittadina della nostra zona ove vive la madre: dopo il
diploma di magistrale, superato l'anno integrativo, si è iscritta a un Corso universitario
di discipline arte, musica e spettacolo che ha interrotto al secondo anno, iniziando a
insegnare educazione musicale nella scuola media come supplente dal 1979.
Da allora fino al presente ha sempre insegnato, e sempre la stessa materia, cambiando
molte scuole, ed è di ruolo dal 1989.
Ha sempre vissuto con la madre fino al 1992 quando ha deciso di andare a vivere
nell'appartamento che il fidanzato (che conosceva da almeno cinque anni) aveva
affittato in città per motivi di lavoro, tornando spesso però a casa dalla madre.
La sua famiglia
Eleonora è figlia unica; la madre è nata nel 1930.
Descritta da lei come: Una donna dolce però un po' noiosa, tendente a vittimizzarsi...
Lavorava come sarta nel paese d'origine... È molto pudica però ha la curiosità morbosa
dei cattolici spinti. Non mi ha mai spiegato niente rispetto al sesso... C'era però una zia
più giovane che mi ha fatto scuola su questo...
Mai madre parla un po' per enigmi come una sfinge: a esempio non dice niente di
chiaro rispetto alia mia attuale situazione: io convivo da anni e lei non mi ha ancora
fatto capire cosa realmente pensa, forse accetta questa situazione perché se mi sposassi
potrebbe rischiare di vedermi di meno perché il mio fidanzato (ingegnere) lavora in una
città lontana...
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Questa vita va bene così anche a me: quando voglio tornare da mia madre vado,
quando voglio stare qui in città mi fermo... non vado in ansia... al massimo mi arrabbio
quando mi dimentico le cose in un posto invece che in un altro... mi piace anche stare
sola anche se non rimango quasi mai sola, ho molti amici.
Il padre nato nel 1924 faceva il panettiere ed è morto nel 1989 due mesi dopo che era
stato diagnosticato un tumore al cervello: Mio padre era simile a me anche se meno
estroverso per la diversa educazione e storia che aveva avuto... era molto sincero,
diretto in ciò che doveva dire, a volte un po' irruente.
Suonava il clarinetto nella banda anche se a lui sarebbe piaciuto suonare il pianoforte
e per questo ha voluto che io imparassi fin dalle medie a suonarlo, però ho interrotto al
5° anno lo studio.
Temperamento e personalità premorbosa
Eleonora si descrive come estroversa e socievole, molto attirata dalla musica e dalle arti
espressive, in particolare dal teatro che la impegna, come attrice di una Compagnia
teatrale, ormai da diversi anni, con ritmi di lavoro abbastanza sostenuti e regolari: una
volta alla settimana ha le prove di recitazione nella sua compagnia teatrale e spesso
frequenta corsi speciali di ballo e di recitazione in giro per l'Italia.
Notevole è la sua cultura in questo e altri campi, così come notevoli sono le sue doti
nella recitazione: non si coglie però in lei il benché minimo vanto anzi, molto
semplicemente, quasi sottovalutandosi, trasmette un'immagine di sé modesta e molto
consapevole dei propri difetti quali l'essere terribilmente disordinata, cosa che le fa
perdere copioni o dimenticare in giro gli strumenti della recitazione, oppure l'essere di
umili origini, cosa che le fa guardare e trattare i personaggi nobili o aristocratici nei
quali si imbatte, sia sulla scena che fuori, così come una popolana si rapporta a un
mondo che non è il suo e che spesso riesce a smascherare e deridere nelle sue falsità.
Eleonora sa trasmettere molta simpatia sia nelle fasi di scompenso ipertimico sia nelle
fasi di benessere per l'estrosità del carattere, la bizzarria del suo vestire, elegante ma che
risente nell'utilizzo dei colori e degli stili del momento che sta attraversando: il rosso è il
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colore dominante delle fasi maniacali seguito puntualmente e scalarmente dal lilla o
viola, quindi dal giallo, dal verde, dal blu e dal bordot.
Ai controlli ambulatoriali annotavamo il colore dominante che rifletteva, in maniera
precisa, le oscillazioni dello stato d'animo, anche se non sapremmo correlare i colori
delle fasi depressive perché in quei periodi Eleonora allenta il ritmo delle visite di
controllo. Un altro motivo per cui sa suscitare simpatia è la sua capacità di critica e
autocritica: riconosce benissimo quando sta "salendo "o quando è "un po' sopra le righe"
oppure quando l'eccitamento "mi prende tutta e la realtà parte"; anche il suo linguaggio
e la descrizione che lei fornisce del proprio vissuto nelle fasi di eccitamento è molto
ricco e appropriato.
La storia clinica
Dal diario clinico del 1° ricovero. (Le note dell'ingresso sono già state riportate
all'inizio). Dopo solo due giorni dal ricovero, effettuato in TSO, per la condizione
ipertimica e di agitazione, così già è capace di descriversi e raccontarsi: L'altra sera
tutto mi sembrava gioioso e in parte ostile; stavo partecipando a un corso di ballo sul
tango: il nostro maestro era invitato a uno spettacolo nella piazza della città. Io ho
incominciato a sentire tutto amplificato, i colori, le emozioni...
Non mi sono resa conto della crescita di tali fenomeni... è vero io sono un tipo
esuberante, estroverso ma non era mai arrivata a tali livelli: anzi ho vissuto periodi di
depressione anche se non ho mai lasciato il mio lavoro, né i miei impegni.
È dal 1988, dopo la morte di mio padre e che mi vengono questi momenti.
La gaiezza lascia il posto a una sfumatura di tristezza mentre la paziente racconta tali
fatti. Qui in Reparto ha legato con altri degenti con i quali trascorre buona parte della
giornata senza esagerazioni nei modi o nelle dinamiche relazionali; è spesso impegnata
in lunghe conversazioni telefoniche con il fidanzato che lavora lontano e che comunque
le è molto vicino essendosi prontamente informato di lei più volte con noi.
La madre invece non è venuta anche se la paziente è in contatto anche con lei.
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Inizia, un trattamento con aloperidolo 6mg/die insieme a una terapia marziale per il
riscontro di una grave anemia sideropenica (di cui la paziente afferma peraltro di essere
a conoscenza, a causa di meno-metrorragie datate ormai da molti anni e mai trattate).
Nell'arco di pochi giorni si ricompone sia sul piano comportamentale che idetico
presentando una critica e consapevolezza del disturbo psichico che riesce anche a
inscrivere nel contesto della propria storia: i primi disturbi con una certa rilevanza
clinica vengono fatti risalire al 1989 dopo la morte del padre: Ho iniziato ad avere delle
fasi di tristezza, in cui il mio umore, così normalmente allegro, si faceva più cupo e
triste, ma non mi sono mai fatta curare, mi arrangiavo da sola... Veramente il mio
medico di famiglia mi aveva consigliato qualcosa per la depressione, ma io non ho
voluto prendere nulla...
Ho passato anche dei brutti momenti in cui era un'impresa alzarsi e andare a scuola,
cosa che mi è sempre, ma che in quelle fasi, mi costava molto fare.. Ho tenuto duro e
poi i periodi peggiori passavano.. sopra le righe non sono mai andata però...
Viene dimessa in condizioni di discreto benessere.
La rivediamo per alcune volte nell'arco di un mese ma lei lascia intendere che non vuole
più venire e che avrebbe deciso di iniziare un lavoro psicoterapeutico da un privato.
Questa ci pare, in realtà, più una fuga che un desiderio di approfondimento e di cura: già
durante i controlli ambulatoriali si era evidenziato, a fianco di una certa consapevolezza
di malattia, il timore di affrontare e di parlare di "certi problemi" o semplicemente di
guardare in faccia la malattia psichica.
Una certa superficialità nell'affronto delle problematiche della sua vita era emersa come
struttura "difensiva" che, pur non risolvendole i problemi, le ha sempre permesso di
distanziarsi dall'angoscia che ancora le provocava il pensiero dell'essere malata
psichicamente.
Anche i tentativi di affrontare insieme il problema e di rassicurarla con il sostegno
psicoterapeutico non erano valsi a mantenere una relazione stabile.
Soprattutto l'andamento fasico della malattia giocava come motivo vincente perché la
ripresa, fuori dalle fasi di scompensazione, è sempre avvenuta con piena "restitutio ad
integrum". Si tratta di saper aspettare quando la malattia passa": questa è sempre stata la
sua filosofia.
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Atto secondo
Passa il tempo e dopo un anno ritroviamo Eleonora ricoverata di nuovo nel nostro
Reparto, anche questa volta in stato di eccitamento maniacale.
Anche questo è un ricovero avvenuto nella notte di una domenica che non è sfociato
questa volta in TSO solo perché giunta in Pronto Soccorso, accompagnata dai vigili
intervenuti per le sue bizzarie comportamentali, ha riconosciuto il collega che lavora in
Reparto e ha accettato ben volentieri di tornare a salutare "il suo Reparto".
Il giorno dopo la incontriamo e ci stupisce per la capacità di descrizione del suo disturbo
ipertimico; così scriviamo: "Nettamente più ricomposta rispetto a ieri; ci racconta che
dopo le ultime dimissioni è stata bene fino allo scorso gennaio (ora siamo a ottobre): In
quel periodo è morta mia nonna e ho avuto una bella caduta dell'umore durata fino alla
fine di febbraio... poi mi sono ripresa... Sono stata bene poi: non ho mai perso un
giorno di scuola... È da 15, 20 giorni che ho incominciato ad essere un po' sopra le
righe; lo stato d'animo è salito, si è eccitato. Sabato ho fatto una prova di teatro e poi
sono andata a cena con il mio fidanzato.
Tornata a casa mi sono accorta di aver perso il portafoglio; abbiamo telefonato al
ristorante ed era la, ma già mi ero inquietata, ero andata in ansia...
Anche l'altra volta tutto era cominciato perché avevo perso le chiavi della macchina, si
ricorda? Domenica poi è stato un crescendo: quando il mio fidanzato è partito per
andare al lavoro, pensando alle prove di recitazione, ho cominciato ad aprire l'armadio
e a provare tutti i vestiti, a mettermi le cose più strane, a provare un po' di travestimenti
teatrali... e poi la musica: avevo la radio accesa e ho cominciato come a essere guidata
dalla radio.
Tutto ha incominciato a trasformarsi: la realtà era sempre la stessa ma, dagli impulsi
che sentivo dentro di me e dagli impulsi che mi venivano dalla radio, mi sembrava di
diventare diversa: erano i miei pensieri sulla realtà che cambiavano.
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Le cose si riempivano di significati: ogni cosa aveva un significato. Seguendo la radio
mi sono sentita come in un vortice, come Alice nel paese della meraviglie: seguivo le
indicazioni come se ci fosse una caccia al tesoro dettata dalla radio per me.
La realtà è diventata un grande gioco: poi sono arrivati i Vigili perché facevo delle
stranezze, del tipo suonare i campanelli delle abitazioni (erano le 3 di notte), parlavo a
voce alta ... Sono stati molto gentili i vigili... arrivata al Pronto Soccorso ho
riconosciuto il suo collega e sono arrivata qui...
Le chiediamo se si sia mai fatta seguire da qualcuno e risponde di aver iniziato una
psicoterapia di sostegno dalla quale però non si sente molto aiutata.
Trattandosi di una recidiva di episodio ipertimico, essendosi presentata anche una fase
depressiva non trattata, e ritrovandosi di nuovo ricoverata, sembra ora più disposta ad
affrontare seriamente il suo disturbo.
Ritentiamo di spiegarle e di convincerla che è possibile fare un trattamento anche
preventivo se accetta di essere curata con regolarità e attenzione.
La proposta della terapia con sali di Litio è certo impegnativa, sia per il tempo richiesto
di almeno due anni, sia perché una come Eleonora non offre molta affidabilità
nell'assunzione regolare dei farmaci e nella continuità dei controlli ma, visto
l'approfondimento del legame e della fiducia reciproca, la proposta ci pare fattibile.
Eleonora pare anche rassicurata da un trattamento preventivo e non solo sintomatico
come è quello con i sali di Litio ai quali spieghiamo che va aggiunto nelle fasi di
oscillazione timica a volte (in fase ipertimica) un sedativo o ansiolitico, a volte (in fase
depressiva), se necessario, un antidepressivo. Anche l'effettuazione di tutti gli esami
necessari per la terapia stabilizzatrice dell'umore può aiutarla nella crescita della
sensibilità alla cura di sé e del proprio corpo in maniera adeguata: potrebbe così
controllare e affrontare la causa della sua anemia, regolarizzare i suoi ritmi di vita e
cercare forse anche un ordine e un equilibrio che tanto le paiono impossibili.
Gil esami ematochimici, la funzionalità renale, tiroidea, cardiaca sono nella norma: non
ci sono controindicazioni alla terapia, che iniziamo con 600mg/die.
Dopo la prima litiemia (dopo 1 settimana), risultata (0,2) al di sotto del range
terapeutico (0,4-0,6mEq/l), aggiungiamo altri 300mg, ai quali associamo 3mg di
aloperidolo e 2,5mg di lorazepam la sera.
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Viene dimessa dopo 15 giorni in discrete condizioni.
Nei mesi successivi il quadro si stabilizza: Eleonora ora viene con regolarità ai controlli
e presenta una buona ripresa sia sul piano clinico che su quello sociale godendo della
stima sia dei colleghi di scuola che del suo contesto affettivo per il quale Eleonora si è
un po' bizzarra ma forse questa è la sua ricchezza e originalità.
Discussione
Eleonora si pone di fronte a chi desidera ascoltare la sua storia con una ricchezza di
sintomi e di sfaccettature che affascinano irrimediabilmente: non si può non cogliere la
leggerezza dei suoi passi, la gioia nelle parole che scorrono veloci dalle sue labbra,
l'eccitazione che ne pervade il corpo e i pensieri. Intorno a lei si crea una simpatia
immediata, come se il nucleo vitale acceso dalla malattia illuminasse tutto intorno di
una luce iridescente che può coinvolgere chiunque.
Questo aspetto della personalità di Eleonora non si perde del tutto fuori dal periodo di
scompenso maniacale, anzi ne residua una predisposizione ai rapporti umani, una
facilità estrema nel cogliere i pensieri di chi incontra, che ci permette di stabilire un
rapporto autentico e saldo, attraverso cui giungere alla gestione di una terapia in primo
luogo preventiva del disturbo maniacale.
In un caso come questo, infatti, a fronte di una diagnosi che balza agli occhi attraverso
la specificità e la ricchezza dei sintomi presentati, si configura la difficoltà di istituire
una terapia che possa evitare gli scompensi e la sofferenza, senza frantumare
l'originalità e la creatività dell'animo di Eleonora.
Ci siamo chiesti se sia necessario che il teatro nel quale la vita di Eleonora si trasforma
quando la coglie la malattia venga del tutto distrutto, spazzato via con la violenza del
farmaco: forse una parte dei paramenti colorati, dei suoni, degli odori che vengono
messi in scena nel teatro di Eleonora sono la sua ricchezza, il suo modo di creare una
esistenza.
D'altra parte trasformare la vita in un "grande gioco", dilatando lo spazio e il tempo fino
a cristallizzarsi, sorvolare l'esistenza senza compenetrarla in pieno, restare alla
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superficie, sono modalità che trascinano con sé il fantasma di una solitudine
agghiacciante e temibile, che una donna come Eleonora non può sopportare.
Se infatti l'essenza della Lebenswelt maniacale si esprime in questa gioia smisurata e
dionisiaca, si intravedono nondimeno in essa i segni di una esperienza antitetica a
questa: di una esperienza di dolore e di morte.
Dalla comune conoscenza delle cose quotidiane noi sappiamo come alla vertigine della
esistenza, alla frenesia del gioco, del canto e della danza, si accompagni un elemento
"demoniaco"; e questo significa che, quando la vita celebra i suoi trionfi, le sue feste
inebrianti ed effimere, la morte è vicina: "Nella misura in cui la vita ascendente si fa
selvaggia e febbricitante essa è lambita dalla morte e dal presagio della morte"
(Borgna).
La terapia che abbiamo attuato, frutto del legame intimo e autentico con la paziente,
sembra avere permesso allora di riprendere i legami con la propria esistenza che la
malattia aveva tanto indebolito, senza però dissolvere del tutto il palcoscenico infinito e
nascosto delle sue possibilità umane.
Bibliografia
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